Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
L’ALTRA GUERRA
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
Confini e Frontiere.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i serbi.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i croati.
Quei razzisti come i kosovari.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i portoghesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come i polacchi.
Quei razzisti come i slovacchi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i Sudafricani.
Quei razzisti come i nigerini.
Quei razzisti come i zambiani.
Quei razzisti come i zimbabwesi.
Quei razzisti come i ghanesi.
Quei razzisti come i sudanesi.
Quei razzisti come i gabonesi.
Quei razzisti come i ciadiani.
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i tunisini.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come i siriani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i giordani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli yemeniti.
Quei razzisti come i somali.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come i pakistani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i thailandesi.
Quei razzisti come gli indonesiani.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i bielorussi.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come gli azeri – azerbaigiani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI OCEAN-AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Quei razzisti come i salvadoregni.
Quei razzisti come gli ecuadoregni.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come i boliviani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come gli australiani.
Quei razzisti come i neozelandesi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Altra Guerra.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. UNDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DODICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TREDICESIMO MESE. UN ANNO DI AGGRESSIONE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUATTORDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SEDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIASSETTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIOTTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIANNOVESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTUNESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTIDUESIMO MESE
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Giorno del Ricordo.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Migranti.
I Rimpatri.
Gli affari dei Buonisti.
Quelli che…porti aperti.
Quelli che…porti chiusi.
Cosa succede in Libia.
Cosa succede in Africa.
Gli ostaggi liberati a spese nostre.
Il Caso dei Marò & C.
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
L’ALTRA GUERRA
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come gli israeliani.
La Nascita.
I Palestinesi.
La Ninna Nanna.
Le Guerre.
La Giustizia.
L’Islamofobia.
L’Antisemitismo.
Il Terrorismo.
Violenza sui palestinesi.
La Politica.
La questione nazionale ebraica. Cosa è il sionismo: dall’affaire Dreyfus alla terra promessa. Dietro il movimento per lo Stato israeliano c’è una storia lunga e variegata. Che parte alla fine dell’800 con Herzl e arriva fino a oggi. E oscilla tra opposti in conflitto ancora oggi: socialismo e fascismo. David Romoli su L'Unità il 15 Novembre 2023
“Io non sono antisemita. Sono antisionista”: alzi la mano chi in queste settimane non ha mai sentito dire più volte, o pronunciato in prima persona, questa affermazione.
Quanto però abbiamo le idee chiare sul sionismo quelli che ripetono l’assunto è molto incerto. Conviene perciò chiarire almeno per sommi capi di cosa si stia parlando. Ufficialmente il sionismo ha una data di nascita precisa, il 1896, quando il giornalista ungherese ebreo Theodor Herzl pubblicò un libro destinato a fare storia e che in effetti ebbe subito una vasta diffusione con traduzione in numerose lingue: Lo Stato ebraico.
Due anni prima a Herzl non sarebbe mai passato per la mente di proporre uno Stato degli ebrei e per gli ebrei. Era un giornalista austroungarico affermato, nato a Pest, e un ebreo completamente “assimilato”, come si definiscono quegli ebrei che hanno rotto tutti i ponti con le tradizioni e la cultura ebraiche. Nel 1894 fu inviato dal suo giornale a Parigi, per seguire un caso che stava già facendo molto rumore e che cambiò la vita del cronista, l’Affare Dreyfus.
Per la stragrande maggioranza delle persone, incluse quelle che hanno visto il recente film dedicato da Roman Polanski all’affaire, L’ufficiale e la spia, o letto il romanzo di Robert Harris da cui è tratto, le dimensioni della vicenda sono confuse. Il caso dell’ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio fu il principale scandalo nella Francia della Terza Repubblica e della Belle Epoque: spaccò il Paese in due fronti contrapposti per 10 anni, portò a processi, condanne, dimissioni di ministri.
La cosiddetta questione ebraica, almeno nell’Europa occidentale, sembrava ormai risolta con un’accelerata integrazione degli ebrei nelle società dei rispettivi Paesi. L’Affaire fece emergere invece correnti profonde di antisemitismo diffuso che sembravano morte ed erano solo assopite.
Herzl di fronte alla improvvisa ventata di odio per gli ebrei che travolse la Francia, concluse che gli ebrei non sarebbero mai stati davvero al sicuro finché non avessero avuto un loro Paese nel quale rappresentassero la maggioranza della popolazione. Nel 1897 si riunì a Basilea il primo congresso sionista, organizzato e presieduto dallo stesso Herzl e nacque l’Organizzazione sionista mondiale, con l’obiettivo conclamato di costituire uno Stato ebraico in Palestina, allora regione dell’Impero ottomano.
La scelta della Palestina non era scontata in partenza. Erano in campo, all’inizio, anche altre ipotesi: la costruzione dello Stato in un altro continente, l’Africa o l’America Latina, ma anche, all’interno dell’Impero russo, l’autonomia della Zona di Residenza, il vasto territorio nel quale gli ebrei erano confinati e nel quale viveva la maggior parte degli ebrei del mondo.
La scelta della Palestina dipese non da motivi religiosi o mistici ma dalla fondata convinzione sarebbe stato del tutto impossibile indirizzare gli ebrei verso un nuovo territorio senza il richiamo delle origini bibliche. A rigore, dunque, sionismo significa solo creazione di uno Stato a maggioranza ebraica anche se già nel Congresso di Basilea fu stabilito che quello Stato avrebbe dovuto trovarsi in Palestina.
Questa visione del sionismo, per quanto precisa, è tuttavia riduttiva. Il sionismo di Herzl era stato preceduto, nel XIX secolo da movimenti e suggestioni “protosioniste” che ebbero in realtà un grande influenza sul sionismo successivo. In particolare l’opera del filosofo ebreo Moses Hess e del suo libro del 1862 Roma e Gerusalemme.
Hess non contemplava altre collocazioni per lo Stato ebraico se non la Palestina, inseriva il suo protosionismo nella corrente dei nazionalismi e delle spinte risorgimentali dell’800 ma soprattutto immaginava un preciso tipo di Stato: socialista, collettivista e nel quale gli ebrei, condannati da secoli a lavori che li escludevano dalla produzione materiale e dall’agricoltura, avrebbero dovuto “redimersi” con il lavoro dei campi.
L’opera di Hess è all’origine del sionismo socialista, che sarebbe stato centrale nei primi decenni di vita di Israele ma fissò anche un modello valido invece per tutte le correnti sioniste: quella degli ebrei che, abbandonando le tradizionali attività legate alla finanza e alla mediazione commerciale che erano state imposte dalle restrizioni dei secoli precedenti, tornavano al lavoro dei campi.
Hess, per il suo progetto, aveva puntato soprattutto sugli ebrei occidentali. Le ondate di immigrazione in Palestina, invece arrivarono soprattutto dagli ebrei dell’Est, quelli che vivevano nella Zona di Residenza o in Polonia.
Nel 1881 i tremendi Pogrom seguiti all’attentato mortale contro lo Zar Alessandro II spinsero una prima ondata di ebrei dell’est a lasciare la Russia e la Polonia, dando vita alla prima Aliyah, in ebraico “Salita” a cui ne seguirono altre sulla spinta delle persecuzioni contro gli ebrei ispirate prima dalla pubblicazione del falso documento I Protocolli dei Savi di Sion, con la sua denuncia della cospirazione mondiale ebraica e in realtà scritto dalla polizia segreta dello Zar, poi dalla Rivoluzione russa.
Ma se milioni di ebrei lasciarono la Russia e la Polonia, pochi scelsero come approdo la Palestina: 45mila persone sui 2 milioni e 285mila ebrei che lasciarono la Russia, 40mila sui 952mila che partirono dalla Polonia. Alcune comunità ebraiche non avevano mai lasciato la Palestina e a Gerusalemme la maggioranza della popolazione era sempre stata ebrea.
Ma anche se la stragrande maggioranza degli emigrati ebrei aveva preferito tentare di rifarsi una vita in America, comunque le ondate di immigrazione fra il 1880 e il 1930 moltiplicarono le dimensioni dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina, e innescarono le prime tensioni e poi, dal 1920, i primi pogrom e i primi scontri armati tra arabi ed ebrei.
L’acquisto di terre in Palestina da parte degli ebrei era iniziato già prima del sionismo. Il filantropo ebreo di origini italiane ma naturalizzato inglese Moses Montefiore aveva finanziato la costruzione di un sobborgo di Gerusalemme, oggi uno dei quartieri più belli della città, già nel 1861. Alcuni grandi finanzieri ebrei, come il francese Edmond Rotschild risposero all’appello di Herzl, e a volte lo anticiparono, finanziando l’acquisto di terreni dagli arabi e la costruzione dei siti per gli insediamenti.
Israele ha sempre rivendicato l’acquisto dei territori degli insediamenti fino alla spartizione del 1948 ma è anche vero che a vendere erano i grandi latifondisti che in Palestina non mettevano praticamente mai piede, non i contadini che materialmente abitavano quelle terre.
A partire dal primo dopoguerra la vicenda del sionismo si intreccia con quello dello scontro ancora in atto tra ebrei prima e israeliani poi da un lato e arabi palestinesi dall’altro. Non bisogna però immaginare il sionismo come un movimento monolitico: sarebbe forse più preciso parlare di sionismi tra loro molto diversi.
Il “Sionismo generale”, il cui ispiratore principale Chaim Weizmann sarebbe diventato il primo presidente della Repubblica di Israele, era centrista, liberista in economia, liberale in politica, orientato più a destra che a sinistra, tanto che alla fine sarebbe entrato a far parte del Likud.
Il “Sionismo socialista”, il cui principale leader era il fondatore di Israele David Ben Gurion, partiva dalle posizioni di Hess e almeno in teoria intendeva coniugare il nazionalismo, cioè la battaglia per dare vita a uno Stato nazionale ebraico, con elementi collettivisti e socialisti.
La corrente socialista, oltre a essere egemone fino alla nascita dello Stato, avrebbe poi dominato la vita politica di Israele fino al 1976, ed esercitato un controllo quasi assoluto sulle Forze armate, create e guidate inizialmente dallo stesso Ben Gurion. Nonostante l’assunto iniziale, l’orizzonte nazionalista prevalse però sempre e in misura crescente col passare del tempo, su quello socialista.
Nonostante i conflitti tra una parte dell’ortodossia, contraria all’idea che la nuova Israele fosse creata da uomini, e il sionismo, è sempre esistita anche una corrente di “Sionismo religioso”, che mirava a uno Stato ebraico confessionale invece che laico.
La destra sionista era rappresentata dal “Sionismo revisionista” fondato da Vladimir Zabotinskij, in opposizione alla sinistra del Sionismo socialista ma anche ai “Sionisti generali” considerati troppo morbidi soprattutto nei confronti dell’Inghilterra, diventata dopo la guerra mondiale potenza mandataria in Palestina.
Zabotinskij, che nel 1935 sarebbe uscito dall’Organizzazione sionista mondiale per dar vita alla Nos, Nuova organizzazione sionista, fu anche il fondatore dell’Irgun, il gruppo terrorista che, tra le altre azioni, fece saltare in aria il Quartier generale inglese allocato al King David Hotel di Gerusalemme.
L’Irgun e il Sionismo revisionista non erano parti della stessa organizzazione, ma la presenza al vertice di entrambe di Zabotinskij garantiva un rapporto di fiancheggiamento. Zabotinskij, pur dichiaratamente di destra, non era fascista e lo sottolineò sempre ma sia nella Nos che nell’Irgun una componente simpatizzante per il fascismo senza dubbio c’era.
I partiti eredi del Revisionismo, prima l’Herut confluito poi nel Likud, ebbero scarsissimo peso nei primi decenni di vita dello Stato, fino alla vittoria elettorale del 1976, dovuta in buona parte alle tensioni create dalla guerriglia palestinese e dall’attacco egiziano del 1973 che colse Israele, governato dalla socialista Golda Meir del tutto di sorpresa.
Essere contro il sionismo, come se si trattasse di un’ideologia complessiva è dunque insensato, a meno che non si intenda l’unico elemento comune a tutte le diverse e confliggenti correnti sioniste: negare il diritto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ma qui i confini tra antisionismo e antisemitismo diventano davvero molto evanescenti. David Romoli 15 Novembre 2023
Figli di Abramo. L’indifferenza semantica di chi usa «ebreo» ed «ebraico» come sinonimi. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 30 Ottobre 2023
I due etnonimi vengono utilizzati in modo intercambiabile, spesso in modo improprio. Per non parlare della espressione «di origine ebraica» che viene usata in modo evasivo come se fosse una sorta di compromesso per evitare di affrontare pienamente l'identità ebraica
Ci risiamo. Non è una novità, ma qualcosa che periodicamente ritorna quando il soggetto è “un certo” soggetto. La lettera-appello di David Grossman e un folto drappello di «accademici, leader di pensiero e attivisti progressisti con sede in Israele e impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani» (come si sono qualificati), lanciata a metà ottobre e sottoscritta nei giorni successivi anche da intellettuali americani quali Michael Walzer e Cynthia Ozick per denunciare l’indifferenza della «sinistra globale» di fronte ai crimini di Hamas, è stata presentata da molti giornali come opera di personalità «di origine ebraica».
Origine ebraica? Abbiamo scorso l’elenco in calce: come è chiaro già dai nomi, e senza addentrarci nelle dispute interne all’ebraismo sulle condizioni necessarie a determinare l’ebraicità, si tratta di uomini e donne a tutti gli effetti ebrei – e più precisamente, prima che altre firme si aggiungessero dall’Europa e dall’America, di ebrei israeliani. Perché allora chiamare in causa la loro origine?
È vero che la formula «di origine ebraica» si usa principalmente a proposito degli ebrei che non vivono nella Terra promessa degli ebrei – dopo secoli di diaspore e nonostante un secolo e mezzo di sionismo, una presenza diffusa ai quattro angoli del mondo -, così come di un individuo nato negli Stati Uniti da una famiglia italiana, oppure nato in Italia ma poi trasferito negli Stati Uniti, si dice «americano di origine italiana». E tuttavia qui si innesta un altro dubbio: perché, anche nel caso di un ebreo non israeliano che abbia alle sue spalle incontaminate generazioni di ebrei, si parla di «origine ebraica» (o altre volte di «famiglia ebraica») e non «ebrea»?
A differenza degli altri etnonimi, che consistono di una parola unica utilizzabile tanto come sostantivo quanto come aggettivo, nel caso degli ebrei l’aggettivo si sdoppia: «ebreo», appunto, ed «ebraico». Due parole distinte tra le quali scegliere. Ma per scegliere occorre avere chiari i criteri di utilizzo.
L’etnonimo «ebreo», che la tradizione fa risalire al biblico capostipite Eber, pronipote di Noè, più verosimilmente deriva – attraverso il latino hebraeus e il greco ebraîos, adattamenti dell’aramaico ebhrai – dall’ebraico ibhri, ossia «colui che viene dall’altra parte (del fiume?)». Il primo uomo a essere chiamato ebreo, nel libro della Genesi (14,13), è Abramo, che dalla natia Ur, in Mesopotamia, obbedendo al comando divino attraversa l’Eufrate per partire alla volta di Canaan e diventare «padre di una moltitudine di popoli» (l’etimologia biblica del suo nome, secondo Genesi 17,5) che si chiameranno quindi ebrei.
Con la parola «ebreo», nome o aggettivo, ci si riferisce perciò soprattutto a esseri umani o a comunità di esseri umani che fanno parte di quei popoli e in particolare che ne professano il credo. L’aggettivo «ebraico» – che in un solo caso si converte in sostantivo: quando sta per la lingua parlata dagli ebrei – si riferisce invece a oggetti, istituzioni, costumi, caratteri psicologici, produzioni dell’intelletto «appartenenti agli» o «tipici degli» ebrei. Si parlerà quindi di «religione ebraica», «letteratura ebraica», «umorismo ebraico», «cucina ebraica», «festività ebraiche», ma per converso sarà più appropriato dire «popolo ebreo», «famiglia ebrea» e – in quanto risultanti da successioni di esseri umani – «stirpe ebrea» e «origine ebrea».
Non si tratta, tuttavia, soltanto di una questione di acribia lessicale. Dietro alla preferenza per l’aggettivo «ebraico», nei casi in cui sarebbe più pertinente usare «ebreo», sonnecchia più o meno avvertito un freno inibitore, residuo di pregiudizi e stereotipi che, anche laddove sono superati nei fatti, hanno lasciato una traccia nel linguaggio comune. Alla voce «ebreo», i dizionari della lingua italiani riportano come significato secondario, figurato, quello di (riportiamo dal Treccani) «epiteto ingiurioso, per indicare persona che all’abilità e mancanza di scrupoli negli affari unisce attaccamento al denaro, avidità di guadagno e propensione all’usura, con riferimento ad alcune qualità che la tradizione antisemita attribuisce agli Ebrei (e che la notorietà di personaggi letterarî, come l’usuraio ebreo Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare, ha contribuito a consolidare nell’opinione popolare)».
Che lo si voglia o no, nella parola «ebreo» risuona tuttora un certo sottofondo equivoco fatto di ostilità, sospetto, scherno magari commisto di sottaciuta invidia sociale, per sfuggire al quale si tende a rifugiarsi in un aggettivo più neutro. Non è necessariamente (e non è per lo più) antisemitismo, ma il vischioso sedimento che può persistere fin nelle menti più immuni dai preconcetti. Dire «ebraico» è meno impegnativo, è un modo per allontanare, attenuare, impacchettare (per dissimularla almeno un po’) la realtà di cui si parla. Qualunque cosa si pensi del sostantivo (e aggettivo) «ebreo», l’aggettivo «ebraico» è più innocuo: insomma, ebreo ma non troppo. E così avviene che lo scrittore – o regista, artista, concertista eccetera – ebreo diventa scrittore – o regista, artista, concertista – «ebraico», la famiglia ebrea «famiglia ebraica» e via di seguito.
Ma affinché la presa di distanza sia più efficace, per neutralizzare ogni possibile retropensiero, l’aggettivo«ebraico» da solo non basta. Ecco allora che si fa strada l’espediente estremo: la parola «stirpe», o meglio ancora «origine», od «origini», che sfuma ulteriormente il dato di fatto proiettandolo in un passato lontano, indefinito, eventualmente superato o comunque dimenticato o dimenticabile. Uno scrittore «di origine ebraica» magari non è più ebreo, non lo è più tanto, insomma – hai visto mai – è sempre meglio non sbilanciarsi, tenersi prudentemente a distanza. Un po’ come facevano gli italiani al tempo delle leggi razziali, che pure nella maggior parte dei casi in cuor loro non condividevano: con conseguenze, in quel caso, ben più tragiche.
Sionismo, storia di un’idea che ha dato vita a uno Stato: dal sogno di Herzl al voto dell’Onu. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera venerdì 3 novembre 2023
La risposta del sionismo a secoli di persecuzioni: gli ebrei dovevano difendersi da soli, avere un esercito, una nazione
«Non credo sia possibile uno Stato degli ebrei sino a quando il Messia non sarà arrivato, sono contrario alla sua conferenza nella nostra città», rispose il rabbino capo di Berlino a Theodor Herzl. Colui che è considerato il leader fondatore del sionismo moderno chinò il capo senza troppo discutere e traslocò a Basilea. La Svizzera era già terra d’esilio per socialisti e anarchici, non ci sarebbero stati problemi neppure per i sionisti.
Era il 1897: Herzl (1860-1904), un ebreo ungherese che faceva il giornalista a Vienna. Era il tipico assimilato con poca o nessuna conoscenza della sua tradizione religiosa, venne spinto a cercare una soluzione all’antisemitismo dopo l’Affare Dreyfus in Francia e in risposta ai continui sanguinosi pogrom contro le comunità nell’est europeo. L’anno prima aveva scritto un pamphlet, Lo Stato degli Ebrei, in cui sosteneva che loro non erano solo una religione, bensì un gruppo nazionale ben distinto in attesa di realizzare il proprio destino. Si differenziava dagli slanci di piccoli gruppi messianici del passato, che nei secoli avevano propagandato la necessità della ricostruzione del regno d’Israele. Le sue idee, piuttosto, erano figlie dei movimenti nazionali laici europei e dei problemi crescenti per gli ebrei, che dopo avere beneficiato della diminuzione del tradizionale antigiudaismo cristiano in un continente progressivamente più secolarizzato, subivano ormai l’antisemitismo razziale. Se prima ci si poteva convertire per essere accettati, adesso gli ebrei erano esclusi per sempre in nome della legge del sangue: una logica spietata che il nazismo avrebbe portato alle estreme conseguenze con la «soluzione finale» meno di mezzo secolo dopo.
Ecco allora la risposta del sionismo: gli ebrei dovevano difendersi da soli, avere un esercito, assurgere a nazione tra le nazioni. Ma i contrasti interni furono duri sin dall’inizio. Una costante: il tasso di litigiosità è rimasto lacerante sino ai nostri giorni. Era più importante redimere la terra degli antichi regni d’Israele, oppure salvare il popolo ebraico dalle persecuzioni nella diaspora creando al più presto un suo Stato ovunque fosse possibile? (In quelle prime fasi ci fu chi propose di creare un’enclave ebraica in Argentina o in Madagascar). Si potevano fondare gli insediamenti agricoli senza la benedizione dei rabbini? E che fare della popolazione araba: integrarla, pagarla e incentivarla affinché se ne andasse, oppure espellerla con la forza se necessario? Su questo punto il primo sionismo spesso glissava. Dopo il Congresso di Basilea il consiglio rabbinico di Vienna inviò una delegazione in Palestina per verificare che ne pensasse la popolazione locale. Risposero lapidari: «La sposa è magnifica, ma unita ad un altro uomo».
Sono stati scritti migliaia di testi sulla storia del sionismo. Un modo per riassumerli è ricordare le due maggiori scuole di pensiero. Per la sinistra laburista, ciò che contava era la qualità della popolazione: meglio avere una terra più piccola, però con una netta maggioranza ebraica. David Ben Gurion (1886-1973), il costruttore dello Stato nel 1948, fu pronto a molti compromessi, compresa l’accettazione del piano di partizione della Palestina proposto dall’Onu nel 1947, pur di ottenere la legittimità internazionale. La destra revisionista, più legata alla tradizione religiosa, considerava invece fosse fondamentale tornare ai confini di due millenni fa. Era la terra a determinare il tasso di ebraicità. Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), suo capo carismatico a periodi ispirato al Fascismo italiano, si opponeva in ogni modo alla partizione: a suo dire, solo la forza avrebbe imposto il fatto compiuto. In un celebre articolo del 1923 scriveva che gli arabi si sarebbero opposti «in ogni modo contro la presenza ebraica sino a che avranno la speranza di scacciarci» e dunque occorreva un «muro di ferro».
Intanto, era iniziato il fenomeno dell’Alyia, «la salita», l’immigrazione. La prima ondata fu tra il 1882 e il 1902, circa 30.000 ebrei quasi tutti dell’est europeo raggiunsero la Palestina ottomana. Ma fu la Seconda Alyia, circa 40.000 persone dal 1904 al 1914, a costituire la pietra miliare di quello che sarebbe stato l’Yshuv, la comunità ebraica prima della nascita dello Stato: coesa, determinata, fondatrice dei kibbutz, delle unità militari e delle istituzioni che poi dal 1947 al 1949 avrebbero permesso di vincere la Guerra d’Indipendenza. Furono loro a concepire l’idea dell’«ebreo nuovo». Si ispiravano al mito dei canaanei; tramite lavoro agricolo si sarebbero «sposati» alla terra, l’avrebbero ebraicizzata, rovesciavano la piramide sociale della diaspora. Negli shtetl europei erano cambiavalute, banchieri, negozianti, maestri, impiegati; qui diventavano contadini, operai, soldati. Il 2 novembre 1917, quando il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour consegna a Lord Rothschild la celebre Dichiarazione, in cui per la prima volta si parla di un «focolare ebraico» in Palestina, l’Yshuv conta circa 56.000 persone (oltre a poche migliaia di ortodossi tra Gerusalemme e Zfat che vedono i pionieri come il diavolo) contro oltre 600.000 arabi.
Le nuove colonie sono concentrate in Galilea, nella parte settentrionale della valle del Giordano, attorno ad Haifa e poi nella piana costiera di Jaffa, dove sta nascendo Tel Aviv. Ma adesso c’è il riconoscimento internazionale, i leader sionisti cercano il sostegno inglese, americano, visitano le capitali europee. L’immigrazione cresce dopo la Prima Guerra mondiale. Le prime rivolte arabe importanti sono del 1920 tra Gerusalemme e Jaffa. Gli inglesi impongono i primi «libri bianchi» per limitare l’immigrazione. Nel 1929 il grave pogrom di Hebron prelude alle grandi sommosse antiebraiche del 1936, quando il parlamento britannico invia la Commissione Peel che afferma: i due popoli non possono convivere, occorre creare due Stati. La Seconda Guerra mondiale congela il conflitto. Ma nel 1945 l’emergere dell’abisso dell’Olocausto ridà legittimità e riconoscimento alla necessità di uno Stato per gli ebrei. Scatta la guerriglia. Gli inglesi decidono di abbandonare la regione entro la primavera 1948. Gli eserciti di Egitto, Giordania, Iraq, Siria e Libano attaccano assieme alla guerriglia palestinese e vengono sconfitti. Prima della guerra, gli ebrei nella Palestina mandataria erano 630.000, gli arabi 1.350.000. Il 14 maggio nasce Israele, nel suo territorio gli ebrei adesso sono 720.000, gli arabi 156.000.
Israele, la storia: dalla cacciata degli arabi alla guerra dei Sei giorni. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera martedì 7 novembre 2023.
Il tabù (poi sfatato) dell’espulsione, la scelta occidentale, le guerre: i primi vent’anni. Il ricordo della Shoah e il dramma della Nakba, nel secondo dopoguerra tormentato dai «due miti»
«Che cosa dobbiamo fare della popolazione araba rimasta nelle sue case?», chiesero Yigal Allon, Ytzhak Rabin e altri tra i giovani comandanti del neonato esercito israeliano a David Ben Gurion. Si era nel pieno delle battaglie per Lidda e Ramleh nel luglio 1948. Le forze ebraiche stavano vincendo, eppure ancora attorno alle colline di Gerusalemme la Legione giordana resisteva sulle mura della Città Vecchia e dalle alture di Jenin le sue unità, rinforzate dal corpo di spedizione iracheno, minacciavano le comunicazioni per Haifa. Da sud gli egiziani restavano attestati nel Negev.
Gli arabi allontanati
La presenza di una sacca di popolazione araba ostile sulla strada strategicamente vitale che univa Tel Aviv a Gerusalemme poteva rappresentare un pericolo. «Ben Gurion fece un gesto deciso della sua mano che diceva: buttateli fuori…», notava Rabin nelle sue memorie. In poche ore oltre 50.000 persone, compresi vecchi e bambini, furono costretti «con la forza» a marciare nel caldo per una trentina di chilometri per raggiungere le colline della Cisgiordania. Sino a oltre tre decadi fa questo era uno dei testi più noti che parlava esplicitamente di un preciso piano di espulsione della popolazione araba durante la Guerra d’Indipendenza israeliana. Lo aveva scritto un soldato pluridecorato, che era stato ai vertici dell’esercito, destinato ad essere due volte premier e che sarebbe stato assassinato nel 1995 da un estremista ebreo contrario ai negoziati con Yasser Arafat in nome della divisione della terra in cambio della pace. Ma la prima pubblicazione nel 1979 era stata tenuta sottotono: per lungo tempo in Israele parlare dell’espulsione forzata degli arabi fu un tabù. La propaganda ufficiale narrava di fughe precipitose, di panico diffuso, di interi villaggi convinti a partire dai capi della resistenza palestinese locale e degli eserciti arabi con la promessa che «dopo la vittoria sarebbero tutti tornati».
In fuga
Ci sarebbe voluto il fenomeno dei cosiddetti «nuovi storici» dall’inizio degli anni Ottanta — intellettuali come Benny Morris, Tom Segev, Avi Shlaim, Meron Benvenisti e tanti altri — che in alcuni libri fondamentali hanno progressivamente smontato uno dei dogmi originari di Israele. Lavorando soprattutto negli archivi locali (in genere le fonti arabe sono chiuse), dimostrarono che sin dalla fine del 1947 crebbe il progetto di limitare al massimo il numero di arabi nei territori del nascente Stato ebraico. Oggi è ormai generalmente accettato che oltre 700.000 arabi furono scacciati dai territori di Israele. A facilitare l’operazione fu tra l’altro l’emigrazione volontaria nei mesi precedenti delle classi medio-alte verso Beirut, Damasco, Amman o Il Cairo. Medici, ingegneri, avvocati, maestri di scuola, proprietari terrieri e gran parte del corpo dirigente del popolo palestinese, così come era venuto sviluppandosi dal collasso dell’Impero Ottomano e sotto il Mandato Britannico, rafforzato nella sua identità nazionale dalla lotta contro il sionismo, di fatto scapparono, preferirono trovare rifugio all’estero. I fellahim abbandonati a loro stessi ebbero ben poca speranza di resistere. Ma c’è di più: gli eserciti arabi accorsi con lo slogan ipocrita di sostenere i palestinesi non ebbero alcun coordinamento tra loro. Anzi, fecero a gara per occupare intere regioni a scapito degli «alleati». Re Abdallah di Giordania aveva stretto accordi segreti con Golda Meir, che travestita da beduino era andata a trovarlo nel suo quartier generale. Tanto che nel 1950 lui si sarebbe annesso Cisgiordania e Gerusalemme est. Una mossa contestata dai palestinesi e pagata con la vita: venne assassinato l’anno dopo da un jihadista dei Fratelli Musulmani legato al Mufti di Gerusalemme — Amin Al-Husseini, che dagli anni Venti guidava la resistenza palestinese — mentre pregava nella moschea Al Aqsa della città santa.
Alleati storici
Furono gli Stati Uniti a riconoscere per primi de facto Israele all’Onu il 14 maggio 1948. Ma l’Unione Sovietica lo riconobbe de jure già tre giorni dopo. Il nuovo Paese era soprattutto concentrato ad accogliere gli scampati alla furia nazista, qualsiasi tipo di aiuto da ovunque arrivasse era benvenuto. Dal 1945 alla nascita dello Stato erano arrivati in 100.000, almeno 70.000 sopravvissuti ai campi di sterminio che dovettero sfidare i divieti del mandato inglese. Emerse però una realtà terribile: la quasi totalità dei cittadini potenziali in Europa era morta nell’Olocausto. Fu allora che si decise di favorire l’immigrazione degli ebrei dai Paesi arabi. Nei primi 4 anni di esistenza dello Stato la dirigenza askenazita lavorò per accogliere le masse sefardite, che rappresentarono oltre la metà dei migranti. Nacquero forti tensioni sociali destinate a incancrenirsi.
Inizialmente non fu neppure chiaro che scelta avrebbe fatto Israele nel contesto della Guerra Fredda. Per qualche tempo la dirigenza sovietica lo guardò come un alleato. Le armi russe giunte tramite il ponte aereo dalla Cecoslovacchia avevano aiutato a vincere. Molti dirigenti sionisti venivano dalle province dell’Urss, il kibbutz (che non raggiunse mai il 6 per cento della popolazione, ma per un paio di decenni incarnò i valori collettivi) s’ispirava ai modelli economici socialisti. Per contro, gli americani erano legati alle monarchie arabe conservatrici e a lungo Washington non dimostrò troppo entusiasmo. Fu soltanto durante la Guerra di Corea che Ben Gurion scelse senza ambiguità di stare nel campo Occidentale.
Incubi e conflitti
Nacquero allora i due miti fondativi rispettivamente dello Stato ebraico e della resistenza palestinese: la Shoah, lo sterminio; e la Nakba, la catastrofe dell’espulsione dalla propria terra. Israele era lo Stato nato per difendere tutti gli ebrei. L’incubo della Shoah divenne un’ottima motivazione per legittimare la propria difesa muscolare. Un concetto ribadito con forza ai tempi del processo contro Adolf Eichmann nel 1961. Allora la filosofa Hannah Arendt denunciò il pericolo di una strumentalizzazione della tragedia ebraica per motivi politici. «Non c’è stato leader arabo nemico che non sia stato paragonato a Hitler», sostiene spesso Tom Segev. Da qui il concetto israeliano della guerra di «ein breirà», senza alternativa, da combattere e vincere a tutti i costi, ad ogni prezzo, per evitare il ripetersi dell’Olocausto.
Il Canale della discordia
Da allora è stata per esempio di «breirà», di scelta, la guerra del 1956. Allora Israele optò di allearsi a Francia e Inghilterra contro il regime egiziano di Gamal Abdel Nasser. Un conflitto di stampo coloniale per il controllo del Canale di Suez, che si risolse in un flop totale e vide Washington intervenire per costringere Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza appena conquistati. Gli storici locali dibattono invece ancora adesso se la Guerra dei Sei Giorni sia stata inevitabile, cioè esistenziale come quella del 1948, oppure una «breirà» che poteva essere evitata. Nasser, a questo punto leader carismatico della decolonizzazione e del pan-socialismo arabo, aveva fatto dell’Egitto le testa di ponte dell’influenza sovietica in Medio Oriente e della lotta contro Israele. Prigioniero della sua retorica, chiuse Suez agli israeliani e bloccò l’accesso a Eilat dal Mar Rosso. Fu il casus belli: all’alba del 5 giugno 1967 gli israeliani attaccavano di sorpresa l’aviazione egiziana annientandola, poi passarono a colpire la Siria. Chiesero a re Hussein di Giordania di non intervenire. Lui rispose bombardando Gerusalemme ovest. Sei giorni dopo la vittoria israeliana aveva totalmente rivoluzionato il Medio Oriente.
La Storia studiata con il paraocchi dell’ideologia e dei pregiudizi.
Facebook: Jacopo Cren Alessandro Barbero e lo spazio dello storico
ISRAELE, le origini.
1) Prima del moderno Stato di Israele c'era il mandato britannico, NON uno stato palestinese.
2) Prima del mandato britannico esisteva l' impero ottomano, NON uno stato palestinese.
3) Prima dell' impero ottomano esisteva il sultanato islamico mamelucco d'Egitto, NON uno stato palestinese.
4) Prima del sultanato islamico mamelucco d'Egitto esisteva la dinastia ayyubide, NON uno stato palestinese. Goffredo di Buglione lo conquistò nel 1099.
5) Prima della dinastia ayyubide esisteva il regno cristiano di Gerusalemme, NON uno stato palestinese.
6) Prima del regno cristiano di Gerusalemme esisteva il califfato fatimide, NON uno stato palestinese.
7) Prima del califfato fatimide esisteva l' impero bizantino, NON uno stato palestinese.
Prima dell' impero bizantino esisteva l' impero romano, NON uno stato palestinese.
9) Prima dell' impero romano esisteva la dinastia asmonea, NON uno stato palestinese.
10) Prima della dinastia asmonea esisteva l' impero seleucide, NON uno stato palestinese.
11) Prima dell' impero seleucide esisteva l' impero di Alessandro III di Macedonia, NON uno stato palestinese.
12) Prima dell' impero di Alessandro III di Macedonia esisteva l' impero persiano, NON uno stato palestinese.
13) Prima dell' impero persiano esisteva l' impero babilonese, NON uno stato palestinese.
14) Prima dell' impero babilonese esistevano i regni di ISRAELE e GIUDEA, NON uno stato palestinese.
15) Prima dei regni di ISRAELE e GIUDEA esisteva il regno di ISRAELE, NON uno stato palestinese.
16) Prima del regno di ISRAELE esisteva la teocrazia delle 12 TRIBÙ DI ISRAELE, NON uno stato palestinese.
17) Prima della teocrazia delle 12 TRIBÙ DI ISRAELE esisteva lo stato individuale di Canaan, NON uno stato palestinese.
In effetti, in questo angolo della Terra c'era tutto fuorché uno stato palestinese.
Ho voluto mettere un punto "fermo" in merito ad una questione che si trascina fin dalla fondazione stessa del moderno Stato di Israele.
Spero che questo mio lavoro abbia fugato ogni dubbio, se ancora ce ne fossero, dalla mente di Coloro i Quali leggono o leggeranno questo mio "post", che al contempo rappresenta anche una "veritiera ricerca STORICA"!!! SHALOM
Di Giuseppe Bifano
Il Regno di Israele è esistito: una risposta a Alessandro Barbero. Opinioni di Elena Lea Bartolini De Angeli, Marco Cassuto Morselli, Sara Ferrari, Gabriella Maestri su mosaico-cem.it il 3 Giugno 2021
Sta circolando sul web un video dello storico Alessandro Barbero nel quale si afferma che «Il Regno di Israele non è mai esistito», affermazione supportata dall’idea che non ci siano fonti storiche e archeologiche sufficienti per poter affermare il contrario. A tale proposito ci sembra importante precisare alcuni elementi utili a fare chiarezza nella prospettiva di un corretto approccio alla storia antica e alla sua documentabilità, in quanto è oramai assodata fra la maggior parte degli studiosi l’idea che sia sempre più necessario un approccio interdisciplinare per studiare e comprendere il passato, evitando derive che possono essere causate da rigidità e fondamentalismi nell’analisi dei dati.
La documentazione relativa all’esistenza del Regno di Israele esiste: sicuramente c’è ancora molto da poter cercare e studiare, ma ciò che già è in nostro possesso ha un valore documentario importante che va compreso tenendo conto di una serie di fattori validi per lo studio di tutte le civiltà antiche:
1. Gli antichi non avevano la nostra coscienza storiografica sorta solo in epoca moderna, pertanto ci hanno lasciato testi e documenti nei quali la storia raccontata non è la registrazione precisa e cronologica degli avvenimenti ma la modalità con la quale gli stessi sono stati vissuti e interpretati. Per questo molte testimonianze antiche, che potrebbero apparire solo come miti o leggende, possono contenere una importante dimensione storica che va decifrata e analizzata con gli strumenti adatti, fra i quali quelli paleografici e filologici. Riguardo la storia del popolo di Israele è interessante la nuova edizione del saggio di Yosef Hayim Yerushalmi: Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, edito dalla Giuntina di Firenze nel 2011.
2. Per quanto riguarda la ricerca archeologica in Medio Oriente – e in particolare a Gerusalemme – è importante tener conto del fatto che le costruzioni posteriori hanno quasi sempre distrutto molti dei resti degli strati precedenti: tutti gli archeologi sanno che l’ideale è scavare una città distrutta da un cataclisma e mai più ricostruita, ma nel nostro caso non è così. Per questo la ricostruzione di una storia come quella del Regno di Israele deve necessariamente integrare i reperti archeologici con una critica storica dei documenti antichi che tenga conto della loro età, della lingua nella quale sono stati scritti, del genere letterario utilizzato e delle intenzioni dell’autore. Una ricerca di questo tipo richiede un confronto interdisciplinare e la consapevolezza del fatto che il singolo reperto non può essere mai assolutizzato.
3. Esistono inoltre fra gli studiosi in generale, e fra gli archeologi in particolare, scuole di pensiero molto diverse: da quelle minimaliste a quelle più possibiliste. Non è corretto assolutizzarne solo una, ma è invece opportuno ascoltare e confrontare tutti i punti di vista, lasciando in ogni caso aperte le questioni che richiedono ulteriori accertamenti, evitando conclusioni troppo azzardate, e formulando ipotesi nella prospettiva di una possibile verifica o rettifica che porti eventualmente a formulare la domanda sulla questione o sul reperto in maniera diversa.
In tale orizzonte, e tornando alla questione di partenza, va inoltre sottolineato che quando si parla di «Regno di Israele» è opportuno precisare a quale periodo ci si riferisce: quello dell’unico Regno che va da Davide a Salomone o quello dei due Regni – di Israele (a nord) e di Giuda (a sud) – che va dalla morte di Salomone fino alla guerra siro-eframitica (per il nord) e all’esilio babilonese (per il sud). La discussione infatti verte soprattutto sul periodo da Davide a Salomone: riguardo quest’epoca le testimonianze sono prevalentemente bibliche; tuttavia si stanno trovando importanti riscontri archeologici grazie agli scavi e agli studi di molti ricercatori e ricercatrici che non hanno mai smesso di verificare le loro ipotesi e intuizioni; fra i molti menzionabili non si può non ricordare Eilat Mazar, a cui si devono importanti ritrovamenti presso la Città di David e il monte del Tempio, così come stanno fornendo interessanti reperti anche gli scavi in corso nella zona di Beth Shemesh e Sha‘arajim.
Per quanto riguarda invece il periodo dei due Regni dopo la morte di Salomone le attestazioni sono note e ampiamente condivise: ci sono riscontri nei documenti assiri e nell’iscrizione di Meshah scoperta centocinquant’anni fa. Ciò su cui semmai si discute riguarda la datazione del periodo iniziale che potrebbe variare dal X al IX secolo prima dell’era cristiana.
Elena Lea Bartolini De Angeli, Docente di Giudaismo ed Ermeneutica Ebraica, ISSR Milano
Marco Cassuto Morselli, Vicepresidente dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma
Sara Ferrari, Docente di Lingua e Cultura ebraica, Università degli Studi di Milano
Gabriella Maestri, Dottore in Archeologia Cristiana – Roma
Ulteriori approfondimenti (dai quali si evince che la volontà di negare l’esistenza storica del Regno di Israele sia dovuta a condizionamenti ideologici antigiudaici, piuttosto che a rigore storiografico, ndr)
Oltre la Bibbia – di Marco Cassuto Morselli
In Oltre la Bibbia (Laterza 2012) Mario Liverani intende riportare le vicende della nascita d’Israele alla sua realtà storica, secondo i criteri della moderna metodologia storiografica. Egli distingue la storia d’Israele in due fasi distinte: «La prima fase è la “storia normale” e piuttosto banale di un paio di regni dell’area palestinese, non dissimili da tanti altri regni che seguirono analogo sviluppo e finirono poi tutti annientati dalla conquista imperiale prima assira e poi babilonese con le sue devastazioni, deportazioni, e processi di deculturazione. Questa prima fase non è gravida né di particolare interesse né di conseguenze future – e infatti le parallele storie degli altri regni analoghi (da Karkemish a Damasco, da Tiro a Gaza) non hanno nulla da dire se non allo specialista» (pp. VIII-IX).
La seconda fase ebbe inizio con il ritorno di esuli giudei dall’esilio babilonese, i quali misero in opera «un’enorme e variegata riscrittura della storia precedente»: «Quanto la storia vera ma normale era stata priva di un interesse che non fosse prettamente locale, tanto la storia inventata ed eccezionale divenne la base per la fondazione di una nazione (Israele) e di una religione (il giudaismo) che avrebbero influenzato l’intero corso della storia successiva su scala mondiale» (p. IX).
La storia vera è banale e priva di interesse, ciò cui si fondano Israele e l’ebraismo è invece inventato! Questo il risultato scientifico dell’autorevole studioso.
Le conseguenze di tale impostazione si vedono lungo le 500 pagine del suo libro. Ad esempio di Abramo viene detto: «Anche il viaggio archetipico di Abramo da Ur dei Caldei a Harran e alla Palestina riflette la vicenda del ritorno e il punto di vista dei reduci (o almeno dei loro mandanti): Abramo rappresentava una sorta di messaggio promozionale per coloro che volessero tornare dalla Caldea alla Palestina, per affrontarvi con successo tutti i problemi di convivenza con altre genti, di creazione di un spazio economico e politico proprio» (p. 287).
A p. 360 il titolo del paragrafo è : Il mito del «primo tempio». Un lettore frettoloso ne ricava l’impressione che anche il Primo Tempio sia un mito, e solo all’interno del paragrafo successivo, intitolato La costruzione del «secondo tempio» e l’affermazione della guida sacerdotale si viene informati che «Non c’è ragione di dubitare che Salomone avesse costruito a Gerusalemme un tempio di [viene riportato il Tetragramma vocalizzato]» (p. 364).
Che cosa Liverani pensi della Torah viene rivelato a p. 380: «Si tratta di un complesso vario e disorganico, ricco di contraddizioni, all’interno del quale si individuano raccolte legislative più ridotte (e queste sì organiche), collegate ad episodi diversi nella lunga vicenda dell’Esodo, e certamente da attribuirsi ad epoche di formulazione e di redazione diverse». Anche il fatto, riconosciuto da molti, che vi sia stato uno sviluppo della legislazione d’Israele viene presentato dall’Autore in modo del tutto negativo e banalizzante, utilizzando anche in questo caso la categoria dell’«invenzione», termine che compare nel titolo del cap. 18 L’invenzione della Legge e che viene smentito poche pagine dopo con l’affermazione: «L’introduzione di una Legge non può configurarsi come pura e semplice invenzione».
Cosa poi Liverani pensi del Dio d’Israele lo apprendiamo a p. 395: «Non a caso le norme sulla contaminazione e la sacralità aumentano per mole, per dettaglio, per severità in epoca post-esilica, quando la comunità priva di leadership civile, si regge per la sua compattezza attorno al tempio e al Dio vendicativo e inaccessibile che vi abita».
C’è da chiedersi se anche questi giudizi appartengano al rigoroso metodo storiografico o non siano invece personali valutazioni dipendenti dalla cultura dell’Autore.
Ma, al di là di questo, ciò che rimane inspiegato è proprio perché il regno di Giuda non sia scomparso come gli altri piccoli regni mediorientali e perché la sua storia abbia influenzato «l’intero corso della storia successiva su scala mondiale».
Giudea e Palestina – di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri
Giudea
Dopo l’epoca patriarcale (che può essere datata tra il XVIII e il XVII secolo a.e.c) e il periodo egiziano (con l’esodo databile al XIII secolo a.e.c), abbiamo i racconti di Yehoshua e dei Giudici che descrivono l’insediamento delle tribù nella Terra di Kenaan. Le modalità di tale insediamento, descritte in modo cruento nei racconti biblici, sono oggetto di discussione tra gli studiosi. Alcuni ipotizzano che esso sia avvenuto in maniera progressiva e graduale, e che la narrazione successiva abbia voluto creare un’epopea di conquista enfatizzando gli aspetti militari. Per fare un esempio, in Gs 24,1-18 si narra la presa pacifica di Shekhem: si ha l’impressione che i nuovi arrivati si fossero imparentati con le popolazioni preesistenti e avessero lentamente consolidato i rapporti con loro, accogliendo gruppi di Cananei all’interno delle tribù e in molti casi facendo sì che questi assimilassero le loro tradizioni religiose.
Le tribù, pur nella loro indipendenza, erano tuttavia legate da un qualche tipo di federazione, unite dal comune ricordo dell’esperienza del Sinay e dalla memoria di una ancor più lontana discendenza dai patriarchi, di cui si conservavano oralmente svariate tradizioni. Inoltre a scadenze periodiche le shevatim/tribù si incontravano in svariate località intorno al Santuario mobile, contenente l’Arca dell’alleanza. In questo contesto i vari gruppi riunitisi cominciano ad essere chiamati tutti – e non solo i gruppi provenienti dal Nord – con il nome di Israele, in memoria dell’antenato comune Yaaqov-Yisrael.
Nel periodo dei Giudici le tribù, a volte in conflitto anche tra loro, erano esposte ad attacchi provenienti da ogni parte, soprattutto dai Filistei, e questo portò al desiderio di istituir una monarchia, che desse al popolo una maggior protezione e senso di sicurezza. Su tale istituzione troviamo espresse nei testi biblici posizioni diverse: c’erano i favorevoli (cfr. 1Sam 9,1-10,16) ma anche i contrari (cfr. 1Sam 8 e 10,17-27).
Il primo ad essere consacrato re dal profeta e giudice Shemuel è Shaul (intorno al 1020), il quale per tutta la vita lottò soprattutto contro i Filistei, cercando di consolidare il suo regno. Il consolidamento fu attuato da David (1000-962) e da Shelomoh (961-922). Quest’ultimo organizzò il regno in dodici distretti, uno per ogni tribù d’Israele.
L’unità così faticosamente raggiunta si perse alla morte di Shelomoh con la ribellione delle tribù del Nord e ne seguì la divisione del territorio sotto Yarovam e Reḥovam. A partire quindi dal 931 si ebbero due Regni, quello del Nord, con capitale Shomron, chiamato Regno d’Israele, e quello del Sud, con capitale Yerushalayim, chiamato Regno di Giuda, dalla tribù più importante e numerosa.
Il Regno d’Israele cade tra il 722-721 sotto i colpi degli Assiri (con conseguente deportazione), mentre il regno di Giuda, benché costantemente minacciato dalle potenze dell’Egitto e dell’Assiria, sopravvive fino al 586, anno della conquista e della deportazione babilonese. L’esilio in Babilonia per un verso fu un’esperienza traumatica e amarissima, per l’altro segnò uno straordinario salto qualitativo nella riflessione teologica e nella spiritualità d’Israele.
Con il ritorno in patria, permesso da Ciro, tra il 538 e il 444, tra mille difficoltà la vita ebraica riprende il suo corso. Il Tempio viene ricostruito e si attua la riforma di Ezra e Neḥemyah.
In età ellenistica l’influenza della cultura greca si fa sentire anche in Giudea. Nel 167 il tempio viene profanato dai greci e dopo le lotte maccabaiche nel 167 viene purificato e ridedicato (il che viene ricordato ogni anno durante la festa di Ḥanukkah).
Nei difficili anni successivi si assiste ad un prevalere del potere sacerdotale, che assume anche il potere regale. Dopo circa un secolo di tensioni politico-religiose i discendenti dei Maccabei, Aristobulo II e Ircano, in lotta per la successione, si rivolsero a Roma per ottenere un sostegno: fu così che Pompeo entrò a Yerushalayim nel 63 a.e.c. ed ebbe inizio la dominazione romana.
Nei Vangeli quel territorio occupato dai Romani viene chiamato Giudea, Samaria e Galilea, e non compare mai il nome Palestina. Anche sulle monete romane che ricordano la vittoria è scritto “Iudaea capta” e solo dopo la Seconda guerra giudaica l’imperatore Adriano volle cancellare il nome di Yerushalayim e della Giudea con i nomi di Aelia Capitolina e Palestina. Mentre il nome di Aelia Capitolina è caduto, quello di Palestina si è imposto fino al XX secolo.
Anche i cristiani per indicare quei territori hanno preferito usare la denominazione romana di Palestina. In questo modo Palestina, nome che indicava le terre occupate dai Filistei, ha sostituito il regno di Giuda e Ereṣ Israel. Tale tendenza in molti ambienti perdura fino ad oggi, e si preferisce parlare di Terra Santa piuttosto che indicare le denominazioni ebraiche.
Palestina
Alcuni testi egiziani del XII sec. a.e.c. contengono la prima esplicita menzione dei Peleset, ossia i Filistei, un popolo che ha un forte legame con l’Anatolia e utilizza armi di ferro, che assicurano la superiorità nelle battaglie. Essi fanno parte di quei “popoli del mare” contro i quali ha lottato l’Egitto e che hanno creato sovvertimenti in alcuni casi anche notevoli nell’assetto politico-sociale del Medio oriente antico.
I rinvenimenti archeologici fanno ritenere che lo stanziamento dei Filistei nella terra di Canaan sia avvenuto in due o tre fasi successive. Il nome “Filistei” deriva dal verbo ebraico palash, che significa “penetrare”, “invadere”, in quanto erano considerati invasori. Da loro prese il nome la Filistea, ossia in un primo momento la striscia costiera di Gaza e poi i territori più interni da loro conquistati entrando in conflitto con gli Israeliti, stanziati in quei luoghi già dalla fine del XIII sec. a.e.c.
I Filistei quindi si insediarono nel corso del XII secolo a.e.c. nella regione costiera sud-occidentale, dove venne stabilita la loro pentapoli formata dalle città di Gaza, Ashqelon, Ashdod, Gat e Ekron (cfr. 1Sam 6,17). La loro penetrazione nei territori sempre più interni li portò a scontrarsi con gruppi di Israeliti. Tali scontri vengono narrati, talvolta anche con aggiunte romanzesche, nei libri dei Giudici (nei capp. 13-16 sono raccontate le vicende di Sansone) e di 1 e 2Samuele. In 1Sam 31 viene narrata la loro vittoria su Shaul, mentre in 2Sam 5 si ricorda la vittoria definitiva di David.
Con l’occupazione assira (VIII-VII sec. a.e.c.) e babilonese (VI sec. a.e.c.) della regione, i Filistei spariscono dalla storia come entità etnico-politica. Il nome Palestina però rimane e viene utilizzato nel mondo greco-romano – da Erodoto, Tolomeo e Plinio il vecchio, ma anche da Flavio Giuseppe e Filone – e finisce con l’indicare non più solo l’antica Filistea, ma anche tutta la Giudea.
Nella Torah il nome Pelashet compare una sola volta, in Es 15,14; altre occorrenze bibliche sono soltanto nei Salmi (60,10; 83,8; 87,4; 108,10), in Isaia (14,29.31) e nel deuterocanonico Siracide (50,26). Nel Nuovo Testamento, come abbiamo già visto, il nome non compare mai, e quelle terre vengono chiamate Giudea, Samaria e Galilea.
Al termine della Seconda guerra giudaica (132-135) l’imperatore Adriano dopo aver distrutto Gerusalemme decide di cambiare il nome alla città, nella quale era proibito sotto pena di morte l’ingresso ai Giudei. Vi era la volontà di cancellare anche il ricordo di quella che era stata Ereṣ Israel e annientare ogni traccia della presenza ebraica con la sua storia, la sua cultura e la sua religione.
Per diciannove secoli si è dunque sempre impiegato il nome di Palestina, ma solo a partire dalla metà del XX secolo quella che era una designazione puramente geografica ha assunto un significato etnico. Proiettando all’indietro questo nuovo significato su tutta la storia precedente si ha come risultato che le vicende del regno di Giuda e del regno d’Israele, tutta la storia biblica, tutta la storia ebraica, viene cancellata e sostituita da un’altra narrazione, secondo la quale quelle terre sono da sempre Palestina, e da sempre abitate da Arabi Palestinesi. In tale visione anche Gesù era Palestinese, e gli così pure gli Apostoli, e la prima Chiesa.
Coerente con tale visione è l’opinione, diffusa ormai a livello planetario, che lo Stato d’Israele – «l’entità sionista» – non sia il risultato dell’autodeterminazione del popolo ebraico, ma rientri nella storia del colonialismo e del razzismo, dimenticando che la sua nascita nel 1948 è stata frutto di una decisione dell’ONU.
L’antica Israele e il passo falso dello storico Barbero. Pubblicato in Opinioni a confronto il 16/06/2021 su moked.it
Nelle ultime settimane, alla luce della situazione, gira e rigira sui media un’intervista data dall’insigne storico Alessandro Barbero a Camogli nel 2018. Nell’intervista, Barbero spiega perché il passato può ancora sorprenderci e quindi come nuove scoperte ci costringono a scoprire che la nostra visione del passato “in realtà era tutta sbagliata”.
Il primo esempio che Barbero ci presenta, considerando la macro storia del popolo ebraico, gli “ebrei” per l’autore, è quello dell’antico regno di Israele, che non sarebbe mai esistito. Narra Barbero che fino a pochi anni fa, secondo vari storici che si basavano sui “racconti” dell’Antico Testamento, esisteva in “Palestina”, ben 1000 anni prima di Cristo, il grande regno di Israele. Questo raggiunse l’apice durante il regno di gloriosi re, Davide e Salomone. Inoltre, la capitale del regno, Gerusalemme, possedeva grandiosi edifici tra cui il Tempio di Salomone.
Poi, continua Barbero, gli archeologi israeliani (chi e quando?) hanno iniziato a scavare alla ricerca “di questo grande regno e di questa grande capitale”. Tuttavia, fa notare Barbero divertito, gli archeologi israeliani, una volta raggiunto lo strato pertinente al periodo di storia considerato, non hanno trovato niente, tranne qualche focolare di nomadi.
Naturalmente, a detta di Barbero, i politici israeliani (quali?) non erano contenti, né lo era l’opinione pubblica. In breve gli archeologi israeliani (ma quali?) avevano dimostrato al di là di ogni dubbio che il “grande regno di Israele” non era mai esistito né che esisteva Gerusalemme o il Tempio di Salomone, ma vi erano solamente nomadi che vagavano nella steppa. Innanzitutto, il paesaggio dell’area geografica descritta da Barbero è molto diversificato, poiché (era) ed è contraddistinto dalla presenza di fertili pianure, in cui cresce grano ed orzo, colline adibite alla coltivazione di vite ed olivo, montagne, altipiani, deserti in cui cresce la palma, il Lago di Tiberiade, il Giordano, ed il Mar Morto. Ma non vi è traccia alcuna di “steppe”.
Ma forse Barbero si è confuso con il deserto dei Tartari. Inoltre, la terminologia utilizzata è problematica. L’uso del termine “Antico Testamento” è offensivo, e per questo all’interno del mondo accademico si preferisce utilizzare il termine Bibbia Ebraica.
Un Antico Testamento implica l’esistenza di un Nuovo Testamento, che come tale squalifica e nullifica il precedente. Anche l’uso del termine Palestina è improprio. Un purista utilizzerebbe alternativamente il termine Terra di Cana’an o Terra di Israele per definire l’area geografica nel periodo considerato. Chi invece vuole riferirsi alla situazione politica attuale, dovrebbe tenere presente che convivono lo Stato di Israele e l’autonomia nazionale palestinese. Il termine Palestina per indicare la totalità dell’area è scorretto. Nel periodo considerato esisteva la Pentapoli dei Filistei, un patto di cinque città (Gaza, Ascalona, Ashdod, Gath, ed Ekron), le quali però occupavano la superficie dell’attuale Striscia di Gaza e di parte della striscia costiera meridionale dello Stato di Israele. E poi chi sono questi archeologi israeliani? O chi sono questi fantomatici politici? Uno storico per onestà ha il dovere di non lasciare nel vago le proprie fonti d’informazione, ma citarle correttamente. Vedremo di farlo per Barbero.
Innanzitutto, vediamo di far luce su cosa è l’antico regno di Israele, e cosa ne dicono gli studiosi, archeologi e storici, israeliani e non. L’anno 1000 a.C. È un periodo a cavallo tra la prima età del ferro, che va dal 1200 al 1000 a.C., il periodo dei giudici tanto per intendersi, e la seconda età del ferro, che va dal 1000 fino al 587-587 a.C., e cioè il periodo della monarchia, prima il “regno unito di Saul, Davide e Salomone”, e dopo la morte di quest’ultimo, la divisione del territorio tra il regno di Israele, a nord, ed il regno di Giuda, a sud. Secondo gli archeologi, tra cui Israel Finkelstein, intorno all’anno 1000 a.C. si può parlare dell’esistenza di una confederazione, o forse più confederazioni di tribù nomadi, che conosciamo sotto un’identità collettiva con il nome di Israeliti. Queste popolazioni non sono nomadi ma vivono in insediamenti fissi, la cui forma vagamente ricorda l’origine nomade della popolazione. Da notare che anche le abitazioni, la cosiddetta “casa a quattro vani”, assomiglia alle tende che i beduini utilizzano oggi nel Sinai. Ma la popolazione è per lo più oramai dedita all’agricoltura (ed alla pastorizia), e utilizza un nuovo metodo di comunicazione, l’alfabeto, come del resto le popolazioni limitrofe e consanguinee: i Fenici, i Moabiti, gli Ammoniti, e gli Edomiti. Lo studioso Solomon Birnbaum aveva già coniato nel 1954 il termine paleo-ebraico per definire l’alfabeto e la lingua in uso tra queste popolazioni, l’ebraico, cognato al Fenicio. Questo alfabeto, che appare intorno al decimo secolo, venne utilizzato nelle iscrizioni nei regni di Israele e di Giuda fino a tutto il settimo secolo a.C. Quindi niente nomadi.
Ma veniamo alla storia politica, e alla spinosa questione se Davide e Salomone sono veramente esistiti e hanno dominato su un vasto regno. La maggior parte degli studiosi ritiene che Davide e Salomone sono figure storiche, anche se le descrizioni della vastità del suo regno e dell’opulenza della sua corte sono quasi sicuramente un’esagerazione anacronistica. Uso il termine anacronistico poiché, secondo vari studiosi tra cui l’israeliano Israel Finkelstein e l’americano Neil Silberman, le descrizioni bibliche del regno di Davide e del successore Salomone rispecchiano l’estensione e l’opulenza del regno di Israele all’epoca degli Omridi nell’ottavo secolo a.C. (Vedi I. Finkelstein e N. Silberman, The Bible Unearthed: Archaeology’s New Vision of Ancient Israel and the Origin of Its Sacred Texts).
Di fatto, all’interno del mondo accademico, vi sono tre correnti, una minimalista, una massimalista, e una che cerca di barcamenarsi tra le due. Evidentemente Barbero ha citato solamente la scuola minimalista, e nemmeno con tanta esattezza. Per quanto riguarda la corrente minimalista, i suoi principali esponenti, Finkelstein e Silberman ritengono che sia Davide che Salomone siano indubbiamente figure storiche, ma che, tuttavia, regnarono su un’area modesta che includeva Gerusalemme e le sue vicinanze, insomma una città stato. Il primo riferimento al Regno di Israele risale all’890 a.C. circa, e per quanto riguarda il regno di Giuda, al 750 a.C. Detto questo, in questo periodo il regno di Israele era divenuto una potenza regionale, mentre il regno di Giuda raggiunse l’apice solamente molto più tardi all’epoca del re Giosia. Gli storici biblici, quindi, preferirono ignorare la potente dinastia degli Omridi, da loro definita come politeista: basti pensare alla lotta tra il profeta Elia ed i profeti di Ba’al, supportati dal Jezabel, la moglie del re Achab. Quindi la descrizione dell’estensione del regno di Davide e di Salomone cosi come appare nella Bibbia, se da un lato riflette un’immaginaria età dell’oro, in cui i sovrani osservavano uno stretto monoteismo, dall’altro rispecchia la situazione del Regno di Israele all’epoca degli Omridi. Ma questo Barbero preferisce ignorarlo. In poche parole, l’immenso regno di Israele è sì esistito, ma due generazioni dopo Davide e Salomone, figure storiche che dominavano un’area ben più ristretta. I suoi sovrani, i potenti Omridi, erano monolatri, non monoteisti (nessuno è perfetto), ma etnicamente si possono senza dubbio ricondurre agli israeliti.
Ma vi sono anche i massimalisti, completamente ignorati da Barbero, tra cui l’americano William G. Dever e l’inglese Kenneth Kitchen. Dever (W. G. Dever, What Did the Biblical Writers Know and When Did They Know It?: What Archaeology Can Tell Us about the Reality of Ancient Israel, 2001 e Who Were the Early Israelites and Where Did They Come From?, 2003) non dubita della descrizione biblica del Tempio di Salomone, ed a riprova lo studioso americano fa presente che vi sono vari edifici simili, per esempio il Tempio cananeo di Hazor, risalente alla tarda età del bronzo, o il tempio di Tel Tainat, contemporaneo a quello di Salomone. Secondo Kitchen (K. A. Kitchen, On the reliability of the Old Testament, 2003), Salomone regnava su un impero di dimensioni ridotte, ma molto opulento. Kitchen calcola che in 30 anni un tale regno avrebbe potuto raccogliere per tributi ben 500 tonnellate d’oro. Inoltre Kitchen, come Devers, ritiene che la descrizione biblica del Tempio di Salome rispecchi quella di una struttura veramente esistita. Ma vi è anche una terza corrente, che trova appoggio tra vari studiosi, tra cui l’archeologo israeliano Avraham Faust e l’americano Lester L. Grabbe. Secondo Faust (A. Faust, “The Sharon and the Yarkon Basin in the Tenth Century BCE: Ecology, Settlement Patterns and Political Involvement”, Israel Exploration Journal 2007, pp. 65– 82; The Archaeology of Israelite Society in Iron Age II, 2012; “Jebus, the City of David, and Jerusalem: Jerusalem from the Iron I to the Neo-Babylonian Period (in ebraico)”, in Jerusalem: From its Beginning to the Ottoman Conquest, 2017), la descrizione biblica del regno di Salomone, molto più tarda, esagera l’estensione del territorio e la ricchezza del sovrano.
Tuttavia il regno di questi, a cui faceva capo Gerusalemme, era una piccola città-stato, dotata di un’acropoli (il Monte del Tempio) che si estendeva su un vasto territorio e che includeva la pianura dello Sharon. Inoltre dal punto di vista economico, i dati archeologici indicano un commercio su vasta scala, tale che solamente un’entità politica mediamente estesa poteva sostenere. Grabbe (1 & 2 Kings: An Introduction and Study Guide: History and Story in Ancient Israel, 2016), invece, ritiene che Gerusalemme nel decimo secolo era governata da un sovrano, che costruì un tempio, anche se la città ed il suo territorio erano di dimensioni ridotte. Vorrei aggiungere due punti, innanzitutto sull’archeologia di Gerusalemme e sull’importanza dell’epigrafia, quest’ultima completamente ignorata da Barbero. Inoltre, per quanto riguarda Gerusalemme, gli scavi condotti da Eilat Mazar, hanno rivelato nel 2005 un largo ed ampio edificio amministrativo che data al decimo secolo, e che l’archeologa mette in relazione con re Davide (E. Mazar, “Did I Find King David’s Palace?”, Biblical Archaeology Review 32 (1), 2006, pp. 16–27, 70). La maggior parte degli studiosi accetta la datazione proposta da Mazar. Quindi Gerusalemme era un importante centro amministrativo.
Per quanto riguarda il periodo successivo al regno di Davide e Salomone, la documentazione epigrafica proveniente dalla Terra di Israele è abbondante ed include varie iscrizioni monumentali, come l’iscrizione del re moabita Mesha, o l’iscrizione dallo Shiloach, che data al regno di Ezechia, che osò sfidare il sovrano assiro Sennacherib. Tra di esse va annoverata la famosa iscrizione in cui viene menzionata la Beth David, o famiglia di Davide proveniente da Tel Dan, scoperta nel 1993 dall’archeologo israeliano Avram Biran.
L’iscrizione chiaramente dimostra non solo l’esistenza di una dinastia davidica che regnava sul regno di Giuda, ma anche che il capostipite di tale dinastia, Davide, sia esistito veramente. Certamente se l’iscrizione fa lume sull’esistenza di un tale che si chiamava David, non ne narra la sua gesta e l’esatta posizione di Davide rimane ignota allo storico. Inoltre, oramai da più di cento anni siamo a conoscenza di una vasta gamma di iscrizioni in cuneiforme assire, babilonesi, o persiane tra cui il cilindro di Ciro, che illuminano la narrazione biblica. Certo, la narrativa biblica non viene confermata nei minimi dettagli e certamente vi sono numerose aporie tra la narrazione biblica ed i ritrovamenti archeologici. Ma tutto questo non contraddice che vi era in epoca biblica un popolo, gli israeliti, che vivevano nella loro terra, la Terra di Israele, non come nomadi, ma come parte integrante, e che avessero stabilito potenti entità politiche.
Ed infine veniamo agli archeologi israeliani ed ai politici anonimi menzionati da Barbero. Mi pare di capire che Barbero si riferisca alla polemica tra i due archeologi israeliani Yigal Yadin e Yohanan Aharoni, che tuttavia data ai primi anni sessanta. Naturalmente l’anonimo politico israeliano era l’allora primo ministro David Ben Gurion. Nel 1958, Yadin condusse un importante scavo nella biblica cittadella di Hazor in Galilea. Menzionata sia nel libro di Giosuè che bel Libro dei Giudici, il tel, che avrebbe rivelato un imponente città cananea ed un importante fortezza israelita, aveva suscitato l’interesse del giovane archeologo.
Agli occhi di Yadin, il fatto che la città cananea fosse stata distrutta per ben due volte, riflettendo gli avvenimenti descritti nel Libro di Giosuè e dei Giudici, confermava la teoria che la conquista di Cana’an e da parte delle tribù israelite fosse stato un processo violento. A questa teoria si opponeva Aharoni, un importante archeologo israeliano, che invece riteneva che la conquista di Cana’an fosse stato un processo pacifico in cui le tribù di Israele si erano assimilate alla popolazione locale. Ben Gurion, suscitando le ire di parte del mondo religioso, non esitò ad affermare che gli israeliti, e quindi gli attuali discendenti, gli ebrei, erano discendenti delle tribù di Israele e della popolazione locale cananea con cui si erano pacificamente congiunti.
Fatte queste elucidazioni, mi rattrista vedere che una intervista, forse poco curata, sono sicuro involontariamente, data da un insigne accademico, sia divenuta fonte di propaganda anti israeliana, in cui si nega agli ebrei il diritto alla loro terra, riconosciuto dall’Onu, ed antisemita, in cui il passato collettivo del popolo ebraico viene semplificato e gli ebrei vengono trasformati in nomadi che vagano per le steppe di una Terra non loro, e di cui in quanto nomadi non potranno mai esserne possessori.
Samuele Rocca, storico dell’arte, Pagine Ebraiche Giugno 2021
Nascita dello Stato di Israele: storia, cronologia e protagonisti. Storia della nascita dello Stato di Israele. Cronologia e protagonisti dell’evento che ha segnato la spartizione della Palestina in due Stati, arabo ed ebraico. Francesco Gallo su studenti.it
INDICE
Prima di Israele: Il fronte Orientale della Prima guerra mondiale
Medio Oriente tra prima e seconda guerra mondiale: l’epoca dei Mandati
Gli Anni Trenta: un difficile equilibrio tra arabi ed ebrei
L’arrivo degli USA in Medio Oriente e la Risoluzione 181
Nascita dello Stato d’Israele
Frase celebre
Israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi: hanno bisogno di abbattere il muro che li divide - David Grossman
Prima di Israele: Il fronte Orientale della Prima guerra mondiale
Il fronte orientale. Mentre accadeva Niente di nuovo sul fronte Occidentale, con la guerra combattuta dalle trincee che stava provocando una situazione di stallo, il fronte Orientale restava in movimento.
L'esercito turco blocca le forze anglo-francesi. All’inizio del 1915, il governo inglese, soprattutto su pressione di Winston Churchill, decise di organizzare un corpo di spedizione anglo-francese, con la partecipazione di truppe australiane e neozelandesi, per occupare lo stretto dei Dardanelli mirando alla conquista di Costantinopoli. Il corpo di spedizione sbarcò il 25 aprile sulla penisola di Gallipoli, ma l’esercito turco, coadiuvato da esperti militari tedeschi, e trincerato sulle colline sovrastanti la spiaggia, riuscì a bloccare gli anglo-francesi per molti mesi, infliggendo forti perdite, fino a costringere gli alleati ad abbandonare l’impresa e ritirarsi dalla penisola all’inizio del 1916.
Per conoscere e ricordare i concetti, gli eventi e i principali avvenimenti della storia dalle origini a oggi.
Atatürk e Lawrence d'Arabia. Al comando dei turchi si distinse per capacità un giovane generale, Mustafa Kemal Atatürk. La guerra contro i turchi in Medio Oriente fu poi ripresa nel giugno del 1916 con la rivolta araba iniziata dallo Sharif della Mecca Hussein ibn Ali contro l’impero ottomano, dopo accordi segreti con gli inglesi, che gli fecero credere di assecondare la nascita di un grande Stato arabo indipendente. I figli di Hussein, Abdullah e Faysal, furono coadiuvati da alcuni consiglieri britannici, fra i quali il capitano Thomas E. Lawrence, che divenne poi famoso con l’appellativo di “Lawrence d’Arabia”.
La conquista di Gerusalemme del 1917Quest’ultimo aiutò la formazione di una armata araba di circa 50.000 uomini appartenenti a varie tribù, che combatterono contro i turchi in Arabia e in Palestina con tattiche di guerriglia, affiancando efficacemente le operazioni dell’armata britannica al comando del generale Allenby. Fu un successo. Nel luglio 1917, gli arabi occuparono il porto di Aqaba sul Mar Rosso, mentre l’offensiva di Allenby portò alla conquista di Gerusalemme il 9 dicembre 1917.
La dichiarazione Balfour e il movimento sionista. Anche per questo motivo, in quei giorni il Regno Unito si impegnò, con una lettera del Segretario per gli Affari Esteri Arthur James Balfour (la cosiddetta Dichiarazione Balfour) a Lord Lionel Walter Rothschild (banchiere svizzero ed attivista sionista), membro del movimento sionista inglese, a mettere a disposizione del movimento sionista, in caso di vittoria, dei territori in Palestina per costituire un focolare nazionale.
Chaim Weizmann. Parte del merito di questa concessione fu del futuro primo presidente d’Israele Chaim Weizmann. Balfour e Weizmann si erano già incontrati nel 1906, e alla domanda di Balfour sul perché i sionisti desiderassero costruire un focolare nazionale in Palestina Weizmann rispose con una domanda: «Signor Balfour, se io le proponessi di lasciare Londra per Parigi, cosa mi risponderebbe?» e Balfour rispose: «Ma noi abbiamo Londra!» e Weizmann concluse: «Vero, ma noi avevamo Gerusalemme quando Londra era una palude».
Curiosità
A differenza di altre zone del mondo, in Israele il deserto non è in crescita ma in regressione.
Arabi, ebrei, sionisti. Durante i secoli precedenti, infatti, si erano già verificati numerosi casi di ebrei europei che emigravano verso la città santa dell’ebraismo in cerca di una patria nei territori della Palestina dove poter professare il proprio credo. Ma nella regione era quasi sempre esistita una minoranza ebraica, anche se i sionisti non vedevano un problema in questo fatto, sostenendo che l’arretrata popolazione araba, senza una propria identità nazionale, avrebbe tratto solo giovamento dall’immigrazione di europei di religione ebraica.
Medio Oriente tra prima e seconda guerra mondiale: l’epoca dei Mandati
Un territorio ebraico in Palestina. Dopo la fine del conflitto, gli inglesi sostennero la nascita di un territorio ebraico in Palestina, terra di dissidi e divisioni, per continuare la sua antica politica estera di controllo basata sul concetto di divide et impera. Avevano già avuto ampio modo di perpetrarla in India dove alimentavano le diatribe tra le tribù che combattendosi l’una contro l’altra semplificavano il governo e il dominio dei britannici.
Il trattato di Sèvres e il controllo britannico del Medio Oriente. Un maggiore controllo del Medio Oriente, di matrice britannica, fu possibile a cominciare dal 1920 quando si stipulò un trattato di pace con l’Impero ottomano il 10 agosto 1920 presso la città francese di Sèvres. Con il Trattato di Sèvres il Regno Unito acquisì l’Iraq, la Transgiordania e la Palestina. Tutti questi Paesi, da quel momento, furono soggetti al controllo tramite dei Mandati trasmessi dalla Società delle Nazioni.
I Mandati. Nonostante il pensiero democratico di fondo, basato anche sul principio di autodeterminazione tanto voluto da Woodrow Wilson, i Mandati erano per lo più visti come delle colonie de facto. Vennero poi divisi in tre diversi gruppi a seconda del livello di sviluppo conseguito da ciascuna popolazione locale.
Il primo gruppo, o anche mandati di classe A, era costituito dalle aree prima controllate dall'Impero ottomano che si riteneva avessero «raggiunto uno stadio di sviluppo in cui la loro esistenza come Nazioni indipendenti poteva essere riconosciuta» (Iraq, Palestina e Siria);
Il secondo gruppo, detti anche mandati di classe B, era formato da tutti i precedenti Schutzgebiete (territori tedeschi) nelle regioni sub-sahariane dell’Africa centro-occidentale, che si riteneva richiedessero un maggiore livello di controllo da parte della potenza mandataria (Ruanda, Tanzania);
Un ultimo gruppo, i mandati di classe C, che includeva l’Africa sud-occidentale e alcune isole del Pacifico meridionale, furono considerati da amministrare «secondo le leggi della Potenza mandataria come parte integrante del suo territorio».
Il primo mandato e i primi scontri. Il primo mandato fu consegnato all’Impero Britannico il 24 luglio 1922 per il controllo sulla Palestina. Nel periodo in cui questo mandato divenne efficace l’immigrazione ebraica nella zona subì una netta accelerazione. Questa forte immigrazione, in una terra dalle risorse limitate, portò a numerosi scontri tra la maggioranza araba e i coloni, scontri che colpirono anche insediamenti ebraici. Questi episodi aprirono un’altra crisi all’interno della comunità ebraica emigrante che portò alla nascita del movimento noto con il nome di territorialismo, ovverosia il movimento politico ebraico che reclamava la creazione di un territorio (o di territori) sufficientemente grande per accoglierli, non necessariamente in Palestina.
Sciiti e sunniti e il dissenso degli arabi. La storia della Palestina fu da quel momento in poi caratterizzata da divisioni, discordie, da episodi di violenza e di reciproca intolleranza. Queste drammatiche tensioni sfociarono in diverse rivolte. Nel biennio 1920-21 gli arabi cominciarono a manifestare il proprio dissenso, non solo per il problema dell’occupazione territoriale, ma soprattutto per la presenza religiosa sciita. La maggior parte del mondo islamico, infatti, era ed è di fede sunnita, e si differenzia dalla comunità sciita per la questione della successione alla guida della comunità islamica: i sunniti erano convinti che alla propria guida potesse accedere un qualunque musulmano, purché dotato di buona moralità, di sufficiente dottrina e sano di corpo e di mente; gli sciiti, invece, pretendevano che la guida della comunità islamica dovesse essere riservata alla discendenza del profeta.
Gli Anni Trenta: un difficile equilibrio tra arabi ed ebrei
La tensione degli anni '30. Gli anni Trenta continuarono dunque in una condizione di elevata tensione dovuta agli strascichi dei moti dell’aprile 1920 e maggio 1921 e soprattutto dei moti dell'agosto 1929, durante i quali era stata massacrata ed espulsa la secolare comunità ebraica di Hebron. Inoltre, gli arabi soffrivano l'incremento della disoccupazione tra la loro popolazione, dovuto principalmente alle politiche di assegnazione di numerose terre fertili ai coloni ebrei e ai regolamenti voluti dai movimenti sionisti che vietavano ai non-ebrei di lavorare su queste terre.
La grande rivolta araba del 1936 e la Commissione Peel del 1937Il 19 aprile 1936 scoppiò la Grande rivolta araba, una ribellione che si allargò all’intero Paese. Solo dopo sei mesi, nell’ottobre del 1936, la violenza diminuì per circa un anno, finché nel 1937 la Commissione Peel deliberò di raccomandare la spartizione della Palestina fra ebrei e arabi, con un cambiamento rispetto alla linea politica fino ad allora seguita dai governi britannici.
Il rifiuto degli arabi. Gli arabi, che erano la maggioranza nella regione, rifiutarono, anche con azioni violente, mentre tra gli ebrei le reazioni furono diversificate, dal rifiuto da parte dei sionisti più integralisti all’accettazione come primo passo verso uno stato ebraico da parte dei più moderati. Uno dei motivi principali del rifiuto era che questa operazione calata dall’alto avrebbe comportato il trasferimento dei circa 225.000 arabi presenti nel territorio assegnato agli ebrei e dei 1.250 ebrei al tempo residenti nell’area assegnata agli arabi.
Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La commissione prese allora atto che questo trasferimento avrebbe creato molti problemi, soprattutto nella parte araba a causa della scarsità di territorio coltivabile disponibile che si sarebbe rivelato poi insufficiente a ricevere un così gran numero di nuovi residenti. Ma la questione sarebbe stata presto rimandata perché nel 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale.
L’arrivo degli USA in Medio Oriente e la Risoluzione 181
L'ingresso degli Stati Uniti nella storia del Medio Oriente. Alla fine del secondo conflitto mondiale un nuovo attore occidentale entrò a far parte della storia del medio oriente: gli Stati Uniti. I motivi erano sostanzialmente tre:
La politica del contenimento sovietico all’interno della Guerra fredda
La questione della nascita dello Stato di Israele
I giacimenti di petrolio presenti nell’area geografica
Gli Stati Uniti si ritrovarono dunque all’interno della commissione per la risoluzione del problema della ripartizione della Palestina.
La commissione King-Crane. In realtà, un primo tentativo statunitense di normalizzare la situazione geopolitica mediorientale c’era già stato alla fine del primo conflitto, nel 1919, quando una commissione d’inchiesta del governo statunitense stabilì che il Medio Oriente non era pronto per l’indipendenza e raccomandò che venissero stabiliti su quei territori dei mandati il cui scopo era accompagnare un processo di transizione verso per l’autodeterminazione, così come voleva Woodrow Wilson nei suoi 14 punti. Il nome di questa commissione era King-Crane dai nomi dei due politici e teologi statunitensi che ne fecero parte.
1947: il mandato britannico passa all'ONU. Nel febbraio 1947, il governo di Sua Maestà, guidato da Clement Attlee, non essendo più in grado di mantenere l’ordine in Palestina, decise di rimettere il mandato britannico alle Nazioni Unite.
Le due strade dell'ONU per la risoluzione della questione. L’ONU considerò due opzioni. La prima era la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo indipendenti, con la città di Gerusalemme posta sotto controllo internazionale (sulla falsariga del piano di spartizione proposto nel 1937 dalla Commissione Peel). La seconda consisteva nella creazione di un unico Stato, di tipo federale, che avrebbe compreso sia uno Stato ebraico, sia uno Stato arabo. Era la Risoluzione 181.
Le reazioni: impossibile giungere ad un accordo. La gran maggioranza degli arabi che vivevano in Palestina e la totalità degli Stati arabi già indipendenti respinsero il Piano. Da principio essi rifiutarono qualsiasi divisione della Palestina mandataria, e reclamarono il paese intero. La maggioranza degli ebrei di Palestina accettò la partizione poiché si rallegrò tuttavia del fatto che si sarebbe ottenuta la nascita di un loro Stato indipendente. Si giunse, però, alla conclusione che era «manifestamente impossibile» giungere ad un accordo, in quanto le posizioni di entrambi i gruppi erano incompatibili, ma che era anche «indifendibile» accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Dopodiché fu la guerra.
Nascita dello Stato d’Israele
14 maggio 1948: la Risoluzione entra in vigore. È guerra. Il 14 maggio 1948 entrò in vigore la Risoluzione e fu proclamato lo Stato indipendente di Israele, guidato dall'ex capo della Jewish Agency David Ben-Gurion. Contestualmente, quel giorno iniziò il ritiro delle truppe britanniche dal territorio del nuovo Stato, immediatamente riconosciuto da USA e URSS. All'annuncio della risoluzione, accanto alla gioia della popolazione ebraica, scoppiarono gravi tumulti per la reazione degli Arabi di Palestina. Gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano, riuniti nella Lega Araba, invasero il territorio del nuovo Stato dando vita alla prima delle guerre arabo-israeliane.
L'esercito israeliano respinge il nemico e invade il Sinai. Malgrado le ancora deboli strutture del proprio esercito, le forze del neonato IDF (Israeli Defense Forces) supportate dalla capacità produttiva di armi e munizioni (oltre all'apporto di mezzi ed aerei importati clandestinamente da Usa e altre nazioni tra il 1946 e il 1947) respinsero quelle nemiche e invasero la penisola del Sinai.
Il cessate il fuoco e la Guerra dei sei giorni. Dopo alcune tregue, Israele si trovò con delle fette di territori in più originariamente spettanti ai Palestinesi (compreso il settore occidentale di Gerusalemme). Nel 1949 arrivò il cessate il fuoco sotto l’egida delle Nazioni Unite, le quali, attraverso la Risoluzione 194, riconosceranno definitivamente i limiti territoriali di Israele e dichiarando fra l'altro che nel contesto di un accordo generale di pace «ai rifugiati che avessero voluto tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini, sarebbe stato permesso di farlo». Questa situazione di stallo rimase tale fino alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.
Io sono convinto che Israele va difeso, credo nella dolorosa necessità di un esercito efficiente. Ma sono convinto che anche al governo israeliano faccia bene confrontarsi con un nostro appoggio sempre condizionato. Primo Levi
Concetti chiave
Il fronte Orientale della Prima guerra mondiale
Nel 1915 la Gran Bretagna avvia un’offensiva contro i turchi aprendo il conflitto sul fronte orientale
La guerra contro i turchi in Medio Oriente è guidata da Lawrence d’Arabia che conduce gli arabi alla vittoria in cambio della promessa di assecondare la nascita di un grande Stato arabo indipendente
La promessa viene poi messa su carta attraverso la Dichiarazione Balfour, che prende il nome dal Segretario per gli Affari esteri inglesi
Medio Oriente tra prima e seconda guerra mondiale: l’epoca dei Mandati
Con il crollo dell’Impero Ottomano, gli inglesi acquisiscono diversi territori in Medio Oriente
Il controllo di questi Paesi avviene per Mandati
Uno di questi Mandati riguarda la Palestina che da quel momento accoglie una forte immigrazione che porterà, poi, a duri scontri con la popolazione araba
Gli Anni Trenta: un difficile equilibrio tra arabi ed ebrei
Gli strascichi degli scontri negli anni Venti si fanno risentire anche nel decennio successivo
Nel 1936 scoppia la Grande rivolta araba la cui violenza si riduce solo dopo la riunione della Commissione Peel
La Commissione Peel propone la spartizione della Palestina fra ebrei e arabi, ma la scarsità del territorio coltivabile rilancia i dissidi interni
L’arrivo degli USA in Medio Oriente e la Risoluzione 181, il piano di partizione della Palestina
Nel 1947 gli Usa entrano a far parte della risoluzione della controversia arabo-israeliana
Gli inglesi affidano il mandato all’ONU che vara la Risoluzione 181
La Risoluzione viene respinta da arabi e accettata dagli ebrei. Non si giunge all’accordo e scoppia la guerra
Nascita dello Stato d’Israele
Nel 1948 viene proclamata la nascita dello Stato d’Israele. Subito riconosciuto da USA e URSS
Gli arabi non ci stanno, si riuniscono nella Lega Araba, e invadono Israele. È l’inizio della prima Guerra Arabo-Israeliana
A seguito del conflitto il territorio di Israele si allarga. Per vent’anni si assiste a una situazione di stallo, poi interrotta dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967
Domande & Risposte
Dove si trova Israele?
E’ uno Stato del Vicino Oriente che si affaccia sul Mar Mediterraneo.
Quando è nato lo Stato di Israele?
Il 14 maggio 1948.
Chi ha creato lo Stato di Israele?
David Ben-Gurion.
Curiosità
A differenza di altre zone del mondo, in Israele il deserto non è in crescita ma in regressione.
Sulle banconote israeliane è possibile trovare caratteri Braille per ipo- e non vedenti
In Israele la leva militare è obbligatoria per uomini e donne. Per queste ultime dura 24 mesi, a fronte dei 36 degli uomini.
Israele. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Israele, ufficialmente Stato d'Israele (in ebraico: מדינת ישראלⓘ, Medinat Yisra'el; in arabo دولة اسرائيل?, Dawlat Isrā'īl), è uno Stato del Medio Oriente affacciato sul mar Mediterraneo e che confina a nord con il Libano, con la Siria a nord-est, la Giordania a est, l'Egitto a sud-ovest, con i territori palestinesi, ossia la Cisgiordania a est e la striscia di Gaza a sud-ovest, e il Mar Rosso a sud.
La regione nella quale è situato Israele è stata soggetta nel tempo al dominio di numerose civiltà, tra cui cananei, egizi, israeliti, filistei, assiri, babilonesi, romani, bizantini, arabi, crociati e ottomani. In età contemporanea la regione divenne parte del mandato britannico della Palestina, periodo durante il quale fu soggetta a flussi immigratori di comunità ebraiche incoraggiate dal movimento sionista, che mirava alla costituzione di un moderno Stato ebraico. Dopo la seconda guerra mondiale, per porre rimedio agli scontri locali tra ebrei e arabi palestinesi, nel 1947 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò un piano di partizione della Palestina che prevedeva la costituzione di uno Stato ebraico e di uno arabo. Lo Stato d'Israele fu proclamato il 14 maggio 1948. Tale partizione fu però osteggiata dagli arabi palestinesi e dai vicini paesi arabi, che intervennero militarmente contro il neonato Stato israeliano; nell'ambito dello scontro si verificò l'esodo palestinese del 1948. Israele e i paesi arabi si scontrarono nei decenni seguenti in una serie di conflitti arabo-israeliani. In seguito alla guerra dei sei giorni del 1967 Israele occupò la Cisgiordania, la striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai,] stabilendo nei territori occupati numerosi insediamenti israeliani. Lo Stato di Palestina rivendica la sovranità sulla Cisgiordania e sulla striscia di Gaza.
Il territorio è estremamente eterogeneo dal punto di vista morfologico: a ovest, lungo la fascia costiera si estende la pianura di Sharon, i monti della Giudea attraversano il centro del paese, a sud si estende il deserto del Negev, mentre la valle del Giordano, il principale fiume del paese, è parte della Great Rift Valley. Israele rappresenta l'unico paese a maggioranza ebraica al mondo; gli ebrei rappresentano poco meno dei tre quarti della popolazione, mentre gli arabi israeliani costituiscono poco più di un quinto. La maggior parte della popolazione è concentrata nei centri urbani della pianura costiera. La cultura di Israele si è costituita attraverso l'influsso di vari elementi portati dagli immigrati ebrei da tutto il mondo. Israele rappresenta uno dei paesi più all'avanguardia in Medio Oriente dal punto di vista sociale, politico, scientifico ed economico. Un ruolo importante è rivestito dall'alta tecnologia. Lo Stato d'Israele è una democrazia parlamentare e una serie di leggi fondamentali definiscono l'ordinamento giuridico. Il potere legislativo è esercitato dalla Knesset, che elegge un presidente, mentre il potere esecutivo è esercitato dal primo ministro e dal governo. Il potere giudiziario è esercitato da tribunali laici e religiosi e la Corte suprema di Israele ne rappresenta il vertice.
Etimologia
Il nome dello Stato di Israele deriva dal termine biblico Israele. Vennero presi in considerazione vari altri nomi, tra i quali Eretz Yisrael, Sion, Giudea e Nuova Giudea. Sull'etimologia del nome Israele non esiste un'opinione comune. Secondo Victor P. Hamilton il nome deriva dall'unione del verbo śarar ("governare") e del sostantivo el ("Dio"). Il significato sarebbe dunque "Dio governa" o "Possa Dio governare". Secondo Geller invece l'etimo è da rintracciarsi nel verbo śarah ("combattere"), dal momento che Giacobbe cambiò nome dopo la lotta con una possibile manifestazione divina. In questo caso il significato sarebbe "Colui che ha combattuto con Dio" o "Dio combatte". Il documento più antico su cui apparirebbe la parola Israele è la Stele di Merenptah che parlerebbe di Israele come di uno dei tanti popoli di pastori nomadi della regione, piuttosto che di una nazione bene organizzata. Il nome Israele viene citato anche nel Libro della Genesi (32,2), dove viene raccontato l'episodio in cui Dio cambia il nome a Giacobbe, chiamandolo, per l'appunto, Israele. Un'interpretazione comune fa derivare il nome dal soprannome di Giacobbe, ovvero Israele (che significa "l'uomo che vide (l'angelo di) JHWH"). Eretz Yisrael avrebbe dunque il significato di "Terra di Giacobbe". La grafia di questa interpretazione (ישראל) è quella più aderente alla parola Israele (ישראל).
Storia
Antichità e medioevo
La regione vide mergere nell'Età del bronzo la civiltà cananea sotto forma di città-Stato; durante la tarda età del bronzo la regione fu soggetta per secoli al dominio Nuovo Regno egizio. La transizione verso la prima età del ferro vide la formazione di due civiltà differenti: i filistei, sulla costa e di origine egea, e gli israeliti, di derivazione cananea e concentrati negli altopiani delle regioni interne. Tra i regni israeliti emersero il Regno di Israele, distrutto nel 722 a.C. dall'invasione assira, e il Regno di Giuda, invaso nel 587 a.C. dall'Impero neo-babilonese. Le deportazioni degli israeliti da parte di assiri e babilonesi furono il principio sul quale si costituì la Diaspora ebraica. La regione fu poi annessa dall'Impero achemenide e Ciro il Grande permise la ricostruzione della nazione ebraica nel territorio. Sotto l'Impero seleucide la regione sperimentò una profonda ellenizzazione, fino a quando la rivolta maccabea dette vita al Regno di Giudea, al quale seguì la dinastia erodiana. Il territorio fu posto sotto protettorato dall'Impero romano. Le guerre giudaiche provocarono una massiccia emigrazione della locale popolazione ebraica, che andò ad alimentare le comunità della diaspora.
La regione si convertì progressivamente al cristianesimo. Nel VII secolo l'Impero Bizantino perse la regione per mano del Califfato dei Rashidun, al quale seguirono varie dinastie musulmane, tra le quali gli Omayyadi, gli Abbasidi, i Tulunidi e i Fatimidi. Nel corso del medioevo la regione visse un processo di progressiva arabizzazione. Con le Crociate il territorio fu posto sotto la sovranità del Regno di Gerusalemme e in seguito delle dinastie musulmane degli Zengidi, degli Ayyubidi, dei Mamelucchi e infine degli Ottomani. Malgrado un tentativo del Chedivato d'Egitto, gli Ottomani rimasero al potere fino alla prima guerra mondiale, quando vennero sconfitti dagli Alleati.
Mandato britannico della Palestina
Il sionismo e il mandato britannico della Palestina
A partire dalla fine del XIX secolo il movimento sionista spinse molti ebrei, principalmente dall'Europa orientale, a stabilirsi in Palestina, attraverso le cosiddette aliyah. Il nuovo yishuv creò nei decenni una nuova realtà culturale e sociale, parallela a quella araba palestinese. Esso fondò nuove città, tra le quali Petah Tikva e Tel Aviv, e avviò progetti agricoli attraverso i kibbutz e i moshav. Venne in particolare rivitalizzata la lingua ebraica. Alla fine della prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni trasferì la Palestina sotto il controllo dell'Impero britannico, creando il mandato britannico della Palestina. I britannici, con la Dichiarazione Balfour, si fecero promotori della costituzione di un "focolare nazionale" ebraico in Palestina. Sotto i britannici l'immigrazione ebraica dall'Europa orientale portò la popolazione ebraica a crescere enormemente, passando dalle circa 80000 unità registrate nel 1918 alle 175000 nel 1931 e alle 400000 nel 1936, causando attriti con la popolazione araba palestinese. Nel 1939 l'amministrazione britannica, in seguito delle conseguenze dei moti del 1929 e soprattutto della Grande rivolta araba, pose forti limitazioni all'immigrazione e alla vendita di terreni a ebrei. L'avvento del nazismo, la seconda guerra mondiale e la Shoah portarono a un ulteriore flusso migratorio di ebrei provenienti da diverse nazioni europee.
Piano di partizione della Palestina
Nel 1947 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite propose e votò a maggioranza (33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti) un piano di partizione della Palestina, basato sull'operato dell'UNSCOP, che previde l'istituzione di uno Stato ebraico e di uno arabo con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare nel futuro stato tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo, e questo andò quindi ad occupare il 56,4% del territorio. Lo Stato ebraico proposto avrebbe avuto quindi una popolazione residente in maggioranza composta da ebrei (498.000 a fronte di 407.000 arabi). Circa 10.000 ebrei sarebbero rimasti nell'erigendo Stato arabo, che sarebbe di conseguenza stato abitato dal 99% di arabi, con una comunità totale di 735.000 abitanti. La zona internazionale, imperniata sulla città di Gerusalemme, avrebbe avuto una presenza di 100.000 ebrei a fronte di 105.000 arabi. A questi gruppi si aggiungeva una popolazione di circa 90.000 Beduini nomadi, presente nella zona di Beersheba. Il piano venne accolto con favore dalla maggior parte della comunità ebraica, rappresentata ufficialmente dall'Agenzia Ebraica (anche se gruppi più estremisti, come l'Irgun e la Banda Stern, lo rifiutarono), e rifiutato con varie motivazioni dalla comunità araba palestinese e dai paesi arabi.
Tra il dicembre del 1947 e la prima metà di maggio del 1948 vi furono cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Il piano Dalet, messo a punto dalle autorità ebraiche, aveva come scopo la difesa e il controllo del territorio del quasi neonato Stato ebraico e degli insediamenti ebraici a rischio posti di là dal confine di questo. Il piano, seppur ufficialmente solo difensivo, prevedeva comunque, tra le altre cose, la possibilità di occupare basi nemiche poste oltre il confine, e prevedeva in alcuni casi la distruzione di villaggi palestinesi e l'espulsione degli abitanti. Diversi storici hanno considerato il piano stesso indirettamente responsabile di massacri e azioni violente contro la popolazione palestinese, in un tentativo di pulizia etnica. L'impatto emotivo sull'opinione pubblica del massacro di Deir Yassin, effettuato da membri dell'Irgun e della Banda Stern, ebbe una forte risonanza.
Storia dello Stato di Israele
Guerra arabo-israeliana del 1948
Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele e il giorno seguente le truppe britanniche si ritirarono definitivamente dai territori del mandato. Lo stesso 15 maggio 1948 gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania, attaccarono il neonato Stato di Israele. L'offensiva venne bloccata dall'esercito israeliano, e le forze arabe vennero costrette ad arretrare. Israele conquistò centinaia di città e villaggi arabi palestinesi. Centinaia di migliaia di arabi abbandonarono il territorio in quello che divenne l'esodo palestinese del 1948. La Guerra arabo-israeliana del 1948 si concluse con l'armistizio di Rodi, che stabilì la Linea Verde. Il numero di rifugiati palestinesi provenienti dai territori controllati da Israele raggiunse le 711000 persone. I profughi si stabilirono prevalentemente in Giordania, Siria e Libano, oltreché in Cisgiordania e striscia di Gaza. La Giordania annesse la Cisgiordania, mentre l'Egitto occupò la striscia di Gaza. Israele annesse la Galilea e altri territori a maggioranza araba conquistati nella guerra.
Il periodo post-indipendenza
Nei decenni seguenti l'indipendenza dello Stato la politica israeliana venne dominata principalmente dai sionisti socialisti del Mapai e del Mapam; David Ben Gurion venne nominato primo ministro e Chaim Weizmann presidente. Anche se il paese si allineò successivamente al blocco occidentale, l'economia israeliana adottò principi socialisti. Con l'approvazione della Legge del ritorno da parte del governo israeliano si assistette a una forte immigrazione ebraica proveniente dai paesi arabi e dall'Europa, che portò al raddoppio della popolazione israeliana. Lo Stato israeliano organizzò in particolare attraverso i servizi segreti, la propaganda e la diplomazia l'immigrazione ebraica da Iraq, Yemen e Marocco. Gli immigrati vennero sistemati nelle ma'abara. Gli insediamenti arabi israeliani vennero sottoposti alla legge marziale.
Gli anni 1950 furono caratterizzati da un'intensa austerità. Le condizioni critiche dell'economia israeliana convinsero il governo israeliano a firmare con la Germania Ovest un accordo di riparazioni, che finanziò le casse dello Stato ma venne accolto molto freddamente dall'opposizione. La società israeliana fu caratterizzata anche da forti tensioni sociali tra le istituzioni dominate dagli aschenaziti e gli immigrati mizrahì, i quali denunciarono discriminazioni etniche a loro danno. In particolare il caso dei bambini yemeniti scomparsi generò una forte risonanza. Il conflitto arabo-israeliano continuò sotto forma di attacchi da parte dei fedayyin palestinesi, scontri sui confini e attraverso operazioni da parte dei servizi segreti israeliani nei paesi esteri, che culminarono nell'affare Lavon.
La crisi di Suez, la guerra dei sei giorni e la guerra del Kippur
Nel 1956 il leader egiziano Gamal Abd el-Nasser nazionalizzò il canale di Suez e lo chiuse alle navi commerciali di Israele, cominciando nel contempo un avvicinamento all'Unione Sovietica e armandosi grazie al sostegno della Cecoslovacchia. Israele, alleato a Francia e Regno Unito intervenne militarmente, sferrando un attacco preventivo contro l'Egitto riportando numerosi successi e annettendo la striscia di Gaza e la penisola del Sinai. La crisi di Suez si risolse tuttavia grazie a una trattativa tra Stati Uniti d'America e Unione Sovietica. Nel 1967 scoppiò la guerra dei sei giorni, quando Israele decise nuovamente di optare per un attacco preventivo, conquistando la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e le alture del Golan. Fino al 1970 il paese fu impegnato nella guerra d'attrito con l'Egitto.
Nei primi anni 1970 la società israeliana fu scossa dall'attivismo politico delle Pantere Nere, mentre nel 1972 si verificò il massacro di Monaco di Baviera. Nel 1973 Egitto e Siria attaccarono a sorpresa Israele in quella che divenne la guerra del Kippur; i due paesi arabi ebbero inizialmente la meglio ma dopo una fase di stallo le truppe israeliane riuscirono a riprendere il controllo della situazione e a rovesciare le sorti del conflitto, ricacciando egiziani e siriani di là dalle posizioni iniziali. Nel 1974 il movimento sionista religioso del Gush Emunim avviò la costruzione dei primi insediamenti israeliani nei territori occupati. Il dominio politico dei sionisti socialisti terminò nel 1977 in seguito alla vittoria del Likud. Nel 1978, con gli accordi di Camp David, Israele si impegnò a restituire la penisola del Sinai, mentre l'Egitto si impegnò al riconoscimento dello Stato di Israele. Negli anni seguenti Israele venne coinvolto nella guerra civile libanese, intervenendo militarmente in più occasioni e occupandone la regione meridionale fino al 2000. L'intervento israeliano in Libano venne accolto con ostilità da buona parte della società israeliana. Nel 1990 in occasione della guerra del Golfo l'Iraq colpì Israele attraverso attacchi missilistici.
Le due intifade e gli accordi di Oslo
Nel 1987 scoppiò nei territori occupati la prima intifada, ai quali seguirono nel 1993 gli accordi di Oslo, i quali istituirono l'Autorità Nazionale Palestinese. Nel 2000 scoppiò la seconda Intifada. Nel 2005 le forze israeliane si ritirarono dalla striscia di Gaza, lasciandola al controllo palestinese.
Geografia
Israele si trova all'estremità orientale del Mar Mediterraneo. Il territorio sovrano internazionalmente riconosciuto, esclusi cioè tutti i territori occupati, ha una superficie di circa 20770 km², di cui il 2% sono acque. Il territorio sottoposto alla legge dello Stato di Israele, inclusi cioè Gerusalemme Est e le alture del Golan, ha una superficie di 22072 km². Il territorio sotto controllo israeliano, inclusi quindi i territori occupati, ha una superficie di 27799 km².
Morfologia
Il territorio israeliano presenta caratteristiche eterogenee. Presenta a ovest, parallela alla costa, la pianura di Sharon, che ospita la maggior parte della popolazione e i principali centri urbani. Al centro si estendono i monti della Giudea, che attraversano in lunghezza tutto il paese. L'Alta Galilea rappresenta la regione più alta del paese. Mentre i versanti occidentali scendono dolcemente verso il Mediterraneo, quelli orientali precipitano verso la valle del fiume Giordano. La stretta valle solcata dal Giordano è parte della Great Rift Valley, che prosegue con il Mar Morto, Wadi Araba, il golfo di Aqaba e il Mar Rosso. A sud si estende il Negev, un territorio in prevalenza desertico, che occupa circa la metà della superficie del paese; alla sua estremità sud si trova l'unico sbocco al mare non mediterraneo. Tipici del Negev e della adiacente penisola del Sinai sono i makhteshim, crateri erosivi dei quali il più ampio al mondo è il cratere Ramon. Le montagne più importanti sono il Monte Meron, situato in Alta Galilea, e il Monte Ramon, nel Negev. Altri rilievi sono il Monte Carmelo e il Monte Hermon (occupato dal 1967).
Idrografia
Il fiume principale è il Giordano, che nasce dal Monte Hermon; ne appartiene a Israele solo la parte del corso superiore, segnando per il resto il confine tra la Giordania e i territori occupati palestinesi; a esso tributano corsi d'acqua di modeste dimensioni, a regime spiccatamente torrentizio, che tendono a prosciugarsi nella stagione secca. Altro fiume con portata cospicua è il Yarkon, che scende nel Mar Mediterraneo vicino a Tel Aviv. È incluso quasi interamente in territorio nazionale il lago di Tiberiade, mentre il mar Morto bagna il territorio israeliano solo nel settore orientale ed è prossimo al punto più basso del pianeta.
Clima
Pur essendo un paese di modeste dimensioni, vi sono discrete differenze climatiche da zona a zona, e le temperature variano molto, specie durante l'inverno. La costa ha un tipico clima mediterraneo, con estati lunghe, calde e asciutte e inverni freschi e piovosi. Il caldo è anche maggiore nella valle del Giordano, dove nel 1942 furono registrati 53,7 °C (kibbutz Tirat Zvi), un record per l'Asia. Sulle alture, invece, il clima è da fresco a freddo e umido, comprese precipitazioni nevose (a Gerusalemme almeno una volta l'anno, sul monte Hermon per gran parte dell'anno). Da maggio a settembre le precipitazioni sono rare; da novembre a marzo il clima è relativamente umido e piovoso.
Ambiente
Lo Stato d'Israele è molto attivo nella tutela dell'ambiente. In particolare il risparmio idrico rappresenta uno degli impegni principali e viene effettuato specialmente attraverso l'irrigazione a goccia e il recupero dell'acqua piovana. Fonte di buona parte delle risorse idriche del paese è rappresentata dal lago di Tiberiade. Molto attiva è la produzione di energia solare, eolica e da biomassa. Nelle regioni periferiche del paese sono state costituite numerose aree naturali protette, anche tramite l'opera del Fondo Nazionale Ebraico, che ha piantato centinaia di milioni di alberi, costruito dighe e riserve e stabilito centinaia di parchi.
Società
Demografia
Alla fine del 2022 la popolazione israeliana era stimata a 9656000 abitanti. A partire dalla fondazione dello Stato alla crescita demografica ha contribuito principalmente l'arrivo di milioni di immigrati ebrei, provenienti a ondate successive principalmente dall'Europa continentale, dai paesi arabi, dai paesi dell'ex Unione Sovietica e dal Nordamerica. La comunità araba israeliana crebbe invece grazie agli alti tassi di natalità. La maggioranza della popolazione è concentrata nell'area metropolitana del Gush Dan. Secondo uno studio dell'OECD nel gennaio 2023 la popolazione israeliana aveva un'aspettativa di vita pari a 82,9 anni, che colloca Israele al 9º posto nella classifica degli Stati per aspettativa di vita.
Nel corso dell'ultimo decennio, si sono stabiliti nel paese numeri considerevoli di lavoratori migranti non ebrei da Romania, Thailandia, Cina, Africa e America meridionale. I numeri esatti non sono noti, in quanto molti di questi vivono attualmente nel paese in maniera illegale o clandestina, sebbene le stime si aggirino intorno ai 166-203 mila individui. Nel giugno 2012 circa 60.000 migranti africani giunsero in Israele, generando la reazione di alcuni partiti di destra, che in ciò videro un problema di sicurezza e ordine pubblico che avrebbe minacciato il carattere ebraico del paese. Nel corso del 2022 la popolazione di Israele è aumentata del 2,2%: tale aumento è dato al 62% dalla crescita naturale della popolazione e il restante 38% dai mutamenti nell'equilibrio migratorio internazionale. Nel paese sono giunti circa 73.000 rifugiati e migranti ucraini nel corso del 2022, di cui l'80% giunti da Russia e Ucraina.
Composizione etnoreligiosa
Nel 2022 il 73,6% della popolazione era costituita da ebrei israeliani, il 21,1% della popolazione da arabi israeliani e il restante 5,3% da membri di altri gruppi. La componente ebraica è estremamente variegata dal punto di vista etnoculturale e religioso; la lingua ebraica, rivitalizzata nel XX secolo, e la comune identità israeliana hanno però permesso agli ebrei israeliani di costruire una nuova identità sabra. La maggior parte degli ebrei israeliani si riconosce in una delle seguente aree culturali: quella di origine aschenazita, tipica dell'Europa centrale e orientale, e quella mizrahì, tipica di Medio Oriente e Maghreb; storicamente le relazioni tra aschenaziti e mizrahì sono state molto tese; i primi hanno infatti dominato per decenni la scena istituzionale, politica, economica e culturale del paese. Tra gli ebrei si distinguono poi i caraiti, concentrati a Ramla, Be'er Sheva e Ashdod. Fortemente correlati agli ebrei sono i samaritani, concentrati a Holon. Gli arabi israeliani sono per la maggior parte di religione musulmana sunnita, mentre significative minoranze sono cristiane, principalmente melchite e greco-ortodosse, e druse; la gran parte di essi si identica come palestinese. Altra comunità importante è rappresentata dai circassi. Il monte Carmelo ospita un importante centro Bahá'í.
La principale forma di ebraismo in Israele è quella ortodossa, mentre l'ebraismo riformato e quello masoretico sono poco diffusi. Gli ebrei israeliani si distinguono fortemente dal punto di vista dell'osservanza religiosa e sono tendenzialmente classificati in quattro gruppi religiosi: i laici (hiloni), costituenti poco meno della metà degli ebrei israeliani e prevalentemente di origine aschenazita, i tradizionalisti (masorti), costituenti poco più di un quarto degli ebrei israeliani e prevalentemente mizrahì, i religiosi (dati) e gli ultraortodossi (haredi); questi gruppi, in particolare gli ultraortodossi, vivono perlopiù in modo segregato dagli altri; forti tensioni politiche sussistono tra le componenti laiche e quelle religiose. Secondo una statistica internazionale del 2015 Israele rappresenta l'ottavo paese meno religioso al mondo: il 65% degli israeliani si definisce non religioso, l'8% dei quali si definisce ateo.
Lingue
Israele riconosce come lingua ufficiale l'ebraico. L'arabo, parlato dalla comunità araba israeliana e da parte degli ebrei mizrahì e anch'esso precedentemente ufficiale, è stato declassato nel 2018 a lingua a statuto speciale. Ruolo importante è rivestito dalla lingua inglese in ambito economico e mediatico. Molto parlata è la lingua russa, grazie alla massiccia immigrazione proveniente dai paesi dell'ex Unione Sovietica. Sono poi parlate anche una serie di lingue portate dagli immigrati ebrei da tutto il mondo, tra queste lo yiddish, parlato tradizionalmente dagli aschenaziti e oggi conservato dalle comunità ultraortodosse, in particolare in quelle chassidiche, il giudeo-spagnolo, il giudeo-georgiano, l'amarico e il francese.
Cultura
Folklore e cultura di massa
La variegata cultura di Israele deriva dalla diversità etnoculturale della sua popolazione: ebrei provenienti da tutto il mondo hanno portato con sé le proprie tradizioni culturali, dando vita a un originale melting pot. Pur essendo situato in Medio Oriente, la cultura di Israele è prevalentemente occidentale, dal momento che i primi immigrati sionisti erano originari per la grande maggioranza dall'Europa orientale. L'immigrazione di ebrei dal resto del Medio Oriente e dal Maghreb ha generato la compresenza di elementi culturali differenti, anche se accomunati dall'identità ebraica. La comunità araba tende a vivere separata dal resto della società israeliana dal punto di vista residenziale, sociale ed educativo; vi sono infatti pochi contatti tra gli ebrei e gli arabi israeliani. Israele è il solo paese al mondo in cui la vita è organizzata secondo il calendario ebraico: il giorno di riposo ufficiale è il sabato (con inizio dopo il tramonto del venerdì) e le vacanze sono determinate dalle feste ebraiche.
Musica
La musica israeliana rivela influenze da tutto il mondo: la scena musicale offre vari tipi di musica come la musica jazz, pop, rock e classica. Un importante fonte di influenza nella musica israeliana lo rivestirono il klezmer e la musica dell'Europa orientale; la più celebre delle canzoni folcloristiche israeliane è Hava Nagila. Tra le orchestre, la più prestigiosa del paese è la Israel Philharmonic Orchestra, fondata nel 1936. Fra i musicisti classici di fama internazionale i più noti spiccano Itzhak Perlman, Pinchas Zukerman e Daniel Barenboim. Nei primi decenni seguenti l'indipendenza dello Stato, le istituzioni favorirono la musica occidentale, emarginando il contributo culturale degli ebrei originari del mondo arabo; a partire dagli anni 1970 questi ultimi svilupparono la musica mizrahì, fortemente influenzata dalla musica pop araba.
Tra i cantanti israeliani più noti a livello internazionale si citano Noa, Ninet Tayeb, Ofra Haza, Yael Naim, Asaf Avidan, Naomi Shemer, Shiri Maimon, Sarit Hadad, Rita e Subliminal. È molto sviluppata anche la scena metal. Le due band più note a livello internazionale sono gli Orphaned Land e i Melechesh. Entrambe le band rientrano nel cosiddetto oriental metal, che introduce strutture mediorientali nelle forme classiche dell'heavy metal. Israele ha partecipato allo Eurovision Song Contest quasi ogni anno a partire dal 1973, vincendo in più occasioni.
Letteratura
La letteratura israeliana trae le proprie radici radici dalla rivitalizzazione della lingua ebraica, promossa da Eliezer Ben Yehuda nella seconda metà del XIX secolo, e si sviluppà in seguito alla seconda aliyah. Tra i più celebri autori della letteratura israeliana figurano Haim Nachman Bialik, Ahad Ha'am, Saul Cernichovskij, Shmuel Yosef Agnon, Avraham Shlonsky, Yehuda Amichai, Moshe Shamir, Aharon Megged, S. Yizhar, Abraham Yehoshua, Amos Oz, Amos Elon, Aharon Appelfeld, Yoram Kaniuk, David Grossman, Etgar Keret, Orly Castel-Bloom, Gail Hareven e Eshkol Nevo. Importante fu il contributo degli arabi israeliani Sayed Kashua e Anton Shammas. Parte della produzione letteraria israeliana è stata scritta anche in arabo da figure come Emile Habibi Durante la settimana del libro ebraico, che si tiene ogni giugno, oltre a fiere, letture pubbliche e conferenze ha luogo la consegna del Premio Sapir, il principale premio letterario di Israele. A Tel Aviv il teatro Habimah, fondato nel 1918, è il più antico del paese.
Mass media
Tra i maggiori quotidiani israeliani spiccano il Jerusalem Post, Haaretz, Maariv, Yediot Aharonot, HaTzofe, Globes, Israeli, Israel HaYom e Yated Neeman. Sono attive numerose emittenti televisive e radiofoniche; la televisione pubblica è gestita dalla Israeli Public Broadcasting Corporation.
All'inizio del 2009, Reporter Senza Frontiere nel suo Press freedom index riporta la stampa israeliana al 46º posto su 173 paesi e territori; come peraltro segnala la medesima organizzazione, per effetto delle situazioni di conflitto, l'accesso di giornalisti stranieri nella striscia di Gaza durante l'operazione Piombo fuso è stato fortemente limitato.
Archeologia, architettura e patrimoni dell'umanità
Israele è sede di numerosi scavi archeologici di scuola israeliana, e di scuole straniere, di archeologia biblica e di archeologia paleocristiana. Diversi siti israeliani risultano iscritti nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, tra questi: la Città Vecchia di Gerusalemme, dal 1981, la città vecchia di Acri, dal 2001, Masada, dal 2001, i tell di Megiddo, Hazor e Be'er Sheva, dal 2005, la Città Bianca di Tel Aviv, che offre alcuni tra i più significativi esempi di architettura Bauhaus, dal 2003 e la Via dell'incenso - città nel deserto del Negev, dal 2005.
Musei
Tra i principali musei in Israele spiccano il Museo d'Israele a Gerusalemme, che ospita tra le tante collezioni i rotoli del Mar Morto, lo Yad Vashem a Gerusalemme, che rappresenta il museo nazionale dedicato alla Shoah, e il Beth HaTefutsoth, situato nel campus dell'Università di Tel Aviv, museo interattivo dedicato alla storia della diaspora ebraica. A Gerusalemme sono poi presenti il Museo Herzl, il Museo delle Terre della Bibbia, il Museo Rockfeller e il Museo dell'Arte Islamica e a Tel Aviv il Museo di Eretz Israel, il Museo della Haganah, il Museo delle Antichità e il Museo d'Arte Moderna.
Istruzione e ricerca
Il sistema scolastico israeliano è suddiviso in cinque settori: statale (mamlachti), statale religioso (mamlachti dati), indipendente religioso (Chinuch Atzmai), arabo e privato; il primo è il più diffuso, il secondo è frequentato dalle famiglie ebraiche ortodosse moderne e da quelle sioniste religiose ed enfatizza le materie religiose, il terzo è frequentato dagli ebrei ultraortodossi ed è incentrato sullo studio della Torah, mentre il quarto è indirizzato agli arabi israeliani ed è in lingua araba. L'obbligo scolastico si estende dai 3 ai 18 anni, diviso in scuola materna, primaria (1º-6º), media (7º-9º) e superiore (10º-12º), al termine del quale si sostiene un esame di maturità, al seguito del quale si ottiene il bagrut. Israele ha il più alto tasso di durata degli studi e di scolarizzazione del Medio Oriente, e in Asia è al vertice con Corea del Sud e Giappone. Israele dispone di nove università pubbliche: il Technion, l'Università Ebraica di Gerusalemme, l'Istituto Weizmann, l'Università Bar-Ilan, l'Università di Tel Aviv, Università Ben Gurion del Negev, l'Università di Ariel, l'Università di Haifa e la Open University of Israel. Vi è poi l'Università Reichman, di tipo privato. Vi sono poi decine di college.
Nel rapporto dell'Adva Center del maggio 2011 vengono evidenziate disparità caratteristiche della società israeliana. Tra i vari gruppi etnoreligiosi del paese, gli arabi cristiani risultano quello di maggior successo in ambito educativo e accademico. Israele ha inoltre prodotto quattro vincitori di premio Nobel ed è fra i primissimi paesi al mondo per articoli scientifici pubblicati pro capite.
Scienza e tecnologia
La scienza riveste un ruolo primario nella società israeliana. Il paese è all'avanguardia nei settori elettronico, ottico, informatico, robotico, aeronautico, medico e biomedico. Avanzata è anche la ricerca in ambito agricolo, per quanto riguarda ad esempio l'irrigazione a goccia. Il paese fa un ampio uso dell'energia solare e termica. In ambito spaziale nel 1988 venne lanciato Ofek-1, il primo satellite lanciato da Israele, mentre nel 2003 Ilan Ramon divenne il primo astronauta israeliano ad andare nello spazio.
Festività nazionali
Yom HaAtzmaut. Proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948
Ben Gurion Day. Celebrazioni in onore del fondatore dello Stato di Israele David Ben Gurion
Yom Kippur. Giorno dell'Espiazione
l 15º giorno di Av del calendario ebraico si celebra il Tu B'Av (in ebraico: ט"ו באב), il giorno dell'amore, simile alla Festa di San Valentino
Gastronomia
La cucina israeliana è estremamente variegata ed è caratterizzata dalla commistione della cucina levantina e di quella ebraica aschenazita, maghrebina e mediorientale.
Economia
L'economia di Israele è di tipo misto e il paese è considerato una delle più avanzati in Medio Oriente e in tutta l'Asia per quanto riguarda il progresso economico e industriale, nonché uno di quelli più competitivi e favorevoli agli affari Nel 2012 il PIL (PPP) era pari a 260,9 miliardi di dollari statunitensi (49º al mondo) e il PIL pro capite (PPP) era pari a 33878 di dollari (25º al mondo). Dal 2010 Israele aderisce all'OCSE. Malgrado la limitatezza delle risorse naturali, lo sviluppo dei settori industriale e agricolo, protrattosi per decenni, ha reso Israele ampiamente autosufficiente dal punto di vista della produzione alimentare, eccetto per le granaglie e per le carni. Israele è un grande importatore di idrocarburi, materie prime ed equipaggiamenti militari. Nell'ambito delle esportazioni si distingue per frutta, verdura, farmaceutici, software, prodotti chimici, tecnologia militare e diamanti. Il paese è inoltre leader mondiale per la conservazione dell'acqua e per l'energia geotermica. Fin dagli anni 1970, Israele riceve aiuto economico dagli Stati Uniti d'America, in particolare per sostenere il debito estero, il debito pubblico e le spese militari. Secondo un'agenzia governativa, la povertà in Israele è aumentata dell'1% nel 2018, colpendo il 20,4% della popolazione. I bambini sono particolarmente colpiti, poiché il 29,1% di loro vive in condizioni di povertà. Secondo i dati dell'OCSE il tasso di povertà di Israele è il quarto più alto tra i paesi membri dell'OCSE dopo Stati Uniti d'America, Turchia e Corea del Sud.
Agricoltura
Dotato di scarse risorse idriche, il paese non è ambiente favorevole a una grande agricoltura. Gli israeliani hanno saputo sviluppare una tecnologia irrigua che ha moltiplicato la produttività di ogni litro d'acqua imponendo la propria agricoltura come modello insuperato di efficienza di irrigazione. Agronomi e ingegneri di Israele vantano il titolo di creatori delle metodologie di irrigazione a goccia. Seppure l'acqua disponibile per l'agricoltura continui a diminuire, gli agricoltori israeliani la usano con efficienza crescente, dedicandola a colture di sempre maggiore pregio, primizie, fiori, piante di vivaio. Il primato tecnologico consente, peraltro, di sopperire al calo delle vendite di prodotti agricoli con la vendita crescente di impianti sempre più sofisticati, richiesti, con il know how relativo, in tutto il mondo. Il 92% dei terreni in Israele sono proprietà dello Stato, del Fondo Nazionale Ebraico o dell'Amministrazione Israeliana dei Terreni. I terreni possono essere affittati a lungo termine (99 anni).
Industria
Le risorse minerarie ed energetiche sono quasi inesistenti, dal momento che il sottosuolo è privo di materie prime. Sia il carbone, sia il petrolio sono importati; il petrolio proviene quasi esclusivamente dall'Egitto. Un oleodotto lungo 260 km collega Eilat con Ashkelon. Molto utilizzata è l'energia solare, che copre il fabbisogno del 27% della popolazione come fonte di riscaldamento. Il settore industriale israeliano si è da sempre caratterizzato per la presenza di piccole aziende nei settori tradizionali e di poche grandi aziende in quelli della tecnologia avanzata. I principali settori industriali israeliani sono rappresentati dai settori dell'alta tecnologia, metallurgico, elettronico, biomedico, agricolo, alimentale, chimico, farmaceutico e dei trasporti. Il settore dell'alta tecnologia è concentrato nel cosiddetto Silicon Wadi tra Tel Aviv e Haifa e ospita numerose startup. Per motivi geopolitici il paese ha sviluppato una forte e avanzata industria militare. La lavorazione dei diamanti costituisce un'industria fiorente avviata da immigrati ebrei provenienti da Belgio e Paesi Bassi.
Trasporti
Per quanto riguarda i trasporti e le comunicazioni, un'articolata rete di strade unisce le varie parti del paese. I porti di Eilat sul Mar Rosso, di Ashdod e di Haifa sul mar Mediterraneo sono i più trafficati. L'aeroporto Ben Gurion, vicino a Tel Aviv, assorbe quasi tutto il traffico aereo del paese. La rete ferroviaria israeliana si sviluppa attorno a una dorsale nord-sud Nahariya-Haifa-Tel Aviv-Beersheva, con rami verso est (Gerusalemme via Latrun e Zin, presso il Mar Morto). Esiste una sola linea ad alta velocità tra Tel Aviv e Gerusalemme, la cui apertura è avvenuta alla fine del 2017.
Turismo
Lo stesso argomento in dettaglio: Turismo in Israele.
Il turismo in Israele, benché ostacolato dalle condizioni geopolitiche, che inducono a protocolli di sicurezza sensibilmente elevata, in particolare quello religioso, è un cespite industriale di grande rilievo, anche per merito del clima gradevole e dell'importanza storica e artistica dei siti archeologici. In tale cornice spicca la funzione strategica della compagnia di bandiera El Al, sia come vettore internazionale, sia per i collegamenti interni.
Politica
Ordinamento dello Stato
Lo Stato d'Israele basa il suo ordinamento giuridico su una serie di leggi fondamentali. Le funzioni del governo sono basate sui regolamenti della Knesset, sulle convenzioni costituzionali e sulla Dichiarazione d'indipendenza israeliana. Israele non dispone di una costituzione redatta in un unico documento. Dopo la fondazione dello Stato nel 1948, la Dichiarazione di indipendenza affermò che un'assemblea costituente avrebbe adottato una costituzione per istituire e disciplinare le autorità dello Stato. L'assemblea costituente venne quindi eletta nel gennaio del 1949 ed esercitò le sue funzioni sia come corpo legislativo sia come corpo costituente. Tuttavia, in mancanza di un consenso circa l'opportunità di una costituzione scritta e circa i suoi contenuti, l'assemblea, divenuta Knesset nel 1949, il 13 giugno 1950 giunse a una soluzione di compromesso nota come risoluzione Harari: la costituzione sarebbe stata composta di capitoli, ciascuno comprendente un'unica legge fondamentale a sé stante e Israele avrebbe adottato la propria costituzione via via che le diverse leggi fondamentali fossero state approvate dalla Knesset. Israele iniziò un processo di adozione della costituzione capitolo per capitolo, processo che a oggi non si è ancora concluso con l'adozione di una singola costituzione complessiva e che ha portato alla promulgazione delle seguenti leggi fondamentali:
Legge fondamentale sulla Knesset (1958)
Legge fondamentale sulle terre di Israele (1960)
Legge fondamentale sul Presidente dello Stato (1964)
Legge fondamentale sul Governo (1968, poi modificata nel 1992, 2001 e 2014)
Legge fondamentale sull'economia dello Stato (1975)
Legge fondamentale sull'esercito (1976)
Legge fondamentale su Gerusalemme capitale di Israele (1980)
Legge fondamentale sul potere giudiziario (1984)
Legge fondamentale sullo State Comptroller (1988)
Legge fondamentale sulla Libertà e dignità umana (1992)
Legge fondamentale sul Diritto all’occupazione (1992, poi modificata nel 1994)
Legge fondamentale sul referendum (2014)
Legge fondamentale su Israele Stato nazione del popolo ebraico (2018)
Fino al 1992 tutte le leggi fondamentali via via approvate riguardarono essenzialmente l'organizzazione dei poteri dello Stato. Nel 1992 la Knesset si divise sull'opportunità di approvare una legge in tema di diritti costituzionali. Fu raggiunto il compromesso di dividere il capitolo sui diritti costituzionali in una serie di leggi fondamentali separate, cosicché la Knesset potesse trovare il consenso necessario per il riconoscimento di alcuni diritti largamente condivisi lasciando aperta la discussione su diritti più controversi, come la libertà di religione, di parola, di coscienza, e il principio di uguaglianza. Le due leggi fondamentali sui diritti costituzionali del 1992 furono seguite da una storica sentenza della Corte suprema nel caso Mizrahi Bank del 1995. Con tale sentenza la Corte suprema rivendicò a sé il potere di controllare la costituzionalità della legislazione approvata dalla Knesset, intendendo per "costituzionalità" la conformità delle leggi alle Leggi fondamentali dello Stato di Israele. L'effetto combinato delle innovazioni legislative introdotte nel 1992 e della giurisprudenza della Corte suprema è stato definito come una "rivoluzione costituzionale" che avvicina Israele al modello dello Stato costituzionale di diritto, affidando alla Corte suprema il sindacato di costituzionalità sulle leggi approvate dalla Knesset.
Israele è una repubblica parlamentare, basata sul multipartitismo e su elezioni a suffragio universale cui partecipano tutti i cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età. Non è previsto l'istituto referendario. Il potere legislativo spetta alla Knesset, composta da 120 deputati eletti ogni quattro anni con sistema sistema proporzionale (con applicazione del metodo D'Hondt), nelle liste dei partiti. Alle elezioni legislative non è previsto il voto di preferenza. Il territorio costituisce un unico collegio elettorale ed è prevista una soglia di sbarramento. Le elezioni parlamentari si tengono ogni quattro anni, ma la Knesset può essere sciolta anticipatamente in seguito a una decisione assunta dalla maggioranza dei suoi componenti. Il presidente di Israele è il capo dello Stato ed è eletto dalla Knesset per un mandato di sette anni non rinnovabile. La sua funzione è puramente rappresentativa, essendo l'esercizio del potere esecutivo delegato nella sua interezza al primo ministro, che di regola è il leader della forza politica maggioritaria nella Knesset. Quest'ultimo forma il governo nominando i ministri. Dal 1996 al 2003 il primo ministro è stato scelto con elezione popolare diretta.
Il potere giudiziario è affidato a una Corte suprema. I suoi quindici giudici sono nominati da una commissione di nove membri di cui tre giudici, quattro politici e due avvocati. In pratica, questa commissione designa automaticamente i candidati scelti dai giudici stessi. Il sistema legale di Israele combina diritto romano, la diritto anglosassone e leggi dell'ebraismo. Si fonda sul principio del precedente e del processo accusatorio e impiega giudici professionali e indipendenti, nominati da un comitato composto da giudici della Corte suprema, avvocati e parlamentari. Il sistema giudiziario è articolato in tre livelli di giudizio: la maggior parte delle città ospita un tribunale, mentre in cinque dei sei distretti sono istituiti tribunali distrettuali (sia d'appello sia di prima istanza) e a Gerusalemme siede la Corte suprema (sia di ultimo appello sia di cassazione e di fatto costituzionale).
Diritti civili e politici
Israele è una democrazia in cui trovano riconoscimento i diritti civili e politici, di libertà d'espressione e di economia di mercato. Israele, se considerato senza i territori occupati, è classificato come "libero" da Freedom House; nel 2014 il punteggio era 2 per le libertà civili e 1 per i diritti politici, dove 1 è la situazione migliore e 7 la peggiore. Israele è considerato un esempio di democrazia etnica. Tutti i cittadini israeliani godono dei diritti civili e politici, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e religiosa. Gli arabi israeliani sono cittadini israeliani, ad eccezione di quelli di Gerusalemme Est e delle alture del Golan, che hanno lo status di residenti permanenti e il diritto a richiedere la cittadinanza israeliana. La minoranza araba soffre di vari disagi socioeconomici e secondo l'opinione di vari esperti è soggetta a discriminazioni strutturali.
Lo status personale dei cittadini, tra i quali la disciplina matrimoniale e il divorzio, è rimesso alle rispettive confessioni religiose, le cui autorità esercitano la relativa giurisdizione; non esiste il matrimonio civile. Lo Stato riconosce i matrimoni officiati dalle autorità ebraiche ortodosse, musulmane, cristiane e druse. Questo sistema genera forti tensioni tra le componenti laiche e quelle religiose, dal momento che non permette i matrimoni misti; inoltre le leggi della Halakha non permettono a numerose coppie israeliane di sposarsi. La giurisdizione israeliana prevede però il riconoscimento dei matrimoni esteri, pertanto numerose coppie israeliane si sposano ogni anno nella vicina Cipro. Lo stato riconosce le unioni civili ed è l'unico in Medio Oriente dove le unioni omosessuali celebrate all'estero vengono riconosciute
La pena di morte in Israele dal 1954 è in vigore unicamente per i reati di genocidio e altri crimini contro l'umanità, crimini di guerra, alto tradimento, crimini contro il popolo ebraico e tradimento militare, quando ritenuta giusta dal tribunale: è stata applicata solo una volta, nel 1961, nei confronti del criminale nazista Adolf Eichmann. Anche un altro nazista, John Demjanjuk, fu condannato a morte nel 1988, ma il verdetto fu annullato nel 1993. Questi due casi, tra l'altro di cittadini stranieri, sono le uniche sentenze pronunciate contro civili. Ci sono state alcune condanne di militari, ma nessuna è stata eseguita.
Suddivisione amministrativa
Israele è suddiviso in sei distretti principali e tredici sottodistretti.
Distretti di Israele
Politica estera
Relazioni diplomatiche con Israele
Lo Stato di Israele è riconosciuto da 167 paesi membri delle Nazioni Unite su 193. Il paese fu ammesso alle Nazioni Unite nel 1949. A causa del conflitto arabo-israeliano, Israele non è riconosciuto dai seguenti paesi: Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Bangladesh, Brunei, Comore, Corea del Nord, Cuba, Gibuti, Guinea, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Maldive, Mali, Niger, Oman, Pakistan, Qatar, Siria, Somalia, Tunisia, Venezuela e Yemen.
Territori occupati
Lo stesso argomento in dettaglio: Territori occupati da Israele.
In seguito alla guerra dei sei giorni del 1967 Israele occupò la Cisgiordania, la striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai. A partire dagli anni 1970 venne avviata la costruzione di numerosi insediamenti israeliani nei territori occupati, dichiarata illegale dalle Nazioni Unite. Gerusalemme Est venne annessa nel 1980 e le alture del Golan nel 1981. Il Libano rivendica le fattorie di Sheb'a, annesse insieme al Golan. Il Sinai venne restituito all'Egitto nel 1982, in seguito agli accordi di Camp David. In seguito agli accordi di Oslo del 1993 i territori palestinesi vennero divisi in tre aree: l'area A, amministrata e controllata dall'Autorità Nazionale Palestinese, l'area B, sempre sotto amministrazione palestinese ma controllata militarmente dagli israeliani, e l'area C, amministrata da Israele La Cisgiordania è identificata dalle autorità israeliane con l'espressione "Giudea e Samaria". La striscia di Gaza venne abbandonata in seguito al piano di disimpegno unilaterale israeliano del 2005 e venne sottoposta a un blocco marittimo, terrestre e aereo da parte di Israele ed Egitto.
Varie organizzazioni non governative, tra le quali B'Tselem, Human Rights Watch e Amnesty International, hanno criticato le politiche israeliane nei territori occupati, paragonandole all'apartheid. La presenza israeliana ha comportato infatti varie restrizioni al movimento dei palestinesi attraverso l'istituzione di centinaia di posti di blocco, di un sistema di permessi e della barriera di separazione israeliana; le autorità israeliane hanno in più occasioni demolito o confiscato proprietà immobiliari palestinesi e migliaia di detenuti palestinesi sono trattenuti nelle carceri israeliane per motivazioni politiche.
Status di Gerusalemme
Lo stesso argomento in dettaglio: Status di Gerusalemme.
Gerusalemme venne proclamata capitale di Israele nel dicembre 1949 e confermata tale nel 1980 con la legge su Gerusalemme. Israele occupò Gerusalemme Est in seguito alla guerra dei sei giorni e la annesse nel 1980, riunificando la città. Quasi tutte le istituzioni governative israeliane hanno sede a Gerusalemme, ad eccezione del ministero della difesa con sede a Tel Aviv. Lo status di Gerusalemme come capitale di Israele non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, dal momento che la città comprende territori non riconosciuti internazionalmente come israeliani. La Corte internazionale di giustizia confermò nel 2004 lo status di "territori occupati" ai territori oltre la Linea Verde, compresa Gerusalemme Est. La quasi totalità degli Stati che intrattengono rapporti diplomatici con Israele non mantengono le proprie sedi diplomatiche a Gerusalemme, preferendole altre località, in particolare Tel Aviv. Gli unici paesi che hanno mantenuto la propria ambasciata a Gerusalemme sono stati El Salvador e la Costa Rica e a partire dal 2018 gli Stati Uniti d'America. Israele rimane senza capitale nelle mappe prodotte e distribuite dall'ONU.
Forze armate
Le Forze di difesa israeliane rappresentano le forze armate del paese. La marina e l'aeronautica israeliana sono subordinate all'esercito. Sono operative altre agenzie governative paramilitari che si occupano dei differenti aspetti della sicurezza d'Israele, tra le quali il MAGAV e lo Shin Bet, e civili con compiti di difesa, come l'Aman e il Mossad, i servizi segreti israeliani esterni. Le Forze di difesa israeliane sono considerate le forze armate più efficienti in Medio Oriente. L'alta qualità dell'addestramento e l'avanzata industria militare rappresentano i maggiori punti di forza dell'esercito israeliano.
I giovani israeliani, sia maschi che femmine, sono chiamati alle armi all'età di 18 anni. Il servizio di leva dura tre anni per gli uomini e due per le donne. A seguito del servizio obbligatorio, gli uomini israeliani diventano parte delle forze di riserva. Sono esonerati i cittadini arabi musulmani e cristiani e coloro che non possono servire per motivazioni religiose. È attivo un servizio civile, il Sherut Leumi, alternativo al servizio militare. Israele non dispone nel suo ordinamento di una legge sull'obiezione di coscienza e i disertori (conosciuti anche come refusenik) possono andare contro pene detentive; sono però esonerati i pacifisti solo se giudicati tali da una speciale commissione non militare.
Energia nucleare
L'interesse israeliano per l'energia nucleare cominciò fin da prima della nascita dello Stato. Il governo dette importanza alla ricerca sull'energia nucleare fin dal 1949, istituì l'Istituto Weizmann e cominciò a sviluppare la propria tecnologia nucleare negli anni 1950 con il sostegno francese, costruendo un reattore nucleare a Dimona nel 1964. Gli israeliani realizzarono le loro prime armi nucleari nel 1966. Israele si rifiutò di sottoscrivere il trattato di non proliferazione nucleare. L'esistenza dell'arsenale nucleare israeliano venne confermata nel 1986 dal tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu. Secondo l'opinione di vari esperti nel 1979 Israele collaborò con il Sudafrica nello sviluppo di armi nucleari, in quello che divenne noto come incidente Vela.
Sport
Sebbene sia collocato in Asia, Israele fa parte dei Comitati Olimpici Europei, pertanto, per tutti gli sport, gareggia nelle competizioni europee e a livello internazionale partecipa come nazione europea. Il principale sport nazionale è il calcio. Il campionato israeliano di calcio è gestito dalla Federazione calcistica d'Israele, affiliata dal 1929 alla FIFA e dal 1994 all'UEFA, in seguito alla sua espulsione dall'AFC su pressione dei paesi arabi. Le squadre calcistiche israeliane partecipano alle coppe calcistiche europee, e la nazionale di calcio disputa le qualificazioni al Campionato mondiale di calcio con le altre selezioni europee, oltre a prendere parte alle qualificazioni al Campionato europeo di calcio. Durante il periodo di iscrizione della Federazione calcistica d'Israele all'AFC, la nazionale di calcio vinse la Coppa d'Asia 1964.
Molto popolare in Israele è anche la pallacanestro. La Federazione cestistica d'Israele, iscritta alla FIBA dal 1939, è affiliata alla FIBA Europe. La nazionale di pallacanestro vanta una partecipazione ai giochi olimpici, due ai mondiali, nonché 25 presenze agli europei. Israele ai Giochi olimpici si distinse per il judo, che guadagnò popolarità tanto da rivaleggiare con il calcio per numero di praticanti, tanto da essere definito da alcuni sport nazionale. Importanti risultati sono stati colti dallo sport israeliano nella vela. Sistema di combattimento diffuso in tutto il mondo e originatosi in Israele è il Krav Maga, utilizzato anche da operatori della forze di sicurezza.
“Gli israeliani hanno occupato la Palestina”. Perché è un falso storico. Nicolaporro.it l'11 Ottobre 2023,
Cerchiamo di andare, per un attimo, al massacro dei luoghi comuni. Nel lungo e sanguinoso conflitto che coinvolge Israele e palestinesi, riportato brutalmente all’attualità dopo gli attacchi compiuti da questi ultimi lo scorso sabato, affiora spesso una delle più tendenziose falsità storiche su questa tragica faccenda. Alludiamo alla presunta “persecuzione” ed espropriazione della propria terra di cui il popolo palestinese sarebbe vittima, a cui si danno anche nomi sinistri quali “pogrom”, segregazione e persino genocidio. In realtà, se v’è un popolo che ha sempre e sistematicamente rifiutato qualunque tentativo di pacificazione con gli israeliani è proprio quello palestinese. Occorre quindi rinfrescare la memoria storica a quanti sembrano, colpevolmente, aver dimenticato e a quelli che, ancora più colpevolmente, non hanno mai saputo.
Quella che oggi è chiamata Palestina era in origine una striscia di territorio, al di sotto del già esistente stato d’Israele (già nell’830 a.C. si parla del regno d’Israele nato dopo la separazione delle tribù ebraiche) abitato dai Filistei, antichi nemici dei giudei. Gli israeliti, guidati da re Davide (fondatore di Gerusalemme), combatterono e conquistarono, anche se mai del tutto, parte di questa terra, poi divenuta successivamente terra di dominazione babilonese, assirica e romana. Durante il dominio romano, nel 66 d.C., avvenne la celebre diaspora del popolo ebraico dalla propria terra; l’Imperatore Tito per sedare le rivolte che insanguinavano quei territori deportò una parte, solo una parte, degli ebrei via dalla loro patria ancestrale. Le genti israelite non hanno mai abbandonato del tutto Gerusalemme né la terra santa.
I problemi cominciano con la venuta di Maometto. Egli si proclama unico e solo profeta di tutte le religioni monoteiste, cercando quindi il riconoscimento anche da parte degli ebrei che, chiaramente, rifiutano. Seguono anni di massacri e uccisioni di ebrei proprio a causa del loro essere, secondo i precetti islamici, infedeli. Tale è il punto focale di tutta la questione. La sua immodificabile ragion d’essere. I palestinesi, musulmani, vedono gli ebrei come nemici solo per il fatto che essi sono, propriamente, ebrei. La loro negazione. Ciò che deve essere spazzato via con violenza. La disputa attorno a Gerusalemme nasce in questo frangente. Con tutta probabilità Maometto non ha mai messo piede in vita sua a Gerusalemme. Quello che è certo è che la città santa non è nominata nemmeno una volta nel Corano. Dunque perché tanto sangue è stato versato in nome di questo luogo?
I musulmani credono che il luogo in cui il profeta sia asceso al cielo durante la notte (Isrā è la parola araba per questo evento) corrisponda alla spianata del tempio di Gerusalemme e alla moschea di al-Aqṣā, da dove Maometto sarebbe stato trasportato in paradiso attraverso i 7 cieli. Peccato che alla morte del profeta, nel 632, non esistesse alcuna moschea al di fuori della penisola arabica e che al-Aqṣā sia stata costruita nel 674, più di trent’anni dopo. Per inciso, la presenza di una moschea non rende automaticamente sacra una città; grandi moschee esistono a Cordova e a Roma. Rivendicheranno anche queste un giorno?
La sacralità di Gerusalemme per i musulmani si basa dunque su di una interpretazione piuttosto fantasiosa, tra l’altro senza appigli teologici visto che, come ripetiamo, la città non è mai nominata nel Corano e il sommo profeta non l’ha mai visitata. Ma tanto è bastato perché essa fosse conquistata dai musulmani, con conseguente distruzione della Basilica del Santo Sepolcro, delle chiese e delle sinagoghe che vi sorgevano ordinata dal califfo al-Ḥākim nel 1009. Un gesto di brutale purificazione verso tutto quello che non è conforme alle leggi dell’Islam. Storia già vista, chiedere dell’ISIS. Tanto cara all’Islam la città di Gerusalemme che, sotto gli ottomani, diviene una fogna a cielo aperto. Talmente sacro questo sito che nei recenti attacchi Hezbollah ha lanciato missili proprio contro Gerusalemme. Talmente tanto importante questa terra chiamata Palestina che, almeno fino al termine del primo conflitto mondiale, era una landa semi-desolata, abbandonata alla polvere, ai sassi e all’incuria dagli ottomani (leggere quello che scrivevano i noti sionisti Mark Twain ed Edmondo De Amicis).
Solo dopo l’arrivo dei primi ebrei scappati dalle persecuzioni in Russia e nell’est Europa, questo fazzoletto di terra diviene una terra abitabile. Gli sceicchi arabi vendono la terra a caro prezzo agli ebrei che, desalinizzando il mare, dissodando la terra e morendo di stenti, la trasformano in un anfratto vivibile. Questo solo fatto dovrebbe bastare a dimostrare che non c’è mai stato esproprio di terra a danno di nessuno perché quasi nessuno abitava quelle terre. La presenza di sparuti gruppi arabi dalla Giordania non basta a rivendicare come proprio un territorio. Perché i cosiddetti palestinesi altro non sono che arabi, come i giordani, i libanesi o gli iracheni. E come tali, non discendendo dai Filistei (originari abitanti della terra di Palestina) non vantano alcun diritto ancestrale su questa terra.
Tra l’altro se c’è qualcuno a cui imputare il fallimento di qualunque tentativo di appianamento del conflitto sono proprio i palestinesi. Questi martiri, questi partigiani della libertà come vengono descritti dalla retorica. Talmente simili ai partigiani da essersi alleati con Hitler durante il secondo conflitto mondiale. È noto che lo sterminio degli ebrei fu in parte concertato da Hitler in accordo col Gran Muftì di Gerusalemme Al-Husayni (lo zio di Arafat) al fine di impedire che questi ultimi tornassero in Palestina per sfuggire alle persecuzioni in Europa. Nonostante l’Olocausto, gli innumerevoli pogrom e le aggressioni di cui fu vittima il popolo ebraico, lo stato d’Israele nacque nel 1948. Senza espellere da lì tutta la popolazione araba come spesso si suole udire.
Israele riconquista Gerusalemme in seguito alla vittoria riportata nella guerra dei sei giorni e dopo la riconquista, a manifestazione di quanto gli ebrei siano intolleranti, non distrugge le moschee costruite nella città. Nel 1967 Israele sancisce uno dei principi più interessanti del suo agire diplomatico: il riconoscimento della sua esistenza in cambio della cessione dei territori conquistati durante la guerra dei sei giorni (Sinai, striscia di Gaza, alture del Golan). Il tutto sancito dalla Risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza Onu. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), sdegnata, rifiuta tale apertura. Di nuovo, dopo la guerra del Kippur nel 1973, tale processo si rinnova nella Risoluzione 339 dell’Onu. Di nuovo, nessuna risposta da parte delle autorità palestinesi. L’Egitto di Sadat riconobbe lo Stato d’Israele nel 1978 a Camp David e riebbe indietro il Sinai.
Dunque, signori, di quale persecuzione parliamo? Di quale esproprio di terra ci si lamenta? Quale popolo genocidiario restituisce i territori conquistati in guerra in cambio del riconoscimento della sua esistenza? Durante il secondo vertice di Camp David nel 2000 Ehud Barak offrì ad Arafat la striscia di Gaza, parte della Cisgiordania e (udite udite!) la parte est di Gerusalemme. Arafat rifiutò, senza che si sia mai capito bene il perché. I negoziati li ha fatti fallire lui, mica gli israeliani. Tra l’altro, viste le recenti manifestazioni in Giordania a sostegno di Hamas verrebbe da chiedersi perché i profughi palestinesi non si rechino alla corte del Re. Quella stessa Hamas che all’articolo 7 del suo statuto recita nobilmente, parole testuali, “c’è un ebreo nascosto, vieni e uccidilo”. Quegli stessi gentiluomini che hanno inventato i bambini-soldato e che considerano i bambini ebrei alla stregua di adulti da uccidere (rileggete l’intervista di Oriana Fallaci alla guerrigliera Rascida Abhedo e capirete).
Quelle stesse genti che piazzano bombe nei mercati e nelle vie trafficate per fare più vittime civili possibili. Quegli stessi nobili partigiani che rapiscono vecchi e ragazzini e li usano quali scudi umani. Tali individui sono coloro a cui plaudono molti nostri connazionali. È perseguitato un popolo che rifiuta sistematicamente ogni negoziato? Nessuna terra è stata espropriata, anzi è stata ri-offerta in cambio del riconoscimento agli ebrei di avere, dopo millenni, una patria. A cui sono sempre seguiti rifiuti. Occorrerebbe rivalutare, profondamente, il significato delle parole “sterminio” e “persecuzione”. E riconsiderare a chi applicarle. Se non altro storicamente. Francesco Teodori, 11 ottobre 2023
Nazione e Stato vengono spesso confusi, ma non sono la stessa cosa. Come nasce uno Stato? Fenomenologia dei popoli che si autodeterminano: i casi di Israele e Palestina. Emanuele Cristelli su Il Riformista l'11 Ottobre 2023
In questi giorni terribili e tragici, a causa dell’attacco indegno di Hamas contro Israele, si è tornati a parlare, giustamente, del “diritto ad esistere” di Israele. Contro ogni mia previsione, mi sono imbattuto in moltissimi commenti il giorno successivo sui social che accusavano Israele di non avere diritto a uno Stato, di non essere una nazione, e che il precedente “Stato di Palestina” fosse stato occupato, oppure ancora che la Palestina non abbia mai maturato l’esigenza o il diritto a uno Stato. Non è mio obiettivo entrare nel merito della vicenda israelo-palestinese, ma non posso nascondere un certo imbarazzo nel prendere atto di come argomenti tipo il “Democracy building” e il “Nation building” siano maneggiati con superficialità e sempre nella logica orizzontale dei social media, dove competenza, attenzione e buon costume sembrano essere azzerati.
Per cominciare, è necessario fare una premessa: Nazione e Stato vengono spesso confusi, ma non sono la stessa cosa. La Nazione è un’entità di dimensione comunitaria che condivide un’identità e un immaginario collettivo comune, fatto di valori, cultura, lingua, ecc. La Nazione storicamente ha sempre conosciuto due modi per nascere: o su base volontaristica o su base etnica.
Ciò significa che un popolo può autodeterminarsi come Nazione sia perché condivide una missione politica, valoriale e ideale comune, a prescindere dalle differenze linguistiche ed etniche, oppure perché si ritrova unita nel reciproco riconoscimento di un profilo etnico comune. Ovviamente, non c’è un bianco e un nero; una Nazione può nascere anche a metà strada tra i due modelli. A tal proposito, possiamo quindi dire che la Palestina non ha ancora maturato una particolare e distinguibile coscienza omogenea identitaria nazionale, cosa ben diversa da Israele che da secoli ha visto nascere, crescere e formarsi l’identità nazionale ebraica. Per molto tempo, Israele e il mondo ebraico hanno rappresentato una Nazione senza Stato, uno Stato poi creato e costruito proprio alla luce di vicende che ne hanno posto la necessità storica dell’esistenza stessa.
Ciò vuol dire che la popolazione palestinese non ha diritto a un suo Stato? Affatto!
Stato e Nazione molto spesso coincidono, ma non è una regola, e anzi, sono tantissimi gli esempi di Stato non nazionale. Questo perché lo Stato è l’ordinamento che consente a una comunità stanziale di un determinato territorio di darsi la struttura per poter regolare la vita comunitaria entro i limiti territoriali nei quali un popolo o un gruppo di essi riconoscono la propria terra. Uno Stato nasce quindi non solo per dare una cornice istituzionale a una comunità nazionale, ma anche per definire la dimensione istituzionale di popoli che si trovano a condividere, per motivi diversi, un destino comune, in un territorio dato e in virtù di contingenze storiche che hanno creato le condizioni per questa unione. Basti pensare ad esempi vicini a noi come la Svizzera, la Bosnia-Erzegovina e il Belgio e, perché no, guardando in proiezione, anche l’Unione Europea.
Sì, l’UE, che oggi è un esempio e un modello unico al mondo, ibrido, di organizzazione internazionale con un carattere di governance multilivello, che fonda la sua forza sulla volontà politica di chi ne fa parte di concedergliela senza vincoli coercitivi, ma che in prospettiva, qualora divenisse un vero e proprio Stato federale, di certo non potremmo dire che si tratterebbe di uno Stato Nazionale, vista la molteplicità di identità nazionali presenti al suo interno.
La Palestina ha quindi maturato negli anni le condizioni e la necessità di diventare uno Stato? Da un punto di vista fattuale, sicuramente sì, non a caso una delle soluzioni diplomatiche più perseguite, basti ricordare Camp David, fu la soluzione dei due Stati. Poi subentra la politica, ed è un campo in cui non mi addentro, ma l’autodeterminazione dei popoli è un tema troppo serio per poter essere affrontato solo con le chiavi di lettura della politica day by day.
Mi chiedo quindi se, in un’ottica di maggiore consapevolezza nel rapporto con lo straniero e il diverso, non avrebbe forse senso fin dai primi anni di scuola far interiorizzare questi concetti all’interno di un più ampio percorso di educazione civica. I popoli hanno una dignità intrinseca che, comunque la si pensi, merita anche di essere affrontata con un linguaggio e una consapevolezza che consentano di mantenere il rispetto per il vissuto degli individui e delle loro comunità.
Essere cittadini significa anche conoscere le ragioni profonde nelle quali affonda l’essenza stessa della cittadinanza, per poterne capire il reale valore e avere uno sguardo nuovo sul mondo: curioso, aperto, inclusivo.
Emanuele Cristelli. Ho 28 anni, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna
Palestina, il grande problema non risolto. Panorama il 10 Ottobre 2023
Palestina, il grande problema non risolto La Rubrica - Come Eravamo Da Panorama del 04 aprile 1991 «Siamo come l'araba fenice. Risorgeremo». Con quel sorriso pallido che è diventato il simbolo della tragedia palestinese, Yasser Arafat ripete in questi giorni lo slogan orgoglioso del perdente. Dal fondo del suo bunker di Tunisi, il capo dell'Olp misura l'abisso in cui una guerra combattuta dalla parte sbagliata ha precipitato la sua organizzazione e il popolo che rappresenta. Una nazione di cinque milioni di persone che da 40 anni lotta, sogna e muore alla ricerca vana di uno Stato. Scelte avventate, dichiarazioni incendiarie, previsioni smentite dai fatti: forse Arafat riuscirà ancora una volta a rinascere dalle proprie ceneri, ma è certo che, prima e durante la disfatta militare di Saddam, ha fatto di tutto per minare la credibilità internazionale della sua causa. Ora cerca un posto al tavolo delle trattative, giocando le carte dell'ambiguità e dell'oblio. Ma suggeriscono gli esperti ad aiutarlo non sarà la memoria corta dei suoi avversari, bensì l'enormità del paradosso storico che non è riuscito a sciogliere. E che la guerra del Golfo ci riconsegna intatto: la questione palestinese rimane l'ostacolo più grave sulla strada del nuovo ordine che Bush e gli altri vincitori vorrebbero imporre al mondo. "Olp, oil" grida Arafat a chi lo incontra in questi giorni. Uno slogan singolare, inventato sul momento di fronte a centinaia di giornalisti che, qualche settimana fa, in un albergo di Amman, gli chiedevano ragione della disfatta. Due parole brevi, come per dire: fin che ci sarà il petrolio, fino a che l'Occidente avrà interessi in questa regione, ci sarà sempre una Olp a ricordare che i palestinesi devono avere una loro patria, una loro terra, un loro Stato. In questo numero speciale dedicato al labirinto palestinese, Panorama offre ai suoi lettori un ritratto comprensivo dei senzaterra del Medio Oriente: da dove vengono, come vivono, che cosa chiedono, chi li rappresenta, che cultura esprimono, che rapporti intrattengono con i "fratelli" arabi e con i nemici israeliani. E, quali soluzioni si profilano per il loro problema.
Il primo passo per capire è la cronaca della crisi e della guerra del Golfo. Il 2 agosto del 1990, quando le truppe irachene invadono il Kuwait, i palestinesi scoprono improvvisamente in Saddam Hussein il loro avvocato. Oggi si può dire che è stato l'avvocato delle cause perse. Ma allora? La guida politica dei palestinesi, l'Olp, era isolata e immobile. I colloqui di Tunisi con gli americani erano interrotti da due mesi per via di un assurdo attacco di commando palestinesi alle spiagge di Israele. I Paesi arabi del Golfo davano soldi, utili soltanto a mantenere la gigantesca burocrazia dell'Olp, ma non muovevano un dito presso i loro amici occidentali. Gli altri Paesi arabi che contano non erano da meno: la Siria di Hafez Assad metteva addirittura in carcere centinaia di militanti palestinesi, l'Egitto di Hosni Mubarak li teneva alla larga. Poi c'erano le spinte centrifughe, dal basso. L' intifada, la rivolta popolare, correva il rischio, specialmente nella striscia di Gaza, di essere presa in mano dai fondamentalisti islamici palestinesi di Hamas. Ai sassi si stavano sostituendo i coltelli. I campi profughi di Giordania e Libano ribollivano: dopo il 2 agosto, lì come nei territori occupati, sparivano i ritratti di Arafat e comparivano, sempre più numerosi, quelli di Saddam Hussein. Ecco allora la scelta guerresca, dalla parte sbagliata, del leader dell'Olp. Obbligata o dovuta alla scarsa preveggenza del capo? Lo dirà la storia. Oggi, proprio come l'araba fenice, Arafat può persino presentare un piano di pace con Israele che prevede, anche, la possibilità di concessioni territoriali in Cisgiordania. "Pagliacciate" replica Israele. Ma qualcosa si sta muovendo. Certo, il ritorno al gioco politico e diplomatico non può cancellare gli abbagli di Yasser Arafat durante la guerra del Golfo. Il rosario degli errori comincia domenica 13 gennaio, il giorno dell'ultimo colloquio, a Baghdad, tra il segretario delle Nazioni Unite, Pérez de Cuéllar, e Saddam Hussein. Due ore decisive: Saddam non cede di un passo. Quelle due ore rendono inevitabile una guerra ormai voluta da Saddam e, a quel punto, dagli Stati Uniti. Ma Arafat, a sera, improvvisa una conferenza stampa nella residenza dell'ambasciatore palestinese a Baghdad. "La porta della pace è aperta" dice. E per tre volte ripete: "Non ci sarà guerra". E' aggrappato all'immagine deformata di un Saddam difensore della causa palestinese. Non sa che, poche ore prima, il presidente dell'Iraq aveva strabiliato Pérez de Cuéllar non citando mai, per due ore, il problema dei palestinesi, non chiedendo nulla per loro. Il famoso linkage, il legame tra Kuwait e Palestina, non era mai entrato nella testa di Saddam, era un espediente per tirare dalla sua parte i palestinesi. Ma Arafat ci crede, né l'assassinio, a Tunisi, lunedì 14 gennaio, del suo numero due, Abu Iyad, che aveva appena detto, in un'intervista, di non credere al linkage, gli fa cambiare idea. Quando, tre giorni dopo, la guerra comincia, l'Olp chiama "gli arabi e i musulmani a opporsi all'aggressione americana, europea e sionista contro un Paese fratello" e il primo consigliere di Arafat, Bassam Abu Sharif, prevede: "La guerra durerà molto più a lungo di quanto la gente pensi". Le masse arabe, se si esclude qualche manifestazione nel Maghreb, qualche marcia di studenti in Egitto e il cocciuto silenzio pro - Saddam in Giordania, non si sono mosse in favore di Saddam e la guerra è stata breve. Venerdì 18 gennaio è giorno di festa per i palestinesi: il primo missile iracheno Scud colpisce Israele. Nei territori occupati della Palestina, in pieno coprifuoco, i giovani ballano e cantano di gioia sui tetti delle case. "Saddam, colpisci con le armi chimiche" gridano. In una manifestazione, la prima e l'unica, allo stadio di Amman, uno degli slogan è: "La vittoria sarà per gli arabi. Dio lo ha voluto". Arafat sposa il fanatismo popolare. "Gli Scud stanno sgonfiando il pallone israeliano" dice. E, ad Amman: "Questi sono giorni gloriosi per la nostra nazione araba, perché siamo testimoni di un' epica e leggendaria determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam". Non si frena il capo dell' Olp: "La guerra durerà trenta mesi". "Davanti alle stesse armi, nel 1982, a Beirut, io ho tenuto duro tre mesi su nove chilometri quadrati". Più tardi, Arafat arriverà a immaginare un giorno futuro in cui lui e Saddam andranno a pregare insieme alla moschea di Gerusalemme e a sostenere che l'uso del napalm da parte degli americani "offre le ragioni e il diritto, all' esercito iracheno, di usare le armi chimiche". L'effetto immediato dell'offensiva oratoria del leader dell' Olp è un forte inasprimento, da parte di Israele, del coprifuoco nei territori occupati. Il primo ministro Yitzhak Shamir dice: "La posizione dell' Olp annulla le decisioni adottate due anni fa, ad Algeri, dal Consiglio nazionale palestinese sulla coesistenza di due Stati sul territorio dell' antico Mandato della Palestina". Il ministro degli Esteri David Levy è ancora più drastico: "Arafat si è escluso da solo da qualunque futuro tavolo di trattativa". E il neoministro Rehavam Zeevi, leader del gruppo di estrema destra Moledet (Patria), può affermare: "Due popoli non possono abitare nello stesso Paese. Altrimenti lo spargimento di sangue sarà continuo. Dobbiamo arrivare a una divisione". Persino la sinistra israeliana cambia parere su Arafat. "Per il futuro non ho dubbi che l'Olp debba essere considerata un interlocutore" è il parere di Dedi Zucker, leader del Movimento dei diritti dei cittadini. "Ma il problema è chi andrà a dirigerla. Io mi aspetto che la gente dei territori occupati avrà un peso ben maggiore rispetto alla direzione tradizionale dell'Olp". La politica troppo apertamente filo - Saddam di Arafat crea malumori nella stessa Olp e getta scompiglio fra i palestinesi. Il primo a parlare chiaro è il sindaco cristiano di Betlemme, Elias Freij. "Dire che tutti i palestinesi sono con Saddam è sbagliato. I palestinesi sono stufi e indignati per il doppio standard adottato dagli Stati Uniti verso l'Iraq e verso Israele. Ma ogni occupazione è illegale. Per quanto riguarda l'Olp, non ha mai perduto l'occasione per perdere un'occasione. Anche in questo caso". Freij sostiene che i palestinesi, anche per le posizioni prese dalla loro guida politica, sono le prime vittime della crisi e della guerra del Golfo. L' elenco dei danni è lungo: un coprifuoco lungo e duro, le esportazioni di agrumi e olio bloccate, quattro miliardi di dollari dell' Olp custoditi nelle banche del Kuwait rubati dagli iracheni e mai restituiti, 60 milioni di dollari l' anno offerti dai ricchi Stati del Golfo congelati così come i 250 assicurati dall' Opec, le rimesse dei 700 mila palestinesi che lavoravano in Kuwait e nel Golfo scomparse, con una perdita totale di 15 miliardi di dollari. Non è ancora la bancarotta perché l'Olp ha investito nel mondo, da Wall Street alle filiali della Arab Bank, 18 miliardi di dollari, ma per la vita dei quasi due milioni di palestinesi dei territori il colpo è stato duro. I leader dell'Olp si accorgono di quanto l' interesse per la Palestina sia strumentale alla vigilia della battaglia di terra. Nel piano di pace confusamente concordato in extremis tra Mosca e il ministro degli Esteri iracheno, Tareq Aziz, scompare il linkage. Saddam non pone più, tra le condizioni del ritiro, la soluzione del problema della Palestina, e il 26 febbraio, nel discorso radiofonico della sconfitta, infila una frase che è una pietra tombale: "La questione palestinese, per ora, può aspettare". Il giorno dopo, nei campi palestinesi, a mezza voce qualcuno comincia a dire: "Ci siamo messi con i perdenti". O anche: "Nei decenni ci hanno tradito tutti: americani, europei, le Nazioni Unite, governi arabi. Ora ci ha tradito anche l'Olp". Per Arafat, bloccato a Tunisi, incapace di prendere decisioni, sembra giunto il giorno della disfatta. Ma, come dice lui, l'Olp è come l' araba fenice. L ' occasione per il ritorno in gioco è la visita del segretario di Stato americano, James Baker, a Gerusalemme, martedì 12 marzo. Baker vuole incontrare dieci personaggi palestinesi eminenti dei territori occupati. A Tunisi, Arafat vince l' opposizione dei duri dell'Olp, George Habbash, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, e Nayef Hawatmeh, leader del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che si opponevano a un incontro con la delegazione americana, e dà le sue indicazioni per la composizione della delegazione palestinese, guidata da un moderato di grande nome, Faisal Husseini, direttore del Centro studi arabi di Gerusalemme est. Husseini e i nove saggi fanno capire a Baker che tutto si può discutere, ma che trattare senza l'Olp non è proprio possibile. Il giorno dopo, Bassam Abu Sharif, il consigliere di Arafat, intervistato dalla tv londinese Sky News, annuncia che l'Olp ha "nuove idee" e che i confini del futuro Stato palestinese "sono negoziabili". Sul momento viene smentito da Tunisi, ma si capisce benissimo che dietro il giallo c'è la mano di Arafat che, smessi i panni guerreschi, è tornato a fare il suo vecchio mestiere: il diplomatico.
Così Gaza è caduta in mano agli estremisti: dalla convivenza tra palestinesi e israeliani al regime di Hamas. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2023.
Per 15 anni, dal 1967, gli israeliani hanno «frequentato» negozi e ristoranti. Ma il disastro covava sotto traccia: ora Gaza è una prigione a cielo aperto lunga 48 chilometri e larga 9
Non è sempre stato così. Una volta, circa quattro decadi fa, gli israeliani residenti nei kibbutz e paesini oggi devastati dai pogrom assassini dei fanatici di Hamas si recavano sul lungomare di Gaza a comprare il pesce, pranzavano ai ristorantini del porto, acquistavano per pochi shekel i pomodori e la frutta sui mercati locali. Capitava di trovare mamme israeliane con i bambini nei vicoletti dei campi profughi per visitare la famiglia della babysitter palestinese, mentre il marito si recava dall’imam della moschea vicina per reclutare operai per la sua industria di Tel Aviv.
Gli abitanti della quindicina di colonie ebraiche costruite nella Striscia di Gaza dopo la sua occupazione nel 1967 si mischiavano senza troppi problemi con i locali. Non c’erano muri o barriere elettroniche sul perimetro della Striscia , se non qualche filo spinato arrugginito messo da egiziani e israeliani nel 1948.
Ai posti di blocco i soldati controllavano distratti le carte d’identità del circa mezzo milione di pendolari che si recavano nei cantieri e sulle piantagioni israeliani. Anzi, molti di loro non tornavano a casa: dormivano sui posti di lavoro. Raccontato oggi sembra di parlare di un pianeta assolutamente altro, e infatti lo è . Per ben oltre un quindicennio dopo la guerra del 1967 la popolazione israeliana e i palestinesi abitanti nella Striscia, per la stragrande maggioranza profughi dalle località nel sud della regione abbandonate al tempo del conflitto che aveva portato alla nascita di Israele vent’anni prima, beneficiarono di quella che era definita la «politica dei ponti aperti» voluta dall’allora ministro della Difesa Moshe Dayan.
L'annessione strisciante
Ufficialmente Gaza e Cisgiordania erano territori occupati (non però Gerusalemme Est, che sarebbe stata annessa quasi subito) da rendere in cambio della pace con gli arabi. Di fatto, però, iniziò presto una forma di annessione strisciante fondata sull’impiego della mano d’opera araba nel sistema economico israeliano. In quei primi anni quasi non ci fu resistenza da parte araba, la gente era come annichilita dalla soverchiante potenza dello Stato ebraico. E infatti la battaglia contro Israele fu per lungo tempo condotta dall’Olp di Yasser Arafat, che operava dall’estero e si richiamava ai movimenti socialisti della decolonizzazione legati all’Unione Sovietica. Fu allora che Israele, in chiave anti-Olp, scelse di lasciare crescere le organizzazioni caritative e di mutuo soccorso ispirate ai Fratelli Musulmani, che in particolare a Gaza guardavano all’Egitto.
L’Olp sembrava relegato alla diaspora, Israele traeva profitto dallo status quo. Ma nel dicembre 1987 fu lo scoppio dell’intifada, la rivolta popolare dei palestinesi nei territori occupati , a demolire l’illusione israeliana dei «ponti aperti» a costo zero. Pochi mesi prima David Grossman nel suo Vento Giallo aveva già messo in guardia. «L’occupazione corrompe i palestinesi e corrompe noi israeliani. Ma non può durare, il malcontento arabo sta per esplodere», avvertiva lo scrittore.
Lo sceicco Yassin
I palestinesi per la prima volta prendevano in mano il loro destino con un movimento di protesta autoctono che non dipendeva dall’Olp. L’anno dopo lo sceicco tetraplegico Ahmed Yassin dalla sua casa nel cuore di Gaza annunciava la nascita di Hamas, che negava qualsiasi possibilità di compromesso con gli «Yehud», gli ebrei , rifiutava l’approccio nazionalista laico dell’Olp e in nome di Allah invocava il diritto sacro del suo popolo al controllo di tutta la Palestina. Da allora lo scontro aperto tra Hamas, radicata più a Gaza, e l’Olp, sempre meno forte in Cisgiordania, corre parallelo a quello contro Israele.
L’intifada bloccò la coesistenza pacifica tra le due popolazioni. Pochi anni fa il proprietario di un noto ristorante di Gaza guardava ancora con nostalgia alle foto della sua sala affollata da clienti di Ashkelon e sospirava raccontando della sua amante ebrea di Tel Aviv che non può più incontrare.
Il ritiro del 2005
Gli anni Novanta conducono direttamente alla situazione di oggi. S’inaugura la stagione del terrorismo kamikaze islamico. Gli attentatori si fanno esplodere tra la gente nei ristoranti, bus e discoteche nel cuore di Israele: ogni palestinese è un sospetto. Gaza diventa una prigione a cielo aperto lunga 48 chilometri e larga mediamente 9, abitata da poco meno di due milioni e mezzo di persone (circa il 40% ha meno di 14 anni, circa il 22% ha tra i 15 e i 24 anni).
Le cose peggiorano dopo che un estremista ebreo assassina il premier Ytzhak Rabin imputato di «tradire» Israele stringendo la mano ad Arafat. Nel 2005 Israele evacua i circa 15.000 coloni ebrei di Gaza, ne approfittano gli islamici che accusano l’Olp di corruzione e collusione col nemico.
Nel 2006 Hamas vince le prime elezioni democratiche della storia palestinese. L’anno dopo i militanti armati islamici scacciano e uccidono gli attivisti dell’Olp. Seguono le vampate di violenza degli ultimi anni, ogni volta più gravi e sanguinose di quelle precedenti. Nel 1987 i palestinesi tiravano pietre e parlavano ebraico, mentre gli israeliani cercavano di usare lacrimogeni e proiettili di gomma: oggi gli islamici ricorrono alle modalità del Califfato e i razzi israeliani devastano interi quartieri.
Cosa sono l’Olp e al-Fatah, le organizzazioni militari e politiche palestinesi. Da Arafat ad Abu Mazen e alla nascita dell'autorità nazionale della Palestina (Anp). La storia di chi ha rappresentato il popolo palestinese, tra intifade e faide interne al mondo arabo. Redazione Web su L'Unità il 13 Ottobre 2023
Tutto ha avuto inizio nel 1959 in Kuwait. Un certo Yasser Arafat, insieme ad altri 20 attivisti palestinesi, diede vita ad al-Fatah, organizzazione che diventerà il corpo primario della lotta armata contro Israele. Entrata a far parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), nel 1994 – in seguito agli accordi di Oslo – è diventata un movimento di controllo della neonata Autorità nazionale palestinese (Anp). Quest’ultima avrebbe dovuto governare i territori palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Il primo Presidente è stato proprio Arafat. Dopo la sua morte nel 2004, gli è succeduto Mahmūd Abbās, ovvero Abu Mazen.
Cosa sono l’Olp e al-Fatah, le organizzazioni militari e politiche palestinesi
Dal 2006, è esploso il conflitto civile interno alle autorità palestinesi. A scalzare il primato elettorale e di consenso di al-Fatah, ci ha pensato l’organizzazione terroristica di Hamas che dopo aver preso il controllo della Striscia di Gaza, ha espulso o ucciso i membri di al-Fatah che nel frattempo ha mantenuto il suo esecutivo a Ramallah in Cisgiordania. Intanto, negli ultimi anni, sull’Anp sono iniziate a piovere accuse sia di corruzione nei confronti dei suoi leader ed esponenti, sia di finanziamento di gruppi armati. L’Autorità nel 2013 ha adottato il nome di Sato di Palestina, nonostante i due enti siano di fatto distinti. Principali suoi finanziatori sono l’Unione Europea e diverse organizzazioni comunitarie.
L’Olp e Arafat
La Lega araba ha da sempre considerato l’Olp la legittima “rappresentante del popolo palestinese” (1974). Gerusalemme, maggio del 1964 da una riunione alla quale hanno partecipato 422 personalità nazionali palestinesi, furono poste le basi per la lotta armata con l’obiettivo di liberare la Palestina. Lo statuto originario dell’organizzazione non ha mai citato la fondazione di uno stato palestinese ma di un’entità indipendente nei territori del post-mandato britannico. Nel 1988 è stata invece dichiarata la convivenza tra lo stato palestinese e quello d’Israele con il primo ad avere Gerusalemme Est come capitale. Il 1994 è stato l’anno di svolta grazie agli accordi di Oslo: il patto tra Arafat e Rabin permise il rispettivo riconoscimento dei due stati e dell’Olp come rappresentante istituzionale dei palestinesi. Questo impedì che l’Olp fosse riconosciuta come organizzazione terrorista.
Politica e armi
Tuttavia, un report del “National Criminal Intelligence Service“, targato 2002, ha affermato che l’Olp è stata “la più ricca di tutte le organizzazioni terroristiche” (Wikipedia): ben 8 – 10 miliardi di dollari in attività e un reddito annuo di 1,5 – 2 miliardi di dollari da “donazioni, estorsioni, saldi, traffici illegali di armi, traffico di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, frodi, ecc“. Per il The Daily Telegraph, l’Olp nel 1999 aveva almeno 5 miliardi di sterline su conti ad essa riconducibili. L’organizzazione, da un punto di vista gestionale e amministrativo, fa capo a un Comitato – composto da 15 membri – che detta le linee guida ed esecutive nel rispetto dello statuto. Dell’Olp fanno parte almeno una decina di partiti e altrettante organizzazioni tra cui al-Fatah e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp).
Costituzione e faide arabe
“… il diritto del popolo arabo palestinese alla sua sacra patria della Palestina e l’affermazione dell’inevitabilità della battaglia per liberare le sue parti usurpate e la sua determinazione a generare la sua effettiva entità rivoluzionaria e a mobilitare le sue capacità e potenzialità oltre che le sue forze materiali, militari e spirituali“. In queste parole vi sono le linee guida dell’Olp. L’organizzazione, nella quale ha primeggiato il partito al-Fatah, è diventata il principale riferimento della causa palestinese, in seguito alla sconfitta di Egitto, Siria e Giordania contro Israele durante la Guerra dei sei giorni del 1967. Le tensioni con i vicini stati arabi (da ricordare che originariamente la Striscia di Gaza e la Cisgiordania erano sotto il dominio, rispettivamente, de Il Cairo e di Amman), sono esplose con violenza nel 1970, anno del Settembre nero. In questo mese scoppiò una guerriglia tra l’esercito giordano e le milizie palestinesi. Lo scontro vide vincere i primi e soccombere i secondi, che poi furono espulsi dal regno.
Il ‘Manifesto’
Nel 1974 l’Olp entrò a far parte ufficialmente della Lega Araba. Qui dinanzi, a Rabat, il leader Arafat si guadagnò la legittima paternità di quello che era ufficialmente diventato il movimento a difesa della causa palestinese. Nacque così un manifesto strutturato in 10 punti che spiegavano la nascita di uno Stato Palestinese. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 esplose la guerra in Libano prima con Israele e poi quella civile. L’Olp ha prima combattuto contro i maroniti, poi contro le truppe israeliane e infine contro le milizie arabe di Amal provenienti dalla Siria. Gli scontri assestarono un duro colpo ad Arafat e l’Olp dovette trovare esilio e rifugio in Tunisia.
Le intifade
La prima intifada esplose nei territori occupati nel 1987. Nel 1988 il Regno di Giordania, scisse dal suo territorio l’attuale Cisgiordania. Per l’occasione fu proclamata la Dichiarazione d’indipendenza palestinese e uno Stato indipendente della Palestina. Quando furono stilati gli Accordi di Oslo, ai capi dell’Olp fu concesso di fare rientro in Medio Oriente e Arafat promise a Rabin di eliminare dallo statuto e dal manifesto, qualsiasi riferimento alla distruzione e non accettazione di Israele. Per quanto riguarda l’Onu, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha concesso lo status di osservatore all’OLP il 22 novembre 1974. Il 12 gennaio 1976 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato a favore dell’Olp, affinché l’organizzazione potesse partecipare al dibattito all’interno del Palazzo di Vetro, senza diritto di voto: un privilegio normalmente riservato ai soli componenti delle Nazioni Unite. Redazione Web 13 Ottobre 2023
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” martedì 7 novembre 2023.
A […] Mohammed Dahlan […] è sempre piaciuto viaggiare, esplorare la bella vita — dicono i critici — lui che è venuto su tra i cubi non intonacati di Khan Yunis, a giocare per le strade immiserite con Yahia Sinwar, nati a un mese di distanza nel 1961.
Cresciuti insieme, diventati adulti su barricate opposte: l’attuale capo di Hamas con i fondamentalisti che da subito vogliono scalzare il Fatah di Yasser Arafat, mentre Mohammed diventa il plenipotenziario del raìs a Gaza.
Dahlan fa parte della nuova generazione, i giovani — almeno rispetto ai padri fondatori della causa — che finiscono nelle carceri israeliane durante la seconda intifada, che in prigione imparano l’ebraico e ne fanno uno strumento di strategia, il linguaggio per parlare con l’avversario, per tentare — quando è possibile — il dialogo.
A lui gli israeliani parlano tanto e questo ai palestinesi finisce con il piacere poco. Abu Mazen — che ha sempre rinviato il voto dopo quello del 2005 che l’ha eletto presidente — lo considera un avversario, un manovratore, essere stato a capo dei servizi segreti ha insegnato a Mohammed come muoversi tra vari poteri.
Lo accusa di tradimento, di complotto per deporlo, di aver passato ai giornali arabi le carte che rivelano gli intrallazzi e la corruzione dei due figli.
Dahlan non può tornare a Ramallah, rischierebbe l’arresto.
Ma si tiene in forma — 90 minuti di corsa al giorno ¬— per quando potrebbe trovarsi a sprintare verso il traguardo.
Vive ad Abu Dhabi dove ha accumulato milioni di dollari e influenza sulle decisioni dell’emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Ancora una volta per l’anziano presidente, 87 anni, la prova che l’esiliato trama perfino a 2.400 chilometri di distanza, avrebbe negoziato per permettere gli accordi di Abramo, l’intesa di normalizzazione con Israele firmata dagli Emirati Arabi Uniti e considerata da Abu Mazen «una pugnalata alle spalle» dei palestinesi.
Dahlan ha mantenuto i contatti anche da lontano ed è convinto, spiega al settimanale britannico Economist , che nessun singolo leader — sottinteso: per ora neppure lui — possa prendersi la Striscia dopo Hamas, dopo la fine della guerra.
Propone un governo di transizione che amministri i territori (Cisgiordania compresa) per un paio d’anni: formato da tecnocrati, un passaggio necessario per sanare il lungo periodo di lotte interne e spaccature tra le fazioni. Paesi come gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania, il Qatar dovrebbero intervenire per finanziare e sostenere l’esecutivo ad interim.
Dopo questo periodo — sarebbe il suo piano — i palestinesi potrebbero finalmente tornare a votare per il parlamento e a Hamas, che aveva vinto nel 2006, dovrebbe essere permesso partecipare. Il sistema dovrebbe essere modificato: più poteri al primo ministro e riduzione di quelli del presidente. «Che un uomo solo possa risolvere la questione palestinese è un’illusione. Il tempo degli eroi è finito con Arafat».
Fondamentalismo. Cos’è Hezbollah, l’apparato politico-militare terrorista che governa il Libano per l’Iran. L'organizzazione islamista sciita e fortemente anti sionista, è responsabile del degrado socio-economico del 'Paese dei Cedri' e dell'aumento dell'escalation militare con Israele. Redazione Web su L'Unità l'11 Ottobre 2023
Hezbollah, tradotto Il Partito di Dio, è un’organizzazione para-militare, legata all’Islam sciita e diventata anche partito politico. Nata nel 1982 in Libano, ha attualmente come segretario Hassan Nasrallah. L’alleato e sostenitore, nonché principale finanziatore del gruppo, è l’Iran. La Repubblica Islamica ha fatto si che Hezbollah di fatto governasse il Paese dei Cedri e costituisse una milizia più numerosa, forte e meglio equipaggiata dell’esercito regolare libanese. Il Partito di Dio è uno degli acerrimi nemici di Israele. È utilizzato dagli Ayatollah per scatenare attacchi nel Nord dello Stato Ebraico.
Cos’è Hezbollah
Negli ultimi anni, Hezbollah è stato molto interventista e la sua azione si è allargata tanto fuori dal Libano. Basti pensare ai massacri condotti in Siria (sempre su mandato dell’Iran) in favore del regime degli Assad durante la guerra civile. L’obiettivo della Repubblica Islamica è quella di tenere un asse sciita che circondi Israele e limiti l’influenza sunnita dell’Arabia Saudita. Oltre alla Siria e al Libano, infatti, rientra nella sfera di influenza iraniana anche l’Iraq. Ma è con l’ultima guerra scatenata contro lo Stato Ebraico che Hezbollah e l’Iran hanno sdoganato le proprie azioni terroristiche: il loro appoggio militare, strategico, logistico, d’intelligence e finanziario in favore di Hamas ormai non è più in mistero. Inoltre, in Libano si sono rifugiati alcuni dei leader dei miliziani che governano a Gaza.
Le origini del terrore
Addestrati dal Corpo delle guardie della rivoluzione islamica per combattere in Libano, la guerra contro Israele prima e quella civile poi, Hezbollah si è subito resa protagonista di uno degli attacchi suicidi più terribili della storia mediorientale: era il 1983, quando in un duplice attentato alla forza di pace internazionale a Beirut ovest morirono 241 marines statunitensi e 56 parà francesi. Anche Il Partito di Dio spicca per il suo radicalismo, la sua violenza e il suo fondamentalismo islamico. Nel 1992, Abbas Al-Musawi il suo leader e predecessore di Nasrallah, è stato ucciso per mano israeliana.
Il ruolo dell’Iran e la Comunità Internazionale
Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Egitto, Israele, Australia, e Canada considerano Hezbollah un apparato terrorista. L’Unione Europea no, anche se il Parlamento Europeo ha votato sul tema una mozione non vincolante nel 2005. L’Onu non ha chiesto di inserire Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche ma di smantellarne l’ala militare. Hezbollah conduce attività economico – sociali che le consentono di essere molto legata alle parti più povere della popolazione. Il Partito di Dio si occupa infatti, di finanziare servizi sociali, scuole, ospedali e servizi agricoli. Questo gli consente di avere un forte controllo e potere politico in Libano.
Il simbolo
Un drappo giallo al cui centro campeggia parte di un versetto del Corano, sūra V, versetto 56, che recita: “E colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il partito di Dio (hezbollah), che avrà la vittoria“. Questo è l’emblema di Hezbollah. La lettera alif, prima lettera del nome di Dio, è graficamente resa come una mano che stringe un fucile d’assalto stilizzato ed è affiancata da una rappresentazione schematica del globo terrestre. Peccato che il Signore decantato dagli Hezbollah, il Libano l’abbia dimenticato: il paese versa da anni in una grave condizione socio-economica e sanitaria. Redazione Web 11 Ottobre 2023
Chi sono i Fratelli Musulmani, l’organizzazione politico islamica nata in Egitto e diffusa in tutto il mondo. La nascita nel 1928, fondata da Hasan Al Banna. La clandestinità e le persecuzioni fino all'elezione di Morsi, deposto dal golpe del generale al Sisi. Il movimento radicale musulmano. Redazione Web su L'Unità il 18 Ottobre 2023
Karim Benzema ha legami con i Fratelli Musulmani. Lo ha dichiarato in diretta televisiva, a CNews, il ministro degli Interni Francese Gérald Darmanin. Un’accusa pesante per il calciatore di origini algerine ex Real Madrid e Pallone d’Oro, da questa estate in forza all’Al Ittihad in Arabia Saudita nei giorni del conflitto esploso in Medio Oriente e dei nuovi attentati jihadisti in Europa. Benzema è stato accostato alla principale organizzazione islamico religiosa, appartenente al ramo sunnita, per anni costretta a vivere in stato di clandestinità, che ha fatto proseliti in tutto il mondo arabo e in Europa, che per anni ha contrastato Israele e finanziato le attività di Hamas ed Hezbollah. È considerato comunque un partito radicale quando non un movimento terrorista, anche se alcuni suoi membri hanno espresso negli anni posizioni più moderate.
I Fratelli Musulmani sono stati fondati nel 1928 a Ismaliya, nei pressi del Canale di Suez, da Hasan al Banna in Egitto. L’obiettivo era quello di mettere al centro della vita sociale e politica l’Islam, di combattere l’occidentalizzazione dei costumi e di modernizzare il Paese. L’Egitto in quel periodo era una monarchia semicoloniale sotto la protezione britannica. L’organizzazione si strutturò nella società, a partire dalle classi sociali più popolari e meno abbienti, grazie alla diffusione di centri di islamizzazione, sul modello dello scoutismo, che offrivano assistenza economica ed educativa.
Il movimento divenne in poco tempo molto popolare, contribuendo alla crescita di sentimenti nazionalisti. Al Banna però venne assassinato da agenti monarchici nel 1949. Il generale Jamal Abd el-Nasser, salito al potere con un colpo di Stato nel 1952, dapprima intrattenne un atteggiamento dialogante e tollerante con l’organizzazione, poi, dopo aver accusato gli stessi Fratelli di un fallito attentato ai suoi danni, lanciò una vera e propria campagna di repressione con arresti, torture e condanne a morte. I membri apicali del movimento lasciarono l’Egitto per altri paesi arabi. Siria, Giordania e Arabia Saudita soprattutto.
Quella rete di una decina di migliaia di sostenitori si allargò a tutto il mondo arabo e musulmano, fino a Malesia e Algeria. Una rete finanziaria oltre che politico-religiosa, attiva anche in Europa dalla fine degli anni Settanta. Il genero di al Banna, Said Ramadan, fondò diversi centri islamici in Europa. Le porte del Parlamento per i Fratelli musulmani si riaprirono con la presidenza di Hosni Mubarak anche se soltanto come affiliati ad altri partiti. A Lugano, nel 2001, nell’ambito di indagini scattate dopo gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, nelle perquisizioni delle abitazioni di alcuni dirigenti della banca islamica di al Taqwa, è stato ritrovato il documento ribattezzato “La strategia finanziaria dei Fratelli Musulmani” che descriveva la rete di finanziamenti dell’organizzazione. Il giornalista Sylvan Besson scrisse a proposito il libro La conquista dell’Occidente.
Con lo scoppio delle Primavere Arabe e le dimissioni dopo trent’anni al potere di Mubarak, il braccio politico dei Fratelli, il partito Libertà e Giustizia, ottenne 235 seggi in Parlamento su 498. Il candidato Mohamed Morsi nel 2012 divenne il primo presidente egiziano democraticamente eletto, salvo poi essere sollevato dopo un anno da un colpo di Stato. Durante il suo anno di governo aveva intrattenuto relazioni distensive sia con gli Stati Uniti che con Israele, d’altra parte era stato accusato di aver provato a esautorare il potere giudiziario a suo favore. Gli oppositori temevano una deriva autoritaria improntata alla Sharia, la legge islamica. Quando migliaia di persone scesero in piazza a protestare, i militari si schierarono dalla parte dei manifestanti.
Il generale Abdel Fattah al Sisi, nominato ministro della Difesa nel governo Morsi, divenne Presidente e mise fuorilegge, come “organizzazione terroristica”, il movimento dei Fratelli Musulmani. A luglio del 2014 è stato condannato a morte il leader Mohammad Badie e altri 182 militanti. Badie sosteneva la Jihad come obbligo personale di ogni musulmano. “Sono un membro della Fratellanza musulmana, non un terrorista”, l’editoriale che nel 2017 era apparso sul New York Times a firma Gehad El Haddad, considerato il volto moderato del movimento ma comunque incarcerato in Egitto. Il movimento è stato definito terrorista anche da Emirati Arabi, Bahrein, Russia e Arabia Saudita. Molti dei membri dei Fratelli Musulmani sono incarcerati e condannati in Egitto. Lo stesso Morsi è stato detenuto fino alla sua morte nel 2019. Il presidente eletto ha rappresentato l’apice della traiettoria dell’organizzazione. I principali sponsor della Fratellanza oggi sono considerati il Qatar e AKP, il Partito della Giustizia e dello sviluppo, del Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. Redazione Web 18 Ottobre 2023
La guerra dei due estremisti e la religione come via di pace. Francesca Chaouqui su L'Identità il 12 Ottobre 2023
Ancora oggi ai più non sono chiare le dinamiche che muovono ebrei, arabi palestinesi e sionisti a farsi la guerra tra loro. Nel calderone tutti hanno colpe e tutti sono vittime ma ormai è chiaro che non si tratta di una guerra di religione perché c’è stato un tempo in cui il rispetto delle culture diverse garantiva la convivenza pacifica. Una terra, un piccolo spazio nel Medio Oriente tra l’Egitto e la Siria, una storia che si perde nei secoli, un territorio protagonista nelle Sacre Scritture, una fede – il giudaismo – che si ritrova sorella dell’islamismo in virtù della comune discendenza abramitica.
Dalla Torah al Corano non c’è traccia di superiorità o prevaricazione, di violenza e cattiveria, ma l’invito comune all’amore per il prossimo, alla pace tra le genti, al cammino della vita per incarnare le virtù. Il popolo ebraico, popolo eletto dal proprio Dio, è il popolo in cammino per antonomasia, il popolo che ha lasciato la sua terra per intraprendere un percorso per quarant’anni senza conoscere la meta; un popolo che si è fidato ciecamente del proprio Dio e si è spogliato di tutto il superfluo per vivere dell’essenziale, dell’insegnamento di Dio; un popolo che ha lottato contro la schiavitù e l’oppressione prima di raggiungere la terra promessa e liberare con sé simbolicamente l’intera umanità, riscattarla dalla violenza e dalle divisioni per condividere il senso della pace. Ogni cammino è dovizioso di episodi più o meno piacevoli che caratterizza l’identità di una persona, di un popolo che giunto nella terra di Canaan – l’attuale territorio che oggi comprende Libano, Palestina, Siria e Giordania – stabilì le sue radici.
Da ospiti, stranieri, per la loro benevolenza furono accolti come fratelli fino a quando Giuseppe, diventato viceré d’Egitto, chiamò suo padre Giacobbe, soprannominato Israele, ed i suoi fratelli a vivere in Egitto e così riprendere il cammino fondando le dodici tribù d’Israele, ognuna capeggiata da uno dei figli di Giacobbe. Le vicende narrate nei libri sacri a volte non trovano riscontro nella storia, di certo sembra che per molti anni il popolo ebraico abbia vissuto in pace con il popolo arabo, fino a quando per reclutare adepti si è usato il nome della religione per l’istituzione di uno Stato di Israele. Gli ebrei di fede ebraica continuano ancora oggi a non riconoscersi nel movimento sionista che ha un carattere unicamente politico e che vuole imprimere la propria sovranità in una terra, la Palestina, che per la sua natura messianica ha accolto il popolo ebraico. Naturalmente lì dove c’è un conflitto c’è sempre qualcuno che specula, che trae i propri vantaggi, di certo non è a rischio della vita ma sospinge l’una o l’altra fazione e così non si generano le condizioni per un dialogo proficuo, un progetto comune.
I sionisti hanno decretato lo Stato di Israele non richiesto dagli ebrei che vivono la loro religione distaccati dalla politica; gli arabi, nella difesa del loro territorio, non sono riusciti a cogliere la distinzione tra ragioni di fede e ragioni politiche, così al mondo è apparsa una guerra di religione tra ebraismo e Islam e non quella che è una guerra tra estremisti di ambedue le parti, sostenuti dai potenti del mondo che hanno intravisto in quella terra un investimento economico a discapito della vita di molti innocenti. La guerra in atto miete vittime sia tra i musulmani che tra gli ebrei e non in nome della loro religione, che li orienta alla fratellanza umana, piuttosto tra fondamentalisti ebrei, sionisti, e fondamentalisti musulmani, jihadisti, che utilizzano il nome di dio a loro piacimento per distruggere piuttosto che costruire. Come in tutte le guerre ognuno ha le sue verità, di certo da condannare è chi diffonde la cultura dell’odio e della vendetta creando situazioni di discordia e rivendicando la crudeltà per una narrazione del potere che non ha nulla a che vedere con il valore del governare.
Non si tratta più di capire chi ha torto o chi ha ragione, perché nel caos creato nei troppi anni di violenza e devastazione, attacchi a civili e oppressione della libertà, l’unico super partes l’ONU avrebbe dovuto disinnescare le scintille, ma ancora una volta ci si chiede l’utilità di questo organismo senz’anima che ormai sembra non abbia più nulla da dire ai governanti del XXI secolo. Persa la sua autorevolezza, si continua a spargere sangue innocente, in attesa di chi ha maggiori sostenitori e simpatizzanti pronti a rimpinguare le tasche per i rifornimenti di armi e di odio. “Terrorismi ed estremismi alimentano odio violenza e vendetta”, ribadisce il Santo Padre. Serve il coraggio della fraternità per costruire una pace che non sembra essere gradita all’economia mondiale.
Giampiero Mughini per Dagospia il 9 ottobre 2023.
Caro Dago, la prima e unica volta che sono stato in Israele - cinque o sei anni fa - ci ho messo dieci minuti a intendere quanto fossero specialissimi quella terra e quel Paese. Appartenevo a una generazione in cui erano in molti ad accusare gli israeliani di trattare i palestinesi né più né meno di come erano stati trattati nei secoli gli ebrei in Europa: minacciati, reclusi nei ghetti, reputati cittadini di serie B.
Ricordo un corteo sindacale romano, mi pare del 1° maggio, in cui alcuni sindacalisti avevano provocatoriamente deposto una bara innanzi alla porta della Sinagoga romana, e questo perché non ricordo bene quale operazione israeliana aveva provocato delle vittime palestinesi. Fra i miei compagni di generazione erano in molti ad approvare (idealmente parlando) quel gesto.
Tratti generazionali che ben presto volli scrostarmi di dosso.
Quando il 9 ottobre 1982 un gruppo di cinque terroristi palestinesi lanciò una bomba a Roma contro un gruppo di ebrei che uscivano dal Tempio, e ne venne ucciso un ragazzetto di due anni, Stefano Gaj Taché, quella stessa mattina andai a bussare alla Sinagoga e a uno stupito signore che mi aprì la porta comunicai le mie condoglianze e il mio dolore. Molto più tardi avrei scritto appassionatamente del come venne al mondo lo Stato di Israele, e credo siano state pagine tra le più intense che io abbia scritto in vita mia.
Le ho scritte dopo quel viaggio di cui ho detto, dopo averli guardati in volto gli ebrei della terza o quarta generazione che vivevano in Israele e di cui pensavo che fosse la prima generazione di ebrei che non si aspettava che nella loro esistenza il peggio sarebbe venuto da un momento all'altro. E' una sensazione che ebbi fortissima una volta che stavo passeggiando con Michela per una strada di Tel Aviv e ci trovammo fianco a fianco con una coppia di giovani (e bellissimi) israeliani men che trentenni che stavano portando a spasso la bellezza di tre figlioli. Ce l'avevano scritta in volto la gioia di essere al mondo, di essere i genitori di tre figli, di star passeggiando per la strada di una città che non presentava pericoli per loro, come invece era stato per i loro coetanei di Berlino, di Varsavia, di Bucarest della prima metà del Novecento, ma anche per quelli della Roma del 16 ottobre 1943.
Bastava l'espressione del volto di quei due giovani genitori ad affermare la legittimità dello Stato di Israele. Che quello Stato c'è e ci deve essere, e da questo bisogna partire. No, non credevo ai miei occhi nel vedere ieri le immagini di quelle centinaia di giovani ebrei - e tra loro potevano esserci i due genitori che ho detto - che erano andati a far festa e ad ascoltare musica e che si sono trovati a fuggire terrorizzati e che a centinaia sono stati falciati da quegli osceni assassini arrivati da Gaza.
Lo so, lo so, che a partire dal 1946 i palestinesi nati in Palestina stanno pagando un prezzo all'esistenza di questo Stato, loro che pure all'inizio del Novecento avevano accolto senza ostilità l'arrivo dei primo ebrei insediatisi in Palestina. Lo so che ci sono molti bambini palestinesi tra le vittime dei bombardamenti israeliani di ieri.
Solo che la questione è semplicissima. Le due etnie devono convivere le une con le altre, convivere e del resto in Israele c'è e funziona un partito dei palestinesi rappresentato in Parlamento. Gaza, direte, è un'altra storia. No, è Hamas che è un'altra storia, questa gang criminale è un'altra storia. Nel 1993 un ministro israeliano (più tardi ucciso da un criminale ebreo) e Arafat s'erano dati la mano. Quella è e non può non essere la strada. La mano nella mano e andiamo assieme. I morti di tutt'e due le parti di questi ultimi giorni sono tutti da ascrivere all'azione criminale di Hamas. Tutti, dal primo all'ultimo, ivi compresi i poveri bambini palestinesi. Del resto quelli di Hamas a suo tempo avevano preso il sopravvento a Gaza con l'uccidere gli uomini di Arafat. Quello che aveva fatto da cuoco di Abu Mazen, il successore politico di Arafat, lo scaraventarono giù dal terzo piano. Ecco cos'è Hamas.
Veltroni: «Così in una casa di Roma organizzai negoziati segreti tra israeliani e palestinesi». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera giovedì 12 ottobre 2023.
L’ex sindaco di Roma: «Nel 2001 fui contattato da Shimon Peres che mi chiese di organizzare incontri in segreto con i palestinesi».
Scrivo mentre ascolto una ragazza israeliana di venti anni raccontare che non sa più nulla della sua famiglia, che ha visto suo fratello, poco più di un bambino, portato via dai terroristi di Hamas. Scrivo mentre un’altra giovane, piangendo, descrive le immagini, postate su Facebook dagli assassini, del martirio di sua nonna. Scrivo sapendo che la follia dell’assalto di sabato, non altro, ha provocato la tragedia di altri bambini, di altre famiglie innocenti a Gaza e una scia di dolore, disperazione, reciproco odio che durerà per decenni e scaverà solchi ancora più profondi tra due popoli.
L’attacco di Hamas segna una pagina di sangue e di orrore che non può tollerare giustificazioni o equidistanze. Essa porta il mondo intero sull’orlo di una crisi dalle possibili, spaventose, conseguenze. Mentre ascolto queste voci, vedo questi volti, mi tornano in mente i giorni di più di venti anni fa. E la circostanza, di cui sono stato privilegiato testimone, dell’ultima volta che israeliani e palestinesi hanno sottoscritto insieme un documento che immaginava una soluzione stabile per quell’area.
Ero da poco tempo, tre mesi, stato eletto sindaco di Roma. Fui contattato in gran segreto da Shimon Peres, allora ministro degli esteri di Israele, del quale ero amico. Peres, che era molto diverso da Nethanyau, mi chiese di organizzare a Roma degli incontri tra i due capo-negoziatori che avevano definito l’accordo di Oslo, dieci anni prima. Uri Savir, amico e consulente di Peres e Abu Ala, allora presidente del consiglio legislativo palestinese. La condizione che Peres pose è che tutto avvenisse in assoluto segreto, senza coinvolgere altre istituzioni che sarebbero state costrette a riferire ai governi dei due Paesi.
Erano mesi difficili, di piena Intifada. C’erano stati spaventosi attentati a Gerusalemme e Haifa e una successiva, devastante, rappresaglia. Tuttavia questi due uomini, mossi da una volontà di pace, da una fiducia reciproca che nel tempo era divenuta amicizia profonda, per quattro round di colloqui discussero a fondo del modo in cui fosse possibile garantire la difficile coesistenza di due popoli sul territorio. Cominciarono ad agosto del 2001 e finirono a metà dicembre. In mezzo, le Torri gemelle e l’inizio della terribile stagione del terrorismo fondamentalista.
In occasione dell’ultimo meeting venne a Roma Shimon Peres. Aveva un incontro con Ciampi e uno con Berlusconi. nel pomeriggio si fece portare in una casa della provincia di Roma dove noi avevamo fatto arrivare Savir e Abu Ala. Cenammo noi quattro, in un clima di preoccupazione e di speranza. Quella notte, andati via Peres ed io, i due negoziatori lavorarono fino all’alba a un testo che chiamarono «Rome understanding» che si configurava come un piano dettagliato di tappe volte a riconoscere e garantire l’esistenza di due stati e la sicurezza di Israele.
Quel piano Peres lo portò a Sharon che, pur avendo — come Shimon mi disse — dato il suo assenso allo svolgimento dei colloqui, lo fece uscire sui giornali e lo delegittimò. Arafat aveva fatto lo stesso rifiutando a Camp David nel 2000 l’offerta di negoziato di Barak. Anche sul documento di Roma, si fecero sentire negativamente le posizioni dei gruppi palestinesi più estremisti.
Non conta ora, venti anni dopo, il merito di quella piattaforma, che Yael Dayan, figlia di Moshe, giudicò così: «Quel piano può rappresentare una utile base di discussione per una soluzione politica del conflitto israeliano palestinese». Sono passate troppe tensioni, troppo sangue e la situazione, specie per l’affermarsi nell’area di governi fondamentalisti, è e sarà sempre più difficile. Contano tre notazioni: che si può cercare la pace nonostante la violenza. Che sempre gli estremisti, come dimostra Hamas, si alimentano del rifiuto della mediazione, perché prosperano sulle divisioni e si arricchiscono nei conflitti. E che ogni democrazia è sempre, comunque, migliore di qualsiasi dittatura.
L’orrore provocato dalla violenza di Hamas e la inevitabile risposta di Israele sembrano oggi pregiudicare ogni possibilità negoziale. Ma se la strada non può essere, non è, la distruzione reciproca, esiste allora un’alternativa alla fatica della ricerca della pace?
Tutte le tappe del conflitto tra Israele e Palestina. Panorama il 12 Ottobre 2023
Gli eventi degli ultimi giorni hanno riacceso i riflettori sulla contrapposizione, mai del tutto sopita. Ecco cosa è successo dal 1920 a oggi. Gli eventi degli ultimi giorni hanno riacceso i riflettori sulla contrapposizione, mai del tutto sopita, tra Israele e Palestina. Abbiamo quindi stilato una linea temporale, dal 1920 a oggi, che racconta - brevemente - tutte le fasi storiche di questo conflitto. Le radici del conflitto (1920-1948) Nel 1920, dopo la Prima guerra mondiale, la Conferenza di Sanremo assegna il territorio palestinese al Regno Unito, che amministra la regione attraverso il Mandato. Durante questo periodo, Londra consente la creazione di insediamenti ebraici in Palestina, portando la popolazione ebraica da circa l'11% nel 1922 al 32% nel 1947. Questo periodo è segnato da ribellioni arabe. La nascita di Israele (1948) Il 29 novembre 1947, l'Assemblea generale dell'ONU adotta la risoluzione 181 che prevede la spartizione della Palestina in due Stati - uno ebraico e uno arabo - e pone Gerusalemme sotto giurisdizione internazionale. Tuttavia, la comunità arabo-palestinese rifiuta la decisione. Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion proclama l'indipendenza di Israele, scatenando la prima guerra arabo-israeliana. Israele vince il conflitto, conquistando gran parte dei territori palestinesi e provocando l'esodo di 700.000 palestinesi. Conflitti successivi (1956-1973) Nel 1956, Israele invade il Sinai e la Striscia di Gaza in risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell'Egitto. Nel 1967, la "guerra dei sei giorni" porta all'occupazione israeliana della penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, delle alture del Golan. Il 6 ottobre 1973, Egitto e Siria attaccano Israele, scatenando la "guerra dello Yom Kippur". Dopo l'iniziale successo arabo, Israele riconquista il Golan e il conflitto si conclude con il cessate il fuoco imposto dall'ONU. Nel 1979, Israele firma un trattato di pace con l'Egitto. Le Intifade (1987-1993 e 2000-2005) Nel dicembre 1987 inizia la prima Intifada, una protesta contro l'occupazione israeliana che dura fino al 1993, causando numerose vittime. Nel 1987, Hamas viene fondata a Gaza, rappresentando un'organizzazione estremista nei confronti di Israele. Nel 1993, gli Accordi di Oslo prevedono il ritiro israeliano da Gaza e parte della Cisgiordania, ma i negoziati si interrompono nel 1996.
Nel settembre 2000, inizia la seconda Intifada, caratterizzata da un elevato numero di vittime. Israele inizia la costruzione di un muro in Cisgiordania e amplia gli insediamenti, considerati illegali dal diritto internazionale. Il ritiro da Gaza e l'ascesa di Hamas (2005-2007) Nel settembre 2005, Israele si ritira dalla Striscia di Gaza, consegnandola all'Autorità Nazionale Palestinese. Tuttavia, blocca le frontiere e gli accessi, e nel 2006 Hamas vince le elezioni palestinesi e successivamente prende il controllo di Gaza. Le tensioni recenti, l'evoluzione politica e i negoziati (2010- oggi) Negli ultimi anni, le tensioni tra Israele e Hamas persistono. Israele lancia diverse operazioni nella Striscia di Gaza e continua a espandere le colonie nei territori palestinesi. Nel 2020, Israele normalizza le relazioni con diversi Paesi arabi con la mediazione statunitense. Nel maggio 2021, la polizia israeliana irrompe nella Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, scatenando una guerra di 11 giorni tra Israele e Hamas. Nel 2022, il numero di palestinesi uccisi da Israele raggiunge il livello più alto dagli anni della seconda Intifada. Nel dicembre 2022, Benjamin Netanyahu ritorna primo ministro con il sostegno dell'estrema destra israeliana, portando un'ulteriore tensione nella regione. Negli ultimi mesi, Israele ha negoziato un accordo con l'Arabia Saudita simile a quello con gli Emirati Arabi nel 2020.
Magdi Cristiano Allam: “Questa è una guerra santa. L’islam vuole conquistare l’Occidente in ginocchio”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 13 Ottobre 2023
“Siamo di fronte a una guerra santa islamica che vuole distruggere Israele”. A dirlo il giornalista e saggista Magdi Cristiano Allam.
Qualcuno ha parlato di “furia di Hamas”. È d’accordo?
Tempesta al-Aqsa è il nome dato da Hamas alla guerra scatenata il 7 ottobre. al-Aqsa è il nome della moschea, che sorge a Gerusalemme in cui secondo il Corano, nel 621, sarebbe arrivato Maometto da La Mecca in sella a un cavallo alato. Dalla moschea sarebbe asceso al Settimo cielo e avrebbe visto Allah. La verità, però, è che a Gerusalemme nel 621 non c’era nessuna moschea. I lavori di costruzione di al-Aqsa risalgono al 705. Ciò nonostante, i musulmani concepiscono Gerusalemme come un luogo sacro e Israele come terra islamica, a loro parere, usurpata e colonizzata.
Siamo di fronte a una nuova guerra santa?
Lo è per espressa affermazione dei terroristi di Hamas. Non è una guerra per il territorio. Gaza è stata abbandonata dagli israeliani nel 2005. È una guerra religiosa che nega a Israele il diritto a esistere come patria del popolo ebraico.
Nella storia è mai esistito uno Stato palestinese?
Assolutamente no! Lo stesso concetto di popolo palestinese è contemporaneo, tanto è vero che nella risoluzione 181 del 1947 si parla di spartizione tra uno Stato ebraico e un altro arabo, non palestinese.
Stavolta, però, il conflitto va oltre il Medio Oriente. Un esempio l’ultima uscita del consigliere comunale di Monfalcone …
Le autorità italiane dovrebbero vietare tutte le manifestazioni dove si inneggia all’eliminazione di Israele. Si parla di Palestina libera, come se ci fosse un’entità occupante che deve andarsene. In Italia se si fa apologia del fascismo si viene sanzionati. Perché applicare due pesi e due misure?
A proposito di violenza, i nostri magistrati hanno assolto un marito che picchiava la moglie solo perché proveniva da una determinata cultura…
È un Occidente dalla civiltà decaduta, votato al suicidio perché nega sé stesso. Nel momento in cui nello Stato di diritto si fa prevalere la legislazione di un sistema di potere, che concepisce la donna come un essere inferiore e autorizza il marito a picchiare la moglie o a ucciderla qualora dovesse tradirlo, significa che abbiamo perso non solo la certezza di chi siamo, ma la capacità di farci rispettare dentro casa nostra.
Non a caso aumentano le donne islamiche che dicono di avere più diritti nella propria terra d’origine che in Italia…
Se rendiamo possibile che i residenti islamici si comportino conformemente alla Sharia, legge islamica, è del tutto evidente che ci sarà una regressione per una donna musulmana che viene da un Paese relativamente laico, quale può essere la Tunisia o il Marocco. L’intero Medio Oriente era sostanzialmente laico e dopo la sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 5 giugno 1967 è iniziata l’islamizzazione di quelle società.
Cosa potrebbe, intanto, comportare un inasprimento del conflitto?
Qualora Israele dovesse essere sconfitto, rischiamo di trovarci dentro casa quanto si è verificato lo scorso 7 ottobre. Israele va difeso perché è un argine al terrorismo islamico.
In passato ha parlato di strategia dell’islam. Ci spieghi meglio…
L’Europa, così come l’Italia, è già islamizzata per la proliferazione di una rete di moschee, in cui si predica odio e morte nei confronti dei miscredenti. A tutto ciò, poi, bisogna aggiungere il problema del crollo demografico. Il nostro Paese è quello che ha il tasso più basso di natalità in Europa ed è il secondo al mondo per anzianità.
In questo schema rientra pure la questione migranti?
Le Procure hanno attestato che chi sbarca dalla Libia paga 3mila dollari per arrivare qui. Se arriva dalla Turchia ne spende 8mila. Da dove arrivano questi soldi? Ecco perché credo sia una strategia deliberata, pianificata e finanziata, che mira all’islamizzazione dell’Europa. C’è un vuoto demografico nel continente, che purtroppo viene colmato da generazioni islamiche che sottometteranno l’Europa all’islam.
Bisogna, però, dire che non tutti gli islamici in Europa sono estremisti…
Il problema non sono i musulmani in quanto tali. Lo sono stato per 56 anni. È, al contrario, l’islam come sistema di potere. Teniamo presente che nella storia fino a quando i musulmani sono stati una minoranza si sono adeguati, hanno manifestato rispetto e tolleranza. Quando, invece, diventano maggioranza si impongono, obbligano gli altri a sottomettersi. Fino al settimo secolo tutto il Mediterraneo era popolato da cristiani. Oggi, nella sponda orientale e meridionale, sono solo il 5 % della popolazione. Anche l’Europa rischia di fare la stessa fine.
Quella di Hamas contro Israele è l'ennesima guerra Santa in nome dell'Islam. Andrea Soglio su Panorama il 12 Ottobre 2023
L'Isis come modello, la Jihad nello statuto e l'Iran che chiede la mobilitazione di tutti i musulmani. Ancora una volta l'Islam attacca l'occidente Da sabato mattina quando ci siamo svegliati con la notizia dei missili di Hamas su Israele abbiamo letto e sentito decine e decine di autorevoli esperti cercare di dare una spiegazione a questa aggressione terroristica, a questa guerra. Sono state date giustificazioni storiche, politiche, economiche e sociali lasciando sotto traccia quella che forse è la spiegazione più semplice: la guerra di religione. Ancora una volta infatti a premere per primi il grilletto sono stati dei terroristi che hanno nel Corano il loro credo, la loro guida, verso degli Infedeli.
Basta leggersi cosa scrive lo Statuto di Hamas all’articolo 8 per comprendere quale sia l’impronta fondamentalista su tutto questo: «Dio come scopo, il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il jihad come metodo, e la morte per la gloria di Dio come più caro desiderio». La Jihad, la Guerra Santa, è un metodo, un modo di vivere. Scopo di Hamas non è liberare la Palestina e la sua gente ma espandere il mondo fondamentalista islamico. Hamas per prima cosa ha applicato le sue regole sugli stessi palestinesi. Dopo aver vinto le ultime elezioni politiche hanno subito stabilito che non ci sarebbero state più altre elezioni. Via libera quindi ad un regime islamico quasi simile ad esempio a quello voluto dall’Isis. E le similitudini purtroppo con i terroristi dello Stato Islamico non sono solo politiche e religiose: sgozzare persone, decapitare bambini, sparare su innocenti inermi come in un videogame, il tutto sotto gli occhi di decine di telefonini in modo da riempire il mondo di orrore gratuito e paura sono scene già viste anni fa quando le bandiere nere e le tute arancioni delle vittime invadevano web e telegiornali. Una guerra di religione, anzi, una guerra dell’Islam alle altre religioni, prima la cattolica oggi quella ebraica. Se non bastasse lo statuto e le azioni di Hamas a certificare la cosa ecco che dall’Iran e dall’Italia arrivano altre conferme. Oggi Teheran ha invitato «il mondo islamico ad unirsi contri i sionisti». Ecco: mondo islamico, parole scelte non a caso. Non ha parlato di palestinesi o di popoli. Gli Ayatollah hanno chiamato in causa i musulmani, di tutto il mondo, Italia compresa. E proprio dall’Italia arriva l’intervista all’Imam della Mosche di Pisa, Mohammad Khalil: «Quella di Gaza è resistenza, non terrorismo». Non stiamo parlando di un musulmano qualsiasi ma di una persona che in Italia, da anni, indottrina i propri fedeli. C’è una cosa che suonava strana nelle decine di video girati a Gaza in questi giorni: sabato, quando i missili di Hamas avevano portato morte su Israele e quando gli ostaggi venivano mostrati in pubblico come trofei le piazza erano festanti e piene. Si, piene solo di uomini: giovani ed adulti, chi armato, chi no. Di donne non c’era traccia, come vuole la Shaaria. Quando poi sono state le bombe israeliane a cadere su Gaza ecco, d’improvviso, un via vai di mamme e bambini… Dopo l’America nel 2001 il nuovo 11 settembre oggi tocca ad Israele. Dai cattolici agli arabi. Si uccide, si trucida, ancora in nome di Allah (Akbar, è grande, come hanno gridato nei video con cui gli ostaggi sabato venivano portati in piazza e calpestati dalla folla). L’ennesima Guerra Santa dell'Islam.
Gaza, la sporca guerra di Hamas. Fausto Biloslavo su Panorama il 14 Ottobre 2023
Esecuzioni sommarie. Oppositori torturati o gambizzati. Civili usati come scudi umani. Aiuti umanitari sottratti all'Onu. Fondi per la ricostruzione pilotati verso i fedelissimi. E oltre un centinaio di desaparecidos. L'altra faccia del conflitto raccontata dalle prime vittime: i palestinesi
Da Panorama del 19 febbraio 2009 «Morire con noi è un grande onore. Andremo in Paradiso assieme, oppure sopravviveremo fino alla vittoria. Sia fatta la volontà di Allah». Così reagivano i miliziani di Hamas alle suppliche dei civili palestinesi di non usare le loro case come postazioni durante la terribile offensiva israeliana nella Striscia di Gaza dal 27 dicembre al 18 gennaio. Ora che i riflettori internazionali si sono spenti, Panorama è andato a vedere cosa succede a Gaza. E ha scoperto l'altra faccia della guerra, altrettanto sporca, che non ci è stata raccontata: interi palazzi presi in ostaggio, la popolazione utilizzata come scudo umano e, per i dissidenti, ancora oggi il rischio di beccarsi un proiettile in quanto «collaborazionisti». Pericolo tutt'altro che teorico: dalla fine di dicembre 181 palestinesi sono stati sommariamente giustiziati, gambizzati o torturati perché contrari a Hamas. Ma non è finita: oggi il movimento islamico che governa Gaza con Corano e moschetto vuole controllare tutto, compresi gli aiuti e la ricostruzione. Il palazzo Andalous, nel quartiere al-Karama di Gaza City, è ridotto a uno scheletro di cemento. Gli israeliani hanno pestato duro e a questa coppia di palestinesi di mezza età non resta che raccogliere i cocci di un appartamento ancora da pagare. Ci accompagnano su quel che resta delle scale interne, a patto che Panorama usi solo i soprannomi di famiglia. «Sapevamo che andava a finire così. Fin dai primi giorni dell'attacco i muqawemeen (i partigiani della "resistenza palestinese, nda) si erano piazzati al dodicesimo e al tredicesimo piano, con i cecchini. Ogni tanto cercavano invano di sparare a uno di quegli aerei senza pilota che usano gli israeliani» racconta Abu Mohammed, scuotendo il capo. Nel palazzo, non ancora finito, vivevano 22 famiglie: oltre 120 civili, compresi donne e bambini. Gli israeliani hanno cominciato a telefonare sui cellulari degli inquilini intimando l'evacuazione. Poi, ai miliziani è arrivato un messaggio più esplicito: un caccia ha sganciato una bomba nel cortile deserto dall'altra parte della strada, senza fare vittime, ma aprendo un cratere enorme. «Una delegazione di capifamiglia ha scongiurato i miliziani di andarsene» riprende l'inquilino. «La risposta è stata: "Morirete con noi o sopravviveremo assieme». Il 13 gennaio gli F16 israeliani hanno centrato il palazzo alle 9 e mezzo di sera. «Di notte andavamo a dormire da parenti: ci siamo salvati, ma non abbiamo più la casa e dobbiamo pagare ancora 9 anni di mutuo» si dispera Om Mohammed, un velo sul capo. La Banca islamica non concede deroghe. In un altro palazzo di Gaza, nel quartiere al-Nasser, vivevano circa 170 civili divisi su otto piani. Quando i miliziani si sono piazzati sul tetto, un ex colonnello palestinese è andato a parlamentare spiegando che avrebbero attirato le bombe israeliane sui bambini del palazzo. «Sarà un grande onore se morirete con noi» hanno risposto i difensori di Gaza. L'ufficiale ha insistito: per toglierselo di torno gli hanno sparato una raffica di kalashnikov sopra la testa. A Sheik Zayed, 20 chilometri a nord, un farmacista palestinese era barricato con la famiglia al secondo piano del suo condominio. I militanti islamici hanno piazzato una trappola esplosiva sulla strada di fronte e si sono nascosti al terzo piano con il detonatore. «Volevano far saltare in aria il primo carro armato israeliano che passava. Ho cercato di spiegare che la reazione sarebbe stata furiosa e avrebbero colpito anche i nostri appartamenti. Alla fine, per salvarci, ce ne siamo dovuti andare» accusa il farmacista con un velo di rassegnazione negli occhi. Nel quartiere Tel al-Awa di Gaza, invaso dall'incursione terrestre degli israeliani, c'è chi ha fatto l'ostaggio due volte. «Chiamami Naji, che significa sopravvissuto, perché se scrivi il mio vero nome mi ammazzano» scongiura il capofamiglia palestinese. «Quelli di Hamas arrivavano di notte a dormire nel sottoscala. Prima in uniforme, poi con abiti civili e le armi nascoste. Abbiamo cercato di sprangare il portone, ma non c'è stato nulla da fare. L'intero palazzo era usato come scudo dai miliziani, che avrebbero potuto essere bombardati in qualsiasi momento». Quando gli uomini di Hamas vinsero le elezioni nella Striscia, Naji era contento del cambiamento, ma ora li odia. «Lanciano i razzi (su Israele, nda) senza alcun risultato militare, se non l'autodistruzione» spiega il sopravvissuto. «Lo fanno per ottenere soldi dai loro padrini iraniani e siriani». All'arrivo degli israeliani, nel quartiere i partigiani della «resistenza» erano spariti. Per trovarli i soldati sono entrati nel palazzo. Assieme agli altri uomini del condominio, il palestinese è stato tenuto prigioniero per un giorno e una notte. «Per due volte ho fatto l'ostaggio nella stessa guerra» sospira Naji. «E quelli di Hamas mi hanno addirittura minacciato che avremmo fatto i conti alla fine delle ostilità, perché protestavo».
In altri casi gli sgherri delle brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, non si sono limitati alle minacce. Usama Atalla aveva 40 anni e cinque giorni prima gli era nata l'ultima figlia, Iman. L'hanno ammazzato il28 gennaio, 11 giorni dopo il cessate il fuoco. Atalla era maestro elementare e attivista di al-Fatah, il partito del presidente palestinese moderato Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen. «Criticava apertamente Hamas, ma non ha mai imbracciato un'arma contro di loro» sostiene Mohammed Atalla, familiare della vittima. Gli assassini sono andati a prenderlo a casa con due fuoristrada pieni di gente armata. Con il volto mascherato hanno mostrato dei tesserini della sicurezza interna palestinese. «Solo alcune domande di routine. Fra mezz'ora ve lo riportiamo» hanno detto alla famiglia. Il maestro elementare è stato torturato per una notte intera. Poi l'hanno ucciso con un proiettile nel fianco sparato a bruciapelo, poco prima di abbandonarlo agonizzante davanti all'ospedale Shifa. «Dall'inizio della guerra abbiamo documentato 27 esecuzioni sommarie. Altre127 persone sono state rapite, torturate o gli hanno sparato nelle gambe. Almeno 150 costrette agli arresti domiciliari. Di un centinaio di prigionieri di Hamas non sappiamo nulla. I numeri potrebbero essere più alti, ma molti casi non vengono denunciati perché la gente è terrorizzata». La denuncia sulla sporca guerra di Hamas contro i suoi oppositori arriva da Salah Abd Alati, della Commissione indipendente sui diritti umani di Gaza.Da Ramallah, capoluogo della Cisgiordania dove governa Abu Mazen, sono stati resi pubblici i nomi di 58 gambizzati. Ad altri 112 palestinesi hanno spezzato le gambe a colpi di spranga o con blocchi di cemento. In gran parte sono sostenitori di al-Fatah: li accusano di collaborare con Israele controHamas. Da Ramallah il ministro palestinese per i Prigionieri e i rifugiati, Ziyad Abu Ein, ha parlato di «terrorismo» e «di crimini commessi contro il popolo palestinese». Una delle vittime è Aaed Obaid, ex poliziotto militare fedele ad al-Fatah.Occhi azzurri, barbetta rossa e volto scavato, è disteso dolorante su un divano di casa a Gaza City. Sotto la coperta nasconde la gamba sinistra fasciata. «Il 26 gennaio, verso le 7 di sera, ero seduto fuori del portone e parlottavo con mio fratello» racconta. «E' arrivato un fuoristrada color argento, come quelli che usa Hamas, con quattro uomini armati e mascherati Mi hanno preso incappucciato e quattro uomini armati e mascherati. Mi hanno preso, incappucciato e trascinato via. Non avevo fatto nulla». Prima l'hanno portato a un centro di addestramento dei miliziani dicendogli che lo avrebbero giustiziato. Poi lo hanno fatto pregare e ricaricato in macchina. «A un certo punto si sono fermati vicino all'ospedale Shifa facendomi sdraiare a terra. Mi hanno sparato due colpi di kalashnikov nella gamba sinistra, senza neppure dirmi di cosa mi accusavano». Il fratello del gambizzato, Adel Obaid, è uno dei prigionieri di al-Fatah rilasciato dal carcere di Saraia, nel centro di Gaza, prima che gli israeliani lo bombardassero. Baffi curati, ha l'ira negli occhi. «Alcuni prigionieri sono rimasti feriti sotto le bombe e portati allo Shifa. Ne hanno uccisi almeno sette sui letti d'ospedale». Dopo avere utilizzato la guerra per regolare i conti interni, ora Hamas vuole controllare la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione. Per farlo ha provato a confiscare gli aiuti dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Il 4 febbraio i poliziotti di Hamas hanno sequestrato 406 razioni di cibo e3.500 coperte destinate a 500 famiglie palestinesi. Il giorno dopo il capo dell'Onu a Gaza, John Ging, ha dichiarato duro a Panorama: «E' la prima e sarà l'ultima volta che rubano i nostri aiuti. Devono restituirli senza discutere». Nella notte, poche ore più tardi, sono state sequestrate altre300 tonnellate di rifornimenti alimentari». L'Unrwa ha deciso di sospendere l'arrivo di aiuti a Gaza fino a quando non venisse riconsegnato il maltolto. Il 9 febbraio i fondamentalisti hanno ceduto e restituito tutto, ma puntano sempre a gestire il consenso attraverso gli aiuti. «Quello che passa da Rafah, il valico con l'Egitto, finisce in mano a Hamas. Della distribuzione si occupano i Comitati sociali delle moschee, per il 90per cento controllate dal movimento islamico» spiega Mkhaimer Abusada, docente di scienze politiche all'Università al-Azhar di Gaza. Le liste di distribuzione, che favoriscono chi appoggia Hamas, sono l'arma del consenso in cambio di aiuti. A fine gennaio la polizia ha fermato le autobotti di un'organizzazione umanitaria locale, che lavora per una ong italiana. Volevano le liste della distribuzione dell'acqua. Per incontrare il responsabile di una ong palestinese, finanziata dall'Unione Europea e dall'agenzia americana Us Aid, giriamo guardinghi di notte. L'appuntamento è a Jabaliya. Il presidente dell'ong ha paura di Hamas, non degli israeliani. «Vogliono imporci i loro uomini per controllare la distribuzione» accusa la fonte di Panorama. «Ci hanno intimato di non condurre statistiche sulle case distrutte: metteranno le mani anche sulla ricostruzione. Conosco decine di famiglie che hanno subito l'aggressione israeliana, ma sono discriminate negli aiuti perché non appoggiano Hamas». A Beit Lahiya, nel nord della Striscia, Fatima ha la casa semidistrutta. «Sono andata dalla Società islamica, un'organizzazione vicina a Hamas che si occupa di aiuti e ricostruzione. Non voto per loro. Guarda caso non ero registrata nella lista di distribuzione» riferisce la donna di mezza età avvolta in un velo multicolore. A Gaza un giornalista ha perso una bella casa di due piani. Si è visto consegnare 380 euro per trovare una prima sistemazione. «Gli amici di Hamas si sono intascati 4 mila euro. A un mio vicino che ha avuto solo i vetri rotti, ma è dei loro, gli aiuti sono arrivati subito» protesta il giornalista. Nonostante il disastro, il movimento islamico ha dichiarato vittoria. Fra i palestinesi della Striscia gira una battuta amara: «Ancora un paio di vittorie come questa e Gaza scompare dalla Terra». Ma qualcosa sta cambiando: un sondaggio del Centro Beit Sahour per l'opinione pubblica palestinese rivela che il consenso per Hamas nella Striscia è crollato dal 51 per cento di novembre al 27,8 dopo la guerra.
Un palestinese spiega la verità su Hamas. Redazione su Nicolaporro.it il 13 Ottobre 2023
Il video è datato 30 agosto 2021 ma è più attuale che mai e spiega talmente bene il vero volto di Hamas da meritarsi tutto il milione di visualizzazioni che ha ricevuto tra You Tube, sito e canali social.
A realizzalo è il politologo palestinese Bassem Eid, il quale è convinto che il modo migliore per migliorare la vita di coloro che vivono a Gaza è quello di riconoscere chi veramente è responsabile delle sofferenze patite dalla Striscia. Da ascoltare fino in fondo.
Qui sotto potete trovare la traduzione del video.
Ai miei fratelli e sorelle palestinesi, e a chiunque sostenga il popolo palestinese, vi imploro:
Per favore, non lasciate che Hamas vi faccia il lavaggio del cervello facendovi credere di aver “ottenuto” qualcosa per nostro conto.
Non è così.
Non nelle guerre di Gaza del 2021, 2014, 2012 o 2008.
Ognuno di questi conflitti inutili è stato una catastrofe, costandoci caro in vite umane e tesori.
Hamas non è un movimento per la giustizia sociale e certamente non si preoccupa del popolo palestinese.
È una banda criminale che si preoccupa solo di aumentare il proprio potere.
Israele non è la causa principale della tua sofferenza.
Hamas è la causa principale.
Israele non è il tuo carceriere.
Hamas lo è.
È stato Hamas a trascinarvi in questo disastro più recente.
Vi hanno detto che gli israeliani stavano sfrattando palestinesi innocenti dalle loro case nella zona di Sheik Jarrah a Gerusalemme Est.
Questa è una bugia.
Le persone che vivevano in quelle case non erano inquilini; erano abusivi. Non pagavano l’affitto da decenni.
Vi hanno detto che gli israeliani intendevano distruggere la moschea di Al Aqsa.
Anche questa è una bugia.
La moschea è ancora lì. Sarà lì domani. Dite quello che volete sugli israeliani, non sono stupidi. Sanno che se tentassero davvero di distruggere Al Aqsa, ciò porterebbe alla guerra con tutti i paesi musulmani.
Sì, Hamas agisce e quindi appare forte accanto al suo rivale, il partito corrotto Fatah. Ma l’unica azione è condurci nel caos.
Hamas non ha la capacità – e, di fatto, nessun desiderio – di governare.
L’acqua non è sicura da bere; la corrente va via per ore alla volta; le acque reflue grezze si riversano sulle vostre spiagge. Gli israeliani non sono responsabili di questi tristi fallimenti: lo è Hamas. E a Gaza lo sanno tutti.
È Hamas che ruba il cemento importato destinato a costruire case e lo usa invece per costruire un’enorme rete di tunnel da cui spera di terrorizzare gli israeliani. È Hamas che si assicura che gli aiuti umanitari destinati a voi vengano dirottati verso le sue élite preferite che poi li vendono a scopo di lucro sul mercato nero.
Ed è Hamas che vi usa come scudi umani, posizionando lanciarazzi e arsenali missilistici nei vostri appartamenti, edifici per uffici, scuole e persino ospedali.
Israele usa i razzi per difendere il suo popolo. Hamas usa le persone per difendere i suoi razzi.
Per quanto riguarda la sua strategia di guerra, Hamas non ne ha una. Lancia missili contro le regioni più densamente popolate di Israele, senza un obiettivo specifico. Eppure, so dalle mie fonti a Gaza che ben il 25% di tutti i razzi lanciati da Hamas nel maggio 2021 si sono schiantati all’interno di Gaza. Cinquanta civili di Gaza sono stati uccisi da questi razzi e la loro morte è stata falsamente attribuita a Israele.
Siete consapevoli del fatto che alcuni dei missili di Hamas che le forze di difesa israeliane non sono riuscite a intercettare sono finiti per esplodere in luoghi come Giaffa, Abu Ghosh e Lod, dove vivono gli arabi israeliani? I palestinesi che vivono in Israele hanno la stessa probabilità di essere uccisi quanto gli stessi israeliani.
Ad Hamas non potrebbe importare di meno.
E cosa si è guadagnato?
I palestinesi che vivono in quei quattro edifici a Sheikh Jarrah alla fine verranno comunque sfrattati, un fatto noto a quelle famiglie da quando hanno svenduto la proprietà di quegli edifici.
Pensate al numero ancora maggiore di palestinesi che ora sono senza casa a Gaza perché Hamas ha scelto di nascondere le armi negli edifici residenziali.
E quando le ingenue ONG americane ed europee offriranno milioni per “ricostruire Gaza”, chi pensi che riceverà quei soldi? Non sarete voi, le persone che se lo meritano davvero e ne hanno bisogno, saranno i leader della banda di Hamas e i loro amici che aggiungeranno nuove stanze alle loro lussuose ville invece di ricostruire case, acquistare vaccini contro il coronavirus o fornire servizi sociali. Servizi per la loro gente.
E la pace che tanto meritate, la pace che avrebbe potuto essere possibile quando Israele si ritirò completamente dalla Striscia di Gaza nel 2005, sarà ancora più fuori portata. Hamas ti ha privato di questa possibilità quando ha creato la sua banda militare. Ti sta privando della stessa possibilità adesso.
Non importa quanti ebrei riuscirà a uccidere, Hamas non sarà mai soddisfatta.
Non smetterà mai di mentire.
Ma tu puoi smettere di credere alle sue bugie.
Bassem Eid, dell’Università di Prager
(ANSA giovedì 19 ottobre 2023) Mosab Hassan Yousef, figlio di un leader fondatore di Hamas, ha rotto il silenzio sulla sua decisione di denunciare il gruppo terroristico dopo essersi rivoltato contro la sua stessa famiglia ed essersi convertito al cristianesimo quando ha visto in prima persona gli orrori del regno del gruppo. L'uomo, che faceva la spia a favore degli israeliani e cercava asilo negli Stati Uniti, ha parlato della sua decisione di lasciarsi alle spalle la vita di terrore durante "Fox & Friends".
"Sono nato nel cuore della leadership di Hamas... e li conosco molto bene. Non si preoccupano del popolo palestinese. Non considerano la vita umana", ha detto Yousef. "Ho visto la loro brutalità in prima persona nel 1996, quando ho trascorso circa un anno e mezzo nella prigione di Megiddo... Hanno ucciso così tanti palestinesi a quel punto, ed è stato allora che ho deciso che non potevo stare insieme a questo movimento", ha raccontato.
"Dovevo essere onesto con me stesso. Anche se Hamas mi dava dei vantaggi... ero come un principe in quel mondo... ma non mi piacevano", ha continuato. "Mi sono rivoltato anche contro il mio stesso sangue... perché questo è quanto non mi piaceva Hamas, e oggi, 25 anni dopo, sono i governanti di Gaza, e vediamo cosa sono capaci di fare", ha raccontato.
Hezbollah, il Partito-Stato finanziato dall’Iran che Israele teme più di Hamas. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023
Per lo Stato ebraico è il grande nemico a nord, che ogni anno riceve da Teheran 700 milioni di dollari. Ha 20mila combattenti, altrettanti riservisti, un consenso popolare enorme (e il sostegno di Siria e Russia)
Una notte di settembre, quasi trent’anni fa, gli uccisero il primogenito Hadi in un’imboscata. Narrano che Hassan Nasrallah si chiuse in una stanza, senza dire una parola. Ci restò fino all’alba. Poi uscì e disse soltanto: «Sono felice d’essere diventato il padre d’un martire».
Qualche giorno dopo, gli israeliani gli mandarono le foto del ragazzo morto e gli proposero uno scambio coi corpi d’alcuni soldati: «Tenetevelo — fu la risposta —, abbiamo molti altri Hadi pronti a unirsi alla lotta».
Se è vero che gli uomini più pericolosi sono quelli con una sola idea in testa, sotto il gran turbante dei libanesi cova una mente pericolosa come poche. Guida suprema d’un Partito d’Allah, Hezbollah, che è un problema molto più grande di Hamas. All’epoca della morte di Hadi, Nasrallah era poco più che un rampante trentenne della nomenklatura sciita. Ma dal Verbo Sacro che già predicava sulla tv Al-Manar, il Faro, non s’è scostato d’una sura: «Noi non accetteremo mai che Israele esista. La nostra ragione d’esistere è che Israele non esista».
In questi vent’anni da lider maximo, Nasrallah ci ha pregato molto. E lavorato anche di più. Oggi, il risultato gli viene riconosciuto pure dal Piccolo Satana israeliano: «Prepariamoci — ha avvertito mercoledì il ministro della Difesa, Yoav Galant, davanti a Joe Biden —, questi di Hezbollah sono dieci volte più forti di Hamas…» («Non è vero», lo corregge sarcastico Hashem Safieddine, uno dei capi militari: «Siamo mille volte più forti…»). Ventimila combattenti e altrettanti riservisti, ma c’è chi parla di 60mila, addirittura 100mila uomini a disposizione (contro i 160mila soldati e i 350mila richiamati di Tsahal). «Il più grande movimento terroristico del mondo» (parola del Mossad).
Un vero esercito, finanziato dall’Iran con 700
milioni di dollari l’anno. Un arsenale di razzi antiaerei Sa-6, razzi Katyusha-2
e missili Fajr capaci di colpire Haifa e più giù. E poi i micidiali droni
iraniani, già visti in azione in Ucraina, e i tank, le unità speciali, i
kamikaze… Anche il controspionaggio hezbollah è considerato tra i più efficienti
del Medio Oriente: ne diede prova nell’uccisione (2005) del premier libanese
Rafik Hariri, craccando i satelliti telecomandati da Tel Aviv e respingendo,
soprattutto, i 40mila israeliani che nel 2006 entrarono in Libano. Hezbollah è
uno Stato nello Stato libanese: conta su un welfare e un consenso popolare
enorme, sul sostegno di Siria e Russia. «Ma quel che abbiamo è la fede — il
motto del comandante Fieddine —. E Dio è più forte di voi, delle vostre navi da
guerra e di tutte le vostre armi».
Nessuno sa quanta voglia d’intervenire abbia davvero, Hezbollah. I vertici
dell’Israel Defense Force sono divisi. Chi s’aspetta una pioggia di razzi, chi
la ricomparsa di nuovi tunnel come quelli scoperti nel 2019. E chi aspetta
l’Iran: brucerà per Gaza le risorse che destinerebbe, più volentieri, alle cause
siriana o yemenita. I capi di Hamas lamentano di sentirsi abbandonati dai
fratelli sciiti del nord e non ritengono sufficienti i razzi lanciati su
Metulla, i siti anticarro colpiti, i 12 morti già lasciati sul terreno dal 7
ottobre, i tentativi d’infiltrazione oltre la Linea Blu, i sit-in
popolari... Fra israeliani e hezbollah, per ora ci si saggia a distanza. Nel
quartiere beirutino di Haret Hreik, dov’è la testa politica del movimento, la
voce è che questa Guerra di Sukkot ce la si volesse risparmiare: per il momento
si mandano avanti i paramilitari iracheni di Kataib Hezbollah — «col 7 febbraio
è cominciata la resistenza islamica in sostegno a Gaza!» —, e poco più.
Hezbollah ci ha sempre tenuto a diramare le sue dichiarazioni di guerra, ma per
ora tace. «Io contro mio fratello — dice un adagio sciita—, ma mio fratello e io
contro mio cugino»: meglio non risvegliare certi doveri di parentela, pensano
gli americani, e per questo Biden ha chiesto a Netanyahu d’evitare uno
scontro diretto anche al nord.
«Il dilemma Hezbollah», lo chiama il giornale Yedioth Ahronot. Dura dal 1982, e adesso è anche peggio: «Nella guerra in Siria del 2017 — racconta Ariel Kahana, storico corrispondente israeliano —, mi chiedevo perché non attaccassimo Hezbollah. Erano in difficoltà. Molti uccisi o feriti, Nasrallah che veniva contestato dai suoi. Avevamo una grande opportunità. Avremmo pagato un prezzo alto, chiaro. Ma è dal 2006 che lo paghiamo: i missili di Hezbollah sono sempre di più, e più sofisticati. Invece non si fece nulla. Oggi, quel 2017 è lontano. E nell’angolo ci siamo noi. Quel che dobbiamo capire è che devi colpirli prima, se non vuoi che ti colpiscano. Perché il loro obiettivo è ormai chiaro: per distruggerci, vogliono invaderci».
L'organizzazione. Cos’è il Jihad Islamico, il gruppo armato e terrorista nella Striscia di Gaza e i rapporti con Hamas e con l’Iran. Come ha specificato l’altro giorno Hamas, dei 220 ostaggi portati presumibilmente nella Striscia almeno una ventina sono nelle mani del Jihad Islamico. Il gruppo è nato prima di Hamas ed è considerato perfino più estremista. Il vertice a Beirut. Redazione Web su L'Unità il 25 Ottobre 2023
A Beirut c’era anche Ziad Al Nakhalah, leader del Jihad islamico per la Palestina (Pij) per l’incontro ad altissimo livello con Hassan Nasrallah, guida degli sciiti libanesi, e Saleh Al Arouri, vicecapo di Hamas. Un vertice di alto livello sull’asse Palestina-Beirut-Teheran sulla guerra esplosa in Medio Oriente. Anche il Jihad Islamico ha partecipato agli attacchi di Hamas nel sud di Israele del 7 ottobre scorso che hanno scatenato il nuovo conflitto. È considerato un’organizzazione terroristica da Israele, ovviamente, dagli Stati Uniti e dalla maggioranza dei Paesi europei.
Si tratta del secondo gruppo armato per grandezza nella Striscia di Gaza. Persegue l’obiettivo di creare uno stato islamico nell’area della Palestina. È stato fondato nel 1981 dal medico palestinese Fathi Shaqaqi e dal predicatore musulmano Shaykh Abd al-Aziz Awda, nato nel campo profughi di Jabalia. Entrambi si trovavano in Egitto, dove era nato alla fine degli anni ’20 il movimento dei Fratelli Musulmani che ispiro i due. È un movimento sunnita, nato prima e considerato anche più estremista di Hamas. Con quest’ultimo condivide il paradossale – ma tutt’altro che privo di senso o interessi – appoggio dell’Iran, Paese protagonista dell’Islam sciita.
I fondatori vennero espulsi dall’Egitto nella Striscia e cominciarono la loro lotta armata. Il gruppo si spostò prima in Libano e poi a Damasco, in Siria. Ramificazioni sono presenti anche in Iran e in Sudan. Le Brigate Al Quds sono la componente militare, composta da piccole cellule. Contestualmente alla creazione di uno stato musulmano il gruppo persegue la distruzione dello Stato di Israele. Come ha specificato l’altro giorno anche Hamas, dei 220 ostaggi prelevati e portati presumibilmente nella Striscia lo scorso 7 ottobre, almeno una ventina sono nelle mani del Jihad Islamico. A differenza di Hamas non ha o non ha proprio voluto sviluppare grandi responsabilità da un punto di vista amministrativo se quelle prettamente militari.
Non è disponibile ad alcuna trattativa o discussione sul riconoscimento dello Stato ebraico. Ha rifiutato ogni compromesso o riavvicinamento compresi gli Accordi di Oslo del 1993 quando israeliani e palestinesi si riconobbero per la prima volta come legittimi interlocutori. Il Jihad Islamico ha continuato nei giorni scorsi a lanciare razzi verso il territorio di Israele. Dalla fine degli anni ’80 l’organizzazione ha condotto attacchi suicidi e terroristici contro civili e militari israeliani. Secondo il Council on Foreign Relations statunitense il gruppo riceve decine di milioni di dollari all’anno dall’Iran. “Quando parlate di Hamas, non potete dimenticarvi del Jihad. Quando parlate del Jihad, non potete dimenticarvi di Hezbollah. Quando parlate di Hezbollah, non potete dimenticarvi dell’Iran…”, ha spiegato il quotidiano libanese L’Orient Le Jour a proposito dell’incontro di Beirut di ieri pomeriggio. Redazione Web 25 Ottobre 2023
Mai dimenticare le atrocità dell'odio islamista. L'orrore nel kibbutz israeliani dove sono state decapitate decine di neonati è lo stesso delle mattanze in Europa. Ed è la stessa anche la matrice: il fondamentalismo islamico. Andrea Indini l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Cosa vedete quando vi affacciate a guardare giù nell'abisso? Giù nel buio che fa orrore. Giù nel baratro di malvagità. Giù nel buco infinito di violenza e barbarie, brutalità e atrocità. Quando la tenebra si fa penombra, riuscite quasi a distinguere i volti del male. Sono sempre le stesse belve. Hanno lineamenti diversi ma negli occhi scuri e nelle mani che strappano alla Terra vite innocenti, riconoscete indistintamente sempre la stessa matrice: è la matrice islamista che da decenni inzuppa il suolo di sangue. È impossibile sostenere a lungo lo sguardo su quelle anime nere. E così lo distogliete. Guardate altrove e finite per dimenticarti dell'esistenza di quell'abisso. Anche se la voragine si fa sempre più profonda e ogni volta rischiate di finirvi dentro, inghiottiti.
Nel kibbutz di Kfar Aza le belve di Hamas hanno ammazzato duecento persone. Le hanno trucidate a sangue freddo. Quaranta erano appena bambini, addirittura neonati. Li hanno ammazzati mentre dormivano. Alcuni si trovavano nelle loro culle, altri nel lettone con la mamma e il papà. Hanno mozzato le loro teste e dato i loro corpi alle fiamme. Quando, ore dopo, è arrivato l'esercito israeliano, ovunque aleggiava "odore di morte": i cadaveri resi irriconoscibili dalla mattanza, la carne crivellata dalle fucilate, le teste rotolate lontane dai colli su cui si reggevano. L'orrore. Lo stesso che ha divorato le strade di Be'eri, altro piccolo kibbutz nel sud di Israele. Lì i morti, più di cento, sono stati trovati ovunque, nelle case e per strada. Intere famiglie bruciate vive mentre cercavano di scappare. Chi non è stato ammazzato, è ora ostaggio dei jihadisti. A Re'im di vittime se ne contano più di 250. Erano lì per ballare, ascoltare la musica e divertirsi. Nessuno di loro avrebbe mai pensato di essere tanto vicino all'orlo dell'abisso da finirci dentro, inghiottito.
Se vi fa orrore immaginare i corpicini senza vita dei neonati di Kfar Aza, quelle teste mozzate ed esposte come un trofeo, non voltate lo sguardo. Non distoglietelo. Continuate a guardare e ricordate. Ricordate l'urlo di guerra: "Allah akbar!". Ricordate i ventun cristiani copti sgozzati in diretta streaming su una spiaggia di Sirte. Ricordate i corpi senza vita riversi nel loro stesso sangue tra le poltrone del teatro Bataclan di Parigi. Ricordate le donne, gli anziani e i bambini falciati dalla folle corsa di un camion lungo la promenade di Nizza. Ricordate gli occhi impauriti di padre Jacques Hamel mentre lo sgozzano sull'altare della chiesa di Rouen. Ricordate i turisti italiani in un ristorante di Dacca, scelti tra decine di altri commensali musulmani, e trucidati solo perché non credevano nelle parole di Maometto. E, se non ne avete ancora abbastanza, ricordate anche le capitali europee brutalizzate dalle bombe: i cadaveri negli aeroporti, nelle metropolitane, sugli autobus. Ricordate i passeggeri trasformati in proiettili viventi e lanciati contro le Torri Gemelle per buttarle giù, per fare una carneficina, per ammazzare altre persone che loro chiamano "infedeli". Ricordate i nomi. Degli innocenti, sicuramente. Ma anche dei carnefici e di tutte le sigle dell'orrore per cui hanno militato, siano esse al Qaeda, l'Isis o Hamas. Ma soprattutto ricordate la matrice: il fondamentalismo islamico.
Cosa sono e qual è la storia dello Shin Bet e del Mossad, l’ala militare e d’intelligence dello Stato di Israele. Sono l'apparato militare e il servizio di intelligence tra i più invidiati al mondo. Operazioni chirurgiche e spietate che hanno fatto la storia dello spionaggio. Eppure, in occasione dell'attacco di Hamas contro lo Stato Ebraico, le difese israeliane hanno dimostrato la loro fragilità. Un allarme per la sicurezza e la difesa di Gerusalemme? Andrea Aversa su L'Unità il 25 Ottobre 2023
L’apparato militare e d’intelligence israeliani sono tra i più famosi al mondo. Hanno sempre brillato per efficienza ed efficacia. Hanno pianificato e condotto operazioni sulla carta ‘impossibili‘ e spesso in periodi di tempo molto lunghi. Hanno influenzato l’immaginario letterario e cinematografico, sul tema delle spy story. Eppure lo scorso sette ottobre il brutale attacco di Hamas fin dentro i territori israeliani, ne ha dimostrato anche la fragilità. Un duro colpo che ha comunicato al mondo quanto lo Stato d’Israele fosse in realtà debole e indifeso.
Forza e fragilità di una democrazia divisa
Durante i primi giorni dall’aggressione terrorista, sui principali media ricorreva sempre la stessa domanda: ma come è possibile che Israele sia stato ferito così nel profondo? Di sicuro, il clima di tensione che si è respirato nello Stato Ebraico negli ultimi mesi, è stato amplificato dalle divisioni e dalle proteste causate dalla famosa riforma della giustizia voluta e non realizzata dal governo di destra guidato dal premier Benjamin Netanyahu. Eppure, proprio quelle manifestazioni e le campagne dell’informazione anti governativa (di opposizione), hanno reso noto al mondo quanto invece la forza di Israele sia proprio rappresentata dal suo sistema liberale e democratico.
Le origini
Ma cosa sono e qual è la storia dello Shin Bet e del Mossad? Quali sono state le condizioni e le premesse che ne hanno consentito la nascita? Nel bel libro “Spie di nessun paese” dello scrittore israelo-canadese Matti Friedman sono ben spiegate e narrate le origini del sistema militare e d’intelligence d’Israele. Quando nel 1948 finì il mandato britannico sulla Palestina e nacque lo Stato Ebraico, per sedare le tensioni in atto tra cittadini arabi e israeliani, nacque la Sezione araba, i cui membri – o meglio agenti – dovevano portare a compimento quelle che sono diventate note come le Operazioni dell’Alba. Coloro che ne facevano parte erano giovani ebrei che fino a quel momento erano nati e cresciuti negli stati arabi che confinavano con il neonato Israele. Erano, in pratica, degli arabi di religione ebraica. Persone che vivevano in piccole comunità spesso private dei più basilari diritti e profondi conoscitori della cultura islamica. Per questo motivo erano perfetti per infiltrarsi nei paesi nemici per operazioni di sabotaggio e spionaggio.
Cosa sono e qual è la storia dello Shin Bet e del Mossad
Fu in questo modo che nacque il Mistaravim (letteralmente “coloro che vivono tra gli arabi“), un unità antiterrorismo delle forze di difesa israeliane, della guardia di frontiera e della polizia israeliana. Gli agenti che ne fanno parte operano sotto copertura. Quest’agenzia esiste ancora oggi e allora pose le basi per il ‘leggendario’ Mossad. Quest’ultimo è l’Istituto per l’intelligence e servizi speciali dello Stato d’Israele. Sono in pratica i servizi segreti israeliani che agiscono fuori dai confini dello Stato Ebraico. Nato nel 1949, il Mossad fu ideato da Reuven Shiloah, quando era Primo Ministro David Ben Gurion. L’obiettivo dell’agenzia era quello di coordinare i servizi di intelligence dell’esercito (AMAN), lo “Shin Bet” e il “dipartimento politico” del ministero degli esteri. Il Mossad risponde direttamente al premier.
Obiettivi e compiti
Gli uomini del Mossad hanno il dovere di raccogliere informazioni in ambito terroristico, prendere iniziative in termine di spionaggio ed eseguire azioni (anche omicide) in territorio straniero. Il Mossad ha avuto 13 direttori, l’ultimo attualmente in carica è David Barnea. La sede principale dell’agenzia è a Tel Aviv. Sono tante le operazioni segrete del Mossad diventate praticamente ‘di culto’. La prima azione rimasta nella storia è stata quella relativa all’individuazione e cattura dell’ufficiale nazista Adolf Eichmann. Era il 1960 e quest’ultimo fu stanato in Argentina, dove viveva sotto altra identità. Ci sono state altre quattro operazioni iconiche che hanno alimentato l’aurea leggendaria del Mossad: l”Operazione Diamond‘ (1963-1966), l’esercito israeliano grazie alle informazioni procurate dai servizi segreti, riuscì a conquistare un Mikoyan-Gurevich MiG-21 utilizzato dagli eserciti arabi. L’aversi impossessato di questo aereo consentì a Israele di vincere nettamente la Guerra dei Sei Giorni.
Le operazioni più importanti
‘Collera di Dio‘, è stata l’operazione che ha ispirato Steven Spielberg per il suo bellissimo film ‘Munich‘. L’obiettivo del Mossad era quello di individuare e uccidere i mandanti e gli esecutori sopravvissuti, della strage di Monaco. Erano le Olimpiadi del 1972 che si tennero nella città tedesca. Un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati agli atleti israeliani uccidendo subito due atleti e prendendone in ostaggio altri nove. Un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, di cinque fedayyin e di un poliziotto tedesco. Questa operazione approvata dalla premier Golda Meir, è stata tra le più controverse della storia del Mossad ed è durata 20 anni. Essa portò alla morte di decine di persone, tra cui qualche innocente.
Oggi
‘Operazione Entebbe‘, era la notte tra il 3 luglio ed il 4 luglio 1976. Nell’aeroporto dell’omonima città ugandese irruppero due reparti militari dell’IDF (Esercito di difesa israeliano), il Sayeret Metkal (comandato da Yonatan ‘Yoni’ Netanyahu, fratello dell’attuale premier che perse la vita durante l’operazione) e la Brigata Golani. L’operazione segreta fu decisa in seguito al dirottamento di un volo Air France con numerosi passeggeri israeliani. Nel 1991, ebbe luogo l”Operazione Salomone‘. Condotta in soli due giorni, consentì a trarre in salvo gli ebrei etiopi che furono prelevati in Etiopia e trasportati in Israele. Ad oggi le principali operazioni del Mossad sono state rivolte al rallentamento di qualsiasi attività che possa consentire all’Iran di arricchire l’uranio.
Intelligence e servizi segreti per gli ‘affari interni’
Lo Shin Bet, invece, ha il compito di provvedere alla difesa e alla sicurezza interna dello Stato d’Israele. Nato nel 1948, il suo nome ebraico è Shabak. Il suo ‘nomignolo’ è ‘Scudo invisibile‘. Anche quest’agenzia si trova a Tel Aviv. Anche lo Shin Bet risponde direttamente al Primo Ministro ed è composto da tre dipartimenti: quello arabo, quello israeliano ed estero e quello di protezione e sicurezza. I principali obiettivi dello Shin Bet sono: quello di ottenere informazioni utili a prevenire e combattere atti terroristici che potrebbero compiere cittadini arabi che vivono in Israele; quello di attuare azioni di controspionaggio; quello di proteggere le sedi governative, istituzionali, diplomatiche, le infrastrutture e le personalità pubbliche e politiche israeliane, in Israele fuori dallo Stato Ebraico. Lo Shin Bet è spesso finito al centro delle polemiche a causa di presunti metodi violenti utilizzati per interrogare le persone arrestate. L’agenzia ha avuto 14 direttori, quello attuale è Nadav Argaman.
Andrea Aversa 25 Ottobre 2023“La Terra Santa”, una poesia di Alda Merini. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 14 ottobre 2023.
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.
Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.
Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell’universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi
alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.
A me pare che la poesia di Alda Merini denunci che il manicomio siamo noi, io, tu, noi che portiamo la distruzione, che rendiamo nemico chiunque non riusciamo a capire, che non diamo punti fermi, alberi forti e sicuri a chi ne avrebbe bisogno.
Ma tu dirai ‘Io non ho ucciso nessuno, non sono un terrorista e nemmeno coltivo la vendetta coperto dalla legge. Io non sono tra quelli che portano la morte e nemmeno tra quelli che la subiscono’.
Tu ti senti fuori, vorresti che il problema non ti riguardasse, guerre mondiali a parte. Ma ti sbagli. Anche tu non accorri se senti urlare, e allora sei complice, anche tu disprezzi chi non ce l’ha fatta, e allora non meriti nulla.
Ma non parliamo di te, parliamo di me. Ho letto i Fratelli Karamazov, le pagine dopo il Grande Inquisitore, quando Dostoevskij afferma che per uscire dal male bisogna prendersi le colpe di tutti.
C’è una spiegazione metafisica, se vogliamo, anzi ce ne sono non poche, ma ce n’è anche una più semplice che mi riguarda. Se desidero la pace devo considerare le guerre sbagliate che ho condotto prima. E ora che magari io devo accettare il mio nemico vittorioso su di me o al contrario caduto con il suo sangue nella polvere, devo comportarmi nei due casi nello stesso modo.
Insomma, io e te dobbiamo odiare profondamente ciò che vogliamo non si ripeta, esaminare il tuo, il mio cielo e mettersi in ascolto.
Teniamoci sempre pronti a ricominciare col passo giusto. Sospendi la tua vendetta e accetta che io ti possa tradire. Ma se non ti tradirò, fino alla fine dei giorni potremo camminare insieme.
In ogni ragione c’è sempre un po’ di follia e nel manicomio sono entrati e anche usciti tanti poeti.
[di Gian Paolo Caprettini]
Cinque libri che spiegano il conflitto tra Israele e Palestina. Storia di Francesca Salvatore su Il Giornale domenica 15 ottobre 2023.
Medio Oriente: quando lo specialista di storia navale americano Alfred Thayer Mahan coniò questo lemma nel 1902, non immaginava il destino a cui questa area del Pianeta sarebbe andata incontro. L'espressione utilizzata per indicare la regione compresa tra la Penisola araba e l'India, che per centro ha il Golfo Persico, venne immediatamente ripresa dal Times e, successivamente, dal governo britannico. Entrò rapidamente nell'uso comune, assieme alla più blasonata e antica nozione di "Vicino Oriente". Da allora, da più di cento anni, a queste due parole hanno fatto e fanno riferimento una pletora di studiosi, geografi, storici, commentatori, politici e giornalisti.
Dalla fine del Secondo conflitto mondiale in poi, quest'area dai margini geografici e culturali sfumati, divenne teatro delle scelte, delle non scelte, degli interessi e dei disinteressi delle grandi potenze, mandatarie e non, trasformandosi in un complesso diorama geopolitico, teatro secondario della Guerra fredda. Per questa ragione, la data simbolica del 1948-alla quale si fa risalire lo scoppio della prima delle guerre arabo-israeliane-è solo una delle tante pietre miliari di un caos che si può retrodatare fino alla prima diaspora ebraica, se si vuol comprendere davvero a fondo le dinamiche dell'oggi. Il conflitto tra israeliani e palestinesi, infatti, ha finito per fagocitare l'intero destino politico, così come la narrazione del Medio oriente contemporaneo, sebbene quest'ultimo sia attraversato e afflitto da un numero di vicende e sfumature che esulano dal "mero" scontro tra Israele e Palestina. Una vicenda che fomenta dal 1948 tifoserie da stadio, fondate su slogan e non sulla conoscenza di luoghi, persone, fatti, lingue, ma soprattutto delle fonti.
James Gervin, grande studioso di Medio Oriente all'Università della California, ha realizzato un'opera che ha il pregio di essere riveduta e corretta costantemente. Questo testo esplora come le forze associate alla modernità globale hanno plasmato la vita politica e culturale del Medio Oriente negli ultimi 500 anni. L'autore analizza la fase in cui si svilupparono i primi sentimenti di tipo nazionalista e si andarono consolidando i primi sistemi economici nel corso del XVI secolo. Passando in rassegna l'impatto dell'età coloniale e delle sue eredità, giunge a raccontare le trasformazioni del Diciannovesimo secolo. Punto di arrivo della sua disamina sono le vicende contemporanee della regione, che includono la diplomazia internazionale, la crescita e la decrescita economica, l'emergere dei regimi autoritari e le varie forme di resistenza. L'intero libro è scritto con un linguaggio ammaliante, quasi da romanzo, ma soprattutto fornisce al lettore, anche il meno esperto, una serie di strumenti fondamentali per accompagnare la lettura: fotografie, mappe, schemi, documenti originali, appendici e importanti fonti primarie.
(Sir) Martin Gilbert è stato uno dei più grandi storici dello scorso secolo. Scomparso nel 2015, viene ricordato soprattutto per i suoi lavori sulla vita di Winston Churchill, ma anche e soprattutto per essersi dedicato alla storia del XX secolo con particolare attenzione alla storia degli ebrei e dell'Olocausto. L'atlante redatto da Gilbert per la Routledge, ha come obiettivo quello di spiegare attraverso 227 mappe l'intera storia del conflitto arabo-israeliano. L'opera prende il via dal racconto e analisi della presenza degli ebrei in Palestina prima della conquista araba, fino all'atteggiamento del Regno Unito nei confronti della Palestina a partire dal 1915. Passando poi per le sorti alterne del Piano per la Palestina del 1919 giunge a descrivere con dovizia di particolari il periodo che intercorre fra il piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 e la nascita di Israele nel 1948. Offrendo una disamina tradizionale dei quattro episodi simbolo del conflitto israelo-palestinese, Gilbert giunge fino ai nostri giorni raccontando le due Intifada, la campagna incendiaria di Hezbollah nel 2006, le operazioni nella striscia di Gaza nel 2009 e il giorno della Nakba del 2011.
Bernard Lewis, La costruzione del Medio Oriente, Laterza, 2003
L'opera di Bernard Lewis è forse il libro simbolo sulla storia del Medio Oriente. Una sorta di manualetto scritto tuttavia da uno dei più grandi storici dell'Islam del secolo scorso. L'opera riveste un'enorme importanza nella storiografia sul conflitto arabo-israeliano, non solo perché è redatta con rara limpidezza da uno dei più grandi autori di Princeton, ma perché l'analisi dei fatti, l'equità, l'onestà intellettuale, l'autorevolezza dell'autore hanno fatto sì che questo testo, all'indomani della pubblicazione, fosse tradotto - contemporaneamente - in ebraico dal ministero della Difesa di Israele e in arabo dalla Fratellanza musulmana. Il nucleo del libro prende ispirazione da sei conferenze pubbliche tenute da Lewis all'Università dell'Indiana nella primavera del 1963. Il testo cerca di definire il Medio Oriente in quanto entità storica, geografica e culturale, ma soprattutto di mettere in luce il significato che l'Occidente ha avuto e continua ad avere per gli abitanti e i processi della regione. Una particolare attenzione è dedicata ai movimenti politici e intellettuali sviluppatisi in loco in età moderna e contemporanea: liberali e socialisti, patriottici e nazionalisti, e islamici. L'opera si compie con una disamina del ruolo dei Paesi mediorientali negli affari internazionali, chiudendosi con un'analisi di alcuni fattori che influiscono sulla politica occidentale nei loro confronti. Un testo che risulta sempre contemporaneo per la padronanza della materia, nello spazio e nel tempo.
Vittorio Dan Segre, ll poligono mediorientale: fine della questione arabo-israeliana?, Il Mulino, 1994
Vittorio Segre riunisce nella sua penna ciò che di meglio ha potuto dare sull'argomento in qualità di scrittore, diplomatico e giornalista dalla doppia anima, israeliana e italiana. Tra i fondatori, nel 1974, de Il Giornale assieme a Indro Montanelli, ha collaborato fino all'ultimo giorno al quotidiano, quando scomparve a 92 anni nel 2014. Approdato con curiosità al mondo di internet ha tenuto, anche questo fino all'ultimo, un blog (Lo sguardo di Dan) sul sito del quotidiano Nel Poligono mediorientale, l'autore non si limita a un'analisi cronologica degli eventi che hanno riguardato il Medio Oriente, approdando alla seconda metà del Novecento solo per raccontare l’esplosione del conflitto arabo-israeliano. Al contrario, Segre cala la questione palestinese nell'ampio quadro della regione mediorientale e delle fratture antiche e permanenti di tipo geografico, economico, religioso e politico che da sempre animano quest'area del pianeta. E lo fa con maestria, andando al di là delle vicende coloniali e legate alla Guerra fredda e le sue conseguenze. Alla luce di queste premesse, analizza il momento storico dell'accordo di Washington tra Israele e Olp, nonché l’epocale passaggio di Gaza e Gerico sotto il controllo palestinese. Ironia amara del destino, il libro venne pubblicato poco più di un anno prima della morte Yitzakh Rabin: l'uomo che rappresentò l’ultima occasione di pace degli ultimi trent’anni.
Ugo Tramballi, L’Ulivo e le pietre, Tropea, 2002
Ugo Tramballi, giornalista e inviato di guerra, e ed è stata penna preziosa di numerose pagine italiane: tra queste anche Il Giornale, a cui approdò nel 1976. Tra il 1983 e il 1987, è stato corrispondente di guerra in Libano, Iran, Iraq e Afghanistan. L’Ulivo e le pietre è un libro commovente e attento, che oltre alla precisione storica viene dal racconto in presa diretta dell'autore. Un’opera che più che di poteri, potenti e istituzioni parla di uomini e donne. Il racconto aiuta a penetrare nelle menti, nella cultura e nello spirito di israeliani e palestinesi, di differenti classi sociali, nella cornice delle amicizie e degli incontri che l'autore ha vissuto in prima persona. Un'altra chiave di lettura per interpretare le vicende politiche e belliche che fanno da sfondo, come l'Intifada, narrata non solo attraverso le scelte politiche e la violenza delle armi, ma episodi di vita quotidiana. Una carrellata di storie con la “s” minuscola incastonate dentro la storia con la “s” maiuscola. Tramballi rende onore all'imbianchino Abed disinteressato alla politica, al commentatore politico israeliano Nahum che perdona il kamikaze che ha ucciso suo figlio, ai racconti di Neama e alla sua infanzia a sud di Tel Aviv. Un punto di vista fondamentale che tiene conto dei sentimenti popolari, quasi sempre divergenti dalle scelte politiche dei "grandi".
La lunga via per la pace. Israele paga ingiustamente il prezzo della sua storia democratica. Giuliano Cazzola Linkiesta il 19 Ottobre 2023
Il terrorismo di Hamas dimostra ancora una volta che lo Stato ebraico, al pari degli altri Paesi occidentali, deve rispettare delle regole che i suoi nemici non tengono in considerazione
Israele sta pagando ancora una volta il fio della sua stretta alleanza con gli Stati Uniti. Può sembrare strano, dopo tanti anni, che questo motivo sopravviva ancora e riemerga in ogni occasione dall’es di una significativa parte della sinistra. Lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina, pur di fronte a un dittatore sanguinario come Vladimir Putin, il quale, per di più, ha contribuito a smantellare il comunismo in quella che per decenni è stata la sua patria.
Tuttavia, nei confronti della Palestina c’è qualche cosa di più. Negli ultimi anni nessuno si è preso la briga, da noi, in Europa e ad Harvard di esprimere un sentimento di pietà e un’azione di solidarietà per quella centinaia di migliaia di siriani massacrati da Bashar al-Assad o per la causa dei curdi, mandati a combattere contro lo Stato Islamico poi lasciati alla mercé di Recep Tayyip Erdogan.
La tragedia che vive l’Afghanistan è rimossa, specie per quanto riguarda la cancellazione dei diritti delle donne dopo il ritorno al potere dei talebani. Nessuno ricorda che i peggiori avversari dei palestinesi sono gli altri Stati arabi.
Dopo la spartizione avevano trovato rifugio in Giordania, ma negli anni Settanta (ricordiamo “settembre nero”?) vennero cacciati a cannonate dalla Legione araba e scovati in una guerriglia combattuta casa per casa. Lo stesso successe in Libano. Arafat, poi, ritornò da Oslo con in tasca l’impegno della restituzione del novantasette per cento dei territori occupati, ma arrivato in Palestina, promosse l’Intifada.
I palestinesi sono la popolazione più assistita sulla Terra, senza che ci si chieda mai dove vanno a finire quelle risorse che evidentemente non vengono usate in loro favore. Va da sé che un popolo che soffre merita attenzione e solidarietà. Ma bisognerà pure spiegarsi perché i palestinesi sono i “beniamini” delle tragedie del mondo.
La ragione è sempre più evidente: in gran parte dell’opinione pubblica mondiale l’amore per la Palestina è direttamente proporzionale all’odio per Israele; che poi è una variante dell’odio atavico per gli ebrei. Un odio che è sempre lo stesso, magari sotto altre forme da millenni. I nazisti realizzarono con un’organizzazione industriale e globalizzata quello sterminio che era stato fatto nel corso di secoli in modo artigianale ovunque si fosse inserita, nel tempo, la diaspora. E fu tanto orrendo l’Olocausto che caricò sulla Germania (lo ammettono i leader tedeschi) un crimine contro l’umanità che soverchiava tutti gli altri. Tanto da consentire, oggi, il compianto universale – il 27 gennaio di ogni anno – per gli ebrei deportati e sterminati, senza darsi troppa cura di quelli vivi e decisi a difendersi.
Tutto ciò premesso, non ci si può sentire equidistanti (ovvero pro Hamas, come in Ucraina pro Putin) se si rivolgono delle critiche a Israele, magari le stesse che circolano liberamente sui quotidiani israeliani (in Russia chi critica Putin rischia l’ergastolo o viene condannato a bere la cicuta al polonio). Israele è un Paese diviso. E la divisione della popolazione (sotto gli occhi del mondo) tocca anche l’esercito, perché esercito e popolo sono la stessa cosa.
Basta leggere la dichiarazione di Nir Cohen, un generale della riserva, richiamato in servizio col compito di comandare le truppe dislocate sul confine con la Giordania e l’Egitto: «Difenderò il mio Paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico. Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania, non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. I due popoli che vivono qui, il popolo ebraico e il popolo palestinese, sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta. Da entrambe le parti, una violenta minoranza religiosa trascina il conflitto in una violenza spaventosa. Sì, paragono i leader di Hamas ai leader del sionismo religioso. Da entrambe le parti, una visione religiosa estrema impone comportamenti violenti. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine, entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader. Dobbiamo svegliarci e non lasciare che qui governino gli estremisti. I palestinesi e gli israeliani dovranno denunciare i fondamentalisti. Gli israeliani dovranno spodestare Ben Gabir, Smotrich e la loro banda dal potere, mentre i palestinesi dovranno spodestare i capi di Hamas. In mezzo al dolore terribile e all’enorme frattura, cerco frammenti di speranza. Poco dopo la terribile guerra dello Yom Kippur, fu firmato un accordo di pace tra Israele ed Egitto. Dobbiamo renderci conto che non esiste risorsa di sicurezza più grande della pace. Anche l’esercito più forte non può proteggere il Paese nel modo in cui lo protegge la pace. La via della pace sarà per sempre migliore della via della guerra, quella su cui abbiamo camminato per troppo tempo. Alla fine della guerra, dopo che migliaia di morti israeliani e palestinesi saranno stati sepolti, dopo che avremo finito di lavare via i fiumi di sangue, dovremo capire che non c’è altra scelta che seguire la via della pace, cioè quella dove sta la vera vittoria».
Nella storia politica di Israele nessun premier ha mai voluto governare con l’estrema destra religiosa, che è sempre stata trattata come da noi – nella Prima Repubblica – il Movimento sociale italiano. Se è consentito fare paragoni Benjamin Netanyahu è considerato una specie di Tambroni israeliano. Allo stesso modo, è consentito giudicare in modo oggettivo, con una visione geopolitica anche l’azione del 7 ottobre. Hamas è un’organizzazione terrorista, i suoi miliziani sono degli assassini spregevoli, capaci di delitti abominevoli, ma i loro capi – quelli che hanno preparato l’azione – non sono solo dei criminali di guerra; se è consentito il francesismo, sono anche dei grandi paraculi. Hanno visto che Israele era molto in difficoltà a causa delle sue divisioni interne. E hanno intuito – forse i loro servizi segreti sono stati più efficienti del Mossad – che, alla fine, sarebbero stati gli alleati ad impedire al governo di Israele di impiegare tutta la potenza militare di cui dispone.
Se nelle prime ore si muovevano le portaerei e Antony Blinken si precipitava a Tel Aviv, è bastato che il “gallo cantasse tre volte” perché l’obiettivo divenisse quello di fermare l’offensiva israeliana, nel rispetto delle norme del diritto internazionale sulla proporzionalità della reazione (quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbour gli americani avrebbero dovuto limitarsi a bombardare un porto sulla costa nipponica?) e nel timore di infiammare quell’area importante per tanti ben noti motivi.
Certo, non saremo noi a invitare Israele a farsi giustizia, ma ancora una volta è apparso chiaro che una democrazia deve rispettare delle regole che i suoi nemici non tengono in minima considerazione.
Poi c’è un altro aspetto che non viene considerato, ma che traspare dalla dichiarazione del generale Cohen. Le conseguenze delle stragi del 7 ottobre sull’opinione pubblica israeliana e occidentale. Lo Stato ebraico ha terminato la stagione dell’innocenza, si è reso conto di non essere invincibile e ha capito che la vera vittoria è quella della pace. Ma la via della pace è ostruita dall’odio e dal razzismo di movimenti terroristici che hanno dichiarato una guerra implacabile all’Occidente, mettendo in conto i tanti vincoli che impediscono alle nazioni democratiche di reagire adeguatamente.
A pensarci bene l’aggressione del 7 ottobre richiama alla memoria l’offensiva del Tet, che fu – durante la guerra del Vietnam alla fine di gennaio 1968 –, un’operazione lanciata dai Viet Cong e dall’Esercito del Nord (Nva) operante nel Sud. Sebbene tatticamente infruttuosa, quell’offensiva mandò in frantumi l’ottimismo americano sull’andamento della guerra e convinse molti che fosse impossibile da vincere.
Cos’è la Cisgiordania e qual è la sua storia: la Palestina e le colonie israeliane. La partizione tra Israele e l'Autorità nazionale palestinese. Il ruolo delle colonie in quella che la parte più grande della Palestina. Andrea Aversa su L'Unità il 22 Ottobre 2023
Così chiamata perché posta sulle sponde del del fiume Giordano, anticamente questo territorio comprendeva le regioni della Giudea e della Samaria. In tempi più recenti, è stato – prima – sotto la dominazione Ottomana (facente parte della Siria) e successivamente sotto quella del mandato britannico per la Palestina. Prima che nascesse lo Stato di Israele, l’attuale Cisgiordania faceva parte della Trisgiordania, diventata poi il Regno di Giordania. Dopo, al termine della guerra del 1948 vinta dallo Stato Ebraico, il governo israeliano occupò l’area che la Giordania cedette all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). In seguito agli Accordi di Oslo del 1993, la Cisgiordania è passata sotto il controllo congiunto di Israele e l’Autorità Nazionale della Palestina (Anp). Con la Striscia di Gaza compone quello che di fatto dovrebbe essere lo Stato di Palestina.
L’intera regione è frazionata in tre parti, una controllata dall’Anp (la ‘A‘, quella più piccola), una in modo congiunto (la ‘B‘) e un’ultima controllata da Israele (la ‘C‘, quella più grande). L’area è per intero rivendicata dall’Anp. Per l’Onu gran parte della Cisgiordania, nota anche come West Bank, è riconosciuto come territorio sottratto alla Palestina e occupato da Israele che però lo ritiene un territorio conteso. La capitale è Ramallah, l’aspirazione è che lo diventi Gerusalemme Est. L’Area A comprende le città palestinesi, e alcune zone rurali di distanza da centri di popolazione di Israele nel nord (tra Jenin, Nablus, Tubas, e Tulkarm), il sud (nei pressi di Hebron), e uno nel centro sud di Salfit.
La suddivisione
L’Area B aggiunge altre popolate aree rurali, molto più vicino al centro della Cisgiordania. L’Area C contiene tutti gli insediamenti israeliani, le strade di accesso utilizzato per gli insediamenti, zone cuscinetto (vicino a insediamenti, strade, aree strategiche, e in Israele), e quasi tutta la Valle del Giordano e il deserto della Giudea. Le Aree A e B sono a loro volta divise tra le 227 aree separate (199 dei quali sono inferiori a 2 chilometri quadrati) che sono separate le une dalle altre da una zona di area C. Mentre la stragrande maggioranza della popolazione palestinese vive in zone A e B, le terre vacanti disponibili per la costruzione di decine di villaggi e città in tutta la West Bank, sono situate ai margini della comunità e definite come area C. Andrea Aversa 22 Ottobre 2023
Guerra Israele-Palestina, ecco chi ha fatto fallire la pace in Medio Oriente. Milena Gabanelli e Maria Serena Natale su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2023.
E pensare che nel 2000 ci erano quasi riusciti. Dopo centinaia di risoluzioni Onu, decenni di violenze, milioni di rifugiati le carte per chiudere il conflitto israelo-palestinese sono sul tavolo di Camp David, ultimo anno della presidenza Clinton. Ancora una volta però è «tutto o niente» e finisce in nulla. Due Stati e un miraggio: Israele-Palestina una mappa di confini scritti sulla sabbia.
1947: l’inizio
La spartizione proposta nel 1947 dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 dell’Assemblea generale vede subito due entità: 56% del territorio agli ebrei, il resto agli arabi e in mezzo Gerusalemme amministrata dall’Onu. Le comunità arabe respingono il piano e scoppia la guerra civile che è solo un preludio del primo vero conflitto.
Nel 1948 termina il mandato britannico che si era insediato nel 1920 sui resti dell’Impero Ottomano e aveva lasciato affluire i primi sionisti di ritorno alla biblica terra promessa. Il 14 maggio dello stesso anno nasce lo Stato di Israele, ma in contemporanea calano gli eserciti di Egitto, Giordania, Libano, Siria, Iraq. Per il popolo ebraico guidato da David Ben Gurion inizia l’assedio, per il popolo palestinese l’esodo: 700 mila in fuga, la nakba, catastrofe. Dopo un anno di combattimenti, nel 1949 Israele può estendere i confini a Galilea orientale, Negev e Gerusalemme Ovest. Buona parte delle terre destinate ai palestinesi invece sono occupate dagli alleati arabi: ad Amman la Cisgiordania, al Cairo la Striscia di Gaza.
Il mondo arabo non accetta Israele e i palestinesi restano intrappolati tra il nuovo Stato che deve affermare il proprio diritto a esistere e le lotte per l’egemonia che muovono le potenze regionali. Si combatte per la terra. La risoluzione Onu 194 prevede ritorno dei palestinesi sparsi nei campi profughi del Medio Oriente, restituzione dei beni, risarcimenti a chi non rientra: per Israele non un diritto, ma un punto politico.
Nascono l’Olp e gli insediamenti
Nel 1956 la crisi di Suez innescata dall’attacco di israeliani, francesi e britannici all’Egitto del generale Nasser rafforza lo spirito panarabo e aumenta l’isolamento dello Stato ebraico. 1959, in Kuwait nasce il Fatah che con Yasser Arafat assume la guida della resistenza palestinese. La tensione tra egiziani e israeliani cresce fino alla guerra dei Sei Giorni. È il 1967, tre anni prima a Gerusalemme è nata l’Olp-Organizzazione per la Liberazione della Palestina: non riconosce Israele, promuove la lotta armata per il diritto all’autodeterminazione e al ritorno, è pronta ad azioni terroristiche. Israele, accerchiata, attacca e sbaraglia gli eserciti di Egitto, Giordania e Siria appoggiati da Iraq, Libano, Arabia Saudita. Strappa all’Egitto Gaza e Sinai, alla Siria le alture del Golan, alla Giordania Cisgiordania e la parte araba della città santa, Gerusalemme Est, annessa. Superato il confine stabilito nella guerra del 1948, il territorio israeliano alla fine è quattro volte più grande. Comincia la costruzione degli insediamenti.
La risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza stabilisce il principio «terra in cambio di pace»: sovranità, integrità e indipendenza per tutti, ritiro israeliano dai territori occupati. Quali? Alcuni, secondo la versione inglese del testo; tutti, secondo la versione francese. Israele rifiuta. La questione neanche si pone per l’Olp, che disconosce pure le conquiste del ’48. La Lega araba nel vertice di Khartoum del 1967 risponde con i «tre no»: nessun riconoscimento, nessun negoziato, nessun trattato di pace. Nel 1970 a Nasser succede Anwar Sadat.
La strada al Trattato di pace
1973, guerra di Yom Kippur: egiziani e siriani colgono Israele di sorpresa ma dopo l’iniziale sbandamento la controffensiva ribalta gli equilibri. L’Onu ottiene il cessate il fuoco, la risoluzione 338 decide negoziati per una pace giusta e duratura. La mediazione del segretario di Stato Usa Henry Kissinger e la Conferenza di Ginevra inaugurano «la diplomazia dei piccoli passi» però nulla si muove. Anni di azioni terroristiche, prese di ostaggi, ancora guerra (Libano 1982). Con passaggi cruciali. 1978, Camp David, Maryland, residenza del presidente americano Jimmy Carter: dopo 12 giorni di trattative segrete gli accordi tra Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin aprono la strada al Trattato di pace del 1979, con il quale Israele si ritira dal Sinai smantellando tutti i 18 insediamenti e l’Egitto diventa il primo Stato arabo a riconoscere Israele (nel 1994 segue la Giordania). La Lega araba non gradisce ed espelle Il Cairo. Nel 1981 Sadat è assassinato da un terrorista della jihad islamica.
Due popoli, due Stati
1987, a Gaza, dal campo profughi di Jabalya, parte la prima Intifada: i palestinesi lanciano pietre contro i militari, alzano barricate, organizzano scioperi e boicottaggi. Nasce Hamas. L’anno dopo da Algeri Arafat proclama l’indipendenza dello Stato di Palestina sui territori di Gaza e Cisgiordania con Gerusalemme Est capitale. L’Intifada continua fino al 1993, l’anno degli accordi di Oslo. Con la stretta di mano tra Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin si apre alla speranza di due popoli, due Stati. È la prima volta che israeliani e palestinesi si riconoscono come legittimi interlocutori, l’Olp chiude con il terrorismo e vede nascere l’Autorità nazionale palestinese (Anp), organo di autogoverno temporaneo e limitato con sede a Ramallah, nella Cisgiordania divisa in tre aree amministrative. Viene però rinviata la discussione sui punti nevralgici: confini, insediamenti e rifugiati, Gerusalemme.
Nel 1994 Israele lascia Gerico e Tulkarem in Cisgiordania, la maggior parte di Gaza, e nel 1997 l’80% di Hebron. Il «processo di Oslo» non decolla. Accelerano gli insediamenti, crescono Hamas e gli altri gruppi fondamentalisti. I limiti alla libertà di movimento precludono ai palestinesi l’autosufficienza economica. Nel 1995, dopo il secondo round di Oslo che estende ancora i territori governati dall’Anp, il Nobel per la pace Rabin è ucciso da un estremista della destra israeliana contraria agli accordi.
L’occasione persa
Luglio 2000, Camp David: con Bill Clinton ci sono Arafat e il premier israeliano Ehud Barak, l’idea è chiudere una volta per tutte. Barak apre al rientro parziale dei profughi, offre fino al 91% della Cisgiordania e per la prima volta mette in discussione il controllo israeliano, non la sovranità, su Gerusalemme Est. Il compromesso sulla capitale e vincoli come l’impossibilità di costituire un esercito impediscono ad Arafat, stretto tra la frustrazione dei palestinesi e l’avanzata dei fondamentalisti, di accettare. Il vertice è un fallimento.
A dicembre Clinton ci riprova e richiama entrambi i leader: in via informale Barak arriva al 97% della Cisgiordania, Arafat resta fermo. Nel frattempo da Gerusalemme è partita la seconda Intifada, innescata dalla provocatoria passeggiata del leader dell’opposizione israeliana di destra Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee. L’anno dopo Sharon è primo ministro, e con lui comincia la costruzione del muro in Cisgiordania.
Muro contro muro
2002: Ramallah, Gerico e Tulkarem rioccupate dall’esercito israeliano. 2002-2003, la Road Map del quartetto Usa-Ue-Russia-Onu presentata da George W. Bush non supera neanche il livello uno. Nel 2005 Israele si ritira dalla Striscia di Gaza, via i 21 insediamenti. 2006: nuova guerra con il Libano; alle elezioni palestinesi vince Hamas che l’anno dopo prende con le armi il controllo totale della Striscia, mentre l’esangue Fatah di Abu Mazen si tiene a galla in Cisgiordania. Da Gaza e su Gaza partiranno altri sette attacchi e contrattacchi.
A partire dal 2020 prende il via l’ultimo tentativo di normalizzare i rapporti tra Israele e mondo arabo con gli accordi di Abramo promossi dalla presidenza Trump: intese bilaterali concluse con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, giunte alla fase negoziale con l’Arabia Saudita. La questione palestinese è scomparsa. Per l’Onu gli insediamenti restano illegali, perché ostacolando la continuità territoriale rendono impossibile la soluzione dei due Stati. Tra Cisgiordania e Gerusalemme Est oggi ce ne sono 279, compresi 147 avamposti non autorizzati dal governo israeliano, per un totale di circa 700 mila coloni insediati fra 3 milioni di palestinesi sotto occupazione militare.
7 ottobre 2023, assalto di Hamas. Terra promessa e tradita: dal fanatismo politico, dal mondo arabo che ha sempre usato la questione palestinese per giocare altre partite su altri tavoli, dal terrorismo. Dataroom 25 ottobre 2023
Un secolo di storia per capire l’odio dell’Iran verso di noi. Federico Rampini su Il Corriere della Sera venerdì 27 ottobre 2023.
L’obiettivo proclamato dalla teocrazia sciita di distruggere lo Stato d’Israele, il sostegno a milizie di terroristi in tutto il Medio Oriente va visto nello scenario più ampio di una guerra santa contro gli infedeli e l’Occidente. Le cui radici sono da cercare nella storia persiana degli ultimi cento anni
L’Iran ha un ruolo centrale nella nuova guerra in Medio Oriente, come protettore di Hamas, Hezbollah, e altre milizie jihadiste in tutta l’area. Ma perché questo paese ha una posizione così antagonista verso Israele, l’America, l’Occidente? Non è sempre stato così, al contrario. Prima che a Teheran prendesse il potere il clero sciita con la rivoluzione khomeinista del 1979, questo paese era un alleato dell’Occidente e ne abbracciava molti valori, anche se non tutti. Ricostruire la storia persiana degli ultimi cent’anni è essenziale per avere una comprensione delle dinamiche attuali. (Persia e Iran sono la stessa cosa e gli iraniani oggi rivendicano orgogliosamente l’eredità dell’impero persiano).
Per capire l’anno tremendo che fu il 1979, è necessario fare un salto all’indietro, nella seconda guerra mondiale. Precisamente nell’agosto 1941, quando l’Iran subisce due invasioni militari in rapida sequenza: dalle truppe britanniche e da quelle sovietiche. È allora che le antichissime vie della seta si trasformano nelle moderne vie del petrolio, implicano l’Occidente nelle vicende politiche del mondo arabo-persiano, con comportamenti predatori e ingerenze golpiste.
Su quell’area del mondo a volte aleggia l’impressione di essere rimasti inchiodati in quel periodo, un passato che non passa mai. A qualcuno fa comodo che sembri così. Le loro classi dirigenti autoritarie si sono prodigate per indottrinare i popoli in quel senso, racchiuderli in una bolla ideologica in cui si ripete all’infinito la storia dei soprusi occidentali.
È un alibi comodo per distrarre l’attenzione dalla corruzione spaventosa, dall’incapacità di diffondere benessere e diritti. Però quei soprusi nel passato ci furono. E la nozione di Occidente va spesso intesa in senso lato, includendo quell’Unione sovietica che era ideologicamente europea in quanto marxista, soprattutto atea. Perciò è simbolico il fatto che l’agosto del 1941 si apra con quelle due invasioni rivali ma solidali, inglese e sovietica.
L’importanza dell’Iran in quel frangente della seconda guerra mondiale – in agosto non c’è ancora stato l’attacco di Pearl Harbor e quindi gli Stati Uniti non sono entrati nel conflitto – è due volte strategica. Per contrastare l’avanzata delle truppe tedesche che sembra travolgente sia in Europa sia in Medio Oriente, inglesi e sovietici hanno bisogno di bloccare l’accesso di Adolf Hitler agli idrocarburi. Il greggio sta diventando la fonte di combustibile più usata a fini militari, soppianta il carbone. L’Iran è già allora uno dei paesi più ricchi di petrolio. Inoltre i suoi porti controllano rotte marittime cruciali anche per collegare altre nazioni petrolifere. Infine il vasto territorio persiano è una via di transito tra l’Europa e l’India, la più vasta colonia britannica.
Gli strateghi nazisti nella fase dell’avanzata trionfale pensano di poter conquistare la parte più vicina dell’impero britannico; l’altra, più orientale, la lasciano agli alleati giapponesi. Le vie della “seta-petrolio” sembrano sul punto di vacillare da un dualismo russo-britannico a un controllo nippo-germanico. È a questo punto che scatta l’offensiva congiunta di Londra e Mosca per blindare il Golfo Persico con l’invasione a tenaglia dell’Iran. Le divergenze tra i due alleati Winston Churchill e Josef Stalin (quest’ultimo è stato fino a poco prima il complice di Hitler) furono messe da parte per promuovere gli interessi comuni in una regione di vitale importanza strategica ed economica. Per molti iraniani una simile interferenza esterna era intollerabile. Nel novembre 1941 ci furono manifestazioni al grido di «Lunga vita a Hitler!».
Nel duello tra l’Occidente e la Russia per il controllo dell’Iran, in questo periodo è in vantaggio il primo. Londra ha messo le mani sulle risorse energetiche del paese. La sua forza è la multinazionale Anglo-Persian Oil Company, poi ribattezzata Anglo-Iranian, cioè la madre dell’attuale Bp (British Petroleum). La pessima fama di quest’azienda tra gli iraniani è giustificata dalla sua avidità. Si tratta di un’azienda privata, però l’intreccio d’interessi con il governo di Londra a quell’epoca è totale. È in questo periodo che sulla scena politica iraniana si affaccia Mohammad Mossadeq: un nazionalista laico, il cui primo obiettivo è l’indipendenza economica, il controllo sulla ricchezza petrolifera.
Dopo Pearl Harbor, con l’ingresso degli Stati Uniti nella guerra l’importanza del petrolio diventa ancora più evidente. La partecipazione americana fa fare un salto di dimensione “industriale”, le sorti del conflitto si giocano sulla produzione di armamenti e sulla logistica intercontinentale, perciò anche sull’accesso alle materie prime. Il presidente Franklin Roosevelt fa irruzione dentro il Grande Gioco per il controllo sulle vie della seta-petrolio, in parte come alleato-fiancheggiatore di Londra, in parte con un disegno autonomo: già s’intravvede l’aspirazione americana a sostituire la Gran Bretagna nel ruolo di potenza globale. In Iran i primi ventimila soldati americani arrivano nel dicembre 1942. A Teheran alla fine del 1942 s’insedia il quartier generale dell’intero comando Usa per il Golfo Persico. Arrivano i petrolieri americani; le loro prime valutazioni rivelano immense potenzialità per l’estrazione dell’oro nero. Gli accordi tra compagnie petrolifere dei due paesi, benedetti da Churchill e Roosevelt, vengono equiparati a una Yalta delle materie prime (il riferimento è al vertice di Yalta dove Stalin e Roosevelt si divisero buona parte del mondo in sfere d’influenza).
Ma questa Yalta delle materie prime giunge quando l’era degli imperi coloniali sta tramontando. Gli Stati Uniti praticano un’egemonia di tipo nuovo; hanno un atteggiamento ambivalente, abbracciano la causa dell’emancipazione dei popoli, non sono interessati a prolungare il colonialismo tradizionale degli inglesi. E poi sulla scena mondiale si affaccia l’Urss con un messaggio anti-imperialista. Ben presto questa diventa – dopo la sconfitta dei nazifascismi – la nuova priorità degli americani: arginare la marea comunista. L’ideologia comunista sostiene le aspirazioni dei popoli arabi e persiano all’indipendenza. Il socialismo di matrice sovietica sembra agli americani una versione moderna dell’Islam, capace di dilagare in una conquista-lampo lungo le vie della seta.
Per fermare l’avanzata dei rossi, l’America oscilla tra diversi approcci: cerca dei compromessi ragionevoli con gli interessi dei petro-Stati; oppure aizza il clero locale contro i pericoli del marxismo ateo; o infine ricalca i metodi inglesi e organizza trame, ingerenze nella politica locale. Comincia un travaso di denaro verso le classi dirigenti del Medio Oriente, che prefigura su scala ridotta quel che accadrà con gli shock petroliferi degli anni Settanta e lo tsunami di petro-dollari. Nuovi flussi di “ricchezza facile” ed enormi rendite parassitarie.
L’episodio più importante per il futuro dell’Iran – l’antefatto per capire la rivoluzione khomeinista del 1979 – avviene dopo la fine della seconda guerra mondiale, ed è segnato dall’allineamento tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Nel 1951 Mossadeq diventa primo ministro. Immediatamente fa quello che aveva promesso: nazionalizza la compagnia petrolifera Anglo-Iranian. Apre una strada maestra verso il controllo sulle ricchezze del sottosuolo, che poi ispirerà Nasser in Egitto, Gheddafi in Libia, e molti altri leader nazionalisti. Il laico Mossadeq trova inizialmente l’appoggio del clero musulmano. L’ayatollah Kashani per sostenerlo nel settembre 1951 proclama una «giornata nazionale di odio contro il governo britannico».
A Londra è il panico. E non solo nel quartier generale dell’Anglo-Iranian. Proprio per l’intreccio fra pubblico e privato, le sorti di quell’azienda si ripercuotono sulle casse dello Stato. Il governo di Sua Maestà è sull’orlo della bancarotta. Le spese militari della seconda guerra mondiale hanno dissanguato il Tesoro britannico. Quattro anni prima ha dovuto accettare la liquidazione della colonia più vasta, l’India. Se perde anche il petrolio persiano, la Gran Bretagna rimane senza la sua fonte più ricca di valuta pregiata. Collasso finanziario e crisi valutaria sono alle porte. È una questione di vita o di morte, così la percepisce la classe dirigente di Londra.
Per bloccare Mossadeq bisogna coinvolgere gli americani. I servizi segreti britannici riescono a convincere la neonata Cia, che si fa complice di questo disegno: bisogna dimostrare che dietro Mossadeq spunterà ben presto il demonio comunista dell’Urss. La tesi non è del tutto infondata: Mosca tesse le sue trame, il partito filo-sovietico Tudeh ha organizzato manifestazioni popolari in Iran contro gli inglesi, a cui hanno partecipato soldati dell’Armata rossa. L’Urss soffia sul fuoco delle rivolte anti-occidentali e potrebbe diventarne la beneficiaria: il precedente più importante è la vittoria di Mao Zedong in Cina nel 1949.
In combutta con gli inglesi la Cia si procura la complicità dello scià Reza Pahlavi; e anche l’appoggio dell’ayatollah Kashani, rapidamente convintosi che il pericolo maggiore è l’avanzata del comunismo ateo. Il 19 agosto 1953 col nome in codice di Operazione Ajax va in porto il primo di una serie di golpe targati Cia. Per le sue conseguenze di lungo termine forse questo è il più nefasto di tutti i colpi di Stato orditi dagli occidentali. Mossadeq viene arrestato, al suo posto lo scià nomina come primo ministro un generale. Per la Gran Bretagna il sollievo è solo temporaneo, il golpe si rivela una vittoria di Pirro. Washington infatti impone la fine del monopolio dell’Anglo-Iranian, sostituta da un consorzio di cui fanno parte ben cinque compagnie petrolifere Usa. Ha inizio una nuova storia, quella dell’Iran come alleato di ferro degli Stati Uniti, piattaforma essenziale per l’influenza americana sulle vie della seta-petrolio.
Dal 1953 al 1979, per un quarto di secolo l’Iran diventa laboratorio per un esperimento di modernizzazione e secolarizzazione di un grande paese a maggioranza musulmana. Qualcosa di simile lo aveva fatto Ataturk in Turchia. A Teheran l’aggancio con l’Occidente è ancora più stretto. Quell’esperimento viene descritto così dallo storico Ervand Abrahamian: «Per decenni l’Iran fu diretto da uomini moderni, ben rasati, capaci di parlare perfettamente l’inglese e il francese, e vestiti da stilisti italiani. Per decenni l’Iran fu ammirato negli Stati Uniti come un alleato indispensabile, un eccellente cliente dell’industria bellica, perfino un gendarme nel Golfo Persico».
L’Iran dello scià era coccolato da Washington come oggi lo è l’Arabia saudita. Con una differenza non marginale. Sotto lo scià ci furono riforme laiche all’avanguardia rispetto ad altri paesi islamici: la parità dei diritti delle donne, insieme con un notevole miglioramento del loro accesso all’istruzione, anche universitaria. Quello che l’Arabia saudita accenna a voler iniziare solo oggi, e timidamente, fu fatto in modo radicale dallo scià di Persia settant’anni prima. Ma proprio lì matura una premessa per l’avvento della teocrazia degli ayatollah. Lo scià che riconosce pieni diritti alle donne, è lo stesso che viene percepito da molti iraniani come un servo dell’America. Respingere l’imperialismo yankee e ripudiare l’emancipazione femminile, volere il riscatto nazionale e il ritorno ai tabù di una società patriarcale, per una parte degli iraniani diventano tutt’uno.
Patriottismo e religiosità retrograda si alleano fino a confondersi. L’eredità di Mossadeq, cioè l’aspirazione all’indipendenza economica, viene raccolta da due forze in competizione tra loro: da una parte la sinistra marxista del partito Tudeh legato a Mosca; dall’altra i mullah. Negli anni Sessanta e Settanta un pezzo del clero sciita diventa il principale concorrente dei comunisti, nella gara per la leadership dell’opposizione allo scià. L’ago della bilancia saranno i mercanti dei bazar: è una borghesia medio-alta di antichissime tradizioni imprenditoriali, per due millenni tra i più attivi intermediari delle vie della seta. I mercanti, e i loro figli diplomati nelle università dello scià come medici o ingegneri, diventano la base sociale di una nuova predicazione sciita che risale a pensatori radicali come Ali Shariati. Quest’ultimo è formato alla Sorbona, in quella Parigi dove l’ayatollah Khomeini vive in esilio negli anni finali dello scià, preparando il terremoto che rovescerà il monarca.
La rivoluzione islamica è sconvolgente, e non solo nella “nostra” prospettiva. Nel 1978-79 esplodono le rivolte e si consuma la fine della monarchia. L’America perde un alleato cruciale, l’Iran le si ritorce contro e diventa un avversario indomabile. L’episodio che rimane più impresso nella nostra memoria (rievocato anche dal film «Argo») è l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran, la lunga odissea dei funzionari americani tenuti in ostaggio. L’irruzione degli studenti militanti espugna la sede diplomatica il 4 novembre 1979. Tra le motivazioni degli studenti c’è la protesta contro l’asilo offerto allo scià fuggiasco in America (Reza Pahlavi morirà di cancro poco tempo dopo). Negli archivi dell’ambasciata i militanti islamici sperano anche di trovare le prove che fu la Cia a organizzare il golpe contro Mossadeq. L’occupazione-sequestro dura 444 giorni. L’impotenza degli Stati Uniti in quel frangente contribuisce alla perdita di credibilità del democratico Jimmy Carter, presidente per un solo mandato: un anno dopo l’irruzione nell’ambasciata di Teheran verrà sconfitto dal repubblicano Ronald Reagan. In mezzo al lungo sequestro ci sta pure un altro episodio tragico per l’America: quando Carter dà il via libera a un’operazione di commando speciali per liberare gli ostaggi (partendo dalla portaerei Uss Nimitz nel Golfo Persico), il blitz fallisce in modo disastroso per la collisione nel deserto fra un elicottero e un aereo Usa, in cui muoiono otto militari.
Fra le vittime della rivoluzione khomeinista ci sono i tanti iraniani uccisi o imprigionati e torturati; più un milione di esuli. A cominciare dai comunisti iraniani filo-sovietici, tra i primi a finire in carcere o uccisi. E poi tutto quel che ne segue: il cocktail esplosivo che dal 1979 alimenta l’idea di uno “scontro di civiltà”. L’antiamericanismo portò molti occidentali a simpatizzare per gli islamismi, senza prevedere le stragi di cui avrebbero disseminato il pianeta. L’obiettivo proclamato dalla teocrazia sciita di distruggere lo Stato d’Israele, il sostegno a milizie di terroristi in tutto il Medio Oriente, va visto in questo scenario più ampio, di una guerra santa contro gli infedeli e l’Occidente.
Stefano Cappellini per La Repubblica - Estratti venerdì 27 ottobre 2023.
Israele può smettere di bombardare Gaza, Hamas non può smettere di uccidere. Il primo è uno Stato democratico, che può compiere scelte sbagliate o anche scellerate ma è in condizione di correggerle o rimangiarsele, il secondo è una organizzazione fondamentalista e terrorista il cui scopo unico e immutabile, per statuto, per missione per vocazione, è la distruzione fisica dell’avversario e di tutte le sue istituzioni.
Sta tutta qui, nella chiara asimmetria tra le parti in conflitto, l’inopportunità della battuta del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, in quel passaggio che tante polemiche ha creato: “Gli attacchi di Hamas non nascono nel vuoto”. Una frase infelice non perché sia vero il contrario. Nella storia nulla nasce nel vuoto.
(...) Ma quella frase sul "vuoto" concede a Hamas una giustificazione implicita e soprattutto infondata, come dimostra tutta la storia del ruolo di Hamas nel conflitto israelo-palestinese.
I kamikaze di Hamas si facevano esplodere sui bus di Tel Aviv, nei locali, per le strade di Israele anche quando la trattativa di pace per la soluzione “due popoli due Stati” era ancora aperta, e proprio per questo lo facevano: per sabotarla e impedirne il buon esito.
Per realizzare il suo disegno omicida Hamas non ha bisogno che Israele sia governata dall’estrema destra, o che intensifichi la colonizzazione dei Territori occupati o che compia altro genere di abusi sulla popolazione palestinese. Hamas ucciderebbe gli ebrei comunque, esattamente come l’Isis macella gli infedeli non perché ci sia stato il colonialismo, o la guerra in Iraq, e tantomeno la diaspora palestinese, ma perché è il suo lavoro: sterminare gli infedeli, piegare i sopravvissuti a vivere nel Califfato.
Anche qui l’equivoco è il medesimo: qualunque errore l’Occidente abbia potuto commettere, e ne ha certamente commessi di gravi, favorendo così l’arruolamento e la crescita del terrorismo, ciò non toglie che l’Isis – come prima al Qaeda - sarebbe rimasto tale: una macchina del terrore tesa all’annientamento dell’avversario con ogni mezzo disponibile. Non capirlo significa non aver chiaro cos’è il moderno fondamentalismo islamista, quando e come è nato un secolo fa, cosa pensa e cosa vuole, obiettivi che non dipendono in alcun modo dal rapporto più o meno buono che l’Occidente sceglie di intrattenere con il mondo musulmano.
È giusto che l'opinione pubblica, la comunità internazionale chiedano a Israele di temperare la sua reazione; è sacrosanto che l’Occidente si mobiliti per evitare a Gaza anche solo una morte di civile innocente. Ma vedere persone di sinistra che in Europa – a Parigi, a Londra, a Milano – sfilano accanto a militanti islamisti che urlano Allahau akbar, convinte di manifestare per la Palestina anziché tenere bordone ai piani di criminali oscurantisti, è agghiacciante e testimonia una deriva forse irrecuperabile.
Estratto dell'articolo di Domenico Quirico per “La Stampa” sabato 28 ottobre 2023.
[…] Israeliani e palestinesi, invece, non sono popoli dimenticati. Sono due popoli soli. E forse questo è anche peggio. […] l'Onu li ha accumunati: nella condanna dei crimini di guerra che entrambi avrebbero commesso!
Nell'ennesimo atto della tragedia in Palestina, in un momento in cui la Storia non ci dà tregua, sappiamo a memoria riepilogare tutto ciò che li divide, una unica terra che entrambi considerano loro, il vizio assurdo, i morti innumerevoli di ieri e di oggi, esser l'uno Occidente e l'altro Oriente.
Dire che' "la questione ha due lati" è una espressione che comincio a detestare. Perché oggi si evoca, dalle due parti, l'incubo di una' "distruzione''. È con questa paura, peraltro, che ha sempre convissuto Israele. Possiamo esser certi che l'Occidente non lo permetterà? Tutte le iperboli ora sono destinate al silenzio. Può accadere di tutto, tutti sono in scena, Usa, Turchia, Iran, arabi, russi, jihadisti, e proprio per questo, soprattutto per questo, non si può prevedere cosa di peggio potrebbe venirne.
Proviamo a rovesciare la prospettiva e cerchiamo cosa può unirli. E ad attingervi una direzione, una fede, proviamo a farne strumento di comune salvezza. […] Questa verità delle verità credo sia proprio la comunanza nella solitudine. La solitudine di chi rifiuta di rintanarsi nel silenzio della dimenticanza, di scavarsi un angolino nello spazio fisico che gli è stato gettato come una elemosina: vivete lì e non disturbate più il motore del mondo.
Questi due popoli avanzando, tragicamente, su un lungo cammino comune da più di settanta anni, hanno avuto il coraggio di gridar forte il problema, la stonatura, la ferita impressa dalla realpolitik della ipocrisia. Di ribadire, contro ogni bugia comoda, che con la creazione di due Stati non è mutato un fatto: entrambi non possono dare per scontato e garantito il loro diritto a vivere.
Altri sì, europei americani australiani giapponesi sì. Loro no, non sono stati messi in grado di considerare il diritto alla vita un diritto naturale. Non è un problema di colpe originarie. È un problema di condizioni storiche in cui sono stati costretti.
Non è per senso di giustizia e per amore che Israele e l'Entità palestinese sono stati creati da chi comandava il mondo. Nessuno nella Storia ama gli altri uomini. È per sé stessi che vengono fatte scelte importanti, spesso definitive e matrici di lunghe tragedie.
Israele è nato da un rimorso, quello dell'Europa che si sentiva […] colpevole della Shoah, innanzitutto, […] e prima ancora del lungo antisemitismo collettivo che attraversa l'Ottocento e il Novecento dove le zone senza macchie sono rare. Riservare l'antica terra dell'Esodo agli ebrei era solo un modo spiccio per saldare il conto, per dimenticare una colpa.
Tanto è vero che nessuno si preoccupò delle conseguenze ovvero che appena proclamata la nascita di Israele gli arabi avrebbero cercato di distruggerlo. Fu solo la incredibile vittoria che salvò il piccolo Stato, non certo i suoi ambigui alleati ansiosi di dimenticarsene. E sono state ancora le guerre vinte e la forza a difenderlo da settanta anni, a forgiarne l'identità e talora anche gli errori.
Lo stesso vale per i palestinesi. Bisognava sbarazzarsi, in questo gli Stati arabi erano in prima fila, di questi irriducibili perturbatori dei campi profughi che non smettevano, invece di assimilarsi nei paesi dell'esilio, di reclamare la Palestina anche se sembrava imprendibile.
E poi per l'Europa c'era il problema di interrompere "la diplomazia del terrore'' con cui i palestinesi, e alcuni Stati che ne approfittavano per le proprie strategie, negli anni settanta e ottanta cercarono di ottenere con il ricatto ciò che non veniva loro concesso. La caricatura di Stato, l'Entità, che infine hanno ottenuto con i rimasugli di ciò che gli arabi, Giordania e Egitto, avevano perduto nel 1967, Gaza e la West Bank, è stato il modo per sbarazzarsene. E lavarsene le mani.
Allora è proprio in questa comune ribellione alla Storia l'idea che può liberarli da memorie rabbiose che li hanno resi estranei persino a sé stessi. […] Il desiderio di non morire, quasi una dimensione della mente che si estende nello spazio: palestinesi e israeliani sono il desiderio di non morire.
Continuare ad essere, essere sempre, sbocciare e durare. Tutto quello che possiedono di forza, di energia e di lacrime, il tesoro della solitudine in cui specchiarsi, servirebbe a riunirli, non a dividerli. Se sapranno essere ebrei e palestinesi fino in fondo. Entrambi non devono redimere la terra, devono redimere la gente.
“Non gridate più”, una poesia di Giuseppe Ungaretti (1943). Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 28 ottobre 2023.
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
C’è un silenzio, quello della pace, e c’è un altro silenzio, quello che si presenta quando non cadono più le bombe e si deve vedere che cosa è successo, chi è stato colpito, chi è morto. Due silenzi, due distinte ragioni per allontanarsi, per fare a meno dell’odio, per ritrovarsi vittime e persone, viventi, innocenti o colpevoli, ignari o consapevoli non importa. Un tempo sospeso quando l’urto del male sembra placarsi.
Ungaretti lo sa e lo fa capire, ancora in piena guerra. I morti hanno diritto al silenzio, al pianto, alla meditazione caotica e travolgente che sopravviene in chi si chiede chi sono stati, chi erano davvero per noi, in mezzo a noi viventi che intoniamo canti, urla, preghiere coperti dalla polvere.
Viviamo, ho detto ‘noi’ ma in realtà noi che ne siamo lontani viviamo con difficoltà questo silenzio della desolazione. Possiamo essere partecipi o assenti, in collera con questa storia assassina o rassegnati al peggio che da qualche parte deve pur colpire.
Ma questo è in ogni caso un silenzio della pietà che deve consentire allo strappo della morte di trovare un suo tempo, una sua durata, al di là del fatto in sé. Nulla capiamo della guerra finché non abbiamo nella realtà o nel ricordo un caduto o un superstite. Tutto questo finché i morti non cominceranno a farsi sentire nelle notti insonni di chi ha deciso le guerre. I morti che si faranno sentire anche a noi, apparentemente estranei, ogni volta che ci porremo qualche domanda.
C’è però anche un silenzio della vera pace, quella ostinata e tremante come una ragazzina coraggiosa, quella che suona come un diritto di chi fa una vita difficile, quella che chi governa con fatica sa quanto vale. Quella pace che è conquista di una terra desolata, frontiera calpestata che chiede ogni volta di rinascere.
“Dove non passa l’uomo”: dove i sentieri sono salvi dal calpestio, dall’urto del tempo e parlano della necessità di vivere come camminatori instancabili che non hanno paura dei cattivi incontri. Le parole del poeta sono davvero sussurri, voci lontane del sogno di un eterno ritorno, privo di cronologie, di età, di destini. Immemorabili perché perenni.
Vorrei ancora chiamare in causa un poeta e la sua consapevolezza visionaria, il suo urlo ritmato di un esserci come aspirazione umana. Evgenij Evtušensko: Per tutte le vittime, poesia che rivela quello spirito senza frontiere del poeta russo: “E divento un lungo grido silenzioso qui/ Sopra migliaia e migliaia di sepolti/ Io sono ogni vecchio/ Ucciso qui/ Io sono ogni bambino/ Ucciso qui/ Nulla di me potrà mai dimenticarlo”.
Con queste parole il poeta dedica al massacro della gola di Babi Yar dove nel settembre 1941 trovarono la morte trentatremila ebrei. Questo popolo ha tragicamente fornito al mondo il parametro orrendo di quel che può significare la radicalità programmatica e irriducibile della discriminazione e dell’odio. A questo proposito, dunque, per ogni forma di guerra che contenga l’espressione di un pregiudizio etnico non dovremmo mai dimenticare. E oggi dunque, se diciamo ‘Israele’, con eguale padronanza del vero dobbiamo dire ‘Palestina’. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Massimo Murianni per “Novella 2000” - Estratti domenica 29 ottobre 2023.
Trent’anni fa, il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca, il primo ministro israeliano di allora Ytzhak Rabin, e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat, firmarono gli accordi di Oslo davanti al presidente americano Bill Clinton.
Era la prima volta che Palestina e Israele si riconoscevano come interlocutori ufficiali, la prima volta che i due leader si stringevano la mano in pubblico, il primo passo verso una pace che poi, purtroppo, non si è concretizzata.
Le trattative furono condotte in una villa a Oslo, in Norvegia, di qui il nome. Gli israeliani riconobbero l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come autorità del popolo palestinese, e le riconobbero il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP riconobbe allo stato di Israele il diritto di esistere, e rinunciò formalmente all’Intifada, cioè la lotta armata per la creazione dello Stato palestinese. L’anno successivo ad Arafat, a Rabin e al ministro degli Esteri Perez fu assegnato il Nobel per la Pace. Trent’anni giusti dopo quello storico evento, la pace è quanto mai lontana. Cosa è andato storto? Lo chiediamo al diplomatico Nunzio Alfredo d’Angieri, detto Pupi, oggi ambasciatore per gli Affari europei del Belize, che per oltre vent’anni è stato consigliere e negoziatore di Yasser Arafat.
Eccellenza, come ha conosciuto Arafat?
«Durante una missione di lavoro in Libia, per trattare come avvocato un contratto per la Texaco, ho incontrato un vecchio amico, mio compagno di stanza nel collegio svizzero Rosenberg dove ho studiato, che era diventato il capo di gabinetto di Arafat. Mi portò da lui, che all’epoca stava in un bunker in Libano. Da allora, per 22 anni, ho lavorato come consigliere e negoziatore per Yasser Arafat».
Ha partecipato alle trattative che hanno portato agli Accordi di Oslo?
«Sì. Arafat e Rabin volevano la pace, avevano l’obiettivo di costruire un equilibrio tra due popoli in lotta da oltre 40 anni. Quando andai la prima volta da Rabin, mi sentivo forte della mia posizione di rappresentante di Arafat, ma lui chiarì subito la linea: “Serve riflessione, mettere da parte l’aggressività, analizzare la situazione senza rinfacciarci il passato, e partendo da qui trovare una soluzione”».
Anche Arafat era per la trattativa?
«Arafat era un leader che pensava al suo popolo, conosceva la sua gente. Voleva la pace, e sapeva tenere a bada gli estremisti che spingevano per la lotta armata. Odiava il terrorismo lo ha sempre detestato. Era un uomo estremamente intelligente, laureato in ingegneria, e sapeva dialogare e muoversi a livello internazionale».
A cosa si riferisce?
«Era rispettato da tutti i Paesi occidentali, ma aveva una peculiarità: non si muoveva senza prima aver parlato con Papa Giovanni Paolo II. Gli accordi di Oslo furono anche il risultato dell’operato del Papa e il suo peso politico. Uno degli obiettivi finali era la creazione di Gerusalemme città aperta, un territorio sacro a tre religioni che diventa luogo di dialogo. Un simbolo fortissimo per la pace».
Giovanni Paolo II accolse Arafat in Vaticano nel 1982, quando ancora gran parte del mondo considerava l’OLP una realtà terroristica.
«Papa Wojtyla era un grande visionario, c’era un rapporto sincero tra loro. Nel 2002, accompagnai Arafat in Vaticano, e davanti a me lo sentii dire al Papa: “Sono venuto da lei, Sua Santità, per l’ultima volta, a salutarla”. Il Papa sgranò gli occhi e chiese perché, Arafat rispose: “Perché Sharon (presidente israeliano, ndr) mi farà uccidere”. E così è stato. Giovanni Paolo II aveva gli occhi lucidi e disse “Pregherò per te amico mio”».
Perché si è interrotto il processo di pace avviato da Arafat e Rabin?
«Perché gli ebrei non hanno rispettato gli accordi. Non hanno mai fatto la strada che univa Gaza da West Bank (in Cisgiordania) e mai hanno permesso che Gerusalemme Est diventasse capitale della Palestina. E questo ha dato potere agli estremisti Palestinesi che si opponevano ai processi di pace».
Si riferisce ad Hamas, l’organizzazione palestinese che oggi detiene il potere a Gaza, ed è responsabile dell’attacco terroristico contro i civili in Israele che ha scatenato la guerra attuale?
«Quella di Hamas è stata una reazione di insofferenza. Arafat, ripeto, sapeva tenerli a bada. Mancato Arafat da una parte, e morto Rabin dall’altra, assassinato da un estremista di destra ebreo nel 1995, sono mancati i leader che credevano nel dialogo. E ancora oggi mancano».
Parla sempre di ebrei, mai di israeliani. È come se qualcuno ci chiamasse cattolici e non italiani.
«Mi sembra più corretto così. Israele non è un popolo, il popolo è Ebreo, la terra di Israele è una invenzione politica relativamente recente. Si trova facilmente il video di un’intervista a Golda Meir, del 1970, nel quale lei, presidente di Israele, dice testuale: “Io sono palestinese” e aveva passaporto palestinese».
Sarebbe un bel punto di partenza per un nuovo processo di pace.
«Per la pace servono leader capaci. E serve una politica internazionale che disarmi gli estremisti sul nascere».
Il terrorismo di Hamas è nemico della pace, e oggi per le loro azioni di morte paga il popolo innocente, dei Palestinesi a Gaza e degli Ebrei, così come a causa delle azioni militari di Israele muoiono innocenti civili, sia israeliani che palestinesi.
«I terroristi che colpiscono l’occidente in ogni posto non sono militari che partono da Gaza, sono immigrati che si radicalizzano perché vengono emarginati dalle nazioni in cui vivono».
(...)
La guerra è colpa di noi occidentali?
«Questa è una guerra creata dall’Occidente perché non ha fatto in modo che il popolo Ebreo abbia la sua terra, come pure il popolo Palestinese deve avere la sua terra. Speriamo che Papa Francesco voglia e possa far valere la sua posizione in prima persona, perché gli inviati non sono mai serviti. Questa è storia non fantasia».
La rete Nbc, che negli Usa ha trasmesso Friends, ha scritto in un comunicato: «Siamo incredibilmente addolorati per la scomparsa troppo presto di Matthew Perry. Ha portato tanta gioia a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo con i suoi tempi comici perfetti e la sua arguzia. La sua eredità vivrà attraverso innumerevoli generazioni».
L'attrice premio Oscar Viola Davis ha scritto: «Il tuo libro ha toccato così profondamente il mio cuore. Riposa in pace... sappi che hai portato amore».
Estratto dell’articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” lunedì 30 ottobre 2023.
All’inizio parve una cosa da niente, un atto un poco folle da parte di un gruppetto di ebrei religiosi particolarmente originali e tanto innamorati della terra d’Israele: affittare poche stanze nell’hotel A-Naher Al-Khaled nel centro di Hebron per celebrare assieme alle loro famiglie la Pasqua ebraica del 1968.
Il governo laburista di Levi Eshkol in principio storse il naso, dai giorni seguenti la travolgente vittoria del giugno 1967 si era deciso che i «territori occupati» ai danni di Giordania, Egitto e Siria (eccetto Gerusalemme Est che era stata subito annessa) andavano preservati intatti, per poter renderli agli arabi in cambio della pace e del pieno riconoscimento di Israele.
Ma poi erano arrivati i «no» dei nemici, le trattive si prolungavano, il neonato Olp lanciava attentati […] E poi c’era l’euforia della vittoria e la suggestione molto romantica nell’idea di «colonizzare la terra» […]. Di diverso c’era il carattere religioso dei nuovi coloni, li guidava un certo rabbino Mosge Levinger, […] lontano dal sionismo socialista. Se questo predicava la necessità tutta laica di lavorare la terra per creare «l’ebreo nuovo» in grado di difendersi da solo, Levinger parlava invece di riportare gli ebrei alle regioni che erano state dei regni di Israele prima della distruzione del Secondo Tempio.
I primi lo facevano con il fucile e l’aratro, i secondi si riferivano in termini teologici a una missione per volontà di Dio. Ma c’era un secondo argomento proposto da Levinger che andava a toccare nel profondo le sensibilità di leader politici e militari laburisti come Golda Meir, Ytzhak Rabin, Moshe Allon e Moshe Dayan: lui voleva portare la sua gente sia a Hebron, dove nel 1929 la popolazione palestinese aveva ucciso 69 ebrei, che nella vicina Kfar Etzion, località simbolo della guerra del 1948, quando l’esercito giordano e i volontari palestinesi trucidarono 127 combattenti dell’Haganah e membri di kibbutz locali che pure stavano arrendendosi.
[…] Quella prima Pasqua fu però un passo irreversibile. Perché Levinger e i suoi il giorno dopo si rifiutarono di partire. […] alla fine il compromesso fu di abbandonare il centro di Hebron (dove sarebbero tornati con un colpo di mano dieci anni dopo) e sistemarsi in una base militare semiabbandonata sulla collina che sovrasta la città. Era nato l’insediamento di Kiriat Arba, che da allora rimane il cuore pulsante dei coloni oltranzisti. […] il quartier generale dei «Gush Emunim», il blocco dei fedeli, che aveva come missione prima quella di «ebraicizzare» la terra con ogni mezzo, a qualsiasi prezzo, anche minacciando, derubando, persino uccidendo la popolazione palestinese. Quando si proclama che «Dio lo vuole» poi diventa molto difficile fare compromessi.
[…] Ehud Sprinzak, uno degli storici locali più attenti alla destra israeliana: «La maledizione per il nostro popolo è stata la vittoria del 1967, quando il nazionalismo sionista laico impadronendosi dei luoghi santi ebraici si è sposato con la destra religiosa xenofoba». Per molti osservatori, l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995, che voleva la pace in cambio della resa di parte delle terre, è frutto di quel connubio.
Negli anni Settanta la colonizzazione proseguì in modo semiclandestino […] I coloni tendevano a mettersi nelle basi militari, che poi lentamente diventavano loro. La svolta fu però con la «mapach», la rivoluzione alle elezioni del 1977, quando il Likud di Menachem Begin andò per la prima volta al governo soppiantando l’egemonia laburista. Da allora la colonizzazione del Golan e soprattutto della Cisgiordania sono diventate priorità […] Poco prima dell’intifada, […] dicembre 1987, i coloni erano circa 200.000.
L’intervista di Oriana Fallaci ad Ariel Sharon a Tel Aviv, del settembre 1982. Oriana Fallaci su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.
Pubblichiamo l’intervista che Oriana Fallaci fece ad Ariel Sharon nel 1982, tratta da «Intervista con il potere»
Pubblichiamo l’intervista che Oriana Fallaci fece all’allora generale israeliano Ariel Sharon a Tel Aviv, nel settembre 1982. L’intervista, contenuta nel libro «Intervista con il potere», testimonia da un lato la somiglianza tra alcune situazioni di 41 anni fa e quelle che si stanno riproponendo in queste drammatiche settimane; dall’altro, il suo incessante lavoro alla ricerca della verità — senza pregiudizi né affiliazioni. Fallaci non è mai stata tenera con Sharon, che in una conferenza tenuta nel settembre 1982 all’Università’ di Harvard definì molto orgoglioso del suo esercito: quasi nella misura in cui lo è di sé stesso», ma soprattutto «uno che mente sempre, come Shimon Peres gli ha gridato in Parlamento». Quando nel 1970 la giornalista arrivò di notte in Medio Oriente, nella valle del Giordano, con il suo fotografo Moroldo dopo l’esperienza da inviata in Vietnam, questi pensieri rimuginava tra sé e sé, come si trova nella prefazione di Lucia Annunziata al libro «Le radici dell’odio»: «Qui si riassume così: da una parte ci sono gli arabi e dall’altra gli ebrei, sia gli uni che i secondi combattono per non finire. Se vincono gli arabi sono finiti gli ebrei; se vincono gli ebrei, sono finiti gli arabi. Dunque chi ha ragione, chi ha torto, chi scegli?». Una domanda attualissima, parole che potrebbero essere scritte oggi. Ma l’Oriana Fallaci che arriva in Medio Oriente da ammiratrice di Israele, già alle prime luci dell’alba di quella notte nella valle del Giordano si dà una risposta: «Gli ebrei li conosci. Perché hai sofferto per loro, con loro, fin da bambina, li hai visti braccare arrestare massacrare (…) Gli arabi non li conosci. Non hai mai sofferto con loro, non hai mai pianto per loro, non sono mai stati un problema per te (…) Però un giorno è successo qualcosa. Hai letto che centinaia e centinaia di migliaia di creature, di palestinesi, erano fuggiti o erano stati cacciati (…) ammassati come le pecore nei campi-profughi (…) sradicati, umiliati, spogliati d’ogni possesso e d’ogni diritto: i nuovi ebrei della Terra».
ORIANA FALLACI. La prima parte della guerra, anzi della sua guerra, generale Sharon, è finita. I palestinesi di Arafat se ne vanno da Beirut. Però se ne vanno a testa alta, dopo aver resistito quasi due mesi e mezzo al potente esercito israeliano, e circondati da una simpatia che prima non esisteva o esisteva soltanto in parte. Pur non dimenticando che erano stati loro a invadere per primi il Libano e agirvi da padroni, ora tutti sono concordi nel riconoscere che questo popolo deve avere una casa, una patria, e non a torto Arafat parla di vittoria politica. Non a torto molti sostengono che, politicamente, lei gli ha fatto un regalo. È questo che voleva?
ARIEL SHARON Io volevo che se ne andassero da Beirut, dal Libano, e ciò che volevo l’ho ottenuto in pieno. Arafat dica quel che gli pare: non conta. Sono i fatti che contano, e gli sviluppi, le conseguenze che tali fatti avranno in futuro. Forse lui crede sul serio d’aver vinto politicamente, ma il tempo gli dimostrerà che la sua sconfitta è soprattutto politica. Politica, non militare. Militarmente, sa... se io dovessi analizzare questa guerra per conto di Arafat, non la giudicherei una sconfitta militare. L’esercito israeliano è davvero potente, i terroristi dell’OLP non erano che diecimila, siriani compresi, e contro quei diecimila abbiamo scatenato una pressione notevole. Politicamente, invece, la sua sconfitta è completa. Assoluta, completa. E le spiego perché. La forza dell’OLP consisteva nell’essere un centro internazionale del terrorismo, e tale centro poteva esistere soltanto disponendo d’un paese dentro cui installare uno Stato nello Stato. Questo paese era il Libano. Dal Libano partivano per agire in ogni parte del mondo, in Libano avevano il loro quartier generale militare e politico. Ma ora che si sparpagliano in otto paesi lontani l’uno dall’altro, dall’Algeria allo Yemen, dall’Iraq al Sudan, non hanno nessuna speranza di rifare quel che facevano. Nessuna. Ci accingiamo a vedere una situazione del tutto nuova in Medio Oriente, qualcosa che ci consentirà di arrivare a una coesistenza pacifica coi palestinesi. L’altra sera mi ha telefonato Henry Kissinger, e mi ha detto che un’era nuova sta incominciando in questa regione: nuove possibilità stanno aprendosi per la soluzione del problema palestinese. Israele, mi ha detto, avrà dai dodici ai diciotto mesi di tempo per trovare quella soluzione prima che l’OLP si riprenda.
Dunque anche Kissinger ritiene che l’OLP non sia annientata. Non lo è. E in compenso Arafat ha avuto la sua piccola Stalingrado, è riuscito a commuovere il mondo nella stessa misura in cui lei è riuscito a indignarlo mettendo a ferro e fuoco una città che ora non esiste più, i rapporti tra Israele e gli americani si sono guastati... Avrà vinto lei, generale Sharon, ma a me sembra proprio la vittoria di Pirro.
Si sbaglia. Da un’inchiesta recente risulta che le simpatie per Israele sono aumentate. E va da sé che la cosa non è importante perché, sebbene la simpatia del mondo ci interessi, quando si tratta della nostra sicurezza e della nostra esistenza possiamo farne benissimo a meno. Quanto ai rapporti tra Israele e gli americani, non si sono guastati. Sì, con gli americani abbiamo avuto scontri molto duri, discussioni molto amare. Gli americani ci hanno imposto anche molte pressioni psicologiche, e prima che incominciasse la guerra non riuscivo a stabilire con loro un interesse comune, uno scopo comune. Ora invece condividono i nostri obiettivi, concordano sui nostri programmi, e comunque sa cosa le dico? Preferisco subire quelle pressioni, quelle discussioni, quegli scontri, piuttosto che evacuare con l’elicottero dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon. La ritirata degli americani da Saigon fu un oltraggio, e quell’oltraggio io non l’ho sofferto. L’ho fatto soffrire agli altri.
Non mi sembra esatto, generale Sharon. La partenza dell’OLP da Beirut è stata piuttosto dignitosa, fin oggi. Lacrime, sì, sciocche sparatorie, sì, ma in sostanza era un esercito che partiva: con le sue uniformi, i suoi Kalashnikov, le sue bandiere. Perché è così spietato, generale Sharon? Era dunque solo disprezzo quello che sentiva mentre dall’alto della collina di Bab’da li guardava col suo potente canocchiale?
No, sentivo quel che dice la Bibbia: «Non gioire quando il nemico cade». Perché anche se erano killer, e lo sono, anche se erano assassini, e lo sono, anche se erano stupratori, e lo sono, anche se erano sanguinari terroristi e... No, non mi interrompa! Mi lasci rispondere a modo mio! Anche se erano sanguinari terroristi, dicevo, e lo sono, si trattava di esseri umani. E non gioivo. Quanto allo spettacolo che hanno messo insieme recitando la commedia della vittoria, sapevamo benissimo che sarebbe successo. C’erano i nostri servizi di informazione a Beirut Ovest, e conoscevamo i loro preparativi. Sapevamo che avevano ricevuto ordini severissimi sul modo di comportarsi dinanzi ai giornalisti e alla Tv, che a ciascuno era stata data una uniforme nuova o pulita... Gli era stato perfino raccomandato di esibire il fucile, visto che Begin non si era opposto al fatto che si portassero via i fucili... Però è inutile che lei continui a usare la parola partenza. Non è stata una partenza. Non è stata nemmeno una ritirata, nemmeno una evacuazione. È stata una espulsione. I terroristi dell’OLP avrebbero potuto parlare di evacuazione se noi avessimo accettato ciò che pretendevano: ad esempio che lasciassimo Beirut. Invece hanno dovuto piegarsi a ciò che esigevamo, inclusa la nostra presenza, e la loro è una cacciata. Una espulsione.
Se vuole. Ma prima di andare avanti, devo fare una parentesi. Perché li chiama terroristi? Terrorista è colui che distribuisce terrore tra gli inermi e gli indifesi, uccidendo un cittadino che cammina per strada ad esempio, o facendo saltare in aria un’automobile, un treno, un edificio. E non v’è dubbio che di queste carognate, di queste porcherie, l’OLP ne abbia commesse in abbondanza. Anni fa lo dissi, nella mia intervista, ad Arafat e Habbash. Però a Beirut non facevano i terroristi. A Beirut erano soldati che vi affrontavano da soldati: artiglieria contro artiglieria, mitragliatrici contro mitragliatrici.
Lei mi ricorda Habib che, ogniqualvolta pronunciava o leggeva la parola «combatants», combattenti, mi lanciava un’occhiata e frenava un sorriso. Perché conosceva la mia reazione. Combattenti, soldati? Nossignora, quelli non erano combattenti e soldati. Neanche a Beirut. Chi entra nella sala chirurgica di un ospedale dove i medici stanno operando un ferito e disconnettendo i tubi dell’ossigeno ordina di buttar via il ferito, sostituirlo con quello che portano loro, non è un soldato. È un terrorista, un assassino. Chi confisca un convoglio della Croce Rossa e ruba il latte in polvere destinato ai bambini, sghignazzando, non è un soldato. È un terrorista, un ladro. Ecco come si comportava la marmaglia di Arafat a Beirut. I siriani non si comportano a quel modo, i giordani non si comportano a quel modo, gli egiziani non si comportano a quel modo. Gli uomini di Arafat sì. Sempre, da sempre. Ai confini tra Libano e Israele avevamo decine di installazioni militari. Eppure non le attaccavano mai. Mai! Attaccavano sempre i kibbutz, uccidevano sempre la gente inerme, i bambini, i vecchi, le donne. Non sono un esercito. Sono una banda di vigliacchi, di terroristi. Mi chieda tutto ma non mi chieda di chiamarli soldati.
Il fatto è che lei usa la parola terrorista come un insulto. E a ragione. Ma voi che altro eravate quando vi battevate contro gli arabi e gli inglesi per fondare Israele? L’Irgun, la Stern, l’Haganà non erano forse organizzazioni terroristiche? La bomba con cui Begin uccise settantanove persone al King David Hotel di Gerusalemme non era forse un’azione terroristica? Lo ammette anche lui. Tempo fa, a New York, durante una colazione in suo onore, incominciò il suo discorso dicendo: «Sono un ex terrorista».
L’organizzazione diretta dal signor Begin non attaccava i civili. E il signor Begin faceva un punto d’onore nel raccomandare ai suoi uomini di non colpire i civili. La bomba al King David Hotel era diretta contro i militari inglesi e la colpa di quell’episodio ricade tutta sullo High Commissioner inglese che era stato avvertito mezz’ora prima ma invece di evacuare l’albergo scappò. Noi non eravamo terroristi, eravamo dei «Freedom Fighters», combattenti per la libertà. Noi ci battevamo contro l’occupazione inglese.
Anche gli uomini di Arafat si definiscono «Freedom Fighters », combattenti per la libertà, e sostengono di battersi con tro l’occupazione israeliana. Parentesi chiusa. Ora mi dica, generale Sharon: non le dispiace di non essere entrato a Beirut e di non averli fatti fuori tutti, ammazzati tutti, questi suoi nemici? Anche come generale, non si sente derubato di qualcosa, insoddisfatto?
Senta, non è più un segreto che lo scorso gennaio, per l’esattezza il 18 gennaio, andai clandestinamente a Beirut per studiare la situazione. Io faccio sempre così, mi preparo, perché detesto le improvvisazioni. Un viaggio assai avventuroso, peraltro, sia all’andata che al ritorno... Andai, vi rimasi due giorni e una notte, girai per la città spingendomi fino al porto dove parlai con la gente, e poi dall’alto del grattacielo che divide la sezione mussulmana da quella cristiana osservai bene la città. V’era qualcuno con me, e a questo qualcuno dissi subito ciò che avrei detto al primo ministro Begin rientrando a Gerusalemme: «Se o quando dovremo andare in Libano, vorrei evitare di entrare a Beirut». Sa perché? Perché, anche occupata dai siriani, anche invasa dai terroristi, Beirut restava la capitale. Una capitale abitata da centinaia di migliaia di civili. Miss Fallaci, affermo di non aver mai voluto entrare a Beirut. Affermo di avere sempre pensato che non bisognava entrare a Beirut se non in caso di assoluta necessità. E mi ascolti bene: se fossi stato davvero convinto che bisognava entrare a Beirut, nessuno mi avrebbe fermato. Democrazia o no, ci sarei entrato anche se il mio governo l’avesse vista diversamente. Li avrei persuasi che dovevo farlo e lo avrei fatto.
Se è così, perché ci ha provato tanto? Durante l’ultima parte dell’assedio ero a Beirut, generale Sharon. Ci ero andata proprio per vedere, preparare questa intervista. E, come tutti, posso testimoniare che ogni giorno lei ci provava. Ogni giorno c’era battaglia al museo, all’ippodromo, nella foresta dei pini. Per andare da Beirut Est a Beirut Ovest, l’ho attraversata quella foresta dei pini dove israeliani e palestinesi si guardavano praticamente in faccia, e ho guardato bene. Perbacco, vi battevate per il possesso di cento metri, cinquanta metri. Venticinque! E non riuscivate ad avanzare.
Miss Fallaci... mi creda. Militarmente potevamo entrare in qualsiasi momento. Nell’eventualità che la cosa si rendesse necessaria, avevamo fatto tutti i preparativi per entrarci. Non dimentichi che abbiamo uno degli eserciti migliori del mondo, che da trentacinque anni non facciamo che combattere, che siamo stati in guerra con tutti i paesi arabi, che abbiamo moltissima esperienza.
Ma, forse, non l’esperienza del combattimento in città, casa per casa. Generale Sharon, mi sbaglio o una delle ragioni per cui non siete entrati a Beirut Ovest era che quel tipo di combattimento vi sarebbe costato troppi soldati: almeno mille?
La guardo negli occhi e le rispondo no, no, no. Anzitutto non avremmo avuto i morti che lei dice. Neanche una cifra paragonabile a quella che lei cita. Ce la saremmo cavata con alcune dozzine di soldati morti nei combattimenti casa per casa: questo è ciò che anche il capo di Stato Maggiore disse al primo ministro Begin. Poi ci siamo fermati tutte quelle settimane perché sapevamo che l’OLP aveva capito di non potercela fare e avrebbe finito con l’andarsene. Miss Fallaci, Beirut non è Stalingrado e l’OLP non è l’Armata rossa: mettiamo le cose nelle giuste proporzioni. Poco fa lei ha parlato di una piccola Stalingrado. Ma c’era lei a Stalingrado?
Io no, e lei?
Neanche io. Però so tutto di Stalingrado, ho letto tutto su Stalingrado, e le dico che nemmeno a far le debite proporzioni si può paragonare Beirut a Stalingrado. Anzitutto a Stalingrado la popolazione e l’Armata rossa combattevano spalla a spalla contro i tedeschi. A Beirut invece la popolazione era tenuta in ostaggio dai terroristi. Poi a Stalingrado l’Armata rossa e la popolazione combatterono eroicamente, fino alla morte. I terroristi di Arafat invece hanno combattuto quel poco che bastava per dare l’impressione di combattere. Non hanno mai combattuto fino in fondo. Mai! Spesso non hanno combattuto per niente. Infatti abbiamo impiegato appena quattro giorni per arrivare dal confine ai sobborghi di Beirut. Hanno combattuto pochissimo anche all’aeroporto e nei campi. È sorprendente il numero esiguo di perdite umane che abbiamo avuto occupando il campo di Ouzai, il campo di Bouj Barajne, il campo di Hagshalum. E anche per questo io non li rispetto, non rispetto Arafat. Rispetto gli egiziani per come si sono battuti in tutte le guerre contro di noi, rispetto i giordani per come si sono battuti nel 1967 a Gerusalemme, rispetto i siriani per come si sono battuti in molte occasioni e anche in questa. Ma non rispetto i terroristi di Arafat perché non si sono battuti in Libano e a Beirut. E le ripeto che, se fosse stato per loro, avremmo potuto entrare comodamente a Beirut.
Ma non ci siete entrati. E se il motivo non è quello che ho detto, dev’essere un altro. Mi sbaglio o quest’altro motivo potrebbe chiamarsi presidente Reagan, americani? Mi sbaglio o il presidente Reagan, gli americani, non volevano che entraste? Mi sbaglio o non potevate ignorare l’ira e la condanna dei vostri protettori e alleati? Gli americani erano arrabbiati fin dall’inizio, si sa. Basti pensare alla freddezza con cui Reagan accolse Begin che aveva imposto la sua visita a Washington.
Anzitutto Begin non impose affatto la sua presenza a Washington. Lei non conosce Begin. Poi per fare questa guerra non avevamo bisogno del permesso di nessuno, inclusi gli americani. Abbiamo mai chiesto il loro permesso per fare ciò che abbiamo fatto in questi trentacinque anni? Abbiamo forse chiesto la loro autorizzazione per annunciare lo Stato di Israele, per dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, per portare il governo e il Parlamento a Gerusalemme, per passare il canale di Suez nel 1973, per fare il raid di Entebbe, per bombardare il reattore nucleare iracheno? Siamo uno Stato indipendente, prendiamo le nostre decisioni liberamente e di nostra spontanea volontà. Infine abbiamo alleati, non protettori. Non ci servono i protettori. Così non dico che si possa ignorare l’opinione dei nostri alleati, però dichiaro che non prendiamo ordini da nessuno. Il motivo per cui non sono entrato a Beirut è quello che ho detto prima. In parole semplici, non volevo colpire la popolazione civile.
Ah, no, generale Sharon! No! Che razza di storia è questa? Per settimane lei l’ha bombardata in modo feroce quella popolazione civile. Feroce! Posso dirglielo io che ho seguito quasi tutte le guerre del nostro tempo e per otto anni quella in Vietnam. Neanche a Hué, neanche a Hanoi ho visto bombardamenti feroci come quelli di Beirut. E ora vuol darmi a bere che non è entrato a Beirut per risparmiare a quella povera gente qualche fucilata in più?
Lei è dura, troppo dura. Sì, lo so che c’era e che ha visto. Però so anche che non abbiamo mai bombardato intenzionalmente la popolazione civile. Non abbiamo mai bombardato per colpire la popolazione civile. Mai! La maggior parte dei bombardamenti, e dico la maggior parte perché la guerra è guerra, sono avvenuti nelle zone dove i terroristi avevano le loro basi e i loro quartieri generali, cioè a sud del Boulevard di Mazra, nell’area di Fakhani. Parlo di Sabra, Chatila, Ouzai, Bouj Barajne...
Ora Coventry, Berlino 1945. Ma non bombardavate solo laggiù, bombardavate anche il centro. Le case, gli ospedali, gli uffici dei giornali, gli alberghi, le ambasciate. Lo chieda a chi era dentro. Lo chieda ai giornalisti che stavano all’hotel Commodore.
Noi non bombardavamo quei luoghi, bombardavamo le postazioni militari installate accanto a quei luoghi. Bombardavamo gli obiettivi militari che i terroristi mantenevano criminalmente nel centro della città riparandosi dietro la popolazione, tenendo in ostaggio la popolazione! Osservi queste fotografie scattate dai nostri aerei. Guardi qui: a centoventi metri dall’ambasciata del Vaticano, una batteria di mortai da 82 mm. A quindici metri dall’ambasciata d’Egitto, un’altra batteria identica. A trecento metri dall’ambasciata sovietica, buona parte dell’artiglieria pesante e dell’artiglieria a media gittata. A poche decine di metri dalle ambasciate del Giappone e del Cile, altra artiglieria a lunga e media gittata. Accanto all’ambasciata di Spagna, un cannone da 130 mm. Intorno all’ambasciata americana, carri armati. Crede davvero che volessimo colpire le ambasciate del Vaticano, dell’Egitto, dell’Unione Sovietica, del Giappone, del Cile, della Spagna, degli Stati Uniti? E ora guardi dove sono i loro carri armati: qui, qui, qui, qui, qui...
D’accordo. Potrei replicare che, negli ultimi giorni, a Beirut Est, anche voi tenevate i carri armati a pochi metri dall’hotel Alexandre e dall’ospedale Hotel Dieu. Sicché ogni notte e ogni mattina era una pioggia di Katjusce palestinesi, un inferno. Ma preferisco dirle: d’accordo, in quello ha ragione. In alcuni casi l’OLP ha fatto di peggio: ha messo l’antiaerea sul tetto di un ospedale. Ma il punto non è questo. È l’esagerazione, la sproporzione, la ferocia, ripeto, dei vostri bombardamenti. Ogniqualvolta volava una mosca su Beirut, rispondevate con tonnellate di fuoco. Se non fosse così, come spiegherebbe l’indignazione dello stesso presidente Reagan?
Con l’esagerazione con cui lei mi descrive la nostra esagerazione. La stessa esagerazione, o inaccuratezza, che è stata comunicata a Reagan. Sì, perché a un certo punto il presidente Reagan disse che il simbolo di questa guerra era una bambina di pochi anni con le braccia amputate. Qualcuno gli aveva messo sulla scrivania la foto di una bambina fasciata come una piccola mummia, sicché sembrava che avesse le braccia amputate, e lui venne fuori con la storia del simbolo. Bè, abbiamo cercato questa bambina e l’abbiamo trovata. Anzitutto non era una bambina, era un bambino. Poi non aveva le braccia amputate, aveva un braccio ferito. Era stato fasciato a quel modo perché...
Generale Sharon, se vogliamo batterci a colpi di fotografia, posso inondarla, soffocarla con fotografie di bambini morti o feriti sotto quei bombardamenti. Ne ho per caso una in borsa che volevo farle vedere, che non ho più voglia di farle vedere, e...
Me la faccia vedere.
No, perché ora non voglio rivederla io. Mi fa male. E mi fa arrabbiare troppo.
Io voglio vederla lo stesso.
Le ho detto no, non è necessario.
Sì, invece. Devo vederla.
E va bene.
(Apro la borsa e ne estraggo una fotografia. Ritrae un gruppo di bambini morti. Età, all’incirca, un anno, tre anni, cinque anni. La cosa più spaventosa però non è che sono morti: è che sono ridotti a pezzi, maciullati. E qua c’è un piedino che manca al cadavere del più piccolo, qua un braccino che manca al cadavere del più grande, là una manina aperta quasi a implorare pietà. Ariel Sharon la prende con mano ferma, decisa, poi la fissa e per una frazione di secondo il suo volto si contrae, i suoi occhi si irrigidiscono. Subito dopo si ricompone e mi restituisce la fotografia, un po’ imbarazzato).
Mi dispiace... Mi dispiace molto. Molto... Mi dispiace molto. Mi dispiace tanto che quasi non mi importa dirle: questa fotografia assomiglia a quelle dei nostri bambini ammazzati nei kibbutz dai terroristi di Arafat. E poi a che serve? Da qualsiasi parte della barricata avvenga, ogni morte è una tragedia, e la morte di un bambino è sempre una tragedia intollerabile. Ma lei deve credermi quando ripeto che abbiamo cercato di evitare queste cose il più possibile. Nessuno, nelle ultime guerre, ha mai tentato quanto noi. Né gli americani, né i francesi, né gli inglesi, né i russi, per non dire dei tedeschi. E non starò a ricordarle Hiroshima, cioè il caso di un paese democratico che per finire una guerra non esita a provocare centinaia di migliaia di morti tra la popolazione civile. Ma una cosa è uccidere la popolazione civile di proposito e una cosa è ucciderla senza volerlo. Nella riunione che ebbi coi miei ufficiali il 6 giugno, cioè prima di entrare nel Libano, detti disposizioni precise affinché i civili fossero risparmiati. Due giorni dopo andai al fronte e seppi che la maggior parte delle nostre perdite erano dovute proprio alle mie disposizioni. Così riunii di nuovo i miei ufficiali e dissi: «Le scelte da fare son due, proseguire nello stesso modo o metterci a bombardare ». Il dibattito durò da mezzanotte all’alba, drammaticamente, e si concluse con una decisione unanime: proseguire come prima. Ai bombardamenti ricorremmo soltanto quando compresi che per indurre i terroristi palestinesi a lasciare Beirut bisognava premere in modo massiccio.
Sì, ma allora perché continuò a bombardare anche dopo che avevano annunciato di andarsene? V’erano giorni in cui gli emissari di Habib non potevano passare da est a ovest, e viceversa, per via dei bombardamenti, e lo stesso Habib diceva che era lei a sabotare le trattative: «Tutti i problemi mi vengono da Sharon». E perché, quando l’accordo era stato praticamente raggiunto, l’11 agosto, impose il bombardamento più feroce di tutti, dodici ore ininterrotte, dalla terra, dal cielo, dal mare?
Perché Arafat continuava a fare giochetti, imbrogli. Perché continuava a mentire e a prenderci in giro, quel vigliacco, quel bugiardo. Non ci si può mai fidare di lui, di loro. Vivono sulla furbizia, tradiscono sempre i giuramenti, gli impegni. Anche ora. Prima di imbarcarsi, ad esempio, dovevano dare i nomi. Non li hanno dati. Non dovevano portare a bordo i carri e le jeep. Cercano di portarle. E l’11 agosto esigevano ancora il nostro ritiro da Beirut, la sostituzione delle nostre truppe con quelle delle forze internazionali. Allora li bombardammo, sì. E in che modo... in che modo... Ma funzionò. La notte seguente, cioè la notte tra il 12 e il 13, si piegarono alle nostre condizioni. E io cessai di bombardare.
O cessò di bombardare perché il suo stesso governo glielo impose?
Miss Fallaci, quei bombardamenti non erano iniziativa personale di Sharon: erano decisi e approvati dal governo. Perciò, quando il primo ministro e l’intero gabinetto decisero di cessarli, il governo pose fine a qualcosa che esso stesso aveva voluto, aveva approvato, aveva sottoscritto.
Sta negando che questa guerra sia la sua guerra, la guerra di Ariel Sharon?
Esattamente. Questa guerra non è la mia guerra, è una guerra di Israele.
Però Sharon l’ha concepita, sognata, desiderata, voluta, preparata e condotta in tutti i particolari. Cioè a modo suo. E per condurla a modo suo non s’è curato nemmeno di irritare i suoi alleati. Generale Sharon, come spiega che il nuovo segretario di Stato George Shultz abbia rifiutato in questi giorni di riceverla a Washington e che un suo funzionario abbia detto chiaro e tondo: «La presenza del ministro della Difesa Sharon non è gradita a Washington»?
È corsa questa notizia, sì, ma poche ore dopo il portavoce di Shultz ha aggiunto che non era vero, che il ministro della Difesa Sharon era sempre benvoluto a Washington, che tuttavia era meglio continuare i contatti con Habib a Beirut. Del resto io non ho mai chiesto d’essere invitato a Washington: né da Reagan, né da Weinberger, né da Shultz sebbene desideri moltissimo conoscere Shultz. È vero invece che tale incontro è stato chiesto da Begin, attraverso il nostro ambasciatore in America. Era il primo ministro che voleva mandarmi a Washington: non perché scavalcassi Habib ma perché riteneva utile che dessi personalmente al governo americano alcune informazioni su quel che sta succedendo in questa parte del mondo.
Capisco, e come spiega il fatto che gli americani vi abbiano tenuto il muso per tutta la durata della guerra?
Con la loro paura che il successo dell’impresa andasse perduto. La lunghezza di questa guerra preoccupava molto gli americani. Non volevano capire che andava per le lunghe perché non intendevo entrare a Beirut, e temevano che il tempo sciupasse tutto. Sa, il Libano è una faccenda complicata: in Libano non ci sono soltanto i libanesi e i terroristi dell’OLP. C’entrano anche i siriani, i sovietici... Senza contare voi della stampa e della televisione. Siete diventati una parte decisiva nella valutazione degli avvenimenti e soprattutto delle guerre. Il modo in cui le interpretate, cioè le cose che scrivete e le immagini che mostrate, è spesso determinante. Voglio dire, nei paesi in cui esiste la democrazia, siete voi a creare l’opinione pubblica. Così un presidente democratico deve tener conto dell’opinione pubblica, e se pensa che in America ci saranno le elezioni a novembre... Comunque io non drammatizzerei l’irritazione degli americani. La nostra alleanza con gli americani è basata su interessi reciproci, e gli americani lo sanno. Israele ha contribuito alla sicurezza degli Stati Uniti non meno di quanto gli Stati Uniti hanno contribuito alla sicurezza di Israele, e qualche screzio non cambia nulla.
In altre parole, avete bisogno di loro quanto loro hanno bisogno di voi. Ma quando li informò, esattamente, che stava per invadere il Libano?
A parte il fatto che alla parola invasione preferisco la parola operazione, io non ho mai informato gli americani che avrei invaso il Libano. Non ho mai parlato con loro di piani veri e propri, di date, di orari. Però per quasi un anno, e cioè dal settembre del 1981, ho discusso con loro l’eventualità che l’operazione avvenisse. Ne ho discusso varie volte con l’allora segretario di Stato Alexander Haig quando veniva qui, ne ho discusso col ministro della Difesa Weinberger quando sono andato a Washington in novembre, ne ho discusso ripetutamente con l’ambasciatore Habib... Guardi, Haig e Weinberger e Habib io li vedevo soltanto per discutere il problema del terrorismo, dell’OLP. E, pur guardandomi bene dal fornirgli il mio piano, non ho mai tenuto segreti, alimentato misteri. Al contrario. Poiché il bombardamento della centrale nucleare in Iraq li aveva colti di sorpresa e se n’erano lamentati, «Please don’t catch us by surprise, per favore non prendeteci di sorpresa», parlando del Libano non facevo che ripetergli: «Non ditevi colti dalla sorpresa, se o quando ci decideremo. La situazione è tale che non possiamo frenarci più». Questo soprattutto dopo quello che dicevano i loro diplomatici in Arabia Saudita, cioè il paese che ha sempre sostenuto e finanziato il terrorismo dell’OLP più di qualsiasi altro a parte l’Unione Sovietica. Quei diplomatici dicevano che le attività terroristiche lungo le frontiere con Israele dovevano essere considerate violazioni al cessate il fuoco, ma le altre no. Così andai dall’ambasciatore americano in Israele, gli presentai lo scenario di quel che sarebbe successo e ripetei: «Non sorprendetevi quando succederà ».
E che cosa le risposero, come giudicarono il suo «progetto»? Non le dissero: «Con questo progetto lei rischia di far scoppiare la Terza guerra mondiale»? E lei non si è mai chiesto se con questa guerra avrebbe scatenato la Terza guerra mondiale?
Naturalmente avevamo considerato le varie possibilità di un intervento sovietico, anche parlando con gli americani. Sappiamo bene che, se scoppiasse la Terza guerra mondiale, essa non colpirebbe soltanto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: travolgerebbe tutti e noi per primi. Ma sa... abbiamo anche noi servizi segreti, e ben funzionanti, oltretutto. Sappiamo anche noi raccogliere notizie, vagliarle, assorbirle. Così avevamo messo insieme molte informazioni, le avevamo esaminate con cura, prudenza, e avevamo concluso che l’Unione Sovietica non avrebbe mosso un dito.
Tuttavia Alexander Haig giudicò l’intera faccenda con l’aggettivo «insane». Folle. Lo ha dichiarato uno dei suoi aiutanti.
Non ricordo questa parola. Folle? No, nessuno mi ha mai detto questa parola. Però erano contro, sì. Assolutamente contro, devo ammetterlo. Pur conoscendo la situazione, la misura in cui essa si deteriorava, non volevano darmi ragione. Continuavano a dire, ricordo, la frase seguente: «Why do you need this war? Perché ha bisogno di questa guerra?». Poi dicevano che, se fosse stato necessario fare qualcosa, questo avrebbe dovuto essere proporzionato all’atto terroristico e niente di più.
Glielo chiedo anch’io, generale Sharon: «Why did you need this war?». Perché aveva bisogno di questa guerra? Dov’era la minaccia impellente, il fatto nuovo che metteva in pericolo la vostra esistenza? Non lo capisce nessuno.
Lei ragiona come Haig quando mi diceva: «Frenatevi, non rispondete alle provocazioni». Oppure: «Dovrebbe trattarsi di una provocazione precisa». Un giorno mi spazientii e chiesi a Haig quello che avevo già chiesto a Habib: «Qual è la provocazione precisa quando si tratta degli ebrei? Un ebreo assassinato nel campo o per strada è una provocazione precisa, sufficiente? Oppure ce ne vogliono due? O tre, o cinque, o dieci? Se uno perde in un attentato le gambe, no, gli occhi, basta o no?». Da anni siamo tormentati, ammazzati. Ciò, per me, è più che sufficiente, è più che preciso.
Generale Sharon, io ho parlato con diversi giovani qui in Israele, ragazzi che venivano da Beirut, e una buona percentuale mi ha detto che questa è una guerra, se non ingiusta, almeno ingiustificata.
Se parlasse con tutti, scoprirebbe che quasi tutti, invece, hanno accettato questa guerra e la trovano più che giustificata.
Possibile: siete diventati così bellicosi. Sempre a parlare di guerra, sempre pronti a fare la guerra, a espandervi. Non siete più la nazione del grande sogno, il paese per cui piangevamo. Siete cambiati, ecco. Uno di quei ragazzi mi ha detto: «Stiamo diventando la Prussia del Medio Oriente».
Non è vero. Abbiamo tante cose da fare, oltre che combattere. Ad esempio sviluppare la nostra educazione, la nostra cultura, la nostra agricoltura, la nostra industria, la nostra scienza. Ad esempio assorbire gli ebrei che arrivano continuamente da più di settanta paesi, fare una nazione con loro. E non partecipiamo a nessuna corsa alle armi: stiamo solo tentando di migliorare le nostre capacità di difesa per essere pronti a reagire quando ce n’è bisogno.
Quel ragazzo ne dubitava. Il suo eroe era il colonnello Gheva, quello che ha rifiutato di comandare i suoi uomini nell’assedio di Beirut.
Povero Eli, lo conosco bene. Lo conosco da quand’era bambino e mi dispiace per lui. Non voleva entrare a Beirut. Bè, ha perduto il comando della sua brigata, ha perduto una brillante carriera nell’esercito, e non siamo entrati a Beirut. Un eroe? Non direi proprio: per colpa sua la guerra è durata più a lungo e abbiamo avuto più perdite. Tutto quel parlare di lui... tutte quelle manifestazioni pacifiste che a causa di lui l’opposizione inscenò... Per un po’ la cosa ridette forza ai terroristi. E non servì a nulla che gli dicessi: «Eli, Eli, è una questione morale! Le tue truppe sono in combattimento, migliaia di soldati credono in te! Ti rendi conto di quel che stai facendo, Eli? Senza volerlo aiuti il nemico!». Glielo disse anche il primo ministro, glielo disse anche il capo di Stato Maggiore. Perché questa è davvero una democrazia, perbacco! Una democrazia così democrazia che più democrazia di così non si può. In quale altro esercito si sarebbe reagito così?!? Ma non ci fu nulla da fare. Ripeteva che non voleva entrare a Beirut, che ciò avrebbe ucciso troppe persone da una parte e dall’altra. La cosa straordinaria è che nei primi giorni della guerra brontolava perché non bombardavamo abbastanza. Voleva più bombe, più artiglieria, più fuoco...
Oddio! Sta dicendo che aveva ragione Sadat quando affermava che in Israele non esistono falchi e colombe ma falchi e superfalchi?
Quando si tratta della nostra sicurezza siamo uniti, non c’è dubbio. Non ci sono né falchi né colombe ma ebrei. Né Partito laburista né Partito Likud ma ebrei. Ecco la mia risposta.
Generale Sharon, a volte nasce il sospetto che anziché di sicurezza, difesa, si tratti di ambizioni molto ambiziose. Dico così pensando al discorso che lei scrisse per la conferenza dell’Institute of Strategic Studies tenuta nel dicembre scorso a Tel Aviv. E in questo discorso, partendo dal problema dell’espansionismo sovietico e descrivendo la sfera degli interessi strategici israeliani, lei dice che tali interessi non «si limitano ai paesi arabi del Medio Oriente, al Mediterraneo, al Mar Rosso. Sicché, per ragioni di sicurezza, negli anni Ottanta essi devono allargarsi e includere paesi come la Turchia, l’Iran, il Pakistan, nonché regioni come il Golfo Persico e l’Africa. Particolarmente i paesi dell’Africa centrale e del Nord». Raggelante.
Uhm! Vedo che s’è preparata bene. Il fatto è che Israele è un paese molto particolare. E per motivi particolari, che poi si riassumono nelle persecuzioni, deve affrontare problemi globali di sicurezza globale. Tali problemi sono racchiusi in tre circoli. Primo circolo, il terrorismo palestinese. Secondo circolo, il confronto coi paesi arabi che a tutt’oggi ci oppongono tredicimila carri armati. Terzo circolo, l’espansionismo sovietico che per molti anni è andato allargandosi in Medio Oriente e in Africa. Il punto è come difendere il nostro diritto a esistere in quei tre circoli senza diventare la Prussia del Medio Oriente, come dice lei.
Ma chi vi minaccia in Africa, in Turchia, in Iran, in Pakistan? E a che cosa mirate in realtà? Non capisco. Io non vorrei che l’invasione del Libano fosse l’inizio di una operazione più vasta che non si fermerà affatto in Libano. Non vorrei che la cacciata dell’OLP da Beirut facesse parte di un piano più complicato, diciamo napoleonico.
La risposta è no. Definitivamente no. Lei parla come se volessimo occupare i territori dove abbiamo interessi strategici. Parla come i turchi quando ci accusano di includere la Turchia nella sfera dei nostri interessi strategici perché vogliamo invaderli. La faccenda è ben diversa e gliela spiego con una domanda. Se i russi arrivassero alle spiagge del Golfo Persico, ciò riguarderebbe o no la posizione strategica di Israele? Se i russi assumessero il controllo delle risorse petrolifere nel Golfo Persico, ciò toccherebbe o no la sfera dei nostri interessi strategici? Se la Turchia diventasse un paese controllato dai sovietici, ciò avrebbe o no un effetto su di noi? Non abbiamo quindi il diritto di preoccuparcene? Preoccuparsi non significa mica voler conquistare la Turchia, l’Iran, il Pakistan, il Golfo Persico, l’Africa centrale e del Nord!
Generale Sharon, ma chi è il suo vero nemico? Arafat o l’Unione Sovietica?
Miss Fallaci, si metta in testa che senza l’aiuto dell’Unione Sovietica i paesi arabi non avrebbero fatto la guerra a Israele nel 1948. Si scatenarono contro di noi perché alle spalle avevano l’Unione Sovietica, militarmente e politicamente. Quanto all’OLP, esso è sostenuto dall’Unione Sovietica perché l’Unione Sovietica ha capito benissimo che nell’era atomica il terrorismo è l’unico modo per fare la guerra senza rischiare il conflitto nucleare. Per sviluppare il suo espansionismo l’Unione Sovietica ha bisogno dell’OLP, di Arafat. E se lei replica che Arafat non è comunista, io le rispondo: ai sovietici che importa? A loro importa soltanto che egli sia uno strumento del gioco, che rimanga nelle loro mani. È forse comunista la Siria? No, eppure l’Unione Sovietica ha dato alla Siria milleduecento carri armati, centinaia di pezzi di artiglieria, numerosi e modernissimi jet. È forse comunista la Libia? No, eppure l’Unione Sovietica ha dato alla Libia millenovecento carri armati, artiglieria, jet. Tutti parlano degli americani, delle armi americane. Le assicuro che le armi distribuite dall’Unione Sovietica in questa parte del mondo superano mostruosamente quelle che Israele compra dagli americani.
Sì, ci credo, ma torniamo al Libano.
Non vogliamo neanche un centimetro quadrato del Libano!
Neanche al Sud, nella regione del Litani? Cito il Litani perché nel 1955, come lei ben sa, Ben Gurion aveva un piano, poi perfezionato da Moshe Dayan, secondo il quale Israele avrebbe dovuto invadere il Libano, comprarsi un libanese maronita per farlo eleggere presidente, instaurare un regime cristiano, farselo alleato, e infine ritirarsi annettendo la regione del fiume Litani.
Guardi, vi sono due correnti di sionismo: quella politica di Weizmann e quella pratica di Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, la vecchia generazione insomma. Infatti se interroga mia madre che a ottantadue anni vive sola nella sua fattoria coltivando avocado, scopre che crede nell’azione e basta. Io però appartengo alla corrente politica, cioè alla corrente che crede negli accordi, negli impegni, nei termini legali. E, poiché tale corrente è anche quella del governo attuale, le assicuro che non abbiamo alcuna intenzione di tenerci un centimetro quadrato del Libano.
Ma non c’è mica bisogno di prendere nulla. Basta far «eleggere » presidente un giovanotto di trentaquattr’anni, ad esempio un falangista che si chiama Bachir Gemayel, e tener lì l’esercito per «ragioni di sicurezza». Basta farne una colonia di fatto, insomma, come i sovietici in Afghanistan.
Lei è una signora molto carina e voglio essere educato. Non voglio gridare, non voglio strepitare, ma perbacco! Non ho mai udito tante calunnie, tanti insulti! Lei mi calunnia, mi insulta!
Perché? Lo sanno tutti che la sua carta era Bachir Gemayel presidente. Lo sanno tutti che nel Libano passerete almeno l’inverno. Avete perfino distribuito le scarpe speciali ai soldati. Generale Sharon, non finirete mica col restarvi quindici anni come nel Sinai?
No, credo proprio che questa volta durerà molto meno.
Malgrado la vostra necessità di proteggere il nuovo governo alleato?
Le risponderò in stile minigonna, cioè in modo abbastanza lungo da coprire l’argomento e abbastanza breve da renderlo interessante. Non vogliamo interferire con le faccende interne del Libano ma sarebbe un’ipocrisia affermare che accetteremmo un governo disposto a ospitare nuovamente i terroristi e i siriani. Oggi come oggi l’esercito libanese non è abbastanza forte da potersi permettere di stare solo. La Siria occupa ancora quasi la metà del Libano, i terroristi sono ancora a Tripoli e nella valle di Al Bekaa con i siriani, e il nuovo governo è un bambino appena nato grazie a un parto cesareo. Può un bambino appena nato grazie a un parto cesareo affrontare l’odierna situazione nel Libano? No, e dico di più: se i siriani rimangono così vicino a Beirut, se noi abbandoniamo il controllo della strada Beirut-Damasco, il neonato non sopravvive.
E se a forza di stare su quella strada vi ritrovate a Damasco?
Non è necessario arrivare a Damasco. Non dev’esserci bisogno di andare a Damasco. Non desideriamo spingerci fino a Damasco. Non ci teniamo, non ci abbiamo mai tenuto. Io penso addirittura che dovremmo evitare perfino lo scontro nella vallata di Al Bekaa. Ma, se i siriani non si muovono, non ci muoviamo nemmeno noi. E diventa una brutta storia perché le nostre truppe nella vallata di Al Bekaa sono, in linea d’aria, a venticinque chilometri da Damasco. E ciò significa che Damasco è fin d’ora sotto il tiro della nostra artiglieria. Sì, si sono rovesciate le posizioni: prima della guerra l’artiglieria siriana, coi suoi cannoni da 180 in grado di colpire con un raggio di quarantadue chilometri, poteva bombardare i sobborghi di Haifa e le nostre industrie a nord di Haifa; ora, con cannoni meno potenti, noi possiamo bombardare Damasco. E l’idea non ci piace. Perché ricorrere sempre alla guerra per sistemare le cose?
Toh! Credevo che la guerra le piacesse, che ci si trovasse a suo agio.
È l’errore più grosso che la gente fa su di me: dipingermi come un guerriero, un ossesso che si diverte a sparare. Io odio la guerra. Soltanto chi ha fatto tante guerre quante ne ho fatte io, soltanto chi ha visto tanti orrori quanti ne ho visti io, soltanto chi vi ha perduto amici e vi è rimasto ferito come vi son rimasto ferito io può odiare la guerra nella misura in cui la odio io. E se vuol sapere quali sono stati gli anni più felici della mia vita, le dico: i tre anni che ho passato qui nella mia fattoria, a guidare il trattore e allevare le mie belle pecore.
A sentirla parlare così, chi crederebbe al ritratto che fanno di lei?
Quale ritratto?
Bè, dovrebbe saperlo: lei non ha certo la reputazione di un angelo, generale Sharon. Se le elencassi tutti i cattivi giudizi che ho udito su di lei, potrebbe anche perdere lo straordinario controllo che finora le ha permesso di essere così educato e paziente con me.
Dica, dica.
Ecco, per esempio... un killer, un bruto, un bulldozer, un rozzo, un avido di potere...
Altri mi chiamano in modo del tutto diverso.
Lo so. I soldati che le sono devoti la chiamano re d’Israele, re Ariel. E dicono che è un gran leader, un uomo molto coraggioso, leale. Ma l’immagine più diffusa è quella che ho detto prima. Come mai? Da che nasce? Deve pur esserci una ragione. Che sia l’episodio di Qibia?
Miss Fallaci, lei è così brava a dipingere un ritratto perfido di me che per un minuto ho creduto che fosse lei a dare un’intervista su Sharon, non io. Eppure sa bene che raramente l’immagine di un uomo corrisponde a quella che ne danno i giornali. Sa bene che una volta lanciata una calunnia, inventata una bugia, questa viene ripetuta e copiata, infine accettata per verità. Vuol parlare di Qibia? Parliamo di Qibia. 15 ottobre 1953, Operazione Susanna: dal nome della bambina israeliana uccisa col fratellino e la mamma dai terroristi arabi che a Qibia avevano il loro rifugio. L’Operazione Susanna consisteva nel fare saltare le case che ospitavano i terroristi, e io la comandavo entrando personalmente in ogni casa per evacuare la gente prima di sistemare l’esplosivo. Incominciammo alle undici di sera e continuammo fino alle quattro del mattino, quando caddi addormentato per la stanchezza. Nel pomeriggio, svegliandomi, seppi che la radio giordana aveva dato notizia di sessantanove morti: tutti donne e bambini. Non credevo ai miei orecchi perché prima di andarmene avevo contato le perdite del nemico, ed erano una dozzina di soldati giordani. Dov’erano stati trovati, dunque, quei sessantanove corpi di donne e bambini? Sotto le macerie di una casa, mi fu detto, in cantina. Evidentemente si erano nascosti e nel buio non li avevo visti. Mi... mi dispiacque molto. Mi dispiacque tanto che, dopo un altro raid in un villaggio chiamato Mahlin, l’anno dopo, non volli farne più. Anzi raccomandai che quel tipo di operazioni venisse annullato. Che altro?
Bè, scegliamo l’episodio di Gaza. Quello dove uccise trentasette soldati egiziani che stavano dormendo.
Le assicuro che non stavano affatto dormendo. Comunque: Gaza, 1955, Operazione Freccia Nera. Anche stavolta io comandavo il raid, con la famosa unità 101. Dormivano così poco quegli egiziani che fu un corpo a corpo duro e sanguinoso: tornammo indietro con otto morti e dodici feriti. Ciascuno di noi un morto o un ferito sulle spalle. Non c’è bisogno di dire nulla in più. C’è gente che mi odia, lo so, e gente che ha paura di me: specialmente tra i politici. Perché dico sempre quello che penso e faccio sempre quello che voglio, perché non mi muovo con delicatezza, perché non riesco a legarmi coi gruppi che cercano reciproca protezione. Infatti ho cambiato partito cinque volte. Però se quelli che mi odiano o hanno paura di me fossero la maggioranza, come avrei fatto ad avere tanta influenza nel mio paese per tanti anni? Come avrei fatto a fondare un nuovo partito, il Likud, che ha vinto le elezioni due volte e ha provocato una svolta storica nel paese? Da che cosa mi sarebbe venuto il potere di cui dispongo? Gliel’ho detto: c’è la democrazia in Israele.
Un deputato che si chiama Ayer Maur, mi pare, ha detto: «Se Sharon diventa primo ministro, mi chiedo che ne sarà della democrazia in Israele». E un altro ha aggiunto: «Sorgeranno i campi di concentramento».
Senta, lei sta facendo una discussione seria. Non la degradi usando quel nome.
Va bene, sceglierò il nome di Golda Meir che diceva: «Se Sharon si avvicina al ministero della Difesa, faccio il picchettaggio per impedirgli di entrare».
Eh! I miei rapporti con Golda erano buoni quando stavo nel suo partito, il Partito laburista. Ma quando lo lasciai per fondare il Likud, un’impresa che lei considerava politicamente infantile, non me la perdonò. Prese a odiarmi in modo incredibile, con tutta la forza di cui era capace. E Dio sa se Golda era forte, come tutti quelli della sua generazione. Ora che vuol sapere di me?
Voglio sapere se è vero che lei mira a diventare primo ministro, come dicono tutti.
Anzitutto credo che il signor Begin resterà primo ministro per molti anni perché sono convinto che vincerà le prossime elezioni. Il paese, vi ho già alluso, è con lui: se le elezioni avvenissero ora, vincerebbe senza muovere un dito. Poi non ho una voglia pazza di diventare primo ministro: quello che faccio ora mi va benissimo, vi sono tante cose da fare con il ministero della Difesa. Per incominciare, che lei mi creda o no, c’è da sistemare politicamente, cioè pacificamente, il problema dei palestinesi. Noi non abbiamo fatto la guerra ai palestinesi, l’abbiamo fatta ai terroristi dell’OLP, e l’aver risolto il problema del terrorismo dell’OLP significa aver fatto soltanto una parte del lavoro.
Risolto? Ma lei è proprio sicuro d’averlo risolto, generale Sharon? E se invece d’averlo risolto lo avesse moltiplicato, intensificato? Nascerà una generazione di odio dagli uomini che sono stati cacciati, strappati alle loro famiglie, sparpagliati in otto paesi diversi. E d’ora innanzi il terrorismo si abbatterà ovunque, più cieco di sempre, più ottuso di sempre. Sono uomini molto arrabbiati quelli che lei crede d’avere sconfitto. E tutt’altro che rassegnati. Arafat ha appena detto che la lotta continuerà come prima.
Io non parlerei di queste ipotetiche, disastrose eventualità. Infatti non credo che nei paesi dove sono stati accolti essi potranno fare ciò che facevano a Beirut. Sia in Siria che in Egitto che in Giordania non ci sono riusciti, finora, anzi sono stati tenuti lontani dai confini con Israele, e in nessuno di quegli otto paesi esiste un governo disposto a farsi travolgere come a Beirut. Senza contare che, in un caso simile, noi non ce ne staremmo con le mani in mano. Arafat ha detto che continuerà come prima? Al posto suo non ci proverei nemmeno. Gli ho regalato la vita, a quegli assassini. Sono vivi perché io ho scelto di lasciarli vivi. Ma tanta fortuna non costituisce affatto una garanzia per il futuro. Guai a loro se riprenderanno le loro attività sanguinose, anche in paesi lontani da Israele. Guai a loro.
E i quattro milioni di palestinesi che non appartengono all’OLP, che vivono sparsi per il mondo oppure ammucchiati nelle capanne di latta e in tuguri di cemento dei cosiddetti campi in Siria, in Libano, nella West Bank, a Gaza? Che cosa vuol farne di loro, di questi nuovi ebrei della terra, condannati a vagare in una diaspora crudele come quella che voi avete sofferto? Possibile che proprio voi non comprendiate la loro tragedia? Possibile che proprio voi non vogliate ammettere il loro bisogno di avere una casa, il loro diritto ad avere una patria?
Ma la patria ce l’hanno. È la Palestina che ora si chiama Giordania, anzi Transgiordania.
La Giordania di re Hussein?
Certo. Senta, io ci penso da dodici anni e, più ci penso, più concludo che la soluzione può essere soltanto quella. Lo dicevo anche a Sadat. Mi spiego. Fino al 1922 la terra d’Israele, che gli inglesi chiamavano Palestina, si componeva di due parti: la Cisgiordania che voi definite West Bank, e cioè la terra che si estende dal fiume Giordano al Mediterraneo, e la Transgiordania cioè la terra che Churchill dette al padre di Hussein per sistemare il regno ascemita. In Transgiordania il settanta per cento della popolazione è composta da palestinesi, la maggioranza dei membri del Parlamento sono palestinesi, quasi tutti i ministri e i primi ministri sono palestinesi. Il resto, neanche il trenta per cento, sono beduini. I beduini di Hussein. Davvero una soluzione perfetta.
Quindi tutti i palestinesi dovrebbero far le valigie e trasferirsi in Giordania.
Ma ci vivono già!
No, parlo dei profughi ammucchiati in Libano, in Siria, a Gaza, nella West Bank...
Alcuni potrebbero restare nei paesi dove si trovano attualmente, altri potrebbero trasferirsi laggiù.
E di re Hussein, allora, che ne facciamo? Lo ammazziamo, lo mandiamo a Montecarlo a dirigere il casinò?
I casi personali non mi interessano, Hussein non mi riguarda. Può anche restare dov’è, perché no? I greci si scelsero un re anglo-tedesco, perché i palestinesi non dovrebbero tenersi un re ascemita?
Capisco. E i beduini? Quelli dove li mettiamo? Li sterminiamo, li buttiamo a mare come i vietnamiti sgraditi a Hanoi così i giornali riprendono a parlare dei boatpeople, oppure li disperdiamo come i palestinesi di oggi affinché facciano l’Organizzazione di Liberazione Beduina, OLB invece dell’OLP?
I beduini fanno parte della popolazione giordana, anzi transgiordana. Come Hussein, possono restare dove sono. I casi personali, ripeto, non mi interessano. A me interessa soltanto il fatto che la Palestina esiste già, che uno Stato palestinese esiste già, che quindi non v’è bisogno di farne un altro. E le dico: non permetteremo mai un secondo Stato palestinese. Mai. Perché è questa la soluzione a cui tutti mirano: la costituzione di un secondo Stato palestinese, di una seconda Palestina, in Giudea e in Samaria: ciò che voi chiamate Cisgiordania o West Bank. E a ciò rispondo: non avverrà. La Giudea e la Samaria non si toccano. E neanche Gaza.
Ma sono terre occupate, generale Sharon. Ciò che voi avete ribattezzato Samaria e Giudea sono zone conquistate da Hussein e abitate da quasi mezzo milione di palestinesi, a parte i trentamila israeliani che dopo il 1967 si sono installati lì come colonizzatori. Lo dicono tutti che dovete restituirle! Perfino gli americani!
Non si restituisce ciò che ci appartiene. E la Giudea e la Samaria ci appartengono: da migliaia, migliaia di anni. Da sempre. La Giudea e la Samaria sono Israele! E così la Striscia di Gaza. E anche se la Bibbia non contasse, anche se il sentimento non esistesse, v’è la questione della nostra sicurezza e della nostra sopravvivenza. È una questione cruciale perché in quella regione abitano due terzi della popolazione israeliana: senza la Giudea, senza la Samaria, saremmo spazzati via. No, lo ripeto, non permetteremo mai di installarvi un secondo Stato palestinese. Mai! Non fatevi illusioni.
Generale Sharon, lei crede in Dio?
Bè, non sono religioso. Non lo sono mai stato sebbene segua certe regole della religione ebraica come non mangiare il maiale. Non mangio il maiale. Però credo in Dio. Sì, penso di poter dire che credo in Dio.
Allora lo preghi, anche per quelli che non ci credono. Perché ho una gran paura che lei stia per cacciarci tutti in un guaio apocalittico. Tel Aviv, settembre 1982
Estratto dell’articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” martedì 14 novembre 2023.
Dal fiume al mare. […] il concetto […] è stato ribadito dal presidente iraniano Ebrahim Raisi al vertice di Riad. Un solo Stato, palestinese, dal Giordano al Mediterraneo. Certo, nella propaganda di Teheran si specifica poi che anche gli ebrei avranno diritto a viverci, da cittadini a pieno titolo. Ma il senso non cambia, la distruzione di Israele.
E' il ritorno al 1948, al confronto mortale fra due nazioni nascenti, o una o l'altra. Finora la Palestina ha avuto la peggio e l'unica vera occasione per nascere è stata con gli accordi di Oslo, nel 1993. Un'intesa che Hamas ha sempre combattuto. Privata degli alleati arabi, che dopo tre grandi guerre hanno accettato l'idea dei due Stati uno a fianco l'altro, si è rivolta alla Repubblica islamica, per quanto odiato rivale sciita del jihadismo sunnita. Fino al massacro del 7 ottobre.
Sull'altro lato c'era il pragmatismo di Yitzhak Rabin: «Combatto il terrorismo come se non ci fossero negoziati di pace, ma tratto come se non ci fosse il terrorismo». […] I movimenti ultrareligiosi e ultrasionisti […] guardavano al rabbino Meir Kahane e […] consideravano il controllo del territorio "dal fiume al mare" come diritto divino. È un estremista israeliano a uccidere Rabin il 4 novembre del 1995.
La destra torna al potere e la Seconda intifada quasi seppellisce Oslo. Ma nel 2005 è un falco del Likud, Ariel Sharon a decidere il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti, 8 mila abitanti. Due seguaci delle idee del rabbino Kahane, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, preparano una rivolta interna. Ma poi non se fa nulla. Rimane però l'idea, riassunta da una frase di Kahane: «Non c'è coesistenza con il cancro», cioè gli arabi.
La proposta per arrivare alla pace è piuttosto uno «scambio di popolazioni», vale a dire l'espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est. Smotrich e Ben Gvir sono al governo, centinaia di migliaia di abitanti della Striscia sono in marcia verso Sud. Dal fiume al mare è diventata una doppia minaccia. Dell'estremismo jihadista e di quello ultrasionista.
Il negoziatore degli accordi di Oslo: «Ho cercato un dialogo con Hamas ma loro hanno detto di no». Storia di Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.
«Credo che la politica del nostro governo sia fondamentalmente sbagliata. Accettare la tregua in cambio del rilascio degli ostaggi ci mette alla mercé di . Come del resto era sbagliatissima la politica di Netanyahu, che ha rafforzato Hamas a Gaza. Di conseguenza, adesso vincono i terroristi decisi a guadagnare tempo estendendo il cessate il fuoco. Per il nostro esercito la situazione si fa complicata, i soldati sono bloccati nel mezzo del campo di battaglia e la tregua potrebbe durare mesi. Ciò, tra l’altro, ignora il dato per cui la grande maggioranza degli israeliani oggi, sia di destra che di sinistra, vogliono eliminare Hamas e i suoi dirigenti».
Yossi Beilin è sempre stato un inguaribile sostenitore della necessità di negoziare la pace. Artefice degli accordi di Oslo con Yasser Arafat nel 1993, icona della sinistra israeliana, a 75 anni non nasconde che prima del 7 ottobre aveva provato a trattare segretamente con Hamas.
Anche nel 1989 lei iniziò a negoziare segretamente con l’Olp, quale fu la molla del successo? «Scoprii che il leader palestinese Feisal Husseini a Gerusalemme era pronto al dialogo, in Parlamento feci abolire la legge che vietava rapporti con gli emissari di Arafat. Poi arrivò la mediazione norvegese. C’era la volontà di capirsi».
I motivi del fallimento? «L’assassinio di Yitzhak Rabin per mano di un fondamentalista ebreo; l’elezione di Netanyahu che non voleva i due Stati; la crescita del terrorismo di Hamas. Sottovalutammo gli estremisti nei due campi pronti a sacrificarsi per boicottare la pace».
E negli ultimi tempi da Hamas cosa le rispondevano? «Rifiutavano. Hanno detto che non erano interessati a trattare e neppure a un canale di contatto riservato».
Che fare allora degli ostaggi? «Liberiamoli in uno scambio unico, perché allungarlo nel tempo? Quindi, riprendiamo subito a combattere».
Sulla guerra lei, un pacifista, sembra più duro del governo di estrema destra attuale. «Su Hamas questo governo non è mai stato falco: hanno sempre preferito Hamas all’Olp».
Crede che adesso si possa costruire la pace come con l’Egitto nel 1979, dopo che Israele era stato colto di sorpresa dall’attacco del 1973? «Il 7 ottobre è stato la totale sconfitta della politica di Netanyahu: ha voluto ignorare un partner che era pronto al compromesso per i due Stati e il cui leader, Abu Mazen, si dice assolutamente contrario alla guerra. E comunque la pace si fa dopo la guerra. Oggi non possiamo parlare con gli autori degli orrori del 7 ottobre, ma dobbiamo farlo con l’Olp».
E se fossero gli stessi palestinesi a promuovere Hamas? «Ma Hamas non intende essere il nostro partner. Fu un errore che Hamas partecipasse alle elezioni palestinesi del 2006, il suo statuto prevede la distruzione dello Stato di Israele e dunque va contro le regole che gli stessi palestinesi si sono date».
Nel 2006 Hamas parlava di «hudna», la tregua per almeno vent’anni. «Esatto, ma io voglio il riconoscimento pieno e la pace vera, non la tregua temporanea. Negli anni recenti quando proponevo la confederazione tra due Stati pensavo che avremmo potuto fare la pace con l’Olp e in parallelo la hudna con Hamas. Ma dal 7 ottobre non è più possibile: Hamas va battuta ed esclusa».
Come fare uno Stato palestinese in Cisgiordania dove ormai vive oltre mezzo milione di coloni? «Di questi meno di centomila sono davvero ideologici: non intendono andarsene, noi dunque potremmo accettare in Israele altrettanti palestinesi».
Qui tanti sostengono che, dopo Oslo, i palestinesi persero il treno dello Stato due volte, quando rifiutarono offerte che sfioravano il 95 per cento dei territori occupati. Lei c’era ai colloqui tra Ehud Barak e Arafat nel Duemila, quindi nel 2007 tra Ehud Olmert e Abbas. Concorda? «Certo, i palestinesi hanno perso diverse opportunità, inclusi i piani offerti da Bill Clinton. Ma Israele non è da meno, per esempio quando ignorò l’iniziativa avanzata da Arabia Saudita e Paesi del Golfo nel 2002. Direi che le responsabilità sono miste».
Tornando alla guerra: allora occorre distruggere Hamas senza riguardo per i civili a Gaza? «Io proporrei loro di lasciare la Striscia, come Arafat lasciò Beirut nel 1982. E noi rinunceremo alla nostra presenza militare. Se rifiutano dovremo invece continuare la guerra sino in fondo».
Lei sa bene che Abbas e gli altri capi dell’Anp non sono pronti a governare Gaza... «Gli americani ci stanno lavorando e non solo loro. Credo ci debba essere una sorta di coalizione internazionale come in Cambogia nel 1991 sotto l’egida dell’Onu: funzionò per 18 mesi e permise lo sviluppo della democrazia».
E sostituire Abbas con Marwan Barghouti, il leader del Fatah che è in carcere, ma viene indicato come molto popolare tra i palestinesi? «Non sta a noi. Abbas è stato un partner onesto e credibile. Già in passato ho comunque detto che un leader giovane e popolare come Barghouti potrebbe aiutare».
Teme che Israele sia sempre più a destra? «Gli ultimi sondaggi marcano il crollo del governo: il 75 per cento dell’elettorato si sposta verso le opposizioni, che credono alla soluzione dei due Stati, la stessa menzionata due volte al giorno dallo stesso presidente americano. Anche ai tempi degli accordi con l’Egitto la maggioranza era contraria a cedere il Sinai. Ma poi l’accettarono senza problemi. E lo stesso avvenne a Oslo con l’Olp. Sta a noi creare la politica delle opportunità di pace».
Gilad Sharon: «I due Stati? Ora è impossibile. A Gaza avevano una nazione, l’hanno resa il covo di Hamas». Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2023.
Il figlio dell’ex premier Ariel Sharon: «Netanyahu ha fatto errori». Sull’integrità territoriale di Gaza: «Non puoi attaccare Israele e riavere tutto come prima. Almeno una zona cuscinetto a Nord va ritagliata»
Aringhe e cipolle, pane cotto in casa, marmellata di fragole che arrivano dagli orti, salsa con i peperoni coltivati nelle serre, formaggio di capra dal latte munto nella fattoria. La colazione coltivata nei campi a vista dalla finestra è come la divorava Ariel Sharon. Così Gilad, figlio dell’ex primo ministro, la preparava ancora ogni fine settimana, adesso quando ci riesce: ha passato la maggior parte di questi oltre due mesi di guerra dentro a Gaza , soldato nella riserva.
A Tel Aviv preferisce andare in uno dei locali che servono un altro piatto preferito dal padre: carne alla griglia. Chi passa vicino al tavolo gli appoggia una mano sulla spalla e sussurra «molla quei fuori di testa», che poi sarebbero i colleghi nel Likud.
Ariel Sharon aveva abbandonato il partito per fondarne un altro più centrista, lasciandosi indietro Benjamin Netanyahu e portando avanti il piano per ritirare gli israeliani dalla Striscia nel 2005: caduto un coma in anno e mezzo dopo, è morto nel 2014. Nel 2007 Hamas ha tolto con le armi il controllo del territorio all’Autorità palestinese.
Del primo ministro, Gilad preferisce non parlare troppo: ha la tessera del Likud, non è deputato, Netanyahu ha cercato più volte di escluderlo dalle primarie. «Ripete in giro di essere stato contrario all’evacuazione delle colonie, di essersi opposto a mio padre». Snocciola mese per mese le date dei voti sostenuti da Bibi fino all’approvazione dell’operazione che ha portato all’uscita di tutti, coloni e soldati, dai 363 chilometri quadrati. «Il punto non è rivangare che cosa abbia fatto allora, il problema sono gli errori commessi da quando è al governo».
Gal Eisenkot, figlio dell’ex capo di Stato Maggiore Gadi che siede nel consiglio ristretto di guerra con il primo ministro, è stato ucciso nei combattimenti a Gaza, aveva 25 anni, avrebbe potuto restare a casa, in recupero per una frattura alla gamba.
Yair, il figlio di Netanyahu, ha passato la maggior parte degli oltre due mesi negli Stati Uniti, quand’è tornato — dichiarano i portavoce del governo — si è offerto volontario per i servizi di emergenza civili in Israele. «Eisenkot è stato il consigliere militare di mio padre quand’era premier, non mi sorprende quanto la sua famiglia stia dando al Paese», il nipote è stato ammazzato due giorni dopo, ndr. «Non voglio parlare dei figli di Netanyahu, è sufficiente quello che combina lui». Rimanda le critiche più pesanti a dopo il conflitto.
A destra come il padre — che gli arabi ritengono colpevole per i massacri commessi dai falangisti libanesi nel campo rifugiati palestinese di Sabra e Shatila a Beirut e una commissione israeliana «indirettamente» responsabile fino a spingerlo alle dimissioni da ministro della Difesa — in questi anni di vicinato con Hamas, la fattoria è a pochi chilometri da Gaza, Gilad Sharon si è spinto forse ancora più in là.
Ritiene la soluzione dei due Stati ormai inapplicabile — «nella Striscia abbiamo dato loro una nazione di fatto, l’hanno trasformata in una base per terroristi» — e sostiene che questo conflitto debba finire con una perdita territoriale: «Non puoi attaccare Israele in modo devastante e dopo riavere la stessa situazione. Almeno a Nord deve essere ritagliata una zona cuscinetto». Unam posizione in totale contrasto con gli americani — Gilad riconosce il sostegno «enorme ed empatico» del presidente Joe Biden — che premono per ritornare ai negoziati di pace e ribadiscono di non poter accettare la cattura di territori palestinesi.
A destra come il padre ma scelto dalla famiglia di Elyahu Margalit, detto Churchill, per pronunciare il discorso in sua memoria: tra i fondatori del kibbutz Nir Oz, ucciso dai paramilitari di Hamas mentre sotto le bombe e tra gli spari era uscito dalla stanza rifugio per dar da mangiare ai cavalli, il cadavere trascinato dentro Gaza. Per Gilad, 57 anni, un amico e una figura mitica che paragona a Zorba il Greco, un simbolo dei villaggi comunitari dove la sinistra e i moderati vincono ancora, una parola — kibbutznik, la gente dei kibbutz — che Netanyahu ha impiegato settimane prima di pronunciare nei discorsi dedicati alle vittime del 7 ottobre, anche se ne rappresentano la maggioranza. Sa che non sono suoi elettori, sa che non lo saranno mai.
Estratto dell’articolo di Francesca Mannocchi per “La Stampa” lunedì 11 dicembre 2023.
[…] Yonatan Shay è […] il direttore dell'ufficio di pubbliche relazioni di Im Tirtzu, il più grande movimento sionista in Israele. Movimento extraparlamentare fondato nel 2006 da intellettuali, studenti e riservisti, ritiene che l'indipendenza sia stata solo l'inizio del movimento sionista e che da qualche parte lungo la strada Israele abbia perso la fede nella «rettitudine della sua via», per questo lavora per rafforzare e promuovere i valori del sionismo nella società israeliana […]
[…] Quindi lei si definisce un colono, giusto?
«Secondo la mia educazione ebraica ogni israeliano è un colono perché essere coloni è un imperativo per rispondere alla volontà di Dio. Quindi tutti sono coloni, anche le persone a Tel Aviv e Haifa e Beer Shiva. Siamo coloni nella Terra Santa. Questa parte della Giudea e della Samaria (i coloni si riferiscono alla Cisgiordania come Giudea e Samaria, due antichi regni israeliti, termini sono utilizzati anche a livello amministrativo dal governo israeliano, ndr), Hebron e anche Gerusalemme, la capitale della Giudea, sono il vero Israele. Il vero Israele è la Giudea e la Samaria. Come lo chiamate voi nei media occidentali? Cisgiordania?»
Cisgiordania, sì.
«Io no, e come me la maggior parte degli israeliani, la chiamiamo Giudea e Samaria, è importante colonizzare questa terra […] perché fa parte del nostro rapporto con Dio».
Dall'altra parte del check-point, qui a Hebron, ci sono palestinesi che non hanno libertà di movimento, a Sud di Hebron numerose comunità palestinesi sono state costrette a sfollare dalle proprie case. Cosa ne pensa?
«I palestinesi vogliono farci passare per conquistatori, come persone che stanno operando un regime di segregazione. […] Se costruisci senza avere i permessi ti demoliranno la casa sicuramente».
Saprà sicuramente che la quasi totalità delle richieste dei palestinesi vengono rigettate.
«Non vogliono semplicemente accettare la sovranità dello Stato di Israele, vogliono vivere in Palestina. Vogliono costruire l'identità palestinese ma non perché ci credono davvero, stanno solo liberando la terra dalla "cosiddetta" occupazione israeliana solo perché danno loro attenzione, si chiedessero come mai l'Autorità Palestinese non fa niente per loro».
Perché la definisce "cosiddetta"? È un'occupazione di fatto.
«Non lo è. È la narrativa dell'Onu, che ha a sua volta adottato la narrativa dei palestinesi secondo cui occupiamo la Giudea e la Samaria. Ma vede, non si può occupare qualcosa che è già tuo da 3000 anni. Nel 1967 abbiamo cominciato a liberare quello che avremmo dovuto finire meglio nel 1948. Non possiamo proteggere le nostre terre senza le colline della Samaria, non possiamo controllare la Giudea senza controllare tutta l'area di Gerusalemme. Gerusalemme è il centro della Samaria. […] La distinzione tra Est e Ovest della città non significa niente per noi. Questa è la nostra idea dello Stato di Israele ed è maggioritaria mi creda nella nostra società, l'unica corretta. Anche se alcune persone si ostinano a chiamarli "territori palestinesi occupati"».
Pensa che i palestinesi abbiano il diritto di vivere in Cisgiordania?
«Non accettiamo l'idea che nel nostro territorio si formi un altro "Stato" dittatoriale come consideriamo gli Stati arabi. Se lo facciamo nelle altre terre arabe, non qui».
Quindi non crede nella soluzione dei due Stati?
«No come non ci crede la maggior parte degli israeliani».
Qual è la soluzione?
«Potrebbero vivere qui, ma non con gli stessi diritti. Siamo una democrazia in cui la demografia è un elemento essenziale. Dovrebbe essere qualcosa di graduale, come a Gerusalemme Est, potrebbero essere cittadini residenti senza diritto di votare per la Knesset».
Gli insediamenti sono considerati illegali dal diritto internazionale.
«Secondo l'interpretazione della legge internazionale fatta dall'Occidente ma non da noi. Posso dirle una cosa? Questo caos in Giudea e Samaria è determinato dal fatto che Israele non ha ancora avuto il coraggio di annetterla».
È questa dunque la soluzione che proponete? Totale annessione dei territori palestinesi occupati.
«Per il bene di palestinesi ed ebrei dovremmo annettere tutto sì, gradualmente. La comunità internazionale dovrebbe riconoscere il fatto che questa è la terra storica del popolo ebraico e che ha il diritto a vivere qui e sarebbe bene anche per i palestinesi. […] gli scontri avranno fine […] solo quando i territori saranno tutti annessi. […]».
Ha parlato di alleati importanti, ma è proprio dagli Stati Uniti che stanno arrivando dure critiche all'operato dei coloni, nonché l'annuncio di sanzioni.
«Penso che parte della politica americana sia ostaggio di questa ideologia di sinistra. […] speriamo che le elezioni del 2024 riporteranno ai vertici statunitensi attori politici più vicini alle nostre istanze, come lo era Trump».
Quando osserva i numeri della guerra a Gaza. Ventimila vittime.
«Ventimila terroristi».
Quando vede le foto di bambini, neonati, donne, anziani, può davvero definirli terroristi?
«Forse molti non sono terroristi ma Hamas ha rapito, ucciso, violentato le nostre donne e i nostri bambini. Ci attaccano dalle scuole e dalle moschee. Quindi tutti i civili che sono stati uccisi, mi spiace per loro, piango per loro, forse sono persone innocenti, ma non potete incolpare gli ebrei per proteggere se stessi da 2000 anni. Stiamo cercando di salvare vite umane come possiamo».
Sa che i civili a Gaza non hanno un posto dove andare, non possono scappare da nessuna parte per mettersi in salvo?
«La nostra aviazione ha lanciato dei volantini per avvertire dei bombardamenti, quale altro esercito al mondo avverte prima di lanciare una bomba?».
Avrà sentito le parole del segretario generale Guterres, le denunce delle organizzazioni umanitarie, il mancato accesso di viveri, la catastrofe umanitaria. Non ha il dubbio che la risposta militare sia sproporzionata?
«Non ho un brandello di dubbio. È la cosa giusta da fare. Le critiche arrivano da chi è ossessionato di ridimensionare Israele non da ora ma da tempo. Stiamo facendo la cosa giusta, non possiamo fare di più per prevenire la morte di persone innocenti a Gaza. 1400 donne, bambini, anziani sono stati uccisi nella maniera più brutale e barbarica, e ora è il momento di rivalersi». […]
Stallo onusiano. L’assurdo status legale dei rifugiati palestinesi che intralcia le trattative di pace. Carlo Panella Roberto Demaio
L’agenzia Onu per il soccorso di quasi sei milioni di cittadini che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza ha uno statuto unico e senza precedenti: oggi rappresenta un ostacolo alla nascita di uno Stato di Palestina
L’Onu, con la sua organizzazione per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, ha creato uno tra i più importanti ostacoli che si frappongono alla nascita di uno Stato di Palestina. Un paradosso apparente e una contraddizione reale che molto dice della crisi terminale delle Nazioni Unite.
Il fatto è che il Diritto al Ritorno in Israele di quasi sei milioni rifugiati palestinesi è stato in passato, e sarà un domani, un ostacolo insormontato e insormontabile in tutte le trattative tra il governo di Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Rifugiati – questo è il punto – conteggiati secondo canoni artificiali e unici al mondo, letteralmente inventati dall’Unrwa per i soli palestinesi, che li moltiplica del cinquanta rispetto al dato reale e storico.
Abu Mazen e la dirigenza della Anp, così come Al Fatah, l’Olp e Hamas infatti sono sempre stati inflessibili nel pretendere che venga riconosciuto a tutti rifugiati all’estero palestinesi della guerra del 1948 il diritto a riavere le loro case e i loro beni. Di ritornare in Israele, quindi.
Questi rifugiati all’estero, all’epoca, furono settecentocinquantamila e ovviamente, settantasei anni dopo, sono quasi tutti deceduti a eccezione di chi allora era bambino o ragazzo. Dunque, nei fatti, il problema non esiste più, se non in termini ridottissimi e quindi facilmente risolvibili e pienamente accettabili e accettati da Israele. Invece il problema persiste ed è enorme e insormontabile a causa dell’unicum nel diritto internazionale introdotto artificiosamente dall’Unrwa.
Il suo statuto, infatti, ha stabilito che lo status di rifugiato, per i palestinesi – ripetiamo, solo per i palestinesi – è ereditario. Un diritto ereditario che vale unicamente per loro e per l’Unrwa, perché per l’altra organizzazione dell’Onu dei rifugiati, l’Unhcr, che assiste oggi ben centoquattordici milioni di rifugiati, lo status di rifugiato non si trasmette affatto per eredità, cessa con la morte del soggetto, e non si estende assolutamente ai suoi figli come risulta dal suo statuto che si rifà alla Convenzione di Ginevra.
Come è normale e ovvio, perché in tutte le nazioni del mondo i rifugiati, passato un certo numero di anni, tendono a naturalizzarsi, a prendere la cittadinanza del Paese ospite. Ma non è affatto così per i rifugiati palestinesi perché tutti i paesi arabi in cui hanno trovato riparo, a eccezione della Giordania, hanno sempre negato e negano tuttora la propria cittadinanza ai rifugiati palestinesi che continuano a vivere come dei paria, senza contratti di lavoro regolari, negli appositi campi profughi. Campi che sono stati per decenni il terreno privilegiato di reclutamento per il terrorismo palestinese, tanto che Abdel Ghassem Nasser ha dichiarato: «I rifugiati sono la pietra angolare della lotta degli arabi contro Israele. I rifugiati sono l’arma degli arabi e del nazionalismo arabo. I Profughi non ritorneranno finché la bandiera d’Israele sventolerà sul suolo della Palestina. Torneranno quando la bandiera palestinese sventolerà su tutta la Palestina».
Per dare corpo a questa cinica posizione, Nasser aveva esteso – sino alla guerra del 1967 – la sovranità dell’Egitto sulla Striscia di Gaza, ma si era rifiutato di riconoscere la cittadinanza ai palestinesi della Striscia, che in questo modo, pur abitando da sempre in quella terra, erano diventati profughi in terra araba straniera.
Risultato di questo uso strumentale dei profughi: oggi per l’Unrwa i rifugiati palestinesi sono cinque milioni e novecentomila in totale. In realtà poche decine di migliaia sono i rifugiati veri, fuggiti nel 1948, la quasi totalità sono invece eredi di rifugiati. Ma Abu Mazen, la Anp, al Fatah, l’Olp e Hamas pretendono rigidamente e assolutamente che sia loro riconosciuto il diritto di ritornare a risiedere in Israele. Se questo paradosso si verificasse, gli ebrei in Israele, che sono 6.340.600, si troverebbero a essere una marcata minoranza a fronte della somma di sette milioni e settecentomila (somma degli arabi già cittadini di Israele e degli arabi palestinesi ritornati).
Sarebbe di fatto la fine di Israele che diventerebbe uno Stato arabo con una consistente minoranza ebraica. Ed è questo, appunto, il chiaro obbiettivo che si prefigge la dirigenza palestinese. Un trucco banale, tipico della non eccelsa tradizione politica palestinese.
Inutilmente, i primi ministri israeliani – Ehud Barak nel 2000, così come Ehud Olmert nel 2008 – quando si dissero disposti a restituire il novantatré per cento dei Territori occupati, sul punto hanno proposto una equa mediazione: Israele accetta il ritorno di centomila rifugiati – grosso modo, in eccesso, i veri rifugiati del 1948 superstiti – e elargisce delle compensazioni in denaro ai restanti.
Proposte seccamente rifiutate. Per l’ennesima volta lo Stato palestinese è stato affossato da una posizione palestinese massimalista e incomprensibile.
È fondamentale ricordare che nessuna altra nazione al mondo esige il Diritto al Ritorno dei propri connazionali rifugiati. Si è sempre guardata bene dal farlo, ad esempio, l’Italia che mai lo ha richiesto né alla Yugoslavia, né alla Slovenia, né alla Croazia per i trecentocinquantamila rifugiati italiani fuggiti dalla pulizia etnica e dalle foibe dall’Istria e dalla Dalmazia del 1945, né lo ha fatto nessun altro Paese. Si pensi solo ai quattordici milioni di tedeschi fuggiti dalle nazioni dell’Est Europa alla Repubblica Federale Tedesca e nella stessa Repubblica Democratica Tedesca nella primavera del 1945.
Sta di fatto che una fondamentale Agenzia dell’Onu si rende responsabile di un intralcio enorme alla soluzione “due popoli, due Stati”.
È peraltro interessante ricostruire le ragioni che hanno permesso all’Unrwa di inventarsi letteralmente la figura giuridica dello status ereditario del rifugiato. Nel 1949, infatti, quando l’Onu la istituì, fortissime erano le pressioni dentro l’amministrazione statunitense per recuperare un rapporto con i Paesi arabi, ancor più dopo la cocente sconfitta da loro subita con la prima guerra contro Israele nel 1948. Pressioni che avevano visto nel 1947 e nel 1948 i principali esponenti del governo americano schierarsi nettamente contro la nascita dello Stato di Israele. Fecero letteralmente di tutto per impedirla, perfino ribaltare in sede Onu gli ordini del presidente Harry Truman.
Ovviamente, erano contrarie alla nascita di Israele anche le “Sette Sorelle” che monopolizzavano le forniture mondiali di petrolio e il cui appoggio era fondamentale per l’amministrazione statunitense – la potente lobby del petrolio, insomma.
Una contrarietà netta, basata sul pericolo, che giudicavano certo, della fine dell’alleanza americana con i Paesi arabi, che si sarebbero spostati nell’orbita delle alleanze con l’Unione Sovietica per vendicarsi dell’appoggio americano a Israele.
Lo stesso Harry Truman aveva dovuto imporsi duramente e con fatica contro tutto il proprio governo, che optava per un unico Stato binazionale con gli ebrei in minoranza, non solo per votare il 29 novembre 1947 a favore della risoluzione Onu per la bipartizione della Palestina, ma addirittura per un pronto riconoscimento della proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948.
Questo, in un contesto che vedeva in quegli anni maturare un cambiamento fondamentale nella struttura economica e quindi politica degli Stati Uniti. Con la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, gli Stati Uniti erano di colpo diventati grandi importatori di petrolio, da esportatori quali erano sempre stati. Quindi, le fondamentali e strategiche forniture energetiche importate per rispondere alle necessità del colosso industriale americano dipendevano in grandissima parte, per la quasi totalità, dai Paesi arabi o islamici, feroci avversari dell’esistenza stessa di Israele. Paesi che la Casa Bianca intendeva in tutti i modi recuperare e indennizzare, dopo lo shock della Nakba, della sconfitta militare subita dall’esercito degli ebrei.
Da qui, il pieno assenso americano l’11 dicembre 1948 alla risoluzione 194 dell’Onu che stabiliva il diritto volontario dei rifugiati – quelli veri, quelli di allora – di ritornare nelle loro case e, di conseguenza, nel 1949, l’assenso alla istituzione, richiesta a gran voce dagli Stati arabi e islamici, di una specifica Agenzia Onu di sostegno ai soli rifugiati palestinesi, l’Unrwa, appunto, con budget privilegiato rispetto alla Agenzia di sostegno ai rifugiati di tutto il pianeta.
Oggi, l’Unrwa gode di un finanziamento dall’Onu che è circa un decimo di quello dell’Unhcr, ma assiste un numero di rifugiati che è circa un ventesimo di quelli assistiti dall’Unhcr. Ma allora, sempre in nome di una politica filoaraba, Washington diede anche la piena mano libera ai Paesi arabi e islamici nel definirne lo Statuto. Infatti, rispetta in pieno il diritto islamico – e peraltro viola nettamente il diritto liberale – la disposizione statutaria dell’Unrwa, che stabilisce che «sono idonei alla registrazione quali rifugiati i discendenti dei palestinesi maschi, inclusi i figli adottivi». Un’invenzione assoluta e priva di precedenti né di repliche per i rifugiati di nessun’altra parte del mondo. Una anomalia con effetti deflagranti sulle trattative per la nascita dello Stato palestinese.
È questa, peraltro, una chiara discriminazione di netta marca shariatica nei confronti delle palestinesi femmine che l’Unrwa e l’Onu perpetuano sino ai giorni nostri. I figli delle rifugiate palestinesi che in seguito si sono sposate con arabi di altri Paesi non ereditano infatti lo status di rifugiato.
Ma l’impatto negativo dell’Unrwa sulla crisi palestinese, e nello specifico di Gaza, non si limita all’invenzione di cinque milioni e novecentomila rifugiati che tali non sono e che intralciano tutte le trattative di pace.
L’agenzia, infatti, ha un budget di spesa tipico della mentalità Onu: assistenziale e non indirizzato alla autonomizzazione degli assistiti. Utilizza infatti ben il settanta per cento delle sue entrate per pagare gli stipendi del proprio staff. Dunque, non si impegna minimamente nel finanziare col microcredito iniziative produttive e artigianali dei rifugiati. Men che meno finanzia la loro qualificazione o riqualificazione professionale. Inoltre, concentra il quaranta per cento delle proprie risorse a Gaza, dove i rifugiati da Israele sono una nettissima minoranza rispetto a quelli rifugiati in Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania.
Le sue risorse vengono impegnate essenzialmente per pagare gli stipendi dei suoi 13.448 dipendenti nella Striscia in centocinquantaquattro strutture, dei quali 11.108 sono impiegati nei programmi educativi e 1.084 in quelli medico-sanitari. Di fatto, l’Unrwa mantiene direttamente un grosso nucleo della popolazione di Gaza. È parte integrante della politica di welfare islamico dispiegato da Hamas, costituisce l’asse portante del sistema educativo nella Striscia ed è conseguentemente organica ad Hamas stesso sotto tutti i profili, tanto che il sindacato interno è, appunto, controllato di fatto da Hamas.
Un quadro sconcertante, di contiguità tra una agenzia Onu e un’organizzazione terroristica che diventa ancora più grave e allarmante se si guarda ai libri di testo adottati dalle scuole Unrwa. Come denunciato da un protocollo del Parlamento Europeo nel 2021, questi libri di testo sono pieni di esaltazione del “martirio”, cioè degli attentati kamikaze contro i civili israeliani; pubblicano cartine geografiche “dal fiume al mare”, che riportano quindi la dicitura Palestina su tutto il territorio di Israele – che scompare – oltre che sulla Cisgiordania; esaltano «il Jihad che è una delle porte del paradiso»; definiscono «nemica l’Entità sionista»; riportano provocatoriamente il falso quando affermano che «i sionisti hanno dato il fuoco alla moschea di al-Aqsa» e propongono questioni di aritmetica tipo «quanti sono i martiri della prima Intifada?». Non stupisce che molte di queste scuole, nella piena omertà complice dell’Unrwa, siano usate da Hamas come depositi di armi o come basi di lancio dei razzi.
Non stupisce neanche che queste scuole e questi insegnanti Unrwa che allevano i giovani palestinesi all’odio per gli ebrei e all’esaltazione del Jihad abbiano formato i carnefici palestinesi che hanno fatto il pogrom del 7 ottobre 2023.
Estratto dell’articolo di Raffaella Troili per “Il Messaggero” sabato 14 ottobre 2023.
La ninna nanna dei terroristi, poiché il male non conosce abisso. Uno schiaffo, un boomerang anche, il gusto acre e doloroso del falso. Un bimbo israeliano in pigiama seduto su un tavolo accanto a un fucile, non sembra sorridere anzi, il volto cupo, spaventato, accudito dai miliziani di Hamas, un neonato in braccio a un altro in divisa, il capo chino sulle spalle dello sconosciuto, che gli dà i colpetti sulle spalle, sì quelli che rincuorano, e che spettano alle mamme, ai papà e agli intimi.
Quegli adulti assenti che forse hanno appena sterminato. Un video scioccante è stato diffuso da Hamas - la cui autenticità è da verificare - in cui si vedono miliziani armati con in braccio alcuni bimbi israeliani in ostaggio. Un neonato viene cullato in una carrozzina, a un altro sembra stiano allacciando una scarpetta.
È in pigiama, si è svegliato ed è spaesato. E solo. L'organizzazione sostiene di aver girato le immagini in un kibbutz nel primo giorno dell'assalto, sabato 7 ottobre. Quando sono avvenuti le infiltrazioni di massa e il massacro di israeliani anche nei kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza. In particolare a Kfar Aza quaranta bambini tra cui neonati in culla sono stati uccisi, alcuni decapitati e bruciati, come mostrato dai soldati israeliani.
La risposta, macabra più che rassicurante, viene dal video diffuso da Hamas. Nella case vuote e in disordine, piene di giocattoli e normalità perduta, i terroristi si aggirano senza fretta con i bambini in braccio, come a testimoniare che l'operazione è stata chirurgica e ha risparmiato i minori. Spariti nel nulla, nel migliore dei casi.
[…] Nuova scena: eccoli tutti e due in braccio a un terrorista, dal volto coperto, tra i due bimbi anche un fucile. Il video prende una piega propagandistica, va inviato un messaggio. Il neonato piagnucola, il grandicello sembra sotto choc.
Ultimo atto: il bambino viene fatto sedere sul divano. Ha delle ferite sulla fronte ma forse di quelle che si fanno i bambini da soli. Si sforza di sorridere, è tutto finto, del resto non è un film ma l'atroce realtà. E viene invitato a bere, lui china il capo e obbedisce. È l'ultimo crudele ciak. Come molti altri bambini forse hanno perso i genitori, forse sono ostaggi, forse hanno smesso di vivere. Qualcuno se ancora esiste aspetta di riabbracciarli. […]
Ninna nanna della guerra - TRILUSSA
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
Da Open.online.
Da Il Corriere della Sera.
Da Il Corriere del Giorno.
Da Quotidiano.net.
Da Il Messaggero.
Da La Repubblica.
Da La Stampa.
Da L’Indipendente.
Da L’Inkiesta.
Da Il Tempo.
Da Il Giornale.
Da Libero Quotidiano.
Da Vanity fair.
Da Dagospia.
Da L’Unità.
Da Il Riformista.
I Servizi Segreti.
Gli Ostaggi.
I Fondi del Terrorismo.
La Disinformazione.
I Pro e i Contro.
Estratto da open.online l'11 ottobre 2023.
«Abbiamo sentito degli spari e siamo rimasti praticamente barricati lì dentro per 21 ore finché l’esercito non ci ha salvato», ha raccontato sua moglie Keren Flash. «Continuavamo a sentire spari, spari, bombe e allarmi, e non sapevamo cosa stesse succedendo». Gli uomini armati di Hamas hanno sfondato la recinzione del kibbutz, forse usando una scavatrice. Da lì hanno aperto la strada ad altri uomini armati. I terroristi sono arrivati anche in motocicletta e in deltaplano, ha aggiunto il portavoce.
Yafi Shpirer, psicologa argentina sposata con un israeliano, ha detto che «i terroristi sono entrati per massacrare bambini, che dormivano nei lettini, e donne in tutte le case. Hanno usato i bambini come cavallo di Troia per parlare e far aprire le abitazioni ai vicini.
Le sirene hanno suonato e ci siamo nascosti nel rifugio che abbiamo. Nei gruppi WhatsApp abbiamo iniziato a ricevere notizie di rapimenti. Ci hanno detto che c’erano terroristi che pattugliavano una strada a 200 metri dalla mia cucina. Ogni kibbutz ha un’unità di difesa, nel nostro caso una ventina di giovani che sono usciti per proteggere le case e sono morti. Poi hanno ucciso tutti, sono state ore angoscianti fino all’arrivo dell’esercito. Sono animali venuti per distruggerci». Shpirer dice di aver «combattuto tutta la mia vita per una convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Ora sono terrorizzata».
Gli stupri, le persone sgozzate, i dolcetti per festeggiare
(…) I militari hanno confermato che alcune persone sono state sgozzate. Un sopravvissuto ha raccontato che la presenza di Hamas nel kibbutz di Kfar-Aza è durata molte ore. «I vandali hanno ucciso ostaggi con i coltelli, hanno violentato donne e ridevano», racconta.
Nei video amatoriali di quel giorno, spiega Repubblica, si vedono individui – spesso molto giovani, senza equipaggiamento militare e probabilmente non inquadrati dentro Hamas – che partecipano al sequestro di ostaggi, colpiscono le persone catturate con pugni e sputi e le trasportano all’interno della Striscia. L’accusa di stupri è stata fatta anche da altri sopravvissuti nei giorni scorsi. Altri video sabato mostravano i festeggiamenti per la riuscita dell’operazione. Da anni fanno parte del rituale voluto da Hamas, come la distribuzione di dolcetti all’angolo delle strade e i fuochi artificiali.
Israele e le 4 guerre che cambiarono il mondo. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 14 marzo 2023.
Caro Aldo, sono israeliano e vivo in Israele. La sua risposta riguardo il riconoscimento di Gerusalemme capitale mi ha molto colpito per come lei ha analizzato i crimini tedeschi come crimini italiani. In Italia c’è stato questo stravolgimento storico in cui si celebra la Liberazione, in cui l’Italia è in poche parole vittima dei tedeschi e vessata — senza saper come — dal fascismo. Si è riusciti a vendere alle nuove generazioni italiane l’idea che l’Italia sì in qualche modo ha partecipato alla Seconda guerra mondiale coi tedeschi, ma in realtà era dalla parte degli alleati, come dimostra l’attiva partecipazione dei partigiani ed ignorando le oceaniche manifestazioni di popolo di Piazza Venezia. Peccato che non si sia avuto il coraggio di ammettere, negli Anni ‘50 ed anche ‘60, il vero ruolo del fascismo e la conseguente adesione allo stesso della grande maggioranza del popolo italiano. I tedeschi, invece, d’altra parte, ammettono totalmente le proprie responsabilità, si scusano continuamente per quanto hanno commesso. Nei libri scolastici tedeschi è tutto chiaro e non si nasconde nulla. Detto questo, il mio amore per l’Italia e la mia simpatia per gli italiani non ha limiti. Daniel Mimun Netanya, Israele
Caro Daniel, Ringrazio lei e in genere i lettori che hanno scritto sulla questione Gerusalemme capitale (alcune mail sono pubblicate nella colonna a fianco). Tutti l’hanno fatto con il rispetto e l’attenzione dovuta a un tema così importante, dietro cui dai tempi di Tito c’è una millenaria storia di dolore. Quand’ero ragazzo, il Medio Oriente era considerato il cuore del mondo. Tra il 1948 e il 1973 si combatterono quattro guerre, non lunghe ma cruciali: ognuna a suo modo ha cambiato il mondo. Nel 1948 Israele resistette e si affermò come l’unica democrazia della regione, quale ancora è. Nel 1956 si capì che Francia e Regno Unito non potevano più fare nulla senza Stati Uniti e Unione Sovietica. Nel 1967 i soldati israeliani presero Gerusalemme Est con la città vecchia e il muro del Pianto (che gli ebrei chiamano Kotel), la Cisgiordania, il Golan e il Sinai, poi restituito all’Egitto. Nel 1973 Israele si trovò in grave difficoltà, e per due volte si arrivò vicini all’impiego dell’arma nucleare: secondo il più importante storico israeliano, Benny Morris, Golda Meir stava per usarla per fermare i carristi siriani che scendevano verso il lago di Tiberiade, ma Moshe Dayan la fermò: «Aspetta, i nostri uomini possono ancora resistere». I carristi israeliani resistettero; e dei 2.300 caduti israeliani nella guerra del Kippur, metà erano carristi. Quando però Sharon contrattaccò oltre Suez e avanzò verso Alessandria, furono i sovietici a minacciare il ricorso all’atomica. Oggi del Medio Oriente si occupano in pochi. Resto convinto che sia sempre una delle chiavi per capire la modernità e il futuro. Benny Morris ricorda che Ben Gurion disse nel 1938: «Noi stiamo difendendo le nostre vite. Ma sul piano politico, siamo noi che attacchiamo, e loro che si difendono». Poi però Morris aggiunge: «Ben Gurion aveva ragione. Ma ora quel ragionamento non vale più. Israele ha creduto davvero alla pace. I palestinesi no». Quanto al punto specifico che lei solleva, gentile signor Mimun, non posso che darle ragione: l’Italia non ha mai fatto i conti sino in fondo con il fascismo, e con il suo ruolo nella persecuzione degli ebrei.
Perché sempre Gaza? Che cos'è Hamas? E perché Israele teme l'intervento dell'Iran? Francesco Battistini su Il Corriere della Sera sabato 7 ottobre 2023.
Almeno sette guerre negli ultimi diciotto anni. Da quando Hamas ha il controllo della Striscia, Israele l'ha dichiarata territorio ostile interrompendo anche la fornitura di elettricità
Quante sono state finora le guerre di Gaza?
Almeno sette in diciotto anni. Cominciate da quando i militari e gli ottomila coloni israeliani se ne sono andati dalla Striscia, nel 2005, lasciando il controllo all’Autorità palestinese. E soprattutto da quando il movimento islamico Hamas ha vinto le elezioni, nel 2007, battendo il Fatah di Abu Mazen e prendendo il controllo di questo territorio costiero. Un prologo è stata l’operazione Piogge Estive (2006), dopo l’uccisione di due miliziani palestinesi e il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit: l’operazione Piombo Fuso nel 2008, quando Israele entra a Gaza dopo ripetuti lanci di razzi palestinesi: in tre settimane di guerra, muoiono 1.400 palestinesi e 13 israeliani. La seconda è l’operazione Pilastro di Difesa (2012), con un attacco missilistico che uccide anche il capo militare di Hamas e in otto giorni causa 177 morti fra i palestinesi, sei fra gli israeliani. Nel 2014, c’è l’operazione Linea di Protezione, per bloccare i razzi e chiudere i tunnel che collegano la Striscia all’Egitto: sette settimane di fuoco, 2.251 palestinesi e 74 israeliani uccisi. Due anni e mezzo fa, nel maggio 2021, undici giorni di conflitto, l’uccisione di 248 palestinesi (66 bambini) e di tredici israeliani. A nche lo scorso maggio, ci sono stati cinque giorni di scontri col Jihad islamico, una fiammata: 33 palestinesi ammazzati, due israeliani. Ora, la settima guerra.
Perché sempre Gaza?
Da quando Hamas ha il controllo della Striscia, Israele l’ha dichiarata «territorio ostile». Interrompendo per lunghi periodi la fornitura d’elettricità, di carburante e di beni essenziali, oltre che bloccando le esportazioni. I lanci di razzi Qassam sulle città israeliane hanno di volta in volta peggiorato la situazione. Ma dietro le operazioni militari, lo stallo di Gaza è stato usato anche politicamente dai principali attori. Da Hamas, che controlla con pugno di ferro Gaza e ha perpetuato ormai una leadership nella lotta contro l’occupazione dei Territori palestinesi, ricevendo aiuti finanziari e militari dall’Iran. Da diversi premier israeliani, a partire da Bibi Netanyahu, che grazie all’acuirsi delle crisi con Gaza hanno sempre compattato l’opinione pubblica. Dall’Autorità palestinese in Cisgiordania, che s’è sempre posta come unico interlocutore possibile per eventuali negoziati. Anche la spaccatura fra Hamas e i palestinesi del Fatah di Abu Mazen serve a spiegare perché il conflitto si sia concentrato sempre su Gaza.
C'è il rischio di un coinvolgimento dei palestinesi di Abu Mazen?
In Cisgiordania, dal 2006 è presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, ormai anziano e malato. Il suo mandato è scaduto da quasi un quindicennio, ma non si va mai alle urne perché tutti i sondaggi hanno sempre previsto una vittoria di Hamas. Durante la presidenza americana di Trump, e grazie agli Accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele con alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, storico nemico di Turchia e Iran, fu annunciata una pioggia di soldi sulla Cisgiordania di Abu Mazen, sempre più corrotta e dipendente dagli aiuti internazionali: 50 miliardi di dollari in investimenti stranieri fino al 2030, assieme alla promessa d’un Pil raddoppiato, d’un milione di posti di lavoro, della povertà ridotta del 50%, d’un export schizzato dal 17 al 40% del Pil, d’un ranking della Banca mondiale pari a quello del Qatar. Tutti questi benefit hanno di molto indebolito la solidarietà palestinese: quando gli Usa hanno trasferito l’ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo la città eterna come capitale d’Israele e contemporaneamente stracciando l’accordo iraniano sul nucleare, le reazioni dell’Anp sono state quasi nulle. Questo, mentre in Cisgiordania i coloni illegali israeliani sono diventati oltre 700mila e le betoniere non hanno mai smesso d’occupare, contro gli accordi internazionali, le terre dei palestinesi.
Che cos'è Hamas?
Nato negli anni ’80, durante la protesta palestinese della Prima Intifada, dichiara incompatibile Israele con una Repubblica islamica di Palestina. E Israele, al pari degli Usa e della Ue, lo considera un’organizzazione terroristica. Hamas gode dell’amicizia d’un grande sponsor politico come la Turchia di Recep Erdogan, che dal 2010 tenta di forzare il blocco israeliano intorno alla Striscia. Secondo i servizi israeliani e lo stesso Abu Mazen, però, oggi è soprattutto l’Iran il grande amico di Hamas. Il finanziamento diretto è per circa 6 milioni di dollari al mese, arrivati fino a 30 negli ultimi anni. Una cifra versata attraverso gli islamici di Hezbollah che controllano il Sud del Libano. Gli Hezbollah sono sciiti come gli ayatollah di Teheran e si battono, come Hamas, per la distruzione del vicino Israele.
Perché Israele teme l'intervento dell'Iran?
Perché gli iraniani sono considerati il nemico numero uno. A causa del programma atomico, ripreso nel 2002, che secondo l’Onu ha anche scopi militari e viola il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare. Teheran finanzia anche il Movimento per il Jihad in Palestina, responsabile di molti attacchi suicidi. Dall’Iran, sono arrivate a Gaza forniture d’armi sempre più sofisticate. E il timore è per i missili a lungo raggio di cui dispongono gli Hezbollah in Libano: armi ancora più temibili dei razzi di Gaza.
Che fine hanno fatto i negoziati di pace?
Non esistono più da anni. Quella fra palestinesi e israeliani, ormai la chiamano la pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 56 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella quindicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima.
Estratto dell'articolo di Guido Olimpio per corriere.it sabato 7 ottobre 2023.
Il 6 ottobre del 1973 gli eserciti arabi scatenavano la guerra dello Yom Kippur cogliendo di sorpresa Israele avvisato dall’intelligence solo all’ultimo minuto. Hamas ha mancato di un giorno la data dell’anniversario, probabilmente perché voleva agire di sabato, nel giorno in cui il nemico riposa. La sorpresa però c’è stata.
Diversi gli elementi dell’offensiva della fazione palestinese. Ha pianificato attentamente l’operazione studiando la routine della sicurezza lungo il confine di Gaza: ricognizione necessaria per individuare i punti deboli degli avamposti, eventuali errori, comportamenti dei soldati.
Non abbiamo ancora tutti gli elementi ma l’alto numero di infiltrati vuol dire che la breccia è stata consistente, senza che i militari potessero contrastarla con efficacia. Il carro armato in fiamme ne è la prova. Il raid è stato coperto da un diluvio di fuoco, con il tiro massiccio di razzi e di colpi di mortaio. I guerriglieri hanno un arsenale vastissimo che gli permette di arrivare fino a Tel Aviv e anche oltre. Armi prodotte loco grazie all’assistenza tecnologia iraniana, all’esperienza dei loro «tecnici», alla lunga ricerca.
Insieme a questi ci sono gli ordigni ricevuti negli anni da Teheran. Il bombardamento è servito a destabilizzare, a creare panico, a spingere i civili nei rifugi e ad impegnare i soccorsi. La terza mossa è quella più profonda e seria. I militanti delle Brigate Ezzedine al Qassam sono penetrati in territorio israeliano a bordo di veicoli, i video li mostrano nelle strade di Sderot. Liberi di girare, di sparare sui passanti, di presidiare incroci.
Di nuovo hanno certamente condotto sopraluoghi, valutato vie d’accesso, posti di polizia. Troppo esile, in apparenza, lo schieramento dell’esercito nel settore. Non meno rilevante è la propaganda. Un giornalista palestinese ha postato un video dall’interno da un kibbutz nelle mani degli incursori, altri hanno mostrato gli ostaggi israeliani catturati e altri ancora i guerriglieri spostarsi rapidamente in moto. I corazzati abbandonati in una base danno il senso della confusione e di un tracollo incomprensibile di forze armate che dovrebbero stare in allerta.
[…]
Dietro il piano c’è la mano di Mohammed Deif, il capo del braccio armato di Hamas. Nato nel 1960 a Khan Younis, cresciuto all’ombra di Yaya Ayyash, detto l’ingegnere, l’uomo che preparò falangi di kamikaze, è diventato una figura importante quanto sfuggente. Scampato alla morte nel 2014, ha assunto regole di comportamento ferree, protetto da un cerchio di sicurezza e attento a non rivelare neppure il suo volto. Di lui c’è solo una vecchia foto.
Restando nell’ombra ha creato diverse unità speciali, ha sviluppato i «missili», ha intensificato l’addestramento ed atteso il momento opportuno per lanciare il colpo. La drammatica sequenza bellica pone infine interrogativi sugli apparati di sicurezza di Gerusalemme.
I servizi interni – lo Shin Bet – e l’esercito non hanno colto segnali della tempesta in arrivo? L’ampiezza dell’assalto ha comportato una mobilitazione ampia da parte di Hamas e Jihad, quindi sarà da capire come sia stato possibile che l’avversario sia riuscito a passare non solo sotto i reticolati ma anche sotto il radar di un’intelligence esperta.
Israele colto di sorpresa come 50 anni fa (la guerra dello Yom Kippur). Federico Rampini su Il Corriere della Sera sabato 7 ottobre 2023. Oggi, come nel 1973, si ha l’impressione che Israele si sia fatto prendere di sorpresa. Come si spiegano le difficoltà israeliane?
L’attacco di Hamas contro Israele sembra “celebrare” a modo suo il 50esimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, che ebbe inizio il 6 ottobre 1973.
Oggi come allora, si ha l’impressione che Israele sia stato preso di sorpresa. Un’offensiva come quella di Hamas con oltre duemila razzi lanciati richiede una preparazione, che le forze armate israeliane non sembrano avere avvistato in anticipo, a giudicare dall’assenza di prevenzione e protezione, nonché dall’elevato bilancio di vittime.
Quali fattori possono spiegare la difficoltà iniziale di Israele? Forse un ingrediente è simile al 1973: un senso di superiorità eccessivo, che infonde sicurezza e può indurre ad abbassare la guardia contro i pericoli. Un’altra spiegazione può collegarsi alla lacerazione profonda della società israeliana. Infine l’attacco di Hamas va visto nel quadro della rivoluzione geopolitica del Medio Oriente: fino a ieri si dava per imminente una storica riconciliazione tra Arabia saudita e Israele; la guerra di queste ore può essere un tentativo di Hamas (e del suo protettore, l’Iran) di sabotare quel disgelo.
Torno al precedente del 1973, la guerra che “cambiò il mondo” in molti sensi. Per noi occidentali fu il primo grave shock energetico (legato all’embargo petrolifero dei paesi arabi contro chi aveva appoggiato Israele), ma anche uno stimolo per esplorare innovazioni come l’energia solare e l’auto elettrica.
In Medio Oriente quel conflitto significò molte cose. Anzitutto, poiché le mosse iniziali della guerra videro le forze armate israeliane in difficoltà e in arretramento rispetto alla coalizione avversaria guidata da Egitto e Siria, il mondo arabo visse un riscatto rispetto all’umiliazione del 1967, una guerra-lampo (“sei giorni”) che era stata un trionfo per Tel Aviv. Ma nel medio periodo la guerra dello Yom Kippur partorì uno sviluppo diplomatico clamoroso in tutt’altro senso, cioè la pace tra Egitto e Israele, lo sganciamento del Cairo dall’orbita dell’Unione sovietica, un capolavoro firmato dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger.
Oggi centenario, Kissinger l’ho incontrato in persona questo giovedì 5 ottobre a New York. Parlava a un convegno del Council on Foreign Relations dedicato proprio alla guerra dello Yom Kippur. Accanto a lui c’era l’ex premier israeliano Ehud Barak, che nel 1973 rischiò la vita sul Sinai al comando di un battaglione di carrarmati impegnato a recuperare terreno dopo l’avanzata iniziale degli egiziani. Sia Kissinger che Barak hanno ricordato gli errori di allora. Kissinger ha ammesso di avere inizialmente sottovalutato il presidente egiziano Sadat «che mi sembrava una figura dell’opera Aida di Verdi». Barak, militare di carriera che in seguito sarebbe diventato premier dal 1999 al 2001, ha ricordato che nel 1973 i vertici d’Israele erano convinti che la loro vittoria del 1967 avesse segnato una superiorità incolmabile rispetto alle risorse militari dei paesi arabi, allora quasi tutti nemici. I comandanti delle forze armate israeliane giudicavano l’Egitto incapace di attaccare finché non avesse raggiunto una parità aerea, dalla quale era ben lontano. L’allora premier Golda Meir ignorò l’avviso del re Hussein di Giordania – l’unico paese arabo non ostile a Israele – che l’aveva messa in guardia due settimane prima dell’offensiva. Alla fine gli israeliani riuscirono a ricacciare indietro gli assalitori, e durante la loro controffensiva arrivarono a minacciare sia il Cairo sia Damasco. Ma «il danno subito dalla nostra autostima fu profondo», ha ricordato Barak.
Oggi mentre il premier Benjamin Netanyahu dichiara «siamo in guerra», è possibile azzardare qualche parallelo. Se Hamas ha colto di sorpresa il governo Netanyahu, quali possono essere stati i fattori equivalenti “all’ effetto 1967” che rese gli israeliani troppo sicuri di sé cinquant’anni fa? Ne vedo due ordini.
In primo luogo Israele oggi è ancora più potente di cinquant’anni e al tempo stesso è molto meno isolato. Il mondo arabo sta isolando la Palestina, semmai, o almeno quelle forze insediate in aree palestinesi che si appoggiano all’Iran (Hamas, Hezbollah). Grazie agli accordi di Abramo, favoriti dalla diplomazia americana, Israele ha stabilito rapporti diplomatici con Emirati arabi, Bahrein, Marocco, Sudan.
Sembra imminente una svolta ancora più significativa, cioè l’allacciamento di rapporti diplomatici con l’Arabia saudita di Mohammed Bin Salman(MbS). Una svolta storica… se e quando arriverà. Israele da questo punto di vista è in una situazione geopolitica molto più favorevole di quella che lo vedeva accerchiato da una folla di nemici nel 1973. Questo può aver contribuito a un senso di sicurezza eccessivo. E viene il sospetto che l’attacco di Hamas possa essere anche indirizzato contro l’Arabia saudita.
Il principe MbS, che porta avanti un disegno modernizzatore, è sempre meno incline ad aiutare i palestinesi visti i loro legami con il grande rivale dell’Arabia che è il regime iraniano degli ayatollah. Al tempo stesso, per non urtare troppo le sensibilità del mondo arabo, MbS prima di annunciare il suo riconoscimento diplomatico di Israele deve ottenere qualche concessione almeno simbolica in favore dei palestinesi. Un’operazione resa molto più difficile dai combattimenti che infuriano in queste ore. Hamas, con l’appoggio dell’Iran, s’infila come un cuneo dentro l’avvicinamento tra MbS e Netanyahu.
L’Iran rimane una potenza destabilizzante in tutta l’area. Un altro fattore che può avere indebolito il livello di preparazione delle forze di difesa israeliane, è la profonda divisione del paese. I progetti di riforme costituzionali di Netanyahu, che secondo l’opposizione minacciano gli equilibri istituzionali e la democrazia stessa, hanno accentuato le proteste, le lacerazioni. Il turbamento arriva a lambire le forze armate e i servizi d’intelligence.
La società civile israeliana vive una crisi profonda. Netanyahu appare come un premier che pur di rimanere al potere accetta i ricatti di forze politiche dell’estremismo religioso sempre più potenti e privilegiate: vedi l’esenzione dal servizio militare. Troppo concentrata sui problemi interni, la società israeliana può avere abbassato la guardia sulle minacce da fuori.
Estratto dell’articolo di Guido Olimpio per corriere.it sabato 7 ottobre 2023.
Lo chiamano il fantasma ma esiste e lo ha dimostrato in queste ore. Mohammed Diab al Masri, nome di battaglia Mohammed Deif, è l’artefice dell’assalto senza precedenti a Israele. Un’operazione preparata da un uomo che restando nell’ombra ha trasformato un pugno di guerriglieri in una formazione temibile.
Sulla cinquantina, il capo del braccio militare di Hamas è nato a Khan Younis, a Gaza, e nonostante le magre risorse della sua famiglia ha potuto studiare. Biologia, dicono.
[…] È cresciuto sotto l’ala di Yaya Hayyash, l’ingegnere, il coordinatore degli attacchi suicidi a metà degli anni ‘90, e quando il suo mentore è stato ucciso ha compiuto un passo dopo l’altro per sostituirlo.
La sua prima specialità sono state le prese di ostaggi, azione ripetuta in queste ore su scala massiccia. Sono pedine dall’alto valore negoziale, vite da scambiare. Successivamente si è dedicato alla costruzione dell’arsenale della fazione. Le Brigate Ezzedine al Qassam, la punta di lancia del movimento, sono passate dai Kalashnikov ai droni e ai razzi. Il network ha importato materiale bellico attraverso i tunnel clandestini collegati al territorio egiziano, linfa vitale anche per merci civili.
I fedayn hanno ingaggiato palestinesi all’estero che potessero assisterli, ne hanno coinvolti altri nella Striscia, hanno sfruttato l’appoggio dell’asse sciita, Iran ed Hezbollah libanese. Un coordinamento costante sul piano militare e politico. I due alleati hanno fornito istruzioni, materiale, pezzi mentre i loro istruttori hanno dato consigli.
[…]
Al centro sempre il fantasma. Israele non gli ha dato tregua. Gerusalemme, all’epoca di Arafat, ne aveva chiesto l’arresto e, per un certo periodo, era stato messo in una residenza sorvegliata dall’Autorità. Iniziativa del suo vicino di casa e conoscente, Mohamed Dalhan, per lungo tempo responsabile della sicurezza.
Un soggiorno di pochi mesi che non ha interrotto la sua carriera diventando il most wanted numero uno degli gli israeliani. Che hanno provato a farlo fuori in ogni modo. Dal cielo con strike di elicotteri sulle vetture che lo trasportavano – 2001 e 2002 -, con infiltrati, con il ricorso a spie.
Le biografie citano sei-otto episodi di azioni mirate per ucciderlo, lui però è sempre scampato riportando ferite serie. Nessuno ne è certo, però c’è chi dice abbia perso un occhio e una mano o che cammini a fatica per le conseguenze di una scheggia. Altri ipotizzano danni maggiori ma nulla che abbia compromesso importanza e status.
Nell’agosto del 2014 hanno bombardato la sua abitazione, raid costato la vita ad una delle mogli e ad una figlia. Sono caduti anche alcuni dei suoi collaboratori, il numero due al Jabaari o i procacciatori di materiale bellico assassinati dal Mossad negli Emirati, in Tunisia e Malaysia.
Successi tattici che non hanno inciso però sulle Ezzedine al Qassam organizzate per sopravvivere ad una eventuale decapitazione dei vertici. La caccia continua e la lunga esperienza di anni di conflitto lo hanno costretto a misure di sicurezza rigorose.
Di lui gira solo una vecchia foto, niente telefono, solo corrieri e messaggi registrati postati sul web. Nel primo audio noto, nel 2003, prometteva agli avversari: “La vostra vita sarà un Inferno”. Vent’anni dopo lo ha dimostrato in modo brutale.
Il giornalista palestinese Omar Ghraieb: «Muoiono bambini, famiglie. Noi non siamo tutti di Hamas, l’Occidente deve ricordarlo». Greta Privitera su Il Corriere della Sera mercoledì 11 ottobre 2023.
L'operatore umanitario e giornalista palestinese racconta da Gaza le ultime ora vissute nella Striscia bombardata dall’esercito israeliano: «Qui manca tutto, muoiono moltissimi bambini»
L’ultima cosa che dice Omar Ghraieb è: «Ho il 5% di carica sul cellulare, non c’è più elettricità. Ci risentiamo quando potrò». Ha 36 anni, è un giornalista e un operatore umanitario della Ong Oxfam. Nato a Gaza City, vive lì con la famiglia. Dice: «Siamo in trappola seduti sui nostri divani».
Come state?
«Conosco la guerra molto bene, ma questa volta è diverso. Non c’è paragone con gli attacchi precedenti. Il livello di distruzione è altissimo. Decine di edifici sono stati rasi al suolo, appartamenti, case e moschee. Muoiono famiglie intere in un colpo solo. I bombardamenti sono non-stop, e il peggio deve ancora venire».
Sta lavorando con Oxfam?
«In questo momento non posso andare sul campo, e soffro a non essere utile. La situazione umanitaria è fuori controllo. Manca cibo acqua, elettricità. Siccome tutto è successo all’’improvviso, non abbiamo avuto la possibilità di organizzarci. Di solito non facciamo grandi scorte perché comunque ogni giorno c’è uno stop di corrente di 8-12 ore che non consente al cibo di conservarsi. Il peggio è la notte».
Perché?
«Perché i bombardamenti si intensificano e non abbiamo sistemi d’allarme, veniamo solo bombardati. Siamo seduti sul nostro divano e all’improvvisto sentiamo esplosioni sulle case accanto».
Non c’è nulla che avverte dei bombardamenti?
«Non abbiamo le sirene, per esempio. Gli israeliani avvisano gli abitanti delle case che vengono bombardate per farli evacuare. Chi riesce trova rifugio nelle case di familiari, amici o colleghi che abitano in zone più tranquille. Qualcuno va negli ospedali. Sono morti tantissimi bambini. In questi giorni, conviviamo con due rumori di sottofondo: le bombe e il pianto ininterrotto dei piccoli».
State cercando un modo per lasciare la città?
«Anche se volessimo farlo è impossibile, abbiamo solo due frontiere, una con Israele, chiusa — Erez — e una con l’Egitto — Rafah — che ha consentito il passaggio solo ad alcune persone registrate. Noi siamo abituati a sentirci in trappola ma questa è una tomba a cielo aperto».
L’attacco terroristico di Hamas ha sconvolto Israele e il mondo intero. In molti si aspettano che anche la società civile palestinese si dissoci da queste azioni.
«La maggior parte dei civili non è affiliata ad Hamas. Noi non siamo terroristi. Siamo persone che vogliono solo vivere una vita dignitosa nel Paese in cui siamo nati. Molto spesso ci sentiamo abbandonati dall’Occidente, come se ci fosse un doppio standard. I nostri morti valgono di meno. So che è importante parlare di Hamas, ma oggi, a Gaza, le persone per bene non stanno pensando alla politica, ma pensano solo a come salvarsi la vita sotto un diluvio di bombe».
Estratto dell’articolo di Guido Olimpio per corriere.it il 9 ottobre 2023.
In gergo le spie lo definisco il “caviale”. È l’agente doppio, l’uomo che lavora per due padroni, utile per depistare. Hamas ne ha fatto una delle sue armi migliori, convincendo dei collaborazionisti di Israele ad agire anche per il movimento.
Probabile, che a livello tattico, queste figure ambigue abbiano partecipato ad un piano ben studiato. Fonti palestinesi hanno svelato alla Reuters come le Brigate Ezzedine al Qassam sarebbero riuscite a ingannare il nemico nascondendo le proprie intenzioni. Anche se qualcosa è trapelato.
L’Egitto, che dispone di “occhi” a Gaza, aveva avvisato Gerusalemme su “qualcosa di grande” in arrivo ma sarebbe rimasto sorpreso dalla scarsa attenzione del governo Netanyahu. Vedremo se è andata davvero così in una storia in corso dove sono emersi l’abilità della fazione, il passo falso di Mossad, Shin Bet e Aman, l’intelligence militare di Gerusalemme.
La prima mossa di Hamas è stata quella di far passare un messaggio rassicurante: non siamo interessati ad un nuovo conflitto, ci dedichiamo alla gestione di Gaza, stiamo trattando per aumentare il numero di operai palestinesi che lavorano nello Stato ebraico. Una nota detta e ridetta, a più livelli, nella Striscia come all’esterno. Eppure, c’erano stati i contatti in aprile con i pasdaran iraniani in Libano ma sono stati interpretati come preparatori per azioni minori, attacchi che Israele ha imparato a contenere e a sopportare. Invece, se sono vere le rivelazioni del Wall Street Journal, hanno costituito l’ultimo tassello per scatenare l’offensiva d’Ottobre, compreso il presunto ordine di agire impartito lunedì scorso.
Il governo di Gerusalemme è parso, però, più prudente a livello ufficiale sul coinvolgimento diretto degli ayatollah. C’è tempo per accuse specifiche. Sulla valutazione generale ha pesato anche la catena di attentati in Cisgiordania, violenza – unita alla scelta ideologica del governo in favore delle richieste dei coloni – che ha spinto ad aumentare le unità in West Bank indebolendo il settore meridionale.
La seconda carta è stata più evidente. Le Brigate hanno condotto esercitazioni, prove documentate dai video diffusi in rete: ecco gli uomini rana sulle spiagge, i militanti in deltaplano, le manovre a fuoco. Tutto ben visibile. I loro operai hanno costruito un poligono che riproduceva le casette dei kibbutz poi presi d’assalto, un teatro dove provare la missione. Impossibile che lo Shin Bet non se ne sia accorto. L’ufficio analisi avrà pensato alla routine, ad attività di propaganda. E cosa hanno detto le loro fonti sul terreno? Hanno confermato? Possibile. Una valutazione sincera mescolata, però, a dritte fuorvianti secondo una tradizione coltivata da Hamas quando era ancora “in fasce”.
Subito dopo la nascita del movimento ha creato al Majd, la cellula iniziale del suo controspionaggio, e ne faceva parte negli anni ’80 anche l’attuale leader Yahya Sinwar. L’apparato è stato sostituito nel 2007 dalla Sicurezza Interna diventata una componente chiave. Ha dato la caccia ai traditori, ha studiato l’avversario, si è dotata con l’aiuto iraniano di mezzi tecnologici. In diversi casi, quando ha scoperto, una talpa invece che punirla brutalmente l’ha convinta a collaborare per “intossicare” lo Shin Bet. È un gioco sottile, perché devi proteggere il voltafaccia.
L’agente doppio è usato per passare dati corretti e disinformazione, è possibile sacrificare qualcosa o qualcuno in modo da non far nascere sospetti negli israeliani. In un episodio la Sicurezza Interna si è servita del cellulare dell’informatore per ascoltare i dialoghi con gli 007 israeliani, in un altro ha utilizzato la pedina per avere dettagli su “case sicure”, modus operandi, collegamenti dello Shin Bet. Ma c’è stato un episodio dove la spia ha ucciso il suo contatto nell’intelligence, un gesto per espiare fino in fondo la sua colpa.
Estratto dell’articolo di Guido Olimpio per corriere.it mercoledì 11 ottobre 2023.
La storia continua a girare, con dettagli diversi. Dieci giorni prima del Diluvio al Aqsa il Cairo ha passato un messaggio urgente a Gerusalemme: sta per accadere «qualcosa di grosso».
Il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamal […] avrebbe telefonato al premier Netanyahu per sottolineare l’urgenza. E secondo una ricostruzione dall’altro lato non hanno capito, convinti che Hamas avrebbe al massimo condotto uno dei «soliti» attacchi o che non fosse interessata ad aprire il fuoco.
Una versione successiva declassa la segnalazione: sì, hanno avvisato però in termini generali, non c’era l’indicazione tattica precisa. Un racconto incompleto, da decifrare. Siamo solo al primo capitolo tra manovre, polemiche, caccia ai colpevoli.
[…] Gli egiziani conoscono alla perfezione Gaza, dispongono di informatori e di sponde nella dirigenza locale di Hamas. Rapporti politici e di interesse, visto che l’unico vero sbocco verso l’esterno per la Striscia è il punto di confine meridionale di Rafah, Egitto.
Legami antichi con i servizi segreti a fare da mediatori, un ruolo consacrato da una figura famosa, Omar Suleiman, gestore durante un periodo lunghissimo di dossier complicati deceduto nel 2012. […]. Rispettato dai due contendenti, ha ampliato le «connessioni», ha seminato in un terreno difficile ed ha lasciato ganci a chi è venuto dopo. Oggi quel ruolo è stato assunto da Abbas Kamal, a metà strada tra “guardiano” e diplomatico. Funzione peraltro svolta dal capo del Mossad e più di recente dal direttore della Cia William Burns nel conflitto ucraino e da qualche russo.
Tra spie ci si intende, parlano un loro linguaggio, vanno al punto, sono autorizzate a rivelare informazioni riservate nel caso serva a raggiungere una meta superiore. Probabilmente gli egiziani, con i loro uomini sul terreno, si sono accorti dei preparativi messi in atto dalle Brigate Ezzedine al Qassam.
Il training dei guerriglieri, i movimenti inusuali e usuali, i piccoli e grandi segni a Gaza, i video di propaganda di unità speciali dal mare al cielo sono stati captati. Da soli però non erano sufficienti a far scattare i sospetti […]. […] Forse ad informare Abbas Kamal è stata una fonte vicina al vertice di Hamas, qualcuno che ha colto notizie grezze, non definite, magari semplici allusioni ad un’operazione. […] coloro che sapevano erano non più di quattro o cinque, incluso la mente Mohammed Deif. Neppure i dirigenti politici del movimento sarebbero stati messi al corrente proprio per passare sotto i radar israeliani.
La tesi porta a tre punti:
1. È credibile la segretezza assoluta.
2. Difficile però pensare che un assalto di tale portata sia stato concepito da una cerchia molto ristretta. […] qui pagano i civili e le ripercussioni internazionali sono immense. È comprensibile e agevole rimarcare l’efficacia del silenzio radio a missione compiuta, per rimarcare successo, organizzazione, disciplina, catena di comando impermeabile alle infiltrazioni.
3. Erano a conoscenza di ciò che era sufficiente, non degli aspetti bellici. E la prova sta nella telefonata degli egiziani a Gerusalemme, con il riferimento «a qualcosa di grande». Altrimenti non si spiegherebbe la mossa di Abbas Kamal […].
Una volta ceduta la “diga” il Cairo ha dovuto cambiare gli obiettivi ricentrando l'agenda. I funzionari di Abbas Kamal si sono mossi per avere garanzie dai militanti sul trattamento degli ostaggi e questo confermerebbe un coinvolgimento diretto in negoziato. Al tempo stesso hanno sollecitato una pausa nei combattimenti in modo da permettere l'arrivo di aiuti umanitari nella Striscia. Il generale al Sisi, infatti, teme un'ondata di profughi verso Rafah e il suo territorio. È una corsa contro il tempo, le fiamme in Medio Oriente si spostano veloci.
L’attacco di Hamas e la risposta confusa: perché Israele ha impiegato ore per rispondere ai terroristi. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera giovedì 12 ottobre 2023.
L’intelligence aveva rilevato movimenti inusuali ma non ha innalzato il livello d’allarme. L’esercito sorpreso e «paralizzato». Hamas sostiene che l’attacco era in preparazione da due anni.
Una jeep con soldati israeliani verso una delle città attaccate poche ore dopo l’attacco di Hamas (Zwigenberg/Ap)
Il Diluvio al Aqsa è iniziato alle 6.30 di sabato con una pioggia di razzi sulle postazioni israeliane al confine con Gaza. È stato un colpo devastante sferrato nel giorno più lungo di Israele.
Gli avamposti
Un soldato ha raccontato al sito The hottest place in the hell: «Mi ero appena svegliato quando è iniziato l’attacco, non sapevamo cosa fare». I miliziani di Nuvka, reparto scelto di Hamas, hanno accecato i sistemi di sorveglianza centrandole con il tiro di cecchini mentre le torri dotate di mitragliatrici guidate in remoto sono state distrutte dai droni. C’è chi dice abbiano fatto ricorso anche a mezzi elettronici, particolare da confermare.
Gli assediati erano privi di ordini precisi, sopraffatti dall’avversario. Pochi gli elementi esperti, tra i primi a morire, come un plotone della Brigata Golani spazzato via. Eppure, l’intelligence aveva trasmesso una nota avendo rilevato, nella notte, movimenti inusuali. Solo che è stato deciso dall’esercito e dallo Shin Bet di non innalzare livello d’allarme. Lo schieramento, inoltre, era debole. Per diversi motivi: la fiducia nel muro e nei sensori; i battaglioni impegnati in Cisgiordania a tutela delle colonie; l’idea che il nemico non sarebbe stato in grado di portare azioni estese; la concomitanza della festività.
Un quadro stravolto dall’assalto al Comando di divisione dove erano concentrati gli ufficiali più importanti. Chi doveva guidare la risposta era ferito, morto o catturato. Sarebbe stato importante il supporto aereo, però servivano i designatori di bersagli. Ma le posizioni erano paralizzate, in alcuni casi abbandonate in tutta fretta.
Tutto si è dissolto davanti alla spallata di oltre mille mujaheddin, loro stessi sorpresi dalla rapidità dell’avanzata. Lo ha confermato Salah al Aruri, numero due del politburo: in tre ore eravamo in controllo.
La reazione
Neppure allo stato maggiore devono aver capito. Il primo comunicato dell’esercito alle 6.30 riferisce del lancio di missili e solo alle 7.40 parlerà di «infiltrazione» dalla Striscia. Ormai era tardi perché i militanti a quell’ora stavano dilagando per dedicarsi al grande massacro.
Le registrazioni delle videocamere agli ingressi dei villaggi mostrano l’arrivo dei terroristi tra le 7 e le 7.30, con le garitte quasi sempre sguarnite forse perché gli addetti alla sicurezza avevano raggiunto i rifugi a causa del bombardamento con oltre 2.000 «missili». Il crollo o l’assenza di contrapposizione efficace ha permesso a Hamas di far affluire combattenti, seguiti da gruppi di predatori.
Sporadiche le contromosse: venti membri dell’unità scelta Shaldag sono stati trasferiti in elicottero a Be’eri, molti sono caduti sotto il fuoco.
I trucchi
Gli incursori di Mohammed Deif dicono di essersi preparati da due anni. Probabile. Di sicuro hanno spiato e studiato mettendo a punto un piano meticoloso.
I rapporti — ancora sommari — forniscono delle tracce: alcuni erano travestiti da soldati israeliani e sono riusciti ad ingannare le sentinelle, a sorprendere automobilisti che pensavano di trovare invece aiuto; altri sono stati aiutati da qualche operaio palestinese che ha fatto da guida, svolto una ricognizione; sui cadaveri dei miliziani sono state recuperate schede con punti deboli dei tank israeliani, foto di mappe satellitari con i target.
A questo si è aggiunta l’abilità di far passare le esercitazioni con deltaplani, esplosivi e battelli come routine.
La resistenza
Molti gli episodi di eroismo. Inbar Lieberman è una donna responsabile della sicurezza al kibbutz Nir Am, ad appena 500 metri dalla Striscia. Quando ha sentito le prime esplosioni ha aperto l’armeria distribuendo fucili a collaboratori e civili; quindi, li ha disposti in modo da creare un perimetro. Così hanno tenuto a bada i guerriglieri uccidendone almeno tre.
Un suo collega ha fatto la stessa cosa in un altro villaggio mentre un pugno di guardie ha cercato di contrastare con le pistole il commando piombato dal cielo a bordo di deltaplani sul festival rave. Storie che dovranno essere tenute in conto quando le autorità dovranno elaborare contromisure per tutelare le comunità.
Deve esserci uno scudo locale. L’esercito non può essere ovunque, i rifugi blindati non sono sempre la soluzione. In certi casi hanno rappresentato la salvezza ma in altri sono diventati trappole atroci. Gli aggressori, quando non sono riusciti a entrare, hanno dato fuoco alle abitazioni.
La liberazione
Una ricostruzione del New York Times ha ricostruito quanto tempo è passato dal momento dell’attacco alla liberazione di alcune località. Nir Oz: 8,5 ore. Raduno rave: 8 ore. Kfar Aza: 20 ore. Be’eri: 7,5 ore. Una «finestra» lunghissima, la cronaca di un’agonia.
Gerusalemme ha dovuto comprendere cosa era avvenuto, mettere insieme i rinforzi, dare la caccia ai fedayn. Intanto il nemico portava via oltre cento ostaggi lasciando dietro pile di vittime e un trauma nazionale.
Haniyeh, il boss di Hamas che dirige la guerra dal Qatar. Davide Frattini su Il Corriere della Sera lunedì 16 ottobre 2023.
Prima l’Intifada e le prigioni poi capo del gruppo. Storia di uomo che ormai non vive più nella Striscia di Gaza ma muove i fili da fuori
Il campo rifugiati Shati, spiaggia in arabo, si chiama così perché le case di cemento grigio, i piani aggiunti sbilenchi all’allargarsi delle famiglie, stanno a picco sulla costa, dalle rocce sgocciola in mare la fogna a cielo aperto. Quella che dovrebbe essere la strada d’ingresso principale è un vicolo sempre infangato che porta al palazzotto dove ha abitato Ismail Haniyeh. Le sbarre impediscono di arrivarci, anche se il capo di Hamas vive in Qatar ormai da un paio d’anni. Ha preso il posto ricoperto da Khaled Meshal e come lui cerca di controllare le dinamiche a volte conflittuali tra i leader dentro la Striscia — sotto i bombardamenti — e fuori a Doha, sotto i soffitti stuccati della capitale qatarina.
Sulla Spiaggia ci è nato 61 anni fa, il padre pescatore. Dopo le battaglie della prima intifada e la prigione, diventa assistente dello sceicco in carrozzella Ahmed Yassin, ucciso dagli israeliani nel marzo del 2004, il successore Abdel Aziz Rantissi dura un mese, un missile centra la sua auto. A quel punto i boss dell’organizzazione formano un triumvirato clandestino, meglio restare nascosti, i tre dovrebbero essere alla pari, in realtà lo guida Haniyeh ed è lui a essere il primo nome della lista che gli islamisti decidono di presentare alle elezioni parlamentari del 2006, Yasser Arafat è morto due anni prima. Stravincono: Haniyeh è capo del governo a Gaza, mentre l’Autorità palestinese fa capo al presidente Abu Mazen a Ramallah.
Abu Mazen non riesce a fargli riconoscere gli accordi stipulati con Israele, che siano quelli di pace a Oslo o il riconoscimento dello Stato ebraico. Così la maggior parte della comunità internazionale lo boicotta, resta vuota la mensola che aveva preparato nel suo ufficio per raccogliere le foto con i grandi del mondo, gli arriva una telefonata di congratulazioni da Bobo Craxi, allora sottosegretario agli Esteri, che va di traverso al resto dell’esecutivo italiano guidato da Romano Prodi.
Il presidente lo disconosce nel 2007 perché i paramilitari gli tolgono con le armi il dominio sui 363 chilometri quadrati stretti tra Israele, l’Egitto e il Mediterraneo. I miliziani estremisti entrano nel palazzo rosa del raìs, quartiere residenziale di Rimal, indossano le sue ciabatte, si siedono sul copriletto di seta, voltano le foto della moglie, sguardo al muro perché è una donna e loro sono tutti maschi.
Per i 2,3 milioni di palestinesi ammassati dentro casa Ismail è sempre stato un figlio di Shati — lui che di figli ne ha 13 — modesto e devoto, pronto a condividere con loro quel «sale e zaatar» come urlava agli israeliani durante i quasi due mesi di guerra tra luglio e agosto del 2014: «Ci basteranno a sopravvivere, non ci piegherete mai». I più sarcastici commentano che alla distanza agiata del Qatar con la varietà di maggiorana, Origanum Syriacum, ci può insaporire la carne di agnello. Quando nel 2017 sostituisce Meshal — per 21 anni al vertice — gli analisti si convincono che con lui l’organizzazione possa diventare più pragmatica, più interessata a governare Gaza che a disarcionare Israele dal Medio Oriente. Le stesse illusioni che si formano attorno a Yahia Sinwar, eletto nella posizione tenuta da Haniyeh di regnante sulla Striscia. Congetture triturate dalla mattanza di sabato scorso all’alba.
In questi giorni di guerra gli ufficiali israeliani hanno dichiarato che tutta la leadership di Hamas è «destinata a morire», bnei mavet suona la sentenza in ebraico. Avigdor Liberman, sul punto di diventare ministro della Difesa sotto Benjamin Netanyahu, aveva avvertito: «Quarantotto ore dopo aver ricevuto l’incarico darò l’ordine di uccidere Haniyeh». Era il 2016. Tre anni dopo — ormai ex alleato di Netanyahu e tra i suoi critici più caustici — aveva rivelato di aver presentato al consiglio di sicurezza «i piani dettagliati per eliminarlo ed è stato Bibi, in più di un’occasione, a opporsi». Quando Liberman si era dimesso, era stato proprio Haniyeh a provocarlo in un’intervista da Gaza: «Ho vinto io».
Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” lunedì 16 ottobre 2023.
La cronologia di un fallimento, le tappe di messaggi inascoltati ma anche la prova che l’intelligence aveva informazioni generiche e non la «pistola fumante». Giudizio provvisorio in quanto siamo ancora in mezzo alla tempesta ed abbiamo un quadro incompleto.
6 febbraio — Nel rapporto sulle minacce globali dello spionaggio Usa non è citata Hamas ma solo Iran, Hezbollah «e partners».
6 aprile — Vertice in Libano tra Hezbollah, Hamas e il comandante della Divisione Qods dei pasdaran iraniani, Ismael Qaani. Un probabile «gabinetto di guerra». Una notizia non proprio nascosta. Chi deve sapere lo sa.
14 aprile — Un articolo del Wall Street Journal racconta del summit libanese, non esclude che sia stato organizzato in vista di una nuova esplosione di violenza su più fronti. La storia, a questo punto, raggiunge un pubblico vasto. Sempre che sia interessato ad una crisi trascurata.
Estate — Una conferenza mette insieme il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi e molti alti gradi. Il generale Shai Clapper, comandante della 91esima Divisione Galilea, afferma che la cosa che più lo preoccupa è un attacco di Hezbollah che colga di sorpresa l’intelligence. Replica un ufficiale: se dovesse accadere, tutte le persone che sono sedute attorno a questo tavolo dovrebbe andarsene a casa. Ovvero cacciate. (Dialogo riportato dal quotidiano Haaretz).
Fine settembre — Gli egiziani mettono in guardia Israele, sta per accadere «qualcosa di grosso», con conseguenze per l’intera regione. Una versione sostiene che vi sarebbe stata una telefonata del direttore dell’intelligence Abbas Kamal a Netanyahu ma l’ufficio del premier smentisce.
28 Settembre — La Cia diffonde una nota, sottolinea il rischio di nuovi lanci di razzi, mette in guardia su un’escalation attorno a Gaza. Il file non contiene riferimenti a operazioni speciali, incursioni o tattiche diverse dal solito «ciclo» visto negli anni scorsi attorno a Gaza. In fondo conforta quella che è l’idea dell’establishment militare di Israele.
5 Ottobre — La vigilia. Secondo report della Cia dopo uccisione di due militanti di Hamas in Cisgiordania. Sono informati alcuni congressisti ma non la Casa Bianca. Così affermano. Il che vuol dire che il presidente non avrebbe trovato menzione nel briefing mattutino, quello che nei primi tempi angosciava Barak Obama. Gli analisti sono preoccupati per la situazione nella regione, segnata da molti attacchi e scontri a fuoco. Gli israeliani, del resto, hanno schierato qui molti battaglioni per contrastare i terroristi ma anche garantire i coloni, forte base politica del governo. L’ attenzione di Gerusalemme è sempre concentrata su quest’area e sul confine nord dove incombono i miliziani filoiraniani del Partito di Dio.
6 Ottobre — Gli americani rilanciano una segnalazione dello spionaggio israeliano, riguarda movimenti anomali a Gaza.
Notte tra il 6 e il 7 Ottobre — C’è fermento nella Striscia colto dalle spie, il comando Sud e lo Shin Bet (servizi interni) si consultano telefonicamente. Sono fasi di grande incertezza, la valutazione finale è che non è necessario dichiarare lo stato d’allarme. Una fonte sui media non esclude che anche il capo del Mossad sia stato messo al corrente. Su questi momenti, però, dobbiamo aspettare dati sicuri. Restano gli errori, tragici: non hanno colto i lunghi preparativi della fazione; hanno sottostimato le capacità del nemico; si sono fidati del muro e della tecnologia trascurando il fattore umano, fondamentale in ogni sfida sulla sicurezza.
7 Ottobre — Hamas scatena il Diluvio al Aqsa. Ore 6.30: la difesa emette comunicato dopo la prima salva massiccia di razzi. Ore 7.40: la difesa conferma un’infiltrazione di mujaheddin da Gaza. Inizia un’altra storia per il Medio Oriente.
Estratto dell'articolo di D. F. per il “Corriere della Sera” martedì 17 ottobre 2023.
[…] L’evidenza — le prove del massacro, i resti dei massacrati — è avvolta nei sacchi bianchi e tenuta dentro ai container refrigerati in questa base a sud est di Tel Aviv. Quando i soldati aprono i portelloni, […] le scaffalature dove sono stati riposti i corpi, il sacco più in alto è così piccolo che può solo contenere una bambina o un bambino.
[…]. «Siamo stati addestrati in questi anni per rispondere a un attacco con un grande numero di morti, non siamo stati preparati a queste atrocità», dice il colonnello Haim Weisberg, […] Qui sono arrivati la maggioranza dei 1.400 tra civili e soldati uccisi all’alba da quasi duemila terroristi di Hamas che sono penetrati dalla Striscia di Gaza dopo aver squarciato la barriera di separazione in 29 punti. Le tombe di ferro temporanee sono disseminate per Campo Shura — dalle parti di Ramla, la città abitata per un quarto da arabi israeliani — e le file di container sono divise tra quelli che contengono le spoglie o le parti identificate e quelle ancora da analizzare o per le quali le prime indagini non hanno dato risultati.
«La procedura — continua il rabbino Weisberg — è la stessa che usiamo per i soldati, andiamo per tentativi: riconoscimento da parte di un famigliare, impronte dentali, Dna. È impressionante il numero di casi in cui abbiamo dovuto utilizzare i prelievi genetici perché le teste sono state mozzate o maciullate». Abigail lavora nell’hi-tech. Di solito. Adesso è in divisa come comandante del gruppo di donne che si prende cura dei cadaveri di adulte, ragazze, bambine. «Proviamo a garantire loro quel rispetto, quella dignità, che sono stati calpestati e cancellati dai fondamentalisti. Se le hanno spogliate, noi le ricopriamo mentre gli anatomopatologi eseguono l’autopsia. Se le hanno brutalizzate, noi offriamo la nostra delicatezza ai loro corpi».
[…]
I famigliari vengono convocati, quando i cadaveri sono stati identificati. Le auto dei parenti — non solo ebrei israeliani, ci sono arabi musulmani, cristiani, stranieri — entrano dopo la colonna di camion che ancora trasportano corpi dal sud del Paese. Racconta Mayan, dentista all’ospedale Tel HaShomer, anche lei si è rimessa la divisa dopo la mattanza: «Uno dei momenti più terribili è quando stiamo operando nella tenda e da quella accanto sentiamo le urla di una madre o un padre che ha appena ricevuto la conferma».
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” mercoledì 18 ottobre 2023.
Nella foto che tiene appesa alle spalle indossa la tuta da meccanico bianca, il travestimento usato per infiltrarsi sotto l’aereo della Sabena […] e attaccare con 16 uomini dell’unità speciale Sayeret Matkal gli attentatori palestinesi, liberare i 90 ostaggi.
Agli ordini di Ehud Barak in quel pomeriggio del 1972 c’è anche Benjamin Netanyahu, che nell’autobiografia pubblicata pochi mesi fa accusa l’ex comandante di essersi preso il merito del successo anche se «il suo unico ruolo è stato rimanere sulla pista e soffiare in un fischietto».
In questi giorni drammatici, a 81 anni, il soldato più decorato della Storia d’Israele — è stato capo di Stato maggiore e ministro della Difesa fino a diventare premier battendo proprio Bibi in uno scontro diretto — non vuole rispondere a risentimenti […].
«Questo è il momento dell’unità […] perché abbiamo subito l’assalto più devastante da quando è nata la nazione. Netanyahu ha perso la fiducia della gente e dei soldati, i suoi stanno già manovrando perché in futuro possa tentare di negare le responsabilità. Per lui arriverà il giorno del giudizio, molto prima di quanto si pensi».
Il capo di Stato maggiore, quello dei servizi segreti interni, l’intelligence militare hanno chiesto scusa per il disastro di sabato scorso.
«È un fallimento senza precedenti a tutti i livelli. I vertici hanno coltivato per anni l’idea che Hamas potesse essere addomesticato. Netanyahu […] ha lasciato che il Qatar portasse milioni di dollari in contanti ai fondamentalisti. Sperava di tenerli buoni pagando tangenti e alla comunità internazionale ripeteva: vedete, come posso negoziare con Abu Mazen se controlla solo metà dei palestinesi? Intanto Hamas si rafforzava».
Lei è stato ministro della Difesa durante l’operazione Piombo Fuso, tra il 2008 e il 2009, e con lo Stato maggiore decise di tagliare la Striscia a metà, i carrarmati dispiegati da est fino al Mediterraneo, una delle incursioni di terra più massicce nei tanti scontri con Hamas.
«L’idea era di dividere Gaza in diversi settori per poter operare con le truppe dall’interno. Avevo bisogno di fermare i lanci di razzi e allo stesso tempo convincere l’Egitto a intervenire, a sostituirci sul campo. Ma Omar Suleiman, allora capo dei servizi segreti, mi mise un braccio sulla spalla e sorrise: ce l’avete tolta nel 1967, adesso ve la tenete. In realtà, ci eravamo ritirati da quattro anni, così ho proposto ad Abu Mazen di aiutarlo a riconquistare il controllo che Hamas gli aveva tolto con le armi: per lui era impensabile — e lo capisco — tornare nella Striscia portato sui tank israeliani».
Anche adesso viene ipotizzato l’intervento di una forza multinazionale araba.
«Una forza internazionale deve riempire il vuoto per 4-5 mesi dopo che avremo eliminato Hamas. Fino alla possibilità di restaurare il potere dell’Autorità palestinese sulla Striscia».
[…] Eppure tra i fedelissimi nel Likud di Netanyahu qualcuno continua a far politica come se il Paese fosse in campagna elettorale […]. Urlano «traditori» ai famigliari degli ostaggi che chiedono conto, danno la colpa dell’invasione di undici giorni fa ai «disfattisti della sinistra».
«Quei “disfattisti” sono i riservisti, i soldati delle forze speciali, i piloti dell’aviazione che in poche ore hanno trasformato il movimento di protesta nella macchina degli aiuti per i militari al fronte e per le famiglie evacuate dai villaggi devastati a sud. Sono intervenuti nello scompiglio, nell’assenza iniziale del governo […]».
Al governo proprio con Netanyahu, come ministro della Difesa ha spinto perché le forze armate investissero milioni di dollari nella preparazione di un possibile raid contro i centri nucleari iraniani per impedire che Teheran arrivasse a produrre la bomba atomica. Sabato il blitz ha colpito da molto più vicino.
«Quello sforzo non ha distolto l’attenzione dell’esercito dalle altre minacce. Ero convinto allora — e resto convinto — che i siti iraniani andassero bombardati […]. È stata questa minaccia credibile che ha spinto il presidente Barack Obama a negoziare l’intesa con l’Iran: ha ritardato lo sviluppo atomico e avrebbe potuto rinviarlo di 10 anni, se Netanyahu non avesse spinto Donald Trump a tirar fuori gli Stati Uniti dall’intesa».
La giornalista di Al Arabiya e le domande scomode al leader di Hamas: il video dell’intervista. Uno dei leader di Hamas, Khaled Meshal, è stato intervistato da Rasha Nabil, giornalista e conduttrice dell’emittente degli Emirati. CorriereTv su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.
(LaPresse) In un’intervista rilasciata ad Al Arabiya, emittente televisiva degli Emirati con sede a Dubai, uno dei leader di Hamas, Khaled Meshal, è stato incalzato con domande scomode dalla giornalista in studio, Rasha Nabil.
«Il vostro attacco è stato una dichiarazione di guerra e molta gente si domanda come vi aspettavate che avrebbe reagito Israele? Avete preso questa decisione da soli?» chiede subito la giornalista. Meshal spiega che Hamas è «ben consapevole delle conseguenze» dell’attacco contro Israele ma elogia le Brigate al-Qassam (l’ala militare di Hamas) per »aver colto di sorpresa il nemico» con un attacco «ingegnoso» avvenuto «nel contesto di una legittima resistenza»
Nabil però lo interrompe e precisa: «Lei parla di resistenza legittima, però quello che gli occidentali hanno visto in tv è stata la violenza di Hamas contro i civili israeliani. E ora Hamas viene paragonata all’Isis».
E poi ancora: «Come potete chiedere all’Occidente supporto alla causa palestinese, quando è evidente quello che ha fatto Hamas ai civili israeliani? Sa che Israele ha ottenuto molto supporto grazie a queste scene? Vi scuserete per quello che avete fatto ai civili israeliani?»
Il leader di Hamas spiega che l’organizzazione «concentra la sua resistenza sulle forze di occupazione e sui soldati», aggiungendo però che in tutte le guerre ci sono delle vittime civili: «Non siamo responsabili per loro». (LaPresse)
La giornalista della tv araba che incalza il capo di Hamas: «Chiederete scusa?» Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2023.
Diventano virali le domande scomode di Rasha Nabil, della tv degli Emirati Arabi Al Arabiya, a Khaled Meshaal, leader di Hamas: «È così che trattate i civili?»
«Ma come vi aspettavate che avrebbe reagito, Israele?». «Come potete chiedere al mondo di sostenere i palestinesi, quand’è evidente quel che Hamas ha fatto ai civili israeliani?». «Vi scuserete per quel che avete fatto agli israeliani il 7 ottobre?». «Lei sta seduto fuori Gaza, in una stanza con l’aria condizionata, e parla di guerra, di jihad, di bombardamenti…».
L’ultima intervista che Khaled Meshaal aveva dato a una tv, dopo la mattanza di Sukkot, era stata a una devota (e velatissima) giornalista iraniana che l’aveva fatto accomodare su domande del genere «qual è la sua opinione sull’aggressione sionista a Gaza?». Invitato a collegarsi con Rasha Nabil, volto prime time di Al Arabiya, l’ex capo di Hamas s’aspettava le solite carezze dei proni intervistatori arabi. Ma quand’è finito bombardato da Rasha, quest’egiziana svergognata che manco s’era coperta il capo al suo cospetto, alla fine Meshaal ha tradito un lieve nervosismo: «Cara sorella — le ha balbettato gelido —, con tutto il rispetto… Le tue domande… E va bene, mi fai una domanda e io ti rispondo con chiarezza…».
Al Arabiya è una tv fondata vent’anni fa a Dubai e pagata dai sauditi, per dare agli arabi «un’informazione più equilibrata e meno provocatoria di Al Jazeera». Ci vanno Obama e lo scrittore Tahar Ben Jelloun, l’apprezza il New York Times e la odiano gli ayatollah. Due sere fa l’anchorwoman Rasha, 44 anni, egiziana, un minuscolo passato cinematografico, ha capito subito che fosse meglio troncare le solite supercazzole di Meshaal («invito la nazione araba a unirsi nella lotta…») e l’ha incalzato dura. Lei: «Khaled, la gente di Gaza ora si sveglia dovendo affrontare una grande tragedia: perché avete deciso tutto da soli?» Lui: «Fa parte della resistenza legittima, su cui il nostro popolo è d’accordo…». Lei: «Ok. Ma ora Hamas è paragonata all’Isis!». Lui: «Cara sorella, questa è un’accusa fabbricata da Netanyahu. Le nazioni non si liberano facilmente: i russi sacrificarono 30 milioni di vite contro Hitler, l’Afghanistan milioni di martiri…». Lei: «Ma trattare i civili in questo modo fa parte dell’ideologia di Hamas?». Lui: «Sorella, Hamas è concentrata contro i loro soldati! Poi, in tutte le guerre ci sono vittime civili. Ma noi non ne siamo responsabili…».
Nei social arabi, l’intervista di Nabil è al top nelle tendenze. Una scia di commenti, molti elogi e pochi insulti. Con lei ripostatissima quando chiede del Libano («l’ultima cosa di cui ha bisogno, è un’altra guerra!») e Meshaal che non risponde, o tocca il tasto Iran e lui glissa… Nelle scuole jihadiste s’insegna la taqiyya, l’arte islamica di velare la verità. Brava Rasha: dal tuo studio, ci volevi tu per strappare quel velo.
Quello che stiamo vivendo è solo un assaggio del mondo post-americano. Federico Rampini su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.
In due settimane - con la guerra tra Israele e Hamas, il tentativo degli Usa di frenare l’escalation, l’abbraccio tra Xi, Putin e il Grande Sud - il mondo è cambiato molto, a sfavore dell’Occidente. Una riedizione della «dottrina Hemingway»: «Come sono finito nei guai? Prima gradualmente, poi brutalmente»
In due settimane il mondo è cambiato molto, a nostro sfavore, se per «noi» intendiamo l’Occidente. O per lo meno è peggiorata drasticamente la nostra percezione del mondo, dei suoi equilibri e rapporti di forze geopolitici.
Il feroce attacco di Hamas contro la popolazione civile israeliana (qui le notizie in diretta) è stato il detonatore di una serie di reazioni a cascata: controffensiva delle forze armate israeliane; manifestazioni pro-Hamas dalle piazze d’Europa ai campus americani a tutte le nazioni islamiche; atti di terrorismo in Francia e Belgio. Una conseguenza è il repentino indebolimento delle leadership arabe o islamiche più pro-occidentali o meno anti-israeliane (Egitto, Giordania, Arabia saudita, Emirati). All’interno dell’Occidente stesso le divisioni politiche più pericolose si manifestano proprio nella potenza leader, l’America.
Sullo sfondo, un altro evento accaduto in questi giorni è significativo: il vertice di Pechino dove Xi Jinping ha celebrato il decennale della sua Belt and Road Initiative (l’Iniziativa Cintura e Strada, chiamata anche le Nuove Vie della Seta). Oltre all’ennesimo abbraccio fra Xi e Vladimir Putin quel summit ha radunato una folta schiera di leader del Grande Sud globale, sottolineando così la nuova divisione del mondo in blocchi: l’atteggiamento verso Hamas contribuisce a rafforzare il collante ideologico nello schieramento anti-occidentale. Uno storico americano, e autorevole teorico di geopolitica, Walter Russell Mead, a proposito delle ultime due settimane evoca un passaggio del romanzo di Ernest Hemingway «Fiesta» (1926). È lo scambio tra due personaggi del romanzo, in cui Bill Gorton chiede a Mike Campbell: «Come sei finito in bancarotta?» La risposta: «In due modi. Gradualmente e poi tutto d’un colpo».
Così la capacità dissuasiva degli Usa è diminuita
È la metafora di quel che secondo Russell Mead sta accadendo all’impero americano, o alla Pax Americana, o comunque al potere di deterrenza degli Stati Uniti.
Prima e per molti anni si è deteriorato un po’ alla volta. Poi la sua debolezza viene rivelata in modo brutale, attraverso una concatenazione di eventi molto ravvicinati. I nemici dell’America si sentono incoraggiati, si spalleggiano l’un l’altro, si emulano.
Le ripetute offensive di Putin rimaste senza una risposta efficace (dalla guerra di Georgia nel 2008 all’annessione della Crimea nel 2014) sono sfociate nell’aggressione all’Ucraina del 2022; i prezzi che Putin ha pagato sono sostanziali ma finora non fatali grazie all’appoggio della Cina; questo a sua volta ha dato ad altri l’idea che l’Occidente possa essere sfidato impunemente. In Medio Oriente i segni di ritirata dell’America sono stati vari: la famosa «linea rossa» preannunciata da Barack Obama al dittatore siriano Assad (l’ultimatum contro l’uso di armi chimiche per fare stragi di civili) violata senza conseguenze; lo scivolamento dell’Iraq nell’orbita iraniana; l’abbandono dell’Afghanistan ai talebani. Secondo alcuni (i repubblicani Usa) in questa serie di cedimenti e debolezze va incluso il patto nucleare con l’Iran voluto da Obama: ha dato al regime degli ayatollah la prova di poter gabbare l’Occidente con un ambiguo rallentamento del programma nucleare in cambio di grossi vantaggi economici; un errore ancora ripetuto da Biden con il recente accordo da 6 miliardi di dollari in cambio della liberazione di ostaggi americani.
Nell’elenco di sbagli di tutto l’Occidente – Israele incluso – va aggiunto che dal 2005 si è pensato di convogliare aiuti umanitari al popolo palestinese consegnandoli alla gestione di Hamas che puntualmente li trasformava in missili lasciando nella miseria i suoi sudditi.
In Estremo Oriente, la Cina ha incassato la sua dose di arrendevolezza occidentale: per esempio, sul piano strettamente militare, quando ha violato senza pagare conseguenze gli accordi internazionali e le leggi con l’occupazione e la militarizzazione di varie isole contese con i suoi vicini. L’escalation di minacce militari contro Taiwan, gli incidenti di frontiera con India Vietnam Filippine sono tanti altri segnali che l’aggressività non ha incontrato robuste controreazioni né ha comportato degli svantaggi significativi. Tra gli ultimi accadimenti si può aggiungere la rinascita di un armonioso accordo tra Pechino Mosca e Pyongyang – come agli albori della guerra fredda nel 1950 – in violazione di risoluzioni Onu contro la Corea del Nord che imponevano sanzioni, votate dalla stessa Cina e Russia.
Cosa unisce Ucraina e Israele
Joe Biden nel chiedere nuovi fondi al Congresso per aiutare sia l’Ucraina sia Israele (nell’immediato altri 74 miliardi di dollari, destinati a crescere) ha unito questi due conflitti dentro un tema comune che è la difesa della libertà e democrazia. In effetti, se l’Ucraina è uno Stato democratico e sovrano la cui caduta sarebbe un colpo per i valori dell’Occidente, d’altro lato Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente (che ci piaccia o no il suo premier attuale). L’America può permettersi di combattere su due fronti, ha detto Biden, e questa affermazione è ineccepibile. Tanto più visto che stiamo parlando di conflitti nei quali gli Stati Uniti non sono coinvolti direttamente, non mandano truppe né impegnano aerei o navi in combattimento (almeno per ora). L’onere economico è assai modesto rispetto a guerre del passato come Vietnam, Afghanistan, Iraq. La vulnerabilità americana e dell’Occidente è di tutt’altro tipo: riguarda la tenuta delle sue alleanze; e la tenuta del fronte interno.
Che errore sottovalutare l’Iran
Sulle alleanze, restando al Medio Oriente, colpisce che né gli Stati Uniti né Israele né i loro amici arabo-africani abbiano capito quanto l’Iran avesse «giurato morte» al processo di disgelo e distensione che stava cambiando le mappe geopolitiche di quell’area.
Dopo gli accordi di Abramo (2020) che avevano avvicinato a Israele gli Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, il gran finale doveva coinvolgere l’Arabia saudita del principe Mohammed bin Salman. Si sarebbe chiusa un’era che durava dal 1947. Un’epoca segnata dalla volontà di tante leadership mediorientali di distruggere Israele, e parallelamente di usare Israele (e l’America sua protettrice) come alibi e capro espiatorio verso cui indirizzare la rabbia di popoli a cui le stesse classi dirigenti avevano rovinato il futuro. Se il nuovo corso saudita di Mbs fosse andato in porto l’Iran si sarebbe visto circondato e accerchiato da un cordone israelo-arabo… come Putin dal cordone di paesi aderenti all’Unione europea e alla Nato.
Né Biden né Netanyahu né MbS hanno capito che l’Iran era disposto a versare fiumi di sangue in quell’area per impedire lo scenario che avrebbe relegato gli ayatollah dal lato dei perdenti. Questo errore politico è almeno altrettanto grave della débacle dell’intelligence israeliana riguardo ai preparativi militari di Hamas. Ora tutti i nemici dell’Occidente esultano in modo aperto. La Cina si unisce alla Russia nell’evitare ogni condanna di Hamas, pur di cementare i legami con un mondo islamico che chiude gli occhi sul trattamento inflitto da Pechino ai suoi musulmani (gli uiguri dello Xinjiang: un milione di detenuti in campi di «rieducazione» dove l’Islam viene sradicato dalle loro teste).
Xi Putin e il Grande Sud abbracciati
Il summit di Pechino dedicato al decennale delle Nuove Vie della Seta, per coincidenza si celebrava proprio negli stessi giorni della tragedia in Medio Oriente. Quel vertice ha avuto molti significati. È stato disertato per la prima volta dagli europei, con la solitaria eccezione dell’ungherese Orban, a conferma che il clima della nuova guerra fredda impone scelte di campo chiare. È stato un summit dove si è parlato poco di economia, investimenti, infrastrutture, anche perché su quel terreno il bilancio dei mille miliardi investiti o più spesso prestati dalla Cina è meno esaltante di quel che si vorrebbe. Si è parlato molto più di politica estera, sempre con i toni di un processo all’Occidente, alla sua nazione leader che sono gli Stati Uniti, all’ordine globale ancora troppo americano-centrico che la Repubblica Popolare si propone di smantellare e sostituire. L’adunata del Grande Sud globale a Pechino è stata una sorta di «conta» dei governi che condividono l’ostilità all’Occidente, alla sua storia, ai suoi valori.
Le nostre piazze ci contestano, le loro... pure
Durante la prima guerra fredda in una conferenza internazionale del 1955 a Bandung (Indonesia) fu tenuto a battesimo il movimento dei non allineati detto anche «Terzo mondo» perché ufficialmente non voleva schierarsi né con il primo (l’Occidente) né col secondo (il blocco comunista comandato dall’Unione sovietica). Nella realtà però i leader più influenti di quel Terzo Mondo erano come l’indiano Nehru: guardavano con più simpatia il socialismo sovietico.
Il vertice di Pechino del 2023 potrebbe essere ricordato come un evento simile: con tanti leader africani, sudamericani, che professano il non allineamento ma abbondano nella propaganda antioccidentale. A conferma della difficoltà in cui naviga l’Occidente c’è un’asimmetria nel confronto. Le piazze di Londra e Berlino, più qualche piazza italiana, nonché molte città Usa e la maggioranza dei campus universitari americani, sono stati dominati da manifestazioni filo-palestinesi che spesso sono diventate apertamente pro-Hamas. In quelle manifestazioni la condanna d’Israele si è mescolata con la condanna dell’America e di tutto l’Occidente. Nell’altro campo? Nelle capitali arabe, in Africa, in Russia e in Cina, non ci sono state manifestazioni di solidarietà verso i bambini israeliani uccisi; nessuna protesta contro le carneficine di Hamas.
A Bruxelles o a Parigi non si sono viste le comunità islamiche locali invadere le piazze per esprimere cordoglio con le vittime francesi e svedesi del terrorismo jihadista. Questa asimmetrìa, come ricordo nel segmento successivo, è uno dei (tanti) problemi di Biden.
Perché l’America potrebbe essere costretta ad abbandonare le «guerre gemelle» contro Putin e Hamas. Storia di Federico Rampini su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.
Questo testo è tratto dalla newsletter Global, di Federico Rampini, riservata agli abbonati del Corriere: la si può ricevere gratis L’America non perde mai le sue guerre. Le abbandona spesso. È una storia che si ripete da quando è diventata la più grande potenza globale. In Corea nel 1953 finì con un «pareggio» tra le forze Usa e quelle nordcoreane-cinesi perché l’opinione pubblica americana era esausta dai sacrifici della seconda guerra mondiale. In Vietnam non fu sconfitta sul terreno militare, ma nelle proprie piazze dove divampavano le proteste contro un conflitto che metà degli americani consideravano ingiusto e immorale. In Iraq, in , di nuovo: non ci sono state disfatte militari ma una disaffezione e un logoramento politico interno, che hanno regalato Bagdad all’influenza di Teheran e hanno restituito Kabul a quella dei talebani.
Rischiamo di vedere lo stesso spettacolo con le guerre attuali?
Di sicuro la debolezza maggiore per l’America di Biden è quella di sempre: il fronte interno.
Sull’Ucraina le defezioni più vistose sono a destra. Donald Trump sostiene da tempo che quella era una guerra evitabile, lui l’avrebbe risolta a tu per tu con Putin. Altri repubblicani magari esitano a fare i putiniani, per fedeltà alla propria storia, però ripiegano su forme collaudate di isolazionismo: «Abbiamo tanti problemi da risolvere a casa nostra, non siamo neppure capaci di difendere il nostro confine Sud dall’invasione di migranti, occupiamoci di questo e lasciamo perdere le guerre degli altri». Tutto questo viene aggravato dal caos alla Camera, dove il partito repubblicano si è bruciato il terzo candidato per il ruolo di Speaker of the House, il potentissimo presidente di quel ramo del Congresso. La paralisi della Camera rischia intanto di ritardare l’approvazione dei nuovi aiuti per Ucraina e Israele; inoltre è di cattivo augurio per il 2024, anno di campagna elettorale.
Comunque nel fronte americano pro-Putin non manca qualche spezzone di sinistra radicale: Robert Kennedy Jr, che ha deciso di uscire dal partito democratico e si presenterà come indipendente per la Casa Bianca nel novembre 2024, sull’Ucraina dà ragione al leader russo. Poiché le ultime elezioni americane si sono decise per margini ridottissimi, basta che un Kennedy ultra-ambientalista porti via uno o due punti percentuali a Biden (o chi per lui), per cambiare le sorti dell’America… e del mondo.
Di fronte interno ce n’è un altro: è Israele che divide il partito democratico. Anche in America la sinistra radicale è filo-palestinese; spesso è anche filo-Hamas: evidentemente senza cogliere l’incompatibilità delle due posizioni. Questa sinistra radicale filo-palestinese negli Usa è molto più potente di quanto si pensi di solito all’estero. Che sia ben insediata dentro l’establishment lo dimostra il fatto che un suo esponente, Josh Paul, si è dimesso dal Dipartimento di Stato in segno di protesta per l’aiuto di Biden a Israele. Quelle dimissioni hanno fatto scalpore ma sono solo la punta dell’iceberg: dentro il Dipartimento di Stato, cioè il ministero degli Esteri, cova la protesta della lobby filo-palestinese rappresentata a molti livelli. Anche al Congresso c’è una fronda di parlamentari che contestano il viaggio di Biden a Tel Aviv e l’abbraccio con Benjamin Netanyahu.
Le posizioni pro-Hamas di cui mi sono già occupato a proposito delle università di élite, sono ancora più estese e radicate nella comunità afroamericana, in particolare gli estremisti dell’antirazzismo come Black Lives Matter e tutta la galassia affine. Uno degli intellettuali più rispettati in quegli ambienti, il professore afroamericano Cornel West, ha deciso pure di lui di candidarsi come indipendente nell’elezione presidenziale dell’anno prossimo. Cornel West è un estremista, proprio per questo è popolare tra i giovani, black e non solo. Inoltre la sua posizione filo-palestinese gli può conquistare voti nella comunità di immigrati arabi. Vale lo stesso ragionamento già fatto per Robert Kennedy Jr: queste sono candidature «di disturbo», destinate a raccogliere piccole percentuali. Ma tutti e due hanno profili che piacciono nel mondo giovanile e dell’estrema sinistra, quindi sono suscettibili di danneggiare soprattutto Biden (o un candidato democratico alternativo, se Biden decidesse all’improvviso di ritirarsi).
Questo presidente, pur logorato dall’età, è un «uomo della storia». Nel senso che ha attraversato tutta la storia della guerra fredda, ne ha assorbito le lezioni. È l’ultimo presidente Usa nato durante la seconda guerra mondiale. È l’unico leader politico in carica che può vantarsi di aver incontrato la premier israeliana Golda Meir durante la guerra dello Yom Kippur 50 anni fa. Perciò è convinto di capire come nessun altro la posta in gioco nei due «conflitti gemelli» in Ucraina e Israele. Nonostante l’esperienza, potrebbe essere condannato a ripercorrere la traiettoria di tanti suoi predecessori: costretti a perdere i conflitti non dai nemici esterni ma dalle divisioni interne.
Come si allarga la guerra di Hamas, tra sistemi d’allerta bucati e siti sabotati: il conflitto parallelo. Milena Gabanelli e Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2023.
Dal 7 ottobre il mondo si interroga sul rischio di escalation del nuovo conflitto tra Israele e Hamas. In realtà l’escalation è già avvenuta nella guerra informatica, che va ormai necessariamente considerata come uno dei piani dei conflitti. Si può vedere ricostruendo una cronologia che incrocia i due livelli: le azioni sul territorio e gli attacchi cyber.
Diluvio (informatico) Al-Aqsa
7 ottobre, ore 6.35: le sirene avvertono del lancio dei primi razzi di Hamas.
6.33/7.04: il gruppo hacker Anonymous Sudan lancia attacchi contro due app, Tzeva Adom e RedAlert, utilizzate per diramare messaggi di allerta alla popolazione israeliana su attacchi imminenti. Si tratta di attacchi DDoS, distributed denial of service: l’aggressore attiva i propri «eserciti» di computer infetti per indirizzare un volume enorme di richieste simultanee verso un sito o un’app, che viene paralizzata dall’abnorme sovraccarico di traffico.
9.46: gli aerei israeliani iniziano a colpire Gaza.
16.18: Anonymous Sudan attacca il sito del Jerusalem Post, con un’altra azione DDoS, facendolo crollare per 12 ore. Punto importante: sabotare sistemi di allerta alla cittadinanza e canali di informazione può essere considerata un’azione di guerra collaterale.
18.10: un altro gruppo hacker, Cyber Av3ngers, manda offline il sito della Israel Electric Corporation.
150 gruppi pro Hamas
Dal 7 al 17 ottobre, gli analisti della società di sicurezza informatica Swascan hanno individuato 178 gruppi di attivisti cyber che stanno partecipando al conflitto a diversi livelli. Tra questi, circa 150 sono pro Hamas, e hanno basi (dichiarate) in uno scenario molto ampio rispetto al teatro di guerra: Marocco, Yemen, Iran, Sudan, Malesia, Indonesia, Russia, Bangladesh, Emirati Arabi. Poco più di 20 gruppi sono pro Israele, con basi nella stessa Israele e in India.
Un rapido identikit di alcuni gruppi rende evidente quale sia la vastità dello scacchiere. Cyber Av3ngers (pro Hamas) è un gruppo iraniano: oltre alla Israel Electric Corporation, ha aggredito altre infrastrutture critiche come l’Israel Independent System Operator (Noga), gestore della rete elettrica. E ancora: gli hacker filorussi Killnet hanno dichiarato guerra cibernetica contro Israele e si sono alleati con Anonymous Sudan. Collaborazione definita con la creazione del gruppo Killnet Palestina, a cui hanno aderito gli altri hacker filorussi di UserSec.
La «guerra partecipata»
Secondo giorno di guerra, dalla notte inizia a dipanarsi uno degli attacchi più significativi della cyberwar.
8 ottobre, ore 1.29: il gruppo AnonGhost annuncia di aver trovato una vulnerabilità nell’applicazione RedAlert (stavolta non è un sovraccarico di traffico verso l’app ma un’operazione estremamente più complessa e che richiede un’elevatissima competenza tecnica). Invece di una notifica di pericolo in tempo reale, gli hacker fanno comparire su molti telefonini israeliani il messaggio «fuck Israel». Poco dopo, diffondono il codice di vulnerabilità su un gruppo Telegram, mettendo l’arma a disposizione di altri. In giornata creeranno tensione inviando messaggi su «imminenti eventi nucleari».
10.58: il sito di Hamas viene attaccato da Indian Cyber Force (esempio di «controffensiva»).
14.52: Cyber Av3ngers afferma di aver compromesso la centrale elettrica Dorad (il sito non è raggiungibile).
16.59: Killnet attacca il sito del governo israeliano.
17.18: Anonymous Sudan fa una chiamata alle armi sul proprio canale Telegram. Questo è il livello meno sofisticato, ma comunque di forte impatto, della guerra cibernetica: proselitismo, disinformazione, diffusione di fake news.
Codici di vulnerabilità condivisi
Hamas è bandita da Facebook, Instagram e Google, ma attiva su Telegram: su due account dell’organizzazione islamista, i follower in 10 giorni sono passati da 300 mila a un milione. La cronologia mostra come il conflitto si sia subito allargato in uno scenario di guerra partecipata. Un’escalation in ambito cyber. Le piattaforme informatiche consentono una partecipazione sia a gruppi molto strutturati dal punto di vista ideologico e di competenze informatiche, sia a gruppi di livello inferiore, sia ai «cani sciolti», permettendo a soggetti sparsi per il mondo di entrare nel conflitto. Spiega Pierguido Iezzi, ceo di Swascan: «Quello che abbiamo visto con RedAlert è l’esempio più lampante dei rischi connessi alla guerra partecipata: un attivista o un gruppo di elevata capacità tecnica scopre una vulnerabilità e poi la condivide. In questo modo, altri gruppi o singoli, con competenze inferiori, possono innescare quel tipo di attacchi. Teniamo presente che dietro etichette anonime o schermate potrebbero essere attivi anche gruppi con legami più alti a livello istituzionale nei propri Paesi di riferimento».
Hacker e attivisti in azione
9 ottobre, ore 5.15: Indian Cyber Force attacca il ministero dei Trasporti della Palestina.
5.38: TeamHerox rende irraggiungibile il sito di un ospedale israeliano.
17.02: Ghosts of Palestine attacca il ministero degli Esteri di Israele. Questa timeline è ridotta agli eventi salienti, ma la sequenza degli attacchi informatici è uno stillicidio.
10 ottobre, 00.33: Dark Cyber War colpisce il ministero degli Esteri palestinese.
1.01: YourAnonTl3X rende irraggiungibile il sito dell’Agenzia spaziale israeliana.
15.22: Blackfield vende informazioni personali di membri dell’esercito israeliano sul forum Ramp.
19.55: Stucx Team aggredisce il sito del ministero della Sanità israeliano, e invita altri gruppi di hacker a partecipare all’attacco. Si rivela così un altro punto chiave nello scenario della guerra partecipata: tra i gruppi pro Hamas c’è stata una forte condivisione di obiettivi. Se più gruppi si concentrano sugli stessi target (ognuno con la propria schiera di computer infettati) l’urto degli attacchi DDoS è moltiplicato. In più: la condivisione allarga la schiera dei potenziali attaccanti, soprattutto quando mette a disposizione strumenti sofisticati che non tutti i gruppi avrebbero nel proprio bagaglio tecnico. «Questa strategia, almeno nelle proporzioni, segna una marcata differenza rispetto al versante cyber del conflitto Russia/Ucraina», commenta Pierguido Iezzi. Mentre nel mondo si moltiplicano i contatti diplomatici, la guerra cibernetica va avanti in parallelo a bombardamenti e lanci di missili.
Un mondo senza confini
11 ottobre, ore 00.56: AnonGhost attacca di nuovo l’app RedAlert.
20.55: su un forum, un utente pubblica 400 mila contatti whatsapp israeliani.
E ancora.
12 ottobre, ore 6.28: SilentOne «acceca» il sito dell’Autorità palestinese dell’Energia. Dalle 23 poi, diversi gruppi hacker iniziano a scagliare attacchi DDoS l’uno contro l’altro. IndianCyberForce (pro Israele) contro Skynet (pro Hamas). Cyber Army of Russia contro Killnet, con l’obiettivo di riportare l’attenzione sul conflitto Ucraina-Russia. Infatti molti gruppi attivi sul teatro ucraino hanno spostato il loro campo d’azione sul conflitto Israele/Hamas.
14 ottobre, ore 7.22: su un forum compare una lista di vulnerabilità di obiettivi israeliani (sul modello di ciò che è accaduto per l’app RedAlert).
17.36: Haghjoyan afferma di aver violato 4.150 telecamere a circuito chiuso di alta sicurezza israeliane.
Sono azioni di un conflitto altamente asimmetrico: Israele possiede i migliori sistemi di difesa sul fronte cyber, ma Hamas si muove in ambito più analogico. Anche per questo probabilmente le antenne dell’intelligence non sono state efficaci per intercettare la minaccia.
Però in concomitanza con l’inizio del conflitto, il fronte dell’aggressione cyber contro Israele si è acceso in modo estremamente rapido e in proporzioni molto ampie. Questo lascia intuire un coordinamento (benchè non dimostrabile) fra i gruppi hacker più radicalizzati sparsi per il mondo, che poi attirano altri attivisti non direttamente coinvolti. Dataroom@corriere.it
Attacco di Hamas, i video della carneficina: i bambini che urlano, gli ordini dei miliziani. Storia di Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 24 ottobre 2023.
La mattanza metodica in 43 minuti. L’esercito israeliano ha deciso di mostrare ai media internazionali un assemblaggio dei materiali digitali raccolti in questi diciassette giorni dalla strage del 7 ottobre, 1.400 morti, per la maggior parte civili. Sono il concentrato dei due terabyte accumulati tra le camere indossate dai terroristi di Hamas, le riprese dagli obiettivi che dovrebbero assicurare la sicurezza nei villaggi, le video camere da cruscotto di chi cercava la fuga o cadeva nelle imboscate, le immagini raccolte dai primi soccorritori, quelle diffuse sui social media dai massacratori e dai massacrati. L’assalto nel Sud del Paese è durato oltre 10 ore.
La proiezione è avvenuta in una base militare a nord di Tel Aviv, con la richiesta di lasciare fuori i cellulari, alcune di queste scene non sono mai state viste dagli israeliani, il video reso disponibile per la pubblicazione dura poco più di un minuto, anche dagli altri 42 sono state omesse le scene più feroci. È già abbastanza così. I portavoce hanno chiesto di omettere i nomi dei kibbutz: i famigliari non conoscono tutti i dettagli, in molti casi resta imperscrutabile il destino di chi sembra ancora vivo alla fine della sequenza.
La webcam è fissata in un angolo del soffitto. Il padre e i due figli corrono in mutande — è l’alba — verso la porta, il cortile e il minuscolo rifugio di cemento che di solito serve a proteggersi dai colpi di mortaio, il kibbutz è a qualche centinaio di metri da Gaza. Gli uomini in mimetica tirano una granata, il padre muore sul colpo, tirano fuori i ragazzini, tra i 9 e i 12 anni, e li riportano nella stanza da dove sono scappati, li lasciano soli. Insieme urlano «papà, papà»; il più grande dice al piccolo «è tutto vero, non è uno scherzo»; gli si avvicina e con una bottiglia d’acqua gli lava l’occhio ferito; si getta a terra urlando «voglio morire».
Gli obiettivi portati sui giubbotti antiproiettile seguono la carneficina dalla prospettiva degli sterminatori: si incitano a vicenda, scambiano ordini. La videocamera inquadra un corpo a terra, sembra un lavoratore straniero, sono tanti i thailandesi impiegati nei campi qua attorno: gli sparano, lo prendono a calci, fuori campo qualcuno afferra una zappa e comincia a macellarlo con la lama di ferro per staccagli la testa. Si vedono le mani che tengono il manico e i colpi che si abbattono sul collo.
Il parabrezza di un’auto che si crepa per i proiettili — è la ripresa dall’interno della macchina — e poi il movimento al rallentatore del veicolo fino allo schianto: non appare sangue, eppure quel vetro incrinato restituisce l’angoscia della normalità in frantumi, la strada vicino a casa percorsa in tante mattine che non sono come questa. I ragazzi del rave di Re’im ammassati nel casotto alla fermata dell’autobus, quelli semivivi trascinati fuori per i capelli. I soldati decapitati, la decollazione netta, il bavero imbottito del giubbotto antiproiettile che gira attorno a un buco.
L’orrore pianificato, studiato. «Hanno eseguito gli ordini descritti nei manuali che abbiamo trovato. Hanno ripreso tutto per usarlo in una strategia del terrore psicologico», spiega il generale Mickey Edelstein. Risponde indirettamente alla doppia vigliaccheria di Saleh Al Arouri, tra i leader di Hamas all’estero, che aveva cercato di attribuire le brutalità ai civili, ai palestinesi passati attraverso i varchi aperti nella barriera dai fondamentalisti: «Riteniamo che anche i cosiddetti “civili” — commenta Edelstein — siano legati ad Hamas. Erano la terza ondata prevista dai piani dei terroristi».
Le scie rosse sui pavimenti lasciate dai mutilati, il cadavere bruciato con lo strofinaccio a tappare la bocca che racconta le torture precedenti, quello riverso sulla faccia a mani legate dietro la schiena, i corpi denudati rimasti a gambe aperte, i rapiti caricati sui cassonetti dei furgoni, la telefonata di un terrorista a Gaza: «Papà sto chiamando dal cellulare di un’ebrea. Ne ho uccisi dieci a mani nude». La confusione di chi riceve la chiamata dall’altra parte, che non sa come reagire all’esaltazione per le atrocità, sembra celebrarle, di certo non le condanna, alla fine scandisce: «Ritorna a casa». «Ma quale ritornare. O il martirio o la vittoria».
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” martedì 24 ottobre 2023.
La mattanza metodica in 43 minuti. L’esercito israeliano ha deciso di mostrare ai media internazionali un assemblaggio dei materiali digitali raccolti in questi diciassette giorni dalla strage del 7 ottobre, 1.400 morti, per la maggior parte civili.
Sono il concentrato dei due terabyte accumulati tra le camere indossate dai terroristi di Hamas, le riprese dagli obiettivi che dovrebbero assicurare la sicurezza nei villaggi, le videocamere da cruscotto di chi cercava la fuga o cadeva nelle imboscate, le immagini raccolte dai primi soccorritori, quelle diffuse sui social media dai massacratori e dai massacrati. L’assalto nel sud del Paese è durato oltre 10 ore.
La proiezione è avvenuta in una base militare a nord di Tel Aviv, con la richiesta di lasciare fuori i cellulari, alcune di queste scene non sono mai state viste dagli israeliani, il video reso disponibile per la pubblicazione dura poco più di un minuto, anche dagli altri 42 sono state omesse le scene più feroci. […]
La webcam è fissata in un angolo del soffitto. Il padre e i due figli corrono in mutande — è l’alba — verso la porta, il cortile e il minuscolo rifugio di cemento che di solito serve a proteggersi dai colpi di mortaio, il kibbutz è a qualche centinaio di metri da Gaza.
Gli uomini in mimetica tirano una granata, il padre muore sul colpo, tirano fuori i ragazzini, tra i 9 e i 12 anni, e li riportano nella stanza da dove sono scappati, li lasciano soli. Insieme urlano «papà, papà»; il più grande dice al piccolo «è tutto vero, non è uno scherzo»; gli si avvicina e con una bottiglia d’acqua gli lava l’occhio ferito; si getta a terra urlando «voglio morire».
Gli obiettivi portati sui giubbotti antiproiettile seguono la carneficina dalla prospettiva degli sterminatori: si incitano a vicenda, scambiano ordini. La videocamera inquadra un corpo a terra, sembra un lavoratore straniero, sono tanti i thailandesi impiegati nei campi qua attorno: gli sparano, lo prendono a calci, fuori campo qualcuno afferra una zappa e comincia a macellarlo con la lama di ferro per staccagli la testa. Si vedono le mani che tengono il manico e i colpi che si abbattono sul collo.
Il parabrezza di un’auto che si crepa per i proiettili — è la ripresa dall’interno della macchina — e poi il movimento al rallentatore del veicolo fino allo schianto: non appare sangue, eppure quel vetro incrinato restituisce l’angoscia della normalità in frantumi, la strada vicino a casa percorsa in tante mattine che non sono come questa […]
Le scie rosse sui pavimenti lasciate dai mutilati, il cadavere bruciato con lo strofinaccio a tappare la bocca che racconta le torture precedenti, quello riverso sulla faccia a mani legate dietro la schiena, i corpi denudati rimasti a gambe aperte, i rapiti caricati sui cassonetti dei furgoni, la telefonata di un terrorista a Gaza: «Papà sto chiamando dal cellulare di un’ebrea. Ne ho uccisi dieci a mani nude». […]
(ANSA mercoledì 25 ottobre 2023.) - "Sappi che questo tuo nemico è una malattia che non ha cura, tranne che la decapitazione e l'estrazione di cuore e fegato!" E' scritto a mano su un biglietto trovato addosso ad uno dei terroristi di Hamas ucciso lo scorso 7 ottobre nell'assalto ai kibbutz. Biglietto - ha fatto sapere l'esercito israeliano - che gli era stato consegnato prima dell'attacco. "Le parole dei comandanti di Hamas - ha denunciato il portavoce militare - consistono nell'ordine di uccidere gli ebrei e nell'incoraggiamento a decapitare le loro vittime e a strappare loro cuore e fegato".Da adnkronos.com mercoledì 25 ottobre 2023.
Un miliziano di Hamas telefona a casa dopo aver ucciso 10 civili nell'attacco del 7 ottobre in Israele e, mentre parla con il padre, si vanta degli omicidi compiuti nell'area di Mefalsim. Dall'altra parte, l'entusiasmo dei familiari del terrorista, che sta usando lo smartphone sottratto ad una vittima per raccontare le sue gesta.
L'audio della conversazione è stato diffuso dal ministero della Difesa israeliano, che ha pubblicato su X la registrazione con sottotitoli in inglese per rendere più comprensibile il dialogo che dura circa 45 secondi.
Il miliziano, identificato con il nome Mahmoud, dice di trovarsi nel kibbutz di Mefalsim, non lontano dal confine tra Israele e Gaza: nella telefonata racconta di aver ucciso 10 persone con le sue mani. L'audio è stato diffuso anche dal ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, al Consiglio di sicurezza dell'Onu.
La telefonata
A: "Papà, torna su WhatsApp. Voglio trasmettere in streaming in diretta da Mefalsim"
B: "Vorrei essere lì con te"
A: "Mamma, tuo figlio è un eroe"
B: "Uccidi, uccidi, uccidi! Uccidili! Mahmoud, dove sei?"
A: "Sono a Mefalsim. Ho ucciso 10 ebrei con le mie mani. Ti sto parlando dal telefono di un ebreo"
B: "Ne hai uccisi 10?"
A: "Dieci, giuro"
B: "Sei a Zikim?"
A. "Sono a Mefalsim, non Zikim. Sono il primo a entrare con la protezione e l'aiuto di Allah".
Dal “Corriere della Sera” mercoledì 25 ottobre 2023.
Fanno rabbrividire i video, diffusi ieri dall’esercito israeliano, degli interrogatori dei sette terroristi di Hamas catturati durante l’attacco del 7 ottobre. «Dovevamo rapire il maggior numero di persone. A Gaza chiunque porti un ostaggio riceve una paga».
Di quanto? «Un appartamento e 10.000 dollari». Una casa per ogni ostaggio? «Sì». Chi te lo ha detto? «È così che funziona nelle brigate al Qassam, perché volevano il maggior numero di ostaggi». I terroristi ammettono di aver ricevuto dai loro capi l’ordine di «uccidere, tagliare le teste, mutilare e rapire i civili». E dicono: «Ci hanno ingannato».
Khatib, ex ministro di Arafat: «Il peggio deve ancora venire. Ora una mediazione politica». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera giovedì 26 ottobre 2023.
Il politico: bisogna tornare a una prospettiva di pace. Hamas non è come Isis, sono due movimenti completamente diversi
«Siamo in un momento pericoloso. Israele reagisce a quello che definisce un attacco indiscriminato di Hamas contro i propri civili in un modo ancora più indiscriminato contro Gaza. Ciò genera rischi di guerra con l’Egitto e in Libano con Hezbollah. Ma il peggio è che non vediamo una soluzione politica, mancano prospettive di pace», sostiene dal suo ufficio a Ramallah il 70enne Ghassan Khatib, ex ministro del governo di Yasser Arafat e oggi responsabile del Media Center per la Cisgiordania.
Il peggio deve ancora venire?
«Certamente, anche perché rifiuto la narrativa trionfante per cui la nuova ondata di guerra sarebbe stata generata da un attacco terroristico. Siamo immersi nel continuo avvitarsi di violenze e contro-violenz e nel contesto dell’occupazione israeliana, che si è fatta sempre più brutale e pericolosa negli ultimi anni sotto il tallone del governo guidato da Netanyahu, un misto di fanatici religiosi e nazionalisti xenofobi, impegnato a reprimere e abusare la popolazione palestinese».
Ma Hamas ha commesso crimini efferati. Come distruggerla e riprendere a parlarsi?
«Non è possibile calmare le tensioni ricorrendo sistematicamente alla forza. Occorre ricordare che all’origine del problema resta l’occupazione israeliana dei territori palestinesi: soltanto la mediazione e la politica possono cercare la soluzione di compromesso, altrimenti la violenza è destinata a degenerare ulteriormente».
Cosa pensa del piano di eliminare Hamas e affidare la gestione di Gaza al governo di Abu Mazen?
«Un’illusione stupida. Nessun leader palestinese andrà a prendere in consegna Gaza a bordo di un tank israeliano».
Biden ripete che occorre rilanciare l’idea della pace tra due Stati...
«La soluzione della pace in cambio della terra è diventata impraticabile perché Israele ha continuato a costruire ed espandere colonie nel centro di quelle stesse regioni che dovevano costituire il cuore dello Stato palestinese. Se però gli Usa premessero per smantellarle, allora la soluzione tornerebbe sul tavolo».
E crede che Biden sia pronto a farlo?
«No, non lo credo. Lo vediamo come la Casa Bianca ha sostenuto le reazioni militari israeliane».
Gli israeliani annunciano che spazzeranno via Hamas.
«Lo possono fare soltanto se torneranno ad occupare fisicamente tutta Gaza, come era prima del 2005. Ma se entrano a Gaza uccidendo e distruggendo prima di ritirarsi, allora Hamas rinascerà velocemente dalle sue ceneri».
Hamas come Isis?
«Non è vero. Sono due movimenti completamente diversi».
Hamas vuole distruggere Israele?
«Falso. È ben noto che in passato i suoi capi si dicevano pronti alla hudna, alla tregua per trattare».
Ma i kamikaze di Hamas non hanno boicottato la pace mentre era ancora possibile negli anni Novanta?
«Non confonderei le conseguenze con le cause. Fu la crescita delle colonie ebraiche proprio mentre si negoziava l’applicazione degli accordi di Oslo a ispirare il terrorismo jihadista. I miei sondaggi nel 1993 indicavano che l’80 per cento dei palestinesi sosteneva la pace».
Condanna l’uccisione barbara dei civili da parte di Hamas?
«Condanno senza riserve, i civili non vanno uccisi».
Omer e Omar uccisi a 4 anni, ma per i complottisti non è vero. Storia di Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2023.
L’alba della sua morte, il 7 ottobre, probabilmente stava ancora dormendo nel Chissà che cos’ha visto, sentito, patito: è scappato nel rifugio e forse i terroristi di Hamas hanno ammazzato Yoanatan e Tamar — «papà, mamma!...» — e le due sorelline, «Shachar, Arbe!...», prima che toccasse a lui. A 4 anni, non capisci che cosa ti sta succedendo: il bunker è stato incendiato,e ci sono voluti giorni, per identificarlo. Quattro giorni dopo e 23 km in là, dentro Gaza, è toccata a un altro bambino: la stessa età di Omer e quasi lo stesso nome, che giocava davanti alla casetta di Zeitoun quando Suo fratello Majd era con lui: sotto choc, ha raccontato al papà d’aver solo visto esplodere la casa dei vicini ed essere stato investito, senza riuscire a far nulla per il piccolo.
Non basta ucciderli, i bambini di questa guerra. Li torturano, li bombardano, li polverizzano, li sventrano, li ustionano, qualcuno ha raccontato che li hanno pure decapitati. E dopo, nemmeno questo basta: si dice che ne sono morti più di quattromila? L’ordine è minimizzare, dubitare delle cifre, nascondere. Si mostrano le loro ferite, i loro sguardi inebetiti, le loro facce sbiancate dalla polvere e dal terrore? Ma no, controlliamo bene, chi l’ha detto che sono immagini vere… A Omer e Omar, il bimbo israeliano e il bimbo palestinese, è andata anche peggio. Non cercate le loro tombe: i becchini dei social hanno stabilito che quei due bambini non esistono. Che non sono mai morti. E che le loro foto con le zazzere, no, sono tutta un’invenzione.
Quand’è uscita l’immagine di Omar morto in braccio al babbo, che si chiama Al Banna, su X è arrivato subito il commento velenoso d’un account israeliano: «Non cadete nell’imbroglio. Non è un bambino vero, è una bambola!». Si sa com’è la diceria dell’untore d’Internet: dalla Francia all’Austria, fino in India, il tam tam ha replicato la balla all’infinito, facendo credere davvero che Omar fosse un’invenzione della propaganda di Hamas. La stessa cosa, in parallelo, per Omer: troppo struggente la foto di quella famiglia felice, i Siman-Tov, troppo perfetto quel bimbo biondo, «sembra una foto pubblicitaria — ha commentato qualche arabo — è di sicuro un attore pagato!». E perché? «Perché Hamas non uccide i bambini», «non ci sono prove», «la propaganda ebraica dà il suo meglio»…
C’è qualcosa di peggio d’aver un figlio morto: che te ne uccidano anche il ricordo. I genitori di Omer non possono più dire nulla, ed è un amico di famiglia a farne le veci: «Omer era un angelo», e l’han fatto morire nelle fiamme di quell’inferno. La mamma di Omar, Yasmin, ha solo la forza di spiegare che lei c’era, l’attacco aereo è stato una tempesta, «non hanno il diritto di dire che il mio bambino morto è una bambola»… Una giornalista della Bbc, la prima a scoprire le due storie terribili e parallele. ha ascoltato tutti i testimoni, ha trovato i fotoreporter che hanno scattato le immagini, i medici che hanno prestato i primi soccorsi. E ha sbugiardato gli odiatori: «Sono stati tentativi vergognosi di creare disinformazione — commenta —, minimizzando o addirittura negando la violenza commessa». Non è vero che la verità è la prima vittima d’ogni guerra: prima di lei, uccidono i bambini. E sul web, nemmeno li seppelliscono.
Al-Dahdouh, il giornalista di Al Jazeera che ha saputo in diretta della morte di sua moglie e dei suoi figli a Gaza. Storia di Greta Privitera su Il Corriere della Sera giovedì 26 ottobre 2023.
Quel gilet azzurro con la scritta in grassetto, «press», «stampa», che in posti come Gaza City, oggi, vale più di una medaglia d’onore. Le palpebre che sbattono forte per non cedere alle lacrime. Il respiro affannoso. La mano destra portata alla bocca come si fa quando si trattengono le parole che non possono essere pronunciate. E poi, gli amici. I colleghi di , che nel corridoio dell’ospedale di Al-Aqsa Martyrs, con lo stesso gilet azzurro, lo scortano verso i corpi senza vita di suo figlio Mahmoud, 15 anni, di sua figlia Sham, 7, e di sua moglie. Noi lo vediamo. Vediamo tutto nei video che ci arrivano dalla Striscia, bombardata da 19 giorni dall’esercito d’Israele, da quando Hamas, il 7 ottobre, ha ucciso 1400 israeliani. Vediamo il giornalista Al-Dahdouh, 53, piegarsi sulle ginocchia e avvicinarsi al volto del figlio, in mezzo ai corpi di decine di altri figli. Lo sentiamo dire: «Quello che è successo è chiaro, si tratta di una serie di attacchi mirati contro bambini, donne e civili. Non esiste assolutamente un posto sicuro a Gaza». Al-Dahdouh è il capo dell’ufficio di corrispondenza di , l’emittente con sede in Qatar. Mentre stava raccontando della morte di altri, ha saputo in diretta della morte dei suoi. Erano fuggiti nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia, dopo che Israele aveva chiesto ai palestinesi residenti a nord di lasciare le loro case. «Le forze israeliane avevano detto che questa zona sarebbe stata sicura, quindi la mia famiglia si è trasferita qui. Ma la morte li ha seguiti, i raid li hanno seguiti», ha spiegato Al-Dahdouh.
Noi abbiamo continuato a vedere. Le immagini dei tre corpi sdraiati a terra, avvolti nelle lenzuola. Il giornalista in piedi, solenne, e dietro centinaia di persone. Abbiamo visto i parenti piangere disperati. Al-Dahdouh con in braccio il corpicino del nipote di soli 18 mesi. Sono diciannove giorni che descrive lo strazio dei cittadini di Gaza, conosce bene l’effetto che hanno sul volto le parole «tuo figlio è morto». Il suono dei pianti ai funerali e il senso di rassegnazione di un popolo che sta perdendo tutto. Ma non pensava di dover raccontare la sua di storia. Di dover dire al mondo dei sogni dei suoi figli: «Mahmoud stava per finire il liceo, voleva diventare giornalista». Sperava di averli messi al sicuro, nella zona considerata «meno pericolosa». Aveva seguito tutte le indicazioni dell’esercito israeliano, ma non è bastato.
I colleghi dicono che Al-Dahdouh è un giornalista coraggioso che da anni lavora da Gaza City. È da sempre il punto di riferimento della redazione. «Speriamo torni presto a raccontare quello che succede qui», commentano tutti. «L’assalto indiscriminato da parte delle forze di occupazione israeliane ha provocato la tragica perdita della moglie, del figlio e della figlia di Al-Dahdouh, e il resto della sua famiglia è sepolto sotto le macerie», dice il comunicato di Media Network. Sempre dall’emittente qatarina spiegano di essere «profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere dei nostri colleghi a Gaza e di ritenere le autorità israeliane responsabili della loro sicurezza. Esortiamo la comunità internazionale a intervenire e a porre fine a questi attacchi contro i civili, salvaguardando così vite innocenti». Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti, in 19 giorni sono morti almeno 24 reporter, alcuni dei quali amici di Al-Dahdouh. Secondo il ministero della Sanità palestinese, il numero dei morti a Gaza è salito a settemila, tremila bambini.
Il leader di Hamas Haniyeh: chi è e il messaggio da una tv libanese. Storia di Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera sabato 28 ottobre 2023.
«Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani»: sono le parole con cui il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh ha chiamato i civili di Gaza alla sollevazione generale contro Israele. Haniyeh ha esortato i connazionali all’estremo sacrifico standosene però nei suoi uffici di Doha, in Qatar e affidando il suo messaggio al canale Al Mayadeen, una tv satellitare panaraba con sede a Beirut. ma chi è il leader che in queste ore sta prendendo le redini della battaglia sul fronte palestinese con queste parole sanguinarie?
Nato 61 anni fa negli Emirati Arabi Ismail Haniyeh è formalmente il primo ministro dell’Autorità Palestinese dopo la vittoria alle elezioni del 2006; di fatto però, pochi mesi dopo è entrato in rotta di collisione con Abu Mazen divenendo «padrone» indiscusso della Striscia di Gaza. Braccio destro del fondatore di Hamas Ahmed Yassin, Haniyeh è considerato l’incarnazione dell’ala «dialogante» di Hamas che resta comunque un movimento classificato come terrorista da numerosi governi, a partire da Israele e Stati Uniti.
Nel 2006 Hamas trionfa nelle prime elezioni politiche a Gaza, riceve l’incarico di formare un governo di unità nazionale con gli «eredi»di Al Fatah capeggiati da Abu Mazen e affermatisi invece in Cisgiordania. Di fatto pochi mesi dopo la rottura tra i due leader si rivela insanabile, Hamas caccia da Gaza i fedeli di Abu Mazen al culmine di una fulminea guerra civile (con il benestare dell’Arabia Saudita) e diventa leader assoluto della Striscia. Da allora Haniyeh stringe rapporti via via più stretti con il regime degli ayatollah di Teheran e con ‘emiro del Qatar Al Thani, che è il principale finanziatore del movimento.
Ad Haniyeh vengono attribuite affermazioni talvolta crude, talvolta ambigue. «Non riconosceremo mai gli usurpatori sionisti e continueremo la nostra jihad fino alla liberazione di Gerusalemme» ha dichiarato nel 2008. E nello stesso periodo però afferma: «Israele dica che riconosce lo stato palestinese lungo i confini del 1967, rilasci i prigionieri e riconosca il diritto dei profughi al ritorno. Hamas considererà la sua posizione se ciò dovesse avvenire». avrà
Come detto il leader politico non vive a Gaza ma a Doha da dove si ritiene abbia registrato il messaggio che venerdì sera ha fatto il giro del mondo.
«Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi» proclama . «Abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida, per spingerci avanti». Sullo sfondo si vede uno scorcio di Gerusalemme mentre ai due vertici dello schermo compaiono due marchi:sulla destra quello di Memri , che è un istituto di ricerca israeliano che monitora i contenuti dei media di lingua araba e che ha rilanciato il messaggio traducendolo in inglese. Sulla sinistra invece si scorge il logo di Al Mayadeen un canale tv satellitare «all news» basato a Beirut e fondato nel 2012:la sua linea politica viene considerata vicino a quella di Hezbollah, il«partito di Dio« filo iraniano.
L’ex premier di Israele Olmert: «Si rischia una guerra regionale per colpa dei fanatici al governo». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera l'8 novembre 2023.
L’ex leader del partito Kadima: «Netanyahy e i ministri estremisti vogliono annettersi i territori occupati. Invece nella Striscia serve una forza internazionale. Se vogliamo esistere dobbiamo separarci dai palestinesi»
«Corriamo il pericolo gravissimo che Benjamin Netanyahu e i suoi alleati fanatici approfittino della crisi di Gaza per scacciare i palestinesi da tutti i territori occupati. Rischiamo la guerra regionale per questi messianici criminali». A 78 anni Ehud Olmert parla a cuore aperto. «Dobbiamo fermarli, vanno anche contro la maggioranza dei cittadini israeliani, mi appello alla comunità internazionale che ci aiuti a farlo», esclama colui che per lungo tempo è stato tra i leader della destra nazionalista del partito Likud. Ex sindaco di Gerusalemme dal 1993 al 2003, premier dal gennaio 2006 all’aprile 2009, volle l’operazione Piombo Fuso contro Hamas a Gaza terminata nel gennaio 2009, ma cercò anche un compromesso con Abu Mazen sino a promettere la divisione di Gerusalemme. Fu infine costretto a dimettersi dopo esser stato condannato al carcere per una vicenda di corruzione.
Netanyahu e il suo governo una minaccia per Israele?
«Certo, lui e ministri estremisti religiosi come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir non considerano la guerra di Gaza come un modo per distruggere Hamas, bensì la usano come un corridoio per creare il caos, la fine dei tempi che per loro è parte di un disegno divino, approfittarne per buttare all’estero i palestinesi dei territori occupati e quindi annetterli finalmente allo Stato ebraico. Nei loro disegni anche gli arabi israeliani dovrebbero essere scacciati».
La soluzione?
«Israele deve annunciare subito che alla fine della battaglia contro Hamas è disposto a ritirare immediatamente le proprie truppe da Gaza a favore dell’arrivo di una forza di pace internazionale destinata ad assumere il controllo per un tempo limitato. Allo stesso tempo, va reso noto che noi siamo pronti a riprendere i negoziati per la partizione della terra e la creazione di uno Stato palestinese. Ora più che mai è necessaria una soluzione politica. Solo così la comunità internazionale potrà sostenere la nostra battaglia contro Hamas».
Che tipo di forza internazionale?
«Per esempio quella che comprende le truppe Nato, con il contingente italiano, nel Libano meridionale».
Quindi smantellare le colonie ebraiche della Cisgiordania?
«Assolutamente sì. Noi ci terremo circa il 4,4 per cento delle terre occupate nel 1967, specie quelle nella zona di Gerusalemme e compenseremo i palestinesi con altre terre. Hanno tutti i diritti di avere la loro capitale a Gerusalemme est. Le zone sensibili come le moschee sulla spianata dal Tempio dovranno essere amministrate da un ente internazionale composto da cinque nazioni: Arabia Saudita, Giordania, Autorità palestinese, Israele e Stati Uniti sotto gli auspici delle Nazioni Unite. E la questione profughi va trattata nel contesto dell’iniziativa di pace israeliana. Ciò oltretutto isolerà Hamas, che è un gruppo estremista nemico della pace e nemico anche del popolo palestinese, oltreché di tutto il mondo arabo moderato. L’Egitto, la Giordania e gli altri governi arabi che adesso condannano il nostro attacco su Gaza in realtà pregano segretamente che si distrugga Hamas una volta per tutte».
Quindi si devono sradicare mezzo milione di coloni?
«Resteranno nelle loro case di Gerusalemme est, oltre a Ariel, Gush Etzion e Maale Adumim, ciò significa che dovremo spostare circa 200.000 coloni che andranno nelle zone destinate allo scambio territoriale».
Ma lei sa bene che oggi lo Stato palestinese è impossibile, le colonie ebraiche sono ovunque e Abu Mazen è debole, corrotto, marginalizzato.
«Se vogliamo esistere come Stato democratico dobbiamo separarci dai palestinesi. Non abbiamo alternativa: non vogliamo l’apartheid, non vogliamo l’espulsione forzata, vogliamo il nostro Stato più piccolo ma sicuro».
Che fare di Hamas e della Jihad?
«Vanno distrutte, non vogliono la pace e non cercano la coesistenza. Ai loro occhi noi siamo parte della civiltà occidentale che va combattuta. Nel 2005 noi ci siamo ritirati da Gaza e guardate cosa hanno fatto: il giorno dopo hanno iniziato a costruire gli arsenali di razzi da spararci contro».
Come legge il 7 ottobre?
«Un punto di svolta. Noi israeliani dobbiamo essere meno arroganti, più modesti. Abbiamo sottovalutato i nostri nemici. Pensavamo di avere l’esercito più forte e sono arrivati quelli di Gaza in ciabatte e ci hanno massacrato. Dobbiamo capire i nemici e fare delle scelte di fondo. Siamo a un bivio, servono risposte politiche».
Israele, scende in campo l’unità speciale “Nili”, un team formato per eliminare i terroristi di Hamas. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Ottobre 2023
Il team sarà scollegato dalle altre unità militari e potrà contare su militari sul campo, come i commando delle forze speciali della Marina e l’unità di élite “Sayeret Maktal” che verranno affiancati da un lavoro di "intelligence" che si avvale anche di esperti digitali che operano sui programmi high-tech e di riconoscimento facciale.
L’attacco terroristico effettuato da Hamas lo scorso 7 ottobre , preparato per due anni con grande meticolosità, è completamente sfuggito ai radar di quelli che erano considerati tra i servizi segreti più efficienti del mondo, uno smacco resterà nella storia dell’intelligence di Israele e in quella del Paese, da sempre fortemente intrecciate. Anche se arriverà il tempo delle inchieste interne e dei vertici che cadranno, per lo Shin Bet il servizio segreto interno di Israele, è il tempo di rivincita.
Come spesso accade, per ridare lustro alla propria reputazione si rifugge al proprio passato glorioso. L’unità speciale costituita per dare la caccia ai responsabili degli orrori di due settimane fa, si richiama fin dal nome ad una pagina leggendaria nella storia dello stato ebraico. “Nili” è quello prescelto, è l’acronimo di una frase di Samuele nel libro della Genesi che recita la promessa biblica: “L’Eterno di Israele non ti abbandonerà mai”. Una promessa ed un impegno che il gruppo appena nato assume in qualche modo come proprio obbiettivo.
Il Team Nili
Il team sarà scollegato dalle altre unità militari e potrà contare su militari sul campo, come i commando delle forze speciali della Marina e l’unità di élite “Sayeret Maktal” che verranno affiancati da un lavoro di “intelligence” che si avvale anche di esperti digitali che operano sui programmi high-tech e di riconoscimento facciale. Nili è già al “lavoro” da giorni, e non a caso sabato scorso è stato colpito Ali Qadhi, considerato il responsabile di un commando autore della strage in uno dei kibbutz di confine presi d’assalto. Dopo di lui è stato il turno di Billal Al Kedra che aveva guidato l’assalto nella comunità agricola di Nirim, e di Muhamed Katmash, vicecomandante, capo dei lanciatori di migliaia di missili piovuti su Israele. All’elenco va aggiunto Abu Murad, altro nome di vertice nel Gotha del terrorismo islamico nella Striscia di Gaza.
Tra le operazioni già compiute, qualcuno attribuisce a Nili anche l’uccisione di Jamala al Rantisi, l’influente vedova del cofondatore di Hamas. Il richiamo al passato non è solo un fatto nominalistico, la nuova unità dell’intelligence si inserisce in una tradizione che era avvolta da prestigio e mistero fino al 7 ottobre scorso è già al “lavoro” da giorni.
Il passato
La prima rete spionistica ad essere chiamata Nili operava sin dal tempo della prima guerra contro gli Ottomani in collegamento con la Gran Bretagnai. con cui comunicavano nei modi più impensabili, compreso l’uso di piccioni viaggiatori. Un sistema che dovettero lasciare allorquando uno dei messaggi in codice fu intercettato e decrittato dagli Ottomani nell’inverno del 1917. Poi, molti anni dopo, un’altra unità speciale fu costituita per dare la caccia ai terroristi che insanguinarono le Olimpiadi di Monaco del 1972 quando vennero uccisi 11 atleti della squadra israeliana. L’operazione all’epoca venne chiamata in codice “ira di Dio” e venne autorizzata dall’allora premier Golda Meir che diede semaforo verde alla caccia a ciascuno degli uomini del commando.
E fu così che iniziò una sfilza di morti misteriose avvenute a Beirut, Roma, Cipro e Parigi. I primi tre vennero uccisi nella capitale libanese da un gruppo di agenti travestiti da donna come il loro comandante, Ehud Barak, il soldato più decorato di Israele diventato in seguito primo ministro. Poi ci fu un’operazione fallita in Norvegia, con un errore sull’identità del bersaglio colpito, un povero e innocente cameriere marocchino. I tre agenti israeliani vennero arrestati e rimasero quasi due anni in carcere.
La caccia comunque continuava, e venne ucciso sempre a Beirut Hassan Salameh chiamato il “principe rosso” il capo delle operazioni di “Settembre Nero” , a Parigi invece, un altro uomo del commando saltò in aria dopo che avevano imbottito di esplosivo il suo telefono e poi lo avevano fatto esplodere a distanza. Altre operazioni speciali non sono mancate in questi ultimi anni, soprattutto in Iran e quelle sotto copertura di agenti “mishtaravim” così denominati per la loro perfetta conoscenza della lingua araba e la capacità di mimetizzarsi tra le popolazioni in Cisgiordania. Redazione CdG 1947
Estratto da quotidiano.net giovedì 19 ottobre 2023
Anche la droga dietro l’efferatezza delle violenze dei terroristi palestinesi nell'attacco del 7 ottobre.
Secondo la tv commerciale israeliana Canale 12 molti membri del commando di Hamas erano sotto l'effetto del Captagon, una droga sintetica prodotta in Libano e Siria, e nota anche come 'la cocaina dei poveri'. Anche i miliziani dell'Isis ne facevano uso nei loro brutali raid, seguiti da esecuzioni e decapitazioni dei prigionieri. Tracce ne sono state trovate nelle siringhe dei terroristi della strage del Bataclan a Parigi. E anche tra i bambini mandati a combattere da Boko Haram in Nigeria.
L'onnipotenza da Captagon
Gli effetti del Captagon sono molto forti e incidono direttamente sul cervello
di chi lo assume infondendo all'inizio una grande fiducia in sé, seguito da un
senso di onnipotenza che annulla il giudizio, la fatica, portando a uno stato di
euforia e di abbandono delle inibizioni. Ci si sente invincibili e si perde
l'appetito e la voglia di dormire per giorni. […]
Metamfetamina e caffeina, la droga della Jihad
Il Captagon nasce da una base di cloridrato di fenetillina che viene mischiata
con la caffeina. […
Assad ci guadagna
Questa droga sintetica è stata prodotta principalmente in Libia e Libano, almeno
fino al 2021, poi dopo la guerra civile è stata la Siria a diventarne il primo
produttore. Si parla ormai di un giro da 10 miliardi di dollari. Gran parte
degli introiti secondo gli analisti dell'Osservatorio europeo delle droghe e
delle tossicodipendenze (Oedt) arriverebbero direttamente nelle tasche di re
Assad, ma anche dei suoi nemici, come le varie formazioni jihadiste che
combattono in Siria e si oppongono al dittatore di Damasco. L'ampia produzione e
prezzi bassissimi hanno favorito l'arrivo sul mercato di centinaia di milioni di
dosi, arrivando a sbarcare anche in Europa. Vi sono varie tipologie di pillole
di Captagon, dalle più economiche, a un euro, fino alle più potenti a 25 euro.
Sequestro record in Italia
Nel luglio del 2020 una quantità record di Captagon è stata sequestrata in Italia: nel porto di Salerno spuntarono da un cargo 14 tonnellate della "droga dell'Isis", si disse ai tempi. La Guardia di Finanza trovò 84 milioni di pasticche col logo Captagon, per un valorre di oltre 1 miliardo di euro. […]
Estratto dell’articolo di Raffaella Troili per il Messaggero l'11 ottobre 2023.
Forse dormivano, forse erano incoscienti. No, hanno avuto paura, non come le altre volte, quando ogni dieci minuti suona la sirena e sono ormai abituati. Una strage di innocenti, non un blitz, niente a che vedere con un'operazione militare, solo una spietata mattanza quella avvenuta sabato nel kibbutz di Kfar Aza. Duecento israeliani sono stati uccisi, massacrati nelle loro case, tra loro 40 bambini e neonati alcuni decapitati da una settantina di miliziani di Hamas.
L'orrore è stato raccontato ieri dall'emittente televisiva i24News che ha citato l'ong Zaka, che partecipa all'identificazione dei corpi e che ha permesso alla stampa di avvicinarsi al sito: nelle piccole case, una scia di sangue si allunga ovunque nei corridoi e si ferma davanti ai corpi senza vita stesi a terra di israeliani braccati, trascinati sul letto o colpiti nella notte.
«Un massacro, difficile da raccontare», ripetono i giornalisti che hanno visitato il kibbutz devastato. «Scene di orrore - ripete un inviato della Cnn - c'erano corpi ovunque, ci sono corpi ovunque».
Non è l'unico kibbutz colpito a morte, quello di Kfar Aza, dove abitavano 765 persone. Altre comunità lungo la Striscia sono state colpite da sabato. Il bilancio sta emergendo in queste ore. Nel kibbutz Bèeri, teatro di un massacro di civili, sono stati trovati i corpi di «103 terroristi di Hamas», morti in uno scontro a fuoco con l'esercito. Lo ha detto il portavoce dell'esercito israeliano, ammiraglio Daniel Hagari, citato da Times of Israel. Qui sono state trucidate oltre cento persone. Una guerra spietata, la conta delle vittime è in continuo divenire, a farne le spese la popolazione civile.
Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per il Messaggero l'11 ottobre 2023.
«Qui c'è l'odore di morte». Il servizio televisivo della corrispondente del network israeliano i24News, Nicole Zedek, resterà probabilmente nella storia di questa guerra e del mondo. È tra le prime ad arrivare nel Kibbutz di Kfar Aza, a descrivere ciò che vede trattenendo come può l'emozione e lo sgomento. Il racconto del ritrovamento dei cadaveri, dei neonati trucidati, di un massacro di una ferocia che ha pochi precedenti, rapidamente viene condiviso sui social, con le immagini della giornalista che cammina tra le carcasse di auto a bruciate.
Il Kibbutz di Kfar Aza è a poco meno di cinque chilometri da Gaza, fu fondato nel 1951 da immigrati ebrei in fuga da Egitto e Marocco. Ci abitavano 765 persone. Ma ciò che c'è all'interno delle casa è perfino più terribile stando alla ricostruzione del netowrk: «Quaranta bambini sono stati trovati assassinati, alcuni erano decapitati, nel massacro di Hamas... I giornalisti sono entrati per vedere le conseguenze a Kfar Azar e hanno riferito della scoperta di dozzine di bambini brutalmente assassinati nelle loro culle dopo l'attacco di Hamas».
Cosa dicono le fonti ufficiali? Il generale Itai Veruv, 57 anni, parla con gli inviati e spiega: «Dovete capire che questo non è un campo di battaglia, in alcun modo. Eppure, dentro le case abbiamo trovato i corpi dei bambini, dei padri, delle madri. Nelle stanze da letto o nelle stanze di sicurezza».
Aggiunge il generale Veruv, che pure nella sua lunga carriera militare ha partecipato alle operazioni di guerra in Libano e di risposta alla prima e alla seconda Intifada: «Questo è un massacro, è qualcosa che io nella mia vita non ho mai visto. Abbiamo immaginato che ciò che hanno vissuto i nostri nonni o bisnonni in Europa, nel secolo scorso, non sarebbe mai più successo nella storia. Purtroppo non è così». Ciò che vediamo qui non è un atto di guerra, ripetono dall'esercito israeliano, è un massacro, è terrorismo, hanno ucciso le famiglie, non c'erano combattimenti in corso.
David Ben Zion, vice comandante dell'Unità 71: «Abbiamo camminato di porta in porta, abbiamo eliminato molti terroristi. Sono malvagi. Hanno tagliato teste di bambini e donne. Ma siamo più forti di loro». Secondo i racconti dei militari in alcuni casi ci sono state vere e proprie decapitazioni, con metodi e brutalità simili a quelli dell'Isis, in altri sono stati esplosi colpi di pistola ravvicinati che hanno deturpato i cadaveri.
«Questo massacro - ripete il generale Itai Veruv - è qualcosa di più simile a un pogrom dei tempi dei nostri nonni». Un militare grida: «Raccontate al mondo ciò che è successo qui». Ieri sera, dopo che le notizie e i servizi su quanto era stato trovato nel Kibbutz di Kfar Aza sono cominciati a circolare, in Israele in molti hanno ripetuto le frasi che il giorno prima aveva pronunciato il presidente Isaac Herzog: «Era dai tempi dell'Olocausto che non venivano uccisi così tanti ebrei in un solo giorno».
(…)
Estratto dell’articolo di Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero" martedì 24 ottobre 2023.
Sua madre, Emma Dina Ben-Yehouda, aveva la sua età quando si ritrovò in prima linea durante la guerra del Kippur, nel 73. Fece tutta la guerra come ufficiale, alla fine fu decorata con una medaglia al valore. Cinquant'anni dopo, il 7 ottobre scorso, è toccato a lei, tenente colonnello Or Ben-Yehouda, guidare una delle prime offensive contro l'attacco di Hamas.
Or guida il battaglione Caracal, uno dei tre di Tsahal composto da sole donne. Sono di stanza a sud, vicino al confine con l'Egitto. Un paio d'anni fa Or si era ritrovata a respingere con le sue ragazze un attacco di terroristi, e per quello aveva ricevuto una medaglia. In genere, il loro lavoro è sempre stato contrastare i movimenti del contrabbando. Sabato 7 all'alba Or ha capito subito che stava succedendo qualcosa di diverso. Qualcosa di mai visto, in fondo di mai atteso.
[…] Da anni la loro presenza nelle unità dislocate nei posti più sensibili di Israele provoca polemiche: tra gli ortodossi, e anche tra gli scettici, quelli che pensano che affidare la sicurezza alle donne è un rischio. E invece sabato all'alba Or e le sue hanno difeso e salvato da sole i loro compagni soldati della base di Sufa, a qualche chilometro dal confine di Gaza, circondati da Hamas, asserragliati in un locale della base.
È stata la stessa Or a raccontare come sono andate le cose, per dimostrare che donne e uomini possono difendere insieme Israele, che «non perdiamo lucidità sotto la pressione della guerra». «Abbiamo eliminato in dodici circa cento terroristi» ha raccontato Or.
«Spero che questo serva a dimostrare che non ci devono essere dubbi sulle donne soldato. Le mie sono le più coraggiose, hanno combattuto con lucidità, salvato vite umane». Il racconto è quello dell'inizio del terrore, della prima telefonata arrivata dal tenente colonnello Yonatan Tzur, comandante del battaglione di ricognizione della Nahal, la brigata dei berretti verdi, in azione sui fronti più instabili.
«Sono entrati - le ha comunicato Tzur - sono a Sufa e Nirim, sono pesantemente armati, sono tanti». Tzur è morto qualche ora dopo. Or e le sue sono partite all'istante: «Stiamo andando ad eliminare terroristi, è in atto un'infiltrazione di Hamas in Israele, e si sta diffondendo.
State all'erta, siamo una squadra forte».
Nella mezz'ora di strada dal loro quartier generale al confine con l'Egitto fino a Sufa, Or e le sue si rendono conto di quello che accade. A Sufa trovano 40 persone, quasi tutti soldati, asserragliati in un locale. Dentro la base sono assediati da almeno 7 terroristi, altri sparano da un terrapieno, un convoglio con altri 50 uomini di Hamas è in arrivo.
È cominciata la battaglia descritta da Or, che ha scelto di non intervenire direttamente dentro la base per cercare di salvare gli israeliani asserragliati. Per ore le ragazze di Karkal hanno respinto da sole il fuoco dei terroristi. «A un certo punto ci siamo trovate un convoglio che puntava verso di noi, tre furgoni, cinque moto, una cinquantina di terroristi e cecchini. Eravamo solo dodici, le altre erano in villaggi vicini a proteggere i civili.
Abbiamo risposto al fuoco con mitragliatrici, mortai, lanciarazzi. Uno di Hamas si è lanciato su di me, mi sono detta: ci siamo, o io o lui. Ho reagito. È riuscito a spararmi ma non mi ha ferito. Molti terroristi sono stati uccisi, altri si sono ritirati. Alla fine è arrivata una squadra dello Shayetet 13, hanno lanciato dei droni per aiutarci. La battaglia è durata quasi 14 ore. I quaranta sono stati liberati». […]
Estratto dell'articolo di Daniele Raineri per repubblica.it sabato 7 ottobre 2023.
A partire dalle sette del mattino il gruppo palestinese Hamas ha lanciato dalla Striscia di Gaza un’operazione senza precedenti contro Israele, da terra e dall’aria – ed è l’inizio di una nuova guerra. Prima è partito un lancio di razzi e missili senza interruzioni contro le città israeliane nel Sud e nel centro del Paese. Poi squadre di incursori hanno superato i confini sempre molto sorvegliati della Striscia e hanno attaccato i primi centri abitati che sono riusciti a raggiungere.
[...]
Non era mai successo che i miliziani palestinesi riuscissero a infiltrarsi così in profondità. Anche questo è un segno che si tratta di un attacco pianificato a lungo, che i servizi di sicurezza israeliani non hanno visto arrivare – e questo fallimento peserà molto sul governo di Benjamin Netanyahu. Già ci sono paragoni con la guerra di Yom Kippur che colse di sorpresa Israele nell’ottobre del 1973.
Il gruppo palestinese Hamas ha rivendicato l’attacco. In un video si sente distintamente un combattente palestinese gridare “Hamasim”: è la firma del gruppo palestinese. Del resto è la fazione più potente di Gaza e non è possibile pensare che un attacco di queste proporzioni e la decisione di cominciare questa guerra contro Israele non arrivi direttamente dai vertici di Hamas.
La sequenza di lanci di razzi – circa 2.500 – contro Israele non ha ancora smesso. Gli ordigni hanno raggiunto anche Tel Aviv, a novanta chilometri dalla Striscia, e per ora hanno ucciso una donna e ferito quattro persone. È un numero di razzi pari ai peggiori giorni delle guerre degli anni scorsi fra le fazioni palestinesi di Gaza. Dopo poche ore Israele ha risposto lanciando l’Operazione Spade di Ferro, con attacchi aerei su Gaza.
Estratto dell’articolo di Maurizio Molinari per “la Repubblica” sabato 7 ottobre 2023.
L’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele descrive identità ed obiettivi del terrorismo islamico, è frutto di un piano militare sofisticato che ha beffato Gerusalemme e nasce dalla volontà di Teheran di ostacolare con la violenza un possibile accordo di pace fra lo Stato Ebraico e l’Arabia Saudita. Il primo e rudimentale intento di Hamas è di portare il terrore più feroce nel cuore di Israele: l’attacco ha visto dozzine di terroristi ben armati ed addestrati entrare in più centri civili nel Sud per uccidere chiunque passava, citofonare nella case annunciando l’arrivo della morte, rapire uomini, donne e bambini, e diffondere via web i video sulle vittime umiliate, maciullate, per far comprendere ad ogni cittadino dello Stato ebraico che Hamas può raggiungerlo ovunque, che la sua sicurezza semplicemente non c’è più.
[…] Hamas, votata sin dalla nascita alla distruzione di Israele, vuole dimostrare di poter declinare il terrore più efferato dentro ogni casa ebraica, perché il suo obiettivo strategico è spingere gli ebrei a fuggire da una terra che i jihadisti ritengono appartenga solamente all’Islam.
Le immagini di salotti e cucine delle case israeliane devastate con le scritte “Allah è Grande” disegnate in rosso sulle pareti sono la fotografia di quanto hanno in mente i jihadisti: trasformare lo Stato ebraico in un immenso lago di sangue.
Se l’intento di Hamas è di una brutalità medioevale, il piano militare per realizzarlo si è rivelato invece molto sofisticato. Segnando un nuovo sviluppo del concetto di guerra ibrida. La preparazione è durata mesi, riuscendo ad evadere la sorveglianza elettronica israeliana, e l’attacco ha beffato le difese di Gerusalemme su tre fronti.
Primo: il lancio iniziale, poco dopo l’alba, di oltre 2500 razzi nell’arco di brevissimo tempo, ha messo in difficoltà il sistema antiaereo dell’ “Iron Dome”. Secondo: i terroristi che hanno superato il confine con deltaplani a motore hanno dimostrato l’inutilità delle difese elettroniche israeliane, atterrando facilmente sul lato opposto per far esplodere le reti di frontiera e consentire l’entrata dei pick-up carichi di uomini armati.
Terzo: le stragi di civili, il rapimento di ostaggi e la cattura di armamenti israeliani sono avvenute nell’arco di poche ore, dimostrando che Hamas — aiutata forse dai droni iraniani — conosceva a menadito il territorio su cui muoversi. Dettaglio più o meno, è lo stesso piano che Hezbollah aveva per infiltrare il Nord della Galilea attraverso tunnel costruiti sotto il confine libanese e che Israele scoprì nel 2018: allora Hezbollah aveva immaginato di violare la sicurezza del “nemico sionista” muovendosi sottoterra, Hamas ora ci è riuscita volando con i deltaplani.
Con un’azione a sorpresa messa a segno in coincidenza con il 50° anniversario della Guerra del Kippur, quando furono gli eserciti di Egitto e Siria a cogliere del tutto impreparate le difese israeliane. Questa volta l’impreparazione è evidenziata da quanto solo pochi giorni fa l’intelligence militare israeliana aveva comunicato per iscritto al governo: “Hamas non è interessata ad un’escalation militare nella Striscia di Gaza”. Poiché in Medio Oriente le sensazioni collettive spesso fanno la differenza, non si può escludere che davanti alle immagini di Israele lacerata dalle proteste interne, Hamas si sia convinta che il nemico era diventato più vulnerabile.
Ma non è tutto perché la prima capitale a lodare l’attacco di Hamas è stata Teheran, i cui istruttori e la cui intelligence operano da tempo per trasferire a Gaza l’esperienza militare di Hezbollah. Il progetto di coordinare gli Hezbollah libanesi con Hamas e Jihad islamica a Gaza e altri gruppi jihadisti in Cisgiordania al fine di attaccare il cuore di Israele nasce dalla mente di Qassem Soleimani, l’ex capo della “Forza Al Qods” dei Guardiani della Rivoluzione eliminato dagli americani in Iraq nel 2020, ed ora il suo successore Esmail Qaani è riuscito a metterlo a segno. Grazie all’intesa di vecchia data fra i comandanti pasdaran e Mohammed Deif, il capo militare di Hamas.
L’intento di Teheran è creare una situazione di conflitto tale dentro ed attorno a Gaza da scuotere l’intera regione e far fallire il negoziato americano per arrivare ad un accordo di pace fra Israele ed Arabia Saudita. Per questo il commando di Hamas ha rapito civili e militari israeliani, portandoli dentro la Striscia, puntando ad usarli come scudi umani contro gli attacchi aerei israeliani e, ancor più, a trasformarli in un casus belli di lungo termine capace di precipitare nelle fiamme l’intero Medio Oriente. Ovvero, uno scenario strategico all’esatto opposto degli “Accordi di Abramo”.
[...]
Saranno le prossime ore a dirci come evolverà la guerra che Hamas ha lanciato contro Israele. Il tentativo di infiltrazione di Hezbollah dal Libano, le feste in piazza a Jenin in onore dei “martiri della Jihad”, i corpi dei soldati israeliani uccisi trascinati per le strade di Gaza e i muezzin del quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est, che incitano ad unirsi alla “tempesta per Al Aqsa” lasciano intendere che nulla può essere escluso. Così come gli attacchi aerei israeliani lanciati contro la Striscia possono essere l’inizio di un’operazione più vasta, non solo a Gaza, ma anche ovunque Hamas possiede basi, armi e alleati.
Davanti ad uno scenario disseminato di incognite ci sono pochi dubbi sul fatto che il conflitto appena iniziato definisca in maniera cristallina l’esistenza di due campi opposti in Medio Oriente: quello di chi cerca una pace regionale per comporre il secolare conflitto arabo-israeliano e quello di chi invece vuole perpetuarlo, credendo solo nella guerra. Il cui maggiore protagonista è il fronte jihadista che punta alla distruzione dello Stato ebraico, unica democrazia del Medio Oriente.
Estratto dell’articolo di Rossella Tercatin per repubblica.it il 2 ottobre 2023.
Una soldatessa israeliana di guardia a un carcere militare nel Sud del Paese. E un prigioniero palestinese condannato all’ergastolo per terrorismo. È l’ultimo scandalo scoppiato in Israele che coinvolge il sistema carcerario.
[…] il caso ha portato il Ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir (leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit) e la comandante dell’Israel Prison Service (Ips) Kary Perry a dichiarare in un comunicato congiunto che le soldatesse cesseranno immediatamente di servire nelle strutture dove sono rinchiusi i prigionieri in carcere per reati di matrice nazionalista e terrorista. Una mossa già annunciata in passato, ma mai implementata per carenza di personale da assegnare all’incarico.
[…] l’uomo palestinese, un membro di Fatah, organizzazione che esprime anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, possedeva un cellulare con cui rimaneva in contatto con le ragazze, con cui si sarebbero anche scambiati delle fotografie.
Una delle secondine avrebbe anche avuto un’interazione fisica consensuale in almeno un’occasione, secondo i primi risultati delle indagini, mentre l’avvocato della ragazza, che al momento si trova agli arresti domiciliari, sostiene che la sua assistita sia stata ricattata dal prigioniero.
Proprio la soldatessa in questione durante le indagini preliminari della polizia, a cui l’Ips ha riferito il caso, ha rivelato che altre quattro commilitone avrebbero intrattenuto rapporti proibiti col prigioniero, che la settimana scorsa è stato trasferito in un’altra prigione e dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni.
[…]
Lo scorso anno, la denuncia di alcune soldatesse di essere state assalite sessualmente da prigionieri condannati per terrorismo, con la connivenza dei comandanti, accusati di esporle al rischio di proposito per tenere tranquilli i prigionieri, aveva suscitato profonda indignazione e spinto le autorità israeliane a istituire una commissione per esaminare il sistema.
Estratto dell’articolo di Domenico Quirico per “La Stampa” martedì 17 ottobre 2023.
Che guaio questo sabato insanguinato firmato da Hamas! Nei Palazzi monarchici, emirali e presidenziali, nelle cancellerie arabe sono ore gravi, tra testa e midolla rombano timori funerei. La loro prassi fitta di ingegnose casistiche per trafficare indulgenze, la politica mercantile, comoda che veleggiava tra il cinismo pragmatico e la furberia infingarda con cui si pensava di aver disinnescato la annosa seccatura dei “fratelli” palestinesi […] è andata in frantumi in diretta video.
Hamas brutalmente, con micidiale programmazione, ha decretato che l’età dell’inerzia dopo anni è finita, e il mutamento comincia subito. Senza che si possa dire cosa verrà da questo imperativo categorico. Noi […] possiamo inventare mitografie sull’avanzare di moderazione e buon senso reciproco. Qui invece non si ha scelta. Le somme della violenza si tirano ogni giorno. E nulla può esser lasciato fuori. Ogni singolo individuo in Israele e nel mondo arabo è coinvolto, è partecipe di questa terribile storia complessiva.
Sembra passato un secolo da quando la congrega promiscua degli Al Sisi, dei principi ereditari e dei petrolemiri veleggiavano su tempi tranquilli, tra citazioni di Abramo nominato pacifista ecumenico e buoni affari con l’occidente, intanati nei loro orizzonti da cortile dove quel che conta è la saldezza del potere e tener a bada i loro “terroristi” che spesso altri non sono che oppositori e dissidenti.
E invece... Quei forsennati di Hamas, in combutta con i diabolici eretici di Teheran, hanno realizzato quello che loro da settanta anni, feudali o sinistrorsi che fossero, proclamavano a parole: Israele è un problema panarabo e va liquidato, in senso letterale!
Sono entrati in Israele, come i loro eserciti e i loro carri armati non sono mai riusciti a fare, hanno ucciso e preso prigionieri e ostaggi. Soprattutto hanno insinuato nell’onnipotente stato ebraico il tarlo della fragilità; il dubbio che la sua Forza non sia sufficiente o che stia declinando.
Proclamano alle piazze arabe: Israele, vedete, è in scompiglio, forse in ritirata, esitano perfino a vendicarsi ed è merito nostro, con poche centinaia di guerrieri e armi elementari come kalashnikov e lanciarazzi mediocri. I vostri governanti, venduti all’occidente e traditori, Abu Mazen e i che cosa hanno fatto se non dimenticarvi nelle immondizie di Gaza? Ora si gioca a carte scoperte.
Hamas fa parte dell’Internazionale islamista, […] credono nella redenzione mediante lo spargimento di sangue, la loro strategia è il potere dei morti sui vivi. […]aveva un debolezza iniziale, per arruolare i credenti nell’ecumene musulmano usava un manifesto muffito, da libro di storia: restaurare nientemeno! Il califfato di mille e più anni fa, qualcosa di remoto, una vittoria per cui non bastavano secoli. A cui venivano immolati più musulmani […] che infedeli. Per resistere e allargarsi il Califfato […] ha dovuto cercare di sedurre i margini più periferici e disperati del mondo dell’Islam. Come l’Africa australe, il sahel e le banlieu occidentali.
C’era dunque bisogno di una “buona causa”, attuale vibrante semplice condivisa, che parlasse innanzitutto alla masse arabe. Era, per i palestinesi di Hamas, a portata di mano, già pronta, surriscaldata da decenni di sconfitte e indifferenza: annientare lo Stato degli ebrei e cancellare il peccato originale del 1948, la macchia finora inestinguibile, riconquistare Gerusalemme.
A esser dunque nel mirino sono i leader arabi che, sconfitta dopo sconfitta, compromesso dopo compromesso, hanno imboccato la strategia del perder tempo, dell’emettere frasi vuote, del dire e non dire, alternando estremismi propagandistici a uso interno con impotenze.
La via della ipocrisia, perché anche loro eliminerebbero Israele ma non possono permettersi di dirlo. I palestinesi stavano immersi nel luridume di Gaza o nella cartapesta del quasi Stato. Spiravano furiose arie d’odio, era difficile acquietare gli escandescenti, cresceva l’esercito degli aspiranti uomini bomba. Si susseguivano senza esito le intifade e loro minacciavano, maledivano, deprecavano e poi… niente: siamo a fianco dei palestinesi finché sarà necessario e poi Mubarak e Al Sisi erano a libro paga degli americani con l’obbligo di non disturbare Israele.
[…] I palestinesi sanno bene che le guerre contro Israele servivano a evitare innanzitutto che i paesi arabi rivali si impadronissero della Palestina. Nasser mirava a unire il mondo arabo, cacciare via i capi che giudicava reazionari, e eliminare lo stato di Israele. Ma fece fiasco nello Yemen, fu sconfitto nel Sinai e la sua famosa abilità politica non produsse altro se non cadaveri che nel deserto del Sinai si liquefacevano nella sabbia.
In mezzo agli arabi i palestinesi sono un gruppo distinto. Non si sono mai sentiti a casa propria in questo o in quel Paese arabo. Tra i profughi è cresciuto uno stato d’animo che condannava la assimilazione in altre società arabe come un atto di slealtà verso il dovere di tornare in Palestina. Nelle generazioni è cresciuto l’odio e il desiderio di tornare da conquistatori e da padroni. All’inizio mischiarono marxismo e terrorismo e scelsero come guide spirituali Mao e Fanon. Poi è venuta la generazione di Hamas e la guida è diventato il jihad.
Nei Palazzi arabi si è tirato un sospiro di sollievo venerdì: la giornata della preghiera e della collera, con negli occhi le immagini di Gaza, poteva diventare un incendio generale. Si temevano contagi interni, gli unici che preoccupano. A sfidar divieti e manganelli non sono state le temute folle inferocite. Si è tirato un sospiro di sollievo, il contagio non c’è. Si può continuare a indignarsi per la punizione israeliana, a organizzare vertici (dopo una settimana), a tener chiuso il valico di Rafah per evitare “invasioni”, a ricevere Blinken e annessi europei.
Ma la seduzione di Hamas non viaggia nelle piazze, lavora lentamente nelle discussioni e nei confronti che si fanno in casa guardando e riguardando quelle immagini, nei caffè, in piazza dopo la preghiera. È sotterranea, ma corrode.
Identiche illusioni in occidente: gli arabi, a parte gli intenti patibolari dei jihadisti, sono moderati o rassegnati. Si continua dunque a chieder aiuto ai nostri cari alleati in Egitto, Giordania, Arabia saudita, Qatar anche se si tratta di ricchi farabutti e di smascherati politicanti corrotti, si presuppone che le popolazioni comprendano approvino e legittimino i loro scopi. Chi conosce il mondo arabo sa che questo presupposto, soprattutto per quanto riguarda l’esistenza di Israele, equivale alla ricerca della pietra filosofale.
Estratto dell’articolo di Francesca Paci per “la Stampa” giovedì 19 ottobre 2023
Nella sua lunga carriera politica, l'ex premier israeliano Ehud Olmert ha visto crisi pesanti oscurare l'orizzonte nazionale. […]
[…] Qual è la sua opinione sull'operato del governo Nethanyau, sulla mancata prevenzione dell'attentato prima e sulla gestione della crisi degli ostaggi e il bombardamento di Gaza poi?
«La retorica di Netanyahu è estremamente esasperata, inappropriata e inadeguata. La sua minaccia di distruggere tutto non è necessariamente una prova di forza, anzi. Netanyahu in queste ore non parla solo ai palestinesi, parla soprattutto alla sua base politica che è profondamente frustrata dall'incapacità mostrata dal governo nel prevenire l'attacco di Hamas. Sta provando a ricostruirsi una credibilità, ma è al capolinea, i giorni di Netanyahu sono finiti.
Se il 7 ottobre c'è stato un eccezionale fallimento dell'intelligence la principale spiegazione di questo fallimento è Netanyahu stesso, che ha preferito squalificare l'unico candidato reale per il negoziato, ossia l'Autorità Palestinese, e, rimuovendo Abu Mazen dalla scena, ha promosso Hamas. È Netanyahu che ha consentito l'afflusso di enormi quantità di denaro qatarino a Gaza: ne pagherà le conseguenze».
Prima di dimettersi, nel 2009, lanciò l'operazione Piombo fuso. Per quanto tempo Israele potrà resistere ad un attacco massiccio a Gaza come quello in corso prima che la pressione internazionale sulla crisi umanitaria diventi insormontabile?
«Ventiquattr'ore dopo aver concluso Piombo fuso,
invitai tutti i leader europei in Israele per spiegare le azioni del mio
governo. Vennero Berlusconi, Merkel, Zapatero, Brown, Sarkozy. È molto diverso
da oggi. Israele non godeva più del favore internazionale già prima del 7
ottobre, a causa di Netanyahu. Chi si fida di lui?
Il problema d'Israele oggi non è militare ma politico. Pianificare la
distruzione di Hamas per poi riprendere i negoziati in vista della soluzione due
popoli per due stati sarebbe un discorso. Ma sappiamo tutti che dopo aver
combattuto Hamas questo governo non farà nulla se non attendere la prossima
guerra».
C'è la tentazione nel governo israeliano di spingere i palestinesi fuori da Gaza verso l'Egitto. Ma il presidente egiziano al Sisi ha appena risposto che nel Negev c'è molto spazio. Crede che cacciarli sia davvero il modo per risolvere il problema palestinese?
«E perché non Tel Aviv? Anche a Tel Aviv c'è molto spazio. È ridicolo. Il Negev è Israele. I palestinesi devono restare a Gaza e viverci in pace, ma questo passa per la sconfitta di Hamas e per il ritorno alla soluzione due popoli per due Stati».
Estratto dell’articolo di Domenico Quirico per “La Stampa” lunedì 23 ottobre 2023.
La parte più intima e profonda di Israele, quella che gli antichi chiamavano anima dei popoli, ciò che l'ha tenuto in vita da settantacinque anni, tra zig zag di arroganze e androlatrie, conversioni e riconciliazioni, sconfitte modeste e vittorie pericolose, la sua Storia che sta al di la delle date e al di qua dei nomi, è la sua invulnerabilità. Israele è una terra arata da una idea fissa che è stata, fino a oggi, realtà: la terra degli ebrei è invulnerabile.
Certo può subire le ferite sanguinose degli attentati, perfino esser sconfitta talora sul campo di battaglia, ma questo avviene nelle sabbie lontane del Sinai all'inizio della guerra del Kippur o nelle trappole di Hezbollah in Libano. Ma il suolo di Israele dopo il 1948 restava inviolabile.
La sua potenza fatta di tecnologia, intelligenze, economia, modernità, efficienza militare, granitica unità umana di fronte al pericolo non può essere piegata. I suoi nemici, certo, sono terribili, i moderati vogliono distruggerlo politicamente, gli estremisti fisicamente. Non a caso nel suo periodo realistico il sionismo si considerava un movimento di superstiti. Per i sopravvissuti Israele significava vita, non potere politico […]
Di questa barriera infrangibile a poco a poco si sono convinti gli stessi Stati arabi. Solo per questa ragione, e per le necessità interne di potere dei loro discutibili "raiss'', hanno accettato di metter tra parentesi i vecchi piani annientatori: «Non riusciremo mai a invadere Israele e dunque cerchiamo di monetizzare un fatto compiuto, lucrando sulla nostra inevitabile' "moderazione", Washington ci paga per questo».
Chiamiamo questa certezza, messa alla prova da tre guerre classiche e dallo stillicidio del vecchio terrorismo arabo palestinese, la deterrenza di Israele. Detto in altro modo, lo Stato ebraico è una potenza in grado di tenere a bada e sconfiggere tutti i nemici che la circondano, il suo capitale più prezioso: molto più dell'arsenale atomico che anche in questa parte del mondo è stato, finora, una non arma. La possibilità di utilizzarla scivolava verso possibilità così estreme che la deterrenza "normale" rendeva inimmaginabili.
Il santuario per genti perseguitate era diventato dunque uno Stato forte, con un esercito. Consapevole che i paesi liberi, l'Occidente, sono bizzarramente letargici per quanto riguarda la libertà degli altri, amici compresi. Dopo la pericolosa vittoria totale della Guerra dei sei giorni e ancor più con l'avvento della destra di Netanyahu al potere, la consapevolezza della forza è diventata una deriva autistica per cui tutto dipende solo dalla propria volontà. Ma il senso di invulnerabilità reggeva in questa fitta nebbia che ha avviluppato spesso la politica israeliana. Fino a sabato 7 ottobre, fino all'attacco sanguinoso e vittorioso di Hamas.
La deterrenza di Israele, la certezza di essere intoccabile si è frantumata. Non esiste più. Non è una ferita, è un vuoto. Il Muro è caduto. D'ora in poi quando gli israeliani penseranno a sé stessi toccheranno quel vuoto. […]
Tzahal resta un esercito considerevole, l'aviazione israeliana non ha rivali in questa parte del mondo, forse perfino Mossad e Shin bet, i servizi di sicurezza e di spionaggio, ritroveranno i fili smarriti della loro mitologica capacità analitica. Tornerà l'ora della normalità, della assurda quiete, della salvezza. Ma il silenzio della intoccabilità ribadirà: quel sabato di ottobre hai scoperto la tua assenza, il tuo vuoto, hai scoperto chi sei. La storia di Israele riparte da zero. Sarà ardua.
Questa nuova fragilità si è manifestata subito, e nel rapporto con il grande alleato, gli Stati Uniti. Nella deterrenza israeliana un punto chiave era il non dipendere per sopravvivere da nessun altro, neppure dalle scelte politiche e militari di questo perpetuo intruso, dagli umori dei presidenti. Non esser insomma un Vietnam o un Afghanistan che «l'impero nascosto» può sacrificare come carta straccia.
[…] Con il viaggio di Biden, non a caso forse limitato alla sola tappa israeliana, il rapporto è cambiato. Le scelte anche quelle militari di Gerusalemme sono ora legate agli ordini americani: rinvio della annunciata punizione distruttiva di Hamas con invasione di Gaza, il sì alla apertura del corridoio dall'Egitto con gli aiuti alla popolazione palestinese che Israele rifiutava, perfino la moderazione di fronte alle provocazioni di Hezbollah sulla pericolosa frontiera nord.
Netanyahu ha assistito inerte alla trattativa di Washington con i jihadisti per riportare a casa due ostaggi americani, con smodati ringraziamenti per la mediazione dell'emirato canaglia del Qatar, burattinaio di Hamas e di molti micidiali arruffapopoli di questa parte del mondo. Che cosa resta del giuramento di cancellare la jihad palestinese dalla faccia della terra, della nuova fascia di sicurezza spezzando a metà Gaza, dell'imperativo: con una organizzazione di assassini non si tratta?
Nel 1956 un furibondo Eisenhower obbligò gli israeliani che erano giunti fino al canale di Suez a tornare indietro. L'attacco a Nasser, al fianco del moribondo colonialismo anglo-francese, metteva in pericolo la strategia di impedire l'irrompere dell'Unione Sovietica nella regione.
La logica dello scontro bipolare, non la sopravvivenza di Ben Gurion, muoveva Washington. Oggi agli Stati Uniti, in ritirata su tutti i fronti, interessa non avere problemi su questo fronte che non affrontare altri tempi bui. I leader arabi incapaci di tutto meno che di vendersi e riempire le galere, sono già sotto controllo. Ora lo è anche il fragile Israele.
Estratto dell’articolo di Domenico Quirico per “la Stampa” giovedì 26 ottobre 2023.
Il Qatar è […] una scaglia di sabbia nel Golfo diventato un avamposto della globalizzazione, una boa del business e della diplomazia più spericolata, dalle tende nel deserto alla skyline a cinque stelle, dal cammello ai bolidi di Formula uno […] E se tutta questa sciccheria che ci incanta e ci assomiglia celasse un emirato canaglia che ha fatto da salvadanaio al grande assalto islamista al ventunesimo secolo? […]
[…] il petrol emiro è diventato la più concreta speranza per i duecento ostaggi di Hamas di tornare a casa, forse l'unica, e per questo riceve i complimenti della Casa Bianca. Un uomo che regna e governa su appena undicimila chilometri quadrati e due milioni di sudditi riceve, in stretta successione, il segretario di Stato americano Blinken che gli fa le fusa nella sua tenda di grattacieli; e il giorno dopo a Doha stende il tappeto rosso per il ministro degli Esteri iraniano, accusato di essere il burattinaio che manovra le leve di Hamas, e non è certo, il loro, un colloquio travaglioso.
Offre ospitalità immobiliare agli uffici "politici" dei jihadisti palestinesi, oltre ad esserne lo sportello bancario, e nello stesso tempo mantiene rapporti affatto segreti con Israele. E soprattutto, e qui l'equilibrismo sfiora la perfezione, è stato accusato, da vicini assai poco amichevoli (volevano invaderlo) come Arabia Saudita ed Emirati, di essere il generoso borsellino di sigle che distillano terrore e delitti, ovvero al Qaeda e Isis, nientemeno. E lui, l'emiro […] scivola via sempre senza danni. Anzi sta seduto e riverito nei consigli di amministrazione dei giganti economici del pianeta.
[…] è l'indirizzo preferito degli americani per tutte le mediazioni impossibili con il Male contemporaneo, dall'Afghanistan ad Hamas. […] Ovunque ti volgi in questi tempi travagliati, dove c'è una crisi in corso, spunta Tamin ben Hamad al-Thani. In libia non c'è rammendo ai cocci della guerra civile ? Il Qatar tiene in piedi lo sgangherato napoleone di Bengasi, il generale Haftar, dopo aver corroborato le milizie islamiste di Benhadi.
Chi è in grado di parlare con i pestiferi talebani e far loro ritrovare le chiavi per riportare Kabul indietro di ventanni? Ma l'emiro […] La Palestina è in fiamme, si rischia una altro capitolo della Terza guerra mondiale: chi può parlar con tutti, terroristi israeliani ayatollah e la Casa Bianca, chi può telefonare ad Al Sisi, al principe saudita, a Khamenei, a Erdogan, a Biden e Abu Mazen?
Ma lui l'emiro, che sponsorizza il Paris Saint Germain e i Fratelli musulmani, […] Scoppia la guerra in Ucraina, l'Europa manca di gas? […] il disponibile Qatar è pronto ad aiutarci, in cambio di influenza e di un piccolo sovrapprezzo. Chi altro è riuscito a portare al potere Hamas a Gaza con il consenso dello stesso Israele che credeva di indebolire gli altri palestinesi? […] Lo scandalo che scuote il parlamento europeo si chiama "qatargate".
L'ex presidente francese Sarkozy finisce nei guai per i fondi neri della sua campagna elettorale? Dietro ovviamente spunta il Qatar. I mondiali di calcio: un successone! Eppure, dietro, immancabili, traffici, accuse, ombre, lavoratori schiavi... Ovviamente tutto finisce in niente. Soldi soldi sempre soldi… Ecco qua il lievito con cui l'astuto emiro ci avvolge e travolge. E pensare che tutto è iniziato con un golpe dinastico, e una abdicazione: perché il padre dell'attuale emiro, si dice, temeva la replica della congiura.
E soprattutto con una intuizione geniale, creare al Jazeera, una televisione che è diventata il suo esercito, la sua diplomazia, esplicita e segreta. Gli undicimila chilometri di superficie nel tempo dell'impero delle immagini sono diventati grandi come l'intero pianeta. Con le telecamere e le troupe il Qatar ha guidato le primavere arabe e la guerra civile siriana. E oggi ci racconta, la sola in diretta, il dramma di Gaza. […]
il jihadismo rivoluzionario e terrorista si è riempito le tasche e l'arsenale attingendo a questa grande banca anonima che è servita a tenere nell'ombra gli Stati, gli emiri, i monarchi che si compravano così la tolleranza dei fanatici con il mitra o estendevano la loro influenza. Molti sospetti sono caduti ad esempio su "qatar charity" che è stata accusata di essere il finanziatore di al Nusra , la versione siriana di al Qaeda. Chi ha agito da mediatore per la liberazione di ostaggi degli islamisti siriani? "Qatar charity".
Il Qatar ha il segreto per sedurre noi occidentali: i vantaggi economici […] Per l'emiro il mondo è un universo acquistabile, un linguaggio che comprendiamo benissimo. Che cosa ci intenerisce, nel pestifero mondo islamico tra sopravvivenze feudali e profeti di palingenesi feroci, più di un Paese gestito paternamente come una azienda internazionale? […]
Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “La Stampa” giovedì 2 novembre 2023.
Nadav Padan abita a Brooklyn, New York. All'indomani dell'attentato terroristico di Hamas ha ricevuto decine di telefonate ed e-mail dagli amici in Israele. Molti sono soldati, altri sono riservisti, ma tutti erano in prima linea per difendere Israele.
Così Padan non ha esitato un attimo ed è salito su un volo per Tel Aviv per unirsi con altri 360mila riservisti alla difesa dello Stato ebraico. La sua storia è simile a quella di almeno duemila giovani di New York che secondo il portavoce del Consolato israeliano della città, sono subito partiti per Tel Aviv. Un altro migliaio ha lasciato altre città d'America.
[…]
Yair Netanyahu ha un cognome importante. È il figlio del premier Bibi che da aprile vive in un piacevole "esilio" a Miami. Yair ha 32 anni e quindi ancora in tempo per arruolarsi e servire la patria. Eppure, a differenza di Padan, Nurieli e di altre centinaia di persone che hanno spiegato a moglie, figli e genitori le ragioni di arruolarsi e combattere una guerra a migliaia di chilometri di distanza, il figlio di Netanyahu ha limitato il suo sostegno ai soldati in prima linea e nelle retrovie a qualche storia su Instagram.
La bella vita, insomma, del controverso figlio del leader del Likud non è stata granché sconvolta dai fatti del 7 ottobre e mentre il 4% della popolazione di Israele indossa mimetica o monta su un tank, Yair non cede e osserva dalle coste della Florida. O da New York dove ha trascorso - a giudicare dalle storie postate sui social - diversi giorni a cavallo dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
[…] «Lui si diverte a Miami Beach, io sono in prima linea», si è sfogato un soldato con il Times di Londra. «Siamo noi che abbiamo lasciato il lavoro, la famiglia, i nostri bambini per proteggere il futuro di tutti e non coloro che sono responsabili di questa situazione», ha aggiunto un altro sempre dietro anonimato. E molti hanno ammesso che questo comportamento non aiuta «il nostro morale».
Yair è tecnicamente "reclutabile" avendo meno di 40 anni ma la sua vicinanza alla causa di Israele la spaccia su Instagram dove posta interviste con organizzazioni che aiutano le famiglie colpite dalla brutalità dell'azione di Hamas. Il figlio maggiore del premier ha svolto il servizio militare, è stato nell'esercito a più riprese ma non è mai stato in combattimento. È stato nell'ufficio di comunicazione dell'Idf.
Yair vive negli Stati Uniti da aprile quando Bibi e mamma Sara hanno deciso che le sue sparate politiche e gli attacchi frontali contro i detrattori del governo stavano diventando un problema troppo grande. Il giovane, infatti, si era distinto per post su X (Twitter) al vetriolo contro la sinistra e contro tutti coloro che criticavano le riforme del Likud.
Dichiarazioni spesso incendiarie che non avevano contribuito ad allentare il clima di tensione dello scorso inverno e primavera nello Stato ebraico segnato dalle proteste di piazza più grandi di sempre contro la riforma giudiziaria voluta dall'estrema destra. La sua fuga a Miami l'ha sottratto a denunce per diffamazione, la sua attività compulsiva sul social è andata via via riducendosi. Zero ormai su Twitter, ha invece continuato saltuariamente su Instagram fino appunto al 7 ottobre quando è diventato "un soldato dei social" anziché "del teatro di battaglia".
La resistenza palestinese ha lanciato un’offensiva senza precedenti contro Israele. Andrea Legni su L'Indipendente sabato 7 ottobre 2023.
Circa cinquemila razzi lanciati in poche ore all’interno del territorio israeliano e la contemporanea incursione via terra di un numero imprecisato di miliziani armati che hanno sfondato i confini israeliani e fatto irruzione negli insediamenti israeliani. Le notizie sono frammentate e difficili da verificare ma è certo che alcuni mezzi blindati dell’esercito israeliano sono stati conquistati dai palestinesi, mentre le immagini che circolano sui canali social palestinesi mostrano diversi soldati dell’esercito israeliano presi in ostaggio. Altre immagini mostrano miliziani armati palestinesi che entrano armi in pugno dentro una base militare israeliana vicino a Rafah, della quale avrebbero preso possesso. Di certo c’è che quella lanciata da Gaza nella notte è la più imponente offensiva della resistenza palestinese almeno dai tempi della seconda Intifada, tale da aver costretto il governo israeliano a dichiarare precipitosamente lo stato di guerra richiamando in servizio i soldati riservisti. «Questo è il giorno della più grande battaglia per porre fine all’ultima occupazione sulla terra», ha dichiarato il comandante militare di Hamas, Mohammad Deif. Mentre, sempre da parte di Hamas – gruppo politico-militare palestinese che governa la striscia di Gaza – è partita la «chiamata alle armi» per i palestinesi della Cisgiordania e per i «fratelli libanesi» oltreconfine.
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Mentre scriviamo il bilancio certificato delle vittime dei razzi sarebbe di almeno 5 morti e una ventina di feriti, mentre niente di concreto si sa circa gli effetti delle incursioni via terra, verosimilmente molto più pesanti. Incursioni di miliziani palestinesi si sarebbero verificate in decine di città e kibbutz (villaggi rurali israeliani), e vi sarebbero decine di morti. Le incursioni sono certamente entrate in profondità dentro i confini israeliani: 4 morti si registrano ad esempio a Kuseife, città ad oltre 60km dal confine con la striscia di Gaza. Inoltre la resistenza palestinese sarebbe riuscita a sequestrare numerosi soldati israeliani e a requisire mezzi dell’esercito. “Abbiamo visto immagini e video di soldati israeliani uccisi e video di combattenti palestinesi che festeggiavano attorno a veicoli armati israeliani dati alle fiamme” scrivo i cronisti di Al Jazeera, unica grande testata giornalistica ad avere propri inviati sul territorio. Secondo quanto riportato dal giornalista israeliano Yoav Zitun, della testata Ynet: “L’intera linea di difesa israeliana è stata violata” e “l’esercito israeliano ha diviso la Divisione di Gaza in diverse sezioni di combattimento per cercare di controllare gli eventi nel territorio”, mentre vi sarebbero “centinaia di uomini armati all’interno degli insediamenti e delle basi” e almeno tre jeep dell’esercito di Tel Aviv sarebbero state conquistate e “dirottate a Gaza”.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione del gabinetto di sicurezza per le 13 (le 12 in Italia), mentre è stato dichiarato lo stato di emergenza in un raggio di 80km dalla Striscia di Gaza. Diversi attacchi aerei sarebbero già partiti per bombardare Gaza.
Automatica, come sempre, la solidarietà nei confronti dell’occupante da parte dei governi occidentali e dei grandi media: uniti nel parlare di “attacco terroristico”, in una logica che riserva questo termine delegittimante esclusivamente alle azioni condotte contro i governi amici. Nessun accenno al fatto che l’attacco palestinese arrivi al culmine di un’occupazione che perdura dal lontano 1948 e che negli ultimi anni si è resa sempre più brutale. La condizione che i palestinesi subiscono ogni giorno è infatti una condizione di apartheid – non secondo chi scrive, ma secondo quanto certificato da diversi rapporti tra cui quello di Amnesty International – , che vede centinaia di civili palestinesi detenuti senza capi di accusa né processo nelle carceri israeliane e progetti di espulsione dei palestinesi da quelli che – secondo le risoluzioni ONU – sono i propri territori. Gli attacchi dell’esercito israeliano sono quotidiani e il 2023 è stato già definito l’anno più letale di sempre per i palestinesi, con centinaia di civili uccisi, tra i quali almeno 38 bambini. Mentre incursioni sistematiche da parte dell’esercito israeliano non risparmiano i luoghi di culto, le case dei palestinesi, e nemmeno le scuole elementari palestinesi. Sui crimini di guerra israeliani sta indagando anche la Corte Penale Internazionale.
Gli attacchi, come detto, sono partiti da Gaza: definita la città “prigione a cielo aperto”. Stretta in un blocco militare totale da parte di Israele dall’ormai lontano 2007. Oltre due milioni di persone chiuse in un’area di 365 km quadrati. Il blocco applicato da Israele su Gaza è ermetico, per via terrestre, marittima e aerea. L’aeroporto è chiuso, l’accesso al mare è negato anche per scopi di pesca, due dei tre valichi di frontiera sono controllati dall’esercito di Tel Aviv (l’altro dall’Egitto). Da Gaza i palestinesi non possono uscire, né commerciare. Ora si attende la risposta di Israele, ma per ora il dato di fatto è che la resistenza armata palestinese ha compiuto un salto di qualità inaspettato, capace di cogliere di sorpresa l’intelligence e le difese di uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo. [di Andrea Legni]
L’apocalisse in corso. La guerra dei nazisti islamici contro gli ebrei. Christian Rocca su L'Inkiesta il 7 Ottobre 2023
Pogrom, esecuzioni sommarie, missili sui civili, deportazioni di donne israeliane a Gaza tra ali di folla festante e il sostegno dell’Iran, del Qatar e anche dell’Arabia Saudita accusata di cercare la pace con Gerusalemme
Non ci sono parole adeguate a raccontare il Male che si dispiega davanti a noi in tempo reale, non è possibile scrivere riflettere a ciglio asciutto quando l’apocalisse è ancora in corso, quando c’è la consapevolezza che la barbarie del sabato mattina di Sukkot, la festa ebraica delle capanne, continuerà ancora lungo e avrà conseguenze inimmaginabili.
Qualche settimana fa ho visitato il lager che i russi hanno approntato a Yahidne, in Ucraina, una nuova Auschwitz del XXI secolo nel cuore d’Europa, non lontana da dove si era giurato che mai più avremmo visto tale pianificazione di atrocità. Sabato ci siamo svegliati con un pogrom nel sud di Israele, una mattina dei cristalli preparata a tavolino ed eseguita grazie anche a un sommovimento popolare che ha dato la caccia agli ebrei, ha ucciso i civili sul posto, ha separato le donne dagli uomini e le ha fisicamente trascinate a Gaza assieme ai bambini, per poi offrire i loro corpi al pubblico festante, alla folla pronta a sputare sui prigionieri e a profanare i cadaveri, a una fiumana felice e inneggiante ad Allah.
Il Novecento è finito da due decenni, ma se non chiamiamo nazismo tutto ciò che sta succedendo sotto i nostri occhi, nazismo islamico, allora abbiamo qualche problema di comprensione della realtà.
Neanche nei film si sono mai viste scene così raccapriccianti e un’ostentazione di odio così assoluto. I nazisti tedeschi pianificavano lo sterminio degli ebrei con una precisione teutonica, ma non scendevano in strada a festeggiare gli arrivi dei vagoni piombati e a sputare sui rastrellati. I nazisti islamici invece festeggiano con una standing ovation dentro il parlamento iraniano, per un attimo distolto dall’impegno quotidiano profuso a incarcerare e a uccidere le giovani donne che si sciolgono i capelli, senza parlare delle forniture di droni armati al macellaio di Mosca per assassinare i civili ucraini.
I nazisti islamici di Hamas, i cui vertici probabilmente sono al sicuro in Qatar, davanti alle immagini trasmesse da Al Jazeera ringraziano il loro Dio pregando in favore di TikTok. Gli Hezbollah, il partito di Dio del Libano, rivendica con orgoglio tale disumanità, giustificata anche dal Qatar, cosa che bisognerebbe ricordarsi ogni volta che le istituzioni corrotte dello sport nostrano si prostrano davanti agli emiri e gli affidano le chiavi, per esempio, del calcio europeo.
Anche l’Arabia Saudita, il paese chiave del radicalismo estremista sunnita e custode dei luoghi sacri dell’Islam, se l’è presa con Israele, con l’aggredito, nonostante da tempo stia lavorando a una pacificazione con lo Stato ebraico che proprio in queste settimane avrebbe dovuto segnare un punto di non ritorno. Non c’è dubbio che l’invasione terrorista su larga scala partita da Gaza, e in corso in queste ore, sia motivata dall’urgenza di una parte dell’Islam politico di evitare che qualcun’altro faccia la pace con Israele, come spiega candidamente Hezbollah, e magari scopriremo più avanti che ruolo avrà avuto nella carneficina di Sukkot la triangolazione Teheran-Gaza-Mosca con gli aiuti militari reciproci e i frequenti viaggi di Hamas in Russia.
Israele si è sempre saputo difendere dai vicini, anche in modo spietato e preventivo, ma stavolta si è fatta prendere di sorpresa anche perché da qualche tempo è governata da estremisti parolai che cercano di scalfire l’unico stato di diritto del Medio oriente e per questo perdono di vista la difesa e la sicurezza del paese. Ma Israele è la vittima, qualunque mancanza democratica abbia mostrato il governo Netanyahu. Resta, inoltre, che l’invasione terrorista proveniente da Gaza rientra nella più ampia guerra tra gli arcinemici islamici Arabia Saudita e Iran, i duellanti che tengono in ostaggio il Grande Medio Oriente e lo condannano al caos eterno.
Alla base della loro rivalità ci sono solide questioni storiche che vanno indietro fino ai tempi d’oro dell’impero persiano e del Califfato, e poi anche più recenti ragioni geostrategiche, energetiche e nazionaliste, ma il punto centrale della disfida infinita è che Arabia Saudita e Iran si contendono la guida del mondo islamico su una linea di divisione che risale al 632 dopo Cristo, l’anno della morte di Maometto. Gli eredi del fondatore dell’Islam si divisero sulla successione del Profeta: a prevalere fu la fazione del suocero Abu Bakr e a soccombere quella che sosteneva il cugino Alì (sciita significa grosso modo “del partito di Alì”).
Quello scisma di quattordici secoli fa infiamma ancora oggi il quadrante mediorientale, e appena accenna a spegnersi, come da qualche tempo a questa parte ha tentato di fare l’Arabia Saudita con gli Accordi di Abramo e le aperture a Israele, ecco che la situazione deflagra in una guerra totale, una guerra scatenata dai nazisti islamici contro gli ebrei nel Ventunesimo secolo.
L’orrore. Villaggio dopo villaggio, vengono fuori le atrocità commesse da Hamas. Linkiesta 11 Ottobre 2023
Uccisi mentre aspettavano l’autobus, ballavano a un festival, svolgevano le faccende mattutine. I soldati israeliani stanno ancora facendo le ultime verifiche tra le case, le strade e le auto crivellate di proiettili. Tra i kibbutz e le cittadine intorno alla Striscia di Gaza, emerge una carneficina. «È qualcosa che non avevo mai visto in vita mia, qualcosa di più simile a un pogrom dei tempi dei nostri nonni», dice un generale
Uccisi mentre aspettavano l’autobus, ballavano a un festival, svolgevano le faccende mattutine. I soldati israeliani stanno ancora facendo le ultime verifiche tra le case, le strade e le auto crivellate di proiettili, dopo l’attacco dell’ala armata di Hamas dello scorso fine settimana in Israele. Via via che riprendono il controllo dei kibbutz, delle città e degli insediamenti vicino alla Striscia di Gaza, l’esercito recupera i corpi e scopre le atrocità commesse dai terroristi – racconta il New York Times.
Gli uomini armati di Hamas, colpendo più di venti siti nel sud di Israele, hanno ucciso più di mille persone, tra cui donne e bambini, e rapito circa 150 altre persone. Le prove emergono dai filmati delle telecamere di sicurezza e video di cellulari, fotografie di residenti e professionisti e resoconti di testimoni sopravvissuti agli attacchi iniziali.
Il materiale mostra che uomini armati palestinesi hanno attaccato civili israeliani in tutti i luoghi di un sabato mattina qualunque nel sud di Israele – durante un festival all’aperto e nelle loro case, sulle strade e nel centro delle città.
Kibbutz Be’eri
L’assalto è iniziato intorno alle 6 del mattino di sabato, con le telecamere di sicurezza al cancello del kibbutz che mostravano due uomini armati che cercavano di sfondare. Quando un’auto si ferma sulla strada, i due uomini sparano e poi entrano nel kibbutz. Alle 7 del mattino, almeno otto uomini armati erano all’interno del kibbutz. Circa due ore dopo, in un video si possono vedere uomini armati che rimuovono tre corpi dall’auto presa in un’imboscata. Un altro video sembra mostrare diversi israeliani catturati e poi apparentemente morti per strada.
Gli operatori di emergenza israeliani alla fine hanno rimosso i corpi di oltre 100 persone uccise nel kibbutz, compresi bambini.
Il Festival Nova
Sabato, subito dopo l’alba, centinaia di uomini armati palestinesi che hanno sfondato le barricate tra Gaza e Israele hanno attraversato i terreni agricoli nella zona di confine, raggiungendo un festival che si era svolto tutta la notte, e hanno aperto il fuoco.
Gli uomini armati hanno rapito un numero imprecisato di persone durante l’evento, a circa tre miglia dal confine di Gaza. Un video mostra una persona – a terra vicino a un’auto ma in movimento – che viene colpita da un uomo con un fucile e poi rimane ferma. Un altro video verificato dal New York Times mostra membri di Hamas che si allontanano in motocicletta con una donna israeliana stretta in mezzo a loro, che urla mentre il suo ragazzo viene portato via a piedi, con il braccio tirato dietro la schiena.
Il kibbutz di Kfar Azza
Quattro giorni dopo l’attacco a Kfar Azza, un villaggio vicino al confine con Gaza, i soldati israeliani sono entrati casa per casa per recuperare le vittime. I giornalisti del New York Times che si sono recati nel villaggio hanno visto corpi sui sentieri, sui prati e nelle case, compresi quelli di molti bambini. «Non è una guerra o un campo di battaglia; è un massacro», ha detto il generale Itai Veruv. «È qualcosa che non avevo mai visto in vita mia, qualcosa di più simile a un pogrom dei tempi dei nostri nonni».
La città di Sderot
Anche l’attacco a Sderot, una città a circa un miglio da Gaza, è iniziato sabato mattina presto, con almeno due pick-up che trasportavano uomini armati all’interno della città. I civili sono stati colpiti nelle loro auto o ai piedi, uccisi sotto un cavalcavia e mentre aspettavano l’autobus. I video girati dai residenti di Sderot hanno ripreso gli uomini armati che sparavano sui civili, si scontravano con la polizia per strada e prendevano il controllo della stazione di polizia. Si contano almeno venti vittime.
Nir Oz e le altre comunità vicino a Gaza
Stanno ancora emergendo dettagli da molte comunità sparse per chilometri intorno alla Striscia di Gaza. E le autorità israeliano stanno ancora calcolando il bilancio definitivo delle vittime. Ma video, foto e racconti dei sopravvissuti registrano attacchi in tutta la regione.
Un video di 30 minuti pubblicato su Facebook e la cui posizione è stata verificata dal Times mostra uomini armati palestinesi che attraversano la recinzione di confine e si dirigono verso la comunità meridionale di Nir Oz. Il video segue il gruppo in quello che sembra essere un kibbutz. Seguono forti grida e spari. Il video mostra infine l’interno di una stanza, dove giacciono a terra almeno sei corpi insanguinati. Un uomo armato apre il fuoco sui corpi e il video si interrompe.
I residenti stimavano che il kibbutz contasse da 350 a 400 persone quando è iniziato l’attacco. Ne sono rimasti solo circa 200 sugli autobus.
Ci sono anche indicazioni di atrocità maggiori in altre comunità vicino a Gaza. A Nahal Oz, Noam Tibon, un generale in pensione che si era recato lì per aiutare suo figlio ha detto che hanno trovato le strade disseminate di corpi, alcuni palestinesi e altri israeliani. Ad Alumim, le foto mostrano una dozzina di sacchi per cadaveri allineati fuori da un edificio.
Giudice Apostolico, ci mancava il post del marito contro Israele: "Vergognatevi!". Il Tempo il 07 ottobre 2023
Il nuovo video che immortala le proteste della giudice Iolanda Apostolico contro la polizia. I vecchi post del compagno Massimo Mingrino, funzionario in tribunale, contro Israele. Si intrecciano cronaca e politica nelle novità emerse sul caso della magistrata di Catania che ha respinto il trattenimento di tre migranti tunisini bollando di fatto il decreto Cutro come illegittimo. Dopo le polemiche per i post e i like anti-Salvini, il caso della partecipazione alla manifestazione per i migranti della nave Diciotti a Catania, 5 anni fa. LaPresse oggi ha mostrato un nuovo video, che la vede protestare con decisione mentre altri manifestanti ne dicono di tutti i colori ai poliziotti. A rendere il tutto più surreale, sono alcuni post emersi dal profilo del compagno della giudice. Ora l'account è chiuso ma in precedenza Mingrino aveva il profilo Facebook pubblico, quindi i suoi post erano visibili a tutti. Come quello del maggio 2021, in cui il marito del giudice di Catania aveva condiviso senza commentarlo un post del partito di sinistra Potere al Popolo di chiaro stampo anti-israeliano.
"Vergognatevi! Questa è una immagine della manifestazione pro-Israele a Roma. Fa venire mal di pancia. Nell'ordine sono intervenuti Matteo Salvini, Enrico letta, e Antonio Tajani, Francesco Lollobrigida, Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Giovanni Toti, sciorinando la loro solidarietà a Israele, contro "il terrorismo". Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d'Italia, Azione, Italia Viva, tutti uniti quando si tratta di sostenere una potenza coloniale, Israele, che utilizza le stesse tecniche di apartheid del Sudafrica razzista contro i palestinesi", scriveva Potere al Popolo, "Capovolgono la realtà. Israele è l'aggressore. Israele colonizza, uccide, bombarda, opprime. Mentre scriviamo sono 56 i palestinesi uccisi. Noi stiamo con il popolo palestinese". Parole che emergono quando infuria la guerra in medio Oriente, con l'attacco dei miliziani di Hamas con migliaia di razzi su Israele.
Sequestri e raid sulle ambulanze: tutti gli orrori di Hamas. Nelle comunità israeliane occupate dalle forze di Hamas si teme il peggio: molti civili in fuga, alcuni sono stati catturati e portati a Gaza come ostaggi, altri sono morti. Ore drammatiche nel sud di Israele. Mauro Indelicato il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
C'è un video, uno dei pochi non crudi ma ad ogni modo molto angosciosi, che fa capire l'attuale situazione nel sud di Israele. Si notano alcuni civili all'interno di un grande cassone della spazzatura, nascosti per evitare di essere scoperti da miliziani di Hamas che hanno appena preso la loro località. Il video è stato fatto circolare su Telegram: nessun civile era pronto alla guerra, tutti sono scappati da casa con gli abiti della notte, segno di come l'orrore abbia preso il sopravvento cogliendo abitanti e autorità di sorpresa.
Gli ostaggi portati a Gaza
I civili nascosti all'interno del cassone evidentemente hanno visto poco prima alcuni vicini di casa portati via dai combattenti di Hamas. E in effetti la rete è piena di video dell'orrore dove diversi abitanti delle comunità occupate dai miliziani vengono caricati a forza su alcuni mezzi e portati a Gaza. C'è per esempio il video di una donna fatta salire a bordo di un camion, dopo essere stata sorpresa vicino la propria abitazione. A poca distanza un parente, forse il fidanzato, viene tenuto per le braccia e condotto chissà dove a piedi.
Hamas, una volta entrata nelle località israeliane poco distanti dal confine con la Striscia di Gaza, ha iniziato a effettuare razzie di ogni tipo. Secondo i media israeliani sarebbero almeno 50 i civili presi in ostaggio. Sono gli stessi combattenti a confermarlo, anche se si parla di numeri più bassi. Non solo civili, ma tra gli ostaggi ci sarebbero anche dei militari. Per Hamas però non c'è alcuna differenza: i leader del movimento non parlano di ostaggi, bensì di prigionieri di guerra a prescindere se le persone trascinate con la forza a Gaza indossano una divisa oppure un abito civile.
Prigionieri che, almeno per il momento, ad Hamas servono da vivi. Ogni ostaggio infatti potrebbe diventare una fondamentale pedina di scambio in caso di trattative. Gli israeliani catturati però, una volta entrati nella Striscia, vengono sottoposti all'umiliante pratica di essere esibiti come trofeo. Molti di loro vengono fatti circolare per strada mentre la folla inveisce. Anche una donna anziana in un video appare dentro un mezzo guidato da un miliziano, mentre la gente attorno lancia insulti. In un'altra immagine invece, un'altra donna è immortalata in un selfie con un combattente con il volto coperto.
Ma c'è pure chi a Gaza è arrivato senza vita. Su Telegram è circolato un video in cui un corpo senza vita è riverso a bordo di un camion che sfreccia per le vie della Striscia. Qualcuno, tra le persone attorno al cadavere, sputa sul corpo peraltro denudato. Su X c'è chi ha avanzato l'ipotesi che il cadavere fosse di una soldatessa israeliana. Forse morta negli scontri oppure rapita e uccisa subito dopo. Tra civili e militari, al momento i morti sarebbero una ventina e i feriti oltre 500. Alcuni potrebbero essere stati uccisi a sangue freddo, altri invece si sarebbero trovati nel pieno delle battaglie urbane.
Il video della madre sequestrata assieme ai suoi figli
A confermare il momento di terrore vissuto nel sud di Israele, anche l'immagine di una giovane madre portata via assieme ai suoi bambini neonati. Del caso ne ha parlato il quotidiano The Jewish Chronicle, i cui giornalisti hanno esaminato il video da cui è stata ricavata una delle immagini simbolo della situazione.
La madre in lacrime ha avvolto i figli dentro una coperta e poi è stata portata a Gaza. Si ignora al momento la sua sorte. In altri video inoltre, si vede la separazione tra genitori e figli effettuata dai miliziani di Hamas al momento di caricare gli ostaggi sui camion. Un gesto destinato a far aumentare angoscia e terorre tra le vittime. A giudicare dalle tante immagini del genere postate sui social, purtroppo il numero di ostaggi e civili coinvolti in queste ore di guerra potrebbe essere ben più alto di quello rivelato dalla stampa israeliana.
Hamas spara sulle ambulanze
Alcuni militari israeliani feriti sarebbero poi stati uccisi mentre venivano soccorsi. Hamas infatti ha rilasciato un video in cui si mostra un drone colpire un'ambulanza. Il mezzo era israeliano, si trattava forse di soccorritori che stavano portando nel più vicino ospedale i soldati feriti negli scontri lungo il confine.
Hamas non ha avuto in questo caso pietà né dei feriti e né dei soccorritori. Sparare sulle ambulanze inoltre è vietato nei contesti di guerra. Il movimento islamista però sta dimostrando in queste ore di non aver contegno nemmeno delle leggi di guerra. A prevalere in questa fase è unicamente un odio feroce che sta lasciando poco spazio al senso di umanità. E che sta seminando terrore tra civili colti di sorpresa. Mauro Indelicato
"Questi sono i risultati". Moni Ovadia attacca ancora Israele. L'intellettuale ha puntato il dito contro Tel Aviv - "finge che il problema palestinese non esiste" - ma non ha lesinato critiche alla comunità internazionale. Massimo Balsamo il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il bilancio di morti e di feriti aumenta esponenzialmente con il passare delle ore in Israele. Tra il massiccio lancio di missili e le irruzioni militari, l'attacco di Hamas ha provocato oltre 100 morti. Un'operazione di guerra senza precedenti - denominata "Alluvione al-Aqsa" - che secondo Moni Ovadia è frutto della politica cieca di Tel Aviv: "Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esiste, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano; e la comunità internazionale è complice: questi sono i risultati", l'analisi ell'intellettuale ebreo.
Dopo aver premesso che"la morte anche di una sola persona, sia essa israeliana o palestinese, è sempre una tragedia e va condannata con tutte le forze", l'attore ha messo nel mirino la politica del governo di Israele e in particolare del premier Benjamin Netanyahu dopo l'attacco missilistico di Hamas e la risposta annunciata da Tel Aviv. "Questa è la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione", il parere di Ovadia: "La Striscia di Gaza non è un territorio libero, è una gabbia, una scatola di sardine: è vero che dentro non ci sono gli israeliani, ma loro controllano comunque i confini marittimi e aerei, l'accesso delle merci, l'energia, l'acqua. Non a caso l'Onu aveva già dichiarato Gaza zona 'non abitabile'".
Sequestri e raid sulle ambulanze: tutti gli orrori di Hamas
La situazione è vessatoria, anzi infernale, ha proseguito Ovadia: "Come ci insegna persino l'Iliade, l'assedio è una forma di guerra... e allora? A Gaza non sono forse assediati da Israele? Poi, hanno deliberatamente lasciato il governo di Hamas perché per gli israeliani la rottura inter-palestinese fra Hamas e l'Olp-Al Fatah è stata fondamentale". L'intellettuale ha poi evidenziato che, in un tragico gioco delle parti, i miliziani di Hamas sono i miglior alleati di Netanyahu e viceversa, poichè l'uno favorisce l'altro:"Oramai è chiaro che i governanti israeliani non vogliono uno Stato palestinese, vogliono che i palestinesi vivano così, non ribellandosi e non fiatando neanche quando gli portano via l'acqua o la luce".
Come anticipato, Ovadia non ha lesinato critiche alla comunità internazionale, a suo avviso "schifosamente complice": "Ora aspettiamo che al centinaio di morti israeliani si risponderà uccidendo un migliaio di palestinesi, rinforzando sia Netanyahu che Hamas...". E da questa situazione non se ne esce, ha puntualizzato:"La soluzione 'due popoli, due stati' non è più praticabile per colpa di Israele, l'unica soluzione giusta sarebbe 'due popoli, uno Stato' ma è altrettanto impraticabile".
L'ex capo del Mossad: Israele dovrebbe ripensare il conflitto con l'Iran. Piccole Note il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.
L’ex capo del Mossad Efraim Halevy ha dichiarato che non dovremmo nutrire “pregiudizi” sull’accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina. E anzi si è domandato “se sia giunto il momento per Israele di cercare una politica diversa nei confronti dell’Iran e, magari in modo intelligente e riservato, cercare di valutare se c’è la possibilità di trovare un riavvicinamento tra Israele e Iran”.
Halevy: lo scontro Iran-Israele non ha fondamento
Parole sorprendenti, data l’autorevolezza della fonte, e in controtendenza rispetto alle reazioni adirate o diffidenti che si sono registrate in Israele e negli Stati Uniti. Tanto che la sua intervistatrice, Christiane Amanpour, il volto più noto della Cnn, ha reagito così: “Accidenti, signor Halevy, mi sembra di avere le allucinazioni. Questa è un’eresia, in contrasto con tutta la politica israeliana, sia di destra che di sinistra, fin dai tempi della rivoluzione iraniana. C’è davvero una possibilità, secondo te?”
“Non so se c’è una possibilità. Ma dico che, dato quanto è successo, potrebbe essere un possibile sviluppo. Dal momento che la Cina, tra tutti i paesi e le potenze del mondo, l’unico Paese che è stato capace di arrivare a un simile accordo, allora dobbiamo esaminarlo più a fondo e scoprire quali sono le motivazioni di tutte le parti coinvolte. E forse potremmo cercare un approccio diverso al conflitto iraniano-israeliano, cosa che Israele non ha fatto quando è iniziato”.
“Abbiamo avuto ottimi rapporti con l’Iran sotto la precedente guida dello Scià. Non c’è un vero conflitto di interessi tra Israele e Iran. Non abbiamo [a che fare con l’idea di] una conquista territoriale… [c’è un] confronto. Non abbiamo un confine comune. E non c’è una vera ragione per cui dovrebbe esserci un’inimicizia e uno stato di guerra tra Israele e Iran“.
Parole meditate quelle dell’ex capo del Mossad, dal momento che due giorni prima aveva scritto qualcosa di analogo su Haaretz. Per ribadirle in una sede così autorevole vuol dire non solo che ne è convinto, ma che non è isolato; sembra cioè che abbia voluto dare voce a una corrente di pensiero che deve aver iniziato a circolare all’interno dell’establishment israeliano, che in genere parla attraverso gli ex, non vincolati da ragioni di servizio, quindi più liberi.
E che in Israele non ci sia solo un rigetto dell’accordo, che ha mandato in frantumi il sogno di creare un’alleanza israelo-sunnita contro Teheran, lo indicano anche altri interventi.
Ad esempio quello di Daniel Shapiro, il quale ha scritto su Haaretz che “l’accordo, e il ruolo della Cina in esso, è una grande novità e pone alcune sfide agli interessi statunitensi e israeliani. Ma non è qualcosa per cui dobbiamo buttarci giù da un ponte”, dal momento che presenta aspetti positivi, come ad esempio la possibilità di porre fine alla guerra in Yemen e di ridurre le tensioni in Iraq, dove di tanto in tanto le milizie sciite portano attacchi (solo simbolici) contro le truppe Usa. Peraltro, aggiunge Shapiro, gli Usa avevano supportato la de-escaltion Iran – Arabia Saudita “nei precedenti round negoziali in Iraq e Oman”. Opinione autorevole, quella di Shapiro perché è un falco anti-iraniano, come dimostra ampiamente nel prosieguo dell’articolo.
I potenziali benefici dell’accordo Teheran-Riad
Decisamente favorevole all’accordo è invece Odeh Bisharat, il quale, in un altro articolo di Haaretz, si chiede “perché il riavvicinamento tra due abitanti di questo sanguinante quartiere dovrebbe essere accolto con rabbia e angoscia?”
E prosegue aggiungendo come, mentre il suo Paese è sull’orlo di una guerra civile a causa del conflitto tra governo e opposizioni (che stanno dando vita a proteste senza precedenti contro la riforma giudiziaria di Netanyahu), “l’unica cosa su cui tutti in Israele sembrano concordare è che l’accordo Iran-Arabia Saudita è qualcosa di pessimo. Il dibattito non riguarda chi è favorevole all’accordo e chi no, ma di chi è la colpa della riconciliazione tra i due paesi. C’è follia più grande di questa?”
“Perché l’accordo tra questi due vicini viene percepito come una minaccia, anche esistenziale, dal paese più potente della regione?” E pone un’ulteriore, interessante, domanda: “Perché gli interessi israeliani vanno contro gli interessi dei popoli della regione e si allineano con quelli delle potenze straniere? Perché Israele è percepito e si percepisce come uno straniero in Medio Oriente? Manhattan è più vicina di Amman, Parigi più del Cairo ed entrambe sono più vicine del campo profughi di Balata”.
Cina, Iran e Arabia saudita, nonostante siano dittature, continua Bisharat, “sono giunti alla conclusione che dovevano premere il pulsante del reset. Invece della guerra, cercano la pace e, di conseguenza, il mondo sarà un posto più sicuro e promettente”.
Tale sviluppo, continua Bisharat, invece di far immaginare un nuovo percorso per Israele, è solo motivo di recriminazione. “Non c’è nessuna critica – scrive – per la nostra politica nei confronti dell’Iran, fondata su omicidi e umiliazioni. L’Arabia Saudita, che ha smembrato il corpo di un oppositore politico, e l’Iran, con il suo oscuro regime, stanno adottando un pensiero più fresco di un paese che pur si vanta del suo liberalismo”.
Quindi, ricorda un altro articolo di Haaretz nel quale si spiegava che, grazie alla legittimità che gli procura l’intesa con Riad, l’Iran potrebbe stabilire “ulteriori accordi con altri stati arabi come l’Egitto, aprire la strada alla fine della guerra nello Yemen, offrire un soluzione praticabile alla crisi in Libano e portare a una ripresa dei negoziati per salvare l’accordo sul nucleare”.
“Se l’accordo non avesse altro esito che quello di porre fine ai sanguinosi combattimenti in Yemen – conclude Bisharat – e alle sofferenze umane [causate dal conflitto], sarebbe sufficiente [a giudicarlo positivamente]; se solo mettesse fine all’anarchia in Libano, sarebbe sufficiente; e se dovesse portare a un nuovo accordo sul nucleare, sarebbe sufficiente”.
A margine si può notare che l’accordo è stato foriero di sviluppi. Il ministro delle Finanze dell’Arabia Saudita, Mohammed Al-Jadaan, ha dichiarato che il suo Paese potrebbe investire molto presto in Iran (Cnbc). Il segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dell’Iran, Ali Shamkhani, si è recato negli Emirati arabi uniti stabilendo rapporti più stretti tra i due Paesi (Reuters), tanto che Teheran ha deciso di inviare un nuovo ambasciatore ad Abu Dhabi dopo anni di rapporti diplomatici minimali (Irna); infine, le Nazioni Unite hanno dichiarato che l’accordo ha dato un “nuovo slancio” alla riconciliazione del martoriato Yemen (Reuters).
MOSSAD - SERVIZI SEGRETI ISRAELE. SHIN BET - SERVIZI ISRAELIANI DI INTELLIGENCE INTERNA
Estratto dell'articolo di Andrea Muratore per it.insideover.com del 5 febbraio 2023
Il Mossad, custode della proiezione militare e dell’attivismo di politica estera, da un lato. Lo Shin Bet, garanzia della sicurezza interna, dall’altro. Non una faida, ma sicuramente una gara di popolarità quella che va in scena tra le principali agenzie di sicurezza di Israele in una fase critica seguita al ritorno al potere di Benjamin Netanyahu.
Al centro del dibattito, l’estensione degli accordi di Abramo, che per il Mossad hanno una chiara proiezione securitaria e strategica e per lo Shin Bet, invece, sono in accordo con il nuovo governo il perno per il contrasto muscolare agli avversari del Paese. In ordine crescente di pericolosità, Hamas, i guerriglieri libanesi di Hezbollah e l’arcinemico Iran. Dunque è una diplomazia parallela quella portata avanti dagli apparati di intelligence in una fase convulsa per il Paese.
Il governo di estrema destra e iper-nazionalista di Netanyahu ha dato in mano a Itamar Ben Gvir, tribuno radicale di Potere Ebraico, uno strategico ministero per la Sicurezza Nazionale operante negli ambiti di controllo sul fronte interno e ha invece nel moderato del Likud Eli Cohen il nuovo ministro degli Esteri.
Si pone dunque per Israele il dilemma sulla necessità di proseguire o meno con la linea di politica estera di soft e hard power seguita a lungo con l’apertura ai Paesi Arabi. In particolare, la scelta è tra lo status quo e l’inserimento dei nuovi Accordi di Abramo in una politica estera più assertiva.
La strategia del Mossad
Il Mossad, che ha condotto senza esitazione la “guerra ombra” all’Iran nel Medio Oriente e nelle sue propaggini teme di perdere, in quest’ottica, il sostegno e l’appoggio decisivo degli Stati Uniti alla linea di mano libera seguita finora, che ha portato all’attacco a siti militari iraniani in Siria, a colpire le navi che portavano armi a Hezbollah e a eliminare gli scienziati nucleari di Teheran.
[…]
Gabriele Carrer e Emanuele Rossi su Formiche hanno a tal proposito riconosciuto l’importanza di una vera e propria strategia diplomatica del Mossad, il cui direttore David Barnea ha di recente organizzato una visita a Gerusalemme del presidente del Ciad, Paese cruciale per la lotta al jihadismo in Africa, Mahamat Deby. “Da un lato, le intelligence (su tutte il Mossad) muovono le proprie attività per definire un’agenda che travalica i termini — temporali e operativi — dei governi, dimostrando la centralità degli apparati nel sistema di amministrazione del Paese”, scrivono Carrer e Rossi.
“Dall’altro (abbinato e conseguente) c’è la necessità anche per Israele di essere più presente in Africa — continente dove si muove parte dell’attuale e futura competizione tra medie e grandi potenze” e in cui, invece, lo Shin Bet presidia con il suo ex esponente Ron Levy, la strategia del ministero degli Esteri rivolti a un attore ben più ambiguo, il Sudan. Paese assai più autocratico del Ciad, così come lo è la Giordania in cui Ronen Bar, direttore dello Shin Bet, ha accompagnato in visita Netanyahu. Il citato Carrer ha dato visibilità a questi dati di fatto in un thread Twitter.
Lo scontro sugli accordi di Abramo
Il Mossad dà un’interpretazione a trecentosessanta gradi degli accordi di Abramo e vive ancora con le linee guida inaugurate nel 2020 dal quinto governo Netanyahu. “Bibi” ha invece una proiezione più diretta col suo sesto esecutivo, di matrice securitaria: gli Accordi di Abramo come garanzia dell’ottenimento del minimo disturbo possibile nella gestione del fronte interno, del giro di vite sulla Palestina e del rilancio degli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania. In mezzo, diplomatici come Cohen provano a far coesistere le due anime.
Lo Shin Bet gioca la politica estera funzionalmente all’obiettivo di Netanyahu di erigere una fortezza in Israele e non manca di alzare muri tutt’altro che metaforici: a fine gennaio ha revocato d’arbitrio i permessi di ingresso in Israele a 230 palestinesi risiedenti nella Striscia di Gaza, accusandoli di essere membri di Hamas o loro fiancheggiatori.
Inoltre, sta innalzando i livelli di guardia contro attentatori interni e sostenitori di Hezbollah, fatto comprensibile dopo la recente ondata di attentati ma che fa gioco alla strategia di una politica estera di stampo unicamente securitario. A cui il Mossad, “falco” interventista in diverse circostanze, non vuole però pienamente cedere il passo. Conscio che è dai legami politici di sistema, dalle alleanze politiche a tutto campo e dalla creazione di un clima disteso e non divisivo che si giudicherà la prospettiva di messa in sicurezza di Israele.
Naftali Bennett e Yair Lapid, tra 2021 e 2022, da primi ministri hanno capito questo dato di fatto, espandendo gli Accordi di Abramo a prescindere dalla volontà di avere alleati di primo piano contro Hamas, Hezbollah e l’Iran. Netanyahu sembra contraddire sé stesso dopo il ritorno al potere.
E alle spalle del premier si apre la “guerra” tra le spie di Tel Aviv. Interpreti di visioni diverse della politica estera e della rete di alleanze. Con lo Shin Bet pronto a ogni tipo di alleanza pur di contrastare i nemici irriducibili del Paese. Esattamente come i falchi del nuovo governo.
Attacchi dal Libano. Hamas: "Sostegno dall'Iran". Tank israeliani verso Gaza. L'attacco di Hamas 24 ore dopo. Partiti alcuni colpi di mortaio dal Libano, Israele risponde con l'artiglieria e muove i carri armati verso la striscia di Gaza. 250 morti. Gianluca Lo Nostro l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Israele muove i tank, verso incursione di terra a Gaza
Netanyahu: "Guerra lunga e difficile"
La situazione a Gaza
La risposta israeliana: liberati due kibbutz
Hezbollah attacca dal Libano
L'ombra dell'Iran e i soldati in ostaggio
Cos'ha detto la Cina
La guerra tra Israele e Hamas è arrivata al suo secondo giorno. L’operazione “Diluvio al-Aqsa” lanciata ieri dai militanti palestinesi non si è fermata dopo l’inevitabile reazione di Tel Aviv, che per tutta la giornata ha martellato la striscia di Gaza con bombardamenti condotti dall'aviazione. I media israeliani hanno aggiornato il numero di morti e feriti: i primi sono almeno 250, mentre le persone ferite sono 1.864. Nelle prime ore del mattino le forze armate israeliane hanno annunciato di aver colpito 10 obiettivi di Hamas, compreso il quartier generale dell'intelligence.
Israele muove i tank, verso incursione di terra a Gaza
Carri armati, obici semoventi e altri mezzi da combattimento appartenenti all'esercito israeliano sono stati visti spostarsi sulla strada che da Sderot porta alla striscia di Gaza. Sul web stanno circolando video e immagini che ritraggono il dispiegamento notturno di decine di corazzati e altri veicoli delle Israeli defence forces (Idf), forse in preparazione a un'imminente offensiva contro le milizie di Hamas. Ieri i militari di Tel Aviv avevano chiesto ai cittadini israeliani di evacuare le zone residenziali nei pressi della Striscia. Le Idf hanno chiuso le brecce aperte ieri dai terroristi in 29 punti lungo la barriera che separa il territorio israeliano da Gaza.
Netanyahu: "Guerra lunga e difficile"
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è rivolto ancora una volta al popolo ebraico spiegando in un post su X cosa potrebbe succedere nei prossimi giorni come conseguenza dello stato di guerra in cui è entrato lo Stato e per il quale sono state richiamate centinaia di migliaia di riservisti. Nel suo messaggio serale, il Primo ministro ha affermato che il suo Paese si sta "imbarcando in una guerra lunga e difficile, imposta da un attacco omicida di Hamas”. “La prima fase della guerra – ha aggiunto – prevede la distruzione della maggior parte delle forze nemiche che si sono infiltrate in Israele e hanno ucciso civili e soldati. Israele ha anche lanciato un'offensiva a Gaza e continuerà senza esitazione e senza tregua, fino al raggiungimento degli obiettivi".
La situazione a Gaza
Il movimento palestinese nel frattempo ha ripreso il lancio di razzi verso il territorio israeliano, una mossa che sa più di una rappresaglia in risposta al decreto del ministero dell’Energia israeliano che ha deciso lo stop alla fornitura di energia elettrica verso la striscia di Gaza. Secondo l’esercito israeliano il numero di razzi partiti dalla striscia si aggirerebbe intorno a 3.200.
Proprio a Gaza si sono concentrati i contrattacchi di Tel Aviv nelle ultime 24 ore. Non solo aerei, ma anche droni hanno preso di mira edifici e postazioni nemiche con lo scopo di neutralizzare quanti più terroristi possibili.
Palestinesi che attraversano la barriera di confine con Israele da Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.
La risposta israeliana: liberati due kibbutz
Nella serata di ieri, inoltre, le Israeli defence forces (Idf) hanno riconquistato gli insediamenti teatro di scontri tra militari e terroristi infiltrati. In alcuni casi i palestinesi avevano addirittura preso il controllo dei centri abitati, prendendo ostaggi o violentando donne. I commando israeliani hanno liberato i kibbutz di Beeri e Okafim occupati ieri dai miliziani armati. 10 di loro hanno perso la vita in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza che sono riuscite a ristabilire il controllo sulla stazione di polizia di Sderot.
Raid, violenze sulle donne e missili: il giorno più lungo di Israele
Hezbollah attacca dal Libano
Tra i vari scenari possibili i due belligeranti si stanno preparando per quello peggiore, un’avanzata di terra delle truppe israeliane sulla striscia di Gaza. Israele potrebbe tentare un tale assalto per respingere la minaccia di Hamas, ma se ciò avvenisse si rischierebbe l’apertura di un nuovo fronte a nord al confine con il Libano, da dove sono partiti diversi colpi di mortaio a cui le Idf hanno risposto con l'artiglieria, e il movimento Hezbollah, alleato con Hamas, potrebbe intervenire in soccorso dei terroristi palestinesi.
Il "Partito di Dio" sciita libanese ha rivendicato il raid di oggi proveniente dalle fattorie di Sheb'a, nel Libano meridionale. "La resistenza islamica ha attaccato tre posizioni del nemico sionista nella zona occupata delle Fattorie di Sheeba libanesi con un gran numero di colpi di artiglieria e di missili guidati", si legge in un comunicato diffuso da Hezbollah.
L'ombra dell'Iran e i soldati in ostaggio
La Bbc ha raccolto le dichiarazioni del portavoce dell'organizzazione, Ghazi Hamad, il quale ha confermato di aver ricevuto luce verde dall'Iran per attaccare Israele da più fronti. "L'Iran ci ha dato pieno sostegno", ha commentato Hamad.
L'azione militare in questo momento sta vedendo il coinvolgimento di altri gruppi, tra i quali il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina (Pij). Il Pij si è reso protagonista del sequestro di numerosi soldati e civili israeliani rapiti e portati sulla striscia di Gaza, come dimostrano alcuni video condivisi sui social dai terroristi.
Sequestri e raid sulle ambulanze: tutti gli orrori di Hamas
Cos'ha detto la Cina
L’ultima nazione a reagire agli sviluppi in Medio Oriente è stata la Cina. Pechino si dice “profondamente preoccupata per l'attuale escalation di tensione e violenza tra Palestina e Israele” e richiama "le parti pertinenti a mantenere moderazione e calma, a fermare immediatamente gli scontri, a proteggere i civili e a impedire alla situazione di avviarsi verso un deterioramento".
Nel giorno più nero la sveglia sotto i razzi, le sirene senza sosta e le corse nei rifugi. Omicidi e sequestri dei terroristi di Hamas. Oltre ogni possibile immaginazione, Israele è ferita come non mai mentre Hamas festeggia la morte di centinaia di ebrei e migliaia di feriti. Fiamma Nirenstein l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Oltre ogni possibile immaginazione, Israele è ferita come non mai mentre Hamas festeggia la morte di centinaia di ebrei e migliaia di feriti. È stato un disastro, le difese del mitico esercito di Israele sono crollate. I missili hanno colpito e i terroristi hanno insanguinato quasi tutto il territorio nazionale. Tel Aviv e Gerusalemme sono finite nei rifugi. Il sud si è coperto di morti e feriti. È stato il giorno della sorpresa, dello stupore anche se adesso nell'inizio della nuova impresa «Spade d'acciaio» combatte duramente per non subire mai più un simile sfregio. Ci sono stati eroi, la gente ha combattuto contro un furioso assalto, programmato per mesi, chissà con quanto aiuto, soldi, uomini dell'Iran e dei suoi amici. Ma anche se in queste ore Israele, come ha detto Netanyahu, è in una autentica guerra di difesa che «ferma l'attacco, punisce i responsabili, dissuade chi ambisce a unirsi a Hamas».
Sono corsa una decina di volte nel rifugio al suono della sirena con parte della mia famiglia. Siedi nella semioscurità e senti le esplosioni, poi si spengono e puoi uscire. Pensavo nella stanzetta polverosa a una neonata a Kfar Aza, nel nord. Ha pianto otto ore da sola, finché qualcuno l'ha trovata nella polvere di una casa vandalizzata. I suoi forse sono ostaggi o ammazzati o impazziti di paura quando dalla Striscia sono arrivati su un camion nel loro villaggio un centinaio di terroristi urlanti, con i kalashnikov, una torma selvaggia, con l'ordine di Ismail Hanye dal Qatar e di Yehie Sinwar e di Muhammad Deif da Gaza di «uccidere quanti più ebrei possibile» e di rapire, terrorizzare, picchiare. Quella bambina ignara e disperata è per me il simbolo di una giornata simile forse soltanto a quell'Yom Kippur di un giorno e 50 anni fa, nel 1973, quando mentre la gente d'Israele andava al tempio, fu aggredita da tutte le parti, per poi vincere miracolosamente Egitto e Siria, ma prima perse migliaia di ragazzi. Le sirene furono l'inizio di un incubo. Hamas e la Jihad Islamica si sono ripassati parecchie volte quella vicenda.
Alle 6 comincia a scuotersi di singulti il mio telefonino, cosa vuoi così presto? Gli chiedo ancora mezza addormentata. La risposta mi sveglia subito, una salva di missili su quasi tutta Israele. Due anni fa la sirena urlò solo un paio di volte a Gerusalemme, in genere la popolazione araba limita gli spari palestinesi, per ora sembra solo la solita sventola di razzi, la solita esclamazione insensata sulla Tempesta, come ha chiamato la sua guerra Deif, il capo militare di Hamas. Ma qui le sirene sono fioccate una dopo l'altra, come in tutta Israele, una follia. Ci telefoniamo stupefatti. Al solito Hamas presenta le sue operazioni come gloriose battaglie religiose per salvare la Moschea di Al Aqsa. Anche stavolta, e come al solito al Aqsa non c'entra niente.
Le corse verso il rifugio si sono fatte frequenti in mattinata: il rifugio è polveroso, indispensabile quanto tedioso, senti i tonfi e non puoi fare niente, non c'è nemmeno una bottiglia di minerale, manca una seggiolina, stai per terra, cerchi di sorridere per non spaventare gli astanti, vuoi solo capire quanto puoi uscire ma qui la radio e il telefono non prendono. Durante la giornata diventa sempre più evidente che Hamas gioca per la prima volta una doppia strategia: i missili, con la capacità tecnologica di colpire Tel Aviv e Gerusalemme. E poi le stragi dirette, compiute a mano dai terroristi: a Beeri, Ofakim, Magen, Sofa, Nir Itzkach, Nahal Oz e altri kibbutz e villaggi. Orde con armi automatiche sono arrivate tutta la giornata su auto e camion. La radio e la tv fra una sirena e l'altra trasmettevano le telefonate disperate della gente assediata dentro le case, mentre i palestinesi davano la caccia agli abitanti. Un gruppo di varie centinaia di giovani riuniti nel deserto per una festa, è fuggito mentre gli sparavano addosso: andava, tornava nel deserto come anatre-bersaglio in uno stagno, alcune decine sono spariti, forse rapiti o uccisi. I terroristi hanno rubato carri armati e veicoli militari e ucciso tutti i soldati di guardia in una postazione vicina a Gaza; a Ofakim, a Sderot si sono scatenati, avidi di uccidere e di portarsi via quanti più prigionieri. Nella sala da pranzo del kibbutz Beeri si sono ancora 50 prigionieri di Hamas. Il sangue è scorso a fiumi. Gli ostaggi sono centinaia: vecchiette caricate su motociclette, giovani e ragazze legati, sanguinanti, col mitra puntato alla tempia, trascinati, picchiati. È un trauma ancora indefinito, un'ansia sconosciuta, per cui anche il capo dell'opposizione ha dichiarato che è pronto a formare un governo di coalizione: Israele si sente messa a rischio, beffata. E il lutto è grande: tutto l'epos è in crisi, anche se già si conoscono molte storie di resistenza eroica.
Ma come è potuto accadere tutto questo, l'uno chiede all'altro? L'Iran ha aiutato a programmare la maggiore operazione che Hamas, con la Jihad abbia mai intrapreso? La risposta logica è certa e la sua dichiarazione di sostegno si unisce alla ferocia e al razzismo che ieri ha avuto una sua rappresentazione plastica. Adesso resta la guerra. Occupare Gaza? Lasciare di nuovo in piedi Hamas che solo ieri ha cosparso Israele di sangue e lutto? Si discute, mentre intanto si cerca di distruggere le strutture principali. Ma non basta. La deterrenza non è mai sufficiente. Ci vuole la prevenzione.
Deif, il "fantasma". L'anima di Hamas dietro l'escalation. Il capo militare degli integralisti da 20 anni è nel mirino degli 007 israeliani Riapparso ieri in video per rivendicare. Francesco De Remigis l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Lui ha rivendicato gli attacchi. Lui la mente dietro la nuova strategia. Lui, oggi, a cantar vittoria. Restando nell'ombra, entrando nella leggenda. Mohammad Deif, 58 anni stimati, capo dell'ala militare di Hamas, è il «gatto dalle nove vite» della vecchia guardia della resistenza armata. Un fantasma riapparso ieri in video per rivendicare l'«Alluvione».
Quattro telefoni fissi sulla scrivania. Sfocatura sulla sagoma del corpo. Voce calma. Niente slogan truculenti. Non è tipo che grida o inneggia ad Allah ma un sanguinario miliziano, leader mutilato solo nel fisico, scampato a una decina di raid del Mossad. Da vent'anni nel mirino degli 007 israeliani. Inafferrabile, sempre nascosto. Avvezzo ai travestimenti. Mascherato quand'è stato necessario spostarsi da un rifugio a un altro, ha continuato ad agire nell'ombra. Sopravvissuto ai repulisti dal cielo perdendo un occhio, moglie e figli, finendo (forse) in sedia a rotelle, è un «revenant» del braccio militare di Hamas. Leggenda vivente nella Striscia, ha capito come mescolare la scuola delle Brigate Qassam (che contribuì a strutturare con razzi e bombe) alle nuove potenzialità hi-tech offerte dal sempre più stretto alleato: l'Iran. La maggior parte delle armi proviene infatti dalle forze al-Quds dei pasdaran. Droni, missili Qassam, R-160, M 302D, M-302B, J-80, M-75; e i Fajr 3 e 5.
Deif, dopo l'ascesa, ha cambiato stile ma non obiettivi. E chi pensa che l'assalto di ieri sia l'ultimo tassello, una sorta di canto del cigno, sbaglia. Anche il leader politico di Hamas, Haniyeh, lo considera il primo traguardo di un nuovo corso; «guerra» con un ruolo più centrale di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Bisogna però riavvolgere il nastro al 2021 per capire l'evoluzione tattica del «fantasma» di Gaza. Morto l'allora stratega dei missili, Abu Harbid, boss del nord della Striscia, Deif ha preso in mano l'organizzazione. In quel frangente Hamas chiese aiuto agli ayatollah, e Haniyeh (rieletto n°1 del partito per 4 anni) inviò una lettera alla Guida Suprema Khamenei per «l'immediata mobilitazione della comunità musulmana, araba e internazionale per costringere il nemico sionista a porre fine ai crimini». Deif aveva già fatto ampliare la rete di tunnel e cambiato i metodi di comunicazione. Rimpolpò le milizie. Si stima che da allora Teheran abbia versato a Hamas 100 milioni di dollari l'anno. Ma il sostegno tecnico e finanziario non bastava a sfondare Iron Dome e penetrare nei villaggi israeliani. Quindi? Basta girare con i kalashikov come rabdomanti. Serviva infiltrarsi, sbarbarsi se necessario. E colpire all'unisono. Senza cellulare né pc, spaesando gli israeliani. L'ultima e unica foto di Deif (erede del cervello degli attacchi suicidi anni Novanta) è del 2001, quando uscì da un carcere dell'Anp. Dal 2015 è nella lista dei terroristi del Dipartimento di Stato Usa.detto attraverso emissari. Con una svolta dopo il 2021.
Deif ha giustificato l'operazione di ieri col rifiuto di Israele di «liberare i prigionieri». Ma dietro c'è un piano a più tappe e con più attori. Sono passati dieci anni da quando il generale israeliano Giora Eiland, ex consigliere per la sicurezza, diceva al Washington Post che «chi decide dentro Hamas è Deif». Oggi più che mai è lui a dar le carte. Pure il riavvicinamento con Hezbollah è in corso. E se è vero che un rapporto degli 007 israeliani parlava giorni fa di attività più intense del solito nella Striscia, forse è stato sottovalutata la «svolta tecnologica» di Hamas. Mascherata, celata dietro diversivi e zero urla di battaglia. Niente fino ai colpi in serie: fino alla penetrazione nelle città con gli infiltrati. Al massimo messaggi audio registrati da Deif per dar indicazioni ai suoi o ultimatum al Mossad. Dal primo audio noto del 2003 in cui giurava «La vostra vita sarà un inferno», all'avvertimento del maggio 2021, in cui «l'inafferrabile» promise a Israele che avrebbe pagato un «prezzo pesante» se non avesse soddisfatto le richieste. Lì ruppe il silenzio per la prima volta in sette anni. Ieri in video, circondato dall'aura mitologica dovuta alle capacità di sopravvivenza, riecco il non-volto di Gaza. Vivo, e sempre più leader.
A casa nostra sinistra e grillini da sempre coi nemici di Israele. Alberto Giannoni l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Da D'Alema a Di Battista, simpatie antiche. Fratoianni e Conte timidi nella condanna, Ovadia: conseguenza della colonizzazione
È colpa anche nostra, della destra, è colpa di Bibi Netanyahu. È colpa di Israele. A fine giornata Moni Ovadia non si vergogna di dirlo: «È la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione».
Dopo il terribile attacco orchestrato ieri da Hamas, la sinistra non trova le parole. E fa fatica a trovarle oggi perché sono sbagliate le parole che ha usato per una vita, colpevolizzando Israele e chiudendo un occhio - o entrambi - suoi nemici. I 5 Stelle sono «preoccupatissimi» fa sapere il capo Giuseppe Conte, che non condanna espressamente gli attacchi, ma invoca «il dialogo». Forse coi terroristi. Nicola Fratoianni di «Sinistra Italiana» è più sgamato: «La condanna non può che essere ferma» concede, ma garantisce che la guerra è «frutto della nostra ignavia». Nostra.
Di fronte alla mattanza di ieri arriva la condanna «esplicita» di Maurizio Landini della Cgil, e l'Anpi definisce «folle» l'attacco di Hamas. C'è di tutto nel magma della sinistra. Ma nella galleria dei suoi orrori ideologici un posto importante ce l'ha la aperta simpatia per gli odiatori di Israele. «La penso come Hamas» rivendicò nel 2021 Michela Murgia, ora scomparsa ma già assurta al ruolo di sacerdotessa del progressismo nostrano. Rispose incredula la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello: «Significa sostenere il terrorismo islamista». Hamas è un movimento antisemita, omofobo, dedito per statuto alla distruzione degli ebrei. «Stai scherzando?» chiese alla Murgia il suo interlocutore. «Non scherzo mai su Gaza» rispose solenne la scrittrice.
Non era isolata. Alessandro Di Battista è finito su Al Jazeera, che riportava compiaciuta il suo «ragionamento». L'ormai ex «enfant prodige» grillino - fisso in tv - non faceva che argomentare così il suo «no» alle armi all'Ucraina: «Allora mandiamole anche ai palestinesi». L'ostilità anti-Israele è una costante del grillismo. Non a caso la deputata Stefania Ascari ha partecipato a Malmö alla «Conferenza europea dei palestinesi», salutata con soddisfazione da «Quds News Network», agenzia del mondo pro-Hamas. E Ascari ha ricevuto alla Camera un personaggio Mohammed Hannoun, vicino alla «resistenza» palestinese, ritratto in bella foto con Laura Boldrini, ma - si scrisse senza smentita - ricevuto dallo stesso Fratoianni. E un anno fa il senatore rossoverde Tino Magni, con Di Battista, figurava fra gli aderenti a «Gerusalemme è nostra», evento allestito - denunciò l'ex sottosegretario Ivan Scalfarotto - «da referenti di Hamas in Europa».
Da quasi 60 anni la sinistra italiana ha voltato le spalle a Israele. Ma lo stesso ha fatto quella inglese con Jeremy Corbyn, o il brasiliano Lula. Il Pci lo fece per obbedienza alla casa madre sovietica e per mille rivoli quell'ostilità è passata dalle sezioni alle piazzate tv di Michele Santoro («il fondamentalismo ha preso il posto del comunismo» ha sentenziato) ed è arrivata ai centri sociali, alle retrovie del 25 aprile, giù giù fino ai cortei in cui sono state bruciate le stelle di David e intonati slogan antisemiti. E ora si teme che col pretesto della reazione si scatenino gli antisionisti rossi, neri e populisti.
Minimizzare gli attacchi, condannare la reazione israeliana. Così va da sempre a sinistra. Due mesi fa il segretario del Prc Maurizio Acerbo ha accusato: «Italia complice di Israele», con tanta «solidarietà» alla «resistenza palestinese». La resistenza.
Nel 2006 l'allora ministro Massimo D'Alema si era fatto ritrarre a braccetto di un deputato di Hezbollah, sigla paramilitare sciita che oggi sostiene gli attacchi. Teorizzava, il «leader maximo», che Hamas dovesse essere riconosciuto come interlocutore: «È un movimento politico che ha vinto una delle poche elezioni nel mondo arabo». Sosteneva, D'Alema, che la sinistra avesse tradito i palestinesi. A tutto ciò ha risposto idealmente il rabbino Giusppe Laras: «La sinistra ha tradito gli ebrei», si legge nel suo testamento. Alberto Giannoni
Chiedete scusa a Israele. Hamas attacca e svela l’ipocrisia dei progressisti italiani, da sempre filo-palestinesi e contro Tel Aviv. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it l'8 Ottobre 2023
Diciamocelo chiaramente: l’Italia è sempre stata tra gli Stati più filo-palestinesi del mondo occidentale. Era l’attuale direttore di Libero, Daniele Capezzone, ad affermare come la sinistra del Bel Paese (ed anche pezzi della destra) spendessero grandi parole per gli ebrei che hanno perso la vita durante l’Olocausto (Giorno della Memoria), per poi però dimenticarsi clamorosamente degli ebrei di oggi, quelli che combattono da quasi ottant’anni contro i fondamentalismi islamisti del Medio Oriente.
Israele invasa
Nel corso degli anni, abbiamo avuto una catena infinita di dimostrazioni, all’improvviso mascherate nella giornata di ieri, dopo la storica incursione dell’organizzazione terroristica Hamas nello Stato di Israele. Sulle colonne di questo sito, la situazione è stata raccontata nel dettaglio, grazie al contributo del giornalista Michael Sfaradi, da anni impegnato a raccontare la guerra contro i terroristi islamici direttamente sul campo.
Ma ora, tornando in Italia, vediamo come esista – pure sul fronte Palestina-Israele – quell’eterno doppiopesismo che i progressisti hanno più volte applicato contro la destra su altri fronti. Per esempio, era notizia di pochi mesi fa l’uccisione di un giovane ragazzo palestinese, dopo che quest’ultimo aveva dichiarato la sua omosessualità. Una tragedia che ha mobilitato pochi quotidiani occidentali tendenti a sinistra: un silenzio che difficilmente avrebbe riguardato invece Tel Aviv, se il caso fosse accaduto a parti inverse.
Doppiopesismo anti-Israele
Ma i soloni italiani anti-Usa ed anti-Israele sembrano svegliarsi solo oggi. Non una parola veniva spesa pochi anni fa, nel 2018, quando Gaza lanciava un’offensiva di 400 missili contro le città israeliane del sud, provocando decine di morti e feriti. Uno scenario, ovviamente in misura minore, che ha riguardato anche l’attacco di ieri, a cui si è aggiunta poi l’invasione via terra. Ebbene, in quel contesto, l’unico a denunciare i crimini di Gaza fu Antonio Saccone (Forza Italia), che rivolgeva una denuncia all’Unione Europea per “il silenzio assordante delle istituzioni, in particolare dell’Alto Rappresentante della Politica Estera, Federica Mogherini”.
Così come poche erano le accuse rivolte verso Hamas, che da sempre utilizza le strutture civili per operazioni missilistiche contro gli israeliani (che secondo la Convenzione di Ginevra sarebbero crimini di guerra), oppure lo sfruttamento della propria popolazione come scudo umano, per poi far valere la posizione in sede Onu contro Israele, colpevole di crimini internazionali.
Nel frattempo, ai tempi del Pd a guida Enrico Letta, era l’ex Presidente del Consiglio italiano a sparare a zero contro Tel Aviv, dopo il bombardamento di quest’ultima su Gaza. Ecco che il nostro Paese si è mobilitato: una trentina di manifestazioni in un weekend per esprimere solidarietà alla popolazione palestinese. In coro, Partito Democratico e Movimento 5 Stelle accusavano il governo israeliano di “reazione sproporzionata”, un “qualcosa che va oltre la legittima difesa”. Ecco, avete capito bene. Se, da una parte, per Gaza il tutto passa in sordina; la stessa cosa non succede per le forze militari israeliane.
Eppure, sotto questo profilo, l’alleanza filo-palestinese di piddini e pentastellati ha trovato altri punti in comune. Tra queste, su tutte, la mozione cinquestelle per il riconoscimento italiano dello Stato di Palestina, presentata dal senatore Gianluca Ferrara, capogruppo della Commissione Esteri in Senato. Una proposta che è sempre piaciuta anche all’attuale segretaria del Nazareno, Elly Schlein, che nel dicembre 2014 esultava per il passaggio della risoluzione proprio sul riconoscimento dello Stato palestinese (498 voti a favore contro 88 contrari).
Sì, la stessa Elly Schlein che poche ore fa pontificava contro Hamas e lanciava messaggi di solidarietà al governo ed alla popolazione di Israele. Insomma, aveva ragione Daniele Capezzone: si ricordano degli ebrei solo quando sono morti. Quando vivi, sempre un po’ meno.
Matteo Milanesi, 7 ottobre 2023
Nell'orrore del kibbutz spunta anche il vessillo nero dei tagliagole dell'Isis. Filippo Jacopo Carpani il 12 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il vessillo dell'Isis è stato trovato dopo la liberazione del kibbutz Sufa. Fin da subito, la brutalità dell'azione di Hamas ha ricordato i metodi degli uomini in nero che hanno sconvolto il mondo
La brutalità dell’attacco di Hamas contro Israele ha riportato alla mente immagini del decennio scorso, quando il Medio Oriente è stato sconvolto dal conflitto con lo Stato islamico. Nelle prime ore del conflitto tra Hamas e Israele, quando sono arrivati i primi rapporti sui massacri di civili, ufficiali degli Stati Uniti hanno subito parlato di “Isis-like brutality” e i media israeliani hanno diffuso il semplice mantra “Hamas = Isis, Isis = Hamas”, già usato dal primo ministro Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite nel 2014.
I massacri villaggio per villaggio: la mappa degli orrori di Hamas
In molti hanno criticato queste parole, sottolineando che i terroristi palestinesi combattono per la libertà della loro terra e che non hanno nulla a che fare con lo Stato islamico. Su X, però, sono state diffuse foto del kibbutz Sufa, una delle comunità prese d’assalto da Hamas. Tra gli oggetti recuperati dai corpi dei miliziani, vi è anche una bandiera dell’Isis, il tristemente indimenticabile vessillo nero con un cerchio bianco al centro e la scritta “Non c'è dio se non Allah”. Un indicazione, forse, che Hamas ha deciso di imitarli nella loro campagna di massacro contro gli ebrei. “Non abbiate dubbi: sono gli stessi assassini, le stesse bestie, gli stessi animali”, ha scritto sui social l’ex ambasciatore israeliano Joshua Zarka. “Il mondo deve affrontare questo male e sconfiggerlo, esattamente come ha sconfitto l’Isis”, aggiunge il rappresentante dello Stato ebraico in Azerbaijan George Deek.
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Comparso all’apice di un periodo di attentati che ha insanguinato l’Europa, l’Isis si era subito distinto dalla più vecchia al-Qaeda per l’estrema efferatezza dei suoi miliziani. Tutti ricordiamo i video delle esecuzioni che hanno fatto il giro dei social network e delle televisioni di tutto il mondo: uomini in nero che tagliavano le gole di prigionieri vestiti di arancione. Per non dimenticare il pilota georgiano chiuso in una gabbia e bruciato vivo, o i villaggi di minoranze etniche in Siria e Iraq completamente spazzati via.
L’Isis e Hamas non sono mai stati alleati. Il Times of Israel, nel 2019, ha scritto che lo Stato islamico vede i terroristi palestinesi come degli “apostati”: li incolpa di non aver impedito il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte degli Stati Uniti e di aver partecipato alle elezioni nei territori di Gaza e West Bank, mettendo la legge umana sopra quella di Dio. Il ramo egiziano dell’Isis ha anche dichiarato guerra ad Hamas nel 2018, colpevole di aver cercato di migliorare le proprie relazioni diplomatiche con Il Cairo. Un anno prima, l’organizzazione palestinese ha arrestato centinaia di sostenitori dello Stato islamico nel proprio territorio, a seguito di un attentato suicida contro un posto di blocco della polizia.
Mohammad Deif, chi è il "fantasma di Gaza" dietro l'attacco di Hamas sfuggito più volte a Israele. Il comandante militare di Hamas è la mente della strategia del lancio di razzi contro Israele. Ecco l'identikit del nemico pubblico numero uno del governo israeliano. Federico Giuliani l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'identikit di Mohammad Deif
Il fantasma di Gaza
Il nemico pubblico numero uno di Israele
Lo hanno soprannominato il "fantasma di Gaza" perché pochi hanno contatti diretti con lui al punto che esiste persino chi dubita sulla sua reale identità. È anche il nemico pubblico numero uno di Israele, che nel corso dell'ultimo ventennio ha più volte tentato di ucciderlo senza mai riuscirci. Si chiama Mohammad Deif e in queste ore è finito nuovamente sotto la luce dei riflettori. Impossibile che non accadesse, visto che stiamo parlando del comandante militare di Hamas. Lo stesso che sabato scorso ha annunciato l'inizio di un'operazione militare senza precedenti contro lo Stato israeliano. Durante la controffensiva israeliana nella Striscia di Gaza, pare che la sua casa sia stata distrutta. Nella deflagrazione, hanno spiegato fonti palestinesi, avrebbero perso la vita il fratello e altri membri della sua famiglia, compresi il figlio e la nipote. Altri parenti sarebbero intrappolati tra le rovine dell'edificio. Di Deif non si hanno però notizie.
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L'identikit di Mohammad Deif
Partiamo dal nome: Mohammad Deif. Impossibile sapere se questo sia il suo vero nome. Alcuni sostengono che sia nato come Mohammed al-Masri e che abbia assunto l'attuale nome di battaglia da un personaggio che aveva interpretato a teatro ai tempi dell'università. Certo è, invece, che Deif è la mente della strategia del lancio di razzi contro Israele, nonché della costruzione dei tunnel per infiltrare uomini e armi.
Viene descritto come il più inflessibile oppositore al cessate il fuoco con Israele e, come detto, ha rischiato di essere eliminato dai suoi nemici in svariate circostanze. In un raid nel 2014 ha perso la moglie e il figlio di sette mesi, mentre il più recente tentativo (conosciuto) di eliminarlo risale all'operazione Guardiano delle Mura nel 2021.
Il fantasma di Gaza
Deif, o chi per lui, è un fantasma. La sua ultima foto risale addirittura al 2001, 22 anni fa, quando fu rilasciato da un carcere dell'Anp (Autorità nazionale palestinese). Sappiamo però che è nato a Khan Younis più o meno 60 anni fa. E che da giovane ha frequentato la facoltà di Scienze all'Università islamica di Gaza, amava molto fare l'attore e aveva persino fondato un gruppo chiamato "The Returners" (coloro che tornano), in riferimento al desiderio dei palestinesi di tornare nella terra in cui vivevano prima della nascita dello Stato di Israele.
È quindi diventato un militante di Hamas - dopo l'iniziazione con la Fratellanza musulmana, di cui il movimento di resistenza islamico è una costola - prestando il proprio volto nei video di propaganda del gruppo. Nel 1990 subisce il primo arresto dagli israeliani, che però lo rilasciano dopo poco. Da quel momento in poi inizia a partecipare attivamente alla creazione delle Brigate al-Qassam, dimostrando un'abilità particolare con le armi, in particolare con razzi e bombe.
Il nemico pubblico numero uno di Israele
Nel 1996, Deif assume un ruolo sempre più centrale nell'ideazione degli attacchi contro il "nemico sionista". Sparisce quindi dalla circolazione, ma nel 2002 riappare come leader del braccio armato di Hamas, diventando, secondo l'intelligence israeliana, la mente di tutti i più sanguinosi attentati suicidi contro autobus e ristoranti israeliani degli anni Duemila.
In quel periodo il fantasma di Gaza sopravvive a numerosi tentativi di ucciderlo, che lo avrebbero lasciato cieco da un occhio e su una sedia a rotelle. I palestinesi lo considerano un eroe, anche per il suo stile di vita frugale. Sembra che Deif mantenga un basso profilo e viva nascosto tra la gente, muovendosi con diverse identità e passaporti. Finora è riuscito a sempre a farla franca ma il cerchio attorno a lui potrebbe stringersi sempre di più.
Uccisa Jamila al-Shanti: chi era la "vedova nera" di Hamas. Storia di Filippo Jacopo Carpani su Il Giornale giovedì 19 ottobre 2023
L’esercito israeliano ha ucciso in un raid aereo
su Gaza Jamila al-Shanti, la prima donna a essere eletta nell’ufficio politico
dell’organizzazione terroristica palestinese e vedova del suo cofondatore, Abdel
Aziz al-Rantissi, eliminato da Israele nel 2004. La morte della “vedova nera di
Hamas” è un grande successo per la “strategia della decapitazione” delle Idf,
che punta all’uccisione delle alte sfere del movimento islamico.
Anche il Consiglio legislativo palestinese ha confermato la sua uccisione,
sottolineando in un posto su Facebook che la donna ha trascorso una vita
dedicata alla “causa palestinese” e che ha avuto “un ruolo importante e notevole
nel lavoro parlamentare, educativo, politico, di difesa ed educativo”.
Nata nel 1955 nel campo profughi di Jabalia, ha conseguito un dottorato di
ricerca in lingua inglese e ha lavorato come docente nell’Università islamica di
Gaza, l’ateneo distrutto dai bombardamenti israeliani che veniva utilizzato come
centro di addestramento e produzione di armi. Nel corso degli anni passati tra
le fila del movimento terroristico, Jamila ha vissuto nella Striscia e in
Cisgiordania, oltre a trascorrere un periodo nelle carceri dello Stato ebraico.
Ha praticamente fondato il movimento femminile di
Hamas e la sua carriera nell’organizzazione era vista in modo positivo dai
vecchi leader. L’anziano dirigente Suheil al-Hindi aveva sottolineato che “il
nostro movimento rispetta le donne palestinesi, la loro lotta, il loro eroismo e
i loro sacrifici”. Dopo la sua elezione nel 2021, Jamila al-Shanti ha rilasciato
un’intervista, in cui ha dichiarato che le donne non sono state “finora
ufficialmente nella direzione politica di Hamas, ma abbiamo spesso partecipato
all’organizzazione e alla presa di decisioni. Essere direttamente partecipi
dell’attuale leadership nel prendere decisioni è un bel cambiamento, perché
dimostra che le donne hanno identità e potere sulla scena politica palestinese”.
Jamila al-Shanti è solo l’ultima di una serie di leader di Hamas eliminati da
Israele dall’inizio del conflitto.
Fino ad ora, la rappresaglia di Tel Aviv ha raggiunto bersagli di alto profilo come Ali Qadi, il capo dell’unità speciale “Nukhba”, il coordinatore degli attacchi a due kibbutz Bilal al-Kedra, il responsabile della Sicurezza nazionale Jihad Muheisen e il leader dell’intelligence Khan Younis. L’obiettivo numero uno di Israele è Yahya Sinwar, l’uomo al vertice del movimento terroristico. L’altro grande ricercato è il comandante delle brigate al-Qassam Mohammed Deif, il “fantasma” sfuggito già a una mezza di tentativi di eliminazione.
Il raid a Entebbe, gli ostaggi liberati e il sacrificio di Netanyahu: una storia israeliana. Il raid condotto dai commandos israeliani agli ordini di Yoni Netanyahu a Entebbe è una delle più audaci operazioni militari della storia recente. Così la Sarayet Matkal liberò un centinaio di ostaggi israeliani caduto in mano dei terroristi palestinesi. Davide Bartoccini il 19 Ottobre 2023 su Il Giornale.
3 Luglio 1976, cieli dell'Uganda al tramonto. Un commando di incursori israeliani in uniformi mimetiche a "lucertola" armati di Ak-47, tutti membri del Sarayet Matkal, l'unità speciale comandata direttamente dallo Stato maggiore, studia le foto scattate da un agente del Mossad sotto copertura. Ripassa il piano a bordo di una formazione di tre capienti aerei da trasporto C-130 Hercules. Sono tutti pronti a piombare in segreto sulle pista dell'aeroporto di Entebbe, per condurre uno dei raid più audaci della storia. Obiettivo: liberare più di 105 ostaggi trattenuti da terroristi filo-palestinesi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che hanno fatto scalo in Africa. Tutti passeggerei del volo Air France 139, dirottato sulla tratta Tel Aviv/Parigi la mattina del 27 giugno. È una domenica.
Scalo a Entebbe, un colpo fortuna
Considerato per quasi mezzo secolo una delle liberazioni di ostaggi più audaci di sempre insieme a Nimrod (operazione eseguita dallo Special Air Service britannico sul suolo patrio), il raid di Entebbe si è rivelato essere una missione condizionata tanto dalla preparazione del distaccamento speciale del Sarayet Matkal, l'unità condotta dal tenente colonnello Yonathan Netanyhau, fratello dell'attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, quanto dall'ingrediente più essenziale nel separare la vita dalla morte, il successo dal fallimento: la fortuna.
Bocciate dall'Aman, la sezione intelligence militare, tutte le altre opzioni sul tavolo - un lancio di paracadutisti su vasta scala e un raid anfibio che avrebbe visto un team di incursori della Shayetet 13 attraversare il Lago Vittoria per raggiungere Entebbe via acqua dal Kenya -, gli alti papaveri militari di Gerusalemme che collaborano a stretto contatto con le informazioni raccolte dal Mossad, decisero per il lancio di un'incursione via aria da completare in breve tempo e grazie alla conoscenza dello scalo aereo di Entebbe. Scalo che era stato, fortuna del caso, in parte costruito da una ditta israeliana dimostratati in grado di fornire all'intelligence militare tutte le piante del terminal dove erano tenuti gli ostaggi. Al fine di consentire al commando lo studio del terreno di scontro nei minimi dettagli, come racconta Iddo, l'altro fratello di Bibi Netanyahu, in Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni (Libreria militare editrice).
Solo prigionieri "ebrei"
Tra i 248 passeggeri presenti a bordo dell'Airbus 300 operato dalla compagnia di bandiera francese e dirottato da quattro terroristi, due palestinesi e due tedeschi appartenenti all'organizzazione armata oltranzista Baader-Meinhof, tutti gli ostaggi che non sono di nazionalità israeliana e credo ebraico vengono separati e in un secondo momento liberati per lasciare prigionieri di una dozzina di uomini armati i soli "ebrei".
Il presidente dell'Uganda Idi Amin, connivente con suoi soldati, e giunto appositamente da Kampala per monitorare la situazione, garantisce per l'incolumità degli ostaggi che devono essere merce da scambiare con 40 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e altri 13 detenuti in Francia e Svizzera, ma condivide le ragioni del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nei confronti dello Stato d'Israele.
A Gerusalemme intanto, il commando della Sarayet Matkal e i piloti degli aerei da trasporto tattico dell'Israeli Air Force continuano ad addestrarsi secondo i piani previsti dall'azione. Per alcuni ufficiali dell'Unità il commando è "pronto", pensano che "andrà tutto bene" e il piano funzionerà. Altri sono meno fiduciosi. Sono convinti che serva un miracolo per entrare in un aeroporto lontano 4mila chilometri, eliminare un gruppo di terroristi armati, dissuadere i soldati ugandesi a presidio, e portare via 105 ostaggi vivi. Alla Knesset valutano il 25% delle perdite, ma il "via" all'operazione arriva. È per la notte tra il 3 e il 4 luglio, data in cui i terroristi minacciano di iniziare ad uccidere gli ostaggi se non verranno accolte le loro richieste.
Operazione Fulmine al via, commandos su Entebbe
Gli Hercules con la stella sei punte volato a meno di mille piedi di altezza non apparire sui radar. Il primo, quello che trasporta il commando principale con Yoni Netanyahu e 31 incursori, è carico fino all'orlo. Trasporta con sé una limousine della Mercedes uguale a quella usata dal presidente ugandese, e due Land Rover che serviranno a raggiungere il terminal con velocità una volta che il C-130 avrà toccato terra e abbassato la rampa posteriore. Si fingeranno un convoglio dell'entourage presidenziale per non far aprire il fuoco agli ugandesi. L'inganno funzionerà fino a un certo punto; in ogni caso, in una manciata di secondi e con pochi colpi sparati il commando guidato da Netanyahu è dentro il vecchio terminal dopo aver eliminato i primi terroristi. Gli ostaggi sono avvertiti attraverso un megafono: "Siamo israeliani, siamo dello tzahl!" dice una voce gracchiante.
Poco dopo il secondo C-130 con un mezzi di trasporto e paracadutisti della Brigata Golani tocca terra, abbassa a sua volta la rampa per procedere secondo il piano: creare un perimetro sicuro e distruggere tutti i MiG dell'aviazione ugandese che potrebbero decollare e andare a dare la caccia ai C-130 in fuga e carichi di civili. Ne distruggeranno 11.
In 57 minuti di concitazione e sparatorie, di esplosioni sulla pista e colpi sibilanti sparati con il silenziatore dalla Sarayet, tutti gli ostaggi presenti nel terminal sono in aria al sicuro sui C-130, diretti a Nairobi. Sono 101. Tre non ce la faranno dopo essere stati feriti a morte. Uno è ricoverato a Kampala e verrà assassinato su ordine palestinese. I terroristi sono stati neutralizzati. Giacciono a terra anche 35 soldati ugandesi che hanno aperto il fuoco sui commandos israeliani, che hanno perso solo un uomo, il loro comandate, Yoni Netanyhau. Le forze di Difesa israeliane hanno compiuto l'impossibile, un'impresa definita "esemplare" al costo di un martire che verrà per sempre osannato nella storia dello Stato Ebraico che attende i suoi eroi sulla pista dell'aeroporto Ben Gurion tra le lacrime e la gioia.
Oggi come ieri
I terroristi palestinesi sembrano concentrarsi particolarmente sugli ostaggi di cittadinanza israeliana, su quelli di religione ebraica, e su coloro che hanno avuto legami con l'esercito o con il Mossad. Al tempo di Entebbe, infatti, i prigionieri più attenzionati erano proprio due ostaggi che avevano fatto parte del Mossad e un ex-ufficiale che aveva prestato servizio dell'esercito francese, allora reduce dalla complessa fase di decolonizzazione. Oggi gli aguzzini di Hamas che detengono gli ostaggi nei tunnel sotterranei a Gaza - si stima siano 200 dei quali almeno 40 con doppio passaporto statunitense e un numero imprecisato di altre nazionalità - hanno già avanzato la richiesta di conoscere "informazioni" inerenti il "servizio militare attivo o passato" degli stessi. Si teme per fare una successiva divisione nello scambio che ad oggi prevede la liberazione degli ostaggi a fronte della fine di ogni bombardamento della Striscia di Gaza da parte delle forze aeree israeliane.
Non sappiamo se nelle trattative segrete sia già stata fatta menzione di prigionieri di Hamas detenuti in Israele da inserire nello scambio. Ciò che è ormai noto anche alle cronache, però, è che tutti i raid "terrestri" effettuati al confine del territorio controllato dai palestinesi avrebbero come obiettivo ultimo quelli di appoggiare e coprire infiltrazione ed esfiltrazione di agenti o incursori israeliani inviati ad acquisire informazioni per conoscere la posizione degli ostaggi.
Lo Stato ebraico è sempre stato noto per l'impegno di garantire l'incolumità dei suoi abitanti e per ferma volontà riportarli, a tutti i costi, in Israele. Se i piani di operazioni di un'audacia pari a quella qui riportata stanno aspettando un ok sul tavolo dell'Aman, e le forze speciali israeliane si stanno preparando a liberare gli ostaggi di Hamas, non possiamo ancora saperlo. Ce lo dirà la storia.
L'orrore del terrorista: "Stuprati anche i cadaveri. 10mila dollari per rapito". Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 25 ottobre 2023.
Hanno stuprato anche i cadaveri delle donne uccise. E chi aveva l'incarico di sequestrare quanti più israeliani possibile aveva anche la garanzia che sarebbe stato ricompensato con un appartamento e 10mila dollari. «A Gaza succede a chiunque porti un rapito o un catturato». I racconti dell'orrore del 7 ottobre in Israele si arricchiscono di nuovi dettagli raccapriccianti, emersi dagli interrogatori svolti dallo Shin Bet, l'intelligence che si occupa di sicurezza interna, insieme alle forze di polizia israeliane. Spezzoni di almeno sette colloqui con altrettanti estremisti sono stati diffusi dall'Esercito israeliano. E ce n'è uno che aggiunge un dettaglio raccapricciante mai trapelato finora. Il filmato raccoglie la testimonianza di un «ingegnere e soldato di Hamas», come si definisce lui stesso, che nel racconto su quanto avvenuto al kibbutz Alumim riferisce come i terroristi in azione si siano spinti oltre l'immaginabile, persino oltre gli stupri, la decapitazione di civili e bambini, «facendo sesso con i corpi morti, violando quello di una giovane donna appena uccisa». Il video, di cui fra i primi è entrata in possesso «Stand With Us», associazione israeliana no-profit che si batte contro l'antisemitismo, è emerso nonostante le fonti ufficiali israeliane siano state da subito attentissime a non diffondere particolari troppo cruenti sulla strage, per non urtare la sensibilità dei parenti delle vittime, tanto che la conferma e le immagini dei bimbi bruciati e decapitati sono arrivate solo dopo che Hamas aveva tentato di negare le atrocità. È a questo punto del racconto, quando riferisce dei cadaveri stuprati, che lo stesso terrorista ammette: «Hamas è diventata l'Isis. Non usano il cervello, sono disumani, sono animali. Violare il corpo di una ragazza morta non è umano». L'orrore è stato confermato anche da Channel 13, che aggiunge, riportando il contenuto di un altro interrogatorio: «Ci è stato detto di uccidere, decapitare e anche stuprare i corpi ammazzati». Era un ordine di Hamas.
Non è la sola ammissione postuma dei combattenti. Mentre riferiscono di come l'organizzazione della strage fosse pianificata nei dettagli, mentre spiegano che le istruzioni erano di uccidere chiunque, senza fare distinzione fra militari e civili, di decapitare le vittime e spezzar loro le gambe, di sequestrare soprattutto donne e bambini, interrogati infine sulla loro religione, su quanto queste direttive si conformino all'islam, tutti riconoscono che ai musulmani è vietato storcere un capello a donne e bimbi e che invece questa è stata da subito la strategia indicata da Hamas.
Eppure i terroristi hanno agito al grido «Allah Akbar». Colpendo intere famiglie nel sonno, sterminandole in pigiama. Un comandante del gruppo islamista - riferisce ancora un terrorista - dà in escandescenze quando lui spara su una donna già morta. Non è pietà. «Urlava perché non voleva che si sprecassero proiettili». Dovevano essere risparmiati per uccidere altri israeliani.
Uccisi due capi Hamas. Il leader (da Doha): "Ora serve il sacrificio di donne e bambini". Il Giornale sabato 28 ottobre 2023.
Nel blitz con tank e forze di terra avviato da Israele la notte di venerdì l'esercito ha eliminato due importanti esponenti militari di Hamas. Sono stati obiettivi mirati, perfettamente aderenti alla strategia, più volte annunciata dall'esercito, di alzare il tiro sui vertici politici e operativi dei miliziani. «Erano terroristi di punta del livello tattico di Hamas» ha sottolineato nel briefing mattutino con la stampa il portavoce militare Daniel Hagari «per questo la loro eliminazione rappresenta un valore aggiunto per il combattimento in atto». Il primo esponente eliminato ieri (ritenuto dall'esercito il più importante, visto il suo ruolo all'interno dell'organizzazione terroristica) è Ezzam Abu Raffa, responsabile del sistema dei missili anti tank, dei droni, della sorveglianza aerea, dei parapendii e dell'intera difesa aerea di Hamas. Una figura di spicco nel programma difensivo e offensivo della fazione palestinese al potere nella Striscia. Proprio per i suoi compiti, Abu Raffa è stato tra i protagonisti dell'attacco omicida dello scorso 7 ottobre contro Israele che ha permesso ad Hamas di superare la barriera difensiva dello Stato ebraico e piombare nei kibbutz attorno alla Striscia. Non ultimo usando i parapendii (tattica inedita nell'area) che hanno portato i miliziani armati in territorio israeliano e lanciando attacchi di droni contro le prime difese. Il secondo esponente militare ucciso è Ratib Abu Tzahiban, comandante delle forze navali della Brigata Gaza City, anche lui una pedina importante dello schieramento offensivo di Hamas. L'edificio dove si trovava Tzahiban è stato centrato con un raid dal cielo. Il portavoce militare ha ricordato che l'esponente militare di Hamas aveva programmato e comandato un tentativo di infiltrazione dal mare in Israele lo scorso 24 ottobre. Una dozzina di uomini-rana provenienti dal nord della Striscia avevano cercato di entrare nella costa di Zikim, nel sud di Israele. Ne furono uccisi 4 e il tentativo fu sventato dalle forze armate israeliane. Nle frattempo, ieri, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha chiamato i civili di Gaza alla sollevazione generale contro Israele: ««Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani». Haniyeh ha però esortato i connazionali all'estremo sacrifico standosene nei suoi uffici di Doha, in Qatar e affidando il suo messaggio al canale Al Mayadeen, una tv satellitare panaraba con sede a Beirut.
"Cacciato da Gaza per aver detto che l’esercito non colpisce civili". Storia di Domenico Ferrara su Il Giornale il 29 ottobre 2023.
«L’orrore che Hamas ha commesso non può essere giustificato da nulla». Non ha dubbi Matthias Schmale, più alto funzionario in grado Onu e capo dell’agenzia UNRWA a Gaza dal 2017 al 2021. Lui da Hamas è stato cacciato, ora lavora in Nigeria ma ancora oggi è persona non gradita nella Striscia.
Partiamo proprio da lì, cosa è successo due anni fa?
«Ero lì nel 2021 durante gli 11 giorni di guerra e alla tv israeliana avevo detto che la mia impressione era che la maggior parte degli attacchi israeliani fossero stati precisi e non avessero preso di mira deliberatamente i civili, sebbene fossero morti 250 civili, tra cui 60 bambini. Ma Hamas e altri hanno interpretato i miei commenti come se giustificassi ciò che Israele ha fatto. Per questo motivo hanno fatto pressione su di me affinché me ne andassi».
Molte persone scesero in piazza chiedendo che andasse subito via da Gaza.
Quanto pesava l’influenza di Hamas nel suo lavoro?
«Sono stato lì per quasi 4 anni e ho avuto parecchie discussioni con Hamas e li ho anche criticati nelle interviste. Penso che si possa lavorare lì per l’Onu, ma bisogna stare attenti. Hamas mi ha chiesto di andarmene perché all’epoca c'era molta rabbia.
Poiché non è una società libera e aperta, ero un bersaglio facile da incolpare».
Sul nostro giornale abbiamo parlato del report dell’Ong Un Watch sugli insegnanti dell’UNRWA che hanno esultato per l’attacco di Hamas e che invitavano a uccidere ebrei. Lei che ne pensa?
«Quando lavoravo all'UNWRA eravamo consapevoli che a volte c'erano problemi tra i nostri insegnanti. Ai miei tempi ne avevamo 9000 tra professori e presidi. Ma quello che mi chiedo è: in una scuola tedesca come si fa a sapere come la pensa un insegnante? Non si può controllare. Ma quando scopriamo che un insegnante fa qualcosa che non dovrebbe fare, come celebrare l'uccisione di altre persone, dobbiamo prendere provvedimenti disciplinari. In 4 anni ho licenziato 8 persone perché non si comportavano come l’Onu dovrebbe».
Cos’è cambiato oggi?
«La mia sensazione è che questa volta sia molto peggio. Quello che descrivono i miei ex colleghi e amici è la paura. Hanno paura di sopravvivere fino alla prossima ora, al prossimo giorno. Chi ha figli è molto preoccupato. Nessun posto è sicuro a Gaza. Nel 2021 i miei amici si sentivano ancora al sicuro nelle scuole delle Nazioni Unite, negli ospedali, ma ora nessun posto è sicuro. La mia sensazione è che si tratti di una catastrofe umanitaria sempre più grave».
Quale strategia consiglierebbe per liberare gli ostaggi?
«Negoziare, in fin dei conti il modo per liberarli è quello. O si combatte direttamente Hamas proteggendo la popolazione o si fa pressione per trattare».
Qual è la sua opinione su Hamas?
«Stanno deludendo il loro popolo. Non hanno governato bene la Striscia di Gaza. La violenza non è mai la risposta. Anche se si può avere il diritto legittimo di lottare per la propria libertà, la violenza non funziona mai. Il terrore che hanno commesso non può essere giustificato da nulla. Ma rischiano che il loro modo di lavorare e di agire non sia positivo per la popolazione. Sono convinto che se domani ci fossero le elezioni, con alternative adeguate, Hamas non andrebbe al potere. La popolazione non rispetta quello che stanno facendo». Ha collaborato Gianluca Lo Nostro
I volti del male. Israele diffonde facce e nomi dei 57 esponenti di spicco di Hamas uccisi nelle operazioni militari dopo il 7 ottobre. Ecco chi erano gli uomini del terrore. Chiara Clausi il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Israele diffonde le foto dei terroristi di Hamas uccisi fino a questo momento. L'attacco del 7 ottobre è stato uno dei più cruenti dalla nascita dello Stato ebraico. Sono tantissime le vittime in entrambi i campi. Si conta che siano morti finora 1.400 israeliani e 4.600 siano i feriti. Invece sono oltre 8mila i palestinesi ammazzati metà dei quali bambini. Ora però l'esercito israeliano reclama il diritto all'autodifesa e ha diffuso un'infografica con i volti e i nomi di una cinquantina, per la precisione 57, esponenti di spicco di Hamas uccisi dall'inizio della guerra. Ci sono Shadi Barud vice capo dell'intelligence militare dell'organizzazione terroristica. Jawad Abu Shammala ministro dell'economia di Hamas. Jamila Shanti l'unica donna dell'ufficio politico dell'organizzazione. Ezzam Abu Raffa responsabile del sistema dei missili anti tank, dei droni, della sorveglianza aerea dei parapendio e dell'intera difesa aerea di Hamas. Rateb Abu Sahiban comandante delle forze navali della Brigata di Hamas. Zakaria Abu Mu'amr, altro membro dell'ufficio politico molto vicino al leader di Hamas Yahya Sinwar. La lista è molto lunga e l'esercito israeliano accompagna la massiccia manovra su Gaza con annunci continui. Ha anche precisato di aver distrutto un gran numero di tunnel. Molti dei bersagli colpiti sono anche responsabili della mattanza al rave nel deserto. Un massacro sistematico di giovani spensierati e ignari che volevano solo divertirsi e passare qualche ora in allegria con i loro amici e con la musica. Una delle azioni più efferate mai avvenute in Israele. Questi capi di Hamas si sono macchiati di azioni orribili che hanno del disumano e devono essere considerate empie. Lo Stato ebraico ora non vuole fermarsi nella sua risposta perché si è oltrepassata una linea rossa non tollerabile. Tra gli uccisi dall'esercito israeliano c'è anche Ayman Nofel, capo del comando centrale di Hamas ed ex capo dell'intelligence militare. O Talal al Hindi un altro dei comandanti delle Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Sono nella lista pure Moaz Abdel Rahman, ufficiale dell'addestramento e Othman Hamdan, comandante delle difese aeree nel quartiere di Tel al-Hawa. Il generale di brigata israeliano Daniel Hagari, ha sottolineato che «gli abitanti di Gaza sono stati avvertiti per più di due settimane, attraverso diversi mezzi di comunicazione che devono stare lontani dagli avamposti appartenenti ad Hamas». Questo avvertimento viene continuamente rilanciato: i civili nel nord di Gaza e nella città di Gaza dovrebbero temporaneamente spostarsi a sud in un luogo più sicuro, dove possono ottenere acqua, cibo e medicinali. Ma Israele non si ferma. E la diffusione della lista dei terroristi di Hamas colpiti fa capire la determinazione con cui vuole andare avanti. I capi dell'organizzazione sono tutti pezzi grossi e sono i volti del male secondo lo Stato ebraico. Sono le facce di chi, mosso dall'odio, ha voluto infliggere una ferita mai vista prima. Una ferita che sanguinerà per molto, forse per sempre, nella memoria di chi ha vissuto o ha assistito a questo immane oltraggio. Una ferita che sanguinerà per molto, forse per sempre nella memoria di chi ha vissuto o ha assistito questo immane oltraggio.
La processione di bandiere bianche. I palestinesi in fuga mollano i jihadisti. Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale l'8 novembre 2023.
Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il Sud e portano bene in alto delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel Nord assediato da Tsahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l'Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l'episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, c'è la sensazione che la strada sia segnata: l'esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di Gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime. La sua maggiore caratteristica è la incredibile rete di gallerie: piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo acqua benzina.
Nei tunnel c'è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Muhammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a farne esplodere gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada. Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all'improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l'ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L'avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati, ogni centimetro della città è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento a Sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.
Nicola Fratoianni, "Gaza e Israele? Frutto della nostra ignavia". Una imbarazzante omissione. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
Israele sotto attacco, con l'invasione dei miliziani di Hamas. Dunque la durissima risposta, i raid aerei su Gaza. È guerra. Un bagno di sangue. Ostaggi israeliani in mano ai miliziani arabi che, con tutta probabilità, verranno utilizzati come scudi umani contro i prossimi attacchi di Tel Aviv. Il caos, insomma, è totale.
E su quanto sta accadendo, ecco arrivare le parole di Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, il quale premette: "Le immagini che arrivano da Israele e dalla Striscia di Gaza sono terribili e angoscianti. Ogni volta che si prendono di mira i civili la nostra condanna non può che essere ferma, come per l'attacco di Hamas di questa mattina. Quello che sta accadendo in queste ore in Israele e nella Striscia di Gaza è, purtroppo, ancora una volta frutto della nostra ignavia. Quella di una comunità internazionale che da troppo tempo ha scelto di voltarsi dall'altra parte rispetto al conflitto israelo-palestinese".
Israele sotto attacco, l'intervento di Putin. Morti e feriti, voci su un bilancio agghiacciante. Chi fa festa in strada
Già, Fratoianni non cita l'invasione di Israele, non si spende in riferimenti a chi ha iniziato l'attacco. Una "omissione" dall'elevatissimo peso specifico. Tant'è, a stretto giro aggiunge: "La violazione sistematica della legalità internazionale, delle numerose risoluzioni dell'Onu e l'assenza di una qualsiasi prospettiva di pace credibile alimentano estremismo e violenza. Per questo, auspicando che le armi si fermino al più presto, occorre rilanciare una iniziativa in grado di costruire una pace duratura, nel rispetto dei diritti del popolo Palestinese e della sicurezza di Israele. La comunità internazionale - conclude il leader di Sinistra Italiana - non può essere spettatrice passiva di fronte alla tragedia che si sta consumando in queste ore". Molti, tanti, troppi distinguo nelle parole di Fratoianni. E una vergognosa omissione.
Hamas, Israele uccide il "comandante dei gommoni": chi è Tzahiban. Libero Quotidiano il 28 ottobre 2023
Chi sono i due ufficiali di Hamas che Israele dice di aver ucciso la scorsa notte? Si tratterebbe di Asem Abu Rakaba e Ratib Abu Tzahiban, comandanti rispettivamente dell’unità deltaplani e della componente marittima. Il primo, secondo quanto riportato dalle Idf, avrebbe partecipato alla pianficazione dell'attacco del 7 ottobre, dirigendo i terroristi che si sono calati sul territorio israeliano attraverso piccoli parapendio a motore. Molti di loro sono piombati sul rave, insieme agli altri militanti via terra, e hanno dato il via al massacro dei giovani presenti.
L'altro capo di Hamas che Tel Aviv sostiene di aver eliminato, Ratib Abu Tzahiban, è considerato il capo della struttura che agisce sul mare con gommoni e battelli. L’elenco ufficioso degli ufficiali del gruppo terroristico fatti fuori conterrebbe almeno 42 nomi, come si legge sul Corriere della Sera. Diversa la versione di Hamas, secondo cui invece sarebbero pochi i caduti tra gli alti gradi. L'obiettivo di Israele, comunque, è chiaro: eliminare personaggi con nomi, volti e ruoli ben precisi. Come nel caso di Asem Abu Rakaba, che pare si occupasse anche dello sviluppo di velivoli senza pilota e dell’acquisizione di sistemi antiaerei portatili.
Estratto dell'articolo di Monica Coviello per vanityfair.it giovedì 19 ottobre 2023
Le hanno trovate morte, abbracciate. Noya Dan, una bimba autistica di 12 anni, grande fan di Harry Potter, e sua nonna Carmela, 80, erano tra gli israeliani scomparsi dopo l’attacco dei terroristi di Hamas, il 7 ottobre. […]
Nei giorni scorsi, la madre di Noya, Galit, aveva
condiviso l’ultimo, tragico messaggio vocale che la figlia le aveva inviato
mentre cercava di nascondersi, nella casa di sua nonna a Nir Oz, mentre un
terrorista di Hamas, armato, cercava di rapire o uccidere gli abitanti del
kibbutz.
«Mamma, c'è stato un forte boom alla porta che mi ha spaventato», diceva la
ragazzina nella nota vocale.
«Tutte le finestre della casa della nonna sono rotte. C'è stato un altro boom. Mamma... ho paura». […]
Quando JK Rowling, l’autrice di Harry Potter, ha saputo della scomparsa della sua fan, ha condiviso su X una foto della ragazzina vestita con abiti che ricordavano l'uniforme scolastica di Hogwarts (la scuola di magia dei libri della Rowling) e l'iconica cravatta rossa e gialla di Grifondoro, una delle case della scuola: «Questa bellissima ragazza di 12 anni con autismo è stata rapita da casa sua dai terroristi di Hamas ed è stata portata a Gaza. Noya è sensibile, gentile, divertente ed è una grande fan di Harry Potter. Rapire bambini è spregevole e del tutto ingiustificabile», ha scritto. […]
Purtroppo, invece, ieri sera la famiglia Dan e il Ministero degli Affari Esteri israeliano hanno confermato che i corpi di Noya e Carmela erano stati identificati dai soccorritori. Altri tre membri della famiglia sono ancora dispersi.
DAGOREPORT giovedì 26 ottobre 2023.
“Un’altra missione a Riad per Matteo Renzi”, scrive il Corriere. “Stavolta l’ex premier è volato in Arabia Saudita per un confronto con Jared Kushner, «architetto» degli Accordi di Abramo, per discutere proprio di una possibile via d’uscita dalla guerra tra Israele e Hamas”.
Ecco: uno tra i responsabili dell’attuale stato di guerra a Gaza è proprio il genero ebreo di Trump, marito di Ivanka, che si inventò all’epoca una nuova professione, quella del ‘’diplomatico”, causando un disastro che oggi sta travolgendo l’ordine mondiale.
Infatti, gli Accordi di Abramo, che furono firmati il 13 agosto 2020, furono intese bilaterali concluse tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Ma al tavolo delle trattative mancava proprio il contraltare più importante di Tel Aviv: lo Stato palestinese.
Una dimenticanza non casuale. La Striscia di Gaza era stata tagliata fuori perché Netanyahu, per favorire la colonizzazione israeliana della Cisgiordania, aveva messo nel mirino colui che politicamente la controlla, il presidente dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) Abu Mazen.
Una missione, quella di Netanyahu, che ha lasciato liberi i miliziani di Hamas, avversari da sempre di Mazen, di intascare i pingui finanziamenti che dal Qatar e dall’Algeria che finivano in tasca all’organizzazione paramilitare palestinese islamista, sunnita e fondamentalista. E se oggi ci troviamo davanti alla tragedia di Gaza, gran parte della responsabilità politica appartiene alle scelte del duo Kushner-Netanyahu.
DAGONEWS giovedì 19 ottobre 2023
Mentre il mondo si interroga sulle responsabilità dell’esplosione all’ospedale Al Ahli di Gaza (sembra sempre più probabile che sia dovuta a un lancio fallito di un razzo della Jihad Islamica), emergono nuove immagini che mostrano la brutalità dell’attacco del 7 ottobre, compiuto dai terroristi di Hamas in Israele.
Un video agghiacciante, ripreso dal DailyMail, mostra i miliziani islamici che arrivano in un campo vicino al festival Supernova, nei pressi del kibbutz Be’eri e scatenano la loro follia omicida.
Mentre centinaia di giovani fuggivano nei campi nei pressi della location del festival, si vedono due uomini armati che aprono il fuoco. Dopo qualche secondo, arriva un'altra decina di terroristi, che colpisce uno a uno i ragazzi con una pioggia di proiettili.DAGONEWS il 10 ottobre 2023.
Itay e Hadar Berdichevsky, 30 anni, sono stati assassinati dai terroristi di Hamas nella propria abitazione in Israele dopo essere riusciti a salvare la vita dei figli di 10 mesi nascondendoli in un rifugio. La giovane coppia ha messo i bambini in un rifugio pochi istanti prima che i terroristi di Hamas facessero irruzione in casa, secondo quanto rivelato dall’ambasciatore israeliano in Colombia Gali Dagan.
Itay e Hadar hanno "combattuto coraggiosamente" gli uomini armati prima che venissero colpiti e uccisi durante l’assalto di Hamas in Israele. I due bambini sono stati trovati e salvati dai soldati israeliani dopo essere rimasti soli per più di 12 ore.
Anche Noa Beer, 29 anni, cresciuta nel Regno Unito ma trasferitasi a Tel Aviv, è sopravvissuta al massacro del Nova Festival che ha causato la morte di almeno 260 persone. Migliaia di giovani stavano festeggiando all'alba ad appena 5 chilometri dal confine di Gaza quando i militanti di Hamas hanno preso d'assalto il festival e hanno iniziato a sparare sulla folla.
Noa Beer ha rivelato di essere saltata in macchina e di aver sfondato un posto di blocco mentre gli uomini armati iniziavano a sparare, mancandola per pochi centimetri. La giovane donna si è allontanata con altre quattro persone - tra cui due a cui avevano sparato - nella sua Jeep e “non si è voltata indietro” finché non ha raggiunto un ospedale a circa 40 minuti di distanza.
«Erano tutti intorno a noi, senza nessun posto dove andare. Le persone ancora vive delle altre auto strisciavano verso di noi, ferite e spaventate, eravamo cinque persone nascoste tra le auto – ha raccontato – in una frazione di secondi siamo saliti in macchina e siamo scappati. Persone che cercavano di fuggire, venivano uccise sul posto».
A un certo punto si è trovata faccia a faccia con uno degli aggressori. Descrivendo il momento spaventoso ha raccontato: «L'ho visto guardarmi negli occhi e sollevare la pistola per spararci nel momento in cui ho iniziato a guidare verso di lui. Ho premuto l'acceleratore e ho guidato. Ci ha sparato, era a circa due metri di distanza e ha mancato di poco il finestrino».
DAGONEWS mercoledì 11 ottobre 2023.
Inbar Lieberman, 25enne israeliana, ha guidato un gruppo armato formato da 12 agenti speciali in uno scontro a fuoco che ha portato all’uccisione di più di due dozzine di terroristi nel kibbutz di Nir Am. Lieberman, che fa parte della scorta di sicurezza nella regione dal dicembre 2022, ha sentito le esplosioni sabato mattina, quando Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti contro Israele. Si è subito accorta che i suoni delle esplosioni erano diversi da quelli che sentiva durante i soliti attacchi missilistici al kibbutz (la comunità) e si è precipitata all'armeria.
La venticinquenne ha posizionato la sua squadra di kibbutznik in maniera strategica per tutto l'insediamento, teso imboscate e ribaltato la situazione in quella che è stata una strabiliante operazione di difesa del kibbutz, localizzato a solo un miglio dalla Striscia di Gaza.
Lieberman ha ucciso cinque terroristi, mentre gli altri agenti ne hanno uccisi 20 in un periodo di quattro ore. Nir Am si è trasformato in una fortezza impenetrabile: è infatti tra le poche comunità in cui i terroristi di Hamas non sono riusciti ad entrare, mentre i kibbutzim vicini hanno subito perdite più pesanti.
Il Maariv Daily ha riferito che sui social media è esploso l’entusiasmo per l’eroismo di Lieberman, lodata da molti connazionali. «Quando tutto sarà finito, questa donna riceverà il Premio Israele», si legge. «La storia del suo eroismo resterà nella tradizione israeliana per generazioni».
Chi è Eviatar Moshe Kipnis, uno degli italo-israeliani scomparsi dopo l’attacco di Hamas: “È deceduto”. Eviatar Moshe Kipnis era insieme alla moglie ma della donna non si hanno notizie. Sono ancora due le persone di origine italiana e scomparse dopo l'attacco di Hamas contro Israele. Il bilancio sugli ostaggi e il numero delle vittime, delle persone sparite e rapite, paese per paese. Redazione Web su L'Unità il 17 Ottobre 2023
La Farnesina ha confermato che le autorità israeliane hanno certificato, attraverso esame Dna, il decesso di Eviatar Moshe Kipnis, cittadino italiano-israeliano di 65 anni, irreperibile da sabato 7 ottobre dopo l’attacco terroristico contro il kibbutz di Beeri, dove sono stati trovati 108 cadaveri. Non si hanno invece notizie della moglie, la moglie Liliach Le Havron. L’ambasciata d’Italia a Tel Aviv è in contatto con la famiglia per assicurare loro ogni possibile assistenza in questo difficile momento. Nell’esprimere le condoglianze ai familiari del signor Kipnis, il vicepremier Antonio Tajani ribadisce il massimo impegno del Governo per rintracciare gli altri due cittadini italo-israeliani tutt’ora irreperibili.
Chi è Eviatar Moshe Kipnis l’italo-israeliano scomparso dopo l’attacco di Hamas
Con la morte di Eviatar Moshe Kipnis, l’Italia conta la prima vittima del blitz di Hamas in Israele Secondo un conteggio dell’AFP, è stata confermata la morte di oltre 160 stranieri e circa 199 persone sono state rapite. Ecco cosa sappiamo finora: Stati Uniti: 30 morti. Almeno 30 cittadini americani sono stati uccisi dall’attacco di Hamas della scorsa settimana, ha detto domenica un portavoce del Dipartimento di Stato. Altri 13 cittadini americani risultano dispersi, ha detto il portavoce. Si ritiene che un numero imprecisato di americani sia stato rapito.
Gli altri ostaggi
Tailandia: 28 morti, 17 ostaggi. Ventotto thailandesi sono stati uccisi, ha detto domenica il ministero degli Esteri, in alcune circostanze in circostanze poco chiare. Secondo il Ministero degli Esteri i rapimenti sarebbero 17, mentre il numero dei feriti è rimasto invariato a 16. Secondo i dati del governo, circa 30.000 thailandesi lavorano in Israele, la maggior parte nel settore agricolo. Francia: 21 morti, 11 dispersi. Ventuno cittadini francesi sono stati uccisi, mentre altri 11 risultano dispersi, molti dei quali sono “molto probabilmente ostaggi di Hamas“, secondo l’ultimo aggiornamento della Farnesina.
Il tweet del ministro Tajani
Questo il tweet di Tajani: “Con grande tristezza confermo il decesso di Eviatar Moshe Kipnis, cittadino italo-israeliano disperso dopo l’attacco terroristico di Hamas in Israele. Sono vicino alla famiglia, in particolare ai suoi due figli che ho conosciuto durante la mia missione a Tel Aviv“. Redazione Web 17 Ottobre 2023
Herzog e la chiavetta Usb del terrorista: “Hamas aveva istruzioni da al Qaeda per armi chimiche”. Redazione su Il Riformista il 23 Ottobre 2023
“Hamas aveva istruzione da al Qaeda su come costruire armi chimiche”. E’ quanto denuncia dopo l’irruzione dei terroristi del 7 ottobre scorso il presidente israeliano Isaac Herzog che nel corso di una intervista a Skynews ha mostrato i diagrammi di accompagnamento. Circostanza che emerge dal recupero, da parte dei militari dell’esercito israeliano, di una chiavetta usb con il manuale, la copia di un opuscolo di al Qaeda del 2003 noto ai Paesi della coalizione anti terrorismo, sul corpo di un miliziano ucciso nel kibbutz di Beeri, dove sono stati uccisi o rapiti più di 200 delle 1.100 che vi abitavano.
Al momento, tuttavia, non ci sono indicazioni che Hamas avesse le componenti necessarie per assemblare tali armi nel momento dell’attacco a Israele. Esperti britannici a cui è stato inviato il materiale hanno confermato la possibilità di costruire un’arma chimica credibile. “Stiamo parlando di materiale ufficiale di al Qaeda. Stiamo affrontando l’Is, al Qaeda e Hamas’, ha denunciato Herzog. “Questo serve a spiegare quando scioccante sia la situazione, nel momento in cui ci troviamo a esaminare le istruzioni di come operare e creare un’arma rudimentale con il cianuro”, ha aggiunto il Presidente, riconoscendo “come giustificata la rabbia e la frustrazione della gente, delle famiglie e dei rifugiati”, per il senso di abbandono da parte del governo e delle forze di sicurezza a fronte degli attacchi di Hamas.
Herzog nel corso dell’intervista respinge le accuse di una reazione eccessiva di Israele che ha fino a ora provocato più di 4.500 morti nella Striscia di Gaza, accusando Hamas di “sequestrare” aiuti e infrastrutture. “Non è vero. Abbiamo obiettivi realistici. Vogliamo distruggere l’infrastruttura militare di Hamas. Lo abbiamo detto chiaramente. Abbiamo cautela. Sono già passate due settimane e non abbiamo iniziato una operazione di terra perché siamo cauti. Ho pianto per le vite dei palestinesi, ma prima di tutto piango per le vite della mia nazione” ha aggiunto. “Non posso parlare della soluzione dei due Stati in questo momento, mentre il mio Paese sanguina ed è in agonia”, ha poi sottolineato il Presidente israeliano.
Hamas e l’attacco a Israele: le motivazioni dietro l’inizio della guerra. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2023
Organizzazione terroristica. Hamas è l’acronimo Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, Movimento Islamico di Resistenza, conosciuto per la sua natura islamista, sunnita e fondamentalista. È suddiviso in un’ala politica, che governa la Striscia di Gaza dopo la sua vittoria alle elezioni legislative del 2006, e un’ala militare chiamata Brigate Ezzedin al-Qassam: entrambe vengono considerate organizzazioni terroristiche da vari Paesi occidentali, tra cui Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Giappone e Israele.
Gli obiettivi di Hamas, come indicati nella sua carta costitutiva, includono la “guerra santa” come unica soluzione alla questione palestinese, cercando il ritorno dell’intera Palestina ai confini del 1948, includenti l’attuale stato di Israele. Nel corso degli anni, alcune posizioni di Hamas si sono ammorbidite, accettando uno stato palestinese nei confini del 1967, pur senza riconoscere lo Stato ebraico. Hamas riceve significativi finanziamenti dall’Iran, ma anche da Arabia Saudita, Qatar e altri paesi.
Al suo interno non si possono ignorare divisioni politiche, sia tra l’ala politica e militare, nonché tra i moderati e i radicali: fratture che hanno influenzato l’attacco su vasta scala. Si ipotizza che l’offensiva di oggi sia stata pianificata con il sostegno finanziario dell’Iran, allo scopo di modificare gli equilibri regionali e influenzare i negoziati in corso con riferimento al “Grande Gioco” mediorientale: il conflitto israeliano-palestinese, in questo senso, è stato ancora una volta centrale nella complessa dinamica geopolitica.
Sono dunque tre le possibili motivazioni dietro l’attacco di oggi. In primo luogo, l’azione potrebbe essere volta a sabotare i negoziati di pace in corso tra Israele e Arabia Saudita, in cui è coinvolta l’Autorità Nazionale Palestinese, indebolendo così il presidente Abbas e i suoi sforzi diplomatici. In secondo luogo, l’attacco potrebbe essere una tattica per rivivere la sensazione di orgoglio arabica emersa dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973, dimostrando che i palestinesi possono cogliere Israele impreparata. Infine, potrebbe essere una mossa per contrastare la crescente popolarità della Jihad islamica, un’altra organizzazione estremista palestinese che sta rubando consensi a Hamas, soprattutto in Cisgiordania.
Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2023. Di lui circola solo una vecchia foto, non ha telefono comunica solo tramite corrieri e messaggi registrati pubblicati online. È cresciuto con l’obiettivo di diventare un attivista militante, sotto l’influenza di Yaya Hayyash – conosciuto come l’ingegnere, il coordinatore degli attacchi suicidi nella metà degli anni ’90 – E dopo la morte del mentore, ha progressivamente intrapreso il percorso per sostituirlo. Mohammed Diab al Masri, noto con il nome di battaglia Mohammed Deif, è la mente dietro l’audace assalto a Israele. Rimasto nell’ombra, ha trasformato un piccolo gruppo di guerriglieri in una formidabile forza militare, diventandone il leader.
Si è specializzato nel sequestro di ostaggi, azione perpetuata anche oggi in Israele. Ostaggi da sempre usati come pedine da utilizzare per il negoziato. Poi ha fatto crescere l’arsenale della fazione: le Brigate Ezzedine al Qassam, la spina dorsale del movimento, sono passate dall’uso di Kalashnikov a droni e razzi, importando materiale bellico attraverso tunnel clandestini collegati al territorio egiziano, una fonte vitale anche per le forniture civili. I combattenti hanno coinvolto palestinesi all’estero per assistere, e hanno sfruttato il sostegno dell’asse sciita, rappresentato dall’Iran ed Hezbollah libanese: i due alleati fornivano istruzioni, materiale e pezzi, mentre i loro istruttori offrivano consigli.
Israele non gli ha mai dato tregua. Già all’epoca di Arafat, a Gerusalemme, era stato richiesto il suo arresto e, per un certo periodo, è stato confinato in una residenza sorvegliata dall’Autorità. In poco tempo è diventato il più ricercato dagli israeliani, ma Deif è sempre riuscito a sfuggire riportando gravi ferite. Le informazioni sono incerte, ma alcuni dicono che abbia perso un occhio e una mano o che abbia difficoltà a camminare a causa delle ferite riportate da una scheggia.
Il destino dell'esercito. L’esercito Zahal non può essere sconfitto senza che Israele sparisca. La società di Israele è da tempo traumatizzata da una guerra politica che l’ha decomposta. E anche la potente macchina della sicurezza si è inceppata. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Ottobre 2023
“Sfondavano con i fucili la porta della cucina e abbiamo chiamato subito le Forze di difesa israeliane: correte, ci stanno sparando. Ma non è arrivato nessuno. Io sono il solo sopravvissuto”. Questo uno dei tanti racconti tutti uguali. Zahal non ha mai abbandonato il suo popolo e poi ha perso il contatto ed è stata la catastrofe. Zahal è il nome ebraico dell’Israel Defense Forces, l’esercito più popolare del mondo perché a turno tutti, uomini e donne, devono indossare la disadorna uniforme di Zahal, la madre della sicurezza e della protezione civile, soccorso medico e antiterrorista perché fino a sabato scorso quando un israeliano aveva un’emergenza, chiamava Zahal. Dall’ultimo Shabbat, Zahal non risponde alla società che si sentiva protetta.
Sabato e domenica Zahal era introvabile perché i suoi uomini e le sue donne erano impegnati a morire, sbalorditi e paralizzati, a centinaia. Israele prima della guerra era una piccola America dove fioriscono le start-up, dove si balla e si fa l’amore quando è festa ed è la meta non solo dei viaggi della memoria, ma di chiunque cerchi pace nella sicurezza. La sicurezza è morta perché l’esercito è stato finora il collante della società. Oggi la società israeliana è frantumata dall’odio politico, più o meno come quella americana. L’esercito è sempre stato composto in prevalenza di studenti, giovani “farmer” dei kibbuz, imprenditori e madri di famiglia, senza mai aver avuto, neanche durante le guerre, un carattere né una retorica militare: combattere è stata sempre una infelice necessità, una maledizione fin dal primo giorno avendo di fronte un nemico che può permettersi di perdere, mentre Zahal non può essere sconfitto senza che Israele sparisca.
Quando giri per le strade di Israele trovi sempre ragazzi e ragazze con lo zaino e tutti i materiali legati alle cinture e impari subito che si attendono che tu ti fermi: perché tu sei il loro autobus e loro salgono come se fossero parenti o figli dei tuoi amici. Spesso lo sono. Il mio primo incontro con quei soldati risale a quaranta anni fa quando sulla Bekaa che sovrasta Beirut incontrai di notte un carro armato Merkava (dal nome biblico del carro di fuoco del profeta Ezechiele) con il suo equipaggio di ragazzi e ragazze con chitarre e lampade che si comportavano come liceali in vacanza. Ma erano soldati in guerra. M’invitarono e parlammo di cinema. Poi gracchiò una radio e in un minuto si infilarono nel carro che partì con il rumore di un vecchio camion.
La società di Israele è da tempo traumatizzata da una guerra politica che l’ha decomposta. E anche la potente macchina della sicurezza si è inceppata. Gli ebrei figli dell’occidente sono in conflitto con gli ebrei religiosi ortodossi e intolleranti nei confronti della modernità. I partiti religiosi crescono e sono determinanti in Parlamento mettendo in crisi gli equilibri costituzionali: se Bibi Netanyahu vuole sopravvivere deve entrare in conflitto con le correnti occidentalizzanti, molto legate agli Stati Uniti.
Le donne, sia ebree che palestinesi, sono molto biasimate se non mettono al mondo tutti i figli che potrebbero. Presto gli israeliani palestinesi supereranno di gran numero quelli ebrei. Gli israeliani palestinesi sono esentati dal servizio militare tranne i Drusi. La minoranza musulmana palestinese di Israele gode di pieni diritti civili e vive nell’unico Stato arabo in cui possono lottare politicamente ed essere eletti come deputati nella Knesset: sono israeliani e hanno diritto di odiare Israele, in quanto figli di quelli che non obbedirono all’ordine di abbandonare lo Stato ebraico nel 1948 quando l’Onu votò a grande maggioranza la nascita di due Stati vicini e fratelli, uno ebraico e uno palestinese.
La Lega araba non voleva uno Stato palestinese perché non voleva uno Stato ebraico. Zahal allora non esisteva: le foto del 1948 mostrano combattenti in pantaloni corti che sparavano con le armi strappate ai nazisti durante la rivolta del ghetto di Varsavia, prima di entrare nella piccola forza clandestina Haganah. Con la guerra dei Sei Giorni del 1967 gli ebrei si sentirono forti quanto basta per essere rispettati. Oggi la memoria di quel passato è archiviata e Zahal deve ricostruirsi per combattere in un modo adatto alle cosiddette guerre asimmetriche, dicendo addio all’utopia socialista dei kibbutz in cui tutto era di tutti, figli compresi.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Conflitto Israele-Hamas. Guerra, si chiama ‘Spongebombs’ la nuova bomba spugna usata da Israele per chiudere i tunnel sotterranei di Gaza. Netanyahu: “Obiettivo demolire Hamas“. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2023
“Siamo entrati a Gaza in maniera ponderata nella preoccupazione per la sorte dei nostri soldati”. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu nel discorso alla nazione. “Siamo entrati nell’avamposto della cattiveria: il nostro obiettivo – ha aggiunto – è demolire Hamas e riportare indietro gli ostaggi”.
Israele si prepara a utilizzare nuove “Sponge Bombs” – Le “bombe spugna” per combattere nella rete di tunnel di Hamas sotto la Striscia di Gaza. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF), racconta il Telegraph, hanno testato queste bombe chimiche, che non contengono esplosivi ma vengono utilizzate per sigillare varchi o ingressi di tunnel da cui possono emergere i combattenti.
Le “Sponge Bombs”, che creano un’improvvisa esplosione di schiuma che si espande rapidamente e poi si indurisce. I soldati sono stati visti schierare i dispositivi durante le esercitazioni nel 2021. È probabile che le truppe comincino una sanguinosa battaglia attraverso i tunnel conosciuti come la “metropolitana di Gaza” quando lanceranno l’invasione di terra di cui ha parlato anche Netanyahu. Una rete di tunnel piena di trappole e dove si ritiene che Hamas abbia molti dei 200 ostaggi.
Tra ostaggi e scorte per tre mesi, i tunnel sono solo per i terroristi. Hamas ammette: “Tunnel di Gaza sono per i miliziani, i civili li deve proteggere l’Onu e Israele”. Redazione su Il Riformista il 31 Ottobre 2023
I tunnel non sono per i civili di Gaza ma per i miliziani di Hamas, per i terroristi che il 7 ottobre scorso hanno oltrepassato la Striscia, invadendo Israele, uccidendo centinaia di civili e sequestrando altrettante persone. A sostenerlo, anzi ad ammetterlo è Mousa Abu Marzouk, alto esponente dell’ufficio politico di Hamas, in una intervista rilasciata a Russia Today il 27 ottobre scorso e tradotta dalla tv di Memri, Istituto di ricerca sul Medioriente con sede a Washington. Secondo Hamas infatti a proteggere la popolazione civile, circa il 75% degli abitanti della Striscia, dovrebbe essere l’Onu. Quando, nel corso dell’intervista, il giornalista gli fa notare che ”molte persone si stanno chiedendo: Quando avete costruito 500 chilometri di tunnel, perché non avete costruito rifugi dove i civili avrebbero potuto nascondersi durante i bombardamenti?”, Abu Marzouk replica: ”Abbiamo costruito i tunnel perché non avevamo altro modo di proteggere noi stessi dall’essere colpiti e uccisi. Questi tunnel sono progettati per proteggerci dagli aerei. Stiamo combattendo dall’interno dei tunnel”.
Il leader di Hamas ha poi chiarito che ”tutti sanno che il 75 per cento della popolazione della Striscia di Gaza è composto da rifugiati. Ed è responsabilità delle Nazioni Unite proteggerli”. Inoltre, ha proseguito, ”secondo la Convenzione di Ginevra è responsabilità dell’occupante fornire loro tutti i servizi fino a quando sono sotto occupazione”.
Tunnel dove sono rinchiusi gli oltre 240 ostaggi di nazionalità israeliana e straniera che Hamas ha rapito lo scorso 7 ottobre. Tunnel dove, secondo quanto emerso in questi giorni, gli stessi miliziani hanno scorte di cibo, benzina, medicine e via dicendo per circa tre mesi, mentre la popolazione civile è abbandonata a se stessa sotto i costanti bombardamenti israeliani che nei giorni scorsi ha tagliato anche la connessione internet e le linee telefoniche. Circostanza che ha impedito qualsiasi tipo di comunicazione, a partire dalle ambulanza costrette a soccorrere i feriti in base alla provenienza delle segnalazioni raccolte stesso per strada.
Una situazione raccapricciante cristallizzata dall’ammissione di Hamas che bada esclusivamente a tutelare la propria causa e a salvaguardare i suoi terroristi.
Pogrom’s list. Il mutamento dell’opinione pubblica e la riduzione di Israele a nemico numero uno. Mario Lavia su Linkiesta il 7 Novembre 2023
La solidarietà nei giorni successivi al massacro di Hamas in un solo mese si è trasformata in odio antisionista e antisemita
La rapidità del mutamento dell’opinione pubblica sulla guerra di Hamas a Israele è stata impressionante. Un mese fa esatto il mondo era inorridito dal pogrom dei terroristi e per un po’ siamo stati tutti, o quasi tutti, israeliani, al mondo sono tornate in mente immagini sconvolgenti di un passato che s’immaginava seppellito, e invece. Per qualche giorno Israele è stato l’Occidente, dunque noi. Un mese che pare un anno.
Giorno dopo giorno le opinioni pubbliche, che in qualunque guerra sono un soggetto che è in campo, si sono voltate contro lo Stato ebraico, che è divenuto infine il nemico. Perché questo è. Da noi, una generazione di giovani scettica e disillusa che non lotta più per la scuola o l’università come è accaduto a tutte le generazioni precedenti, che non si organizza nei partiti e nei sindacati, che ha rimosso l’idea di una mobilitazione collettiva, ecco che trova nella “lotta di liberazione della Palestina” magari “from the river to the sea” la ragione della lotta – a Napoli gli studenti hanno occupato l’“Orientale” – per riempire il vuoto di interesse per la politica che è parente stretto di un più generale menefreghismo di massa che domina la sua esistenza.
Una generazione strana, che non legge, che non sa, che ha resettato la storia passata e vive in un oggi piuttosto sbiadito temendo un domani sbagliato, questa generazione che si mette la kefiah maneggiando il cellulare istintivamente recupera sentimenti antichi di ostilità contro il capitalismo, l’ebraismo, la ricchezza.
I cortei in Italia sono tutto sommato poca cosa malgrado certi politicanti imbroglino le carte ficcando nelle piattaforme tutto e il contrario di tutto – così che nella stessa manifestazione si possono trovare insieme le Acli e Forza Nuova – ma in Gran Bretagna o negli Stati Uniti o in Francia il clima ostile agli ebrei è pesante, a livello di massa, scorre nelle pieghe della società, invade i quartieri borghesi di New York come le banlieue parigine.
Si addita Benjamin Netanyahu a nemico pubblico (e si comprende bene), ignorando che in Israele c’è un governo di unità nazionale, però non si bada tanto al sottile, è il governo degli ebrei e tanto basti: gli ebrei gli ebrei gli ebrei. Che hanno la Storia contro di loro, da sempre, che sono i “cattivi”. E certo che Hamas fa schifo però è il frutto delle malefatte di Israele, il che non è che non sia tecnicamente vero solo che in questi discorsi si tralasciano ragione e morale, ed è esattamente questo il punto dolente dei ragionamenti dei filopalestinesi.
Dov’è infatti la ragione, non parliamo nemmeno della morale, nel massacro del sette ottobre? Eppure le opinioni pubbliche, le grandi masse – soprattutto, ma non solo quelle che hanno qualcosa a che fare con la storia della sinistra – sono contro chi è stato offeso dal più clamoroso pogrom degli ultimi secoli, roba da zaristi e Terzo Reich, e che sta reagendo male, certo, molto male, a un’offesa e un’umiliazione inaudite. Una reazione che non giustifica i rigurgiti antisionisti, e persino antisemiti, che tracimano nelle piazze dell’Occidente e serpeggiano nelle case delle nostre città. Questo antisemitismo della porta accanto che avevamo dimenticato piangendo davanti ai film di Spielberg e Polanski e Benigni e che invece è ben presente tra noi, seppur confuso in un discorso pubblico strabico e pericoloso che solo la grande politica, se esiste ancora – forza Anthony Blinken, l’uomo che può compiere il miracolo – può fermare.
Si resta sconcertati davanti alla violenza senza distinzioni, ma si confondono le idee, si finge di ignorare che qui l’odio è il vero propellente dell’assalto del sabato nero, e l’odio è l’arma peggiore perché è cieco, dunque indomabile, il vecchio odio novecentesco che cola sui muri dell’Occidente, una volta regno della Ragione. E questo è quanto, un mese dopo.
Guerra in Israele. Un mese di guerra: l'inferno del 7 ottobre è un punto senza ritorno. Fiamma Nirenstein il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.
Da quando, un mese fa, tutte le sirene d'Israele non sono bastate ad avvertire della calata dei barbari di Hamas sui kibbutz del confine sud di Israele, la nebbia avvolge il futuro, anche quello del mondo intero
Da quando, un mese fa, alle 6,20 di mattina, tutte le sirene d'Israele non sono bastate ad avvertire della calata dei barbari di Hamas sui kibbutz del confine sud di Israele, la nebbia avvolge il futuro, anche quello del mondo intero, e solo una certezza è rimasta. Siamo disorientati, stupiti. Non sappiamo se c'è un limite alla crudeltà umana, dopo aver assistito in diretta, tramite le macchine da presa dei terroristi stessi, alle atrocità compiute sui corpi dei bambini di fronte alle madri, delle madri di fronte ai bambini. Non sappiamo se è davvero finito l'incubo dell'esercito di assassini che al grido «yehud yehud» e «Allah akbar» ha ucciso 1.400 innocenti, giovani che ballano, vecchi stupefatti, famiglie intere... Uno a uno. Vediamo che questo urlo, con violenza e omicidi, invade adesso anche le città occidentali, e non sappiamo se ci sarà la forza e la volontà di contrastarlo, o se invece gli ebrei dovranno sgomberare, come dalle città di confine col Libano degli Hezbollah o con Gaza di Hamas. Non sappiamo più se Israele, che credevamo capace di difendersi con eccellenti mezzi tecnologi e militari, sia forte come si pensava; se la sofferenza estrema delle famiglie dei 240 ostaggi fra cui 30 bambini risveglierà le coscienze dell'Occidente in una richiesta collettiva che per ora non si è sentita. È penoso anche combattere una guerra di sopravvivenza in un mondo che immagina che «pace» e «aiuti umanitari» siano parole universali, anche per Hamas che usa la sua gente come scudi umani e dichiara che vuole anche il suo sangue. Ancora: non sappiamo dove arriverà la furia di strada antisemita-antisionista, un misto di demenziale, ignorante cultura woke mista a odio islamista. Però una cosa si sa: come dopo la Shoah, quando pareva impossibile che gli ebrei trovassero la forza di costruire lo Stato d'Israele, gli ebrei sono entusiasti della vita, combattono per vincere, i giovani al fronte sanno che combattono la battaglia storica della sopravvivenza del popolo ebraico anche mentre piangono (e piangono!) i caduti. Intorno, come al tempo della seconda guerra mondiale, si fronteggiano due continenti ideali, quello iraniano-russo coi loro alleati in un disegno oppressivo e feroce, determinato alla dominazione; dall'altra parte quello americano-israeliano-europeo. È quello della libertà, del giorno dopo il sabato nero, quando tornerà la luce.
Un mese dagli attentati terroristici di Hamas. Israele è la garanzia di una promessa. Siamo tutti ebrei. Uno Stato che oggi rappresenta i confini di casa nostra, dell’Occidente, che ha dei difetti, ma anche il pregio enorme di discuterne e cercare di migliorare. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 7 Novembre 2023
Un mese dagli attentati terroristici di Hamas, un assalto della barbarie alla civiltà occidentale fondata su democrazia, libertà, emancipazione, tolleranza, coraggio. Per questo oggi sarò a Milano, alla commemorazione della Comunità Ebraica.
Perché la creazione dello Stato di Israele non è solo una promessa mondiale sull’incolumità di quel popolo, riemerso dall’abisso della ferocia nazista, e che da 75 anni è assediato da gente che vuole un secondo olocausto, stavolta definitivo, che odia e vuole uno sterminio. Israele è la garanzia che nessuno al mondo possa mettere in discussione quella promessa. Tantomeno stati e organizzazioni del terrore che ne postulano pubblicamente la cancellazione e che il 7 ottobre, consumando il massimo ossimoro possibile (uccidere in nome di Dio) hanno massacrato e arso bambini, e rapito, stuprato, decapitato giovani donne che a una festa celebravano la loro vitalità figlia di una democrazia liberale, sputando, le bestie di Hamas, sui loro cadaveri a favore di telecamera.
Vado a Milano per dire che ho sempre considerato gli ebrei miei fratelli. E che vorrei considerare tali anche tutti i musulmani per bene, che di Hamas e delle organizzazioni criminali sue sorelle sono le prime vittime, ma che vorrei vedere esporsi pubblicamente contro l’estremismo che l’Islam conosce eccome e che Hamas incarna. L’Occidente libero glielo consente, come lo consente a chi si dice pro Palestina, e in realtà è pro Hamas per sua stessa implicita ammissione. Perché se anziché metterla all’indice, le riconosci un ruolo nel rappresentare interessi palestinesi, stai -tu- facendo un’equivalenza tra palestinese e terrorista. La fai tu, occidentale e utile idiota di un’organizzazione terroristica che ti sgozzerebbe perché infedele.
Epperò, cosa consente a un gay, che a Gaza verrebbe ucciso, di manifestare in favore di Hamas e di un mondo che non vuole la pace e la tolleranza? Cosa autorizza alcuni intellettuali, partiti politici, star, a fare equivalenza tra un’organizzazione terroristica che aggredisce, e una democrazia liberale che viene aggredita? E dove erano questi signori, sedicenti difensori della equivoca causa palestinese, quando migliaia di palestinesi erano vittime della guerra civile siriana? Solo una cosa può consentirgli tutto ciò: un pregiudizio più forte. Che si chiama antisemitismo. Cioè odio. Ed è contrario a quella promessa mondiale che invece voglio che si rinnovi e su cui si pianti il seme della fratellanza tra tutti i credenti.
Israele oggi rappresenta i confini di casa nostra, dell’Occidente, che ha dei difetti, ma anche il pregio enorme di discuterne e cercare di migliorare. Per questo, in questo momento dobbiamo essere tutti ebrei. Per arrivare a pace, libertà e prosperità. Perché siamo occidentali. Terroristi, voi no, lo sappiamo: voi siete gli unici a non volere la pace; volete morte e caos. Per arricchirvi, odiando. Ma non lo avete ancora capito: con noi non vincerete mai. Mai. Andrea Ruggieri
Hamas-Putin connection: Il legame tra le due guerre. Ernesto Ferrante su L'Identità il 30 Novembre 2023
Moussa Abu Marzouk, dirigente di Hamas, ha annunciato che l’organizzazione palestinese rilascerà due ostaggi russi come gesto di “apprezzamento” per la posizione adottata dal presidente Vladimir Putin sulla guerra a Gaza. A riportare la notizia è stata l’emittente israeliana Kan, senza precisare se i due abbiano anche cittadinanza israeliana. In tanti peraltro hanno notato che l’operazione di Hamas contro Israele è scattata nel giorno del compleanno dello Zar.
Le autorità russe attribuiscono a Washington ha la piena responsabilità del conflitto israelo-palestinese. Lo scontro a distanza tra Russia e Stati Uniti costituisce una sorta di “collegamento” con il teatro di guerra ucraino. Non è un mistero, inoltre, il fastidio del Cremlino per la “vicinanza”, palesatasi in diverse circostanze, tra Tel Aviv e Kiev. La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova a Radio Sputnik, ha spiegato che “l’intero collasso attuale sul territorio della Striscia di Gaza, dove si è verificata una colossale tragedia legata allo scontro israelo-palestinese, è completamente e pienamente responsabilità degli Stati Uniti, o, piuttosto, dovrei dire, la causa della tragedia dipende dall’irresponsabilità degli Stati Uniti”.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione, redatta da un gruppo di nazioni di cui fanno parte Algeria, Venezuela, Egitto, Giordania, Iraq, Qatar, Corea del Nord, Cuba, Kuwait, Libano, Mauritania, Emirati Arabi Uniti, Siria e Tunisia, che invita Israele a ritirarsi dalle alture del Golan occupate. In totale, 91 paesi hanno votato a favore del documento, tra cui Russia, Brasile, India, Cina e Arabia Saudita. Otto, Stati Uniti e Regno Unito in primis, si sono espressi in senso contrario. Gli astenuti sono stati 62. Si “chiede ancora una volta che Israele si ritiri da tutto il Golan siriano occupato fino alla linea del 4 giugno 1967, in attuazione delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza”. Si stabilisce inoltre che “la continua occupazione del Golan siriano e la sua annessione di fatto costituiscono un ostacolo al raggiungimento di una pace giusta, globale e duratura nella regione”. Le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di fare passi in avanti verso una “soluzione a due Stati”, affermando che Gerusalemme dovrebbe fungere da capitale di entrambi. “È ormai giunto il momento di procedere in modo deciso e irreversibile verso una soluzione a due Stati, sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Ciò significherebbe, per Israele e Palestina, vivere fianco a fianco in pace e sicurezza”, ha detto Tatiana Valovaya, direttrice generale dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, leggendo, in occasione della Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese delle Nazioni Unite, un discorso scritto dal segretario generale Antonio Guterres
Con quasi 15mila palestinesi morti, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, “ha commesso una delle più grandi atrocità del secolo e passerà alla storia come il macellaio di Gaza”. Così il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, intervenendo ad una riunione del suo partito, l’Akp. Ankara “intensificherà gli sforzi diplomatici per il rilascio degli ostaggi” e per un “cessate il fuoco permanente a Gaza”.
Teheran attacca il nemico di sempre. “I piani degli Stati Uniti per la creazione di un ‘nuovo Medio Oriente’ sono falliti: avevano pianificato di eliminare Hezbollah, ma ora è 10 volte più forte. Non sono riusciti a divorare Iraq e Siria, e non sono riusciti a risolvere la contesa palestinese a vantaggio del regime usurpatore utilizzando la subdola soluzione dei due Stati”, ha tuonato la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. La mappa geopolitica nella regione “è cambiata a favore della resistenza. La resistenza è la vincitrice. La caratteristica principale di questa nuova mappa che si sta gradualmente affermando è la de-americanizzazione, che significa il rifiuto dell’egemonia americana nella regione”, ha concluso.
Perché c'è tregua a Gaza e in Ucraina no. Stefano Piazza su Panorama il 28 Novembre 2023.
Gli Usa, definiti da alcuni dei «guerrafondai» per le armi a Kiev, sono gli artefici della pace momentanea a Gaza. Ci hanno provato anche con Putin, ma... Nonostante le molte difficoltà ieri Israele e Hamas hanno prolungato di ulteriori due giorni la tregua e il relativo scambio di ostaggi israeliani con criminali palestinesi. Per Israele questa è una prova durissima perché per riavere degli innocenti deve liberare persone che nella maggioranza dei casi sono organici ad Hamas. Come abbiamo già raccontato in un precedente approfondimento, gli Stati Uniti per raggiungere l'obiettivo hanno lavorato molto coinvolgendo l’Egitto e mettendo alle strette il Qatar, protettore e finanziatore dei gruppi jihadisti palestinesi è protagonista delle trattative in questa fase. Ma nessuno si illuda, a Doha non hanno certo intenzione di scaricare Hamas (almeno per il momento), tanto che stamane il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani intervistato dal Financial Times, ha dichiarato: «C’è una grande delusione nella regione per la reazione dell’Occidente. Sì, siamo d’accordo che quello accaduto il 7 ottobre è stato un attacco orribile e condanniamo l’uccisione di civili. Ma ci aspettavamo che l’uccisione del popolo palestinese fosse qualcosa che l’Occidente avrebbe condannato. Le vite delle persone sono le vite degli esseri umani, siano essi palestinesi, israeliani, ucraini o russi, o chiunque altro. Quello che ci aspettiamo almeno è che l’Occidente si attenga agli stessi standard, agli stessi principi a cui si è opposto in altre guerre». Un supporto incrollabile quello di Doha alla Fratellanza musulmana alla quale appartengono i gruppi terroristici coinvolti in questa guerra voluta dall’Iran sciita, a sua volta finanziatore e ispiratore di Hamas e della Jihad islamica. Gli Stati Uniti per espressa volontà del presidente Joe Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken hanno messo in campo tutta la loro capacità diplomatica prima per evitare l’allargamento del conflitto ad altri Paesi arabi -l’Arabia Saudita del principe Mohammed Bin Salman ha giocato un ruolo fondamentale- e poi per obbligare le parti a trovare l’intesa almeno per una tregua. Come e quando finirà questa guerra oggi è difficile prevederlo; tuttavia, c’è la certezza che gli israeliani non si fermeranno fino a quando i gruppi jihadisti della Striscia di Gaza non verranno completamente distrutti e su questo gli Stati Uniti concordano. La guerra scoppiata in Medio Oriente dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 ha mostrato come gli Stati Uniti abbiano cambiato postura di fronte alle crisi internazionali facendo pesare più la loro capacità diplomatica piuttosto che le armi e gli uomini sul terreno. Una tendenza iniziata con Donald Trump che aldilà delle molte stranezze e degli errori commessi durante il mandato presidenziale (e dopo) ha legato il proprio nome ai Patti di Abramo del 2020 ai quali poco prima dell’attacco del 7 ottobre stava per aderire anche l’Arabia Saudita. Come sappiamo un Medio Oriente pacificato è l’incubo degli ayatollah di Teheran che preferiscono a questo scenario il caos e le guerre e da qui l’ordine alle milizie jihadiste di Gaza di entrare in azione. L’America quindi se occorre sa anche trattare, cosa che i cinesi non hanno voluto fare dato che sulla partita ucraina hanno scelto di supportare anche indirettamente i russi con il loro «ragazzaccio» Kim Jong-un. Discorso diverso invece per gli iraniani coinvolti direttamente nel conflitto a fianco dei russi che riforniscono di droni (con componenti cinesi) e munizioni. La guerra di Gaza è arrivata dopo la guerra scoppiata con l’invasione russa dell’Ucraina che ormai dura da due anni nella quale la diplomazia ha completamente fallito. Ci hanno provato più volte gli americani (in tal senso non si contano più le missioni segrete), l’Unione Europea, l’Onu (per quanto screditato sia), ma i russi non intendono fermare l’invasione ritirandosi, così come gli ucraini (ovviamente) non intendono rinunciare alla difesa del Paese e al contrattacco. Ma perché qui il conflitto si è cristallizzato tanto che non si vede la fine? Innanzitutto perché l’invasore, la Russia di Vladimir Putin, non accetta che le proprie ed inaccettabili condizioni ovvero tenersi tutto ciò che ha rubato agli ucraini, vengano accettate dalla comunità internazionale come «conquiste legittime». Impossibile giunti fin qui discutere o pensare di poter trattare con un uomo come Vladimir Putin che non accetta certo di rivedere una sua decisione anche perché attorniato da uomini che con lui hanno saccheggiato le risorse nazionali e che gli devono tutto. Il patto si sintetizza così: «Voi rubate con me e grazie a me e diventate ricchi mentre io faccio quello che voglio e voi obbedite». Nessuna mediazione e chi sgarra prima o poi muore come visto con la vicenda del capo della Compagnia militare privata Wagner Yevgheny Prigozhin, morto lo scorso 23 agosto a seguito di un’esplosione a bordo del suo aereo. Cercare altre spiegazioni è del tutto inutile anche perché tutte le strutture dello Stato russo sono costruite sulla corruzione, sulla violenza, sull’abuso di potere e sulla negazione di qualsiasi libertà. Putin comanda e gli altri eseguono e dentro questo ci si arricchisce mentre la popolazione sta sempre peggio. Non ci sono corpi intermedi dello Stato che possono cambiare la situazione perché la Russia di Putin è stata plasmata così e, a meno di una morte improvvisa di Putin, nulla cambierà. Inutili anche i ragionamenti che terminano con «però anche Zelensky dovrebbe trattare». Su cosa? Una mattina ti bombardano il Paese, per due anni ti entrano in casa, ti stuprano moglie e figli li ammazzano e li buttano in una fossa comune, infine ti rubano tutto quello che hai e tu devi fare la pace e accettare che le tue terre diventino di chi te le ha rubate? È questo quello che vogliono i cosiddetti «pacifinti», una serie di personaggi cinici, giornalisti falliti, comici in declino, biechi opportunisti che campeggiano da anni sulle tv nazionali e purtroppo anche nel dibattito politico e che non a caso oggi stanno con i jihadisti di Hamas - vedi i cosiddetti «rosso-bruni», un coacervo di vecchi politici in disarmo e con qualche condanna da scontare, accompagnati da qualche saltimbanco, che oggi provano a riemergere dall’oblio dove erano stati giustamente confinati. Dicevamo di Russia e Ucraina e chiediamo un parere al Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti che ci ha accompagnato più volte durante le varie crisi. Perché Russia e Ucraina in quasi due anni di guerra non hanno mai concordato una tregua? «Sia il Presidente Zelensky sia il Presidente Putin in questi 20 mesi di sanguinoso conflitto hanno più volte proposto un ‘cessate il fuoco’ che dovrebbe (o doveva) essere ottenuto con l’accoglimento delle rispettive pre-condizioni completamente opposte e divergenti. Zelensky esige(va) il ritiro di Mosca da tutto il territorio ucraino (Crimea compresa), il ritorno dei civili ‘portati’ forzosamente in Russia e l’incriminazione di Putin per crimini di guerra. Putin, a sua volta, pretende(va) il riconoscimento internazionale dell’annessione della Crimea e dell’intero Donbass, oltre all’assicurazione che Kiev non sarebbe mai entrata nella NATO, assumendo lo status di Paese neutrale. In sostanza due posizioni che allo stato attuale non offrono minimi spunti per una soluzione diplomatica del conflitto». A che punto è la guerra in Ucraina? «Il conflitto, come lo scorso anno, ha subito un rallentamento nei ritmi delle operazioni dovuto all’arrivo dell’inverno con abbondanti piogge e con le prime nevicate che rendono difficoltoso il movimento fuori strada dei mezzi da combattimento, specialmente quelli ruotati di cui sono equipaggiate le unità ucraine. Le condizioni meteo, tuttavia, non hanno fermato del tutto l'attività militare che si caratterizza dall’iniziativa di Mosca in diversi settori della lunga linea del fronte (oltre 1.000 km). Le forze russe continuano a condurre operazioni offensive lungo la linea KupyanskSvatove-Kreminna ad est, nei settori di Bakhmut e di Avdiivka a nord-est, nella zona di confine tra Donetsk e Zaporizhia e nell'Oblast di Zaporizhia occidentale a sud, senza aver ottenuto peraltro, stando a diverse fonti, significativi progressi. Questa ripresa delle azioni offensive di Mosca conferma, tuttavia, l’arresto dell’offensiva generale ucraina, iniziata a giugno scorso, che ha portato a limitati guadagni territoriali sia per le munite linee difensive avversarie sia, soprattutto, per la mancanza di supporto aereo e della difesa contraerea dei reparti attaccanti (fattore fondamentale e decisivo in ogni campagna militare). Una impasse operativa evidenziata dallo stesso Capo di Stato Maggiore della Difesa Ucraina, Valerij Fedorovyč Zalužnyj, in un contestato (dallo stesso Zelensky) documento (Modern positional warfare and how to win in it) pubblicato per The Economist il 1° novembre scorso, dove l’alto Ufficiale ha affermato che il conflitto è entrato in una fase di logoramento».
Estratto dell'articolo di repubblica.it lunedì 11 dicembre 2023.
“Non avrei mai immaginato di assistere a una barbarie così indicibile contro gli ebrei nel corso della mia vita". A parlare così è Steven Spielberg, mentre la Usc Shoah Foundation, da lui fondata nel 1994, sta raccogliendo testimonianze video delle atrocità commesse dai terroristi di Hamas contro gli israeliani il 7 ottobre, da aggiungere al suo patrimonio di video-testimonianze di sopravvissuti all'Olocausto.
[...] L’iniziativa, ha aggiunto, "garantirà che le voci dei sopravvissuti agiscano come un potente strumento per contrastare la pericolosa ascesa dell'antisemitismo e dell'odio
"I sopravvissuti all'Olocausto – ha aggiunto Spielberg – sono i più coraggiosi tra noi, e i loro resoconti sono una testimonianza duratura della resilienza dello spirito umano.
Entrambe le iniziative, la registrazione delle interviste con i sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre e la raccolta continua di testimonianze sull'Olocausto, hanno lo scopo di mantenere la nostra promessa ai sopravvissuti: che le loro storie saranno condivise nello sforzo di preservare la Storia e di lavorare per un mondo senza antisemitismo o odio di qualsiasi tipo".
[…]
Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” lunedì 11 dicembre 2023.
Le decisioni vengono prese soltanto da Yahya Sinwar a Gaza: non esistono più scelte collegiali con gli altri dirigenti di Hamas in esilio in Qatar, in Libano e in Turchia. La strage scatenata il 7 ottobre e l’offensiva israeliana contro la Striscia hanno avuto l’effetto di rendere ancora più assoluto il potere del leader jihadista, che durante le trattative per la liberazione degli ostaggi ha dimostrato di avere il controllo totale della formazione terroristica. Una condizione che però rende ancora più importante la sua cattura o eliminazione: è l’unico colpo che può realmente smantellare l’organizzazione palestinese.
[…] Il capo fuggitivo non lascia scie elettroniche: non usa telefonini o computer che potrebbero tradire la sua posizione. Ma il numero dei miliziani catturati continua ad aumentare e tanti forniscono informazioni su di lui. Testimonianze che parlano del trasferimento da Gaza City a Khan Yunis compiuto poco prima della tregua, nascondendosi nei cortei umanitari […] Lo descrivono come sempre più barricato nei bunker sotterranei […] Un Califfo pronto a sacrificare tutto il suo popolo pur di raggiungere i suoi obiettivi.
Da due mesi gli analisti di Mossad e Shin Bet cercano proprio di decifrare quali sono i risultati che voleva ottenere con l’eccidio del 7 ottobre […] Sinwar ha passato un decennio nelle carceri israeliane, dedicandosi soprattutto a studiare la mentalità dei suoi avversari. Questo gli ha permesso di infliggere un colpo senza precedenti allo Stato ebraico ma gli ha fatto anche commettere due errori di valutazione.
Anzitutto ha ritenuto che l’onda emotiva per i massacri nei kibbutz avrebbe spinto le piazze musulmane alla rivolta, trascinando altre nazioni arabe nello scontro contro Israele. Questo non è avvenuto e neppure gli alleati storici, come gli Hezbollah libanesi o le formazioni sciite irachene, sono entrati in guerra […] Sinwar e le sue brigate si sono ritrovate sole.
Il secondo sbaglio, quello che potrebbe rivelarsi fatale, è stato sottovalutare la reazione israeliana. Il leader di Hamas […] si aspettava qualcosa di simile all’attacco del 2014: una campagna limitata nel tempo e nella potenza. Per questo ha preparato le sue schiere a condurre una resistenza non particolarmente accanita in superficie […] L’assalto scagliato da Israele, con un volume di fuoco senza precedenti […] sta invece trasformando i cunicoli in prigioni, dove la sopravvivenza della rete jihadista si fa ogni giorno più difficile.
Mentre molti palestinesi cominciano a voltare le spalle a Sinwar, […] Netanyahu si è rivolto direttamente ai miliziani: «È finita, non morite per Sinwar». Adesso al capo asserragliato nelle catacombe resta un’unica carta da giocare: gli ostaggi. Quando era detenuto, disse allo 007 incaricato di interrogarlo che quello che Israele considerava un elemento di forza - il fatto che la maggioranza dei cittadini servisse nell’esercito - era invece una debolezza da sfruttare. Aveva ragione: fu rilasciato insieme ad altri 1026 in cambio di un singolo soldato.
E oggi ha in mano ancora 138 israeliani, soprattutto militari, per cui chiede di liberare i quasi 7000 reclusi palestinesi. Sono un’arma per dividere l’opinione pubblica e logorare il sostegno a Netanyahu […] Sinwar è sempre stato più abile come psicologo e propagandista che non come condottiero. E oltre ai prigionieri, gli resta un altro strumento per uscire dalla trappola: il martirio del suo popolo, quelle 17 mila vittime civili che […] spingono le cancellerie arabe e occidentali a chiedere l’interruzione dell’offensiva. […]
Cosa resta di Hamas? Storia di Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2023.
Un accampamento di riservisti a Gaza. I soldati, informati dall’intelligence, sono in guardia e aspettano che gli incursori di Hamas . Segue una sparatoria, l’imboscata — secondo la versione ufficiale — è sventata, il passaggio sotterraneo è distrutto. Lo scontro è una delle tante micro-battaglie che si accendono nella Striscia, episodi ripetuti. Hamas è debilitata, ha subito colpi specie nel nord, però continua con la strategia del logoramento. L’unica possibile contando sul fattore tempo. Piccoli nuclei, composti da 3-4 miliziani, si infilano tra vicoli e case per cercare di sorprendere le truppe nemiche. Si avvicinano quanto basta per tirare con lanciagranate dotati di doppia carica, sono «fatti in casa», versioni modificate dei famosi Rpg «sovietici» o cinesi, le armi tipiche delle guerriglie di mezzo mondo. A volte riescono a fare centro tirando sul retro dei corazzati.
Il portavoce Abu Ubayda, dato per morto ma sempre presente in rete, ha rivendicato la distruzione o il danneggiamento di dozzine di mezzi blindati. Annunci intinti nella propaganda che comunque descrivono la fase dell’invasione, costata agli israeliani la morte di circa 100 militari. Un bilancio grave ma inferiore ai timori dello Stato Maggiore. Almeno questo è ciò che dicono ai media sottolineando i successi. L’esercito preme a Jabaliya e Shasaiye nel settore settentrionale — «Siamo vicini al punto di rottura», afferma la Difesa — e sulla roccaforte di Khan Younis nel sud. La valutazione dopo due mesi di operazioni non può essere definitiva, per questo hanno lasciato trapelare la previsione di un’estensione almeno fino a gennaio. Sempre che la diplomazia non riesca ad imporre una tregua per mettere fine ad un disastro umanitario gigantesco, con decine di migliaia di vittime civili. Gerusalemme ritiene di aver ucciso 6-7 mila miliziani, tra loro un certo numero di comandanti. Da un calcolo empirico, elaborato solo sui comunicati diffusi, sarebbero quasi 90 i dirigenti eliminati. Restano le incertezze: i palestinesi naturalmente confermano solo cifre più basse, è difficile accertare il decesso di un ufficiale a meno di non recuperare il corpo. In molti casi i target sono stati neutralizzati da strike aerei o tiri di artiglieria, elementi sepolti sotto cumuli di macerie, intrappolati in gallerie. Difficile che si rischino vite per andare a verificare.
Il quadro che emerge è, al solito, composito e «misto».1) I battaglioni di Hamas e altre fazioni che operavano a nord sono stati ridimensionati, «caduti» alcuni quadri importanti. Sono stati rilevati «segnali di fatica». Tuttavia, la resistenza «urbana», con il mordi-e-fuggi, prosegue. 2) L’offensiva ha costretto i capi a stare rintanati nei cunicoli, specie a sud. Gli israeliani sperano di scovare i vertici delle fazioni — Yahya Sinwar, Mohammed Deif, i collaboratori più stretti — e magari di riuscire anche a liberare qualcuno dei 137 ostaggi. Missioni sempre rischiose come conferma il fallito blitz di qualche giorno fa in un tentativo di strappare un prigioniero dalle mani dei carcerieri. Gli israeliani sperano di scovare i vertici delle fazioni — Yahya Sinwar, Mohammed Deif, i collaboratori più stretti — e magari di riuscire anche a liberare qualcuno dei 137 ostaggi. Missioni sempre rischiose come conferma il fallito blitz di qualche giorno fa in un tentativo di strappare un prigioniero dalle mani dei carcerieri. La seconda dimensione del conflitto è quella dell’intelligence. Fughe di notizie — non sappiamo quanto pilotate — hanno riportato in primo piano la caccia alla leadership di Hamas all’estero, alti funzionari stabilitisi in Qatar, Turchia, Libano. Il capo dello Shin Bet ha parlato di «una nuova Monaco», un riferimento agli omicidi contro i terroristi coinvolti nella strage alle Olimpiadi del 1972. Possono farlo di nuovo? In teoria sì e anche in pratica, a patto di superare gli ostacoli. I turchi, non appena sono circolate le notizie, hanno lanciato moniti duri e avranno di sicuro rafforzato la protezione. E non da oggi come rivelano numerose indagini su possibili talpe israeliane. I qatarini avrebbero chiesto garanzie di «immunità» per i loro ospiti: essendo l’unico vero canale negoziale hanno un buon motivo per essere ascoltati. Inoltre, proprio la storia di Hamas ha dimostrato che l’assassinio delle figure preminenti, compreso il fondatore Ahmed Yassin, non ha inciso sul movimento. Siamo, però, in una logica di guerra. Alcune azioni sono controproducenti sul piano diplomatico ma servono in chiave interna e rispondono al massacro del 7 ottobre.
Gaza, "cos'abbiamo trovato nello zaino dell'Onu": la denuncia di Israele. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2023
Da Israele una nuova, sconcertante denuncia contro Hamas. E parole che sono destinate a inasprire in un modo o nell'altro i rapporti, già ai minimi termini, tra il governo di Tel Aviv e le Nazioni Unite.
Le forze di difesa israeliane (Idf) hanno infatti riferito di avere trovato un grande orso di peluche con dentro un fucile da cecchino e munizioni durante un raid in una scuola usata da Hamas nella Striscia di Gaza, e altre armi nascoste all'interno di borse dell'Unrwa, agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, nelle classi di una scuola adiacente.
"Durante le attività operative della 551esima Divisione, ieri è stato trovato un grande orsacchiotto contenente fucili di precisione e munizioni all'interno di una scuola. Inoltre, in una scuola vicina, sono state trovate armi nascoste nelle aule, alcune nascoste in borse dell'Unrwa", si legge in un post su X del portavoce dell'Idf Daniel Hagari, che allega due video in cui si vedono soldati mentre aprono la schiena del peluche e vi trovano all'interno delle armi.
"L'organizzazione terroristica di Hamas sta usando i giochi dei bambini per nascondere le armi, mettendo deliberatamente a rischio i bambini di Gaza. Durante la guerra, sono state trovate armi nascoste negli oggetti e nelle aree di gioco dei bambini, tra cui nello zaino di una bambina, sotto i letti dei bambini, nelle scuole e nei parchi giochi", aggiunge Hagari.
La denuncia segue di poche ore le violentissime polemiche per il veto posto dagli Stati Uniti all'Onu sul cessate il fuoco all'Onu. Una "scelta immorale" secondo il presidente palestinese Abu Mazen, ma secondo Israele la "vergogna" è invece quella delle stesse Nazioni Unite: "L'invocazione dell'articolo 99, dopo che non è stato utilizzato per la guerra in Ucraina o per la guerra civile in Siria, è un altro esempio della posizione di parte e schierata del segretario Guterres".
Logico che il collegamento indiretto tra lo zainetto delle Nazioni Unite e i terroristi di Hamas rappresenta, a livello mediatico, il tassello della guerra della "narrazione" su quanto sta accadendo nella Striscia dal 7 ottobre scorso, con Tel Aviv che accusa l'Organizzazione delle Nazioni unite di sostenere apertamente non solo i palestinesi, intesi come civili e come politici, ma pure la guerriglia armata di Hamas.
Per le strade della Striscia di Gaza: «Così staniamo Hamas». Davide Frattini su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.
I soldati sono ormai ovunque e indicano da vicino gli obiettivi da colpire. Nella devastazione resistono i segni di chi viveva qui: un chiosco per le bibite, un’altalena blu. «I terroristi hanno usato questo parco giochi come base di lancio per i razzi»
La sabbia ha ricoperto tutto come se fosse caduta dall’alto, invece è riaffiorata da sotto, i carrarmati hanno dissodato il verde delle coltivazioni, aratri senza semina che si lasciano dietro terra arida. La jeep dell’esercito passa attraverso la barriera squarciata il 7 ottobre all’alba dai terroristi palestinesi, adesso c’è un cancello, da qui in avanti le chiavi le tengono gli israeliani, queste aree sono le prime a essere state invase dalle truppe, restano un campo di battaglia. Lo Stato Maggiore vuole s tabilizzare il Nord della Striscia mentre procede con l’offensiva a sud, mentre accerchia Khan Younis, la città dov’è nato Yahya Sinwar, capo dei capi di Hamas. È lui che con Mohammed Deif, il comandante militare, ha pianificato gli assalti, 1.200 israeliani ammazzati.
L’erba è scomparsa per chilometri, resta il rumore costante da falciatrice dei droni che sorvolano il territorio, i soldati sono ormai ovunque e indicano da vicino gli eventuali obiettivi da colpire. Anche le dune verso il Mediterraneo hanno cambiato forma, il vento della guerra ne ha innalzate di nuove, le collinette tirate su dai bulldozer per creare postazioni su cui si stendono i fanti di questo battaglione formato da riservisti. Da queste parti significa avere 25 anni o un po’ di più come Gal Eisenkot: è stato ucciso giovedì non lontano da queste macerie tra le altre macerie di Beit Lahia, il padre Gadi fa parte del consiglio ristretto guidato dal premier Benjamin Netanyahu, della squadra che decide il conflitto.
I segni di chi è scappato
Le vie strette di Atatra mantengono l’andamento della normalità: le curve, le svolte, le corte salite per arrivare a quella che poteva essere una piazza. I resti dei palazzotti grigi mal intonacati ancora si affacciano verso lo spazio vuoto e svuotate sono ormai le case: portoni che si aprono sul niente, finestre che mostrano il tramonto sul mare, al secondo piano di un primo che non c’è più. Nella devastazione resistono i segni di chi abitava questi quartieri: un’altalena blu, il chiosco in legno per le bibite. «Gli uomini di Hamas hanno usato questo parco giochi come base di lancio per i razzi contro le città israeliane», commenta il colonnello Maoz, è possibile pubblicarne solo il nome, quest’articolo è stato rivisto dall’esercito per evitare la diffusione di informazioni riservate, come viene richiesto ai giornalisti portati nelle aree dei combattimenti.
Labirinto sotto terra
Le battaglie sono avvenute casa per casa, continuano cunicolo per cunicolo, dalle gallerie scavate per anni sbucano i paramilitari jihadisti che hanno sfruttato la settimana di tregua fino a giovedì scorso e sono ritornati nei villaggi a nord, quelli spopolati dalla paura delle bombe e dagli ordini di evacuazione verso le aree più sicure indicate sui volantini dell’esercito. Alcuni emergono dalle segrete e restano disorientati perché non ritrovato i vecchi riferimenti come la moschea, il paesaggio è cemento frantumato.
La lastra di metallo copre un tunnel verticale con pareti rinforzate, scende per una decina di metri, la scala di ferro ben piantata per andar giù e risalire in fretta. La botola provvisoria serve a evitare che qualche soldato ci caschi nel buio, ormai lo scavo è disarmato, non è più parte delle tattiche offensive di Hamas, gli ufficiali non spiegano perché non sia stato fatto esplodere, gli scienziati di Tsahal avrebbero creato una bomba spugna che li tappa sul fondo, li isola dal reticolo sotterraneo. «È stato costruito in mezzo agli edifici, perché i fondamentalisti attaccano mischiandosi alla popolazione civile», continua il colonnello, i morti palestinesi sono oltre 17 mila, i combattenti sarebbero un terzo. Il buco è a mezzo metro da un palazzotto più decorato degli altri, le mattonelle bianche sbrecciate ricoprono la facciata, miseri lussi nella miseria: la maggior parte degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, i miliardi consegnati nel tempo dal Qatar ad Hamas — con il beneplacito di Netanyahu — non sono serviti a far superare loro quell’asticella della disperazione.
Lo scontro decisivo
Dall’altra parte del confine Yoav Gallant, il ministro della Difesa, annuncia che il gruppo «sta cominciando a cedere», è in visita alle truppe schierate attorno alla Striscia su cui l’organizzazione terroristica spadroneggia dal 2007, da quando l’ha tolta con le armi al presidente Abu Mazen. Il colonnello Maoz — il volto smagrito di chi qua dentro ha combattuto troppe volte, c’era anche tra luglio e agosto del 2014 — conferma: «Gli estremisti si ritirano quando gli scontri faccia a faccia diventano troppo duri». Quelli che si consegnano «sono sempre di più», dichiara Daniel Hagari, portavoce delle forze armate, gli altri — ancora migliaia — si stanno raggruppando e asserragliando proprio a Khan Younis, dove si deciderà questo scontro. Maoz ripete che dopo i massacri del 7 ottobre i jihadisti non possono più esistere, di sicuro non a pochi chilometri dai kibbutz devastati negli attacchi, di sicuro «non con le armi che requisiamo anche nelle camerette dei bambini, nascoste sotto i loro letti o tra i loro vestiti».
La velocità di reazione per le manovre in una zona così ristretta — 42 chilometri di lunghezza e in alcuni punti una larghezza di soli 6 — è fondamentale. Gli accampamenti, almeno qua attorno, non sono stati allestiti, i soldati dormono uno sull’altro nelle scatole blindate che sono i Namer, un ibrido di nuova progettazione tra il classico — e in parte antiquato — tank Merkava e un veicolo per il trasporto truppe: ha accelerato le incursioni, l’avanzata cadenzata dai giri del motore e non dai passi della marcia, i militari salgono e scendono dal portellone posteriore, se c’è da sparare.
Fiamme al tramonto
Il buio dell’autunno mediorientale cala presto, le strade belliche mostrano ormai cartelli con il numero e le indicazioni in ebraico, il via vai dei mezzi è continuo, si creano ingorghi, la polvere alzata ancora più densa dell’umidità che arriva dal mare. I vasi di ferro arrugginiti stanno uno a fianco all’altro, un candelabro improvvisato. Nell’oscurità il rosso delle fiamme raddoppia in un istante, gli israeliani celebrano da giovedì la festa di Hanukkah, restano sei fuochi da accendere, il rogo di questa guerra durerà molto di più.
"Resa di massa dei terroristi di Hamas". Storia di Gaia Cesare su Il Giornale l'8 dicembre 2023.
Denudati, in qualche caso bendati, la testa bassa, le mani dietro la schiena, allineati come prigionieri di guerra, caricati sulle camionette dell'esercito israeliano. Centinaia di «sospetti terroristi» di Hamas sono stati arrestati e interrogati dall'esercito e dall'intelligence israeliana e «molti di loro si sono arresi e consegnati» nelle ultime ore nella Striscia di Gaza, in una data simbolica, il 7 dicembre che segna due mesi dal feroce attacco contro Israele, 1200 morti il 7 ottobre. «Controlliamo chi è connesso ad Hamas e chi no, teniamo detenuti tutti e li interroghiamo», ha spiegato il portavoce dell'Idf, Daniel Hagari, dopo che le foto e i video circolati in Rete sono diventati virali. Se la loro affiliazione a Hamas fosse confermata, sarebbe un segnale che i terroristi stanno perdendo non solo sul campo, ma anche nel cuore e nelle menti degli affiliati.
Divisi in file da quattro, almeno cento uomini si contano in uno dei filmati apparentemente girato a Jabalia, nel nord di Gaza. Un altro centinaio, con gli occhi coperti da una fascia rossa, si vedono in altre immagini, pare immortalate a Khan Yunis, nel sud. Altre decine sono sul retro di un veicolo militare. Fonti palestinesi sostengono si tratti semplicemente di civili, tra loro anche il giornalista Diaa Al-Kahlout, del New Arab. Ma la resa di molti, confermata da Israele, sarebbe l'indizio di una possibile svolta, un segnale che si somma alle denunce di alcuni civili a Gaza, che rompono l'omertà e raccontano di come i terroristi sottraggano gli aiuti umanitari alla popolazione. «Vanno tutti a loro, nelle loro case», spiega arrabbiata una gazawi in un video, confermando ciò che da tempo sostengono le autorità israeliane: «Sono molti gli aiuti che entrano, ma non arrivano ai civili».
La guerra sta esasperando i palestinesi di Gaza, ai quali proprio ieri Israele ha concesso un aumento «minimo» delle consegne di carburante dopo le pressioni degli Stati Uniti, «per evitare il collasso umanitario». Per la prima volta dall'inizio del conflitto, per diminuire il rischio che sui camion viaggino anche armi e aiuti militari per Hamas, Israele ha anche annunciato l'apertura del valico di Kerem Shalom, nel sud est della Striscia.
La guerra continua spietata, tra le sofferenze dei civili e le vittime su entrambi i fronti, oltre 17mila quelle palestinesi. Almeno 7 soldati israeliani sono rimasti uccisi ieri e fra questi, a Jabalia, c'è Gal Meir Eizenkot, 25 anni, figlio dell'ex capo di stato maggiore dell'esercito e ministro Gadi Eisenkot. Colpito da un ordigno durante un rastrellamento. Sono 89 i militari morti, a cui ieri si è aggiunto un civile per un razzo dal Libano di Hezbollah, che Netanyahu avverte: «Se inizia una guerra contro Israele, trasformerebbe Beirut e il Libano in Gaza City e Khan Yunis».
Sul piano diplomatico, la battaglia si sposta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre Vladimir Putin stringe l'asse con l'Iran, annunciando di aver accettato l'invito del presidente Raisi a Teheran, dopo la visita del leader iraniano ieri a Mosca e la minaccia che «i prossimi giorni saranno terribili per Israele», colpevole di «genocidio», nelle prossime ore gli Emirati arabi uniti, unico Paese arabo fra i 15 del Cds, dove Putin si è appena recato in visita, depositeranno una risoluzione che potrebbe essere dibattuta oggi, per un immediato stop umanitario alle ostilità. Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere di non essere favorevoli a un cessate il fuoco, convinti che favorirebbe Hamas, spiegano che nemmeno una pausa è in vista, ma il loro veto su una tregua potrebbe mettere in imbarazzo Joe Biden, che nel frattempo chiede a Israele di limitare gli attacchi al sud, rifugio degli sfollati. Il leader americano ieri ha sentito Netanyahu e il re Abdullah di Giordania. Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, intanto, ha fatto di nuovo infuriare Israele invocando, per la prima volta nel suo mandato, l'art. 99 della Carta Onu, per notificare che la crisi a Gaza è «una minaccia alla pace mondiale». Lapidaria la replica israeliana: «È il mandato di Guteress che mette a rischio la pace nel mondo».
Quel sospetto sulle mosse di Hamas: "Ha speculato in borsa prima del massacro". Storia di Federico Giuliani su Il Giornale lunedì 4 dicembre 2023.
Alcuni investitori potrebbero aver saputo in anticipo del piano di Hamas per attaccare Israele lo scorso 7 ottobre, utilizzando le informazioni ottenute per trarre profitto dai titoli israeliani in Borsa. La possibile prova arriva da un sospetto boom di vendite allo scoperto su fondi d'investimento e società israeliane, avvenuto prima del tragico blitz del gruppo filo palestinese sul territorio israeliano. Queste stesse vendite hanno portato a guadagni milionari. Detto altrimenti qualche trader bene informato potrebbe aver sfruttato la conoscenza anticipata delle suddette azioni terroristiche per lucrare sui massacri verificatisi a sud di Israele. Non è da escludere che la strana speculazione finanziaria possa essere stata effettuata dagli stessi membri di Hamas.
La possibile speculazione in Borsa di Hamas
La clamorosa ipotesi è stata avanzata da Robert J. Jackson Jr. della New York University School of Law e Joshua Mitts della Columbia Law School in uno studio pubblicato sulla rivista Ssrn. Secondo il paper, i miliziani palestinesi potrebbero aver tentato di trarre profitto in Borsa dall'assalto di due mesi fa.
"Abbiamo documentato un picco significativo nelle vendite allo scoperto nel principale Etf (fondo scambiato in Borsa ndr) di società israeliane giorni prima dell'attacco di Hamas del 7 ottobre", si legge nello studio.
"Le vendite allo scoperto quel giorno hanno superato di gran lunga quelle avvenute durante numerosi altri periodi di crisi, tra cui la recessione seguita alla crisi finanziaria, la guerra Israele-Gaza del 2014 e la pandemia di Covid-19. Allo stesso modo, abbiamo identificato aumenti delle vendite allo scoperto prima dell'attacco in decine di società israeliane quotate a Tel Aviv", prosegue il documento.
Un altro aspetto interessante è che i due analisti non hanno riscontrato un aumento significativo delle vendite allo scoperto, lo scorso luglio, prima che la Knesset approvasse una controversa legge per vietare ai tribunali di utilizzare un test di ragionevolezza per annullare le decisioni del governo.
Le strane vendite allo scoperto
Ricordiamo che la vendita allo scoperto avviene quando un trader prende azioni di una società specifica e poi le vende sperando che il prezzo scenda in seguito in modo da poterle riacquistare a un prezzo inferiore.
Le aziende analizzate includono le principali banche del Paese Hapoalim, Leumi, Discount e Mizrahi-Tefahot, l'azienda farmaceutica Teva e il gigante del software NICE. "Per quanto riguarda una sola società israeliana (Leumi ndr), 4,43 milioni di nuove azioni vendute allo scoperto nel periodo dal 14 settembre al 5 ottobre hanno prodotto profitti (o perdite evitate) di 3,2 miliardi di shekel (740 milioni di dollari) su tale ulteriore vendita allo scoperto", ha evidenziato lo studio.
"Anche se non abbiamo registrato alcun aumento complessivo delle vendite allo scoperto delle società israeliane, sulle borse statunitensi abbiamo identificato un forte e insolito incremento, subito prima degli attacchi, nella negoziazione di rischiose opzioni a breve termine su queste società con scadenza subito dopo gli attacchi", ha aggiunto il paper, "e abbiamo identificato pattern simili nell'Etf israeliano nei momenti in cui è stato riferito che Hamas stava pianificando di eseguire un attacco simile a quello di ottobre".
I risultati dello studio
I risultati dello studio suggeriscono insomma che i trader informati sugli attacchi imminenti abbiano potuto trarre profitto da tragici eventi e, "in linea con la letteratura precedente, dimostriamo che scambi di questo tipo si verificano per via di lacune nell'applicazione statunitense e internazionale dei divieti legali sul trading informato", è la conclusione alla quale sono giunti i due accademici statunitensi.
I ricercatori hanno affermato che il picco di questi tipi di transazioni è arrivato il 2 ottobre, facendo registrare un valore superiore al 99% dei 3.570 giorni di negoziazione analizzati nello studio, risalenti a 15 anni fa. Hanno anche notato che la vendita allo scoperto alla vigilia degli attacchi alla Borsa di Tel Aviv "è aumentata drammaticamente".
Nel frattempo, mentre la guerra a Gaza infuria, il mercato azionario israeliano ha subito un colpo non da poco. In un simile contesto, le previsioni di crescita economica di Israele sono state tagliate.
Sinwar, segni di debolezza. Nel popolo della Striscia la rabbia contro i miliziani: "Così ci portano al disastro". Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale lunedì 4 dicembre 2023.
Sinwar, segni di debolezza. Nel popolo della Striscia la rabbia contro i miliziani: "Così ci portano al disastro"© Fornito da Il Giornale
«Che Allah bruci Hamas». «Hamas ci ha portato un disastro». E altro ancora. Questi post appaiono per la prima volta in questi giorni a Gaza. Il giornalista Khaled Abu Toameh spiega: anche a Gaza comincia a formicolare fra le case distrutte e la gente in fuga verso le zone indicate da Israele come spazi di non belligeranza, l’idea che l’uso cinico della popolazione come scudo umano abbia trascinato l’intera Striscia, i suoi abitanti, in un disastro senza precedenti. Filtrano le spiegazioni che Israele ripete in arabo tramite i suoi speaker: raccontano di nuovo la strage, la guerra seguita all’aggressione cui è obbligato a rispondere per sopravvivere, spiegano che Hamas usa la gente, chiede di allontanarsi dalle strutture prese di mira.
L’idea è anche che Yahya Sinwar e Mohammed Deif abbiano sbagliato i loro calcoli; che il piano per cui dopo il genocidio si resta al potere non funzioni, e che il ruggito d’odio si stia trasformando in debolezza con la determinazione di Israele a combattere fino in fondo. Hamas non se l’aspettava: in Medio Orientale la debolezza è la fine. Sinwar ha cercato di trascinare le interruzioni per le restituzioni fino a una vera tregua nella quale salvare il suo potere. La sua arleader che ha sepolto vivo un suo compagno accusato di fare il gioco di Israele, ma ora può diventare un criminale che ha portato solo disastri. Kamala Harris mentre Israele usciva verso la nuova offensiva, ha di nuovo ribadito la linea Usa per cui da una parte Israele deve distruggere Hamas, e dall’altra non spostare la popolazione, rispettarne l’integrità, non occupare spazi che devono invece essere conservati per un futuro in cui l’Autonomia palestinese di Abu Mazen ne prenda il posto «rivitalizzata».
Harris vede una conclusione che ancora purtroppo sembra lontana, • ma, i bambini e le donne rapite dieci a dieci, usate con ritardi e diminuzioni, con giochetti psicologici le ha usate fino a rifiutare di mantenere la promessa per conservarsi le carte migliori, ma Israele gli ha scoperto la trappola.
Su Gaza, gli aerei di Israele volano di nuovo, presto comincerà la battaglia di terra; Khan Yunis, la città di Yahya Sinwar, quella in cui il 90 per cento si dichiara un guerriero di Hamas fin dall’età di cinque anni, dall’alto appare ormai come un cumulo di rovine, da là ieri certamente sono piovuti meno missili. Sotto terra, però l’intreccio delle gallerie è efficiente, forse Sinwar prepara sorprese, forse una fuga in Egitto. La sua crudeltà è la sua forza, tutti hanno paura di un e suggerisce soprattutto la nostalgia per una formula in cui anche i palestinesi sembravano potere avere una faccia moderata. Il tempo, i mille no, gli stipendi ai terroristi di Abu Mazen, la mancata condanna delle azioni di Hamas suscitano dubbi: «Hamas vinse le elezioni a Gaza contro Fatah; Hamas lo sconfisse e lo buttò dai tetti. Oggi in Cisgiordania il favore per Hamas è dell’80 per cento, a fronte del 60 per cento pro Fatah», dice Abu Toameh. Paradossalmente è più facile che si accorga dell’orrore di Hamas la gente che ha visto uscire i kalashnikov e i missili dalle scuole e da sotto il letto dei bambini, della schiera di Abu Mazen. «La verità - dice Khaled stupito che questo possa accadere - è che la presenza di Israele non è stata accettata nemmeno a Ramallah. I “coloni” non sono quelli della Cisgiordania, per Hamas e Fatah stanno a Tel Aviv o nei kibbutz del sud».
"Missioni letali in tutto il mondo". Scatta la vendetta del Mossad nel triangolo di Hamas. Storia di Valerio Chiapparino su Il Giornale venerdì 1 dicembre 2023.
L’ordine è stato già impartito.“Ho dato istruzioni al Mossad per colpire i capi di Hamas ovunque essi siano”, ha dichiarato in diretta televisiva il 22 novembre il premier Benjamin Netanyahu rompendo il tradizionale riserbo su una pratica condotta da decenni dagli 007 dello Stato ebraico contro i suoi nemici. Per il Wall Street Journal che rilancia in queste ore i piani dei servizi segreti di Tel Aviv “non si tratta di se ma dove e come i leader israeliani colpiranno” i capi del movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza.
Secondo il quotidiano americano, l’operazione dell’intelligence israeliana è prevista scattare alla fine della guerra in corso a Gaza e potrebbe richiedere anni per essere portata a termine. Nel mirino delle spie ci sarebbero i dirigenti politici e gli affiliati dell’organizzazione terroristica residenti in Libano, Turchia e Qatar, Paesi in cui Tel Aviv in passato ha evitato o ridotto al minimo l’esecuzione di omicidi mirati contro elementi ritenuti una minaccia alla sicurezza d’Israele per il timore di possibili crisi diplomatiche. A questo elenco si potrebbero aggiungere l’Iran e la Russia considerati altri “porti sicuri” per gli uomini di Hamas.
Alcuni funzionari di Tel Aviv non avrebbero gradito la pubblicità offerta dal governo al progetto volto a neutralizzare i responsabili del massacro del 7 ottobre. Oltre al premier Netanyahu anche il ministro della Difesa Yoav Gallant ha indicato infatti che la lotta contro i militanti islamisti è “estesa a tutto il mondo” e diretta “sia contro i terroristi che si trovano a Gaza sia contro quelli che viaggiano a bordo di aerei costosi”. Un riferimento alla vita agiata condotta dai quadri di Hamas in alberghi lussuosi, in particolare in Qatar, oggetto di critica anche da parte di elementi interni all’organizzazione residenti nella Striscia.
Alcuni esponenti del governo Netanyahu avrebbero voluto agire sin da subito contro i membri di Hamas all’estero, specialmente dopo l’ondata di indignazione sollevata dai video in cui alcuni dei loro capi, tra cui Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh, si sono congratulati con gli esecutori degli attacchi che hanno causato la morte di almeno 1.200 israeliani. Per il momento però avrebbe comunque prevalso una linea più prudente sulle tempistiche dell’operazione. Non è ancora chiaro se questi piani escludano la prospettiva ventilata negli scorsi giorni in colloqui con gli americani di espellere dalla Striscia i fedayn appartenenti ai ranghi inferiori di Hamas.
La campagna di assassinii mirati annunciata dal gabinetto di guerra si inserisce in una lunga tradizione portata avanti dall’intelligence dello Stato ebraico sin da prima della sua fondazione nel 1948. Secondo il giornalista Ronen Bergman autore del libro “Rise and kill first” già a partire dalla Seconda guerra mondiale combattenti ebrei, prima, ed Israele, poi, hanno condotto più di 2700 missioni letali. Tra le più famose l'operazione Ira di Dio lanciata dal Mossad per colpire i terroristi del gruppo Settembre nero coinvolti nell’uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Più problematica fu invece la realizzazione del piano autorizzato nel 1997 da Netanyahu, all'epoca al suo primo mandato, per eliminare in Giordania Meshaal, uno dei fondatori di Hamas, spruzzando una tossina nel suo orecchio. Si salvò perchè gli agenti segreti furono arrestati dalla polizia di Amman e il governo israeliano per ottenere la loro liberazione dovette fornire l'antidoto per il veleno. Un "colpo di fortuna" che per Meshaal e i suoi uomini potrebbe non ripetersi.
La guerra del Mossad ai leader di Hamas lontano da Gaza. Stefano Piazza su Panorama l'1 Dicembre 2023
La guerra del Mossad ai leader di Hamas lontano da Gaza Gli uomini dei servizi segreti di Israele starebbero preparando operazioni mirate per stanare i leader di Hamas nascosti lontano dalla Striscia Come scrive stamani The Wall Street Journal (WSJ) i servizi segreti israeliani si stanno preparando a neutralizzare globalmente i leader di Hamas al termine della guerra nella Striscia di Gaza. Questa campagna, voluta dal primo ministro Benjamin Netanyahu mira ai dirigenti di Hamas in Libano, Turchia e Qatar. Il Qatar, nel Golfo Persico, ospita l’ufficio politico di Hamas a Doha. La strategia segreta è un’ulteriore estensione delle operazioni clandestine israeliane, leggendarie e condannate globalmente. Paesi come Qatar, Libano, Iran, Russia e Turchia hanno offerto protezione ad Hamas, ma in passato Israele ha evitato azioni dirette per evitare crisi diplomatiche e Netanyahu ha annunciato il piano il 22 novembre, istruendo il Mossad ad agire contro i capi di Hamas ovunque si trovino.
Nel 1997, Netanyahu, allora al suo primo mandato come primo ministro, ordinò alle spie israeliane di uccidere Meshaal, un fondatore di Hamas che allora viveva in Giordania. La squadra israeliana entrò in Giordania fingendosi turisti canadesi e attaccò Meshaal fuori dall'ufficio politico di Hamas ad Amman. Un agente israeliano spruzzò una tossina nell'orecchio di Meshaal ma venne catturato insieme a un altro membro della squadra prima che potessero scappare. Khaled Meshaal cadde in coma e la Giordania minacciò di rescindere il trattato di pace con Israele. L'allora presidente americano Bill Clinton fece pressioni su Netanyahu affinché ponesse fine alla crisi inviando l’allora capo del Mossad ad Amman con l'antidoto che salvò la vita di Meshaal. Israele ha poi assicurato la libertà dei suoi agenti in Giordania accettando di rilasciare Sheikh Ahmed Yassin, il leader spirituale di Hamas, e altri 70 prigionieri palestinesi. Meshaal in seguito descrisse il fallito tentativo di omicidio come «un punto di svolta» che contribuì a dare potere ad Hamas. Nonostante alcuni funzionari israeliani preferiscano mantenere segreti tali piani, Netanyahu ha reso pubbliche le sue intenzioni in un discorso nazionale. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato che «i leader di Hamas vivono in un tempo preso in prestito e sono segnati a morte. La lotta è mondiale, sia dei terroristi a Gaza che di coloro che volano su aerei costosi». Mentre Israele sta già cercando di eliminare i leader di Hamas a Gaza, i piani attuali riflettono la volontà di estendere l’azione a livello internazionale. Questo sforzo è parte della strategia di Israele per impedire a Hamas di rappresentare una minaccia futura, simile alla coalizione globale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico. Israele sta anche valutando l’espulsione forzata di migliaia di combattenti di basso livello di Hamas da Gaza.
La campagna di omicidi sarebbe un'estensione delle decennali operazioni clandestine di Israele che sono diventate oggetto di condanna mondiale. Assassini israeliani hanno dato la caccia a militanti palestinesi a Beirut vestiti da donne e ucciso un leader di Hamas a Dubai travestito da turista. Secondo ex funzionari israeliani, Gerusalemme ha utilizzato un'autobomba per assassinare un leader di Hezbollah in Siria e un fucile telecomandato per uccidere uno scienziato nucleare in Iran. Alcuni funzionari israeliani volevano lanciare una campagna immediata per uccidere Meshaal e altri leader di Hamas che vivono all'estero specie dopo aver visto un video di Meshaal e di altri leader di Hamas, compreso il suo massimo capo politico, Ismail Haniyeh, mentre festeggiavano e pregavano in uno dei loro uffici guardando in diretta gli attacchi del 7 ottobre. Il Qatar è diventato il fulcro centrale dei colloqui sugli ostaggi, con il capo del Mossad, David Barnea, che ha incontrato il capo della CIA William Burns a Doha all'inizio di questa settimana per ulteriori discussioni. Doha ha contribuito a garantire il rilascio di dozzine di ostaggi israeliani tenuti dai militanti di Gaza in cambio del rilascio dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Secondo il resoconto di Israele, a Gaza rimangono più di 130 ostaggi. La promessa di Netanyahu di dare la caccia ai leader di Hamas in tutto il mondo ha scatenato un dibattito tra gli ex funzionari dell'intelligence. Efraim Halevy, ex direttore del Mossad, lo ha definito sconsiderato. Uccidere i leader di Hamas non eliminerà la minaccia, ha detto. Ha invece il potenziale per infiammare i seguaci del gruppo e accelerare la creazione di minacce ancora peggiori. «Perseguire Hamas su scala mondiale e cercare di rimuovere sistematicamente tutti i suoi leader da questo mondo è un desiderio di vendetta, non un desiderio di raggiungere un obiettivo strategico», ha detto Halevy, che ha definito il piano «inverosimile». Amos Yadlin, un generale israeliano in pensione che un tempo guidava l’agenzia di intelligence militare, ha affermato che la campagna «è ciò che la giustizia richiede. Tutti i leader di Hamas, tutti coloro che hanno partecipato all'attacco, che hanno pianificato l'attacco, che hanno ordinato l'attacco, dovrebbero essere assicurati alla giustizia o eliminati. È la politica giusta» ha detto Yadlin. Forse nessun'altra nazione ha l'esperienza di Israele nel portare avanti campagne di assassinio in tutto il mondo. Dalla Seconda Guerra Mondiale, Israele ha condotto più di 2.700 operazioni di questo tipo, secondo il libro «Rise and Kill First», del giornalista israeliano Ronen Bergman. La più celebre è rimasta l’operazione «Collera di Dio», voluta all’epoca dal primo Ministro Golda Meir in risposta alla strage degli atleti israeliani avvenuta il 5 settembre del 1972 a Monaco durante le Olimpiadi. La vicenda è stata raccontata dal regista Steven Spielberg nel film «Munich». A dirigere l’operazione fu l’ufficiale del Mossad Avner Kaufmann che diede la caccia a undici esponenti palestinesi che avevano avuto un ruolo nell’organizzazione dell’assalto terroristico contro gli atleti israeliani. L’operazione si svolse muove tra vari Paesi e capitali in mezzo mondo, da Roma a Parigi, colpendo gli obiettivi individuati, ma provocando allo stesso tempo anche la reazione di Cia e Kgb che in quel momento si spartivano le zone di influenza e non volevano intrusi nelle loro rispettive aree, tanto da colpire loro stessi alcuni componenti della squadra di Kaufmann. L’operazione si concluse dopo che il Mossad eliminò 6 palestinesi su 11 anche a seguito delle pressioni internazionali anche a seguito di quanto accadde a Lillehammer (Norvegia) il 21 luglio 1973 in cui per uno scambio di persona venne assassinato il cittadino marocchino Ahmed Bouchiki, un cameriere fratello del musicista Chico Bouchikhi, futuro fondatore del gruppo dei Gipsy Kings. Ahmed Bouchiki venne scambiato per il terrorista Ali Hasan Salama e venne freddato per strada sotto gli occhi della moglie. Anche prima della fondazione di Israele nel 1948, i militanti ebrei uccisero i diplomatici europei coinvolti nell’amministrazione britannica della Palestina mandataria. Negli anni 60, le spie israeliane usarono lettere bomba per prendere di mira gli scienziati dell’ex Germania nazista che aiutavano l’Egitto a sviluppare razzi.
Tagliagole dal volto umano. La formidabile strategia di comunicazione di Hamas, e le complicità degli utili idioti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Novembre 2023
La liberazione di alcune persone tenute in ostaggio dal gruppo terrorista palestinese a un mese e mezzo dal pogrom del 7 ottobre è stato accolto come un gesto caritatevole. Merito anche dei media che non hanno quasi mai parlato dei prigionieri, attaccando solo Israele
Non è cosa da poco riuscire nell’impresa di assassinare milleduecento civili, deportarne qualche centinaio e rilasciarne dopo un mese e mezzo qualche decina passando per gente civile e caritatevole. Senza ironia: tanto di cappello agli strateghi della comunicazione dei massacratori del 7 ottobre.
Va detto però, una volta riconosciute le indubbie capacità comunicazionali dei tagliagole, che a tanto risultato non sarebbero mai giunti senza il fattivo contributo del collaborazionismo pacifista che per settimane e settimane ha fatto le prime pagine, le seconde pagine, le terze pagine, le quarte pagine, le quinte pagine e dentro fino all’ultima, fino al meteo e all’oroscopo, senza neppure una virgola dedicata agli ostaggi oppure con qualche giudiziosa riflessione sulla protervia di Israele che non si rassegna all’idea che anche quella, signori miei, è resistenza, anche rapire donne e vecchi e bambini appartiene al comprensibile comportamento che, come l’atto di sgozzare, decapitare, stuprare, bruciare vivi centinaia di civili, e gioirne, e proporsi di rifarlo dal fiume al mare, è roba che mica viene dal nulla, accidenti.
Senza questo bell’apparato di negazionismo giustificazionista sarebbe stato un po’ più difficile assistere al clima di favore celebrativo non già per il ritorno a casa degli ostaggi, bensì per le doti umanitarie dei rapitori: altro che la ferocia dell’entità sionista tanto ingrata, tanto sprezzante, tanto ingenerosa, che ha la sfrontatezza di non costituirsi all’Aia mentre gli ostaggi liberati dichiarano che il vitto era ottimo e abbondante.
Non per tutti, fortunatamente, ma per moltissimi eccome, sia gli sterminati sia i deportati durante il pogrom del mese scorso erano i dimenticati del giorno appresso: ma quando andava bene, perché non raramente si spiegava – e non solo a suon di berci nelle manifestazioni «Fuori i sionisti da Roma», ma anche sul filo editoriale delle complessità – che in guerra queste cose succedono e che in guerra ci sono i prigionieri di guerra, pressappoco il modulo interpretativo che attribuisce alle cose inopinate della guerra l’eccidio di Bucha, le stanze della tortura di Yahidne e la deportazione di migliaia di bambini ucraini.
Anche nel caso di quei mostruosi misfatti, non c’è che dire, è stato ottimo il lavoro negazionista della propaganda mandata in battaglia con l’operazione speciale: ma anche in quel caso è stato e continua a essere formidabile l’aiuto del collaborazionismo pacifista, quello che dal 25 febbraio del 2022 annotava che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione», quello che i bambini rapiti erano in realtà provvidenzialmente sottratti ai genitori che volevano mettergli addosso le cinture esplosive, quello che i mercati rasi al suolo erano depositi di armi della Nato, quello che le scuole incenerite erano covi nazisti, e via così.
E in perfetta e contrapposta armonia nel nuovo scenario quel pacifismo collaborazionista è adesso quello che non solo non denuncia, ma persino giustifica gli RPG sotto le culle dei neonati e le granate e i Kalashnikov nelle corsie dei malati. Tutto per la pace, ovviamente. La pace delle decapitazioni e dei bunker sotto gli ospedali imbottiti di civili. E la pace degli ostaggi, molestati dai bombardamenti.
Se i dittatori parlano di crimini di guerra. Il summit che ha visto protagonista la Lega Araba ha messo insieme i più autoritari e sanguinari regimi islamisti. L'incontro è stato caratterizzato dalla sola propaganda, una passerella terminata con un nulla di fatto per il popolo palestinese. La verità e che generali, sceicchi e ayatollah non possono fare a meno di stringere accordi con l'Occidente. Andrea Aversa su L'Unità il 22 Novembre 2023
Circa dieci giorni fa a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita, è andato in scena il festival dell’ipocrisia. La Lega Araba e l’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic) si sono ritrovate per discutere del conflitto in corso tra Israele e Hamas. Il summit ha unito i capi di stato delle nazioni arabe e di quelle musulmane. Allo stesso tavolo erano in pratica seduti, ayatollah, generali, sceicchi e sultani. Un bel nutrito gruppo di dittatori tutti riuniti in un solo luogo. L’incontro ha prodotto solo propaganda e una frase. Iniziamo dalla seconda, pronunciata dal presidente iraniano Ebrahim Raisi: “Baciamo le mani ad Hamas“. La prima è stata condita dalla solita retorica anti israeliana che ha generato un disgustoso paradosso: leader autoritari e sanguinari che hanno parlato di crimini di guerra.
Il vertice della Lega Araba e dell’Oic
Così, abbiamo dovuto sopportare Bashar al-Assad – riabilitato dai suoi colleghi – che ha parlato dei diritti del popolo palestinese. Proprio lui che ha contribuito insieme a Vladimir Putin e ad Ali Khamenei allo sterminio del popolo siriano. Le vite di uomini, donne e bambini di cui la famiglia Assad è responsabile da decenni. Abbiamo dovuto ascoltare le invettive di Raisi, mentre i giovani iraniani – che stanno da mesi manifestando per essere più liberi – vengono picchiati, imprigionati, torturati e in alcuni casi condannati a morte. Abbiamo visto al-Sisi che sta continuando a reprimere il dissenso in Egitto e a manifestare il suo rifiuto nell’accogliere i civili palestinesi. C’era Abu Mazen, annichilito da Hamas, accecato dalla corruzione e da anni incapace di offrire soluzioni alla causa palestinese. C’era Erdogan, abile nel tenere un piede in occidente e uno in oriente (riuscendo a coltivare i propri affari con entrambe le sponde) ma silenzioso sugli eccidi perpetrati contro i curdi e gli armeni.
Diritti umani e crimini di guerra: che ipocrisia
Ma il ‘re’, anzi il ‘Principe’ della passerella è stato il padrone di casa: Mohammad bin Salman. Il sovrano saudita sta cercando di lanciare molteplici messaggi. Messe in ombra le questioni più sporche (come si dice, nascondere la polvere sotto al tappeto), come ad esempio la mancanza di diritti nel proprio paese, il genocidio in Yemen e la brutale uccisione del dissidente Jamal Khashoggi, bin Salman sta continuando a mostrarsi come il principale ‘Boss’ del mondo arabo. In particolare di quello sunnita. La concorrenza è spietata: a contendergli scettro e corona ci sono Erdogan e il nemico di sempre, l’iraniano (sciita) Raisi. E la dimostrazione di quanto la questione palestinese, sia in realtà irrilevante per i partecipanti al vertice, è stata data dal suo ‘finale’: il summit non ha prodotto nulla di concreto, né per i palestinesi, né contro Israele.
Le fratture nel mondo arabo e i rapporti con l’Occidente
Così è emerso il vero obiettivo della monarchia saudita. Quello che da sempre bin Salman sta cercando di raggiungere: modernizzare l’Arabia, avvicinarla sempre di più all’occidente, renderla amica di Israele. La direzione è stata tracciata, è solo una questione di tempo. L’Iran è avvertito. Dall’incontro avvenuto a Riyad è emerso anche un altro elemento. Hamas è isolato, il suo interventismo ha rotto parecchie uova nel paniere. Non è certo un caso che l’unico sostenitore per la guerra in corso sia stato un paese sciita come quello della Repubblica Islamica. Gli alleati sunniti si sono defilati e non vedono l’ora che il ‘nemico-amico’ Israele porti a termine il lavoro sporco. Andrea Aversa 22 Novembre 2023
Gli orrori. Uccidere ebrei per il fatto di essere ebrei, le immagini delle atrocità commesse da Hamas. Mi chiedo, vi chiedo: è un modo per liberare la Palestina il colpo di un cecchino contro un uomo che, seduto al tavolo della sua cucina, stava facendo colazione? Antonino Monteleone su Il Riformista il 24 Novembre 2023
Da quando ho visto il filmato, oltre 40 minuti, che l’ambasciata di Israele a Roma ha mostrato ad alcuni giornalisti e che – senza censure – documenta alcune delle atrocità commesse dai terroristi di Hamas che, manu militari, governano la striscia di Gaza dal 2007 continuo a chiedermi: quale può mai essere una “risposta proporzionata” di fronte all’orrore che mi è passato davanti agli occhi? Ma soprattutto qual è il modo accettabile, secondo i benpensanti che imperversano nei talk show, per ridurre a zero il rischio che gli ebrei di Israele non possano essere di nuovo bersagliati per il solo fatto essere ebrei?
Il 7 ottobre non è si è consumata una sanguinosa battaglia nella quale le forze militari di due Stati in guerra si sono confrontate, niente affatto. Quella mattina dei terroristi hanno superato il confine di Israele con l’obiettivo di uccidere quanti più ebrei possibile. Per poi passare alla profanazione dei loro corpi senza vita. E gioire e celebrare, in mezzo a festanti folle di “civili”, una volta rientrati a Gaza con alcuni cadaveri e oltre duecento ostaggi. Certo si può rifiutare la contabilità di Hamas, e provare disgusto e dolore per le conseguenze provocate sui civili palestinesi della risposta israeliana. Ma con quale coraggio si possono addebitare le sofferenze del giorno dopo, i morti e i feriti nella striscia di Gaza, alla sola reazione degli aggrediti?
I pacifisti italiani forse dovrebbero vederle quelle immagini che l’IDF ha raccolto dalle bodycam dei terroristi, dai loro cellulari e dai loro account social, ordinate cronologicamente, assieme a quelle prelevate dagli smartphone delle vittime e di molte telecamere di video sorveglianza. Avrebbero la possibilità di mettere ordine nella struttura del senso. Anche se un senso, la furia mutilatrice contro donne e uomini già senza vita, non ce l’ha. Non ce l’hanno i corpi carbonizzati. Non ce l’hanno gli spari alla cieca contro i bagni chimici al rave “SuperNova” di Re’im, il Bataclan del medio oriente. Ma ciò che di più disturbante ho visto si consuma tra le mure delle abitazioni oggetto principale dell’attacco di Hamas. Nei kibbutz: complessi di case modeste, di famiglie semplici. È un modo per liberare la Palestina il colpo di un cecchino contro un uomo che, seduto al tavolo della sua cucina, stava facendo colazione? Si fatica a trattenere le lacrime di fronte alla sequenza di scene che scorre davanti agli occhi, nel più assoluto silenzio, a circa metà del filmato. Sono immagini di video sorveglianza. L’audio è presente solo in quelle degli spazi interni.
Si vede un uomo, svegliato dal rombo dei razzi e dai colpi di fucile, che corre alla ricerca di un riparo, vuole mettere in salvo i due figlioletti. Trova rifugio nell’intercapedine di un piccolo ripostiglio del giardino. Se ne accorge un terrorista che deve averli seguiti in lontananza. Così si avvicina e senza farsi sentire gli lancia contro una granata. Lo fa con un gesto leggero, una noncuranza che toglie il fiato. L’uomo fa appena in tempo a capire cosa sta per succedere e non può fare altro che trasformare il suo corpo in uno scudo. Verrà dilaniato dalle schegge. Ma ha salvato i suoi figli, che sono vivi. Provano a scappare, ma sono visibilmente frastornati e confusi per l’esplosione. I terroristi li circondano armi in pugno e non faticano affatto costringerli a entrare in casa.
Nel tinello i fratellini tremano dalla paura, indossano solo le mutandine e sono ricoperti di sangue. Il loro sangue e quello del loro padre. Provano a consolarsi a vicenda, uno di loro ha perso la vista da un occhio, non possono trattenere urla e lacrime. «Papà non c’è più, non è uno scherzo. Capisci?» dice il più grande. «Perché? Perché siamo ancora vivi?», prosegue. Avranno tra gli 8 e 12 anni, non di più e l’orrore gli ha appena trapassato l’esistenza. Un terrorista, fucile a tracolla, fruga nel frigorifero in modo frenetico e poi si attacca a una bottiglia di coca-cola. «Voglio mia madre, mamma dove sei?» urla il più piccolo. E purtroppo, pochi minuti dopo, la madre arriverà con il supporto della sicurezza del kibbutz. Vedrà subito il corpo del marito e padre dei suoi figli. Non si regge in piedi è disperata. I suoi figli non si trovano. Ma non può piangere. L’attacco è ancora in corso, non è sicuro rimanere lì e viene portata via. Forse questa è una delle sequenze meno sanguinolente, ma tra le più strazianti. Quando la proiezione si interrompe bruscamente, così come era cominciata, nella sala siamo tutti ammutoliti.
«Dovete sapere che quello che avete visto non potrà più accadere. E siamo impegnati in una guerra il cui obiettivo è principalmente questo. Ne va della nostra stessa esistenza». L’ambasciatore Alon Bar, non usa i giri di parole che ti aspetti da un diplomatico di carriera.
«Ci sarà un’indagine severissima che non sarà priva di conseguenze – dice – su tutti i fallimenti nella rete di sicurezza». E se, da un lato, «siamo costretti a sopportare le infamanti accuse di fuoco indiscriminato sui civili, che sono completamente false» dall’altro invita a considerare «le differenti intenzioni tra chi difende la popolazione» dalla minaccia dei terroristi che «abbiamo il dovere di eliminare» e chi ha seminato il «terrore nelle case dei civili». Ma qual è la misura accettabile della reazione israeliana? Ma soprattutto quale sarà il futuro di Gaza?
«I paesi amici dicono che abbiamo il diritto di difenderci. Ma allo stesso tempo tutto quello che facciamo per esercitare questo diritto, ci dicono che è sbagliato, ma noi dobbiamo smantellare le capacità militari di Hamas e lo faremo». Su Gaza l’ipotesi è «una soluzione sul modello Unifil (la forza ONU schierata in Libano “ad interim” da 45 anni nda) che non mi convince». Come dargli torto? Dal 7 ottobre Hezbollah attacca Israele con lanci di missili che partono esattamente dalla zona sotto il controllo – teorico – dell’Onu.
L’accordo tra Israele e Hamas
Nel frattempo, con la mediazione del Qatar, un accordo tra Israele e Hamas prevede un primo rilascio di ostaggi. I media israeliani hanno diffuso un elenco con i nomi di chi potrebbe essere rilasciato. Tra di loro anche Raaya Rotem Shoshani, 54 anni e la figlia Hila di 13. Il fratello, in questi giorni a Roma ha incontrato la stampa italiana raccontando il raid dei terroristi nel Kibbutz Be’eri dove si trovata anche lui quel maledetto 7 ottobre. Con lui c’è anche Nadav Kipnis: entrambi i suoi genitori sono stati uccisi. Altri sette membri della sua famiglia si trovano nelle mani di Hamas, ma solo per sei di loro (quattro donne e due bambine) è prevista la liberazione nelle prossime ore.
Dovrà invece attendere ancora Rachel Goldberg-Polin prima di rivedere suo figlio Hersh. Porta con sé una foto che lo ritrae felice per le vie di Milano. È stato rapito al rave di Re’im. Ha scoperto che era ancora vivo grazie al giornalista della CNN Anderson Cooper che le ha mostrato un video nel quale ha scoperto che a causa dell’assalto di Hamas ha perso un braccio. Oggi saranno passati 49 giorni senza ulteriori notizie. Antonino Monteleone
Gaza, scovato un tunnel di Hamas. "Come una classe": dal video si vede tutto. Il Tempo il 23 novembre 2023
Pubblicando un nuovo video sul loro canale ufficiale, le forze di difesa di Israele hanno diffuso la notizia di aver scovato un nuovo tunnel di Hamas, Come ormai è noto a tutto il mondo, il gruppo terroristico usa una fitta rete di cunicoli per nascondere dei centri di gestione e di potere e per comunicare con l'esterno senza che Tel Aviv se ne accorga. Se già qualche giorno fa l'Idf aveva fatto girare sui social un filmato che sbugiardava le tesi dell'organizzazione politica e paramilitare islamista, ora le immagini parlano chiaro. "Siamo in una strada parallela rispetto all'ospedale di al-Shifa", annuncia il soldato israeliano. Poi entra in un edificio e inizia a mostrare la via che porta al tunnel.
Costeggiando una parete ed entrando in un'abitazione attraverso una grande fessura nel muro, il militare dichiara: "Stiamo entrando nella casa e questa casa è un appartamento regolare". Questo almeno è quanto sembra se non si va avanti. "Potete vedere la lavagna, è come una classe", continua, inquadrando la stanza in cui probabilmente i terroristi organizzavano i loro piani. Quindi in primo piano si vede l'ingresso del tunnel che, stando a quanto si apprende, era "coperto dal pavimento". Il soldato israeliano scende una scaletta e indica la struttura del tunnel. Le immagini, impressionanti, fanno comprendere l'importanza strategica dei cunicoli scavati sotto la pelle della Striscia.
Estratto dell’articolo di Pierfrancesco Carcassi per corrieredelveneto.corriere.it mercoledì 22 novembre 2023.
Ogni fine settimana a Marghera decine di giovani ballano sotto le casse di Argo 16. Si chiama così un locale che ospita musica dal vivo tra le fabbriche deserte. Difficile capire quanti dei ragazzi che lo frequentano sappiano che quel nome non è casuale: apparteneva a un aereo dei servizi segreti italiani caduto su quella zona industriale 50 anni fa. Il punto dello schianto è segnato da un cippo fatto con un frammento d’ala - “sciagura aerea”, recita la scritta a qualche chilometro dal club.
È l’unico segno di un mistero italiano dimenticato: ci sono voluti decenni per collocare quel bimotore al centro di un intrigo che lega l’esercito clandestino Gladio, il conflitto tra israeliani e palestinesi al tempo della Guerra Fredda e l’ombra di un attentato del Mossad, poi smentito da una sentenza che non è bastata a trovare la verità.
Ma questo gli operai che la mattina del 23 novembre 1973 si videro sfiorare dalla carlinga di un bimotore Dakota C53 non potevano saperlo. Mentre le sirene davano il via al turno del mattino nel formicaio industriale di Porto Marghera, poco dopo le 7.30, un ruggito di motori coprì ogni rumore.
L’aereo bucò la foschia in picchiata, urtò contro la palazzina del centro di calcolo della Montefibre, azienda della plastica, ed esplose a terra lasciando una scia di fuoco e lamiere. «Avevo appena assegnato i lavori agli operai», ricorda Lando Arbizzani (nella foto a sinistra), tra i primi ad arrivare sul posto: «C’erano duecento metri di rottami in fiamme assieme ai resti dell’equipaggio».
Le vittime
Uniche vittime, il pilota Anano Borreo e il secondo Mario Grande, il marconista - cioè l'addetto alle comunicazioni radio - Francesco Bernardini e il motorista Aldo Schiavone. Evitarono gli uffici pieni di impiegati per un soffio. Il portinaio ebbe un infarto. «[…] Indenni i serbatoi di fosgene, gas tossico usato dall’industria, che sorgevano non lontano da lì: all'epoca si parò di un miracolo. L’area si riempì di militari. […] Quel giorno due ufficiali bussarono alla porta di Luigi Borreo, studente ventenne. Lui aveva già intuito perché. Suo padre Anano, pluridecorato nella Seconda guerra mondiale, era il colonnello ai comandi di Argo 16. «Nel mio cuore mio padre è sempre vivo, ricordo il suo eroismo: mi diceva “sai, chi ha il comando deve essere pronto a dare la vita”», ricorda. Oggi fa il dentista. A cinquant’anni di distanza non sa cosa abbia fatto cadere quel Dakota. Negli ultimi tempi il padre si raccomandava: «Non dire mai, Luigi, quando parli con gli amici, dove vado”. “Perché?”. “Sai, ‘sti attentati...».
Le dichiarazioni dello 007
L’aereo, diretto ad Aviano, era caduto pochi minuti dopo il decollo da Venezia. Per l’Aeronautica militare avvenne per “causa imprecisata”. La magistratura archiviò quasi subito di conseguenza. Antonio Bernardini, ingegnere in pensione, si chiede da 50 anni come fosse possibile schiantarsi per un equipaggio così esperto.
Suo padre Francesco era marconista sull’Argo 16. «Ha volato ogni settimana per 32 anni – riflette – quanto è probabile che proprio quel 23 novembre sia capitato un incidente?». Le probabilità crollarono nel 1986: l’ex capo del controspionaggio Ambrogio Viviani in un’intervista a Panorama definì la fine di Argo 16 «un avvertimento del Mossad, un consiglio un po’ cruento per dirci di smetterla con Gheddafi e il terrorismo arabo-palestinese».
Tra israeliani e palestinesi
Il giudice Carlo Mastelloni di Venezia aprì un’inchiesta per strage: interrogò Viviani e lo arrestò per reticenza. Dalle indagini emerse che il 31 ottobre 1973, appena tre settimane prima del suo ultimo volo, Argo 16 era servito per la riconsegna a Tripoli di due terroristi palestinesi che avevano pianificato un attentato contro un aereo israeliano a Ostia. Presi il 5 settembre 1973 e rilasciati il 30 ottobre.
Come “ripicca”; secondo Mastelloni, gli israeliani fecero abbattere l’aereo che li aveva trasportati. La tesi era stata al centro di un’interrogazione del deputato missino Beppe Niccolai nel 1974, ma il governo aveva negato. In quegli anni di scontro tra Israeliani e palestinesi in Europa, tra massacri, omicidi sotto copertura e dirottamenti aerei, l’Italia tentava di uscirne con un “doppio gioco”, il cosiddetto Lodo Moro: fedeltà ufficiale alla Nato e a Israele e, in segreto, accordo con i palestinesi cui veniva lasciava libertà di movimento a patto che non colpissero obiettivi italiani.
[…]
L'aereo fantasma
Durante le indagini gli elementi a supporto del sabotaggio vennero meno. Alcuni militari citarono un fascicolo dei servizi segreti su Argo 16 ma non fu mai trovato. Altri riferirono di una relazione dell’Aeronautica in cui si parlava di «sabotaggio tra la fusoliera e la coda» ma non fu trovata alcuna documentazione scritta. Impossibile fare una perizia: nel 1988 l’aereo era stato rottamato. Le indagini ricostruirono che i rottami rimasero alle Officine aeronavali di Tessera fino al 1976, poi vennero spostati a Treviso, venduti e distrutti. Ma le voci dicono sia rimasto a Tessera molto più a lungo. Nei documenti sullo smaltimento, scrisse il giudice, c’erano dei vuoti.
Segreto di Stato
Quando Mastelloni chiese ai Servizi la documentazione sui viaggi di Argo 16 si trovò davanti a un muro: segreto di Stato. Quel segreto proteggeva Gladio, gruppo paramilitare creato negli anni ‘50 con regia Usa fuori dai limiti della Costituzione contro un’eventuale invasione sovietica. Fu rivelato da Andreotti nel 1990 dopo quasi quattro decenni di silenzio.
Argo 16 serviva a spostare uomini e armi, oltre che per operazioni di spionaggio sui cieli del blocco orientale. Portava civili dal Nord Italia in una base ad Alghero, in Sardegna, dove venivano addestrati», sottolinea l’avvocato Sebastiano Sartoretto, che assistette Luigi Borreo come parte civile. «Questo sarebbe emerso dai movimenti di quell’aereo perciò non si poteva rivelare».
La verità sugli ultimi secondi di Argo sparì con i nastri delle comunicazioni di bordo. Nel 1995 Mastelloni dispose il sequestro delle bobine ma risultarono irreperibili: l’ufficiale dell’Aeronautica che le aveva prelevate dopo l’incidente non sapeva spiegare che fine avessero fatto. Altra stranezza: quando il giudice fece perquisire la casa del capo di stato maggiore dell’Aeronautica furono sequestrati i suoi diari e l’unico mancante era quello del 1973.
Il processo
Nel 1999 iniziò il processo con 22 imputati, i più importanti furono i vertici dei servizi segreti italiani e israeliani: per strage, il capo del Mossad, Zvi Zamir, e il suo referente di Roma, Asa Leven - presunto esecutore - che nel frattempo era morto; il numero uno degli 007 italiani dell’epoca Vito Miceli, per soppressione di documenti, e il numero due Gianadelio Maletti.
[…]
Tutti assolti
In aula si perse il conto dei “non-so-non-ricordo-non-rispondo” dei militari ogni volta che si parlava dell’ipotesi di attentato. Nel 1999 gli imputati furono tutti assolti perché il fatto non sussiste: niente riscontri di sabotaggio, niente soppressione di documenti. La procura fece appello subito, ma poi aderì alle motivazioni dei giudici e rinunciò.
La tesi dell’attentato era stata sostenuta anche dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: «Ne parlò più volte, anche in una lettera a un onorevole, in termini diretti, ma poi ritrattò pubblicamente», sintetizza Sartoretto. L’ultima spiaggia per le famiglie fu rivolgersi al presidente del Consiglio: «Scrivemmo a Prodi nel 2006 per chiedere chiarezza, non ricevemmo risposta. Ho sperato che qualcuno che conoscesse la verità, in fin di vita, decidesse di rivelarla. Ma non è avvenuto» […]
Sa che per queste affermazioni verrà attaccata da tutti? Diranno che lei sostiene che Giulia se l’è cercata.
«Lo so che le femministe tossiche diranno questo. Ma Giulia non se l’è cercata. La colpa è di Filippo. Dico solo che avrebbe dovuto pensare più a se stessa che a Filippo...». […]
Guerra in Israele. "Così scoviamo i jihadisti nascosti fra i civili a Gaza". Il maggiore Ella, portavoce dell'intelligence israeliana: "Interrogati oltre 300 miliziani. Controllo facciale su chi si muove verso Sud". Fausto Biloslavo il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.
Tel Aviv - Tre terroristi di Hamas che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre catturati nella striscia di Gaza. Il tecnico di internet che rivela l'utilizzo degli ospedali come basi, un centinaio di obiettivi colpiti e l'evacuazione dei civili. Successi dell'Unità 504, super segreta, impiegata direttamente sul campo di battaglia per un'offensiva di intelligence senza precedenti. «Finora abbiamo arrestato durante l'operazione di terra oltre 300 terroristi portati in territorio israeliano per gli interrogatori. Le informazioni ottenute sono state fondamentali per l'eliminazione di altri operativi del terrore» rivela un alto ufficiale. E l'«esercito» di spie e commando infiltrato a Gaza ha in mano anche la «guerra» per il controllo della popolazione con l'evacuazione di oltre 800mila palestinesi verso sud. «Il nostro obbiettivo non è attaccare i civili, ma Hamas. Abbiamo attivato un numero di telefono su whatsapp e Telegram per indirizzare gli abitanti a muoversi lungo un corridoio umanitario. Hamas li sta bloccando perché li usa come scudi umani». Lo spiega al Giornale, il maggiore Ella Waweya, araba israeliana e portavoce dell'intelligence, che incontriamo a Tel Aviv.
Gli specialisti dell'Unità 504 sono aggregati ai battaglioni dell'esercito che avanzano a Gaza. Il dipartimento tecnologico ha fornito alle truppe un programma di realtà virtuale per far vedere ai soldati come sono veramente le strade e i palazzi di Gaza mentre si avvicinano per stanare Hamas. Gli 007 combattenti puntano alla cattura dei terroristi per poi esfiltrarli verso un campo, a ridosso della Striscia, dove li interrogano per ottenere informazioni. Questo sistema ha permesso di catalogare 300 obiettivi e un centinaio sono già stati colpiti dagli israeliani. L'Unità 504 appoggia le truppe nell'avanzata indicando tunnel, arsenali e centri comando nella giungla urbana di Gaza, isolato per isolato. Non solo per colpirli, ma per evitare imboscate e le micidiali trappole minate.
Dagli spezzoni degli interrogatori resi noti è chiaro l'utilizzo degli ospedali come basi da parte di Hamas. Un giovane in tuta banca stile covid e lacci di plastica al polso racconta di essere stato «nell'ospedale Shifa. I medici erano furiosi per i membri di Hamas e altro organizzazioni armate dentro l'ospedale, che in alcuni casi indossavano i camici del personale sanitario». Hamuda Raid Asad Shamalah, un altro prigioniero, tecnico di internet del ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas racconta che nella sede della «Croce rossa palestinese si trovavano gli operativi di Hamas. Ho visto come avvolgevano i razzi con i materassi per nasconderli. Per loro eravamo scudi umani». Stesse ammissioni di un altro prigioniero sull'ospedale Rantisi.
Ella, il maggiore arabo israeliano, mostra sul cellulare i filmati di Hamas, con i combattenti non più in mimetica d'ordinanza, uguale per tutti, ma in abiti borghesi. «Li puoi vedere con gli Rpg (razzi a spalla anti carro) vestiti normalmente - spiega l'ufficiale - Così si camuffano con la popolazione e se muoiono vengono conteggiati fra le vittime civili». Un altro compito dell'Unità 504 è l'evacuazione di più palestinesi possibili. Per questo motivo, cellule che parlano arabo hanno fatto 30mila telefonate alla popolazione di Gaza e inviato oltre 10 milioni di messaggi via Telegram e Whatsapp. «Oltre 800mila civili si sono spostati verso sud - sottolinea il maggiore - In molti casi Hamas sequestrava le chiavi dell'auto per trattenerli. All'ospedale Rantisi c'era un comandante dei terroristi che ha bloccato l'evacuazione di mille civili». L'Unità 504 lo ha eliminato facendo defluire i palestinesi lungo il corridoio umanitario. I commando spia, però, hanno piazzato delle telecamere per il controllo facciale di massa cercando di scoprire se fra i civili diretti a Sud si mescolano anche adepti di Hamas.
Onu e Croce Rossa complici di Hamas: Gaza, la scoperta sugli ospedali. Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 22 novembre 2023
Dopo le critiche a Israele per le operazioni attorno all’ospedale di Al Shifa e altre strutture civili di Gaza, il governo ebraico ha risposto ieri con duri attacchi alle istituzioni internazionali, «che farebbero il gioco di Hamas». All’agenzia ADNKronos, il portavoce del governo israeliano Eylon Levy ha spiegato che «per anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Croce Rossa e tutte le altre agenzie delle Nazioni Unite hanno nascosto l’uso sistematico degli ospedali da parte di Hamas come scudi, mettendo a repentaglio il loro status protetto dal diritto internazionale. Questo era il più grande segreto di Pulcinella della Striscia di Gaza. Per anni non hanno detto nulla e ora chiediamo che ne rispondano a livello internazionale». Rammentando le «prove incontrovertibili» dell'uso ibrido dell’ospedale Al Shifa, con una parte dedicata a base del movimento palestinese, il funzionario ebraico ha proseguito: «Proprio ieri abbiamo scoperto un tunnel che si estende per 10 metri sottoterra ad Al Shifa. Il tunnel prosegue poi per 55 metri, conducendo ad una porta blindata con un foro per sparare. Il 7 ottobre Hamas ha introdotto di nascosto degli ostaggi nell’ospedale e sappiamo che uno è stato giustiziato lì. Questo è accaduto in pieno giorno, tutti i medici li hanno visti e non hanno detto niente».
Il riferimento è alla giovanissima soldatessa israeliana Noa Marciano. Sempre ieri, le istituzioni internazionali hanno criticato Israele per le sue operazioni militari, senza però accennare al fatto che è Hamas per prima a frammischiare suoi uomini e materiali a quelli civili. Se il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato di essere «sconvolto», dai raid sull’ospedale indonesiano, il segretario generale dell'ONU Antonio Guterres ha sbottato che «stiamo assistendo a un’uccisione di civili che non ha eguali ed è senza precedenti in qualsiasi conflitto da quando sono Segretario Generale».
Scontata è la propaganda dell’Iran, il cui “leader supremo”, l’ayatollah Alì Khamenei, parlando di fronte ai Guardiani della Rivoluzione, i pretoriani di Teheran, ha detto: «Avanzare ed entrare negli ospedali o nelle case delle persone non è una vittoria, perché vincere significa sconfiggere l’altra parte, ma Israele finora ha fallito nel raggiungere l’obiettivo dichiarato di distruggere Hamas nonostante i massicci bombardamenti». E dalla Turchia si preannuncia una flotta di un migliaio di imbarcazioni civili disarmate che giovedì salperà «per sfidare il blocco navale di Gaza». Si tratterebbe di 4500 attivisti da 40 paesi.
Ma da France 24 è arrivata ieri una testimonianza che comproverebbe come i jihadisti palestinesi abbiano da tempo iniziato a sfruttare ospedali e strutture civili, con gli innocenti che vi sono stanziati, come scudi umani. Si tratta di un medico, che ha parlato sotto anonimato per il rischio di ritorsioni, il quale tre anni fa ha avuto occasione di lavorare all’ospedale di Al Shifa per almeno 3 mesi, riscontrando che già allora c’erano, nel plesso, aree «proibite» il cui accesso era scoraggiato a suon di fucilate. Ha narrato: «C’era una parte dell’ospedale Shifa nella quale non si poteva andare a meno di non essere colpiti da spari. Quando ho chiesto di lavorare nell’ospedale di Gaza City, sono stato messo in guardia sul fatto che c’era una parte alla quale non dovevo avvicinarmi. Se lo avessi fatto avrei corso il rischio di essere colpito da spari». Al dottore non sarebbe stata spiegata la ragione precisa di queste aree vietate, tuttavia sostiene di aver capito che «implicitamente quella era una parte usata per fini non medici». E inoltre: «Ho visto personaggi che non erano medici dall’aspetto losco entrare e uscire continuamente. Era una corsia che conduceva a un seminterrato. Come ho detto, non ci sono andato». L’anonimo medico parla di “seminterrato”, dunque potrebbe essere un possibile accesso al tunnel di Hamas.
Inoltre ha ricordato come lo staff dell’ospedale avesse più paura del movimento terrorista che di attacchi israeliani: «C’erano toni sommessi quando si discuteva di Hamas. Se il 10% dello staff era terrorizzato da possibili attacchi aerei israeliani, il 90% lo era di essere perseguitata da Hamas». L’esercito israeliano ha comunque comunicato di aver aiutato l’evacuazione da Al Shifa di numerosi neonati fatti arrivare in Egitto. Verranno curati all’ospedale Al Arish nel Sinai e al New Hospital del Cairo. I morti in tutta Gaza sarebbero arrivati, secondo Hamas, a 13.300, ma sempre senza distinguere i veri civili dai miliziani. Su Israele sono piovuti intanto nuovi razzi da Gaza e almeno 25 ordigni, fra razzi e missili Borkan, anche dal Libano, lanciati dagli Hezbollah filoiraniani. Israele ha risposto bombardando 15 obbiettivi Hezbollah oltre confine. Frattanto, a Pechino il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha incontrato i ministri degli Esteri di ANP, Arabia Saudita, Egitto, Indonesia e Giordania, rimarcando la posizione della Cina a fianco dei palestinesi e per un cessate il fuoco immediato. Per Wang Yi, «la Cina sostiene la soluzione dei due Stati e la comunità internazionale deve agire e prendere misure per porre fine al disastro umanitario».
Israele, la prova che inchioda Hamas: volevano usare armi biologiche. Il Tempo il 20 novembre 2023
I miliziani di Hamas volevano produrre armi biologiche, classificate come armi di distruzione di massa, e in particolare la tossina botulinica per provocare un’intossicazione collettiva in Israele. Lo denunciano le Idf rendendo noto un manuale di 26 pagine che, spiegano, è stato trovato sequestrato ad alcuni dei terroristi entrati in Israele lo scorso 7 ottobre. Il documento, di cui l’Adnkronos ha visto una copia, contiene le istruzioni per produrre e utilizzare tossine botuliniche in grado di causare botulismo, malattia che colpisce il sistema nervoso causando paralisi e anche la morte. Nel testo si chiede «a Dio, l’Altissimo, di accettare questo come una buona azione, che sia utile all’Islam, ai musulmani, al Jihad e a coloro che si impegnano nella causa di Dio contro gli infedeli».
I miliziani di Hamas non hanno utilizzato armi biologiche il 7 ottobre scorso, ricordano le autorità israeliane. Ma, precisano le fonti, la tossina botulinica è una delle più letali e, sostengono, «un solo grammo in purezza è sufficiente per uccidere un milione di persone. Si tratta di un fatto scientifico». Ma, precisano, «ci sono alcune difficoltà pratiche nel raggiungere un sufficiente grado di purezza e nel diffonderlo su larga scala». Sta di fatto che il botulino è «un’arma biologica non cara e che non richiede tecniche sofisticate» per essere prodotta. Anche se non sufficientemente puro da essere altamente letale, il risultato finale è una polvere che può essere facilmente trasferita e utilizzata, inalata o ingerita. Sviluppata in vitro, la tossina può essere aggiunta ai cibi o diffusa nell’aria. In caso di intossicazione da botulino, il paziente deve ricevere ossigeno e un’antitossina che funga da antidoto. Ed è questa l’unica cura possibile, spiegano fonti israeliane, aggiungendo che un rinvio della somministrazione può portare alla morte.
Il manuale sequestrato ai miliziani di Hamas è composto da sei capitoli. A partire da quello che istruisce alla ricerca del batterio che produce la tossina per separarlo dagli altri. Il secondo capitolo dà indicazioni per individuare le condizioni necessarie per riprodurre la tossina in vitro. Segue un capitolo su come separare e purificare la tossina e un altro sulla misurazione della concentrazione della purezza della tossina stessa. Si parla poi di come conservare la tossina e infine, al capitolo sei, di come usarla come «arma biologica». Vengono quindi elencati gli strumenti necessari, come ad esempio frigoriferi, laboratori dove condurre test medici, un forno per sterilizzare e pulire gli strumenti, un servizio di asciugatura a basse temperature, attrezzature sterilizzate, tubi per la coltivazione dei batteri, barattoli sigillati, reti per trasferire i batteri, un incubatore a temperatura costante per far crescere i batteri e microscopi. Un nuovo segnale dell’atrocità dei terroristi palestinesi.
L'uomo represso in nome della violenza in nome di Allah. Arturo Pérez-Reverte il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.
Donne rapite, uccise, fatte sfilare come carne morta e nuda, trofei che una folla impazzita di gioia - folla maschile, dettaglio fondamentale - ha ripreso con i cellulari al grido di «Allah Akbar»: Dio è grande, o Allah è il più grande
Donne rapite, uccise, fatte sfilare come carne morta e nuda, trofei che una folla impazzita di gioia - folla maschile, dettaglio fondamentale - ha ripreso con i cellulari al grido di «Allah Akbar»: Dio è grande, o Allah è il più grande. Nonostante l'imbecille censura dei canali televisivi che hanno pixellato le immagini - l'orrore è anche educativo -, i social network hanno permesso di vedere tutto con la necessaria chiarezza. E insisto su questo punto: necessaria.
Tra le immagini diffuse qualche settimana fa dal confine tra Israele e Gaza, ce ne sono state alcune che mi sono rimaste particolarmente impresse: il selvaggio «Allah Akbar» davanti a una giovane donna con i pantaloni insanguinati che veniva trascinata per i capelli, o davanti al corpo nudo - bellissimo fino a pochi istanti prima - di un'altra giovane donna uccisa, mentre miliziani barbuti, seduti sopra di lei, la facevano sfilare come un trofeo per il piacere di chi gridava «Dio è grande». (Mi rattrista che i combattenti palestinesi che ho conosciuto negli anni '70 e '80, rivoluzionari e laici appartenenti ad Al Fatah, abbiano lasciato il posto ai fanatici di Hamas, gestiti da lontano dai sinistri ayatollah iraniani: quelli che, alla caduta dello Scià, nonostante gli avvertimenti di noi reporter che eravamo inviati a raccontarlo, sono stati applauditi da una sinistra europea che non aveva la minima idea di cosa Khomeini avesse sotto il turbante).
Non è la prima volta che accade. Certo, non sempre è Allah ad essere coinvolto, anche se di solito lo è Dio. Lo stesso vale per il nazionalismo, un altro cancro dell'umanità dietro al quale si rifugiano tanti topi di fogna. Il passato abbonda di esempi, da Susanna, concupita e mandata a morte dai vecchi nella Bibbia, all'inquisitore che tortura l'eretico o la strega, fino alla storia recente. Ciò che salta all'occhio è che questa gentaglia preda soprattutto le donne: olio di ricino, omicidi e stupri durante la Guerra civile spagnola, preti che puntano il dito contro le peccatrici dal pulpito, collaborazioniste rasate e violentate durante la Seconda guerra mondiale. Ma non c'è bisogno di guardare al passato: oggi gli ebrei ortodossi sputano sulle suore o molestano una donna poco vestita, in certi caffè arabi una giovane con la minigonna viene insultata e chiamata puttana, le ragazze vengono picchiate in Iran perché non indossano correttamente il velo... Luoghi lugubri chiusi alla ragione, dove le donne libere vengono disprezzate e dannate, come la vedova di Zorba il Greco. Come le adultere afghane lapidate da uomini felici di partecipare alla punizione, anche al grido di «Dio è grande».
Tutto questo, a mio avviso, risponde a un impulso antico e molto maschile: insultare, diffamare, infangare la donna che non si riesce ad avere. Soprattutto se è bella. L'ho visto sia nel mondo che chiamiamo civile, sia in luoghi miserabili della terra. E i peggiori sono quelli governati da chi pretende di agire, e costringe ad agire gli altri, su mandato divino. In Europa - dove diritti e libertà sono ora in regressione - ci sono volute molte lotte e sacrifici per liberarci da preti e dei. Ecco perché detesto il velo delle donne musulmane e ciò che simboleggia. I Paesi e i popoli governati da un islam che non è solo una religione, ma anche una dittatura sociale, spesso cadono in questo estremo. In questa infamia.
Nel mondo dell'estremismo islamico, nelle dittature teocratiche, spronati dal clero e dal marcio che molti di loro nascondono sotto le tonache pestilenziali, quando se ne presenta l'occasione esplodono uomini frustrati e condannati alla solitudine, alla repressione, all'insoddisfazione sessuale e alla compagnia sociale esclusiva di altri uomini. Esplodono sotto forme di violenza camuffate da religione che, come nel recente caso di Israele e Gaza, sono pretesti per camminare, fotografare, palpeggiare e distruggere, se possono, i corpi delle donne che i loro sacerdoti gli vietano di avvicinare in altro modo. Gli uomini di Hamas a Gaza le molestavano non solo perché erano ebree, ma anche perché erano donne libere, poco vestite, senza veli, che offendevano Dio. Ecco perché il grido «Allah Akbar» è stato illuminante, perché trasmetteva tutto il fanatismo, l'ipocrisia, la repressione sessuale, la bassezza di cui gli esseri umani, gli uomini in questo caso, sono capaci: la masturbazione mentale - e non solo mentale - di fronte a donne prima irraggiungibili e ora indifese, il desiderio insoddisfatto che alla fine si vendica travestito da morale pia e moralista.
Ecco perché l'islam, eccellente sotto tanti punti di vista - famiglia, dignità, disciplina, rispetto - è così sporco in questo: gli uomini chiamano «puttane» le donne che si scoperebbero se potessero. Il problema è che né loro né i loro sacerdoti glielo permettono. Preti che probabilmente se le scoperebbero loro stessi se potessero: basta guardare le loro facce, i loro gesti, il loro ipocrita indice alzato verso Dio. Basta ascoltare le loro sordide ragioni e le loro sporche parole.
Estratto dell’articolo di Kevin Carboni per wired.it lunedì 20 novembre 2023
Dopo una settimana dall’ingresso delle sue truppe nell’ospedale Al-Shifa di Gaza, Israele sembra aver presentato la sua prima solida prova a dimostrazione dell’esistenza di un tunnel di Hamas sotto la struttura. Negli ultimi giorni i media internazionali avevano fatto notare come non fosse stato trovato nulla a conferma delle accuse israeliane, con cui hanno giustificato giorni di assedio e bombardamenti contro l’edificio. Tuttavia, nessuno ha ancora potuto verificare in modo indipendente quanto sostenuto da Tel Aviv.
Nella serata del 19 novembre 2023 le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno sostenuto di aver trovato un pick-up con una trappola esplosiva, parcheggiato in un garage all’interno delle mura del complesso medico, nei pressi dell’edificio per la degenza dell’Al-Shifa. Macchina e garage sono stati fatte esplodere e da sotto il pavimento distrutto è apparso il buco di un tunnel sotterraneo.
I filmati diffusi dalle Idf, registrati con un drone dell’esercito, mostrano un pozzo di circa 10 metri, percorso prima da una scala a muro di 3 metri e poi da una scala a chiocciola traballante. Alla fine della discesa, un tunnel lungo 55 metri che prosegue verso il basso, fino a terminare davanti a una porta blindata, a prova di esplosivo, con una piccola fessura potenzialmente usata per sparare. Attualmente però, sembra che i soldati non siano riusciti a oltrepassare la porta.
Fino alla diffusione di queste immagini, l’Idf aveva mostrato solo foto e video di armi trovate perquisendo l’intero perimetro dell’Al-Shifa, anche cadendo nella disinformazione attraverso un video in cui un soldato scambia un calendario per presunti turni di guardia dei miliziani di Hamas incaricati di sorvegliare gli ostaggi, come riporta France 24. Se organizzazioni indipendenti confermeranno le conclusioni dell'esercito israeliano, il tunnel sarà la prima prova reale di una presenza di Hamas nel sottosuolo dell’Al-Shifa.
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DAGONEWS lunedì 20 novembre 2023
Sei settimane dopo l'inizio della guerra contro Hamas, le forze israeliane hanno effettuato operazioni nei quartieri di Sheikh Ejlin e Rimal, a Gaza, in quelli che vengono definiti come le zone “esclusive” della città e nel quale vivevano figure di alto profilo di Hamas.
Dopo l'operazione, gli oggetti sequestrati sono stati mostrati per i classici video: c’erano pistole, munizioni, razzi, computer portatili e altri documenti che sono al vaglio dei capi dell'intelligence.
Il quartiere di Rimal è considerato il quartiere di lusso della Striscia di Gaza, dove vivevano gli alti comandanti di Hamas. All'interno dell'area sono presenti anche postazioni militari ed edifici governativi. Un maggiore della Brigata ha dichiarato: «Durante le perquisizioni nell'area di Rimal, abbiamo individuato un gran numero di armi appartenenti ai terroristi di Hamas, inclusi computer portatili, dispositivi per l’archiviazione di file e documenti. Altri articoli da combattimento tra cui uniformi e camicie, ginocchiere e munizioni. Molti documenti contengono dettagli sulla guerra psicologica e informazioni sull'IDF e su come tendere imboscate».
Il tunnel fortificato e la sala di comando di Hamas: la scoperta sotto l'ospedale di Gaza. L'esercito israeliano ha affermato di aver trovato un "tunnel fortificato" sotto l'ospedale al-Shifa di Gaza City, dove si ritiene che il gruppo terrorista Hamas abbia il suo principale centro di comando. Federico Giuliani il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.
Un tunnel fortificato lungo 55 metri utilizzato dai combattenti di Hamas. Sotto l'ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza, l'esercito israeliano ha affermato di aver trovato un'infrastruttura strategica dove si ritiene che il gruppo filo palestinese abbia il proprio principale centro di comando. Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno diffuso il filmato della scoperta sui social media, parlando di "un'ulteriore prova" del fatto che l'organizzazione radicale utilizzerebbe i pazienti della struttura come "scudi umani".
Il tunnel di Hamas
"Sulla base delle informazioni di intelligence delle forze di difesa israeliane e dello Shin Bet (l'agenzia di sicurezza interna ndr), i soldati hanno scoperto un tunnel terroristico lungo 55 metri e profondo 10 metri sotto il complesso ospedaliero di Shifa", si legge in un comunicato dell'esercito di Tel Aviv. Il video pubblicato, girato lo scorso 17 novembre, inizia con le immagini di quello che viene descritto come un "pozzo del tunnel operativo", all'apparenza un buco circolare nel terreno, contenente una scala di tre metri e una scala a chiocciola di sette.
L'ingresso del tunnel, hanno spiegato i soldati israeliani, conterrebbe vari meccanismi di difesa, come una porta a prova di esplosione e un foro per sparare, nel tentativo di impedire ai nemici di entrare. "Per settimane abbiamo raccontato al mondo l'uso cinico da parte di Hamas dei residenti di Gaza e dei pazienti dell'ospedale Shifa come scudi umani. Ecco altre prove", hanno spiegato le Idf.
"Abbiamo trovato una sala di comando e controllo al piano -2 (di al Shifa ndr), ma ancora una volta dobbiamo mostrare - e lo faremo ancora, è solo questione di tempo - il collegamento tra la rete di tunnel e l'ospedale", ha detto Mark Regev, consigliere senior del premier israeliano Benyamin Netanyahu alla Bbc. Regev ha aggiunto che c'erano timori che ad attendere le truppe israeliane nei tunnel ci fossero trappole esplosive e che l'esercito avrà prove conclusive nei prossimi giorni.
Una base operativa sotto l'ospedale?
Le Idf hanno dichiarato che Hamas avrebbe un centro di comando sotto l'ospedale al-Shifa, un'affermazione negata sia dal gruppo che dal personale della struttura. Nei giorni scorsi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che l’ospedale in questione – un tempo il più avanzato e attrezzato Gaza – aveva sostanzialmente smesso di funzionare come struttura medica.
Un team di esperti delle Nazioni Unite e dell'OMS aveva infatti condotto una operazione ad alto rischio per entrare nell'ospedale. A causa dei limiti di tempo legati alla scarsa sicurezza, la formazione di osservatori ha potuto trascorrere solo un'ora all'interno dell'edificio, descritto come una zona della morte e definendo la situazione "insopportabile e ingiustificabile". "La squadra ha visto una fossa comune all'ingresso dell'ospedale e le è stato detto che più di 80 persone erano sepolte lì", ha spiegato un portavoce dell'Oms.
"L'OMS e i suoi partner stanno elaborando con urgenza piani per l'immediata evacuazione dei pazienti rimanenti, del personale e delle loro famiglie", ha dichiarato l'organizzazione in un comunicato, aggiungendo che sabato erano rimasti nell'ospedale "291 pazienti e 25 membri del personale medico". Per le Idf, l'ospedale fungerebbe invece da anticamera, se non scudo, di una base operativa di Hamas.
L'esercito israeliano ha allegato foto aeree dell'ospedale "vicino ad infrastrutture terroristiche di Hamas, inclusi ordigni esplosivi nel reparto di fisioterapia, una stanza per gli interrogatori nel reparto di cardiologia, armi e materiale di intelligence in quello di Risonanza magnetica e un imbocco di tunnel che era posto vicino il Padiglione del Qatar dell'ospedale". "Le evidenze - hanno sottolineato ancora le autorità militari di Tel Aviv - provano che numerosi edifici nel complesso ospedaliero erano usate da Hamas come copertura per attività per infrastrutture e attività terroristiche. Questa è ulteriore prova della cinica maniera con cui Hamas usa i residenti di Gaza come scudi umani per le loro terroristiche attività omicide".
Estratto dell’articolo di Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” mercoledì 15 novembre 2023.
L’Asse della resistenza attraversa molti confini, cementato dall’opposizione a Israele e all’Occidente, spesso assistito dall’Iran, composto da sciiti e da sunniti ma anche da minoranze allineate su posizioni oltranziste. Alcune entità hanno una loro autonomia, un’agenda locale. Altre perseguono obiettivi minori […] La Repubblica islamica gestisce le organizzazioni con la Divisione Qods, apparato speciale dei pasdaran […]
Il blocco maggioritario è quello palestinese, in prima linea nella battaglia per Gaza e in Cisgiordania. Brigate al Qassam di Hamas, Brigate al Quds della Jihad, Brigate al Aqsa del Fatah, Comitati popolari, Mujaheddin o le milizie cresciute nella Cisgiordania, da Jenin a Tulkarem. Presenti anche le sigle storiche, dal Fronte democratico a quello «popolare». In questo mondo radicale la Jihad Islamica è quella storicamente più vicina agli ayatollah, anche se ora è stata sorpassata da Hamas.
In Libano domina l’Hezbollah […] I suoi uomini sono armati con migliaia di missili, ben addestrati […] Oppure lasciano fare a «fratelli minori», come la Jamaa Islamiya e alle cellule di Hamas […]
Grande mobilitazione in Iraq. La miriade di fazioni sciite […] è pronta alla lotta. I più attivi sono i membri della Resistenza islamica, un cartello dietro il quale si nascondono alcune formazioni importanti. L’idea di avere una firma diversa è per poter negare […] un coinvolgimento. Mossa cosmetica tipica degli iraniani […] Un tentativo di evitare un conflitto diretto con gli Usa o Gerusalemme.
La Siria è la seconda piattaforma di attacco. Sul suo territorio agiscono milizie legate al regime e all’Iran […] Ricordiamo le Brigate al Hussein e al Nujaba, i volontari afghani della Fatamyoun, quelli pachistani della Zanabyoun, i membri del Fronte di Jibril. […] Uno schieramento autore di attacchi multipli […] Per questo sono frequenti le incursioni aeree israeliane e statunitensi. Più lontani ma non meno pericolosi gli Houthi, la guerriglia yemenita sostenuta dall’Iran. […]
AGI mercoledì 15 novembre 2023. Nuovo blitz di 'Ultima Generazione' a Milano. I giovani attivisti hanno imbrattato con vernice rosa l'Arco della Pace, in piazza Sempione, il monumento neoclassico considerato uno dei simboli della città. Sul posto sono presenti le forze dell'ordine.
Sette attivisti che hanno partecipato all'azione sono stati portati in Questura per valutare la loro posizione in relazione all'imbrattamento del monumento. I ragazzi mostravano lo striscione 'Fondo Riparazione' con riferimento a una delle loro richieste: l'istituzione di un fondo di 20 miliardi di euro da spendere per ripagare i danni da calamità ed eventi climatici estremi.
L'uomo di Hamas che vive a Londra nella casa popolare comprata con lo sconto. Muhammad Sawalha vive in un appartamento del Comune che dopo anni di affitto ha acquistato a prezzo agevolato. Sarebbe uno dei membri chiave dell'avvicinamento dell'associazione terroristica con l'Iran ed Hezbollah. Samuele Damilano su L'Espresso il 14 Novembre 2023
Sadiq Khan, sindaco di Londra, non ha lasciato adito ad alcun dubbio: «Si può essere sostenitori dei diritti dei palestinesi e al contempo condannare inequivocabilmente le azioni di Hamas e i conseguenti festeggiamenti». Lo ha specificato nel corso di un incontro tenutosi a Golden Greens, nel quartiere di Barnet dove, secondo l’Istituto nazionale di statistica, su 395.839 abitanti, 56.616 sono di origine ebraica. La più alta concentrazione nel Regno Unito.
A pochi minuti di macchina da Golden Greens è situato l’appartamento di proprietà del Comune dove vive tuttora Muhammad Sawalha. Esponente di Hamas, da quando arrivò a Londra nel 1990, utilizzando un passaporto falso per sfuggire al mandato d’arresto di Israele, «si ritiene abbia diretto una parte rilevante della strategia politica e militare (dell’organizzazione)», si legge in un’inchiesta della Bbc. «Si tratta di un alto funzionario militare con un passato coinvolgimento (primi anni ’90, ndr) nella gestione di agenti terroristici in Giudea e Samaria da Londra», secondo un’indagine del Meir Amit Intelligence and Terrorism information Center (Itic).
Nel 2017 prese parte a una delegazione ufficiale presso il ministero degli Esteri russo assieme a Salah al-Arouri, vicepresidente del bureau politico e comandante militare in Cisgiordania. Figura chiave nello sviluppo dei legami con Iran e Hezbollah, il dipartimento di Stato Usa il 13 novembre 2018 ha stabilito una ricompensa di 5 milioni di dollari per informazioni sul luogo in cui si nasconde.
«Ciononostante le autorità britanniche non hanno preso provvedimenti contro di lui», denuncia l’Itic. «Non lo hanno espulso, né hanno limitato la sua attività». Anzi: malgrado il suo ruolo e la posizione assunta riguardo al terrorismo come forma di lotta politica («è diritto del popolo palestinese, mentre le sue terre sono occupate, lottare con tutti i mezzi, compresi gli attentati suicidi», affermò nel 2001 sul canale qatariota di Al Jazeera), Sawalha ha vissuto in affitto in una casa di edilizia residenziale pubblica a canone agevolato dall’ottobre 2003 al giugno 2021, quando esercitò il diritto di acquisto («right to buy scheme») e poté acquistare l’appartamento con uno sconto di 112.000 sterline. Da novembre 2021, qualsiasi persona legata ad Hamas, quindi non solo esponenti militari, ma anche politici, come nel caso di Sawhala, nel Regno Unito è considerata un terrorista.
«Sono inorridito al pensiero che Sawhala possa vivere in mezzo a noi», ha dichiarato il consigliere municipale Barry Rawilings che non ha risposto alla richiesta di chiarimenti de L’Espresso. «Ci metteremo in contatto con altre parti interessate, tra cui la polizia e il governo, per la storia di questo caso e prenderemo tutte le misure necessarie». Eppure, già a giugno 2020, Caroline Turner, direttrice dell’ong Uk Lawyers for Israel aveva inviato una segnalazione che forniva informazioni dettagliate sui legami di Sawalha con Hamas. «Non mi capacito di come il Comune gli abbia venduto la casa con un forte sconto», racconta a L’Espresso.
«Le autorità sono obbligate a fare un controllo “know your client” (conosci il tuo cliente, ndr) e dovrebbero aver analizzato il rapporto che abbiamo inviato alle autorità su Sawalha. Il Comune ha ignorato il nostro avvertimento su una possibile violazione delle norme contro il finanziamento indiretto al terrorismo», nel momento in cui si affitta una casa a prezzo convenzionato a una persona che ricopre un ruolo importante all’interno di Hamas. «La questione è stata deferita alla Polizia metropolitana, che non ha fatto nulla», afferma Turner. Come è stato possibile? «Anche questo non lo so spiegare».
L’attività di un membro che ha avuto un ruolo chiave nella strategia militare e politica dell’organizzazione che nei giorni scorsi ha preso in ostaggio circa 200 civili era tuttavia sotto gli occhi di tutti. La tesi del governo israeliano è che sotto la patina di incarichi formali in varie associazioni, registrati presso il database governativo britannico, come quello di direttore del “Comitato internazionale per rompere l’assedio a Gaza”, della moschea di Finsbury Park o della British Muslism initiative, si celasse un’autorevole punto di riferimento a Londra di Hamas.
L’8 ottobre, all’indomani dell’incursione nel territorio israeliano, una società di commercialisti cui Sawhala è affiliato, la Sayam and Co, identificata dal Middle East Forum sulla base di documenti governativi britannici come ombrello di una ridda di organizzazioni legate a importanti esponenti di Hamas, ha organizzato un evento cui avrebbero preso parte simpatizzanti dell’associazione. Fa parte di questa rete anche Zaher Birawi, che assieme a Sawhala gestiva il Comitato internazionale per rompere l’assedio a Gaza. Birawi da anni organizza convogli umanitari per supportare la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, che, ancor di più in questi giorni, vive come in una stanza buia, illuminata a intermittenza da un interruttore nelle mani del governo israeliano. È considerato da Tel Aviv un agente di Hamas nel Regno Unito. In un programma televisivo da lui gestito, il 62enne ha ospitato circa un mese e mezzo fa il compagno di lunga data Sawhal, con il quale è ritratto in una foto assieme all’attuale leader, Ismail Haniyeh. Nella puntata, secondo quanto riporta il Sunday Times, viene respinta la definizione di Hamas come organizzazione terroristica. I suoi legali hanno contestato la traduzione dall’arabo e hanno detto che Sawhala non ha legami con Hamas. Anche se quanto documentato nel corso degli ultimi 30 anni sembra condurre a conclusioni opposte.
Estratto dell’articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” martedì 14 novembre 2023.
Dal fiume al mare. […] il concetto […] è stato ribadito dal presidente iraniano Ebrahim Raisi al vertice di Riad. Un solo Stato, palestinese, dal Giordano al Mediterraneo. Certo, nella propaganda di Teheran si specifica poi che anche gli ebrei avranno diritto a viverci, da cittadini a pieno titolo. Ma il senso non cambia, la distruzione di Israele.
E' il ritorno al 1948, al confronto mortale fra due nazioni nascenti, o una o l'altra. Finora la Palestina ha avuto la peggio e l'unica vera occasione per nascere è stata con gli accordi di Oslo, nel 1993. Un'intesa che Hamas ha sempre combattuto. Privata degli alleati arabi, che dopo tre grandi guerre hanno accettato l'idea dei due Stati uno a fianco l'altro, si è rivolta alla Repubblica islamica, per quanto odiato rivale sciita del jihadismo sunnita. Fino al massacro del 7 ottobre.
Sull'altro lato c'era il pragmatismo di Yitzhak Rabin: «Combatto il terrorismo come se non ci fossero negoziati di pace, ma tratto come se non ci fosse il terrorismo». […] I movimenti ultrareligiosi e ultrasionisti […] guardavano al rabbino Meir Kahane e […] consideravano il controllo del territorio "dal fiume al mare" come diritto divino. È un estremista israeliano a uccidere Rabin il 4 novembre del 1995.
La destra torna al potere e la Seconda intifada quasi seppellisce Oslo. Ma nel 2005 è un falco del Likud, Ariel Sharon a decidere il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti, 8 mila abitanti. Due seguaci delle idee del rabbino Kahane, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, preparano una rivolta interna. Ma poi non se fa nulla. Rimane però l'idea, riassunta da una frase di Kahane: «Non c'è coesistenza con il cancro», cioè gli arabi.
La proposta per arrivare alla pace è piuttosto uno «scambio di popolazioni», vale a dire l'espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est. Smotrich e Ben Gvir sono al governo, centinaia di migliaia di abitanti della Striscia sono in marcia verso Sud. Dal fiume al mare è diventata una doppia minaccia. Dell'estremismo jihadista e di quello ultrasionista.
Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” martedì 14 novembre 2023.
Avevano mappe, scorte di generi alimentari per giorni, lanciagranate, Ak-47. Era stato preparato un piano sofisticato per ingannare Israele, fare credere che il pericolo fosse a Nord, che in fondo a Gaza la situazione si stava normalizzando. L'assalto di Hamas del 7 ottobre è stato un successo nella logica criminale dell'organizzazione terroristica: ha lasciato sul terreno 1.300 morti israeliani in gran parte civili, ha consentito di prendere in ostaggio 239 persone (anche bambini) e mostrato la fragilità del sistema di sicurezza dello Stato ebraico considerato tra i migliori al mondo.
Ora emerge, però, che una parte del piano non è stata completata: doveva esserci una fase 2 per arrivare fino alla Cisgiordania e mettere così in difficoltà anche l'Autorità nazionale palestinese.
Trucidare donne e bambini, incendiare le abitazioni e i kibbutz, ammazzare i giovani che partecipavano a una festa nel deserto o i braccianti agricoli thailandesi aveva un obiettivo preciso, che in parte è stato, quello sì, raggiunto: causare una reazione militare massiccia e rabbiosa di Israele, fare in modo che venisse versato molto sangue palestinese, come hanno detto apertamente, senza scrupoli morali, i vertici politici di Hamas (i leader che se ne stanno nel lusso degli hotel di Doha).
[…] oggi nelle piazze di tutto il mondo, anche in Occidente, incredibilmente nessuno parla più di un massacro terribile come quello del 7 ottobre, sembra essere stato rimosso dalle coscienze, ma si protesta solo contro la risposta militare di Israele. Anche a questo puntava Hamas.
A ricostruire il grande piano è stata una lunga inchiesta del Washington Post, che ha sentito decine di esperti, funzionari e analisti di intelligence occidentali e mediorientali. Tutti concordano: Hamas e i suoi sostenitori ricorderanno il 7 ottobre come un successo. L'organizzazione terroristica voleva ritrovare un'attenzione internazionale che aveva perduto e c'è riuscita.
La preparazione è durata diversi anni, è consistita nell'acquisto di armi, nell'addestramento di migliaia di miliziani nella città sotterranea dei 500 chilometri di tunnel sotto Gaza, è stata studiata in gran parte dal leader militare di Hamas, Yehya Sinwar, a cui oggi l'esercito israeliano sta dando la caccia. Utilizzando anche tecnologie semplici, come droni a basso costo, sono state realizzate le mappe dell'area circostante la Striscia […]
Ma ancora più sofisticata è stata la strategia politica: negli ultimi due anni Hamas ha scelto un profilo basso, ha simulato di non cercare più lo scontro, convincendo Netanyahu a spostare forze militari e attenzione a Nord, in Cisgiordania.
Scrive il Washington Post citando Michael Milshtein, ex capo degli affari palestinesi nel dipartimento dell'intelligence militare: «Era un messaggio che gli israeliani volevano sentire: "Hamas non vuole più guerre".
Per rafforzare questa percezione di moderazione, gli scontri con Israele dopo il 2021 sono cessati. Il gruppo si è astenuto dall'intervenire in diverse occasioni quando il gruppo alleato della Jihad islamica ha lanciato razzi. Per molti in Israele si trattava di un'ulteriore prova del fatto che Hamas era cambiata e non cercava più un conflitto sanguinario. Alcuni report suggeriscono che i funzionari di Hamas abbiano addirittura passato informazioni sulla Jihad islamica agli israeliani per rafforzare l'impressione che stessero collaborando».
Facendo passare il messaggio che ad Hamas interessasse il miglioramento delle infrastrutture e della qualità della vita a Gaza, i leader dell'organizzazione hanno ottenuto ricchi finanziamenti dall'Unione europea e anche Israele ha consentito al Qatar di consegnare 30 milioni di dollari al mese.
La qualità della vita a Gaza non è migliorata, la povertà è rimasta, intanto Hamas potenziava il suo arsenale e la rete dei tunnel, per organizzare l'attacco a sorpresa del 7 ottobre.
«Le distrazioni e gli stratagemmi hanno funzionato. A Gaza, a meno di 80 chilometri dalla Cisgiordania, l'armamento e l'addestramento delle squadre di assalto di Hamas sono stati in gran parte ignorati» osserva il Washington Post.
Il 7 ottobre Hamas ha potuto lanciare 3.000 razzi e ordinare a migliaia di uomini «di infiltrarsi al confine, via terra, aria e mare. Hanno usato droni per accecare i sensori al confine e le postazioni di mitragliatrici automatizzate. Esplosivi e buldozer per aprire buchi nel muro perimetrale». Le squadre di assalto sono passate in 30 varchi differenti raggiungendo 22 città israeliane differenti dove hanno trucidato anziani, donne, bambini.
Huthi: il gruppo armato sciita dello Yemen. Protagonisti di una sanguinosa e brutale guerra civile che ha devastato e affamato il paese yemenita, sono stati coinvolti dall'Iran nella guerra contro Israele. È il braccio militare del regime degli Ayatollah per combattere l'Arabia Saudita nella regione. Andrea Aversa su L'Unità il 12 Novembre 2023
Sono stati coinvolti dall’Iran nel conflitto tra Israele e Hamas. L’obiettivo della Repubblica Islamica è quello di accerchiare lo Stato Ebraico: Hamas a Sud a Gaza, la Jihad Islamica a Est in Cisgiordania, Hezbollah a Nord in Libano e gli Huthi a Sud–Ovest in Yemen. Quest’ultimo è un gruppo armato a maggioranza sciita e quindi naturalmente entrato nella sfera di influenza iraniana. Letteralmente Gioventù Credente (o Partigiani di Dio), la formazione militare è nata nel 1992 per mano dei fratelli Ḥusayn Badr al-Dīn al-Ḥūthī e Muḥammad Badr al-Dīn al-Ḥūthī. Il loro genitore, Badr al-Dīn al-Ḥūthī, è considerato il padre ‘spirituale‘ del gruppo, ruolo diventato ancora più forte dopo la morte del figlio Muhammad, ucciso dall’esercito regolare yemenita.
Huthi: chi sono e qual è la loro storia
Gli Huthi hanno iniziato a formare giovani credenti secondo la fede zaidista, attraverso lo sviluppo di scuole e campi scuola. Agli inizi degli anni 2000, in Yemen, erano migliaia – anche nella capitale Sana’a – ad essere diventati accoliti del movimento. Dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, il gruppo ha iniziato ad organizzare manifestazioni e proteste, anti-americane, anti-occidentali e anti-israeliane. Questo ha fatto esplodere tensioni con il governo yemenita. Il Presidente Alī ʿAbd Allāh Ṣāleḥ aveva cercato di attenuare i contrasti e di incontrare Muḥammad Badr al-Dīn al-Ḥūthī. Quest’ultimo rifiutò e scatenò una rivolta contro il governo. Su di lui fu disposto un mandato di arresto. Poi, nel 2004, la svolta: Muḥammad, fu ucciso dalle forze regolari yemenite. A quel punto inizio la ribellione e la guerriglia armata che è durata fino al 2010, anno del cessate il fuoco.
Gli Huthi e la guerra civile in Yemen
Dal 2011 gli Houthi hanno iniziato un’avanzata dal Sud dello Yemen che li hanno portati nel 2015 ad impossessarsi anche della capitale Sana’a. A quel punto il conflitto con la minoranza sunnita è diventato inevitabile: una coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita – preoccupata dell’interventismo dell’Iran nel Paese – ha scatenato una controffensiva che ha reso la guerra civile un vero massacro. Il bilancio dello scontro è stato tragico: lo Yemen è stato distrutto e affamato, circa 110mila persone sarebbero morte e milioni di civili sarebbero stati ridotti alla carestia. Ad oggi si tratterebbe di una delle più grandi crisi umanitaria della storia. Gli Huthi hanno da sempre rivendicato la loro lotta di resistenza e determinazione rispetto alle discriminazioni subite dal governo filo-saudita con solide relazioni con il gruppo terrorista di Al-Qaida.
Gli Huthi e gli attacchi a Israele
Del loro arsenale fanno parte razzi, missili e droni di ultima tecnologia. Il loro ‘fornitore’ principale è l’Iran che ha avuto modo di testare la capacità di queste armi. Gli Huthi, infatti, le hanno utilizzate contro l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi uniti e in questi giorni contro Israele. A supporto dello Stato Ebraico, gli Stati Uniti hanno schierato le loro difese in grado di intercettare e annullare la potenza di missili e razzi che invece avevano ‘bucato’ le barriere issate dai nemici sunniti. Secondo quanto riportato da Il Corriere della Sera gli Huthi hanno a disposizione ordigni, “Toophan, copia dell’iraniano Ghadr, un vettore con un raggio d’azione di 1300-1950 chilometri, in grado di ‘coprire’ una parte del territorio israeliano. Altri sistemi sono usati per distanze entro i 700 chilometri, modelli vecchi e nuovi, integrati da modifiche suggerite dagli iraniani. I velivoli senza pilota, dotati di cariche esplosive, contribuiscono a saturare lo scudo nemico e ci sono riusciti spesso“.
Le armi degli Huthi
Il gruppo armato yemenita ha a disposizione anche armamenti marittimi. Gli Huthi hanno, “missili antinave con i quali ingaggiare target fino a 300 chilometri e probabilmente anche di più attraverso il ricorso a sistemi di concezione cinese. Ampie le scorte di mine navali, galleggianti e da fondo, prodotte in loco e forse arrivate a fornitori esterni“. Ma il collettivo sciita–zaidista ha costruito e utilizzato, “barchini esplosivi radiocomandati, un’insidia per cargo o petroliere, ora esposte anche a raid di droni“. Perché la tattica del kamikaze è sempre la prescelta del terrorismo islamico. Andrea Aversa il 12 Novembre 2023
Le rivelazioni di funzionari di più intelligence. Gli attacchi del 7 ottobre, i piani e gli orrori di Hamas: “Arrivare in Cisgiordania, aperta pancia a donna incinta”. Redazione su il Riformista il 13 Novembre 2023
Volevano spingersi oltre i primi kibbutz presenti lungo il confine con la Striscia di Gaza, arrivare fino alla Cisgiordania dove c’erano miliziani alleati e dove l’obiettivo era quello di coinvolgere nel conflitto anche l’Autorità Palestinese. Volevano allargare le tensioni in più zone del Medio Oriente così da annullare gli sforzi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi. Volevano provocare la feroce reazione dello Stato ebraico così da far dimenticare subito gli orrori commessi il 7 ottobre scorso, spostando l’attenzione sulla strage di civili in corso a Gaza e sulle responsabilità dell’Idf e dello Shin Bet, i servizi di intelligence interni. Hamas progettava da tempo l’attacco, ha studiato tutto nei minimi dettagli, raccogliendo informazioni importanti sui villaggi israeliani grazie all’utilizzo di droni ma anche attraverso il monitoraggio dei siti immobiliari israeliani, post sui social media che ritraggono la vita all’interno dei kibbutz, e la disposizione di edifici e case, e ad alcune testimonianze raccolte, e forse estorte, dagli operai presenti nella Striscia che ogni giorno varcavano il confine e andavano a lavorare nel territorio israeliano.
A cinque settimane dall’inizio della guerra a Gaza, una inchiesta del Washington Post, grazie anche alle testimonianze di più di una dozzina di funzionari di intelligence di quattro paesi occidentali e mediorientali, sostiene che l’intenzione di Hamas il 7 ottobre scorso non era solo uccidere e catturare il maggior numero di israeliani ma innescare un conflitto che avrebbe divampato in tutta la regione. Secondo gli analisti, le prove trovate dopo gli attacchi – mappe dettagliate, scorte di cibo per diversi giorni, munizioni ed esplosivi in grandi quantità – rivelano l’intenzione dei terroristi di sferrare un colpo di proporzioni storiche e scatenare una reazione israeliana senza precedenti. E anche di andare avanti per giorni e giorni.
Nel kibbutz di Beeri un combattente morto aveva un taccuino con versetti coranici scritti a mano e ordini che recitavano semplicemente: “Uccidi quante più persone e prendi quanti più ostaggi possibile”. Altri erano equipaggiati con bombole di gas, manette e granate termobariche progettate per trasformare istantaneamente le case in un inferno e costringere gli abitanti ad uscire in strada. Dopo aver superato il confine israeliano in circa 30 punti, i militanti di Hamas hanno inscenato un massacro di massa di soldati e civili in almeno 22 villaggi, città e avamposti militari israeliani, attirando poi i militari israeliani in scontri a fuoco che sono proseguiti per più di un giorno.
Secondo quanto rivelano al WP dopo aver visionato alcune prove, due funzionari dell’intelligence mediorientale e un ex funzionario americano sostengono che l’obiettivo dei miliziani era quello di arrivare in Cisgiordania. Un’unità di Hamas portava con sé informazioni di ricognizione e mappe che suggerivano l’intenzione di continuare l’assalto fino al confine con la Cisgiordania anche perché negli ultimi mesi Hamas ha aumentato il suo avvicinamento ai militanti della Cisgiordania. Anche se i piani del 7 ottobre erano a conoscenza solo di Hamas. L’obiettivo era quello di sferrare un colpo anche all’Autorità Palestinese con cui il gruppo terroristico è in combutta da anni.
Un piano militare che prevedeva e accettava un numero alto di perdite sul campo, a partire dai civili. “Dovremo pagare un prezzo? Sì, e siamo pronti a pagarlo”, ha dichiarato Ghazi Hamad, membro del politburo di Hamas, alla televisione LCBI di Beirut in un’intervista andata in onda il 24 ottobre. “Siamo chiamati nazione di martiri e siamo orgogliosi di sacrificare martiri” ha spiegato, aggiungendo che ci saranno in futuro altri “due, tre, quattro attacchi”.
Attacchi 7 ottobre, la pianificazione segreta di Hamas e le finzioni con Israele
L’attacco del 7 ottobre, come detto, era stato pianificato da almeno un anno con i miliziani di Hamas bravi a camuffare tutto e a fingersi intenzionati a sviluppare il territorio della Striscia, che governano da anni e a stabilire una sorta di patto di buon vicinato con Israele. Certo, ogni tanto i vertici del gruppo terroristico ribadivano la linea storica, ovvero quella di distruggere Israele, ma in più di una circostanza Hamas ha evitato di entrare in tensioni provocate dalla Jihad islamica palestinese. Anzi in qualche occasione ha finto di collaborare con l’Idf, fornendo anche delle informazioni sul gruppo alleato.
Il piano del 7 ottobre sarebbe stato addirittura tenuto nascosto alla leadership politica di Hamas stesso e ai principali finanziatori: il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran e il gruppo militante libanese Hezbollah. Nel frattempo portava avanti esercitazioni con fucili Kalašnikov AK-47 importati, pistole, lanciagranate a propulsione di razzi e proiettili termobarici che generano potenti onde di pressione e fuochi intensi con temperature superiori a 2.700 gradi Fahrenheit.
Per anni Hamas ha raccolto informazioni sui villaggi israeliani. Ali Soufan, ex funzionario dell’antiterrorismo dell’FBI e fondatore del Soufan Group, una società privata di consulenza sulla sicurezza di New York che lavora a stretto contatto con i governi del Medio Oriente, ha spiegato: “Se sei in prigione, studi il sistema di sicurezza della prigione. Questo è ciò che Hamas ha fatto per 16 anni.La loro intelligence sul campo era di gran lunga migliore di qualsiasi cosa gli iraniani avrebbero potuto fornirgli”.
Il ruolo di Yehiya Sinwar, decenni in carcere in Israele e mente militare di Hamas
Un ruolo chiave negli attacchi del 7 ottobre l’ha avuto Yehiya Sinwar, leader militare di Hamas, detenuto per quasi 20 anni nelle carceri israeliane, Sinwar parla correntemente l’ebraico e ha a lungo studiato la cultura politica e dei media israeliani. Protagonista insieme ad altri funzionari di Hamas di lanciare un messaggio distensivo ai vicini israeliani, ingannandoli anche nelle attività di intercettazioni: sapevano di essere ascoltati e raccontavano ciò che Israele “voleva sentirsi dire” salvo poi utilizzare altri canali e i tunnel sotterranei per pianificare addestramenti e operazioni militari in vista del 7 ottobre. “Hamas non vuole più guerre” era il messaggio fatto circolare più volte negli ultimi anni, aggiungendo che l’obiettivo principale era quello di costruire infrastrutture nell’enclave e migliorare la situazione economica dei due milioni di residenti a Gaza, grazie anche ai fondi stanziati sia dall’Unione Europea che da altri Paesi internazionali, a partire dal Qatar.Fondi che hanno contribuito a decine di nuovi progetti, da scuole e strutture sportive per i giovani a strade e impianti di trattamento delle acque reflue.
Una stagione riformista che ha ingannato in pieno Israele, occupato in una politica interna tutt’altro che tranquilla, minata dalle proteste in piazza contro la riforma giudiziaria auspicata dal governo di estrema destra guidato sempre da Benjamin Netanyahu. Le forze armate israeliane percepivano una minaccia molto più grave per la sicurezza, rappresentata da Hezbollah nel nord , al confine con il Libano, e da gruppi palestinesi violenti impegnati in un’escalation di scontri con soldati israeliani e coloni armati in Cisgiordania.
L’orrore del 7 ottobre: torture, civili giustiziati e ostaggi portati a Gaza
Il 7 ottobre l’attacco considerato oggi il più letale e brutale della storia di Israele, con oltre 22 kibbutz bruciati, oltre 1200 civili uccisi e almeno 240 ostaggi. Il Washington Post spiega che alcuni degli attacchi più brutali sono avvenuti nel kibbutz di Beeri dove i miliziani di Hamas avrebbero aperto la pancia di una donna incinta, trascinando il suo feto a terra. In altre città, i sopravvissuti hanno raccontato di genitori uccisi davanti ai loro figli e di bambini uccisi davanti ai loro genitori. Altri sopravvissuti hanno descritto di aver assistito ad aggressioni sessuali, compreso lo stupro.
Circa 1.500 miliziani di Hamas sono stati uccisi dagli israeliani e i loro corpi, i telefoni e le armi sono stati sfruttati come fonte di informazioni. Ulteriori informazioni sono state fornite da una manciata di uomini catturati vivi e interrogati. Altri terroristi sono tornati a Gaza con gli ostaggi. Tra le informazioni raccolte dall’Idf grazie allo studio delle tracce lasciata da Hamas, è emerso che i miliziani avevano elenchi dettagliati di armi e munizioni israeliane da trovare e saccheggiare ad Alumim, un kibbutz che i militanti non sono riusciti a penetrare, indicato nei documenti come “Missione 502”.
“Le dichiarazioni di Hamas, che si augura un conflitto più ampio, evocano le dichiarazioni dei leader di Al-Qaeda all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001” ha osservato Rita Katz, direttore esecutivo del SITE Intelligence Group, un’organizzazione privata che studia l’ideologia e le comunicazioni online dei gruppi estremisti. “Hamas sapeva che Israele avrebbe risposto duramente. Questo era il punto”, ha detto Katz. “Per Hamas, la sofferenza dei palestinesi è una componente fondamentale per creare l’instabilità e l’indignazione globale che cerca di sfruttare”. Anche se la sua attuale leadership sarà effettivamente distrutta, Hamas e i suoi seguaci continueranno a considerare il 7 ottobre come una vittoria. “È la prima volta che ricordo che Hamas è diventato così importante su scala globale”, ha detto Katz. “Molte persone hanno già dimenticato il 7 ottobre perché Hamas ha immediatamente cambiato la discussione. Ha messo l’attenzione su Israele, non su di sé. Ed è esattamente quello che volevano”. Redazione
Gaza, la macabra scoperta nella base di Hamas: il ‘Mein Kampf' in una stanza di bimbi. Il Tempo il 12 novembre 2023
Una copia in arabo del ‘Mein Kampf’, il libro di Adolf Hitler, è stata trovata nella stanza dei bambini di un appartamento di Gaza che i terroristi di Hamas usavano come base. A rivelare l’atroce scoperta è stato il presidente israeliano Isaac Herzog in un’intervista alla Bbc, mostrando la copia in tv: «Questo è il libro di Hitler, il ‘Mein Kampf’, tradotto in arabo. Questo è il libro che ha portato all’Olocausto e il libro che ha provocato la Seconda guerra mondiale». Nel testo, ha detto ancora il presidente, «c’erano degli appunti del terroristi, ha segnato le sezioni, e ha studiato ancora e ancora, l’ideologia di Hitler per odiare gli ebrei, per uccidere gli ebrei, per bruciare e massacrare gli ebrei ovunque si trovino. Questa è la vera guerra che stiamo affrontando».
In una nota, la presidenza israeliana ha denunciato che «dopo il massacro e le atrocità commesse dai terroristi di Hamas il 7 ottobre - il giorno in cui il maggior numero di ebrei sono stati assassinati dalla mostruosa epoca dell’Olocausto - questa è un’altra rivelazione che testimonia le fonti di ispirazione dell’organizzazione terroristica Hamas, e dimostra ancora una volta che tutte le sue azioni hanno lo stesso obiettivo dei nazisti, la distruzione degli ebrei». Un episodio che racconta tragicamente la sete di antisemitismo dei terroristi di Hamas.
Il terrorista di Hamas con il Mein Kampf: "Appunti per odiare, bruciare e massacrare gli ebrei". Il libro tradotto in arabo è stato mostrato dal presidente israeliano Herzog in un'intervista alla Bbc. I soldati lo hanno trovato in una stanza dei bambini usata come base dai terroristi. Filippo Jacopo Carpani il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.
In molti hanno criticato il paragone tra Hamas e i nazisti, ma ora sembra che vi siano le prove materiali del loro allineamento ideologico. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha mostrato in un'intervista alla Bbc una copia in arabo dei Mein Kampf di Adolf Hitler, trovato nella stanza dei bambini di un appartamento di Gaza che i terroristi palestinesi usavano come base. "Questo è il libro che ha portato all'Olocausto e il libro che ha provocato la Seconda guerra mondiale", ha commentato il capo di Stato di Tel Aviv.
Nel testo, come ha spiegato Herzog, "c'erano degli appunti del terrorista, ha segnato le sezioni, e ha studiato ancora e ancora, l'ideologia di Adolf Hitler per odiare gli ebrei, per uccidere gli ebrei, per bruciare e massacrare gli ebrei ovunque si trovino. Questa è la vera guerra che stiamo affrontando". In una nota, inoltre, il presidente ha denunciato che, dopo i massacri del 7 ottobre, "questa è un'altra rivelazione che testimonia le fonti di ispirazione dell'organizzazione terroristica Hamas, e dimostra ancora una volta che tutte le sue azioni hanno lo stesso obiettivo dei nazisti, la distruzione degli ebrei".
I rapporti tra nazismo e mondo arabo affondano le radici negli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Amin al-Husseini, al tempo gran muftì di Gerusalemme e ritenuto il precursore del fondamentalismo islamico, ha offerto la sua collaborazione a Hitler fin dal 1933. Il leader del Terzo Reich inizialmente la respinse, poiché non voleva alienarsi i britannici che, in quegli anni, controllavano diversi territori mediorientali tramite i "mandati". Nel 1941, dopo una fallita rivolta e la fuga di al-Husseini a Berlino, il legame tra l'Islam e il Führer divenne ufficiale. Il gran muftì, fortemente antisemita e anti-comunista, era convinto che l'Asse avrebbe vinto la guerra visti i progressi dell'operazione Barbarossa e ottenne da Hitler l'assicurazione che il suo esercito avrebbe distrutto "l'impero giudaico-bolscevico". Venne anche anche creata una divisione delle SS composta interamente da musulmani, la 13esima Handschar, che si rese protagonista del massacro della maggiorparte degli ebrei bosniaci.
Visto questo passato e l'anima stessa di Hamas che, come dimostrato dai massacri del 7 ottobre, è chiaramente improntata al massacro degli ebrei e non alla distruzione di Israele come entità statuale, non sorprende che i terroristi palestinesi contemporanei trovino ispirazione negli ideali di Adolf Hitler. La vera assurdità è il sostegno che parti della sinistra occidentale hanno espresso nei confronti dell'organizzazione islamica, figlia di un'ideologia la cui origine è legata a doppio filo con il fascismo che i campioni del progressismo dicono, almeno a parole, di voler combattere.
Il video del massacro di Hamas del 7 ottobre che nemmeno Biden ha visto. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera venerdì 10 novembre 2023.
Proiettato al consolato israeliano di New York il montaggio di 45 minuti dei video girati dai miliziani di Hamas. Nelle immagini 138 cadaveri, tra i quali anche quelli di alcuni neonati
«Il politico del governo americano di più alto grado che ha visto questo video è il segretario di Stato Antony Blinken. Che io sappia il presidente Biden non l’ha visto», dice ai giornalisti il portavoce dell’esercito israeliano Jonathan Cornicus in collegamento via zoom da Gerusalemme.
Al Consolato israeliano di New York una trentina di giornalisti, tra cui il Corriere della Sera era l’unico media italiano, ha assistito ieri sera ad una proiezione privata del video di 45 minuti dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, lo stesso che le autorità israeliane mostrarono inizialmente ad una dozzina di reporter a Gerusalemme e che hanno deciso di mostrare in una settantina di screening privati in varie parti del mondo nei prossimi giorni.
Le immagini non sono state diffuse online per non turbare ulteriormente le famiglie delle vittime e degli ostaggi. Ai giornalisti è stato chiesto di lasciare cellulari e ogni apparecchiatura elettronica fuori. La visione è stata seguita da un briefing con Cornicus, che ha spiegato che Israele ha programmato queste proiezioni per capi di Stato, diplomatici, media, influencer. Il filmato è un montaggio di video girati dai miliziani di Hamas per vantarsi delle proprie imprese, dai primi soccorritori o dalle stesse vittime. Vi si vedono in totale le immagini di 138 cadaveri, inclusi quelli di alcuni neonati e bambini. Il video specifica che si tratta del 10% del totale delle vittime.
In uno degli spezzoni, girato nel kibbutz Be’er, due bambini vengono nascosti dal padre in un rifugio, ma un miliziano lancia una granata all’interno, il padre muore: ora quei bambini dovrebbero essere tra gli ostaggi. «Itay, penso che moriremo», dice uno di loro al fratello, poi si accorge con orrore che l’altro non vede da un occhio, in seguito all’esplosione. Tra gli ostaggi ci sono 30 bambini, incluso un neonato che ha compiuto appena dieci mesi, ha detto Cornicus.
A Los Angeles il filmato è stato mostrato un giorno prima che a New York, a una proiezione organizzata dall’attrice di «Wonder Woman» Gal Gadot presso il Museo della Tolleranza, alla quale hanno fatto seguito scontri all’esterno.
A New York, la strada dove ha sede il consolato israeliano, tra la Seconda Avenue e la 42esima strada, vicino a Grand Central, era transennata ieri sera. Nelle stesse ore migliaia di manifestanti pro-palestinesi manifestavano tra la 34esima e la 42esima strada, chiedendo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, in una delle più grosse manifestazioni a New York nelle ultime settimane.
«I palestinesi non possono usare la loro voce ora, e dobbiamo usare noi le nostre voci per loro» diceva una ragazza al New York Times. Il Washington Post aveva pubblicato ieri una vignetta che mostrava un portavoce di Hamas che usa i civili come scudi umani (legandosi con una corda ad una donna e a dei bambini mentre dichiara «Come osa Israele attaccare i civili…») ma è stata rimossa dopo le proteste di diversi dipendenti e lettori.
La caccia a Sinwar, il ricercato numero uno che strangolava spie e si sente il «prescelto». Storia di Davide Frattini su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2023.
Sta seduto sulla poltrona a gambe incrociate, le mani appoggiate sui braccioli, l’uniforme devota — camicia bianca, pantaloni neri — accompagnata dall’audacia dei calzini a righe, sulla faccia lo stesso sorriso di sfida alle regole integraliste nel vestire e alle bombe israeliane: sono ancora qui, comodo e rilassato davanti a casa a mia, anche se me l’avete distrutta.
I servizi segreti da quel giorno costruiscono un nuovo profilo psicologico di Yahia Sinwar, il capo di Hamas dentro Gaza. Capiscono che qualcosa nella mente del boss è cambiato, non è questione di minacce esterne, della guerra con Israele, degli ultimi 11 giorni di conflitto nel maggio del 2021. È la politica interna, come sempre, a strattonare le strategie anche in un’organizzazione terroristica. Sinwar ha fatto i conti sulle dita di una mano: quattro ballottaggi prima di essere rieletto leader del movimento, l’opponente che non mollava fa parte dei fondatori, è considerato più oltranzista, più duro di lui. Così gli psicologi dello Shin Bet rimettono mano al dossier: analizzano la gestualità e i comportamenti dell’uomo che fino a quel momento credevano di conoscere, di poter prevedere.
«Il modo in cui cammina per le strade — commenta una fonte al quotidiano Haaretz dopo la tregua di due anni fa —, il fatto che accetti di immergersi tra la gente, di lasciarsi toccare. Sono tutti elementi nuovi. Sta creando il suo mito personale, parla di sé come il prescelto da Dio: è lui che deve combattere per Gerusalemme in nome dei musulmani». Il fervore brutale di quello che in questi 35 giorni di guerra è il ricercato numero uno, il trofeo che l’esercito vuole mostrare agli israeliani, era evidente fin dai primi interrogatori. Adesso — come sostiene l’intelligence — si nasconderebbe dalle parti dell’ospedale Shifa a Gaza City.
Non ha mai nascosto quanto la necessità di mantenere la purezza dell’ideologia fondamentalista fosse parte della sua missione, fin da quando spingeva la carrozzella dello sceicco Ahmed Yassin, ispiratore religioso della violenza terrorista. Nel 1989 Sinwar viene condannato dagli israeliani per l’assassinio di quattro palestinesi considerati traditori, secondo le squadracce della fedeltà assoluta che lui stesso ha istituito hanno passato informazioni al nemico. Racconta tutto, lo dice da subito: «Voglio raccontarvi com’è cominciata». Incontra più volte Yassin dopo che lo sceicco è stato rilasciato in uno scambio di prigionieri nel 1985, come Yahia verrà liberato assieme a più di mille detenuti palestinesi per riportare a casa il caporale Gilad Shalit: «Discutevamo di debolezza morale, di atti contro l’islam, insieme abbiamo deciso di reclutare persone che denunciassero i collaborazionisti e qualsiasi azione che fosse contro le regole musulmane».
Polizia politica e buoncostume fondamentalista. Il futuro capo di Hamas è giudice e carnefice: «Portammo Ramsi, accusato di averci venduto, in un luogo deserto fuori Khan Younis, scavammo una fossa, lo strangolai con una keffiah e lo seppellimmo. Meritava di morire».
Ahmed Siam: chi è il comandante di Hamas ucciso da Israele. Capo della compagnia terrorista Nasser-Radwan, secondo l'Idf teneva in ostaggio circa 1.000 residenti di Gaza nella struttura sanitaria di Rantisi: si era rifugiato in una scuola. Redazione Web su L’Unità l’11 Novembre 2023
L’esercito israeliano ha fatto sapere di aver ucciso il comandante di Hamas che teneva in ostaggio circa 1.000 residenti di Gaza nell’ospedale Rantisi. In una nota l’Idf ha affermato che, in seguito alle informazioni raccolte dallo Shin Bet e dalla direzione dell’intelligence militare, le truppe della Brigata Givati hanno diretto un aereo da caccia per colpire Ahmed Siam, comandante della compagnia Nasser-Radwan di Hamas.
Palestinesi in ostaggio in ospedale e terroristi nascosti in una scuola
Due giorni fa, l’Idf aveva segnalato che Siam stava impedendo a circa 1.000 palestinesi di evacuare l’ospedale di Rantisi, nel nord di Gaza. Siam è stato ucciso, fanno sapere le forze armate, mentre si nascondeva nella scuola al-Buraq di Gaza City, insieme ad altri agenti di Hamas sotto il suo comando. “Ahmed Siam dimostra ancora una volta che Hamas utilizza i civili della Striscia di Gaza come scudi umani per scopi terroristici“, aggiunge la dichiarazione dell’Idf.
Solo pochi giorni fa, l’esercito israeliano ha ucciso in un attacco aereo Ibrahim Abu-Maghsib capo dell’unità missili anti-tank della brigata centrale di Gaza. Lo ha detto il portavoce militare israeliano spiegando che Maghsib “nell’ambito della sua posizione ha diretto e condotto numerosi lanci di missili anti-tank contro civili e soldati israeliani. Nell’ambito dell’assistenza alle forze di terra impegnate nella striscia, la marina israeliana – ha proseguito il portavoce – ha colpito postazioni di lancio di missili anti-tank usate da Hamas per colpire le truppe dentro la striscia“.
Mohsen Abu Zina
Ucciso quattro notti fa, in un attacco aereo mirato, Mohsen Abu Zina, capo della produzione di armi di Hamas. Lo ha fatto sapere il portavoce militare dell’Idf, secondo cui Abu Zina è stato “uno dei principali sviluppatori di armi di Hamas ed era un esperto nello sviluppo di armi strategiche e razzi utilizzati dai terroristi“. Il portavoce ha poi aggiunto che la notte scorsa è stata eliminata “una cellula terroristica che progettava di lanciare missili anti tank contro i soldati“.
Jamal Mussa
Tra i comandanti colpiti dall’Idf negli ultimi giorni vi è anche Jamal Mussa, “responsabile delle operazioni speciali di sicurezza di Hamas. Nel 1993 Mussa condusse un attacco a fuoco contro soldati israeliani di pattuglia nella Striscia“. Inoltre sono stati uccisi comandanti di Hamas durante le battaglie sul campo.
Shadi Barud
Lo scorso 26 ottobre, le Forze di difesa israeliane hanno affermato di aver ucciso il vice capo della direzione dell’intelligence di Hamas, Shadi Barud, in un attacco nella Striscia di Gaza. L’Idf ha accusato Barud di aver pianificato gli attacchi del 7 ottobre nel sud di Israele insieme al leader di Hamas Yahya Sinwar. Barud ha precedentemente servito come comandante di battaglione nell’area di Khan Yunis e ha ricoperto altri ruoli nella direzione dell’intelligence del gruppo ed “è stato responsabile della pianificazione di numerosi attacchi terroristici contro i civili israeliani“, ha aggiunto l’Idf.
Muhammad Katamash
Il 22 ottobre, invece, ha perso la vita Muhammad Katamash. Quest’ultimo è numero due del gruppo di artiglieria di Hamas ed è stato ucciso a causa di un raid aereo israeliano. Il portavoce militare dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha scritto su X: ”Aerei da guerra dell’Idf hanno ucciso Muhammad Katamash, il vice capo del gruppo di artiglieria regionale dell’organizzazione terroristica Hamas, responsabile della gestione dell’artiglieria nella Brigata dei Campi Centrali. In virtù della sua posizione, ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione e nell’esecuzione dei piani dell’organizzazione contro Israele in generale durante i combattimenti nella Striscia di Gaza“, ha aggiunto.
Talal al-Hindi
Il giorno prima a morire sotto i bombardamenti israeliani, è stato Talal al-Hindi, comandante delle Brigate al-Qassam e il braccio armato di Hamas. L’attacco aereo ha colpito la sua casa nel centro di Gaza. Con lui sono state uccise la moglie Fadwa, la figlia Isra e la nipote Bara. La notizia era stata riportata da al Jazeera. E andando ancora indietro nel tempo, allo scorso 18 ottobre, a perdere la vita per gli attacchi dell’esercito israeliano, è stato Ayman Nofal. Capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, Nofal è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014.
Ayman Nofal
Per l’Idf, Nofal, era il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici di Hamas. E ha inoltre affermato che Nofal aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006. Nofal aveva stretti legami con Muhammad Deif, l’oscuro leader dell’ala militare dell’organizzazione. Nel corso degli anni, Nofal ha lavorato per rafforzare i legami tra Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza.
"Il prescelto di Dio". Chi è il capo dei terroristi di Hamas a Gaza. Storia di Filippo Jacopo Carpani su Il Giornale sabato 11 novembre 2023.
L’esercito israeliano stringe la tenaglia attorno all’ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza. Secondo i servizi di Tel Aviv, nei sotterranei della struttura si nasconde il nemico numero uno dello Stato ebraico: il capo di Hamas, Yahya Sinwar. Soprannominato "il macellaio di Khan Yunis", è il trofeo che Benjamin Netanyahu vuole consegnare al popolo israeliano e probabile la mente dietro agli attacchi del 7 ottobre. “È il volto del male, come Osama Bin Laden. Questo attacco è una sua idea e noi lo troveremo”, dichiara il portavoce delle Idf Richard Hecht all’indomani del massacro dello Shabbat. Di lui, si ricorda una frase in particolare: “Abbatteremo il confine con Israele e strapperemo il cuore dai loro corpi”.
Il fatto che il “morto che cammina”, come più volte lo ha apostrofato il premier di Tel Aviv, sia ancora a piede libero nella Striscia è uno dei motivi per cui lo Israele non ha ancora dato il via libera allo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi. Spietato e dichiarato ufficialmente “nemico dello Stato ebraico”, Sinwar nasce nel 1962 nel campo profughi di Khan Yunis, lo stesso luogo dove è venuto alla luce anche l’attuale capo delle brigate al-Qassam Mohammed Deif. La sua famiglia è originaria di Ashkelon, costretta a migrare all’interno dell’exclave dalle autorità israeliane. Finisce per la prima volta nelle carceri ebraiche nel 1982, a causa della sua vicinanza con Salah Shehadeh, che dall’’87 in poi sarà uno dei leader più influenti di Hamas e capo del suo braccio armato. Nel 1989, Sinwar viene di nuovo rinchiuso per l’assassinio di quatto palestinesi considerati traditori. “Portammo Ramsi, accusato di averci venduto, in un luogo deserto fuori Khan Younis, scavammo una fossa, lo strangolai con una kefiah e lo seppellimmo. Meritava di morire”, racconta alle autorità israeliane.
Il “macellaio” viene liberato nel 2011 assieme ad altri mille detenuti palestinesi in cambio del rilascio del caporale delle Idf Gilad Shalit, prigioniero dell’organizzazione terroristica dal 1994. Svolge il ruolo di consigliere per il fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, fino alla sua elezione come guida del movimento nel 2017 al posto di Ismail Haniyeh. Viene poi riconfermato nella sua posizione nel 2021.
"Il modo in cui cammina per le strade, il fatto che accetti di immergersi tra la gente, di lasciarsi toccare. Sono tutti elementi nuovi”, dicono fonti del quotidiano Haaretz dopo la tregua di due anni fa. “Sta creando il suo mito personale, parla di sé come il prescelto da Dio: è lui che deve combattere per Gerusalemme in nome dei musulmani”. Carisma e terrore sono i due elementi su cui Sinwar fonda il suo dominio della Striscia, che però sembra avere le ore contate.
Yahya Sinwar, biografia di un macellaio. Il leader di Hamas si rintana nei sotterranei dell’ospedale Al Shifa di Gaza. Israele gli sta dando la caccia. Michael Sfaradi su Nicolaporro.it l'11 Novembre 2023
Yahya Sinwar è nato a Khan Yunis, quando era ancora sotto il dominio egiziano, il 29 ottobre 1962. È cresciuto nel sud della Striscia di Gaza e si è diplomato presso la scuola superiore maschile per poi frequentare l’Università islamica di Gaza dove ha conseguito una laurea in Studi arabi.
Nel 1982 è stato arrestato dalle autorità israeliane per la prima volta con l’accusa di attività sovversive ed è poi tornato in carcere nel 1985.
Fin da giovanissimo si è dedicato alla causa palestinese diventando poi uno degli artefici della prima Intifada.
Nel suo triste curriculum figura anche l’essere uno dei fondatori del braccio militare di Hamas.
Nel 1988 ha pianificato il rapimento e l’uccisione di due soldati israeliani ed è stato il mandante ed esecutore dell’omicidio di quattro palestinesi accusati di essere spie al servizio di Israele.
Viene arrestato un anno più tardi e durante la detenzione gli viene diagnosticato un tumore al cervello dal quale guarisce grazie a un intervento chirurgico in un ospedale israeliano. Un ufficiale del servizio carcerario rivelò che dopo la sua dimissione e il ritorno in carcere Sinwar era nel panico, temeva per la sua vita ed era grato per le cure mediche ricevute.
Oltre ad essere da anni sulla lista dei ‘Dead man walking’ del Mossad per il suo passato, ne detiene ora il numero uno perché ritenuto l’ideatore e pianificatore dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso durante il quale sono stati massacrati nei modi più atroci 1400 civili israeliani.
Per descrivere questo soggetto, che se non fosse stato un terrorista palestinese sarebbe sicuramente diventato un serial killer da qualche altra parte, sono stati usati tanti aggettivi: crudele, manipolatore, influente. La lista è lunga e non lusinghiera. Insomma un insieme di caratteristiche che fanno di questo soggetto un pericolo vivente sia per Israele sia, e soprattutto, per i palestinesi.
Prima di essere arrestato e condannato dalle autorità israeliane a diversi ergastoli, aveva creato nella Striscia di Gaza una struttura per torturare quei palestinesi che cercavano la pace con Israele e, per questo motivo, da eliminare nella sofferenza. Per ironia della sorte la stanza delle torture si trova o trovava, non sappiamo se in questo momento sia ancora operativa, nei sotterranei dell’ospedale Al Shifa di Gaza. Gli stessi dove si sta rifugiando in queste ore.
Yahya Sinwar ha passato in carcere ventidue anni ed è stato rilasciato nell’ambito dello scambio prigionieri che Israele ha, tramite mediatori, concordato con Hamas per avere la liberazione del caporale Gilad Shalit.
Nei rapporti scritti su di lui dallo Shin Bet, il servizio di controspionaggio israeliano che lo interrogò nel 1989, è evidenziata la spavalderia con la quale raccontò di aver costretto un uomo a seppellire vivo il fratello sospettato di spionaggio. Condanna a morte del traditore e avvertimento alla famiglia.
Nonostante, ma possiamo dire soprattutto, i suoi metodi violenti contro oppositori, spie e presunte tali hanno fatto di lui un leader amato da alcuni e temuto da molti, per assurdo più dalla sua gente che da Israele stessa. Non è un caso che il suo soprannome, sempre sussurrato sottovoce qualche decibel in più può costare la vita, è: “Il macellaio di Khan Yunis”.
Yahya Sinwar è sicuramente un soggetto pericoloso, ma non è uno stupido, particolare che lo rende ancora più letale. Durante la sua detenzione ha studiato il nemico, ha imparato l’ebraico e si è letto tutti i libri disponibili nella biblioteca del carcere, in particolare la vita dei padri fondatori dello Stato Ebraico Da Theodor Herzl a Yitzhak Rabin passando per Vladimir Jabotinsky e Menahem Begin. Della storia moderna dello Stato di Israele ne sa probabilmente più lui che un israeliano medio.
Al contrario di Hassan Nasrallah, il capo di Hetzbollah in Libano, che da anni è rintanato, da vivo, nella sua tomba a Sud di Beirut, Yahya Sinwar ha l’abitudine di sfidare Israele avvertendo pubblicamente delle sue uscite, di quale sarà il percorso e le tappe programmate. Ma c’è un ma, durante queste passeggiate è sempre circondato dalla folla e tiene accanto a sé, a mo’ di scudo umano, dei bambini. L’assicurazione sulla vita.
Lui sa perfettamente che Israele non lo colpirebbe mai in quelle condizioni, troppo alto il rischio di danni collaterali che la comunità internazionale non perdonerebbe mai allo Stato Ebraico. Ad altri sì, a Israele no.
Ma dopo il 7 ottobre scorso le regole sono cambiate e anche Yahya Sinwar, che come detto non è uno stupido, ha capito che il gioco sta per finire e che sia lui, sia Hamas, l’organizzazione terroristica che ha fondato, entreranno presto nelle pagine più buie della storia.
La testimone dell’assalto ai kibbutz del 7 ottobre: «Una ragazza stuprata e poi fatta a pezzi». Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2023.
La prima testimonianza diretta, raccolta da «Haaretz»: una donna racconta degli orrori visti mentre era nascosta in uno dei kibbutz assaltati. «Si lanciavano le parti del suo corpo»
L’unità Lahav 433 si è occupata in questi anni delle indagini che hanno portato alla condanna di un primo ministro come Ehud Olmert e al processo ancora in corso per corruzione del premier Benjamin Netanyahu. È la polizia criminale che segue i casi più complessi e ai suoi agenti è stata affidata l’inchiesta sui massacri del 7 ottobre, gli israeliani hanno arrestato almeno 200 terroristi palestinesi, l’ipotesi è di istituire un tribunale speciale.
Gli investigatori — scrive il quotidiano Haaretz — hanno raccolto la prima testimonianza diretta di uno stupro di gruppo durante l’assalto ai kibbutz e ai villaggi. Fino ad ora le denunce di violenze sessuali erano state riportate dai primi soccorritori — i cadaveri femminili trovati nudi, i polsi legati, i segni degli abusi — e in seguito dagli esami degli anatomopatologi. La donna è invece una teste oculare. Il suo racconto corroborato da una persona che si nascondeva assieme a lei: non ha visto, ma gli è stato detto tutto in diretta dalla testimone dell’orrore, un elemento che rafforza il resoconto. La donna spiega di aver visto una ragazza stuprata a turno da uomini in mimetica, l’ultimo le ha sparato alla testa mentre la stava violentando, hanno mutilato il corpo e si lanciavano le parti tagliate via. Alcuni tenevano la testa di un’altra vittima come «trofeo».
La polizia sta analizzando oltre 50 mila video ripresi dalle camere indossate dagli stessi terroristi, da quelle installate sulle auto dei civili israeliani e da quelle di sicurezza nelle case o nei villaggi. È difficile associare i singoli arrestati ai crimini commessi, l’ipotesi del procuratore è di cercare la condanna per omicidio, stupro o abusi se l’uomo si trovava nella zona dove sono stati commessi, di fatto tutte le aree invase a sud del Paese. In alcuni casi il riconoscimento biometrico ha permesso di individuare gli autori di reati specifici: un capo della Nukhba, i commando di Hamas, avrebbe ucciso 14 soldati, si è filmato mentre abusa il cadavere di un militare ed è responsabile anche di aver ammazzato i civili in un kibbutz vicino.
L’istituto di medicina forense a Tel Aviv ha dato un nome ai resti di 843 civili ammazzati negli attacchi, dentro ai container refrigerati di campo Shura sono tenute ancora 150 vittime — è il calcolo dei soccorritori — le parti in 400 sacchi per i cadaveri. I soldati uccisi sono stati 400, la loro identificazione è in qualche modo più semplice perché le forze armate tengono una cartella con Dna e calco dei denti. Per recuperare i resti dalle case incendiate sono stati coinvolti anche archeologi, in grado di distinguere ossa umane da quelle di animali domestici, i filmati diffusi dai fondamentalisti li mostrano divertirsi a colpire i cani come cecchini.
Gli stupri, le pallottole in testa e i corpi fatti a pezzi: così hanno massacrato le israeliane. Francesca Galici il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.
Le barbarie di Hamas raccontate da chi le ha visto in prima persona ed è riuscito a sopravvivere restituiscono con ancora maggiore orrore la verità sui massacri del 7 ottobre
Continuano a emergere racconti agghiaccianti sul 7 ottobre di Israele, che passerà alla storia come uno dei massacri più brutali della storia. Le forze di Hamas che sono penetrate a sud dello Stato ebraico hanno fatto carne da macello dei residenti e in queste ore arrivano anche le testimonianze di chi, fortunatamente, è riuscito a sopravvivere a quella barbarie.
Stupri, violenze di gruppo, assassini a sangue freddo e mutilazioni: il campionario degli orrori di Hamas del 7 ottobre comprende qualunque tipo di brutalità che si possa immaginare e va anche oltre. La polizia sta continuando a interrogare i testimoni oculari, i sopravvissuti che difficilmente cancelleranno quelle immagini dai loro occhi. "Hanno fatto chinare una donna", racconta uno dei testimoni ascoltati dalla polizia, come riportato da Haaretz: "Mi sono accorto che la stava violentando e poi l'ha passata a un'altra persona in uniforme". A quel punto, dice ancora la persona che suo malgrado ha assistito a quello scempio, a quella donna è stato sparato un proiettile in testa e altri miliziani ne hanno mutilato il corpo.
Fino a questo momento, a riportare delle violenze e dei massacri compiuti da Hamas è stata l'organizzazione Zaka, composta da volontari che fin da quel 7 ottobre operano nei luoghi dei massacri per recuperare e identificare i corpi martoriati dai miliziani di Hamas. È dai loro racconti che si è inizialmente capito cosa fosse successo nei kibbutz e al rave party, è tramite le loro parole che sono arrivate le prime informazioni sulle brutalità e gli abusi compiuti dai terroristi.
La caccia ai miliziani responsabili degli attacchi è aperta da parte della polizia israeliana, che sta compiendo ogni sforzo possibile per il riconoscimento di chiunque si trovasse a sud del Paese per compiere il massacro. Molti di quelli finora arrestati hanno ammesso le proprie responsabilità, altri continuano a negarlo, affermando di trovarsi in Israele in quei momenti solo per cercare lavoro. Fonti della polizia spiegano al quotidiano che l'intenzione è quella di procedere contro di loro anche in assenza di prove, che in molti casi è impossibile da avere a causa della mancata fotografia alle scene del crimine a seguito del caos successivo agli attacchi. Ciò significa che qualunque persona sia stata catturata in uno dei luoghi dei massacri potrebbe essere incriminata per omicidio, stupro e abuso anche per quanto accaduto nelle altre zone.
Uno dei miliziani finora arrestati, che si è dichiarato responsabile del massacro in una comunità, era a capo di una squadra che ha torturato e ucciso soldati, residenti e guardie di sicurezza. Ha affermato di essersi addestrato per anni per quella missione e che ogni squadra, compresa la sua, aveva ricevuto ordini precisi, ai quali si aggiunge il permesso religioso per l'uccisione dei bambini, perché "cresceranno per essere soldati". Ma avevano il permesso anche di decapitarli per "seminare la paura tra gli israeliani".
Estratto dell’articolo di Daniele Raineri per “La Repubblica” giovedì 9 novembre 2023.
A questo punto lo scenario plausibile nei prossimi giorni a Gaza City man mano che l’assedio delle forze israeliane si stringe da Nord e da Sud sarà la separazione temporanea tra due mondi. Il mondo di sotto, quel reticolo di tunnel che attraversa in profondità la sabbia della Striscia «come una ragnatela» — così lo descrive una donna ebrea ostaggio di Hamas che ci ha passato giorni prima di essere liberata e rivedere la luce del sole — e nasconde una quantità imprecisata di uomini del gruppo palestinese e i loro leader.
E il mondo di sopra, dove i soldati israeliani tentano di conquistare il controllo dei quartieri, di sfuggire alle imboscate di Hamas che vengono anche dal sottosuolo e di gestire centinaia di migliaia di civili, che un po’ vanno verso Sud e un po’ si sono nascosti nelle loro case oppure hanno cercato rifugio nei grandi ospedali della città — in attesa che si materializzi anche un piano politico un minimo realistico per il dopoguerra. […]
Israele nei comunicati ufficiali della Difesa dice di avere distrutto centocinquanta tunnel in dodici giorni di invasione e l’impressione è che per ora si tratti soltanto della periferia del sistema. Anche perché la sicurezza con la quale i genieri dell’unità Yahalom — che vuol dire “diamante” — gettano esplosivo nei cunicoli che trovano fa pensare che non siano i tunnel principali, i tratti più importanti della cosiddetta “Metro”, quelli dove si trovano gli ostaggi e i comandanti di Hamas.
Una troupe della Nbc che due giorni fa è entrata con i soldati israeliani nella Striscia, settore Nord, dice di averli visti distruggere un tunnel profondo una quindicina di metri, che alcuni uomini di Hamas avevano usato per sbucare all’improvviso alle loro spalle e sparare. Ma sappiamo da un reportage video di RT (ex Russia Today) del 2021 che i tunnel cruciali sono profondi sessanta metri, con volte di cemento per resistere alla pressione sovrastante, cavi telefonici che gli israeliani non possono intercettare, sistemi di ventilazione che cambiano l’aria — altrimenti si soffocherebbe — e piccole rotaie per spostare carichi.
La profondità garantisce un certo grado di protezione contro i bombardamenti di Israele, che a volte riescono a far collassare i tunnel più vicini alla superficie. È successo due giorni fa, quando il cortile di una scuola costruita dalle Nazioni Unite si è afflosciato verso il basso, segno che da qualche parte lì sotto un tunnel è crollato e la terra si è abbassata.
Joel Roskin, un geologo dell’università Bar-Ilan, sostiene che ci siano tre sistemi comunicanti di tunnel, a circa dieci, trenta e settanta metri di profondità, che Hamas usa per scopi diversi. Il sistema meno profondo serve alla guerra e ad andare da una postazione di lancio dei razzi a un’altra ma è vulnerabile ai radar, quello intermedio ospita la maggior parte dei combattenti e del materiale bellico e quello più basso è il rifugio dei leader e degli asset di valore come gli ostaggi. […]
Il punto debole è che la sopravvivenza all’interno del sistema è appesa ai generatori diesel per la luce e la ventilazione e i generatori non sono che motori a scoppio: non possono funzionare al chiuso, devono avere condotti di scarico vicino alla superficie. […]
Hamas, la caccia agli jihadisti tra tunnel e bombardamenti. Israele: «Uccisi quasi sessanta capi». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2023.
Le azioni di esercito e servizi segreti nella Striscia. Colpire all’estero avrebbe effetti diplomatici seri
Isoldati della Settima Brigata corazzata sono stati ingaggiati da un team antitank di Hamas nella Striscia, una delle piccole formazioni incaricate di muoversi tra le case per piazzare dei colpi. I militari hanno reagito «puntando» l’obiettivo, quindi hanno chiesto l’intervento dell’aviazione che ha condotto un doppio strike. I guerriglieri avevano cercato di allontanarsi usando un tunnel collegato a un deposito di munizioni.
Trappole sotterranee
La versione sintetica, corredata da video, è stata diffusa dall’esercito per descrivere uno dei momenti della battaglia a Gaza. Racconti dove il riferimento a posizioni nascoste e gallerie è una costante: in un comunicato si parla di 130 «uscite» di cunicoli .
Le ricostruzioni ufficiali sono bilanciate da quelle di fonti più discrete che parlano con i media locali fornendo due aspetti: la progressione è stata più veloce del previsto, tuttavia nessuno ha un’idea certa dell’ampiezza e delle caratteristiche del mondo sotterraneo costruito negli anni dalla resistenza palestinese. Sanno che è imponente, temono che sia ancora più sofisticato e per scoprirlo dovrebbero entrarci ma al momento preferiscono distruggere l’imbocco dei bunker. Esplorarli è rischioso, a causa di ordigni, di eventuali scontri a fuoco, di trappole rudimentali però efficaci.
L’elenco
I dettagli sui tunnel messi fuori uso si mescolano alle comunicazioni in rete sugli ufficiali di Hamas, Jihad e Fatah fatti fuori nel corso dell’invasione. Ieri i portavoce hanno ampliato l’elenco di quasi 60 uccisi scrivendo il nome di Mashan Abu Zina, presentato come uno dei responsabili del settore ricerca, ossia la sezione che sviluppa gli armamenti nella Striscia. Nei giorni immediatamente precedenti avevano segnalato la morte di Mustafa Dalul, capo di un battaglione, e di Jamal Musa, «addetto alla sicurezza».
Gerusalemme vuole trasmettere il messaggio di successi su un terreno difficile e la capacità di falciare i ranghi dell’avversario. Nessuno è escluso, la rappresaglia riguarda anche i familiari e le abitazioni, rase al suolo. Hanno cercato gli esponenti politici, i comandanti, i singoli elementi accusati di aver partecipato o diretto i massacri del 7 ottobre. La missione è stata affidata alla Difesa, ai servizi segreti, in particolare all’unità speciale Nili: apparati che, viste le condizioni del teatro, devono muoversi insieme. Con il passare delle settimane hanno rivendicato l’eliminazione di appartenenti al consiglio esecutivo, come Jamila Al Shanti, vedova Rantisi, e Jawad al Shamala. Successivamente quella di dirigenti dei subacquei, del reparto addestrato all’uso dei deltaplani o dei lanciatori di razzi.
Propaganda
La campagna, però, deve essere valutata tenendo conto di quattro aspetti. Primo: non ci sono conferme indipendenti sulla «fine» di tutti i personaggi (solo per pochi). Secondo: la propaganda dei due contendenti è feroce tanto quanto gli scontri. Terzo: i bersagli più importanti sono ancora attivi e, pare, ben protetti: Mohammed Deif, numero uno delle Brigate al Qassam, il suo vice Marwan Issa, e il leader Yahya Sinwar che sarebbe in un rifugio a Gaza City tagliato fuori da tutto. Storia inverificabile, forse parte della guerra psicologica.
Quarto: numerose figure della gerarchia vivono sparpagliate tra Qatar, Libano, Turchia, Siria. Sono loro a parlare, a rilasciare interviste spesso contrastanti, a dettare condizioni (generiche). Rischiano? In Israele qualcuno ha risposto di sì, anche se sono tutelati da chi li ospita e possono servire per i negoziati riservati, specie sugli ostaggi. Un omicidio mirato all’estero potrebbe innescare una ritorsione contro personalità israeliane — magari da parte di gruppi jihadisti non legati ad Hamas — e avere conseguenze diplomatiche serie.
La decisione passa per meccanismi non sempre lineari. Ciò che vale oggi può essere considerato superato domani. Dipende dalle opportunità, da dinamiche interne, dalla volontà di compiere scelte drammatiche. La crisi, con un bilancio di vittime spaventoso, ha dimostrato come i due nemici non abbiano timori a superare le linee rosse.
Michael Sfaradi, 11 novembre 2023Yahya Sinwar, biografia di un macellaio. Il leader di Hamas si rintana nei sotterranei dell’ospedale Al Shifa di Gaza. Israele gli sta dando la caccia. Michael Sfaradi su Nicolaporro.it l'11 Novembre 2023
Yahya Sinwar è nato a Khan Yunis, quando era ancora sotto il dominio egiziano, il 29 ottobre 1962. È cresciuto nel sud della Striscia di Gaza e si è diplomato presso la scuola superiore maschile per poi frequentare l’Università islamica di Gaza dove ha conseguito una laurea in Studi arabi.
Nel 1982 è stato arrestato dalle autorità israeliane per la prima volta con l’accusa di attività sovversive ed è poi tornato in carcere nel 1985.
Fin da giovanissimo si è dedicato alla causa palestinese diventando poi uno degli artefici della prima Intifada.
Nel suo triste curriculum figura anche l’essere uno dei fondatori del braccio militare di Hamas.
Nel 1988 ha pianificato il rapimento e l’uccisione di due soldati israeliani ed è stato il mandante ed esecutore dell’omicidio di quattro palestinesi accusati di essere spie al servizio di Israele.
Viene arrestato un anno più tardi e durante la detenzione gli viene diagnosticato un tumore al cervello dal quale guarisce grazie a un intervento chirurgico in un ospedale israeliano. Un ufficiale del servizio carcerario rivelò che dopo la sua dimissione e il ritorno in carcere Sinwar era nel panico, temeva per la sua vita ed era grato per le cure mediche ricevute.
Oltre ad essere da anni sulla lista dei ‘Dead man walking’ del Mossad per il suo passato, ne detiene ora il numero uno perché ritenuto l’ideatore e pianificatore dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso durante il quale sono stati massacrati nei modi più atroci 1400 civili israeliani.
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Per descrivere questo soggetto, che se non fosse stato un terrorista palestinese sarebbe sicuramente diventato un serial killer da qualche altra parte, sono stati usati tanti aggettivi: crudele, manipolatore, influente. La lista è lunga e non lusinghiera. Insomma un insieme di caratteristiche che fanno di questo soggetto un pericolo vivente sia per Israele sia, e soprattutto, per i palestinesi.
Prima di essere arrestato e condannato dalle autorità israeliane a diversi ergastoli, aveva creato nella Striscia di Gaza una struttura per torturare quei palestinesi che cercavano la pace con Israele e, per questo motivo, da eliminare nella sofferenza. Per ironia della sorte la stanza delle torture si trova o trovava, non sappiamo se in questo momento sia ancora operativa, nei sotterranei dell’ospedale Al Shifa di Gaza. Gli stessi dove si sta rifugiando in queste ore.
Yahya Sinwar ha passato in carcere ventidue anni ed è stato rilasciato nell’ambito dello scambio prigionieri che Israele ha, tramite mediatori, concordato con Hamas per avere la liberazione del caporale Gilad Shalit.
Nei rapporti scritti su di lui dallo Shin Bet, il servizio di controspionaggio israeliano che lo interrogò nel 1989, è evidenziata la spavalderia con la quale raccontò di aver costretto un uomo a seppellire vivo il fratello sospettato di spionaggio. Condanna a morte del traditore e avvertimento alla famiglia.
Nonostante, ma possiamo dire soprattutto, i suoi metodi violenti contro oppositori, spie e presunte tali hanno fatto di lui un leader amato da alcuni e temuto da molti, per assurdo più dalla sua gente che da Israele stessa. Non è un caso che il suo soprannome, sempre sussurrato sottovoce qualche decibel in più può costare la vita, è: “Il macellaio di Khan Yunis”.
Yahya Sinwar è sicuramente un soggetto pericoloso, ma non è uno stupido, particolare che lo rende ancora più letale. Durante la sua detenzione ha studiato il nemico, ha imparato l’ebraico e si è letto tutti i libri disponibili nella biblioteca del carcere, in particolare la vita dei padri fondatori dello Stato Ebraico Da Theodor Herzl a Yitzhak Rabin passando per Vladimir Jabotinsky e Menahem Begin. Della storia moderna dello Stato di Israele ne sa probabilmente più lui che un israeliano medio.
Al contrario di Hassan Nasrallah, il capo di Hetzbollah in Libano, che da anni è rintanato, da vivo, nella sua tomba a Sud di Beirut, Yahya Sinwar ha l’abitudine di sfidare Israele avvertendo pubblicamente delle sue uscite, di quale sarà il percorso e le tappe programmate. Ma c’è un ma, durante queste passeggiate è sempre circondato dalla folla e tiene accanto a sé, a mo’ di scudo umano, dei bambini. L’assicurazione sulla vita.
Lui sa perfettamente che Israele non lo colpirebbe mai in quelle condizioni, troppo alto il rischio di danni collaterali che la comunità internazionale non perdonerebbe mai allo Stato Ebraico. Ad altri sì, a Israele no.
Ma dopo il 7 ottobre scorso le regole sono cambiate e anche Yahya Sinwar, che come detto non è uno stupido, ha capito che il gioco sta per finire e che sia lui, sia Hamas, l’organizzazione terroristica che ha fondato, entreranno presto nelle pagine più buie della storia.
Michael Sfaradi, 11 novembre 2023
La nota dell'Idf. Mohsen Abu Zina: chi è il capo di Hamas ucciso da Israele. La nota dell'esercito israeliano: si tratta del responsabile della produzione di armi del gruppo terroristico. Redazione Web su L'Unità l'8 Novembre 2023
L’esercito israeliano ha ucciso nella notte, in un attacco aereo mirato, Mohsen Abu Zina, capo della produzione di armi di Hamas. Lo ha fatto sapere il portavoce militare, secondo cui Abu Zina è stato “uno dei principali sviluppatori di armi di Hamas ed era un esperto nello sviluppo di armi strategiche e razzi utilizzati dai terroristi“. Il portavoce ha poi aggiunto che la notte scorsa è stata eliminata “una cellula terroristica che progettava di lanciare missili anti tank contro i soldati“.
Tutti i comandanti di Hamas uccisi da Israele: Jamal Mussa
Tra i comandanti colpiti da l’Idf negli ultimi giorni vi è Jamal Mussa, “responsabile delle operazioni speciali di sicurezza di Hamas. Nel 1993 Mussa condusse un attacco a fuoco contro soldati israeliani di pattuglia nella Striscia“. Inoltre sono stati uccisi comandanti di Hamas durante le battaglie sul campo.
Shadi Barud
Lo scorso 26 ottobre, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno affermato di aver ucciso il vice capo della direzione dell’intelligence di Hamas, Shadi Barud, in un attacco nella Striscia di Gaza. L’Idf ha accusato Barud di aver pianificato gli attacchi del 7 ottobre nel sud di Israele insieme al leader di Hamas Yahya Sinwar. Barud ha precedentemente servito come comandante di battaglione nell’area di Khan Yunis e ha ricoperto altri ruoli nella direzione dell’intelligence del gruppo ed “è stato responsabile della pianificazione di numerosi attacchi terroristici contro i civili israeliani“, aggiunge l’Idf.
Muhammad Katamash
Il 22 ottobre, invece, ha perso la vita Muhammad Katamash. Quest’ultimo è numero due del gruppo di artiglieria di Hamas ed è stato ucciso a causa di un raid aereo israeliano. Il portavoce militare dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha scritto su X: ”Aerei da guerra dell’Idf hanno ucciso Muhammad Katamash, il vice capo del gruppo di artiglieria regionale dell’organizzazione terroristica Hamas, responsabile della gestione dell’artiglieria nella Brigata dei Campi Centrali. In virtù della sua posizione, ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione e nell’esecuzione dei piani dell’organizzazione contro Israele in generale durante i combattimenti nella Striscia di Gaza“, ha aggiunto.
Talal al-Hindi
Il giorno prima a morire sotto i bombardamenti israeliani, è stato Talal al-Hindi, comandante delle Brigate al-Qassam e il braccio armato di Hamas. L’attacco aereo ha colpito la sua casa nel centro di Gaza. Con lui sono state uccise la moglie Fadwa, la figlia Isra e la nipote Bara. La notizia era stata riportata da al Jazeera. E andando ancora indietro nel tempo, allo scorso 18 ottobre, a perdere la vita per gli attacchi dell’esercito israeliano, è stato Ayman Nofal. Capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, Nofal è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014.
Ayman Nofal
Per l’Idf, Nofal, era il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici di Hamas. E ha inoltre affermato che Nofal aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006. Nofal aveva stretti legami con Muhammad Deif, l’oscuro leader dell’ala militare dell’organizzazione. Nel corso degli anni, Nofal ha lavorato per rafforzare i legami tra Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza. Redazione Web 8 Novembre 2023
Jamal Mussa: chi è il comandante di Hamas ucciso da Israele. Era il responsabile delle operazioni speciali di sicurezza del gruppo terrorista. Nel 1993 aveva guidato un attacco a fuoco contro soldati israeliani di pattuglia nella Striscia di Gaza. Redazione Web su L'Unità il 6 Novembre 2023
L’esercito israeliano ha ucciso comandanti di Hamas e ha colpito oltre 450 obiettivi nella Striscia nelle ultime 24 ore. Lo ha fatto sapere il portavoce militare secondo cui i soldati “hanno preso il controllo di un compound militare di Hamas con posti di osservazione, aree di addestramento per gli operativi e tunnel uccidendo numerosi terroristi“. Tra i comandanti colpiti vi è Jamal Mussa, “responsabile delle operazioni speciali di sicurezza di Hamas. Nel 1993 Mussa condusse un attacco a fuoco contro soldati israeliani di pattuglia nella Striscia“. Inoltre sono stati uccisi comandanti di Hamas durante le battaglie sul campo.
Tutti i comandanti di Hamas uccisi da Israele: Shadi Barud
Lo scorso 26 ottobre, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno affermato di aver ucciso oggi il vice capo della direzione dell’intelligence di Hamas, Shadi Barud, in un attacco nella Striscia di Gaza. L’Idf ha accusato Barud di aver pianificato gli attacchi del 7 ottobre nel sud di Israele insieme al leader di Hamas Yahya Sinwar. Barud ha precedentemente servito come comandante di battaglione nell’area di Khan Yunis e ha ricoperto altri ruoli nella direzione dell’intelligence del gruppo ed “è stato responsabile della pianificazione di numerosi attacchi terroristici contro i civili israeliani“, aggiunge l’Idf.
Muhammad Katamash
Lo scorso 22 ottobre ha perso la vita Muhammad Katamash. Quest’ultimo è numero due del gruppo di artiglieria di Hamas ed è stato ucciso a causa di un raid aereo israeliano. Il portavoce militare dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha scritto su X: ”Aerei da guerra dell’Idf hanno ucciso Muhammad Katamash, il vice capo del gruppo di artiglieria regionale dell’organizzazione terroristica Hamas, responsabile della gestione dell’artiglieria nella Brigata dei Campi Centrali. In virtù della sua posizione, ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione e nell’esecuzione dei piani dell’organizzazione contro Israele in generale durante i combattimenti nella Striscia di Gaza“, ha aggiunto.
Talal al-Hindi
Il giorno prima a morire sotto i bombardamenti israeliani, è stato Talal al-Hindi, comandante delle Brigate al-Qassam e il braccio armato di Hamas. L’attacco aereo ha colpito la sua casa nel centro di Gaza. Con lui sono state uccise la moglie Fadwa, la figlia Isra e la nipote Bara. La notizia era stata riportata da al Jazeera. E andando ancora indietro nel tempo, allo scorso 18 ottobre, a perdere la vita per gli attacchi dell’esercito israeliano, è stato Ayman Nofal. Capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, Nofal è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014.
Ayman Nofal
Per l’Idf, Nofal, era il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici di Hamas. E ha inoltre affermato che Nofal aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006. Nofal aveva stretti legami con Muhammad Deif, l’oscuro leader dell’ala militare dell’organizzazione. Nel corso degli anni, Nofal ha lavorato per rafforzare i legami tra Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza. Redazione Web
Lo studio dell'ebraico, gli ergastoli e la beffa agli 007: chi è il "piccolo Hitler" di Hamas. Yahya Sinwar, leader del gruppo filo palestinese, è stato inserito da Tel Aviv in cima alla lista degli obiettivi nemici da neutralizzare e per questo è considerato un "uomo morto che cammina". Federico Giuliani il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
"Non si preoccupa del suo popolo. Si comporta come un piccolo Hitler in un bunker. La sua gente è interessante per lui come un granello di polvere". Benjamin Netanhyau ha lanciato l'ennesimo attacco all'indirizzo di Yahya Sinwar, l'uomo che Israele ritiene maggiormente responsabile degli attacchi sferrati da Hamas lo scorso 7 ottobre. Sinwar, leader del gruppo filo palestinese, è stato inserito da Tel Aviv in cima alla lista degli obiettivi nemici da neutralizzare e per questo è considerato un "uomo morto che cammina". Di lui, tuttavia, al momento non ci sono tracce. Sembra un fantasma ma il suo castello, la Striscia di Gaza, è ormai presa d'assalto dalle Forze di difesa israeliane (Idf). Ma chi è davvero il profilo ricercato da Israele? E cosa sappiamo sul suo conto?
Caccia a Yajya Sinwar
Sinwar, 61 anni, è oggi l'uomo più ricercato d'Israele. "Vladimir Jabotinsky, Menachem Begin, Yitzhak Rabin. Ha letto tutti i libri che sono usciti sulle più importanti figure israeliane. Ci ha studiato dall'alto verso il basso", ha detto Micha Kobi, che in passato lo ha interrogato per il servizio di intelligence isrealiano Shin Bet. Il leader di Hamas è stato arrestato più volte dalle autorità di Tel Aviv, l'ultima nel 1989, condannato a scontare quattro ergastoli. È stato liberato nel 2011 nel corso di uno scambio di prigionieri con Israele.
Mentre era in prigione ha iniziato a studiare l'ebraico nonché Israele. A quindici anni dalla sua condanna, ha utilizzato la lingua appresa in un'intervista televisiva israeliana. In quell'occasione non ha parlato di guerra, preferendo esortare l’opinione pubblica israeliana a sostenere una hudna, o tregua, con il gruppo militante di Hamas.
Come ha sottolineato il Financial Times, prima della recente incursione di Hamas, Israele aveva quasi 40 anni di esperienza nel trattare con Sinwar. Eppure, quella conoscenza accumulata non ha fatto altro che cullare in un falso senso di compiacenza i capi della sicurezza israeliani. Colti alla sprovvista dalle ultime vicende.
Valutazioni errate
Alla vigilia della guerra, Israele considerava Sinwar un estremista pericoloso ma comunque docile, e ben più interessato a consolidare il dominio di Hamas a Gaza e ad ottenere concessioni economiche, che non a guidare il gruppo per distruggere lo Stato ebraico. Questa interpretazione errata del carattere di Sinwar sarebbe stato il preludio al più grande fallimento dell’intelligence di Tel Aviv. Per alcuni esperti, l'uomo era riuscito a realizzare l'inganno definitivo.
Sotto la sua guida, Hamas ha calibrato l’uso della forza – proteste al confine, palloncini incendiari e soprattutto lancio di razzi – per spingere Israele a ulteriori colloqui indiretti tramite mediatori egiziani, del Qatar e delle Nazioni Unite. I motivi della svolta esplosiva di Sinwar del 7 ottobre rimangono un enigma.
Da segnalare che Sinwar è la mente che ha consentito ad Hamas di ricevere milioni di dollari dall'estero per alleviare la povertà degli abitanti della Striscia. Per farlo ha ottenuto il semaforo verde da Netanyahu, al quale, tra segnali di pragmatismo e timide aperture, aveva persino scritto una lettera in ebraico.
"Berremo il vostro sangue". Arrestata Ahed Tamimi, l'"eroina" dei palestinesi. Nico Di Giuseppe il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
Le Forze della difesa israeliana (Idf) hanno arrestato nella notte tra domenica e lunedì l'attivista palestinese Ahed Tamimi
Le Forze della difesa israeliana (Idf) hanno arrestato nella notte tra domenica e lunedì l'attivista palestinese Ahed Tamimi. Lo riporta il quotidiano Haaretz spiegando che Tamimi è stata presa in custodia nel villaggio di Nabi Salih, in Cisgiordania, vicino a Ramallah, dopo aver minacciato di uccidere coloni ebrei. "Il nostro messaggio alle mandrie di coloni è che vi aspettiamo in tutte le città, da Hebron a Jenin. Vi massacreremo e voi direte che ciò che Hitler vi ha fatto è stato un scherzo. Berremo il vostro sangue e mangeremo i vostri teschi. Andiamo, vi aspettiamo", si legge nel post di Tamimi, scritto in ebraico e arabo. È stata "arrestata una terrorista", ha scritto in un tweet il ministro della Sicurezza nazionale israeliana Itamar Ben-Gvir, che ha elogiato i soldati israeliani.
Come raccontato dal Giornale, l'attivista, oggi 21 anni, proviene da un piccolo paese della Cisgiordania, Nabi Saleh, abitato da meno di 500 persone e circondato da insediamenti israeliani. Negli anni passati le sue uscite a favore di telecamera erano diventate celebri. Si avvicinava ai soldati mostrando i pugni, la combinazione fra la grinta e l'aspetto angelico risultavano mediaticamente irresistibili, tanto che alcuni giornali l'avevano ribattezzata la "Giovanna d'Arco" dei palestinesi, e ne parlavano come di una "eroina palestinese conosciuta in tutto il mondo". L'episodio che l'aveva portata in carcere risaliva al 19 dicembre quando, al culmine delle proteste innescate dalla decisione di Donald Trump di trasferire l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, aveva schiaffeggiato, spintonato e preso a calci due soldati israeliani che si trovavano accanto alla casa di famiglia. I due militari, ai quali la giovane aveva intimato di andarsene, non hanno reagito a quella che sembrava più una provocazione che un tentativo di fare del male. L'incidente però era stato ripreso con il telefonino e rilanciato su Internet, acquistando grande popolarità. Pochi giorni dopo l'esercito israeliano aveva arrestato la ragazza. La famiglia Tamimi non era nuova alle proteste: Bassem, il padre, è un noto esponente di al-Fatah, il partito del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, e giocava un ruolo importante nelle proteste a Nabi Salih, villaggio 20 km a nord-ovest di Ramallah. La figlia Ahed già nel 2012 era stata ripresa mentre agitava il pugno contro soldati israeliani, guadagnandosi così un incontro con l'allora premier turco, Recep Tayyip Erdogan. Ancora, nel 2015 era stata fotografata mentre mordeva la mano di un militare nel tentativo di impedire l'arresto del fratello. Anche in Israele il video era diventato un caso: alcuni lodavano la capacità dei soldati di non reagire e altri li criticavano per essersi dimostrati deboli. Nico Di Giuseppe
Ahed Tamimi, chi è la “bionda” spina nel fianco di Israele. Nel 2018, a soli 17 anni, scontò 8 mesi di carcere inflitti dal tribunale militare per aver schiaffeggiato due soldati israeliani nel villaggio cisgiodano Nebi Saleh. Oggi è stata nuovamente arrestata. Il Dubbio il 6 novembre 2023
Ahed Tamimi, "la bionda" per via della folta chioma di capelli riccissimi, arrestata oggi in Cisgiordania dall'esercito israeliano, è da anni una spina nel fianco di Israele. Nel 2018, a soli 17 anni, scontò 8 mesi di carcere inflitti dal tribunale militare per aver schiaffeggiato due soldati israeliani nel villaggio cisgiodano Nebi Saleh. Un gesto che l'aveva trasformata nel simbolo della lotta popolare palestinese contro l'occupazione israeliana. Con lei era stata condannata la madre Narimam.
L'episodio che l'aveva portata in carcere risaliva al 19 dicembre quando, al culmine delle proteste innescate dalla decisione di Donald Trump di trasferire l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, aveva schiaffeggiato, spintonato e preso a calci due soldati israeliani che si trovavano accanto alla casa di famiglia. I due militari, ai quali la giovane aveva intimato di andarsene, non hanno reagito a quella che sembrava più una provocazione che un tentativo di fare del male.
L'incidente però era stato ripreso con il telefonino e rilanciato su Internet, acquistando grande popolarità. Pochi giorni dopo l'esercito israeliano aveva arrestato la ragazza. La famiglia Tamimi non era nuova alle proteste: Bassem, il padre, è un noto esponente di al-Fatah, il partito del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, e giocava un ruolo importante nelle proteste a Nabi Salih, villaggio 20 km a nord-ovest di Ramallah. La figlia Ahed già nel 2012 era stata ripresa mentre agitava il pugno contro soldati israeliani, guadagnandosi così un incontro con l'allora premier turco, Recep Tayyip Erdogan.
Ancora, nel 2015 era stata fotografata mentre mordeva la mano di un militare nel tentativo di impedire l'arresto del fratello. Anche in Israele il video era diventato un caso: alcuni lodavano la capacità dei soldati di non reagire e altri li criticavano per essersi dimostrati deboli.
Cos’è la “metropolitana di Gaza”, la rete di tunnel sotterranei nella Striscia costruita da Hamas e obiettivo di Israele. Sarebbe lunga centinaia di metri, in costruzione dagli anni '80. Israele accusa Hamas di aver utilizzato le forniture di materiali edili per potenziare la rete invece di costruire case, strade e ospedali. La contromossa della barriera sotterranea al confine. Redazione Web su L'Unità il 17 Ottobre 2023
Li chiamano la “metropolitana di Gaza”. Sarebbe lunga centinaia di chilometri – le sue dimensioni precise non sono note – e alcuni cunicoli sarebbero accessibili da abitazioni, moschee, scuole e altri edifici pubblici. La settimana scorsa uno dei portavoce dell’esercito israeliano, Jonathan Cornicus, aveva dichiarato che uno degli obiettivi dei bombardamenti scattati dopo gli attacchi di Hamas di sabato 7 ottobre sono i tunnel sotterranei scavati e utilizzati sia come nascondiglio che per le operazioni militari. Secondo i dossier israeliani, i tunnel si spingono fino a una profondità di 30 metri e comprendono magazzini, generatori elettrici, centri di comando e di rifornimento per i miliziani di Hamas.
I tunnel sono il “secondo livello, sotterraneo” della Striscia di Gaza, in costruzione continua dagli anni ’80 in poi secondo quanto ricostruito da JSTOR. Per far entrare e uscire viveri e uomini nella Striscia, per trafficare armi e merci – fondamentali in un territorio sostanzialmente isolato e militarizzato. Ai tempi Gaza era occupata dalle forze israeliane. La rete era nata per collegare la Striscia con l’Egitto, negli anni ha assunto un’importanza strategica e logistica sempre maggiore. Le autorità israeliane accusavano Hamas di aver utilizzato le forniture di materiali edili come cemento e ferro per potenziare la rete sotterranea invece di costruire case, strade e ospedali – quelle distrutte dagli stessi bombardamenti israeliani. Sembra piuttosto plausibile che la rete sia stata potenziata a partire dal 2007, da quando Hamas è entrata in controllo della Striscia dopo le elezioni e il conflitto con il partito moderato Fatah.
Le forze armate nel 2014, quando invasero l’ultima volta la Striscia, sostenevano che Hamas era riuscita a costruire oltre mille tunnel per un valore che superava il miliardo di dollari. Hamas dichiarava che la rete era lunga circa 500 chilometri e che soltanto il 5% era stato distrutto. L’esercito dichiarava di esser riuscito a distruggerne una trentina. Anche l’Egitto ha dichiarato negli anni scorsi di aver distrutto delle gallerie e di averne allagate alcune. La contromossa di Israele fu quella di costruire una barriera sotterranea di ferro, cemento e acciaio intorno al territorio della Striscia, lunga circa sessanta chilometri e profonda decine di metri, dotata di telecamere e sensori. Pur senza l’accesso verso territori oltre il confine la rete di gallerie resta un importante asset.
Secondo diversi osservatori i tunnel sotterranei potrebbero essere stati utilizzati negli attacchi di sabato 7 ottobre ed è molto probabile che proprio nella rete i palestinesi stiano tenendo parte se non tutti gli ostaggi rastrellati nelle operazioni. Proprio attraverso uno di questi tunnel nel giugno del 2006 venne portato nella Striscia il soldato israeliano Gilad Shalit. Il militare venne liberato più di cinque anni dopo, in seguito a estenuanti trattative che avevano portato al rilascio in cambio della liberazione di 1.027 prigionieri tra uomini e donne palestinesi.
“La metropolitana di Gaza” è diventata lungo gli anni una sorta di ossessione per le forze armate. Un sistema che rappresenta una strada per eludere gli attacchi e per vanificare in alcuni frangenti la netta superiorità delle risorse belliche di Israele. “Hamas ha avuto tutto il tempo utile per piazzare trappole esplosive sull’intera rete – ha detto alla BBC Daphné Richemond-Barak, esperta di guerra che insegna alla Reichman University -. Potrebbero semplicemente lasciare che i soldati israeliani entrino nella rete di tunnel e poi eventualmente far saltare tutto”. Gli israeliani hanno ricostruito alcuni contesti con la presenza di tunnel in alcuni campi di addestramento. Redazione Web 17 Ottobre 2023
Chi è Ayman Nofal, uno dei comandanti di Hamas deceduto a causa dei raid israeliani. Aveva 58 anni e sarebbe stato individuato e ucciso nel campo profughi di Bureij. Era al comando dell'ala militare Abu Ahmad. Aveva due compiti: organizzare e dirigere gli attacchi missilistici e gestire i rapporti con la Jihad islamica. Nel 2006 avrebbe coordinato il rapimento del militare israeliano Gilad Shalit. Redazione Web su L'Unità il 18 Ottobre 2023
Hamas ha annunciato ieri che uno dei suoi principali comandanti, Ayman Nofal, è stato ucciso in un attacco israeliano. Ayman Nofal, capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, è la figura di Hamas di più alto rango rimasta uccisa dall’inizio della guerra. Lo scrive Ynet. Hamas ha annunciato che è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014.
Chi è Ayman Nofal il comandante di Hamas ucciso dai raid israeliani
Dopo l’annuncio di Hamas, l’esercito israeliano ha diffuso il filmato dell’attacco in cui è stato ucciso Nofal. L’Idf ha affermato che, sotto la guida dell’intelligence dello Shin Bet, gli aerei da combattimento hanno preso di mira ed eliminato il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici. E ha inoltre affermato che Nofal aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006.
A 58 anni, Nofal era una figura significativa di Hamas e aveva stretti legami con Muhammad Deif, l’oscuro leader dell’ala militare dell’organizzazione. Nel corso degli anni, Nofal ha lavorato per rafforzare i legami tra Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza. In un’intervista rilasciata a giugno ad Al-Jazeera, aveva dichiarato che il comando congiunto delle organizzazioni rappresenta un “modello pratico ed efficiente per l’unità dell’asse della resistenza“. Redazione Web 18 Ottobre 2023
Chi era Jamila al Shanti, la prima donna ai vertici di Hamas uccisa in un raid israeliano. Carmine Di Niro su L'Unità il 19 Ottobre 2023
La sua morte non è stata confermata in via ufficiale dall’esercito o dal governo israeliano, ma a Gerusalemme i media non hanno dubbi: durante un raid dell’aviazione sulla Striscia di Gaza è stata uccisa Jamila al Shanti, unica donna nel consiglio esecutivo di Hamas, il Politburo composto da 15 membri e che detta la linea “politica” dell’organizzazione.
Jamila al Shanti, 68 anni, è anche nota per essere la vedova di Hamas Abdel Aziz Al-Rantisi, il co-fondatore di Hamas ucciso in un raid israeliano nel 2004. Abdel-Aziz al-Rantissi, ex pediatra, fu ucciso quando aveva 56 anni e guidava Hamas da appena 25 giorni, dopo aver raccolto l’eredità dello sceicco Ahmed Yassin ucciso il 23 marzo dello stesso anno.
Tre anni prima la moglie era entrata nel consiglio esecutivo del gruppo e aveva fondato anche il movimento femminile di Hamas: questa mattina al Shanti sarebbe rimasta vittima di un raid dell’aviazione anche se, come riferisce il Times of Israel, non vengono forniti dettagli sul luogo in cui sarebbe avvenuto.
La vedova di Abdel Aziz Al-Rantisi si aggiunge agli altri tre elementi di spicco di Hamas uccisi durante l’offensiva di Israele seguita all’attacco terroristica compiuto dai miliziani palestinesi lo scorso sabato 7 ottobre: nell’elenco ci sono Zakaria Abu Ammar, responsabile del Dipartimento relazioni nazionali, Jawad Abu Shamala e Osama al Mazini.
Al momento nelle gerarchie di Hamas il potere è detenuto di fatto da tre uomini: il capo di fatto di Hamas è dal 2017 Ismail Haniyeh, a lungo dirigente dell’ala politica del gruppo ed ex strettissimo collaboratore del fondatore Ahmed Yassin.
Ma rivestono incarichi e detengono un potere rilevante anche altri due “dirigenti”: uno è Yahya Sinwar, di fatto il leader di Hamas nella Striscia di Gaza. È lui, dal 2017, a comandare le operazioni del movimento nel territorio governato dal partito, anche primo ministro di Gaza e i ministri fanno capo a Sinwar.
La sua storia sembra quella di un film: nel 1989 venne arrestato con l’accusa di avere rapito e ucciso due soldati israeliani e quattro palestinesi che considerava dei collaboratori di Israele. Sinwar rimase nelle carceri israeliane per 22 anni fino al suo rilascio, assieme altri mille membri di Hamas, nello scambio di prigionieri deciso nell’ottobre 2011 con cui Israele ottenne la liberazione di Gilad Shalit, soldato dello Stato ebraico rimasto nelle mani di Hamas per cinque anni a Gaza.
Quindi il terzo esponente di spicco di Hamas, ovvero il capo dell’ala militare Mohammed Deif: è lui, leader delle Brigate al Qassam, ad avere organizzato l’attacco di sabato 7 ottobre costato la vita a centinaia di israeliani. Carmine Di Niro 19 Ottobre 2023
Chi è Muhammad Katamash, un altro dei comandanti di Hamas ucciso da un raid israeliano. Le conferme sono arrivate sia dall'esercito israeliano (Idf) che da Hamas. È il terzo ufficiale ucciso in pochi giorni dai raid dello Stato Ebraico su Gaza. I precedenti di Talal al-Hindi e Ayman Nofal. Redazione Web su L'Unità il 22 Ottobre 2023
Le Forze della difesa israeliane (Idf) hanno annunciato l’uccisione di Muhammad Katamash, numero due del gruppo di artiglieria di Hamas, in un raid aereo contro la Striscia di Gaza. Il portavoce militare dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha condiviso in un tweet la foto di Katamash e il video del raid che l’ha colpito. ”Aerei da guerra dell’Idf hanno ucciso Muhammad Katamash, il vice capo del gruppo di artiglieria regionale dell’organizzazione terroristica Hamas, responsabile della gestione dell’artiglieria nella Brigata dei Campi Centrali”, scrive Hagari.
Chi è Muhammad Katamash, un altro dei comandanti di Hamas ucciso da un raid israeliano
”In virtù della sua posizione, ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione e nell’esecuzione dei piani dell’organizzazione contro Israele in generale durante i combattimenti nella Striscia di Gaza’‘, ha aggiunto. Katamash è il terzo ufficiale di Hamas ucciso da Israele. Proprio ieri ha perso la vita Talal al-Hindi, un comandante delle Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas. L’uomo è stato ucciso in un attacco aereo israeliano che ha colpito la sua casa nel centro di Gaza. Con lui sono state uccise la moglie Fadwa, la figlia Isra e la nipote Bara.
I precedenti
Quattro giorni fa, invece, è toccato ad Ayman Nofal perire sotto il fuoco israeliano. Nofal era a capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, al momento è la figura di Hamas di più alto rango rimasta uccisa dall’inizio della guerra. Hamas ha annunciato che è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014. Nofal era il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici e coordinava i rapporti tra Hamas e la jihad. Inoltre, aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006. Redazione Web il 22 Ottobre 2023
Chi è Shadi Barud, il vice capo dell’intelligence di Hamas ucciso dall’esercito israeliano. Era il vice capo della direzione dell'intelligence di Hamas ed avrebbe pianificato gli attacchi del 7 ottobre: chi sono fino ad ora i comandanti e gli ufficiali di Hamas caduti sotto le bombe israeliane. Redazione Web su L'Unità il 26 Ottobre 2023
Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno affermato di aver ucciso oggi il vice capo della direzione dell’intelligence di Hamas, Shadi Barud, in un attacco nella Striscia di Gaza. L’Idf ha accusato Barud di aver pianificato gli attacchi del 7 ottobre nel sud di Israele insieme al leader di Hamas Yahya Sinwar. Barud ha precedentemente servito come comandante di battaglione nell’area di Khan Yunis e ha ricoperto altri ruoli nella direzione dell’intelligence del gruppo ed “è stato responsabile della pianificazione di numerosi attacchi terroristici contro i civili israeliani“, aggiunge l’Idf.
I precedenti
Lo scorso 22 ottobre ha perso la vita Muhammad Katamash. Quest’ultimo è numero due del gruppo di artiglieria di Hamas ed è stato ucciso a causa di un raid aereo israeliano. Il portavoce militare dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha scritto su X: ”Aerei da guerra dell’Idf hanno ucciso Muhammad Katamash, il vice capo del gruppo di artiglieria regionale dell’organizzazione terroristica Hamas, responsabile della gestione dell’artiglieria nella Brigata dei Campi Centrali. In virtù della sua posizione, ha avuto un ruolo significativo nella pianificazione e nell’esecuzione dei piani dell’organizzazione contro Israele in generale durante i combattimenti nella Striscia di Gaza“, ha aggiunto.
Talal al-Hindi
Il giorno prima a morire sotto i bombardamenti israeliani, è stato Talal al-Hindi, comandante delle Brigate al-Qassam e il braccio armato di Hamas. L’attacco aereo ha colpito la sua casa nel centro di Gaza. Con lui sono state uccise la moglie Fadwa, la figlia Isra e la nipote Bara. La notizia era stata riportata da al Jazeera. E andando ancora indietro nel tempo, allo scorso 18 ottobre, a perdere la vita per gli attacchi dell’esercito israeliano, è stato Ayman Nofal. Capo dell’ala militare conosciuta come “Abu Ahmad“, Nofal è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij. Israele lo aveva già preso di mira durante diverse operazioni nella Striscia di Gaza, inclusa l’operazione Protective Edge del 2014.
Ayman Nofal
Per l’Idf, Nofal, era il leader responsabile della direzione degli attacchi missilistici di Hamas. E ha inoltre affermato che Nofal aveva una storia di coinvolgimento nella produzione e nello sviluppo di armi, aveva orchestrato diversi attacchi terroristici e aveva avuto un ruolo nella pianificazione del rapimento del soldato dell’Idf Gilad Shalit nel 2006. Nofal aveva stretti legami con Muhammad Deif, l’oscuro leader dell’ala militare dell’organizzazione. Nel corso degli anni, Nofal ha lavorato per rafforzare i legami tra Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza. Redazione Web 26 Ottobre 2023
Gerusalemme, la storia dell’avvocato eroe che ha fermato i killer di Hamas ma è stato ucciso per errore dai militari. Yuval Doron Kastelman, dopo essersi lanciato contro i due terroristi che sparavano verso decine di persone alla fermata del bus, aveva urlato ai soldati: «Non sparate, sono israeliano». Aperta un’inchiesta. La Stampa l'01 Dicembre 2023
Israele piange l'uomo che ieri a Gerusalemme si è lanciato contro i due terroristi di Hamas che sparavano verso decine di persone in attesa dell'autobus neutralizzandoli entrambi in una manciata di secondi a colpi di pistola. Le ultime immagini lo riprendono in ginocchio sull'asfalto con le mani sollevate e la pistola gettata a terra. Secondo una testimone ha gridato disperatamente «non sparate su di me, sono israeliano, sono ebreo». Ma è stato colpito egualmente dai proiettili di due soldati della riserva accorsi da un'altra direzione decisi ad abbattere i killer di Hamas: pensavano che fosse uno di loro e hanno sparato per uccidere. Dopo molte esitazioni, la magistratura militare oggi ha annunciato di aver aperto un'indagine sul loro comportamento.
Guerra Israele-Hamas, le news di oggi
Nell'attentato rivendicato da Hamas sono rimasti uccisi un rabbino settantenne, la direttrice di una scuola religiosa ed una giovane sposa, in stato di gravidanza. Yuval Doron Kastelman - questo il nome di quello che adesso viene definito 'l'eroe di Gerusalemme' - era un avvocato di 38 anni, impiegato statale. Ieri ha visto le prime fasi dell'attacco mentre si trovava nella sua automobile, nella carreggiata opposta a quella degli attentatori. Ha sfoderato la pistola, ha attraversato di corsa quattro corsie e li ha sorpresi di lato. La sua mira è stata precisa ed è riuscito a bloccare i killer, evitando così che il bilancio fosse ancora più tragico. Ma da un'altra parte sono sopraggiunti i due riservisti: le immagini diffuse sul web lo mostrano implorante, poi rantolante sotto i loro proiettili.
Adesso i due militari - che ieri hanno rilasciato un'intervista ad una televisione di estrema destra - sono sotto accusa. La tragedia ha subito assunto una connotazione politica, anche perché ieri - sul luogo dell'attentato - il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (del partito di estrema destra Potere ebraico) è tornato a rivendicare la decisione di distribuire in massa armi ai civili per rafforzare la sicurezza. «Queste armi - ha detto Ben Gvir - salvano vite umane» perché consentono di bloccare attentati nella fase inziale anche in assenza di agenti. Per i due soldati, a quanto pare, non ci saranno risvolti penali anche perché sul cadavere di Kastelman non è stata condotta un'autopsia e dunque non sarà possibile stabilire da che tipo di proiettile sia stato ucciso. Tuttavia potrebbero aver infranto la disciplina militare avendo sparato ripetutamente contro una persona che non rappresentava alcun pericolo, avendo gettato l'arma e sollevato le mani.
Nel 2016 Israele si spaccò sul caso di Elor Azaria: un caporale che colpì a morte un attentatore palestinese dopo che questi giaceva ferito a terra ormai neutralizzato. Malgrado i vertici militari lo abbiano incriminato e poi condannato, Azaria è poi diventato un simbolo per l'estrema destra. Oggi Kastelman avrebbe festeggiato il suo compleanno. Invece è stato sepolto in un cimitero nel nord di Israele. "Era il suo carattere, sempre pronto a lanciarsi in aiuto del prossimo", hanno raccontato i familiari. "Addio, eroe di Gerusalemme", è stato l'epitaffio della radio pubblica Kan.
Ucciso dai soldati che lo avevano scambiato per un palestinese. Da ilmanifesto.it del 2 dicembre 2023.
Non si rassegna la famiglia di Yuval Doron Castleman, 37 anni, l’uomo ammazzato giovedì a sangue freddo da due soldati israeliani dopo aver sparato a due palestinesi di Hamas
Michele Giorgio, GERUSALEMME
«È stata una esecuzione, chiediamo giustizia». Non si rassegna la famiglia di Yuval Doron Castleman, 37 anni, l’uomo ammazzato giovedì a sangue freddo da due soldati israeliani dopo aver sparato a due palestinesi di Hamas che pochi istanti prima avevano ucciso tre israeliani a una fermata del bus all’ingresso di Gerusalemme.
Portato all’ospedale in condizioni disperate, Castleman è deceduto qualche ora dopo. Non si può dar torto alla sua famiglia, l’uomo ha subito la sorte di solito riservata ai palestinesi responsabili di accoltellamenti veri o tentati di israeliani che vengono sistematicamente uccisi sul posto anche se non sono più in grado di nuocere. Castleman era diretto al lavoro giovedì mattina quando, transitando in auto nei pressi di una fermata del bus, ha visto due uomini sparare contro i presenti.
Uscito dall’auto, è corso verso di loro aprendo il fuoco assieme a due soldati presenti in zona. Poi i militari, uno dei quali un colono, hanno improvvisamente rivolto le armi verso di lui. Castleman ha capito di essere in pericolo, perciò ha gettato via la pistola, si è inginocchiato e ha alzato le mani in aria implorando di «non sparare».
Nonostante ciò, è stato colpito una prima volta. Nonostante Castleman fosse ferito gravemente, un soldato ha ricaricato l’arma e ha fatto fuoco una seconda volta. Credeva di avere di fronte un palestinese che provava a salvarsi la vita parlando in ebraico. Un noto deputato di estrema destra, Zvi Sukkot, ha subito pubblicato sui social la foto di uno dei soldati con la didascalia «Eroe». Poi l’ha cancellata quando è diventato chiaro che la persona colpita era un israeliano. Giovedì il premier Netanyahu e il ministro della Sicurezza Ben Gvir avevano rimarcato l’importanza della decisione presa dal governo di distribuire più armi a civili e coloni israeliani.
Gantz contro Netanyahu per il civile ucciso per sbaglio a Gerusalemme. Il premier aveva detto: "Così va la vita".
Yuval Doron Kastelman aveva fermato due terroristi di Hamas, poi era stato colpito da un soldato dell'Idf. Il cinismo di Bibi ha fortemente indignato l'ex capo dell'opposizione oggi nel gabinetto di guerra. Huffpost il 03 Dicembre 2023
L’ennesima polemica esplosa ai vertici del governo israeliano. L’ennesima divergenza tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex capo dell’opposizione, che ora fa parte del gabinetto di guerra con Bibi, Benny Gantz. La polemica nasce in seguito alla tragica morte dell'avvocato Yuval Doron Kastelman, che lo scorso giovedì a Gerusalemme si è lanciato contro i due terroristi di Hamas che sparavano verso decine di persone in attesa dell'autobus neutralizzandoli entrambi, in una manciata di secondi, a colpi di pistola.
Israele, l’eroe del rave party: Yair Golan, che ha portato in salvo i ragazzi con la sua auto. Contattato dal giornalista Nir Gontarz, che l’ha implorato di salvare il figlio Amir, che si trovava al Nova Festival, l’ex militare ha imbracciato le armi e si è precipitato sul luogo dell’attacco. DI MONICA COVIELLO su vanityfair.it il 10 ottobre 2023.
Quando si è reso conto che suo figlio Amir si trovava proprio al Nova Festival, il rave party a pochi passi dalla Striscia di Gaza dove domenica il gruppo terroristico di Hamas ha ucciso 260 ragazzi, il giornalista Nir Gontarz, del quotidiano israeliano Haaretz, ha iniziato disperatamente a cercare un modo per salvare il ragazzo, e intanto, nelle ore drammatiche dell’assedio, ha condiviso sui social tutto quello che riusciva a sapere.
Nel primo pomeriggio, su Twitter, ha scritto: «Mio figlio è sotto attacco, nel sud. Sono andato lì, ma sono stato completamente bloccato dall'esercito e dalla polizia a 15 chilometri da lui. La polizia e l'esercito ai posti di blocco non erano pronti ad ascoltarmi». E ancora: «Mio figlio è attualmente circondato da squadroni che sparano. Non c'è nessuno dell'esercito e della polizia con cui confrontarsi. Non ci sono né esercito né polizia. Solo terroristi».
Dopo circa tre ore, Nir Gontarz, ormai terrorizzato, ha condiviso un post allarmante: «I contatti con Amir sono stati interrotti. Si vedono solo i furgoni dei terroristi. Nessuna forza di difesa israeliana si trova nelle vicinanze dei ragazzi. Si rifiutano di arruolarmi e di fornirmi armi».
A quel punto, il padre disperato ha cercato un ultimo appiglio: ha chiamato Yair Golan, figura fortemente divisiva in Israele, generale in riserva, ex numero due dell’esercito, deputato del partito di sinistra Meretz e aspro oppositore del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu (che in un’occasione ha anche paragonato alla Germania di Hitler) e dell'ala destra israeliana. «L’ho chiamato e gli ho chiesto aiuto, anche se non lo avevo mai conosciuto prima. Mi ha chiesto di indicargli la posizione esatta e mi ha detto: “Te lo riporto”».
L’ex militare ha imbracciato le armi e, con la sua auto, è arrivato sul luogo del rave party. E ha fatto quello che aveva promesso. Ha iniziato a salvare più ragazzi possibili, tra cui Amir e il suo amico. «Alcuni miei conoscenti mi hanno chiesto se potessi sfruttare il fatto di avere un accesso per aiutare i loro cari a fuggire», ha detto Golan, che ha fatto sei viaggi con la sua macchina per portare in sicurezza gli israeliani sotto attacco, al Times of Israel.
Golan ha definito l'aggressione «un enorme fallimento in termini di sicurezza» e «il peggior attacco terroristico nella storia dello Stato di Israele». Ma ritiene che l’esercito e la società israeliana abbiano «muscoli» sufficienti per reagire efficacemente, nonostante le divisioni interne. «Ciò a cui stiamo assistendo è la prova del modo miserabile in cui gestiamo il conflitto di Gaza da decenni», ha detto. Ma anche l’ex generale ritiene che «una volta che si è verificato un simile attacco, semplicemente non si può evitare un conflitto, che andrà avanti per un po’, finché i terroristi di Hamas non saranno schiacciati».
L’autista beduino “eroe di Israele”: ha salvato 30 ragazzi al rave dal massacro di Hamas. Da quotidiano.net il 27 ottobre 2023
Youssef Alziadna ha incontrato il presidente Herzog. “Non riesco neanche a raccontare l’orrore che ho visto, ho chiesto aiuto allo psicologo”
"Non riesco nemmeno a raccontare l’orrore che ho visto”
“Non riesco nemmeno a raccontare quello che ho visto, la crudeltà di Hamas’’, è sgomento l’autista, che il 6 ottobre con il suo minibus aveva portato al rave nove giovani uomini e donne israeliani. Avrebbe dovuto riportarli a casa il giorno dopo, l’appuntamento era a mezzogiorno del 7 ottobre, ma alle 6 del mattino è stato svegliato da una telefonata in cui gli si chiedeva di accorrere immediatamente perché c’era stato un allarme.
“Non ci ho pensato un momento, sono sceso dal letto e mi sono precipitato al luogo della festa” dove, una volta arrivato, “ho sentito spari ovunque” e visto “migliaia di persone che correvano cercando di evitare gli spari, ma gli sparavano addosso dappertutto’’.
Il salvataggio da eroe
L’autista ha quindi caricato più persone che poteva sul suo minibus, 30 persone in tutto compresi i suoi nove clienti. Ma quello che ha visto, il pensiero che si sarebbero potute salvare altre vite, non lo abbandonano. Alziadna ha quindi scelto di avere un supporto psicologico, per cercare di gestire il trauma vissuto da lui e da un’intera nazione.
La disperazione dell’autista
“Piango tutti i giorni” e “non riesco più a dormire”, racconta ad Adnkronos l’autista arabo-israeliano dopo aver incontrato il presidente Isaac Herzog, che in un tweet ha condiviso l’abbraccio con Alziadna e si è detto “molto commosso’’ per l’incontro con “un eroe israeliano’’. Ma per Alziadna non c’è alcun eroismo nel suo gesto, “sono un cittadino israeliano e ho fatto solo quello che dovevo fare. E se fossimo stati di più, se ci fossero stati altri con me, avremmo potuto salvare un numero maggiore di persone, indipendentemente dall’entità del pericolo’’.
L’abbraccio di Alziadna con Herzog
Alziadna sorride nell’abbraccio con Herzog condiviso sui social, ma dopo l’incontro ci dice che “ciò che conta davvero è che io abbia potuto salvare vite innocenti’’. Non vuole sentire parlare di gioia per l’incontro con il presidente israeliano, né di orgoglio: "Non ci possono essere momenti di gioia, la gioia non ha alcun significato in questo momento, né in questo incontro. La sofferenza e il dolore sono più grandi di tutto ciò che sta accadendo. Abbiamo visto la morte in faccia’’. Alziadna ha scelto di condividere un versetto del Corano per esprimere il lutto per le vite perse e le sue condoglianze per le vittime. “Siamo del Signore e dal Signore torneremo. Solo Dio rimane’’, recita.
Cosa sono Iron Dome e Arrow: i sistemi missilistici di difesa israeliani. Servono ad annullare l'attacco dei razzi lanciati contro Israele. Il primo che significa 'Cupola di Ferro', è quello ormai noto, l'altro - la 'Freccia - è nuovo e costruito con tecnologie militari innovative e all'avanguardia. Andrea Aversa su L'Unità il 3 Novembre 2023
La minaccia costante che grava su Israele, da un punto di vista militare, è il continuo lancio di razzi che proviene dalla Striscia di Gaza o dal Sud del Libano – e a volte anche dalla Siria -verso i suoi territori. Esclusi conflitti più gravi che hanno caratterizzato la guerra israelo-palestinese, è la ‘difesa aerea’ il cruccio principale dello Stato Ebraico. Per questo motivo, dal 2011, è stato reso operativo Iron Dome, letteralmente Cupola di Ferro. Un dispositivo in grado di intercettare razzi a media velocità e proiettili di artiglieria con traiettoria balistica, per una distanza che va dai 3 ai 72 chilometri. Il sistema è dotato di un radar EL/M-2084 MMR della Elta e missili Tamir dell’israeliana RAFAEL, casa produttrice dell’armamento. L’esigenza di avere Iron Dome nacque negli anni ’90, quando Hezbollah iniziò a lanciare per la prima volta razzi verso Israele dal Libano.
Iron Dome
A capo del progetto di ricerca, c’era Daniel Gold, generale e Direttore per lo sviluppo delle forze armate israeliane. L’input decisivo per la costruzione di Iron Dome arrivò nel 2006. Il via libera fu dato dall’allora ministro della difesa Amir Peretz come risposta ai razzi lanciati da Hezbollah: ben 4mila missili sparati su Israele che colpirono anche il porto di Haifa causando la morte di 44 persone. L’attacco costrinse il governo all’evacuazione di 250mila persone, mentre circa 1 milione di cittadini erano confinati dentro o vicino a rifugi anti-bomba. L’anno successivo anche Hamas da Gaza iniziò ad attaccare Israele con il lancio di razzi.
I razzi
Ai finanziamenti per lo sviluppo di Iron Dome hanno contribuito con forza gli Stati Uniti. Il 20 maggio del 2010 la Camera dei Rappresentanti U.S.A approvò un finanziamento di 205 milioni di dollari. Il progetto di legge si chiama United States-Israel Missile Defense Cooperation and Support Act. Ad oggi, considerata molto concreta la minaccia rappresentata dall’Iran e dai paesi in orbita della Repubblica Islamica, Israele ha dovuto intensificare le proprie strategie di difesa. A dimostrarlo i razzi provenienti addirittura dallo Yemen, paese affamato e devastato dalla guerra per procura che vede contrapporsi il paese degli Ayatollah con l’Arabia Saudita e attualmente governato dai ribelli sciiti Houti. Così è nato l’ultimo prodotto della tecnologia israeliana: la ‘Freccia‘ Arrow.
Arrow
Quest’ultimo è il più avanzato scudo anti-missile esistente al mondo. Un armamento innovativo e all’avanguardia. Può contrastare e annientare armi balistiche che viaggiano fuori dall’atmosfera e poi piovono a terra a oltre diecimila chilometri l’ora. Ha la necessità di intercettare e colpire i bersagli ad alta quota. Progettato dalla Iai (Israeli Aerospace Industries), Arrow ha dei costi elevatissimi. L’ultima versione, che può distruggere i satelliti in orbita e far viaggiare i propri missili nove volte la velocità del suono, vale oltre quattro miliardi di euro. Ogni singolo missile costa tre milioni.
Le difese
“Il sistema è stato concepito proprio per stroncare minacce come i missili lanciati ieri dallo Yemen – ha detto, come riportato da La Repubblica, Uzi Rubin il capo dello staff di progettisti – Ma la buona notizia è che adesso possiamo mettere l’Iran e il resto della regione di fronte a una difesa pienamente operativa contro i missili balistici”. C’è solo un’incognita: la combo Iron Dome + Arrow è in grado di difendere Israele da un eventuale attacco costituito da uno uno ‘sciame’ di dardi supersonici? In fondo i nemici dello Stato Ebraico è questo quello che stanno testando: attaccare Gerusalemme da più fronti contemporaneamente con una pioggia di missili e razzi. Andrea Aversa 3 Novembre 2023
Ma Israele ha la bomba atomica? La «dottrina dell’ambiguità» (e i lapsus) sulla forza nucleare. Davide Frattini su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.
L’opacità attorno alla reale entità dello sviluppo atomico è mantenuta da sempre. Con qualche lapsus – uno commesso pure da Benjamin Netanyahu – e la più grande fuga di informazioni nella storia del Paese, nel 1987
La cupola bianca nel deserto del Negev porta il suo nome. Eppure già 67 anni fa, quando inizia a comprare dai francesi i progetti e i pezzi per realizzare quei piani, fino all’ultimo senza la certezza di avere abbastanza fondi per pagare gli intermediari, Shimon Peres è convinto che l’opacità debba rivestire le operazioni nel centro nucleare a Dimona. Lo spiega nell’autobiografia pubblicata nel 2017 un anno dopo la morte, citando il Leviatano di Thomas Hobbes: «La fama di avere potere è essa stessa potere».
La dottrina dell’ambiguità sulla forza atomica stabilita dall’ex presidente e Nobel per la pace (dopo la firma degli accordi di Oslo con Yasser Arafat assieme a Yitzhak Rabin) è rimasta in vigore. Con qualche lapsus – uno commesso pure da Benjamin Netanyahu – e la più grande fuga di informazioni nella storia del Paese.
Mordechai Vanunu, per otto anni impiegato dentro l’istituto, passa al giornale britannico Sunday Times i dati sul programma nucleare israeliano e viene imprigionato con l’accusa di alto tradimento dopo che una squadra del Mossad lo preleva a Roma nel 1987. Ancora adesso, fuori dal carcere, è soggetto a severe restrizioni.
A un paio d’anni dalla missione clandestina affidata a Peres da David Ben-Gurion, padre fondatore della nazione, gli analisti americani della Cia diventano sospettosi: quell’impianto nel deserto nasconde di più degli spuntoni e delle antenne affioranti dalla sabbia. Il presidente Dwight Eisenhower chiede a Ogden Reid, ambasciatore a Tel Aviv, di indagare e durante un sorvolo in elicottero il diplomatico si lascia convincere dall’accompagnatore israeliano che quella là sotto è una fabbrica di tessuti.
In piena guerra fredda è John F. Kennedy a chiederne conto a Shimon Peres. Nelle minute tenute dagli israeliani all’archivio nazionale – e con il passare del tempo desecretate – viene descritto quell’incontro «casuale» (Peres è solo viceministro degli Esteri) nei corridoi della Casa Bianca: il presidente gli spiega che gli Stati Uniti monitorano con grande attenzione «qualunque sviluppo atomico nella regione perché potrebbe rappresentare un grande pericolo. Teniamo d’occhio anche voi. Che cosa mi può dire?». La risposta diventa la formula che qualunque ministro israeliano usa da allora: «Le posso assicurare che non introdurremo armi nucleari in Medio Oriente e certamente non saremo i primi».
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 dicembre 2023.
Quando ne ha preso il posto al comando del Mossad, nel giugno di due anni fa, gli israeliani già sapevano che David Barnea avrebbe tenuto un profilo meno scintillante di Yossi Cohen, dalla parlantina brillante quanto i capelli neri sempre impomatati all’indietro.
Che avrebbe rimesso l’enfasi smorzata sulla parola «segreto» accompagnata ad agente. Come ha commentato Yossi Melman, esperto israeliano di cose d’intelligence: «Meno omicidi eclatanti e apparizioni davanti al microfono per le pubbliche relazioni, più operazioni clandestine effettuate nel silenzio».
[…]
Dei trent’anni di carriera dentro l’Istituto, Barnea (nato nel 1965) ne ha passati ventotto all’unità Tzomet (crocevia) che si occupa di individuare, reclutare e manovrare agenti in tutto il mondo, si è concentrato sugli stranieri o le squadre locali da infiltrare tra l’Hezbollah libanese e gli alti ranghi iraniani.
Le capacità di persuasore e lettore di caratteri umani gli hanno permesso per un periodo di lasciare il servizio alle dipendenze dello Stato per arricchirsi in una grande banca d’affari.
Da negoziatore è stato lui a viaggiare a Doha per incontrare di persona William Burns, il capo della Cia, e gli sceicchi del Qatar, diventati da sponsor finanziari e sostenitori di Hamas i principali mediatori nelle trattative per la liberazione degli ostaggi tenuti dai terroristi a Gaza. Quando la settimana scorsa ha capito che era impossibile andare avanti, se n’è andato e si è portato via pochi giorni dopo il suo gruppo rimasto a Doha. Qualche analista ci vede la mossa di chi abbandona il tavolo per tornarci in una posizione di forza.
Eppure le parole che ha lasciato trapelare — «zero tolleranza per i giochi di Hamas» — fanno ipotizzare che davvero avrebbe per ora esaurito i margini di contrattazione, suoi o stabiliti da Netanyahu che ormai sembra concentrato solo sull’eliminazione di Hamas.
Come numero due di Cohen ha seguito in diretta dal quartier generale a nord di Tel Aviv alcuni dei blitz contro il programma nucleare voluto dagli ayatollah a Teheran e da lui ha anche ereditato il ruolo di messaggero segreto in Paesi con cui Israele non ha relazioni diplomatiche (il Qatar, tra gli altri). Da lui non ha ereditato la vicinanza politica con il primo ministro, durata fino alla rottura per le critiche di Cohen al piano giustizia portato avanti dal governo.
Estratto dell'articolo di Marco Ventura per “il Messaggero” lunedì 4 dicembre 2023.
Ci voleva uno psicologo clinico esperto in ricerche cross-culturali, Ofer Grosbard, rinomato accademico e scrittore israeliano, per illuminare gli errori dell'Intelligence militare. In un articolo su "Haaretz", Grosbard racconta l'esperienza allucinante vissuta da agosto 2021 a gennaio 2022 in un'unità di ricerca dei servizi israeliani, interrotta nel momento in cui ha esposto critiche e suggerimenti in una lettera al committente.
Un'analisi impietosa, che spiegherebbe l'incapacità degli 007 militari di prevedere e prevenire le mosse di Hamas il 7 ottobre. Un misto di arroganza, rigidità, razionalizzazione che nasconde pericolosi coinvolgimenti emotivi, e totale assenza di immedesimazione nei processi mentali e culturali del nemico.
[…] Inoltre, la leadership è formata da pochi uomini senza diversità culturali, più o meno tra i 40 e i 45 anni. […] «A 65 anni, ne avevo venti più del più vecchio di loro», continua il professore. «Gli anziani di solito sono meno arroganti, meno propensi a vedere il mondo in bianco e nero. E le donne tendono meno degli uomini a entrare in conflitti di ego, o a dover dimostrare di avere ragione». Inoltre, non è ammesso il dissenso. Ne va della carriera. […] Ogni documento è approvato, nell'Intelligence, da due supervisori «che sollevano obiezioni, spesso, su materie di cui non sanno nulla».
In concreto, questo comporta una serie di limiti. Per esempio, nell'interpretazione del modo di pensare e delle scelte di Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza. «I vertici del servizio segreto si sforzano di razionalizzare, meccanismo di difesa che giustifica posizioni emozionali, invece di fare un vero ragionamento razionale». Grosbard ha incontrato diversi alti ufficiali. «Alcuni avevano monitorato Sinwar per anni. E avendo un legame così stretto con l'oggetto delle proprie ricerche, hanno sviluppato un coinvolgimento emotivo. Un ufficiale mi disse che lo rispettava molto. Un altro era dispiaciuto che dovesse muoversi e scappare continuamente, un terzo lo percepiva come una calda figura paterna, e il quarto provava per lui un odio genuino».
Ciascuno suggeriva una maniera diversa di affrontarlo. […] E facevano lunghe discussioni filosofiche che alla fine allontanavano dalla realtà. Il peccato più grande, secondo il noto psicologo prestato all'Intelligence, è l'arroganza. Quella che fece dire a Moshe Dayan, prima della guerra dello Yom Kippur, che non ci sarebbero state più guerre per dieci anni. O ai vertici dell'Intelligence militare che Hamas era neutralizzata per cinque anni.
Osserva il professor Grosbard che per riconoscere e affrontare il pericolo bisogna essere «leggermente in ansia», non avere l'atteggiamento dell'Io-so-tutto. Sbagliato il modo di studiare i pensieri del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Gli ufficiali dell'Intelligence applicano una logica binaria, […] Ecco allora che l'allarmante report di una donna che non era un dirigente ma aveva decenni di esperienza alle spalle, dai superiori è stato sottovalutato e giudicato troppo immaginoso. Un po' di psicologia e un pizzico di umiltà avrebbero forse aiutato a scongiurare il massacro.
(ANSA giovedì 30 novembre 2023) - Dirigenti israeliani ottennero il piano di battaglia di Hamas per l'attacco del 7 ottobre più di un anno prima che accadesse: lo scrive il New York Times sulla base di documenti, e-mail e interviste, aggiungendo che dirigenti dell'esercito e dell'intelligence israeliani liquidarono il piano come ambizioso, ritenendolo che fosse troppo difficile da realizzare per il movimento estremista.
Il documento di circa 40 pagine, che le autorità israeliane chiamarono in codice "Muro di Gerico", delineava, punto per punto, esattamente il tipo di devastante invasione che ha portato alla morte di circa 1.200 persone.
Il documento tradotto, esaminato dal Nyt, non fissava una data per l'attacco, ma descriveva un attacco metodico progettato per distruggere le fortificazioni attorno alla Striscia di Gaza, prendere il controllo delle città israeliane e assaltare le principali basi militari, incluso il quartier generale di una divisione.
Hamas, secondo il quotidiano, ha seguito il progetto "con una precisione scioccante". Il documento prevedeva una raffica di razzi all'inizio dell'attacco, droni per mettere fuori uso le telecamere di sicurezza e mitragliatrici automatiche lungo il confine, e uomini armati che si riversavano in Israele in massa con parapendii, motociclette e a piedi: cose tutte successe il 7 ottobre
Il piano includeva anche dettagli sulla posizione e le dimensioni delle forze militari israeliane, sui centri di comunicazione e altre informazioni sensibili, sollevando interrogativi su come Hamas abbia raccolto le sue informazioni e se ci ci siano state fughe di notizie all'interno dell'establishment della sicurezza israeliana. Il documento, scrive il Nyt, circolò ampiamente tra i leader militari e dell'intelligence israeliani, ma gli esperti stabilirono che un attacco di quella portata e ambizione andava oltre le capacità di Hamas.
Non è chiaro se il documento sia stato visto anche dal primo ministro Benjamin Netanyahu o da altri importanti leader politici. L'anno scorso, poco dopo l'ottenimento del documento, funzionari della divisione Gaza dell'esercito israeliano, responsabile della difesa del confine con la Striscia, affermarono che le intenzioni di Hamas non erano chiare.
"Non è ancora possibile determinare se il piano è stato pienamente accettato e come si concretizzerà", si legge in una valutazione militare esaminata dal giornale. Poi lo scorso luglio, appena tre mesi prima degli attacchi, un analista veterano dell'Unità 8200, l'agenzia israeliana di intelligence che analizza i segnali, avvertì che Hamas aveva condotto un'intensa esercitazione di addestramento di un giorno che sembrava simile a quanto delineato nel piano.
Ma un colonnello della divisione di Gaza respinse le sue preoccupazioni, secondo le e-mail crittografate visualizzate dal Nyt. "Nego assolutamente che lo scenario sia immaginario", replicò l'analista negli scambi di posta elettronica. L'esercizio di addestramento di Hamas, osservò, corrispondeva pienamente "al contenuto del piano Muro di Gerico". "È un piano progettato per iniziare una guerra, non è solo un'incursione in un villaggio", ammonì
(ANSA il 27 novembre 2023. ) Sono almeno tre anni che Hamas, Jihad Islamica e gli altri gruppi si addestravano al sanguinoso attacco del 7 ottobre a Israele: lo hanno fatto all'aria aperta in esercitazioni militari vere e proprie, anche a breve distanza dai punti d'osservazione israeliana e hanno messo online già lo scorso settembre immagini e video di quelle manovre. E Israele, probabilmente, ne ha tratto le conclusioni sbagliate.
Lo scrive la Bbc, che pubblica sul suo sito un servizio-inchiesta in cui mostra anche foto e filmati online postati dagli stessi miliziani palestinesi, spiegando che dal dicembre del 2020 le forze speciali hanno tenuto almeno quattro esercitazioni sotto comando congiunto a Gaza - l'ultimo solo 25 giorni prima del 7 ottobre - su terreni doversi, addestrandosi a catturare ostaggi, ad attaccare edifici e complessi e ad aprire varchi nelle difese e nella sorveglianza israeliane.
L'indagine, portata avanti da Bbc in arabo e da Bbc Verify, mostra filmati e foto degli addestramenti messi online dopo l'assalto dagli stessi interessati, identifica personaggi e organizzazioni anche se mascherati e stabilisce che sono cinque i gruppi che si sono uniti a Hamas e hanno preso parte all'attacco - Jihad Islamica palestinese, Brigate Mujaheddin, Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, Al-Nasser Salah al-Deen, Brigate Abu Ali Mustafa.
Loro come altri gruppi armati palestinesi, si legge nell'articolo, hanno risposto all'appello del capo di Hamas, Ismail Haniyeh di inviare un "forte messaggio e un segnale di unità" con l'operazione Strong Pillar, la prima delle quattro esercitazioni militari, il 29 dicembre del 2020. "Come gruppo maggioritario fra i gruppi armati palestinesi a Gaza, Hamas agì come forza predominante in questa coalizione operativa".
All'inizio, scrive Bbc, comprendeva 10 fazioni, che iniziarono ad addestrarsi in vari modi, anche con simulatori, seguiti da una "joint operation rooom". Fu un appello e un piano che, scrive Bbc, riuscì a riunire gruppi armati anche molto diversi dal punto di vista ideologico e strategico, con la promessa di un comando paritetico congiunto durante l'addestramento, seppure il comando strategico dei piani d'attacco spettasse a Hamas.
La seconda manovra militare Strong Pillar si tenne circa un anno dopo, il 26 dicembre 2021. Il comandante del braccio militare di Hamas - le Brigate Ezzedin Al-Qassam - Ayman Nofal, per l'occasione disse che l'esercitazione doveva "dire al nemico che le mura e le difese elettroniche ai confini di Gaza non li proteggeranno", e che le manovre avevano il fine di "liberare gli insediamenti a vicino a Gaza". Nel dicembre 2022, nella terza esercitazione, l'addestramento avvenne addirittura in un terrapieno in cui si simulava un insediamento israeliano con tanto di replica di un carro armato, nel nord della Striscia: il tutto a un chilometro e mezzo dalla più vicina torre d'osservazione israeliana.
Lo scorso 10 settembre 2023, un mese scarso prima dell'attacco terroristico, il comando palestinese ha pubblicato le immagini sul suo canale Telegram e due giorni dopo si è tenuta la quarta e ultima esercitazione. La Bbc ha interpellato per un'opinione Hugh Lovatt, analista del Medio Oriente per il think-tank europeo European Council on Foreign Relations: Israele, secondo l'esperto, non poteva non essere al corrente di queste sessioni di addestramento, ma ne deve aver tratto "conclusioni sbagliate", giudicandole probabilmente una forma di "addestramento standard".
(ANSA lunedì 30 ottobre 2023) - Un documento segreto del ministero della Difesa israeliano, redatto nel 2016, indicava la intenzione di Hamas "di trasferire il prossimo conflitto (da Gaza, ndr) nel territorio israeliano, mediante anche la occupazione di un insediamento (o forse diversi insediamenti) e con la cattura di ostaggi": lo rivela oggi con grande evidenza Yediot Ahronot.
Secondo il giornale fu l'allora ministro della difesa Avigdor Lieberman (leader del partito di destra radicale 'Israel Beitenu') a consegnare il documento al premier Benyamin Netanyahu. Malgrado la gravità della minaccia, quell'avvertimento, secondo il giornale, rimase lettera e morta e non fu più discusso in profondità nè dai vertici politici nè da quelli militari.
La rivelazione del giornale giunge all'indomani di polemiche seguite alla denuncia di Netanyahu di non aver avuto dall'intelligence militare nè dallo Shin Bet (sicurezza interna), nei mesi scorsi, alcun preavviso circa l'intenzione di Hamas di sferrare un attacco in territorio israeliano.
Israele, l'errore fatale su Hamas: l'intelligence aveva smesso di spiare le comunicazioni radio. Il Tempo il 31 ottobre 2023
L’intelligence israeliana aveva smesso di ascoltare le comunicazioni radio di Hamas e questo errore potrebbe essere stato fatale nel valutare gli eventi che portarono all’attacco del 7 ottobre. A rivelarlo è stato il New York Times, secondo cui a lungo il capo del servizio di sicurezza interna israeliano, non riuscì a capire se la milizia islamista a Gaza fosse impegnata nell’ennesima esercitazione militare o si stesse preparando a qualcosa di grosso. Nel quartier generale dello Shin Bet, i funzionari avevano trascorso ore a monitorare l’attività di Hamas nella Striscia di Gaza, che era insolitamente vivace nel cuore della notte. Gli uomini dell’intelligence israeliana e della sicurezza nazionale, convinti che Hamas non avesse alcun interesse a entrare in guerra, inizialmente presumevano che si trattasse solo di un’esercitazione notturna. Il loro giudizio quella notte avrebbe potuto essere diverso se avessero ascoltato il traffico dai walkie-talkie dei miliziani di Hamas. Ma l’Unità 8200, l’agenzia israeliana di intelligence che si occupa delle comunicazioni radio nemiche, aveva smesso di intercettare quelle di Hamas un anno prima perché lo considerava uno spreco di sforzi.
Secondo tre funzionari della difesa israeliani, fino quasi all’inizio dell’attacco, nessuno credeva che la situazione fosse abbastanza grave da svegliare il primo ministro Benjamin Netanyahu. Nel giro di poche ore, le truppe di Tequila - un gruppo di forze d’élite antiterrorismo schierate per precauzione al confine meridionale di Israele - si sarebbero trovate nel mezzo di una battaglia con migliaia di uomini armati di Hamas che avevano sfondato la tanto celebrata recinzione di Israele, sfrecciando con camion e motociclette nel sud di Israele e attaccando villaggi e basi militari. La forza militare più potente del Medio Oriente non solo aveva completamente sottovalutato la portata dell’attacco, ma aveva completamente fallito nei suoi sforzi di raccolta di informazioni, soprattutto a causa dell’errata convinzione che Hamas fosse una minaccia contenuta.
Nonostante la sofisticata abilità tecnologica di Israele nello spionaggio, scrive il Nyt, gli uomini armati di Hamas erano stati sottoposti ad un approfondito addestramento per l’assalto, praticamente inosservati per almeno un anno. I combattenti, divisi in diverse unità con obiettivi specifici, disponevano di informazioni meticolose sulle basi militari israeliane e sulla disposizione dei kibbutz. I funzionari israeliani hanno promesso un’indagine approfondita per capire cosa è andato storto, sul modello di quella condotta sugli errori dell’intelligence statunitense prima dell’11 settembre 2001. Ma è già chiaro che gli attacchi sono stati possibili a causa di una serie di errori non di ore, giorni o settimane, ma di anni. Gli israeliani hanno valutato male la minaccia rappresentata da Hamas per anni, e in modo ancora più critico nel periodo precedente l’attacco. La valutazione ufficiale dell’intelligence militare israeliana e del Consiglio di sicurezza nazionale dal maggio 2021 era che Hamas non aveva interesse a lanciare un attacco da Gaza che potesse provocare una risposta devastante da parte di Israele. Invece, l’intelligence israeliana ha valutato che Hamas stesse cercando di fomentare la violenza contro gli israeliani in Cisgiordania, che è controllata dalla forza politica sua rivale, l’Autorità Palestinese. La convinzione di Netanyahu e dei massimi funzionari della sicurezza israeliani che l’Iran e Hezbollah, la sua più potente forza per procura, rappresentassero la minaccia più grave per Israele, ha distolto l’attenzione e le risorse dal contrastare Hamas. Negli ultimi anni anche le agenzie di spionaggio americane avevano in gran parte smesso di raccogliere informazioni su Hamas e i suoi piani, ritenendo che il gruppo rappresentasse una minaccia regionale che Israele era in grado di gestire. Un totale fallimento dei servizi, come ammesso dai funzionari stessi.
“Non intercettava da un anno”: svelati gli errori dei servizi segreti. Come ha fatto Hamas a sorprendere Israele lo scorso 7 ottobre? Il NYT: errori e sottovalutazioni degli 007. Massimo Balsamo su Nicola porro.it il 31 Ottobre 2023
Perché Hamas ha avuto tutta quella libertà per attaccare Israele? Cosa è andato storto nell’allora imperforabile sistema di sicurezza di Tel Aviv, considerato il migliore per distacco in tutto il Medio Oriente? Si è parlato molto del flop dei servizi di sicurezza interni, ma spuntano importanti retroscena sulle falle che hanno consentito al gruppo terroristico palestinese di uccidere oltre 1400 persone tra soldati e civili, con donne e bambini – persino neonati – trucidati brutalmente. Basti pensare alla strage del rave al confine, con decine di giovani assassinati senza pietà.
Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, i terroristi di Hamas sono riusciti a eludere le poche misure di sicurezza di Israele, penetrando la tanto decantata recinzione di confine dopo aver eliminato una manciata di soldati di Tel Aviv. Sfrecciando con camion e motociclette, i miliziani hanno attaccato villaggi e basi militari nel sud del Paese. Il resto è storia. Una cosa, secondo il NYT, sarebbe certa: la disumana violenza di Hamas sarebbe stata resa possibile da un mix di arroganza ed errate convinzioni da parte dei piani alti di Tel Aviv, tra IDF (Aman) e Shin Bet.
Israele ha sottovalutato la portata dell’offensiva di Hamas ma soprattutto ha completamente fallito nei suoi sforzi di raccolta di informazioni. In altri termini, Tel Aviv ha considerato il gruppo terroristico come una minaccia di poco conto. C’è un dettaglio emblematico, ricostruito dal New York Times: l’agenzia d’intelligence israeliana che si occupava di intercettare le comunicazioni di Hamas aveva smesso di ascoltare le conversazioni da un anno. Il motivo? Era considerato uno spreco di risorse.
Come anticipato, anche la sottovalutazione del pericolo ha contribuito il disastro. Un errore davvero madornale: gli uomini armati di Hamas negli ultimi mesi sono stati addestrati per l’attacco. I combattenti, divisi in diverse unità con obiettivi specifici, disponevano di informazioni meticolose sulle basi militari israeliane e sulla disposizione dei kibbutz. Ma c’è di più.
Come evidenziato dal Nyt, i funzionari della sicurezza di Israele negli ultimi mesi hanno provato ad avvertire Netanyahu che i disordini politici causati dalle sue politiche interne stavano indebolendo la sicurezza del Paese e incoraggiando i nemici di Israele. Tra gli episodi citati, il rifiuto da parte del premier di incontrare il generale Herzi Halevi venuto a conoscenza di una minaccia basata su informazioni riservate.
Tutta la preoccupazione di Tel Aviv è stata rivolta all’Iran e ad Hezbollah. Inoltre, negli ultimi anni le agenzie di spionaggio americane hanno in gran parte smesso di raccogliere informazioni su Hamas e sui suoi piani, ritenendo che il gruppo rappresentasse una minaccia regionale gestita da Israele. Una catena di errori risultata fatale. Massimo Balsamo, 31 ottobre 2023
Estratto dell’articolo di Raffaele Genah per “il Messaggero” martedì 31 ottobre 2023.
Una tessera dopo l'altra, il mosaico dell'incomprensibile debacle militare di Israele il 7 ottobre scorso si va faticosamente componendo. La consegna di restare uniti fino alla fine della guerra e rimandare a dopo la ricerca delle responsabilità è stata rotta da Netanyahu che ha poi dovuto ritrattare le sue accuse ai vertici militari e dei servizi.
E adesso, soprattutto grazie al lavoro dei giornalisti d'inchiesta del New York Times si apprendono altri particolari sconcertanti di una catena di errori, sottovalutazioni, equivoci che sembra al limite dell'impensabile.
[…] Ore 3 della notte tra venerdì 6 e sabato 7 ottobre. Negli uffici di Tel Aviv dello Shin Bet, il servizio segreto interno, il direttore Ronen Bar convoca i dirigenti della sua Agenzia che da ore stavano monitorando un crescente fermento dell'organizzazione terroristica lungo tutta la Striscia.
L'esame e la discussione si protrae e alla fine prevale la valutazione di ordine più politico che militare secondo cui Hamas non avrebbe avuto alcun interesse ad entrare in guerra e che verosimilmente si tratta solo di un'esercitazione notturna. E comunque per precauzione si decide di inviare un piccolo nucleo di élite antiterrorismo, il "Tequila team" a presidiare la situazione.
Meno di tre ore dopo la riunione parte la pioggia di razzi dalla Striscia e poco dopo tutti gli schermi che dovevano controllare a distanza la situazione lungo la "Barriera" di confine si spengono, accecati da droni e cecchini. Comincia l'assalto e partono gli orrori di Hamas, dalle sale di controllo dell'esercito non solo non arrivano immagini, ma nemmeno le voci delle radio trasmittenti di Hamas, visto che da oltre un anno l'Unità 8200 - che si occupa dello spionaggio di segnali elettronici - aveva smesso di intercettarle considerandolo uno sforzo inutile.
Le maglie della sorveglianza avevano dimostrato, da oltre un anno, di aver perso la propria proverbiale tenuta: da diversi mesi i servizi e le informazioni raccolte non sarebbero riusciti ad intercettare le mosse dei terroristi. E al tempo stesso non avrebbero prestato la dovuta attenzione alle informazioni di due Paesi moderati che hanno un importante ruolo di stabilizzazione della regione, l'Egitto e la Giordania.
Si dice che ci sarebbe stata perfino una telefonata tra il capo dell'intelligence del Cairo Abbas Kamal a Netanyahu - che però smentisce - per avvertirlo che qualcosa di grosso bolliva in pentola. E anche dalla Giordania erano partiti avvertimenti sul pericolo di quelle che venivano denunciate come provocazioni sulla Moschea di Aqsa.
Tanti altri i segnali non colti, addirittura un incontro negato da Netanyahu al capo di Stato maggiore della Difesa e il disinteresse con cui il Parlamento ha prestato attenzione a un briefing richiesto dal capo dell'intelligence militare. […]
Estratto dell’articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” martedì 31 ottobre 2023.
Un anno prima del terribile massacro del 7 ottobre, l'Unità 8200 dell'Intelligence militare israeliana decide si sospendere le intercettazioni dei walkie talkie di Hamas. Una sorveglianza di routine giudicata ormai "superflua". Dopo le grandi manifestazione alla barriera di confine del 2018-2019, finite senza ottenere nulla, il movimento sembra in catalessi. […]
Israele ha sviluppato app formidabili per monitorare tutto quello che si dice e scrive nei Territori. Ma nelle profondità dei tunnel i miliziani usano rudimentali linee telefoniche, schermate dal cemento e dal terreno. Resta la sorveglianza umana.
Le pattuglie, i soldati sulle torri che osservano la barriera. Da qualche mese notano insolite attività di addestramento di Hamas. Invece che una volta a settimana, più volte al giorno. Gli uomini dalle mimetiche scure che piazzano cariche esplosive lungo il confine. Le informazioni raccolte vengono poi passate ai livelli superiori della catena di comando, inclusi i responsabili dell'intelligence. Ma non sono prese sul serio.
Yael Rotenberg, in servizio nella base di Nahal Oz, riferisce di palestinesi che in abiti civili si avvicinavano alla barriera di separazione con mappe e scavavano nel terreno. Le rispondono che sono contadini, e che non c'è da preoccuparsi. Rotenberg è l'unica sopravvissuta nell'attacco a Nahal Oz.
[…]
Il premier Benjamin Netanyahu ha scaricato tutta la responsabilità sull'Intelligence. Ma il suo rivale Avigdor Lieberman sostiene di avergli consegnato nel dicembre 2016, quando era ministro della Difesa, un rapporto che prevedeva l'attacco di Hamas «esattamente come» il 7 ottobre: sfondare il confine di Gaza, invadere il Sud e prendere ostaggi. Nelle dichiarazioni di Lieberman sono servite sul piatto freddo della vendetta ma sono solo un antipasto e illustrano bene il nervosismo dell'ex King Bibi. Ha bisogno di risultati, in fretta, e questo spiega l'accelerazione di ieri con la liberazione di una degli ostaggi, la prima salvata dall'esercito. Non basterà.
Estratto dell’articolo di Giampiero Calapà per “il Fatto Quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.
L'agenzia d'intelligence israeliana che si occupava di intercettare le comunicazioni aveva smesso di ascoltare le conversazioni di Hamas da un anno perché lo considerava uno spreco di risorse. Lo scrive in una lunga e dettagliata inchiesta su tutti i buchi degli 007 israeliani il New York Times. […] Nell'inchiesta il Nyt rivela, inoltre, che anche i servizi segreti americani avrebbero da tempo staccato la spina e “in gran parte ha smesso” di raccogliere informazioni su Hamas nella convinzione che bastasse Israele a gestire la “minaccia regionale” rappresentata dal gruppo.
Che ci fosse un allarme sottovalutato dalla politica israeliana, scrive sempre il Nyt, è un fatto, tanto che il 24 luglio scorso ad ascoltare in audizione due generali di alto livello alla Knesset si sono presentati soltanto due parlamentari: “Nella valigetta di uno dei generali , Aharon Haliva, capo della direzione dell'intelligence militare delle forze di difesa israeliane, c'erano documenti altamente riservati secondo cui i disordini politici (per la contestata riforma della giustizia, ndr) stavano incoraggiando i nemici di Israele.
Un documento affermava che i leader di quello che i funzionari israeliani chiamano l'asse della resistenza (Iran, Siria, Hamas, Hezbollah e Jihad islamica) credevano che questo fosse un momento di debolezza israeliana e il momento di colpire”: è citato lo stesso il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, indica come pronto allo scatenarsi di una “grande guerra”. Telecamere, sensori e armi “sparatutto” da videogame azionate a distanza, installate al presidio dei confini della Striscia erano rimasti l'unico elemento a difesa dello Stato ebraico, ma il “fattore umano” dei miliziani di Hamas il 7 ottobre ha sfondato il muro tecnologico.
[…] Oltre ai buchi dell'intelligence ieri a far scalpore c'è stata un'altra rivelazione: nel 2016 con un rapporto di undici pagine firmato dal ministro della Difesa, il falco Avigdor Lieberman, Netanyahu venne informato di uno scenario in preparazione simile a quello verificatosi sette anni dopo: “Miliziani di Hamas – la sintesi del documento – armati fino ai denti e addestrati che attaccano i kibbutz in territorio israeliano da terra e dal cielo, per uccidere, prendere ostaggi e minare così la fiducia dello Stato ebraico nella sua sicurezza oltre il muro di cemento della Striscia, quella Linea Maginot destinata a essere violata”.[…]
Attentatori, violenti e jihadisti: chi sono davvero i prigionieri tornati da Hamas. La stampa israeliana diffonde i dati preoccupanti sul passato violento di decine di prigioneri palestinesi liberati durante la tregua. Sicurezza e deterrenza dello Stato ebraico a rischio? Valerio Chiapparino l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.
110 ostaggi, tra cui 80 israeliani, in cambio di 240 prigionieri palestinesi. Questo il bilancio finale della tregua durata sette giorni e concordata da Tel Aviv con Hamas attraverso una complicata mediazione del Qatar e che adesso sembra andata in mille pezzi. L’attacco terroristico compiuto ieri ad una fermata del bus a Gerusalemme da uomini appartenenti al movimento islamista ha ricordato la pericolosità dell’organizzazione e dei suoi affiliati accendendo i riflettori sul rischio alla sicurezza determinato dai detenuti rilasciati dalle carceri dello Stato ebraico.
I quotidiani israeliani hanno cominciato ad analizzare i profili dei prigionieri palestinesi evidenziando infatti il passato violento di molti di essi. Secondo quanto riportato dal Times of Israel che ha avuto accesso ai dati parziali dell’Israel Prison Service e dell’Idf, 64 dei 117 detenuti liberati nei primi tre giorni di tregua erano in prigione per crimini violenti. Tra questi, 10 erano trattenuti per tentato omicidio, 13 per aver ferito gravemente altre persone, 19 per aver collocato dispositivi esplosivi o lanciato bombe incendiarie, sette per aver sparato e cinque per aggressione. Il 21% dei prigionieri è ritenuto far parte di Hamas e della Jihad islamica. Solo per 10 su 117 donne e minori oggetto dello scambio il crimine più grave è quello del lancio di pietre, uno strumento di protesta diffuso nei Territori palestinesi.
Israa Jaabis è stata condannata per il ferimento di un poliziotto mentre cercava di far esplodere una bombola di gas che trasportava nel bagagliaio della sua vettura ad un posto di blocco in Cisgiordania. L’esplosione le aveva causato ferite al volto e la sua richiesta per un intervento di ricostruzione del naso a spese dello Stato israeliano le era stata negata. Marah Bakeer è stata invece fermata quando aveva 16 anni per aver aggredito con un coltello un poliziotto di frontiera. “Sono felice ma la mia liberazione è arrivata a prezzo del sangue dei martiri”, la sua prima dichiarazione da donna libera. Un passato criminale che la accomuna alla ventinovenne Rawan Nafez Mohammad Abu Matar detenuta per l’accoltellamento di un soldato dell’Idf e a Nurhan Awad la quale aveva aggredito i passanti con delle forbici.
Con la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, Israele si interroga sul prezzo pagato per la liberazione di decine dei suoi ostaggi. I precedenti non sono rassicuranti. La liberazione nel 2011 del soldato Gilad Shalit dopo cinque anni di prigionia è arrivata solo dopo il rilascio di oltre 1000 detenuti palestinesi tra cui Yahya Sinwar, il capo di Hamas ritenuto tra i principali organizzatori degli attacchi compiuti il 7 ottobre. Da quel momento Sinwar aveva mantenuto un profilo basso e in apparenza conciliante nei confronti dello Stato ebraico al punto da far ritenere al premier Benjamin Netanyahu che l’organizzazione islamista avesse abbandonato la lotta armata e fosse più concentrata ad amministrare i territori che controlla dal 2007.
Con la tregua concordata e finita all’alba di oggi l'altra riflessione in corso in Israele in queste ore riguarda la deterrenza, un concetto quasi sacro per lo Stato ebraico. Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington durante la presidenza di Barack Obama, si chiede infatti"cosa accadrà quando si diffonderà il messaggio che possiamo essere colpiti più o meno con impunità e che quando cerchiamo di difenderci qualcuno ci impone un cessate il fuoco?". Per il momento la risposta più eloquente arriva da Hanan Al Barghouti, una prigioniera appena rilasciata, sorella di un comandante di Hamas ancora detenuto:"Voglio salutare le persone di Gaza, abbiamo già vinto ma non ci fermeremo fin quando non avremo cacciato gli occupanti e tutti saranno liberi, compreso mio fratello". Valerio Chiapparino
La Croce Rossa alle famiglie di ostaggi israeliani: “Pensate ai palestinesi”. La denuncia choc: “Abbiamo chiesto di portare i farmaci ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta”. Michael Sfaradi su nicolaporro.it il 10 Dicembre 2023
Questa guerra non è come tutte le altre, ho cercato più volte di spiegarlo ma ripetere aiuta. Non lo è perché dopo il 7 ottobre anche la quasi totalità della sinistra israeliana ha capito che, nel contesto attuale, non è possibile alcuna ricerca di dialogo. Non soltanto con il mondo arabo ma anche con gran parte dell’occidente.
Non è un caso che oltre allo scontro armato nella Striscia di Gaza e al confine con Libano, e oltre ad aver a che fare con l’ondata di odio antiebraico più palese e aggressivo dalla fine della Seconda guerra mondiale, il governo dello Stato di Israele è in aperto contrasto con la quasi totalità degli organi internazionali.
Di esempi ce ne sono molti, ma quelli più plateali arrivano da posti e istituzioni fino ad oggi considerate immuni da questa malattia che si chiama antisemitismo. Per esempio, c’è da segnalare la pessima figura, qualcuno l’ha definita imbarazzante anche se il tentennamento nelle risposte è stato lo specchio del pensiero unico dilagante, da parte dei vertici delle maggiori università americane che davanti al Congresso USA non sono stati capaci di condannare l’antisemitismo dilagante nei loro Campus. Tranne poi scusarsi a tempo scaduto. la classica pezza peggiore del buco.
Altro esempio, grave anche questo ma di altra natura, è stata la totale assenza di assistenza a Israele da parte degli organismi internazionali dopo il pogrom del 7 ottobre scorso. Il segretario dell’Onu Antonio Guterres, che al primo giorno era al valico di Rafah per farsi fotografare davanti ai camion di aiuti umanitari per la popolazione palestinese, non si è però recato, distano solo pochi chilometri in linea d’aria, a vedere la distruzione che Hamas ha fatto dei kibbutz e villaggi israeliani. Lo ha fatto solo a distanza di alcuni giorni e dopo che le critiche lo avevano sommerso. Guterres ha poi addirittura invocato l’articolo 99 della Carta che permette al segretario generale delle Nazioni Unite di portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza qualsiasi questione che, a suo avviso, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. È la prima volta che Guterres invoca l’articolo da quando è entrato in carica nel 2017, ed è anche la prima volta che un segretario generale ne fa uso dal 1989, e lo ha fatto per discutere la situazione umanitaria a Gaza e a chiedere un cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Questa mossa ha fatto saltare i nervi anche a Yair Lapid, ex primo ministro israeliano e leader dell’opposizione, grande nemico di Netanyahu, che ha dichiarato: “Il Segretario Generale delle Nazioni Unite non invoca l’articolo 99 da decenni. Non è stato utilizzato contro la Siria, mezzo milione di assassinati; contro il Congo, 4 milioni di assassinati; contro il Sudan, 450mila assassinati; contro la Russia, decine di migliaia di morti e milioni di rifugiati dall’Ucraina. Solo quando Israele cerca di difendersi dopo che i nostri figli sono stati brutalmente assassinati da un’organizzazione terroristica, il Segretario Generale dell’Onu si sveglia e invoca la clausola contro di noi. Come facciamo a sapere che questo è antisemitismo? Perché non esiste altra spiegazione logica”.
Robert Wood, il rappresentante Usa che ha poi messo il veto alla risoluzione dell’Onu, ha dichiarato che il documento messo al voto era sbilanciato, staccato dalla realtà e che non teneva conto di ciò che è avvenuto. Ha aggiunto che gli Stati Uniti non comprendono perché, a due mesi dai fatti, continui a mancare la condanna da parte del Consiglio di sicurezza degli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023 durante il quale persone sono state bruciate vive, ci sono stati atti di violenza sessuale e tutto il male possibile. Ha inoltre aggiunto che l’attacco di Hamas a Israele va condannato come si fa in ogni conflitto e che il testo non riconosce il diritto di Israele a difendersi dal terrorismo. Diritto di ogni stato sovrano. Ha poi concluso il suo intervento con una frase che pesa come un macigno: “Se uno qualsiasi dei nostri paesi venisse attaccato in questo modo ci aspetteremmo che questo consiglio riaffermi il nostro diritto a proteggere i nostri cittadini”.
Oltre all’Onu e a tutte le sue agenzie, Israele ha un conto aperto anche con la Croce Rossa Internazionale che non ha usato il suo peso per pretendere da Hamas di visitare gli ostaggi israeliani rapiti. Non lo ha preteso, ma neanche chiesto. Infatti il modo in cui la Croce Rossa ha gestito i rapimenti e i massacri di massa condotti da Hamas ha suscitato diverse critiche da parte del governo israeliano, indignazione nella popolazione e profonda rabbia nei famigliari degli ostaggi. Anche se le critiche che sono arrivate sono state feroci, dopo due mesi esatti dal massacro perpetrato dai terroristi di Hamas, con il conseguente rapimento di civili, il Committee of the Red Cross, che nel suo statuto si vanta di essere un’istituzione di carattere umanitario caratterizzata dall’imparzialità, neutralità ed indipendenza con responsabilità nel custodire e promuovere il diritto internazionale umanitario, proteggendo e assistendo le vittime dei conflitti armati internazionali, dei disordini e della violenza interna, ha fatto poco e niente.
Roni e Simona Steinbrecher, i genitori di Doron rapito dai terroristi di Hamas a Kfar Azza il 7 ottobre, sono stati invitati a un incontro con la Croce Rossa all’inizio di questa settimana. Roni e Simona si erano rivolti alla Croce Rossa perché loro figlio Doron ha bisogno di un farmaco che assume quotidianamente e pensavano, speravano, che la Croce Rossa fosse disposta a trasferire il farmaco. Invece sono stati rimproverati dai rappresentanti della Red Cross che hanno detto loro: “Pensate alla parte palestinese, è dura per i palestinesi, vengono bombardati”. Aiuti a senso unico.
La famiglia di Elma Avraham, una donna di 84 anni rilasciata durante il cessate il fuoco, ha detto ai media israeliani che la Croce Rossa si era rifiutata di portarle le medicine di cui aveva bisogno. Immediatamente dopo il rilascio la donna è stata portata d’urgenza in ospedale in condizioni critiche proprio per la mancanza dei farmaci di cui aveva bisogno. Il dottor Nadav Davidovitz, medico curante di Elma Avraham ha detto alla stampa: “Ci eravamo incontrati con la Croce Rossa e avevamo chiesto loro di fare ogni sforzo per portare i farmaci che servono agli ostaggi con malattie croniche, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Dal punto di vista medico e infermieristico, ciò a cui abbiamo assistito è un abbandono illegale”.
Il Jerusalem Institute of Justice ha recentemente inviato una lettera al CICR (Croce Rossa Internazionale), sottolineando di aver pubblicato diversi post sui social media sulla terribile situazione umanitaria a Gaza, ma nessuno sulla difficile situazione degli ostaggi e delle altre vittime israeliane del massacro del 7 ottobre.
La politica dell’organizzazione che dovrebbe essere umanitaria, in questi giorni sta dimostrando, allineandosi a tutte le anime che usano le parole aiuti umanitari di essere anche lei unilaterale.
Come se l’umanità si trovi solo da una parte e che quella parte non è mai israeliana.
Michael Sfaradi, 9 dicembre 2023
«La ragazza della jeep è mia figlia Naama: è ostaggio degli stupratori di Hamas, liberatela adesso». Ayelet Levy Shachar (traduzione di Rita Baldassarre) su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2023.
L’appello di Ayelet Levy Shachar, madre di Naama Levy, 19 anni, rapita il 7 ottobre. «Sognava una carriera diplomatica. Spero che quello che affronta da ostaggio non cambi la sua visione del mondo»
Avete sicuramente visto anche voi il video di mia figlia, Naama Levy. L’hanno visto tutti. L’avete vista mentre l’afferravano per i lunghi capelli castani e la trascinavano dal pianale di una Jeep, un’arma puntata contro, chissà dove a Gaza, i pantaloni della tuta grigia macchiati di sangue. Forse avrete notato le ferite alle caviglie, i piedi nudi e la sua andatura zoppicante. È gravemente ferita. È terrorizzata. E io, sua madre, in questi attimi di orrore sono del tutto impotente.
Il 7 ottobre, Naama aveva trascorso la notte nel Kibbutz Nahal Oz quando è stata svegliata dagli scoppi assordanti di una raffica di missili. Alle 7 del mattino, mi ha inviato un messaggio WhatsApp: «Ci siamo rifugiati nella stanza blindata. Mai sentito una cosa del genere». Sono state le sue ultime parole, da allora non ho più sue notizie.
Il giorno dopo ho visto il video, ma la ragazza del filmato era talmente imbrattata di sangue, i capelli sporchi e aggrovigliati, che era difficile capire se fosse veramente lei. Proprio allora il padre di Naama mi ha chiamato per confermare la tremenda notizia.
Le ultime notizie sulla guerra tra Israele e Hamas, in diretta
Prima di quel giorno, in ogni video girato dalla nostra famiglia Naama appariva felice, ballava con gli amici, rideva con i suoi fratelli, in poche parole si godeva la vita. Naama ha solo 19 anni, ma sarà per sempre la mia piccolina. Una ragazza che crede davvero che c’è qualcosa di buono in ciascuno di noi. Le piace lo sport e sogna una carriera nella diplomazia. La sua grande passione è aiutare le persone bisognose.
Quando era ancora una bambina, aveva preso parte alla delegazione «Le mani della pace», che riunisce giovani americani, israeliani e palestinesi impegnati nel cambiamento sociale in ogni parte del mondo. Ma oggi quel video, che non rappresenta minimamente la vita da lei condotta fino a quel 7 ottobre, è tutto ciò che il mondo conosce di lei.
Sono rimasta sconvolta quando le Nazioni Unite e le organizzazioni femministe si sono rifiutate di prendere atto degli stupri e degli atroci crimini sessuali commessi da Hamas contro le donne, solo perché le vittime sono ebree. Ci sono voluti due mesi per vedere finalmente riconosciute le dimensioni e la brutalità della loro aggressione. Nel frattempo, gli esperti israeliani stanno raccogliendo le prove.
Shari, una volontaria nell’obitorio militare di Shura, ha riferito al Washington Post: «Abbiamo visto molti corpi di donne con gli indumenti intimi insanguinati, ossa rotte, fratture alle gambe e al bacino». Questi stessi mostri che si sono macchiati di tali crimini oggi tengono in ostaggio mia figlia. Diciassette sono le ragazze ancora tenute in cattività. La loro età va dai 18 ai 26 anni. Non posso fare a meno di pensare a quello che tutte loro, insieme alla mia Naama, potrebbero subire in ogni istante della giornata. All’inferno, ogni minuto dura un’eternità.
Questo lunedì Matthew Miller, portavoce del dipartimento di stato americano, ha dichiarato che Hamas si rifiuta di liberare queste ragazze «per timore che parlino di quello che hanno dovuto subire durante la loro prigionia».
E tutti sanno esattamente a che cosa si riferisce.
Che cosa fareste, se da due mesi vostra figlia fosse ostaggio di stupratori e assassini?
Forse la domanda da porre è un’altra: che cosa non fareste?
Nell’ultima settimana e mezza, decine di ostaggi sono stati liberati. I resoconti della loro prigionia fanno gelare il sangue. Emily Hand, una bambina di nove anni, ha raccontato al padre che credeva di essere rimasta sottoterra, prigioniera di Hamas, per un anno intero. Danielle Aloni è stata catturata con la sua bambina Emilia e costretta a implorare la liberazione degli ostaggi in un video girato da Hamas. La ricordiamo, mentre grida la parola adesso, achshav in ebraico. Quell’ultima parola, adesso, urlata da Danielle, quel grido primordiale è ciò che si nasconde nel cuore di ciascun ostaggio, e nel cuore dei loro familiari. È l’urlo che riecheggia nel profondo della mia anima in ogni momento di ogni giorno.
Oltre ad essere la madre di Naama Levy, sono anche medico di pronto intervento e responsabile sanitario della squadra di calcio femminile di Israele. Lavoro quotidianamente con le ragazze e conosco benissimo quali sono i pericoli derivanti dal trascorrere giorni e giorni immerse nell’oscurità, senza cibo a sufficienza, né cure mediche, né possibilità di provvedere alla propria igiene di base. Come madre, mi preoccupo: i carcerieri avranno dato un cambio di vestiti puliti a mia figlia, o Naama porta ancora quegli stessi pantaloni inzuppati di sangue che indossava al momento della cattura?
C’è un motivo per cui donne e bambini sono stati liberati per primi. Le ragazze più giovani rischiano di restare traumatizzate molto più a lungo. Donne e ragazze sono vulnerabili a molte più forme di violenza, dalle infezioni alle gravidanze causate dagli stupri. Più si prolunga la prigionia di Naama, più si aggraveranno le violenze alle quali sarà soggetta, e maggiori sono le probabilità che soffrirà di stress post traumatico per il resto della sua vita. Quando verrà liberata, mi auguro che l’immagine del suo rapimento, e la sua sofferenza, non andranno a offuscare la sua visione del mondo.
Nel frattempo, il tempo scorre nella clessidra, e la sabbia in essa racchiusa non è infinita.
Le 17 ragazze ancora tenute in ostaggio non sono merce di scambio da negoziare in sede diplomatica. Sono figlie, e una di loro è mia figlia. Il mio urlo primordiale dovrebbe essere l’urlo di tutte le madri, in ogni angolo del pianeta. Riportatela a casa, adesso!
Rossella Tercatin per “la Repubblica” - Estratti mercoledì 6 dicembre 2023.
Agli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas i terroristi hanno somministrato dei tranquillanti poco prima della liberazione, per «farli apparire felici». A rivelarlo ieri è stata la dottoressa Hagar Mizrahi del Ministero della Salute israeliano, durante una riunione della Commissione Sanità alla Knesset. «Hanno somministrato tranquillanti di tipo Clonex (un ansiolitico, ndr), affinché si sentissero felici», ha detto Mizrahi, aggiungendo anche altri particolari sulla condizione degli ostaggi durante la prigionia, e in particolare la scarsità di cibo. «Sono stati documentati anche crimini di guerra, il principale dei quali è stata la mancanza di cure mediche adeguate ».
Dal 7 ottobre l’interrogativo su come vengano trattati gli ostaggi a Gaza consuma Israele.
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Omer Niv, vicedirettore dello ospedale pediatrico Schneider, dove sono stati ricoverati 19 degli ostaggi più giovani tornati da Gaza ha dichiarato all’Ansa che ci sono stati anche casi di abusi sessuali, anche se «non tra i piccoli che abbiamo in cura noi» ma su minorenni curati in altri ospedali. Dei suoi pazienti, Niv ha aggiunto che «sono come fantasmi, soffrono di una depressione grave in misura mai vista prima, sono tristi, camminano lentamente, non vogliono uscire dalla stanza, scoppiano a piangere se vedono un estraneo, hanno paura». Il medico ha anche svelato come ad alcuni bimbi sia stato detto che i genitori erano morti e che Israele non esisteva più e nessuno li avrebbe salvati.
Gli abusi sessuali verso gli ostaggi sono stati testimoniati anche da uno dei familiari che ieri hanno incontrato il Gabinetto di guerra.
«Hanno toccato le nostre ragazze », la dichiarazione, diffusa in un comunicato del Forum delle Famiglie degli Ostaggi.
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«Hamas ha utilizzato lo stupro e la violenza sessuale come armi da guerra», ha detto l’Ambasciatore all’Onu Gilad Erdan: «Quelli di violentare e mutilare le ragazze e mostrarle alla folla festante non sono stati atti improvvisati, ma premeditati. Il silenzio sul tema delle organizzazioni internazionali è assordante».
La paura di Hamas di liberare le donne ostaggio per non far sapere al mondo degli stupri. Stefano Piazza su Panorama il 06 Dicembre 2023.
I miliziani ad oggi godono dell'appoggio di gran parte del mondo, anche occidentale. I racconti degli stupri subiti dalle donne oggi prigioniere nei tunnel di Gaza potrebbero far cambiare opinione a milioni di persone La voce è stata rilanciata dagli Stati Uniti ma già circolava in occidente con una certa insistenza dopo la fine improvvisa della tregua nella Striscia di Gaza. Ma perché Hamas non ha tenuto fede agli accordi sottoscritti che prevedevano la liberazione degli ostaggi in cambio di detenuti e giorni di tregua? Una domanda che non ha ancora trovato risposta e aperto diversi dubbi. In particolare Hamas ha rifiutato di rilasciare alcune delle donne tenute prigioniere a Gaza accampando scuse che Israele e gli Stati Uniti non hanno trovato «credibili», come ha sottolineato lunedì il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller durante una conferenza stampa. «Stavano per rilasciare queste donne, poi all'improvviso, all'ultimo momento, hanno rinnegato l'accordo e non sono mai stati in grado di fornire una ragione credibile. Speriamo che cambino idea e rilascino queste donne». Non è da escludere che il brusco cambiamento di rotta nasconda il timore che le donne una volta liberate possano raccontare cosa hanno subito durante la prigionia -vedi sevizie e le violenze sessuali. All'inizio del briefing con la stampa, Miller ha detto: «Sembra che uno dei motivi per cui non vogliono consegnare le donne che hanno tenuto in ostaggio, e il motivo per cui questa pausa è andata in pezzi, è che non vogliono che quelle donne possano parlare di ciò che è accaduto loro durante il periodo di detenzione». Coloro che sono tornati hanno raccontato di essere stati tenuti in tunnel soffocanti nelle profondità del sottosuolo di Gaza, mentre altri sono stati schiacciati in spazi ristretti con estranei o confinati in isolamento. C'erano bambini costretti a comparire nei video degli ostaggi, e altri costretti a guardare filmati raccapriccianti dell'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Le oltre 1.500 denunce raccolte dalle Idf mostrano l’orrore in cui i terroristi si sono macchiati: «Hanno usato lo stupro e la violenza sessuale in modo sistematico contro le donne e le bambine israeliane». Una volontaria dell’esercito che ha parlato con le vittime ha riferito: «Le bambine e le donne anche anziane sono state stuprate. Con forza. Fino a rompergli le ossa». Una mostruosità che alcuni dei terroristi catturati nel contrattacco israeliano (durante gli interrogatori) hanno criticato: «Sono diventati animali, non è umano fare una cosa del genere», hanno detto. Stupri che potrebbero essere proseguiti durante la prigionia e da qui la volontà di non liberare le donne e i bambini detenuti da Hamas. Continuano intanto le operazioni di terra. Questa mattina le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno accerchiato con i carri armati la casa del leader di Hamas Yahya Sinwar a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. Lo riporta Haaretz, che cita il canale saudita al-Arabiya. Sinwar, noto anche come «il macellaio di Khan Yunis», è considerato la mente operativa degli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre contro Israele. Ieri in una nota l’Idf ha confermato la volontà dello Stato ebraico di distruggere Hamas: «Continuano le feroci battaglie con gli agenti di Hamas nella Striscia di Gaza», mentre l'aeronautica militare ieri ha effettuato più di 250 attacchi contro obiettivi di Hamas. In una dichiarazione, si dice che la 7ma Brigata Corazzata ha diretto gli attacchi contro due lanciarazzi utilizzati negli sbarramenti nel centro di Israele. Gli attacchi hanno colpito anche diversi miliziani di Hamas e della Jihad islamica, insieme a infrastrutture appartenenti ai gruppi terroristici, dicono i militari. L'Idf afferma che la Brigata Kfir ha ucciso un gruppo di jihadisti di Hamas che si trovavano vicino a una scuola nel nord di Gaza. Successivamente, i soldati hanno trovato e distrutto un tunnel e armi nella zona. Secondo l'Idf, in un'altra scuola nel nord di Gaza, i soldati hanno trovato armi. Israele a tempo di record ha assemblato un sistema di grandi pompe che potrebbe utilizzare per inondare con acqua di mare la vasta rete di tunnel di Hamas sotto la Striscia di Gaza, una tattica che potrebbe distruggere i tunnel e scacciare i combattenti dai loro rifugi sotterranei, ma anche minacciare l'approvvigionamento idrico di Gaza, secondo funzionari Usa. L’Idf hanno terminato di assemblare grandi pompe per l'acqua di mare a circa un miglio a nord del campo profughi di al-Shati intorno alla metà del mese scorso. Ognuna delle almeno cinque pompe può attingere acqua dal Mar Mediterraneo e spostare migliaia di metri cubi d'acqua all'ora nei tunnel, allagandoli in poche settimane. Gli uomini di Hamas hanno utilizzato l’esteso sistema di tunnel per nascondersi, spostarsi senza essere scoperto tra le case di Gaza e tenere ostaggi. Come scrive il Wall Street Journal «alcuni dei tunnel più sofisticati sono stati costruiti in cemento armato, contengono linee elettriche e di comunicazione e sono abbastanza alti da consentire a un uomo di statura media di stare in piedi al loro interno». Una tattica quella di allagare i tunnel che nasconde anche delle insidie, una tra tutte c’è la possibilità che gli ostaggi ancora nelle mani dei tagliagole palestinesi tenuti nei sotterranei potrebbero morire annegati dopo la fuga dei loro carcerieri. Finora gli israeliani hanno identificato circa 800 tunnel, anche se hanno ammesso che la rete è molto più estesa.
Israele, il dolore e la rabbia di un popolo in guerra permanente. Tra i soldati-ragazzini e i sopravvissuti alla strage del 7 ottobre nel kibbutz di Kfar Aza: viaggio in un paese dove tutti sono arruolati. Davide Varì, da Kfar Aza (Israele) su Il Dubbio il 4 dicembre 2023
Aeroporto di Fiumicino
Il check-in per il volo Roma-Tel Aviv non può essere completato online. Prima di imbarcarti nei loro aerei, gli uomini e le donne della compagnia di bandiera israeliana vogliono guardarti in faccia, ascoltare la tua voce, frugare con cura tra le tue cose.
Il desk di El Al è in fondo al terminal 3 di Fiumicino. È separato da tutti gli altri da una lunga vetrata antiproiettile, circondato da militari e uomini della polizia. Israele è una enclave blindata già a Roma. La fila è ordinata, piena di bambini. Non si direbbe che si tratta di un volo diretto verso una zona di guerra. «È l’abitudine», commenta qualcuno, «sono in guerra da sempre. Quello che per noi è straordinario, per loro è la norma».
I controlli sono minuziosi, sfiancanti. Gli operatori hanno l’ordine di non trascurare nessun dettaglio, di non dare nulla per scontato. Il primo checkpoint è per il biglietto. Superato il quale si arriva al secondo, dove un operatore ti parcheggia in un corner, poi prende il passaporto e lo porta al controllo. È il momento dell’interrogatorio:
«La roba in valigia è tutta sua?», chiede una giovane donna in divisa. «Si».
«Porta qualcosa per qualcun altro?». «No».
«Qualcuno le ha consegnato qualcosa prima di partire?». «No».
«Quando ha saputo del viaggio?». «15 giorni fa».
«È solo?». «No, sono con una delegazione».
«Lei sa che dobbiamo perquisire il bagaglio?». «Certo, faccia pure».
«Bene si metta in fila, la chiamerà il ragazzo».
Il ragazzo in questione ha circa 30 anni, è alto e robusto. I due si scambiano qualche frase in ebraico, poi, con un gesto secco della testa, indica verso di me. Il ragazzo gira tra le mani il passaporto, lo guarda, lo sfoglia, mi fissa. È un rituale studiato, qui nulla è lasciato al caso. Infine mi chiama.
Poggio la borsa su un tavolo di un ufficetto spoglio, la apre e tira fuori ogni singolo oggetto, ogni singola borsetta. Lo fa con delicatezza. Ma è una “cortesia da protocollo”, in realtà è concentratissimo sulle mie cose. Accanto a lui c’è uno strano macchinario dal quale, di tanto in tanto, tira fuori una lingua di carta che passa con accuratezza su ogni singolo oggetto del bagaglio sparpagliato sul tavolo. Finita la perquisizione, accenna un sorriso e mi riconsegna tutto: «Buona fortuna, signor Varì». Lo fisso con aria interrogativa, ricambio il sorriso e mi infilo nel gate che porta a Tel Aviv.
Il mare della Palestina
Il mare nega qualsiasi ipotesi di confine. È la sua natura. Il mare confonde, scompagina e irride le misere ambizioni di chi è a terra. Da Tel Aviv a Gaza saranno circa 50 km di distanza. Visti dall’aereo formano una linea retta, ma quel tratto di mare che pure sembra come tutti gli altri in realtà è un’eccezione, una barriera invalicabile: lì dentro affiorano e gorgheggiano odi antichi, mai sopiti, pronti a riaffiorare come un Leviatano affamato di sangue. È un mare che non dà speranza, quello di Gaza e Tel Aviv. Benvenuti in Israele, benvenuti in guerra. Una guerra che dura da quasi 50 anni.
Tel Aviv
La serata è placida, l’aria è tiepida. Sui prati immacolati del lungomare di Tel Aviv c’e qualche sparuto gruppo di ragazzi. Le zaffate di hashish si mescolano all’odore del ginepro. Una ragazza parla col suo cane, un’altra, armonica e chitarra, canta Bob Dylan. Ma è una calma solo apparente. La città della musica e della trasgressione è sospesa, silenziosa: ogni rumore sembra ovattato. La verità è che dal 7 ottobre Tel Aviv è un posto abitato da vecchi. Migliaia di ragazzi sono al fronte a combattere e “la città che non dorme mai” alle 21 è già spenta.
Tel Aviv è una città moderna. Una Miami cresciuta nel cuore del Medio Oriente. E a vederla così, coi suoi grattacieli e le piscine degli hotel, qualcuno potrebbe pensare che la guerra sia lontana. Ma non è così, la battaglia è a due passi: feroce, lunga, disperata.
E a svegliarti dall’illusione della normalità ci pensano le divise militari che spuntano a ogni angolo della città. Israele ha un esercito di 18mila soldati che nel giro di poche ore possono diventare mezzo milione. È la politica dei riservisti, l’effetto di un paese che si sente costantemente sotto assedio, circondato da stati che negli ultimi 50 anni hanno avuto un unico pensiero: eliminarla dalla faccia della terra. O almeno del Medio Oriente. È un popolo in guerra, Israele.
La strage del 7 ottobre è già memoria
Il 7 ottobre è già storia, racconto collettivo, memoria. È una nuova Shoah. A meno di due mesi distanza dalla strage di Hamas, in Israele c’è già un prima e un dopo. La base di Shura, a Sud di Tel Aviv, è diventata un centro di identificazione, un grande obitorio gestito dall’esercito.
«Quel giorno ero ancora un civile», racconta Ariel Shallcar, che oggi è maggiore dell’Idf. «Quando ho visto le immagini della mattanza filmata da Hamas ho pensato che non fosse possibile. Invece era tutto vero». È in quel momento esatto che Ariel è diventato un soldato di Israele: «Dovevamo riprendere il controllo del territorio, contare e recuperare i corpi della nostra gente, evacuare più di 250mila persone e infine salvare gli ostaggi». Accanto ad Ariel c’è un ragazza in divisa, avrà non più di 20 anni. Anche lei è mobilitata, è in guerra.
«La verità - dice - è che abbiamo sottostimato Hamas, la loro capacità militare e la loro brutalità. Hanno sbagliato a filmare tutto. Ma nonostante quei video, qualcuno ancora non vuol credere». Ariel a questo punto si ferma, dietro lo scetticismo degli europei sembra che riviva lo stesso silenzio, lo stesso scetticismo al quale gli ebrei hanno assistito decenni fa. È un eterno ritorno, un passato che non passa.
Ariel parla di fronte a una fila di container bianchi. Sono celle frigorifero. Dentro ci sono i resti dei morti del 7 ottobre che ancora non hanno un nome. Ariel ordina di aprirne uno, ci consegnano le mascherine ma l’odore acre di quei corpi è troppo forte. Il garrito improvviso di un pappagallo rompe il silenzio, ci sveglia da quell’incanto mostruoso.
Dentro il kibbutz Kfar Aza
La visita al kibbutz di Kfar Aza è il cuore della visita organizzata da Elnet, una Ong israeliana che in questi mesi sta provando a raccontare la sua storia, la storia di un paese ferito. So bene che ascolterò solo quello che vorranno farmi ascoltare, vedrò solo quello che vorranno farmi vedere. Il programma è già stato stabilito in ogni minimo dettaglio.
Ma qui, come a Gaza, anche l’informazione è ingaggiata. L’obiettivo di entrambi è chiaro: spostare la solidarietà internazionale dall’una o dall’altra parte. Eppure, quel che vediamo e ascoltiamo è tutto vero ed è sufficiente a rivivere l’orrore del 7 ottobre.
Prima di arrivare a Kfar Aza ci fermiamo a Sderot, la città fantasma. Tutti gli abitanti sono stati evacuati. Solo qualcuno ogni tanto fa una scappata veloce nella casa deserta per prendere quel poco che rimane: vestiti, pentole, qualche foto incorniciata. In città si entra solo con il giubbotto antiproiettile e il casco. Siderot è importante perché ospitava il centro di controllo di Israele. Hamas lo sapeva ed è qui che ha colpito per primo. E Israele senza gli occhi di Siderot è diventata cieca per sette lunghe ore.
Il nuovo centro di controllo è in un bunker. Soldati ragazzini ci scortano verso una casetta, e a ognuno di noi chiedono di non fare foto: neanche un frammento di quei video deve arrivare in rete. Ci infilano in una saletta. C’è silenzio, tensione. Le luci si spengono, il video dell’orrore ha inizio. Il primo commando di Hamas punta una macchina familiare, la affianca. Spara e se ne va. Qualche istante dopo dalla carcassa dell’auto scende una bimba di due anni. Cammina confusa. La macchina del commando torna indietro, punta anche lei. Il video si ferma, non va oltre, non ce n’è bisogno. Nella sala cala il silenzio.
La seconda tappa è il kibbutz di Kfar Aza. Gaza è vicina, l’artiglieria Israeliana è in azione. I telefoni delle nostre guide squillano. È allarme missile. Ma nessuno si scompone. Ci danno istruzioni: in caso di allarme scendiamo con i caschi e ci distendiamo sulla strada. Ma non servirà, pochi minuti dopo l’allarme è già finito.
Prima di arrivare a Kfar Aza facciamo tappa in quello che chiamano il “parcheggio del rave”. Sono le auto dei ragazzi uccisi il 7 ottobre. È un cimitero di lamiere. Ogni singola auto è segnata, schedata. Ed è un altro testimone silenzioso di quella strage. Lo sarà per molto tempo.
Dopo una breve distanza si arriva finalmente a Kfar Aza. Immerso nel verde e pensato come kibbutz delle origini, Kfar Aza doveva essere il sogno ebraico che si realizza. «Quella mattina c’era qualcosa di strano», racconta Israel Lender, un vecchio con gli occhi diafani e la voce tremante. «L’allarme è suonato e io e mia moglie ci siamo rinchiusi nel rifugio. Sentivamo le voci arabe che ordinavano di aprire. Non sono riusciti a entrare nel bunker, ma la mia casa è diventata il loro scannatoio». «Ora - continua Israel - mi sento colpevole di aver costruito la casa. Perché i miei amici sono morti tutti tra quelle mura».
A due passi dalla casa di Israeli, c’è la casa del massacro di bambini. Ogni cosa è rimasta come nel giorno dell’assalto. Nulla deve essere toccato: le scarpette rosa all’entrata, i pezzi di vetro della brocca sparsi sul pavimento, il sangue nella cameretta. Il soldato mostra sul suo tablet le foto dei corpicini massacrati. Gli uomini di Hamas si sono accaniti, hanno infierito. Difficile perdonare.
Ora le poche case rimaste in piedi nel kibbutz sono il ricovero degli uomini dell’esercito israeliano. I colpi di mortaio e le raffiche dell’Iron dome, il sistema di difesa israeliano, tuonano senza sosta. Se c’è un posto nel quale è morta la pace, quello è Kfar Aza.
A poche centinaia di metri da qui c’è l’altra faccia del dolore, della morte. Oltre gli alberi di Kfar Aza c’è Gaza. Ma Israele è un popolo in guerra e ora ha spazio solo per il proprio dolore.
Israele, il padre del piccolo Kfir in un video di Hamas attacca Netanyahu: “Hai ucciso la mia famiglia”. Redazione su Il Riformista il 30 Novembre 2023
Hamas ha pubblicato un video che sembra mostrare Yarden Bibas, rapito dal gruppo palestinese insieme alla moglie Shiri e ai loro figli Ariel di 4 anni e Kfir di 10 mesi.
“Bibi, hai bombardato la mia famiglia, era tutto quello che avevo nella mia vita. Riportali a casa perché siano sepolti in Israele, ti scongiuro”, avrebbe affermato l’uomo di fronte alla telecamera rivolgendosi al premier Benjamin Netanyahu.
La moglie e i due figli sono stati dichiarati morti da Hamas. Israele, da parte sua, ha precisato che le affermazioni dei fondamentalisti palestinesi sulla famiglia Bibas “non sono state ancora accertate e confermate”.
Il video del padre di Kfir Bibas diffuso da Hamas Yarden Bibas è stato separato dal resto della sua famiglia. Nel video pubblicato da Hamas lo si vedrebbe mentre viene informato “della morte dei suoi familiari”.
Il filmato è infatti preceduto da una dichiarazione degli islamisti della Striscia, secondo cui “il detenuto Bibas ha appreso che gli aerei del nemico hanno ucciso la moglie e i due figli. Hamas ha offerto di trasferire i loro corpi a Israele ma che per ora si rifiuta di riceverli”.
La replica di Israele
Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che l’organizzazione terroristica “ha divulgato un filmato duro e crudele di Yarden Bibas. Il nostro cuore è con la intera famiglia”. Si tratta, secondo il funzionario dello Stato ebraico, “di un atto di terrore psicologico condotto da Hamas contro le famiglie degli ostaggi”.
Israele insiste affinché i mediatori tornino a esigere dai fondamentalisti la liberazione di tutte le donne e i bambini e che gli ostaggi siano visitati dalla Croce Rossa.
Ostaggi a Gaza, come si vive tra le mani di Hamas: buio, isolamento, e il cibo inizia a scarseggiare. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 28 novembre 2023
Dai primi racconti degli ostaggi rilasciati emerge una possibile ricostruzione della vita nei tunnel dei terroristi islamici. Complicato usare il bagno. Un inferno che dura dal 7 ottobre
Sono i primi racconti degli ostaggi tornati in Israele, indiscrezioni trapelate attraverso una riservatezza imposta dal rispetto le vittime e da ragioni di sicurezza.
I nascondigli
Le testimonianze dei protagonisti offrono un quadro frammentato. Alcuni dei rapiti sono stati rinchiusi nei tunnel. Lo ha rivelato una delle prime rilasciate, descrivendo il percorso a piedi in un cunicolo con numerose deviazioni. Altri sono stati portati prima in case private, quindi trasferiti dalle Brigate al Qassam con piccoli veicoli in nascondigli sotterranei. Un nucleo era ospitato in una stanza oscurata, non filtrava il minimo raggio di luce. Altri ancora li hanno messi in una sala somigliante «a una reception».
Gli aggiornamenti sul conflitto Israele-Hamas, in diretta
Un primo gruppo di donne e minori è stato confinato in un ambiente in grado di accogliere una ventina di persone, con qualche forma di assistenza. Due adolescenti, fratello e sorella, condividevano lo spazio con una donna. C’è chi aveva a disposizione dei materassi mentre qualcuno si è dovuto arrangiare con sedie di plastica affiancate. Complicato — ha spiegato una liberata — andare al bagno. Dovevano bussare a una porta e aspettare la risposta dei carcerieri: «Poteva passare anche oltre un’ora». La maggior parte era tenuta in isolamento totale ma a qualcuno è stato permesso di ascoltare brevemente i notiziari radiotv israeliani.
Il cibo: pita, riso, formaggio
I pasti erano composti da pagnotte di pita — il tipico pane arabo — riso, formaggio. Mangiavano una o due volte al giorno, con condizioni diventate più difficili nelle ultime settimane. Un peggioramento probabilmente coinciso con l’offensiva militare che ha reso complicati i movimenti e costretto i terroristi a essere più cauti. Il risultato evidente è una perdita di peso per molti dei sequestrati e un aggravamento di coloro che erano malati. Elma Avraham, 84 anni, dopo il rilascio, è stata subito trasferita in ospedale a causa di uno «stato gravissimo», le hanno negato medicine indispensabili. Una ragazza, ferita, dovrà subire interventi chirurgici.
La fuga del prigioniero russo (poi riconsegnato ai miliziani)
Doppiamente drammatica l’esperienza di Roni Krivoi, in possesso della cittadinanza russa e israeliana, tornato libero ieri. In realtà — secondo sua zia — era riuscito a scappare quando l’edificio dove era trattenuto ha subito danni in seguito a un raid aereo israeliano. Una volta fuori ha cercato di raggiungere il confine, però non riusciva a orientarsi ed è stato catturato dopo quattro giorni da civili che lo hanno consegnato ai miliziani. La sua liberazione è stata interpretata come un gesto di ringraziamento rivolto a Vladimir Putin per la sua posizione pro-Palestina. Krivoi era finito in mano ai guerriglieri al festival rave dove lavorava come tecnico del suono.
I luoghi della detenzione
Quanto alle zone di detenzione se ne ipotizzano due. La prima è nella parte meridionale della Striscia, tra Khan Younis e il confine con l’Egitto. La seconda nell’area di Gaza City. Entrambe roccaforti dei mujaheddin con rifugi, gallerie, strutture difensive e la popolazione a fare da scudo.
Nelle ore drammatiche del 7 ottobre i palestinesi hanno dato la caccia a chiunque trovassero, un assalto condotto da Hamas, Jihad e, in secondo momento, da gang di sciacalli. Ognuno ha ottenuto il proprio bottino e ha organizzato come ha potuto la «gestione» delle prede.
La spartizione ha complicato il quadro, diventato ancora più caotico una volta iniziata la battaglia. Hamas, sin da subito, ha affermato di non avere il controllo pieno. Versione ripetuta dai mediatori del Qatar secondo i quali la fazione ha difficoltà a rintracciare 40-50 prigionieri in mano ai concorrenti. L’affermazione racchiude una parte di verità ma è anche un modo per prendere tempo, allungare l’angoscia, continuare con il ricatto. Rientrano nel gioco crudele gli annunci sul decesso di alcuni sequestrati, la separazione di madre e figli.
Un insieme di notizie vere e false, trucchi, approssimazione. Secondo il quotidiano Haaretz la leadership dell’interno, diretta da Yahya Sinwar e dal capo militare Mohammed Deif, conta di più rispetto ai dirigenti in esilio (che trattano), è in pieno controllo ma i suoi canali di comunicazione con molti «battaglioni» sarebbero meno fluidi a causa dell’uccisione di numerosi comandanti.
Capuozzo:“La sinistra dei kibbutz e la destra ex fascista a braccetto nell’odio per gli ebrei”. Domenico Pecile su L’Identità il27 Novembre 2023
Toni Capuozzo di recente ha ottenuto il Premio Valore 2023 per i Diritti umani, assieme ad altri nomi illustri, “per l’impegno profuso nella ricerca di un linguaggio attuale, a metà tra l’esperienza dei padri e l’impeto delle nuove generazioni, affinché i giovani possano esprimere un giornalismo libero, alimentato dalla curiosità e dall’umiltà”. Un riconoscimento per il suo impegno in prima linea come inviato di guerra. Una pluridecennale esperienza, quella di Toni Capuozzo, che gli conferisce tutti i titoli per spiegare le guerre, quelle passate e quelle attuali.
Partiamo da una buona notizia e cioè dalla tregua raggiunta tra Israele e Hamas.
È già qualcosa. Ogni tregua è sempre benvenuta. Purtroppo però è e resterà soltanto una tregua perché entrambe la parti stanno già affilando le armi per la seconda fase che ovviamente ha obiettivi contrapposti.
E ora quale sarà l’obiettivo di Israele?
L’obiettivo dichiarato già all’indomani del 7 ottobre è la distruzione di Hamas le cui milizie e il cui quartier generale si sono spostati necessariamente a Sud della striscia di Gaza dopo le sconfitte subite a Nord. La trincea di Hamas si trova adesso a Kan Yunis, città palestinese con annesso campo profughi.
Hamas come intende controbattere a questa fase che si preannuncia altrettanto cruenta ?
Resistere il più a lungo possibile lavorando psicologicamente sugli ostaggi. Dopo la liberazione ne rimangono 236. Hamas confida nella pressione dei parenti ma soprattutto nel mondo intero affinché fermi il gruppo dirigente israeliano. Ma sa di dover scendere a patti perché sta subendo pesantissime sconfitte anche se canterà vittoria per avere costretto Israele a negoziare.
Quale sarà l’esito di questa seconda fase?
Che Israele distruggerà Hamas. Ma dopo dovrà confrontarsi con una qualche autorità palestinese.
Quindi a quel punto Hamas sarà costretto a restare isolato dato che l’auspicato supporto dell’Iran non è arrivato?
L’Iran sa perfettamente che un suo intervento gli costerebbe troppo caro. Anche perché è costretto quotidianamente a fare i conti con le proteste intere. Sì, per Hamas arriverà la sconfitta definitiva. Anzi, rischia di scomparire.
Questa fase che dovrebbe portare alla debacle di Hamas quanto potrebbe durare?
Mah, altri due mesi. Israele aveva affermato che la guerra sarebbe stata lunga, ma alla luce dei risultati che ha conseguito a Gaza nord ora quelle previsioni saranno necessariamente riviste al ribasso anche perché, come dicevo, Hamas pare destinato all’isolamento.
Alla fine della guerra quale sarà il futuro del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu?
Credo abbia i mesi contati. Finito il conflitto va a casa. A questo punto vorrà passare alla storia come quello che ha vinto la guerra più difficile. Ma lascia la grande macchia del 7 ottobre, quando si è fatto sorprendere dai terroristi di Hamas, la contesta vicenda della riforma sulla Giustizia e alcune macchie di sue vicende personali.
La reazione militare durissima di Israele che coinvolge anche i civili ha ridato ossigeno al virus dell’antisemitismo. Israele ha valutato queste conseguenze e si deve preoccupare del clima politico mondiale?
L’ex premier israeliano e prima donna a guidare il suo Paese, Golda Meir, è passata alla storia anche per una frase che bene si addice alla guerra in corso contro Hamas. Eccola: “Preferiamo raccogliere le vostre lamentele piuttosto che le vostre condoglianze”. Era prevedibile però che la risposta militare molto dura facesse risorgere un antisemitismo dormiente. Ma Israele preferisce questo rischio piuttosto che rivivere un altro incubo come quello del 7 ottobre.
Un antisemitismo che, oltre a essere trasversale, sta accomunando settori della Sinistra e della Destra. Come lo spieghi?
Una parte della Sinistra per anni ha vissuto con favore l’esperienza socialisteggiante dei Kibbutz, mentre un’altra negli ultimi decenni è sempre stata al fianco della resistenza palestinese. La destra ex fascista o addirittura nazista ha sempre odiato gli ebrei, a prescindere. E così, in questa occasione i due estremismi vanno a braccetto.
Due popoli e due Stati, dunque?
Questa è l’unica soluzione possibile, ma adesso è irrealizzabile. Prima Hamas deve essere sconfitto del tutto e poi c’è da risolvere anche la questione dei coloni. E mentre nella striscia di Gaza si muore, ci si dimentica dell’altra mattanza: la guerra tra Ucraina e Russia. Ma quella era già finita nel dimenticatoio. È un conflitto senza sbocco perché la situazione è di stallo permanente.
I kibbutz pacifisti Be’eri e Kerem Shalom, le comunità collettive che non sono più una speranza di pace. Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 10 ottobre 2023.
Gli attacchi di Hamas hanno colpito le comunità collettive in Israele. Alon Pauker: «La nazione in cui vivevamo non è più la stessa»
Il bar della mensa comune, due rampe di scale per scendere sottoterra, è segnalato da una freccia in ferro battuto saldata con i pezzi dei proiettili. Benvenuti al pub Colpo di mortaio. Il nome scelto dai fondatori hippie e anarchici per questo kibbutz costruito a 70 metri da Gaza non ha retto alla realtà della violenza: Kerem Shalom, la Vigna della Pace, non è più neppure una speranza.
In questo angolo tra Israele, l’Egitto e la Striscia è stato rapito nel 2006 il caporale Gilad Shalit, tenuto ostaggio per cinque anni dai fondamentalisti. Una ragazza ha dipinto le frasi tratte da «Alice nel Paese della meraviglie» sul muro di cemento alto nove metri, che ormai toglie la vista alle finestre delle minuscole villette e la voglia di restare. In queste ore qua attorno l’esercito sta minando la sabbia del deserto per impedire altre infiltrazioni dei miliziani di Hamas.
L’orrore ha oscurato la meraviglia dei pionieri che hanno fondato Be’eri, una quarantina di chilometri più a nord lungo il perimetro di guerra che circonda Gaza. Dei 1047 abitanti oltre cento sono stati massacrati dopo che i terroristi hanno fatto saltare con il tritolo il cancello giallo all’entrata e sono risaliti lungo i viali, hanno calpestato i roseti per sfondare le porte. Gli assalitori hanno rastrellato casa per casa, raggruppato i civili nella mensa comune, dove il menu era a base di pollo come ai tempi di Ben-Gurion, unica concessione una sezione vegana, dove tutti mangiavano ancora insieme perché Be’eri era una delle ultime comunità rimaste collettive. Poteva permetterselo: la fabbrica che stampava plastica negli anni Cinquanta è stata trasformata in una innovativa catena di montaggio per microchip.
Come ai tempi di David Ben-Gurion, il padre fondatore della patria, qui i laburisti sono rimasti il primo partito. Qui i pacifisti – nei dibattiti pubblici, nelle chiacchiere tra vicini – potevano lasciare da parte i «se» e i «ma», i distinguo da premettere in altre parti del Paese, perché l’estrema destra in questi vent’anni ha bollato come traditore chi persevera nel credere in un accordo con i palestinesi. Qui le anziane, che ancora ricordano un tempo senza barriera e reticolati, la sera chiamavano altre donne dall’altra parte, palestinesi che avevano conosciuto.
Alon Pauker, professore di Storia del sionismo e dei kibbutz all’Università Beit Berl nel centro del Paese, si è salvato. Ha sempre votato ancora più a sinistra (per Meretz) e all’agenzia France Presse commenta: «Dobbiamo capire che il nostro kibbutz non esiste più, che la nazione in cui vivevamo non è più la stessa».
Qualche anno fa, seduto alla mensa all’ora di pranzo, raccontava di suo figlio stazionato con l’esercito attorno a Gaza: nonostante la volontà, la voglia, l’audacia di volere la pace «gli obblighi verso lo Stato non si disertano mai». Adesso dice: «Quello Stato ci ha abbandonato, è uno spostamento tettonico imponente per noi che ci avevamo creduto».
Dagospia sabato 25 novembre 2023. VI RICORDATE DELLA DONNA CHE URLAVA: “NETANYAHU, TU CI UCCIDI”, NEL PRIMO VIDEO DEGLI OSTAGGI DIFFUSO DA HAMAS? SI CHIAMA DANIELLE ALONI, HA 45 ANNI ED È STATA RILASCIATA IERI, INSIEME ALLA FIGLIA EMILIA E ALTRI 12 PRIGIONIERI. ENTRAMBE ERANO STATE RAPITE A NIR OZ IL 7 OTTOBRE, MENTRE ERANO IN VISITA ALLA SORELLA DI DANIELLE, SHARON, A SUA VOLTA SEQUESTRATA INSIEME AI FIGLI – NEL FILMATO, LA DONNA SE LA PRENDEVA DIRETTAMENTE CON “BIBI”, USANDO PAROLE DURISSIME: “NON CI HAI MASSACRATO ABBASTANZA? LIBERACI, LIBERA I LORO CITTADINI, LIBERA I LORO DETENUTI". E COSÌ È ANDATA
Estratto da tg24.sky.it sabato 25 novembre 2023.
[…] Danielle Aloni, 45 anni, e la figlia Emilia, 5 anni, erano state rapite a Nir Oz mentre erano in visita dalla sorella di Danielle, Sharon Aloni-Cunio, a sua volta sequestrata insieme ai suoi gemelli di 3 anni Emma e Yuli, e al loro padre David Cunio. Il 7 ottobre alle 11 Danielle aveva inviato un "ultimo messaggio" alla sua famiglia dicendo che c'erano dei terroristi in casa e che aveva paura che non sarebbero sopravvissuti. "Vi siete impegnati a liberarci tutti. Invece ci portiamo dietro il vostro fallimento politico, di sicurezza, militare e diplomatico", aveva urlato contro Netanyahu Danielle in un video diffuso a fine ottobre da Hamas.
Chi sono i tredici ostaggi israeliani liberati. Doron, Ruti e gli altri: ritorno senza sorrisi. Storia di Greta Privitera su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
Nel buio della sera, dai finestrini delle Jeep della Croce Rossa, abbiamo cercato di scorgere dai video che ci sono arrivati le espressioni dei israeliani rilasciati da Hamas. Volevamo vedere l’effetto che fa la libertà dopo 49 giorni di prigionia.
«Non riesco a spiegare a parole questo momento», dice Sagit Dinnar, tra le coordinatrici del gruppo delle famiglie degli ostaggi che da più di un mese gestisce le comunicazioni dei parenti dei prigionieri. «Siamo divisi tra la gioia immensa, l’angoscia che qualcosa possa andare storto e la tristezza per tutti gli altri che ancora sono a Gaza».
I primi ostaggi liberati che rientrano nell’accordo con i miliziani palestinesi sono 12 tra donne e bambini che sabato si trovavano nel kibbutz di Nir Oz — a qualche chilometro dalla Striscia — e un’anziana di Nirim. Al gruppo israeliano si sono aggiunti dieci tailandesi e un filippino — lavoratori nei campi vicino Gaza — per cui c’è stata una mediazione del Cairo.
Dopo aver attraversato il valico di Rafah che per sempre segnerà il confine tra l’incubo e la libertà, sono iniziati a circolare i nomi, le foto e le storie dei primi rilasciati. Le informazioni condivise bastano a dare il profondo senso di tragedia che non finirà nemmeno per chi è stato rilasciato ieri. C’è Ruti Mundar, 78 anni, residente nel Kibbutz Nir Oz — parrucchiera e sarta in pensione — è stata rapita insieme al marito Abraham, alla figlia Karen e all’unico nipote, Ohad. Il marito è ancora in ostaggio, suo figlio Roi Mundar, 50, è stato massacrato. C’è Doron Katz Asher, 34 — contabile — era a Nir Oz per le vacanze, per far visita alla madre. È stata rapita insieme alle sue due bambine Raz e Aviv: libere. La madre di Doron, Efrat Katz, 69, è stata massacrata. Il compagno di Efrat, Gadi Moses, 79, è ancora ostaggio. Il fratello di Doron, Ravid Katz, 51, padre di tre figli, è ancora ostaggio.
Poi c’è Daniel Aloni, 45, e sua figlia Emilia, 5, erano nel kibbutz per fare visita alla famiglia, sono state rapite con la zia Sharon Aloni-Cunio, suo marito e i suoi due gemelli Emma e Yuli, di tre anni.
Questi brevi racconti di vita che fotografano chi sono i «fortunati» del 24 novembre, sono anche un susseguirsi di parole opposte — liberati-massacrati —, sono scorci di esistenze distrutte, di donne che tornano a casa ma non ne troveranno una. Di scoperte terribili: quel 7 ottobre non solo hanno perso la libertà, ma un marito, una sorella, un vicino, un figlio.
Più di un quarto dei membri della comunità di Nir Oz sono stati rapiti o uccisi. Si tratta di circa un terzo di tutti gli ostaggi di Hamas. I video e le foto del kibbutz distrutto sono le prove della brutalità e della distruzione dei miliziani. «Accogliamo con felicità il ritorno di 12 delle 77 persone rapite», scrivono da Nir Oz. «Molte famiglie del kibbutz sono ancora senza i loro cari e rimaniamo profondamente preoccupati per il loro benessere. Aspettiamo con ansia e desideriamo il ritorno di tutti gli ostaggi».
Merav Rott, una psicoterapeuta di Tel Aviv, ci racconta il Paese ferito: «Tra i miei pazienti ci sono i parenti degli ostaggi. Le notizie della liberazione fanno fare un respiro di sollievo, ma è molto complicato gestire lo stress di chi ancora non sa nulla. Non ho mai visto la mia gente così a pezzi, ma siamo un popolo resiliente e lo abbiamo già dovuto dimostrare, purtroppo».
Tutti gli ostaggi liberati sono stati portati negli ospedali. «Stanno abbastanza bene», dicono i medici. «Non scrivete, non chiamate le famiglie, hanno bisogno di tempo per metabolizzare e per stare con i loro cari», si raccomandano i portavoce. Intanto, Hamas pubblica un video-propaganda in cui mostrano il rilascio degli ostaggi lla Croce Rossa. Se ci siamo chiesti quale fosse l’espressione di chi stava per tornare libero, in questo video abbiamo le risposte. Vediamo gli occhi timorosi delle donne anziane mentre camminano a fatica verso l’ambulanza, la mano tesa del bambino stretto nell’abbraccio di un miliziano.Intanto, i terroristi giocano la parte del buon samaritano. Solo le storie dei sopravvissuti a raccontarci che cosa è successo a Gaza.
Massimo Lomonaco per l’ANSA domenica 26 novembre 2023.
Si è sbloccata in serata grazie alla mediazione di Qatar ed Egitto l'impasse che ha rischiato di far saltare dopo meno di 24 ore la tregua tra Israele ed Egitto. Tredici ostaggi israeliani sono stati liberati e consegnati alla Croce Rossa insieme a quattro cittadini thailandesi dopo ore di incertezza e di angoscia per i parenti in attesa.
Subito dopo il passaggio del valico di Rafah e l'entrata in Egitto dove sono stati presi in consegna dalle forze speciali dell'Esercito e dalle forze di sicurezza israeliani che li hanno trasferiti in territorio israeliano. Lì sono stati sottoposti a un primo controllo medico. Continueranno ad essere accompagnati dai soldati dell'Idf mentre si dirigono verso gli ospedali israeliani, dove si riuniranno alle loro famiglie. In contemporanea è iniziata la liberazione dei 39 detenuti palestinesi dal carcere di Ofer.
I 13 ostaggi israeliani sono tutti del kibbutz Beeri, uno dei più colpiti lo scorso 7 ottobre. Sono Emily Hand (9), Hila Rotem (13), Maya Regev (21), Noam e Alma Or, fratello e sorella (17 e 13), Shiri e Noga Weiss, madre e figlia (53 e 18), Sharon e Noam Avigdori, madre e figlia (52 e 12 ), Shoshan Haran (67), Adi, Yahel e Neveh Shoham (38, 3 e 8). A ritardare il rilascio era stata Hamas che l'aveva motivato con il fatto che "Israele non ha attuato gli elementi dell'intesa".
Una accusa rigettata in toto da Israele che aveva minacciato "la ripresa dei combattimenti dalle 24 di stasera se gli ostaggi non saranno liberati". Lo stop all'accordo è arrivato dalle Brigate al Qassam, l'ala militare di Hamas, che ha messo nel mirino il mancato rispetto "dell'accordo sull'ingresso di camion umanitari nel nord della Striscia di Gaza e il mancato rispetto degli standard concordati per il rilascio dei prigionieri".
La contestazione di Hamas, secondo quanto si è appreso, si riferiva ai nomi e all'ordine temporale con il quale Israele ha scadenzato la liberazione dei detenuti palestinesi. Fonti politiche israeliane, citate dai media, hanno risposto che "non c'è stata alcuna violazione degli accordi. Così come Hamas decide in ogni fase chi rilasciare dalla sua lista degli ostaggi, altrettanto decidiamo noi quali detenuti di sicurezza palestinesi devono essere liberati in cambio".
Secondo fonti della sicurezza sono stati trasferiti "nel nord della Striscia di Gaza ben 61 camion di aiuti umanitari sui 200 passati oggi, tra cui cisterne di carburante e gas". Hamas ha ribattuto che "340 camion sono entrati a Gaza da venerdì scorso, 65 dei quali hanno raggiunto il nord della Striscia. Un numero che è meno della metà di quanto Israele ha concordato".
Per la Mezzaluna Rossa Palestinese oggi sono stati consegnati "con successo aiuti umanitari alla città di Gaza e al governatorato settentrionale di Gaza nel più grande convoglio" dall'inizio della guerra nella Striscia. I canali di comunicazione indiretta tra le parti si sono subito mossi per risolvere lo stallo. Il Qatar - suoi funzionari sono arrivati in aereo in Israele - ha mosso le sue pedine cercando di arrivare ad una mediazione "il più presto possibile".
E anche l'Egitto ha fatto sapere di aver compiuto "intensi sforzi" per portare a compimento la seconda tranche dello scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi. Anche il presidente Usa Joe Biden ha fatto la sua parte, parlando con il Qatar, per sbloccare lo stallo. All'inizio della giornata, prima che tutto si bloccasse, lo scenario e i segnali erano apparsi anche migliori del previsto.
Fonti egiziane hanno rivelato che erano in corso ulteriori trattative per allungare di uno o più giorni la tregua in atto fino a lunedì. E da entrambe le parti avevano ricevuto "indicazioni positive". Lo sforzo è quello di favorire uno scambio di ostaggi e detenuti il più largo possibile fino ad arrivare, come detto fin dal primo momento,- a 100 ostaggi liberati (su 230 tenuti a Gaza) per 300 detenuti palestinesi, mentre l'attuale intesa ne prevede 50 per 150.
Il ministro della difesa Yoav Gallant, oggi entrato a Gaza nella parte sotto il controllo israeliano, ha ammonito che i militari resteranno nella Striscia finché tutti gli ostaggi non saranno restituiti ed eventuali futuri negoziati con Hamas verranno condotti durante i combattimenti. Se a Gaza tacciono le armi, in Cisgiordania, considerata il 'fronte interno della guerra', gli scontri con l'esercito israeliano proseguono. A sud di Jenin sono stati uccisi due palestinesi, secondo quanto ha riportato l'agenzia Wafa.
La crudeltà (anche) nei rilasci: Hamas divide le famiglie degli ostaggi. Storia di Fiammetta Martegani, Tel Aviv su Avvenire lunedì 27 novembre 2023
il 28 novembre 2023
Giorno dopo giorno, 13 per volta, sono tornati a casa i primi dei 239 ostaggi presi da Hamas durante il massacro del 7 ottobre. Dopo 50 giorni di incubo, molti sopravvissuti finalmente si sono potuti riunire ai loro cari, riabbracciandoli. Eppure è un abbraccio “a metà”, perché le famiglie non sono e non saranno più quelle di prima.
Abigail Mor Idan, 4 anni, è stata finalmente liberata. Ma al suo ritorno, ad aspettarla, c’erano la zia e la cugina: sua madre è stata uccisa davanti ai suoi occhi, mentre suo padre è stato colpito a morte mentre cercava di proteggerla. Abigail, che ha passato il suo quarto compleanno in prigionia, è corsa via, si è rifugiata nella casa di un vicino, da dove è stata rapita.
Quasi tutte le famiglie degli ostaggi hanno perso qualcuno durante la mattanza, alcune nel modo più feroce. Un dolore raddoppiato da quello di avere un parente disperso. Triplicato dall’avere un congiunto a Gaza. Moltiplicato nel modo più crudele fino all’ultima tortura inflitta scientemente da Hamas, che ha separato i membri delle famiglie tenute in ostaggio il giorno prima del rilascio di uno o due di loro. «Hamas sta giocando con il cuore delle persone», ha detto Yair Rotem, sopravvissuto al massacro, che sabato ha potuto riabbracciare la nipotina Hila Rotem Shoshani, di 13 anni separata dalla madre Raya, sorella di Yair e non ancora liberata, due giorni prima di essere rilasciata. «Siamo molto felici di avere mia nipote, ma abbiamo sentimenti contrastanti. Siamo felici di riaverla qui, ma non abbiamo ancora riabbracciato mia sorella – ha spiegato Yair, che nei giorni scorsi era arrivato a Roma insieme a una delegazione di parenti di ostaggi israeliani per incontrare il Papa –. Pensiamo che tutti sappiano che sia una violazione rude dell’intesa. Credo che i media dovrebbero denunciare tale violazione da parte di Hamas, che ha fatto una cosa molto cinica e disumana».
Tutte le famiglie “spezzate” macinano paura e angoscia. Con un passato interrotto. E un futuro incerto. Senza nemmeno un “dove” per ricominciare visto che ci vorranno mesi, forse anni, prima che i sopravvissuti possano tornare a casa, nei kibbutz che sono stati messi a ferro e fuoco dal gruppo terroristico. Per ora soggiornano negli hotel tra il Mar Morto ed Eilat: centri di accoglienza provvisori che sono stati organizzati a sud e nord di Israele per i superstiti, e per gli sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case a causa dei costanti attacchi missilistici provenienti dalla Striscia. Eilat, da meta privilegiata del turismo in questi giorni è una città fantasma, abitata da 65.000 rifugiati. Oltre a numerosi volontari, tra cui 50 professionisti inviati dal Centro di Salute Mentale Shalvata, per fornire pronto soccorso psicologico, con lo scopo di alleviare la tempesta emotiva di queste famiglie spezzate. Come spiega David Roe, psicologo clinico e presidente del Dipartimento di Salute mentale comunitaria dell’Università di Haifa: «Intorno a queste famiglie distrutte ci sono bambini di tutte le età, senza scuola, le cui giornate diventano insostenibili, anche se i volontari dell’esercito fanno l’impossibile per organizzare per loro qualche ora di attività. Sono tutti traumatizzati ma, al tempo stesso, hanno un grande bisogno di senso di comunità». Chissà quanto tempo servirà, dopo essersi ritrovati, per ritrovare una vita.
Guerra in Medio Oriente. Chi sono gli ostaggi israeliani liberati da Hamas, l’incognita della tregua e i bambini tornati a casa. Liberati 17 ostaggi, tra cui tre thailandesi. Per la maggior parte sono donne e bambini. Lo scambio con 39 detenuti palestinesi. Pronta una seconda lista di nomi fornita da Hamas. L'accordo prevede la liberazione di 10 ostaggi per ogni giorno di tregua. L'accordo mediato dal triangolo Egitto-Qatar-Usa. Netanyahu: "Dopo il cessate il fuoco temporaneo riprenderà il conflitto: distruggeremo Hamas e porteremo a casa gli ostaggi". Redazione Web su L’Unità il 27 Novembre 2023
Il terzo giorno di sospensione delle ostilità fra Israele e Hamas, dopo le tensioni di sabato che avevano fatto temere la ripresa del conflitto, si è concluso senza intoppi: 14 israeliani e 3 thailandesi sono stati rilasciati e in cambio sono usciti dal carcere 39 detenuti palestinesi. E adesso si profila anche un’estensione del cessate il fuoco, che sarebbe dovuto scadere domani. Beyamin Netanyahu, parlando con Joe Biden, ha detto che “c’è un piano di intesa che prevede la liberazione di 10 ostaggi per ogni giorno ulteriore di tregua“. La giornata è iniziata con i migliori auspici, perché Hamas ha consegnato a Israele la nuova lista di ostaggi da rilasciare. Nelle ore successive 14 israeliani e 3 cittadini thailandesi sono stati consegnati alla Croce Rossa, per poi essere trasferiti in territorio israeliano. Tra i nomi spicca quello di Avigail Idan, bimba israelo-americana di 4 anni rimasta orfana dopo l’attacco del 7 ottobre.
Chi sono gli ostaggi israeliani liberati da Hamas
Gli altri sono Elma Avraham (84), Aviva Adrian Siegal (62), Hagar Brodetz (40), Ofri Brodetz (10), Yuval Brodetz (8), Uriah Brodetz (4), Hen Goldstein-Almog (48), Agam Goldstein-Almog (17), Gal Goldstein-Almog (11), Tal Goldstein-Almog (8), Dafna Elyakim (15), Ela Elyakim (8). E c’è anche un 25enne con doppia nazionalità russa, Ron Kriboy: un “omaggio” a Vladimir Putin per la posizione russa nella questione palestinese, ha tenuto a sottolineare Hamas, decisa a puntellare la sua rete di protezione. Stanno tutti bene tranne la donna più anziana, Elma, che è stata ricoverata in ospedale ma non rischia la vita. Stavolta Hamas non ha separato i nuclei familiari come era accaduto il giorno prima, ed anche questo è stato un segnale di non voler creare ostacoli. Quanto a Israele, ha rispettato la sua parte dell’accordo liberando 39 palestinesi, tutti minorenni. Nel frattempo 237 camion di aiuti e 7 cisterne di carburante sono entrati a Gaza dall’Egitto. Il numero più alto finora.
Ostaggi israeliani liberati da Hamas
Tre giorni senza combattimenti e raid hanno dato un pò di sollievo agli oltre 2 milioni di abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali sono stati costretti a lasciare le proprie case. Per questo motivo gli sforzi per un prolungamento della tregua sono più vivi che mai. Egitto e Qatar hanno continuato a parlare con Hamas e secondo una fonte vicina al movimento palestinese ci sarebbe la disponibilità ad un’ulteriore pausa da “due a quattro” giorni per “garantire il rilascio dai 20 ai 40 prigionieri israeliani“. Il pressing su Israele è portato avanti soprattutto dagli Stati Uniti. Biden ha sottolineato che “l’accordo” tra le parti “sta funzionando” ed ha spiegato che il suo obiettivo è “estendere la pausa dei combattimenti oltre domani“. Poi ha telefonato a Netanyahu e i due leader, ha riferito la Casa Bianca, “hanno convenuto che continueranno a lavorare per garantire il rilascio di tutti gli ostaggi“. Mentre il premier israeliano ha fatto sapere che si stanno facendo passi avanti, con “un piano di intesa che prevede la liberazione di 10 ostaggi per ogni giorno ulteriore di tregua“. Netanyahu, in ogni caso, ha chiarito che i piani generali di Israele per Gaza non cambiano.
Quanti sono gli ostaggi israeliani liberati da Hamas
Dopo il cessate il fuoco, ha spiegato a Biden, “riprenderemo con tutta la forza per conseguire gli obiettivi della guerra”. Concetto ribadito anche in precedenza, durante una visita alle truppe dislocate nel nord della Striscia: “Noi andremo fino in fondo”. Che vuol dire non soltanto la liberazione di tutti gli ostaggi, ma anche “la distruzione di Hamas” e ottenere “la garanzia che Gaza non possa più rappresentare una minaccia per Israele”. Una minaccia ancora forte, secondo l’esercito. Perché alti funzionari militari ritengono che i miliziani della Striscia stiano sfruttando questa tregua per rinnovare le proprie forze e migliorare i piani per la prossima fase della guerra. La tensione d’altra parte resta alta anche in Cisgiordania: 6 palestinesi sono stati uccisi tra la notte e l’alba, secondo il ministero della Sanità palestinese.
La piccola Hila separata dalla madre
Hila corre verso lo zio che l’avvolge in un abbraccio infinito in attesa di ritrovare la sua mamma e la piccola Abigail troverà anche lei gli zii e il nonno, ma non potrà più rifugiarsi nel calore rassicurante delle braccia che l’hanno accolta da quando è venuta alla luce. Sono riemerse dal buio dei tunnel di Hamas da sole le bimbe ostaggio che i miliziani avevano promesso di non separare dai genitori. La mamma di Hila, Raya Rotem, non è stata rilasciata, i genitori di Abigail invece non ci sono più, uccisi nell’attacco del 7 ottobre nel kibbutz di Kfar Aza. E se l’incubo del rapimento e della prigionia è finito, è ancora lunga la via verso una normalità che forse non sarà mai più veramente tale. Non si sa cosa sia accaduto alla mamma di Hila, 13 anni, liberata sabato notte. La versione di Hamas è che non è stata rilasciata perché non si trovava. Forse in mano ad altre fazioni come la Jihad, forse perduta nel dedalo del sottosuolo e nella confusione . Ma è stata proprio Hila a smentire i terroristi: “La mamma è stata sempre con me per tutta la prigionia. Hamas ci ha divise due giorni prima della liberazione“.
Abigail, i genitori uccisi e l’abbraccio con il nonno e gli zii
Abigail Mor Edan, che ha compiuto 4 anni venerdì, a casa non voleva mai stare da sola, ha raccontato uno zio dopo il rapimento. Le foto sui social ci restituiscono una cascata di riccioli e un faccino sorridente, prima della fine del mondo, prima che vedesse uccidere i suoi genitori. La bimba ha doppia nazionalità, statunitense e israeliana, ed è la prima dei 3 ostaggi americani ad essere liberata. Per lei era ripetutamente intervenuto anche il presidente Joe Biden che oggi ha confermato la sua liberazione. Un nuovo inizio per la piccola orfana che ha ancora un fratellino, Michael di 9 anni, e una sorellina, Amalia di 6, che il 7 ottobre si sono salvati per miracolo chiusi in un armadio. Il nonno Carmel la aspetta, cercando di nascondere una “tristezza cronica che non guarirà mai“. I miliziani con il volto coperto dai passamontagna hanno restituito alla Croce Rossa, nel pomeriggio di domenica, nove bambini, due madri, due anziane, un cittadino russo-israeliano e tre thailandesi. Famiglie intere, o quel che ne resta, scampati per caso al massacro.
L’omaggio a Vladimir Putin
Una sfilata dolente ma anche un ritorno alla vita, dopo 51 giorni di prigionia, seguita dai media minuto per minuto, dal passaggio ai valichi di Rafah e Kelem Shalom, alla consegna di alcuni nella mani della sicurezza egiziana e infine al trasferimento di tutti in Israele. Tra i rilasciati di oggi ci sono i quattro membri della famiglia Goldstein-Almog: la madre Chen, 48 anni, la figlia Agam, 17 anni, e i figli Gal e Tal, di 11 e 9 anni. Nadav, padre e marito di 48 anni, e la figlia maggiore Yam, 19 anni, non ci sono più, uccisi il 7 ottobre. Hagar Brodetz, 40 anni, e i figli Ofri, Yuval e Oriya di 10, 8 e 4 anni, potranno invece riabbracciare il padre e marito, Avihai Brodutch. Quel giorno, Avihai era uscito a difendere il kibbutz mentre la sua famiglia si nascondeva. Ma quando è tornato a casa, ferito, non c’erano più. Ad attendere Adrienne ‘Aviva’ Siegel, 62 anni, rapita dal kibbutz Kfar Aza ci saranno i quattro figli e i nipoti. Ma sarà una gioia a metà: il marito Keith, 64 anni, resta nelle mani dei miliziani. E c’è apprensione per Elma Avraham, 84 anni, presa in ostaggio dal kibbutz Nahal Oz, rilasciata “in gravi condizioni” e trasportata in elicottero in un ospedale del Negev.
Gli abbracci, la festa
Ella Elyakim, 8 anni, e sua sorella Dafna, 14 , sono state rapite dalla casa del padre nel kibbutz Nahal Oz, dove si trovavano in vacanza: hanno assistito all’omicidio del padre Noam, della sua compagna Dikla e di suo figlio Tomer. Ma hanno ancora la mamma, Maayan Zin. Libero anche Roni Kariboi, un russo-israeliano che lavorava al festival Nova. Un rilascio extra, ha annunciato Hamas, in “omaggio agli sforzi del presidente Vladimir Putin“. Un applauso liberatorio, le urla di gioia, le lacrime. Centinaia di persone hanno accolto così la notizia della liberazione degli ostaggi israeliani nel terzo giorno di tregua, in una sala eventi a Shefayim, nel centro di Israele. La maggior parte sono sfollati dal Kibbutz Kfar Aza, da dove provengono molti dei 14 rilasciati oggi dopo 51 giorni di prigionia di Hamas. Per loro, l’annuncio di oggi resta però una gioia a metà, al pensiero che altri di quella comunità restano nelle mani dei miliziani palestinesi a Gaza.
I sopravvissuti
Shachar Tzuk-Bazak, 32 anni, è scampata al massacro del 7 ottobre perché era in vacanza, ma ha perso due membri della sua famiglia. “Sono felicissima, ma con ogni persona rilasciata ce n’è un’altra in prigionia“, ha detto citata dal Times of Israel, sottolineando che 19 persone sono state rapite a Kfar Aza. “Metà di loro verrà rilasciata oggi, e l’altra metà è ancora al freddo, al buio“, ha poi affermato, per poi attaccare il governo israeliano. “Sento che coloro che vengono liberati oggi sono stati, in molti sensi, lasciati in attesa di un aiuto che non è arrivato” da parte dei leader israeliani, ha dichiarato. “Il peso dei leader mondiali ha contribuito a negoziare questo accordo. Il mio governo non era sufficiente, il mio esercito non era sufficiente a proteggermi“. Redazione Web 27 Novembre 2023
Israele, liberati altri dodici ostaggi ma non c’è il piccolo Kfir. Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2023.
Si tratta per stabilizzare l’accordo ed arrivare ad una tregua ad oltranza. Resta prigioniero il bimbo di 10 mesi che è stato passato da Hamas ad un altro gruppo
Parenti della famiglia di Kfire dimostranti liberano alcuni palloncini arancioni per il rilascio del piccolo, rapito insieme ai genitori e al fratellino Ariel, fuori dal museo di Tel Aviv,
I palloncini che colorano la piazza sono arancio come il ciuffo pel di carota del piccolo Kfir Bibas. Ha 9 mesi nel video ripreso dai terroristi, la madre lo tiene stretto assieme al fratellino Ariel, 5 anni, mentre gli uomini in mimetica la spintonano verso i furgoni, i capelli rossi di tutti e tre sono l’ultima immagine ravvicinata di chi si sta già allontanando dalla vita normale. Che non si ferma nel tempo sospeso della prigionia, Kfir ha compiuto 10 mesi da prigioniero, la famiglia è stata passata da Hamas a un altro gruppo, non è chiaro se possa recuperarla per lo scambio: così il bimbo più giovane non è ancora stato rimandato a casa.
«Sono vostri nemici? L’Islam insegna a rapire gli infanti? Ogni momento che passa sono sempre più in pericolo», si appellano i parenti dal microfono in piazza dei Dispersi, com’è stato rinominato il quadrato di pietre bianche davanti al museo di Tel Aviv. Qui si ritrovano a migliaia ogni sera, il rituale della gioia e della sorpresa — i volti dei liberati che appaiono sfuocati dietro i finestrini dei fuoristrada della Croce Rossa Internazionale — guastato dal numero di ostaggi rimasti nella Striscia, 180: è il rilascio lento imposto da Yahya Sinwar , il capo dei capi, che ha bisogno di allungare la tregua, non c’è tregua però per chi aspetta e non può smettere di sperare. A 53 giorni dai massacri del 7 ottobre, 1.200 israeliani ammazzati nel Sud del Paese, i medici ancora stanno identificando i cadaveri e i dispersi possono diventare persi per sempre, come Ravid Katz, la famiglia ha saputo ieri che era morto in quell’alba di orrore.
I passaggi
La quinta corsa a tappe verso la libertà — tra consegne, passaggi d’auto e passaggi segreti — ha riportato in Israele, oltre a due thailandesi che lavoravano nei campi attorno a Gaza, Clara Marman con la sorella Gabriela Lemberg e sua figlia Mia, 17 anni, in braccio il suo cagnolino; Ditza Heiman, Tamar Metzger, Noralin Babadila Agojo, Ada Sagi, Meirav Tal, Rimon Kirsht, Ofelia Roitman. Tra i 30 palestinesi che escono dal carcere, anche Ahed Tamimi, considerata un simbolo nei villaggi della Cisgiordania. Il boss fondamentalista cerca di sfruttare lo smottamento emotivo nell’opinione pubblica israeliana: la maggioranza adesso sostiene che l’obiettivo principale della guerra è il ritorno dei sequestrati.
William Burns, capo della Cia, David Barnea, direttore del Mossad, e Abbas Kamel, la superspia egiziana, starebbero discutendo in Qatar un’intesa globale: tutti i sequestrati compresi i soldati per migliaia di detenuti palestinesi. A sfavore di Sinwar gioca l’apparente fermezza del consiglio di guerra ristretto che lascia spazio solo a 5 giorni in più di cessate il fuoco, dopo lunedì prossimo i combattimenti riprenderanno e si espanderanno nelle aree a sud dei 363 chilometri quadrati, ieri alcuni militari sono stati feriti da esplosivi piazzati dai paramilitari tra accuse reciproche di violazione del cessate il fuoco. I palestinesi ammazzati sono 16 mila, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità potrebbe morirne di più per le malattie.
Le torture
A sfavore di Sinwar giocano anche le testimonianze di quanti sono emersi dal buio delle segrete, racconti che stanno riaccendendo la rabbia dei primi giorni dopo gli assalti. Eitan Yahalomi, 12 anni, sarebbe stato costretto a guardare con altri ragazzini — racconta la zia al telegiornale — i video della mattanza e a quelli che piangevano veniva puntata contro la canna del fucile mitragliatore. Alle ragazze ripetevano che nessuno le voleva indietro e che se avessero parlato della detenzione sarebbero andati a ucciderle. Il premier Benjamin Netanyahu guida la campagna militare ma non abbandona le mosse da campagna elettorale. Ha permesso a Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, di far approvare un budget di emergenza per il conflitto che distribuisce anche milioni alle scuole religiose ultraortodosse e alle colonie. Per Bibi la priorità sembra accontentare gli alleati nella coalizione di estrema destra, rispondere alle esigenze dei coloni oltranzisti e messianici che Smotrich rappresenta.
Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio” martedì 28 novembre 2023.
Un ragazzino sistema le sedie gialle, con due occhi attaccati sullo schienale, legate l’una all’altra, strette in solidarietà e prigionia. Le raddrizza, spazza via qualche foglia volata giù dagli alberi in uno dei primi giorni di fresco, che doveva pur arrivare in questa città che condivide memoria e movida, le mette l’una accanto all’altra in una segreta alchimia che non si trasforma in antitesi.
Dopo aver raddrizzato ogni fila e ripulito ogni sedia, il ragazzino si sposta verso il lungo tavolo apparecchiato per sedie vuote, e fa lo stesso minuzioso lavoro: ruota i piatti, stira con le mani i tovaglioli, allinea i bicchieri avvolti da un nastro giallo. Rimane molto tempo a ordinare l’assenza in questa piazza di Tel Aviv che dal 7 ottobre tutti conoscono come Piazza degli ostaggi.
Non sono soltanto i familiari di chi è stato rapito da Hamas a venire qui, sono tutti: passare per Piazza degli ostaggi vuol dire dimostrare che gli israeliani sono uniti e, nel giorno in cui anche Elon Musk è in visita in Israele e si negozia la liberazione di altri civili nelle mani dei terroristi in cambio di altri due giorni di tregua, sono convinti che questa sia l’unica scelta giusta da prendere.
Ogni passo in questa piazza è un ricordo, ogni sospiro è un’attesa, tra le foto con i volti dei rapiti si inizia a scorgere qualcuno che è tornato a casa e si spera che magari il volto accanto sarà il prossimo.
[…] L’annuncio di un’estensione della tregua è stato dato prima dal Qatar e dall’Egitto, poi da Hamas, poi dalla Casa Bianca, infine da Israele che per il ritorno di altri venti ostaggi, oltre ad altri due giorni di pausa umanitaria, dovrà rilasciare altri palestinesi condannati per terrorismo.
“Ho sentito usare spesso la parola ‘scambio’, ma non è giusto”, dice al Foglio l’avvocato Ilan Borreda, ex capo della divisione intelligence nel servizio carcerario israeliano. “Hamas ha rapito dei civili, li ha portati via, presi dal letto, picchiati. I palestinesi che si trovano nelle carceri israeliane invece sono stati condannati per terrorismo, dopo un processo”.
Ieri da Gaza sono stati liberati nove bambini e due madri. “Cosa hanno in comune un bambino e un terrorista? – si domanda Borreda […]”. L’avvocato è contrario perché nella storia israeliana, come in ogni storia, tutto si ripete e il 7 ottobre senza il rilascio di oltre mille terroristi palestinesi nel 2011 forse non sarebbe esistito: l’accordo per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit portò alla scarcerazione di quelli che sono diventati capi di Hamas, anche del regista dell’attacco contro i kibbutz, Yahya Sinwar, “era un leader pure in carcere, oggi non si può non ripensare a quelle scarcerazioni”.
E’ un’angoscia di cui nessun israeliano si libera, e al momento non c’è una soluzione, nessuno sa dire come evitare che i terroristi rilasciati oggi diventino i Sinwar di domani. L’esercito e il governo non pensano che la pausa dai combattimenti possa annullare quello che è stato fatto per indebolire Hamas a Gaza: il problema, adesso, è fuori dalla Striscia.
Il rilascio dei prigionieri palestinesi aumenta la forza di Hamas in Cisgiordania; chi esce festeggia tra le bandiere verdi dell’organizzazione di terroristi, sa che deve la sua scarcerazione ai miliziani della Striscia. Sono loro ad averli scelti.
[…] Ogni sera, Piazza degli ostaggi attende. Sobbalza per un attimo, composta, soltanto quando la notizia del rilascio dei cittadini israeliani è ufficiale. Ogni giorno qualcosa sembra andare storto, poi viene raddrizzato. Ogni giorno si teme per le condizioni di salute di chi viene liberato. Sessantanove persone sono tornate finora a riempire le sedie rimaste vuote, ma attorno al tavolo nessuno ha ancora la forza di mettersi a sedere.
Estratto dell'articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” martedì 28 novembre 2023.
Sino a che punto lo Stato può permettersi di mettere a rischio la propria sicurezza pur di liberare i singoli cittadini nelle mani del nemico? Se guardiamo alla Storia scopriamo che i parametri sono profondamente cambiati nel tempo.
Con gli anni è cresciuto in Israele una sorta di patto sociale non scritto […] tra Stato e popolazione, per cui le famiglie affidano le vite dei loro figli (ragazzi e ragazze) all’esercito, consapevoli però che il governo in carica farà di tutto per riportarli a casa.
[…] È sufficiente però ricordare le polemiche divampate nel 2011, quando l’allora esecutivo di Benjamin Netanyahu accettò di liberare 1.027 palestinesi considerati pericolosi (tra loro 78 accusati di orribili attentati terroristici) in cambio del sergente Gilad Shalit catturato da Hamas a Gaza […].
[…] Negli anni seguenti alla nascita dello Stato nel 1948, gli scambi di prigionieri erano proporzionati. Tanto che ci furono dibattiti accesi quando nel 1955 si acconsentì a liberare 45 soldati siriani in cambio di quattro israeliani più il corpo del loro comandante. Il salto fu nel 1983: allora si lasciarono andare 4.700 arabi in cambio di 6 israeliani nelle mani dell’Olp in Libano.
Ma lo scambio più controverso […] è quello del 1985 noto come «l’affare Jibril». Tre soldati per 1.150 guerriglieri palestinesi e con loro anche Kozo Okamoto, il terrorista giapponese convertito all’Islam, che nel 1972 aveva partecipato all’uccisione di 26 persone nell’aeroporto di Tel Aviv.
Da allora la guerriglia palestinese capì che se fosse riuscita a catturare ostaggi israeliani avrebbe potuto ottenere molto, compresa la propria incolumità. Si scoprì poi che tanti tra i 1.150 erano diventati attivisti della prima intifada esplosa nel dicembre 1987 e quindi militanti di Hamas. Alcuni di loro pare siano stati tra i kamikaze che si facevano esplodere sui bus e nei locali pubblici israeliani negli anni Novanta.
Estratto dell’articolo di Assia Neumann Dayan per “La Stampa” martedì 28 novembre 2023.
[…] In queste tre settimane le piazze del mondo si sono riempite di manifestazioni per la Palestina e per Gaza, cosa più che legittima, ma purtroppo le piazze erano anche piene di smemorati che si sono dimenticati di spendere due parole per i duecento civili tenuti in ostaggio da un gruppo terrorista.
In queste tre settimane attori di Hollywood, influencer, intellettuali, attivisti per i diritti civili, fumettisti, fotomodelle, ecoattivisti, hanno fatto sapere al mondo che loro sono dalla parte giusta della Storia, giusta anche se un po' smemorata. La parte giusta della Storia non nomina mai la tragedia degli ostaggi, né la strage dei 1.400 civili israeliani, e allora mi chiedo come questa possa essere la parte giusta, perché se lo fosse io non ci vorrei stare. Non nominare mai gli ostaggi, né i morti, vuol dire che quegli ostaggi e quei morti non esistono.
Non nominare mai gli ostaggi, né i morti, è un danno incalcolabile per la causa palestinese, per gli israeliani, per i vivi e per i morti. Esattamente come non riuscire a dire che quello che sta facendo il governo Netanyahu ai civili di Gaza, con la popolazione ridotta alla fame e alla sete, sotto le bombe, con migliaia di morti, è una tragedia che va condannata e fermata.
Per Israele, la condizione necessaria perché tutto questo finisca è quella del rilascio degli ostaggi. Hamas ha detto che li avrebbe rilasciati in cambio della liberazione di tutti i detenuti palestinesi. E quindi: quanto vale la vita di un ostaggio? Vale di più o vale di meno della vita di un uomo libero? La vita di un terrorista quanto vale?
Le famiglie degli ostaggi stanno manifestando per chiedere a Netanyahu di riportare a casa i propri cari a qualunque costo, e nessuno nei loro panni si sognerebbe di fare diversamente.
Hamas non trattiene solo israeliani, gli ostaggi sono di diverse nazionalità, tra cui otto russi. Musa Abu Marzouk, responsabile delle relazioni con l'estero di Hamas, ha dichiarato di aver ricevuto una lista di cittadini con doppia cittadinanza e che loro sono «molto attenti a questa lista» e che la gestiranno «con attenzione perché guardiamo alla Russia come al nostro più caro amico».
Sappiamo quindi che la vita di un ostaggio russo, per Hamas, vale più di quella di un bambino israeliano. Per Hamas la vita conta meno della morte e del martirio, per Hamas la vita dei civili palestinesi e degli israeliani non vale niente, ma quella degli ostaggi qualcosa vale, perché è merce preziosa, anche se pur sempre merce.
Hamas finora ha rilasciato due ostaggi con passaporto americano, e ha rilasciato due donne israeliane. Si è parlato molto del fatto che Yocheved Lifshitz, una delle due donne liberate, abbia stretto la mano al suo carnefice e che gli abbia rivolto uno "Shalom" (che vuol dire "pace", ma è usato piuttosto comunemente come saluto). L'unica cosa che ho pensato è che se dei terroristi avessero ancora con loro mio marito, non solo gli avrei stretto la mano, ma avrei detto che dormire in un tunnel era meglio di un soggiorno in un hotel di lusso.
[…] Il gesto più infernale a cui abbia assistito in queste settimane è stato vedere le persone che strappavano e buttavano nell'immondizia i manifesti con le fotografie degli ostaggi. Foto di donne, bambini, vecchi, neonati, giovani, strappati e buttati per cancellarne l'esistenza e la nostra memoria. Su un manifesto hanno disegnato i baffetti da Hitler a due bambine. Altrove, hanno sostituito la scritta "kidnapped" con la scritta "occupier", come se un bambino di quattro anni potesse occupare qualcosa.
È questo il colpo in testa che il mondo ha preso, la cancellazione della memoria, in quello che sembrava essere il secolo dell'empatia e dei diritti per tutti. Sono anche convinta che il Giorno della Memoria saranno tutti a chiedersi come sia stato possibile avere avuto il nazismo, tra un "mai più" e l'altro, tutti a guardare commossi la scritta "indifferenza" al Binario 21, per poi dimenticarsene dopo cinque minuti, giusto il tempo di scrivere un pensiero sullo stare dalla parte giusta della Storia.
Gaza, quarto giorno di tregua: liberati altri 11 ostaggi israeliani da Hamas. Chi sono. Sky tg24 il 27 novembre 2023
Undici persone tornano in Israele, a fronte di 33 detenuti palestinesi rilasciati (3 donne e 30 minori). Intanto – ancora una volta con la mediazione di Qatar, Egitto e Usa – Israele e Hamas hanno raggiunto un nuovo accordo per altri due giorni di tregua, che dovrebbe consentire il rilascio di altri 20 ostaggi israeliani (10 per ogni giorno aggiuntivo di cessate il fuoco) in cambio di 60 detenuti palestinesi
Con la situazione sul campo in costante evoluzione, abbiamo deciso di raccogliere qui alcune informazioni che permettano di farsi un'idea del contesto più ampio attraverso mappe, schede e approfondimenti.
Quarto giorno di scambio tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi tra Israele e Hamas. I miliziani hanno fatto sapere che oggi, 27 novembre, dalle carceri israeliane sono uscite 33 persone: tre donne, due di Jenin e una di Gerusalemme, e 30 minori. Finita poi la cattività per 11 ostaggi israeliani a 52 giorni dal 7 ottobre, quando furono catturati da Hamas, tutti rapiti nello stesso kibbutz, Nir Oz. Si tratta di persone con doppia cittadinanza: 3 francesi, 2 tedesche e 6 argentine. Secondo l’emittente egiziana Al Qahera, tra le persone liberate ci sarebbero anche 6 thailandesi. Intanto – sempre con la mediazione di Qatar, Egitto e Usa – Israele e Hamas hanno raggiunto un nuovo accordo per altri due giorni di tregua, che dovrebbe consentire il rilascio di altri 20 ostaggi israeliani (10 per ogni giorno aggiuntivo di cessate il fuoco) in cambio di 60 detenuti palestinesi, nel solito rapporto di 1 a 3. È possibile, scrive Haretz, che al prossimo giro potrebbero essere riconsegnati a Israele anche ostaggi uomini: finora sono stati liberati solo donne e bambini. Una trattativa separata, ha spiegato Izzat Arshak (dell'ufficio politico della fazione), potrebbe portare al rilascio anche di diversi soldati israeliani. Nel frattempo, sono emersi alcuni dettagli sul gruppo di persone liberate oggi .
Sharon Aloni Konio e le figlie gemelle: 34 e 3 anni
Torna in Israele Sharon Aloni Konio, 34 anni, e le sue due gemelle di tre anni, Ema e Yuly. Al momento dell'assalto di Hamas, la famiglia – compreso il padre, che resta ostaggio - si era rifugiata in una stanza blindata che è presente in quasi tutte le abitazioni israeliane. I terroristi avevano però appiccato il fuoco alla casa costringendoli ad uscire per fuggire dalle fiamme.
Karina Engel-Bert e le figlie: 51, 18 e 11 anni
Libera anche Karina Engel-Bert, 51 anni. Paula Parishta, sua sorella, aveva raccontato ai media che stava da poco migliorando la sua battaglia contro il cancro quando fu poi sequestrata. Rilasciate anche le due figlie di Engel-Bert, Mika (18 anni) e Yuval (11). Rimane nelle mani di Hamas il compagno, Ronen Engel, 55 anni.
Sahar ed Erez Calderon, 16 e 13 anni
Tra i rapiti da Hamas c’erano anche Sahar ed Erez Calderon (16 e 13 anni), che tornano ora dalla madre Hadas Calderon Menir Oz, una delle leader della lotta delle famiglie per la liberazione dei sequestrati. "Sahar ed Erez sono sulla lista! Stanno arrivando!", ha urlato la donna quando ha ricevuto la notizia del rilascio, mentre si trovava nel centro commerciale Azrieli: il momento è stato catturato in un video da News 13 e ha poi fatto il giro dei social. Lei, al momento del rapimento, si trovava in una casa vicina. Poi aveva riconosciuto il figlio Erez Calderon, che ha compiuto 13 anni nei tunnel di Hamas, in un video ripreso dalle body cam degli assalitori e postato anche questo sui social. L'ex marito di Hadas, Ofer Calderon, è rimasto a Gaza.
Yagil e Or Yaakov, 13 e 16 anni
Altri due fratelli di 13 e 16 anni, Yagil e Or Yaakov, lasciano la prigionia.
Eitan Yahalomi, 12 anni
Portato via da Nir Oz su un motorino, la cattività finisce anche per Eitan Yahalomi, 12 anni. La madre, cittadina francese, era riuscita a fuggire con le sue due sorelle. Il padre era stato colpito e ferito mentre cercava di difendere la famiglia nella loro casa: ora è nell'elenco dei dispersi.
Gli ostaggi liberati oggi: dieci donne, di età compresa tra i 17 e gli 84 anni. Redazione il 28 Novembre 2023 su rainews.it
Hamas ha liberato oggi dieci donne che aveva rapito il 7 ottobre insieme ad altre decine di israeliani.
La più giovane si chiama Mia Leimberg, di 17 anni, studentessa di seconda media, lavora in una libreria ed è stata liberata insieme a sua madre, Gabriela, di 59 anni, che è immigrata dall'Argentina negli anni '90 e vive a Gerusalemme, dove gestisce un centro diurno per persone con autismo. Lei e la sua famiglia hanno un cane Shih Tzu di nome Bella, che è stato rapito e liberato insieme a loro, ha riferito il forum delle famiglie degli ostaggi. La più anziana è invece Ditza Heiman, di 84 anni. E' stata una delle fondatrici del Kibbutz Nir Oz: ha prestato servizio nel gruppo Nahal. Da quando suo marito è morto, vive da sola e ha adottato un gatto.
C'è poi Rimon Kirsht, 36 anni, impegnata nel volontariato presso Maslan, il centro di supporto per vittime di aggressioni sessuali e violenza domestica del Negev. Rimon è sposata con Yagev, rapito con lei il 7 ottobre e tuttora tenuto prigioniero da Hamas.
Clara Tritone, di 63 anni, ha due figlie e tre nipoti. Ha lavorato come maestra d'asilo. È in pensione ma continua a lavorare con gli anziani e con le famiglie a rischio. È stata rapita insieme al suo compagno, Luis, e suo fratello, Fernando, che sono ancora a Gaza. Oggi sono state rilasciate anche la sorella Gabriela e la nipote Mia.
E ancora, Ofelia Roitman, di 77 anni, del kibbutz Nir Oz, ha tre figli e nove nipoti. E' immigrata in Israele dall'Argentina nel 1985. È stata educatrice per vent'anni e per cinque anni è stata preside delle scuole ebraiche in Argentina.
Tamar Metzger, è una nonna di 78 anni, che ha mobilità limitata e trascorre molto tempo sul balcone della sua piccola casa. È stata rapita insieme al marito Yoram, che è tuttora prigioniero di Hamas.
Noralin "Nataly" Babadilla, ha 60 anni, e il 7 ottobre ha perso il suo compagno, Gideon, assassinato dai terroristi di Hamas.
Ada Sagi, di 75 anni, compiuti in prigionia, vive da quando è nata nel kibbutz Nir Oz, ha tre figli e sei nipoti. Insegna ebraico e arabo.
Infine, Meirav Tal, che ha 53 anni e risiede a Rishon LeZion. Il 7 ottobre era in visita a Yair, il suo partner, nel Kibbutz Nir Oz, ed è stata rapita insieme a lui e ai due figli di Yair, Yagil e Or, di 12 e 16 anni, rilasciati ieri. Yair rimane inverce prigioniero di Hamas.
"Bimbi picchiati e senza cibo. Torturati coi video delle stragi". Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 29 novembre 2023.
Picchiato dai civili appena arrivato a Gaza, dove è cominciata la sua prigionia di un mese e mezzo, di cui 16 giorni lasciato in completo isolamento. Poi minacciato con i fucili dai terroristi di Hamas ogni volta che piangeva. Infine costretto dai suoi aguzzini a vedere i video del massacro del 7 ottobre. Il racconto degli orrori degli ostaggi israeliani liberati si è arricchito di nuove testimonianze choc da parte dei più piccoli, i bambini. A partire dal piccolo Eitan Yahalomi, 12 anni, che ieri ha vissuto il suo primo giorno di libertà all'ospedale Ichilov di Tel Aviv, dove ha riabbracciato la mamma e le sorelle, in attesa del ritorno del padre, ancora a Gaza nelle mani dei terroristi.
La piccola Emily Hand, 9 anni, da quando è tornata in Israele, sussurra a voce bassissima, come l'hanno costretta i miliziani di Hamas per non fare rumore durante la prigionia. È smagrita, pallida e il padre racconta che pensa di essere rimasta ostaggio «per un anno», tanto lungo le è sembrato un mese e mezzo e mezzo, tempo in cui parole della bimba è stata tenuta «in una scatola», un luogo evidentemente angusto, di «tortura» come le gabbie dentro le quali, secondo il Forum delle famiglie, sono state imprigionate alcune delle israeliane rapite. Sua mamma Raaya è ancora prigioniera a Gaza. Ma il momento più difficile lo hanno vissuto Noam, 17 anni, e la sorella Alma Or, 13, a cui la nonna ha dovuto spiegare che la mamma è stata uccisa durante il pogrom di Hamas.
Sono racconti di orrori che si aggiungono agli orrori del 7 ottobre quelli che stanno emergendo dalle testimonianze dei più piccoli, in gran parte rientrati in Israele. Mancano ancora all'appello Ariel, 4 anni, e il fratello Kfir Bibas, il più piccolo degli ostaggi, 10 mesi, catturato da Hamas insieme alla madre, mentre il padre veniva sequestrato ma separato dalla famiglia. La zia è preoccupata: «Spero non li tengano come trofeo».
La tregua proseguirà fino all'alba di domani, prolungata di due giorni oltre ai 4 inizialmente frutto dell'accordo. Altri 12 ostaggi, 10 israeliani e due thailandesi sono tornati in Israele ieri, quinto giorno di combattimenti sospesi. Tra loro nove donne, dai 36 agli 84 anni, e la diciassettenne Mia Leimberg, tutte tornate a casa in cambio di 30 detenuti palestinesi (15 donne e 15 minori). La ragazza è stata liberata insieme alla madre Gabriela e al cane Bella. Al suo fianco c'erano un miliziano di Hamas e uno della Jihad islamica, per la prima volta presente all'operazione con le Brigate Al-Quds, suo braccio armato, e alle Brigate al-Qassam, l'ala militare di Hamas. Sono almeno 5, secondo la Bbc, i gruppi che si sono uniti a Hamas il 7 ottobre.
La conta degli ostaggi liberati ha raggiunto quota 85 mentre circa 150 restano in mano a Hamas e ad altri gruppi islamisti. Sono almeno 5, secondo la Bbc, i gruppi armati palestinesi che si sono uniti a Hamas il 7 ottobre. Israele sostiene che non prolungherà la tregua oltre domenica. E nulla è scontato ancora in queste ore. L'esercito ha accusato Hamas di aver violato la tregua facendo esplodere tre ordigni che hanno ferito in modo lieve tre soldati in due località nel nord della Striscia. In un caso, i terroristi «hanno aperto il fuoco contro le truppe, che hanno risposto», tanto che il ministro per la Sicurezza Ben-Gvir ha chiesto al premier Netanyahu di riprendere la guerra. Le Brigate Al Qassam rispondono di aver subìto per prime l'attacco. E dopo la visita in Israele di Elon Musk, proprietario di X, Hamas invita il miliardario a Gaza per vedere «la distruzione dei raid». Oltre ai 2mila camion entrati nella Striscia, ieri è atterrato in Egitto il primo di tre aerei di aiuti dagli Usa.
L’agonia degli ostaggi: “Mia sorella e le mie nipoti nelle mani di Hamas”. Redazione su L'Identità il 22 Novembre 2023 di ROBERTA ANATI
In seguito all’attacco terroristico del 7 ottobre ogni cittadino israeliano ha perso un pezzo del proprio cuore. Non c’è anima nel Paese che non sia colpita dalle atrocità commesse da Hamas. Quasi tutti sono collegati a uno o più degli oltre 1500 assassinati in quel giorno buio. Per alcuni non solo è persa una parte di cuore ma anche una parte di vita, un pezzo di famiglia. Come sta capitando alla famiglia di Leeor Katz-Natanzon del kibbutz Nir Oz. Leeor ci ha raccontato la storia del giorno in cui ha perso la madre, la sorella e due nipoti.
La sorella di Leeor, Doron Katz-Asher (34) e le nipoti Raz Katz-Asher (4), Aviv Katz-Asher (2) erano arrivate al kibbutz qualche giorno prima del 7 ottobre per celebrare Sukkot – una delle principali festività ebraiche- insieme alla famiglia di Leeor, la madre Efrat Katz (69) e il suo compagno Gadi Mozes (79). Solo il destino ha salvato Leeor, che con la famiglia era andata dai parenti del marito nel centro di Israele, mentre la sorella Doron con le figlie, che sarebbero dovute partire il venerdì precedente (il 6 ottobre), avevano deciso di fermarsi un altro giorno per trascorrere più tempo con i nonni.
Sabato 7 ottobre Leeor è stata svegliata dalle notifiche della app della bacheca del kibbutz, che avvisavano che terroristi si erano infiltrati nel kibbutz. Angosciata, Leeor ha inviato un messaggio e chiamato la madre e la sorella affinché chiudessero la casa e si rifugiassero nel bunker. Sono rimaste in costante comunicazione, fino a che Leeor apprende che i terroristi sono entrati in casa, mentre la madre, la sorella e le nipoti, sono nel bunker. A quel punto, a Leeor non restava altro che sperare e pregare per la sicurezza della sua famiglia.
Con il passare del tempo e in assenza di altri messaggi, Leeor ha cercato per ore, disperatamente, di chiamare la madre e la sorella; senza risposta. Solo nel pomeriggio, il marito di Doron, Yoni Asher, ha riferito a Leeor di aver rintracciato il telefono di Doron a Khan Younis, la città di Gaza più vicina al kibbutz. In seguito hanno trovato sui social un video che dimostra inequivocabilmente che la donna e le due bambine di 2 e 4 anni sono ostaggi a Gaza.
Pochi giorni dopo Leeor riceve la conferma che la madre è stata uccisa durante il tragitto verso Gaza, mentre la sorella e le nipoti sono tenute in ostaggio da Hamas. Da allora non ci sono più state informazioni. Doron, Raz e Aviv sono ancora prigionieri, senza alcuna indicazione circa il loro stato di salute. Una storia straziante oltre che angosciante, ma lo sono ancora di più l’accoglienza affettuosa e il sorriso di Leeor, con il suo sguardo così colmo di infinito dolore; un dolore che, ci confida, non potrà mai passare.
Una famiglia distrutta: non torneranno mai più nella loro casa ormai distrutta, non gli è rimasto niente, gli amici sono morti, quelli dei bambini trucidati. Senza più vestiti, né lavoro; più nulla se non la solidarietà del popolo israeliano che li ha accolti in un abbraccio continuo, empatico, sincero. Con l’idea di iniziare a pensare di ricostruirsi una vita hanno addirittura aperto una loro piccola fondazione per ricevere aiuti.
Ma come ricostruire una vita se non si conosce la sorte di una sorella e delle figlie? Come affrontare ogni giorno un nuovo giorno, come spiegare alla sua bambina che cammina con lei nella marcia verso Gerusalemme per chiedere la liberazione degli ostaggi, che forse non le rivedrà più? E il non detto? Quello che vedo nelle sue lacrime… Cosa avranno subito sua sorella e le bambine?
Nello sgomento e nel dolore il marito di Leeor mi dice: “il mondo deve capire che eliminando Hamas, il terrorismo, non solo libereremo i nostri figli ma tutti i bambini palestinesi”. Il suo era un kibbutz pacifista, un kibbutz impegnato ad aiutare gli abitanti di Gaza. Oggi non esiste più.
È stato commesso un crimine contro l’umanità e contro la Convenzione di Ginevra. Ricordiamolo.
Al termine della nostra conversazione i nostri sguardi si sono incontrati con ancora più intensità e l’abbraccio che ne è seguito ha un valore fortemente simbolico. Le nostre anime si sono unite, così come il nostro dolore. In un’unica speranza e preghiera: che tutti gli ostaggi vengano liberati.
Sale la rabbia contro Hamas: «Loro spariti, noi moriamo». Storia di Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.
Ieri siamo riusciti a riprendere contatto con Fadi Abu Shammala, direttore dei centri culturali di Gaza, una vecchia conoscenza con cui avevamo già parlato un paio di settimane fa. Con la moglie e i tre figli subito dopo l’inizio della guerra avevano lasciato il loro appartamento nei quartieri settentrionali di Gaza City per trasferirsi in quello paterno a Khan Younis, nel centro della Striscia. Ieri lui era a Rafah e stava cercando di raggiungere l’Egitto, il suo cellulare si era rimesso a funzionare.
Senza cibo
Così ci ha raccontato dell’ospedale Nasser di Khan Younis, dove lavora suo fratello. «Tutti gli ospedali sono in allarme nero. Al Nasser si sono rifugiati oltre 20.000 sfollati, oltre ai pazienti che sono a rischio epidemie e infezioni, crescono le malattie della pelle per la mancanza di igiene. C’è ancora elettricità, non è al collasso totale come lo Shifa di Gaza centro. Ma da almeno 10 giorni manca il cibo. Non si trovano neppure le scatolette, dipendiamo dalla poca verdura che i contadini riescono a raccogliere. Ma il problema maggiore resta il sovraffollamento. A Khan Younis e nei campi profughi attorno vivevano circa 450.000 persone, adesso se ne sono aggiunte oltre 900.000. Troppe, nessuno sa come fare. Chi può sta da amici e parenti, ma la grande maggioranza semplicemente si accampa per la strada. Si scavano toilette improvvisate, semplici buchi nella terra. Ma nessuno lava, c’è immondizia ovunque, l’olezzo è insopportabile, ci sono insetti neri enormi che non avevo mai visto. I medici continuano a parlare del rischio colera, che adesso diventa più alto con le prime piogge».
Fadi parla a lungo dell’economia della sopravvivenza. I costi sono triplicati, c’è il mercato nero dell’acqua. In un primo tempo sembrava che la gente potesse andare a lavarsi nel mare. Ma lui nega decisamente: «Gli israeliani fanno raid continui sulle spiagge, sono deserte, ed è un peccato perché potrebbero offrire qualche forma di rifugio temporaneo». Uno dei punti più pericolosi è il passaggio di Netzarim, lungo la piccola depressione di Wadi Azza, che divide in due la Striscia e dove gli israeliani spingono le masse che scappano verso sud. «I soldati sono a un centinaio di metri dal posto dove hanno piazzato le loro telecamere, vogliono filtrare gli sfollati per tenere la guerriglia isolata nella parte settentrionale. Ogni tanto gridano col megafono a qualcuno di fermarsi e andare con le mani in alto dalle loro pattuglie. Come fosse una selezione di massa: quasi tutti i fermati non tornano più. Abbiamo già migliaia di desaparecidos», spiega.
Il prezzo dell’acqua
La carenza d’acqua resta gravissima. Manca l’energia per fare bollire quella sporca e cresce il mercato nero persino di quella non filtrata. Oggi si pagano 60 shekels (14,50 euro, ndr) per 1.000 litri, prima se ne pagavano 40 per 5.000. I poveri di ieri sono i ricchi di oggi e viceversa. «Chi aveva una Mercedes nuova non se ne fa nulla, non c’è benzina. I contadini con un asino e un carretto invece fanno affari d’oro, sono diventati i nuovi taxi popolari, richiestissimi», dice. Quanto alla questione delicata del grado di popolarità di Hamas, lui ripete con più forza ciò che solo pochi giorni fa pareva un fenomeno circoscritto: «Con il crescere delle vittime e il protrarsi delle sofferenze, la gente inizia a protestare. Pochi giorni fa ho visto un infermiere dell’ospedale Shifah accusare apertamente Hamas di non avere tenuto conto delle conseguenze del suo blitz il 7 ottobre. Ho visto che due con la barba poi l’hanno seguito, non so cosa sia successo. Ho visto un anziano in Salahaddin street gridare: “Dite a Ismail Haniyeh che sta nel suo esilio dorato nel Qatar e altri capi di Hamas che io sono Abu Hamza del campo profughi di Shati e li accuso di essere collaborazionisti degli israeliani!”. Solo pochi giorni fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Però questi malumori in genere restano segreti».
Uccisa la soldata Noa, una delle «osservatrici» che avevano intuito l’attacco del 7 ottobre. Storia di Davide Frattini su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.
Noa prestava servizio nella base di Nahal Oz, il punto di osservazione abitato da un’unità tutta femminile, nessuna regola nei manuali militari lo impone, ma alla fine è andata così: sono solo ragazze a passare 12 ore davanti agli schermi per individuare qualsiasi movimento anomalo dei paramilitari fondamentalisti vicino alla barriera che separa la Striscia da Israele. I test attitudinali per entrare nella unità 414 richiedono punteggi molto alti, che permetterebbero di essere arruolate in squadre di intelligence prestigiose come la 8200, di accedere alle forze combattenti.
Ma i comandanti hanno bisogno di queste osservatrici capaci di memorizzare ogni dettaglio, ogni piccolo cambiamento nella routine degli spostamenti dall’altra parte. Ne hanno bisogno e non le hanno ascoltate: per mesi dal bunker a pochi metri da Gaza sono stati inviati avvertimenti su strani pattugliamenti degli jihadisti, di prove — è possibile capirlo ora — per individuare i punti dove squarciare la recinzione e invadere il sud del Paese. Le ragazze avevano intuito, sono state travolte dall’assalto, solo poche di loro erano armate, un’immagine mostra una giovane con il fucile mitragliatore, le altre che le stanno attorno in pigiama, senza niente per difendersi.
Quando hanno visto quello che stava succedendo, hanno attivato i sistemi automatici di difesa — guidati a distanza —, la tecnologia non ha fermato l’invasione di quasi 3 mila palestinesi. La madre racconta di essere stata chiamata durante l’attacco, Noa le raccontava che c’era stata un’infiltrazione. «Mezz’ora dopo le ho mandato un messaggio, nessuna risposta». Marciano era stata individuata in uno dei video ripresi dai terroristi il 7 ottobre, portata via legata assieme ad altri due sequestrati.
Della sua squadra fa parte Ori Megidish che è stata liberata in un’operazione delle forze speciali. Adesso la 414 è tornata a operare a Re’im, non lontano dal campo nel deserto dove 260 giovani sono stati massacrati mentre partecipavano a un rave. Alcune soldate hanno chiesto di essere riassegnate, anche prima della strage era considerata una delle unità con il più alto livello di stress e traumi psicologici.
Cambia il numero degli ostaggi in mano ad Hamas: ecco perché continuano ad aumentare. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale giovedì 2 novembre 2023.
Il numero degli ostaggi nelle mani di Hamas e Jihad islamica cresce giorno dopo giorno. All'indomani del blitz del gruppo filo palestinese in Israele, avvenuto lo scorso 7 ottobre, le notizie parlavano di 100-150 persone catturate e portate nella Striscia di Gaza. Con il passare dei giorni, la forbice si è allargata sempre di più. L'ultimo dato, comunicato dal portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, coincide con 242 ostaggi. Per quale motivo assistiamo alla continua crescita di questo valore?
Perché aumentano gli ostaggi
Se diamo un'occhiata ai comunicati diramati da Tel Aviv nel corso dell'ultima settimana, notiamo come il numero degli ostaggi catturati da Hamas aumenti di giorno in giorno. A differenza di quanto si possa pensare, i combattenti di Gaza non hanno effettuato nuovi raid sul territorio israeliano, né hanno rapito altre persone rispetto a quelle già sotto il loro controllo. Il “mistero” degli ostaggi, se così possiamo chiamarlo, dipende da svariati fattori, tra i quali le difficoltà incontrate da Israele nel riconoscere i cittadini stranieri e il rebus dei dispersi.
Come spiegano le agenzie, il lavoro per stabilire chi manca all'appello complesso, visto che alcuni ostaggi sono stati portati nella Striscia mentre altri sono stati brutalmente uccisi. A complicare ulteriormente i conti, troviamo le incomplete informazioni sugli stranieri che lavoravano nei kibbutz e che sono stati rapiti. Nella maggior parte dei casi, le loro famiglie vivono all'estero e recuperare le informazioni sul Dna è un'operazione non facile. Così come non è per il momento praticabile far arrivare a Tel Aviv i parenti per il riconoscimento dei corpi.
I funzionari della Difesa devono inoltre valutare la situazione dei dispersi. Al momento, il destino di 40 persone ufficialmente conteggiate da Israele come tali è avvolto nella nebbia. A peggiorare la situazione c'è un altro fatto: visto che al momento non è stato possibile determinare se le persone scomparse siano state rapite o uccise, le autorità sono inclini a pensare che molti dei dispersi siano stati assassinati.
Analisi e ricerche in corso
Nel frattempo, in queste giornate delicatissime, gli analisti continuano a studiare ogni elemento a loro disposizione. Brulica di lavoro il Centro nazionale di medicina forense di Tel Aviv, che con i dati del Dna è in grado di attribuire un nome ai corpi ed escludere quindi che si tratti di ostaggi. Un'altra prova da utilizzare è rappresentata dai video, quelli postati dai terroristi, oltre alle riprese dalle telecamere dove i miliziani hanno colpito. L'esame delle immagini condotte con i più sofisticati mezzi tecnologici aiuta infatti a riconoscere le persone. Anche se, va da sé, nessuno è in grado di affermare con certezza se uomini, donne e bambini immortalati siano arrivati vivi a Gaza.
I cellulari dei dispersi sono un altro indicatore: tutti hanno inviato messaggi in quelle ore di terrore, il software dei telefoni fornisce indicazioni sia nel caso in cui siano stati ritrovati dove è avvenuto l'attacco, sia che le cellule siano state attive almeno per qualche tempo nella Striscia.
Il presidente israeliano Isaac Herzog ha incontrato gli ambasciatori di Thailandia, Filippine, Tanzania e Nepal, tutti Paesi che hanno cittadini presi in ostaggio o uccisi. "Siamo qui per la tragedia che ha colpito il popolo di Israele e molte persone delle vostre nazioni", ha detto Herzog. "Sappiamo che molti dei vostri connazionali sono stati assassinati, uccisi, torturati, feriti e, purtroppo, presi in ostaggio", ha aggiunto. Il tempo stringe e la pressione aumenta.
Estratto dell'articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” lunedì 30 ottobre 2023.
Sino a che punto lo Stato può permettersi di mettere a rischio la propria sicurezza pur di liberare i singoli cittadini nelle mani del nemico? Se guardiamo alla Storia scopriamo che i parametri sono profondamente cambiati nel tempo.
Con gli anni è cresciuto in Israele una sorta di patto sociale non scritto […] tra Stato e popolazione, per cui le famiglie affidano le vite dei loro figli (ragazzi e ragazze) all’esercito, consapevoli però che il governo in carica farà di tutto per riportarli a casa.
[…] È sufficiente però ricordare le polemiche divampate nel 2011, quando l’allora esecutivo di Benjamin Netanyahu accettò di liberare 1.027 palestinesi considerati pericolosi (tra loro 78 accusati di orribili attentati terroristici) in cambio del sergente Gilad Shalit catturato da Hamas a Gaza […].
[…] Negli anni seguenti alla nascita dello Stato nel 1948, gli scambi di prigionieri erano proporzionati. Tanto che ci furono dibattiti accesi quando nel 1955 si acconsentì a liberare 45 soldati siriani in cambio di quattro israeliani più il corpo del loro comandante. Il salto fu nel 1983: allora si lasciarono andare 4.700 arabi in cambio di 6 israeliani nelle mani dell’Olp in Libano.
Ma lo scambio più controverso […] è quello del 1985 noto come «l’affare Jibril». Tre soldati per 1.150 guerriglieri palestinesi e con loro anche Kozo Okamoto, il terrorista giapponese convertito all’Islam, che nel 1972 aveva partecipato all’uccisione di 26 persone nell’aeroporto di Tel Aviv.
Da allora la guerriglia palestinese capì che se fosse riuscita a catturare ostaggi israeliani avrebbe potuto ottenere molto, compresa la propria incolumità. Si scoprì poi che tanti tra i 1.150 erano diventati attivisti della prima intifada esplosa nel dicembre 1987 e quindi militanti di Hamas. Alcuni di loro pare siano stati tra i kamikaze che si facevano esplodere sui bus e nei locali pubblici israeliani negli anni Novanta.
Estratto dell’articolo di Assia Neumann Dayan per “La Stampa” lunedì 30 ottobre 2023.
[…] In queste tre settimane le piazze del mondo si sono riempite di manifestazioni per la Palestina e per Gaza, cosa più che legittima, ma purtroppo le piazze erano anche piene di smemorati che si sono dimenticati di spendere due parole per i duecento civili tenuti in ostaggio da un gruppo terrorista.
In queste tre settimane attori di Hollywood, influencer, intellettuali, attivisti per i diritti civili, fumettisti, fotomodelle, ecoattivisti, hanno fatto sapere al mondo che loro sono dalla parte giusta della Storia, giusta anche se un po' smemorata. La parte giusta della Storia non nomina mai la tragedia degli ostaggi, né la strage dei 1.400 civili israeliani, e allora mi chiedo come questa possa essere la parte giusta, perché se lo fosse io non ci vorrei stare. Non nominare mai gli ostaggi, né i morti, vuol dire che quegli ostaggi e quei morti non esistono.
Non nominare mai gli ostaggi, né i morti, è un danno incalcolabile per la causa palestinese, per gli israeliani, per i vivi e per i morti. Esattamente come non riuscire a dire che quello che sta facendo il governo Netanyahu ai civili di Gaza, con la popolazione ridotta alla fame e alla sete, sotto le bombe, con migliaia di morti, è una tragedia che va condannata e fermata.
Per Israele, la condizione necessaria perché tutto questo finisca è quella del rilascio degli ostaggi. Hamas ha detto che li avrebbe rilasciati in cambio della liberazione di tutti i detenuti palestinesi. E quindi: quanto vale la vita di un ostaggio? Vale di più o vale di meno della vita di un uomo libero? La vita di un terrorista quanto vale?
Le famiglie degli ostaggi stanno manifestando per chiedere a Netanyahu di riportare a casa i propri cari a qualunque costo, e nessuno nei loro panni si sognerebbe di fare diversamente.
Hamas non trattiene solo israeliani, gli ostaggi sono di diverse nazionalità, tra cui otto russi. Musa Abu Marzouk, responsabile delle relazioni con l'estero di Hamas, ha dichiarato di aver ricevuto una lista di cittadini con doppia cittadinanza e che loro sono «molto attenti a questa lista» e che la gestiranno «con attenzione perché guardiamo alla Russia come al nostro più caro amico».
Sappiamo quindi che la vita di un ostaggio russo, per Hamas, vale più di quella di un bambino israeliano. Per Hamas la vita conta meno della morte e del martirio, per Hamas la vita dei civili palestinesi e degli israeliani non vale niente, ma quella degli ostaggi qualcosa vale, perché è merce preziosa, anche se pur sempre merce.
Hamas finora ha rilasciato due ostaggi con passaporto americano, e ha rilasciato due donne israeliane. Si è parlato molto del fatto che Yocheved Lifshitz, una delle due donne liberate, abbia stretto la mano al suo carnefice e che gli abbia rivolto uno "Shalom" (che vuol dire "pace", ma è usato piuttosto comunemente come saluto). L'unica cosa che ho pensato è che se dei terroristi avessero ancora con loro mio marito, non solo gli avrei stretto la mano, ma avrei detto che dormire in un tunnel era meglio di un soggiorno in un hotel di lusso.
[…] Il gesto più infernale a cui abbia assistito in queste settimane è stato vedere le persone che strappavano e buttavano nell'immondizia i manifesti con le fotografie degli ostaggi. Foto di donne, bambini, vecchi, neonati, giovani, strappati e buttati per cancellarne l'esistenza e la nostra memoria. Su un manifesto hanno disegnato i baffetti da Hitler a due bambine. Altrove, hanno sostituito la scritta "kidnapped" con la scritta "occupier", come se un bambino di quattro anni potesse occupare qualcosa.
È questo il colpo in testa che il mondo ha preso, la cancellazione della memoria, in quello che sembrava essere il secolo dell'empatia e dei diritti per tutti. Sono anche convinta che il Giorno della Memoria saranno tutti a chiedersi come sia stato possibile avere avuto il nazismo, tra un "mai più" e l'altro, tutti a guardare commossi la scritta "indifferenza" al Binario 21, per poi dimenticarsene dopo cinque minuti, giusto il tempo di scrivere un pensiero sullo stare dalla parte giusta della Storia.
Detenuti palestinesi in Israele, merce di scambio in carcere senza accuse e in condizioni terribili. Redazione su L'Unità il 30 Ottobre 2023
La proposta di Hamas di scambiare i palestinesi detenuti nelle carceri di Israele con gli ostaggi israeliani, circa 230, in mano al gruppo radicale terroristico che governa la Striscia di Gaza è stata liquidata dal portavoce delle Forze di Difesa israeliane Daniel Hagari come “terrorismo psicologico”. Eppure la situazione dei detenuti palestinesi in mano al governo di Tel Aviv è a dir poco preoccupante, un tema che ha solo sfiorato l’opinione pubblica mondiale, ben più concentrata ad osservare e discutere dell’operazione militare israeliana, la controffensiva dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso.
Quanti sono i palestinesi detenuti in Israele
Secondo una stima Onu dello scorso luglio, i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane erano 5.200, di cui 150 minori e 333 donne, oltre a 1.100 persone in cella senza una vera e propria accusa. Un numero che secondo la Commissione per i prigionieri palestinesi dell’Anp è salito a oltre 10 mila dopo il 7 ottobre, quando Israele ha compiuto raid e arresti di massa in Cisgiordania e Gerusalemme Est, occupata illegalmente dallo Stato ebraico.
La commissione palestinese denuncia che in questi numeri vi sono persone “arrestate nelle loro case, nei posti di blocco militari”, oltre a “coloro che sono stati costretti a consegnarsi con la minaccia di arresto per i propri familiari”.
I “combattenti illegali”
Tutto possibile grazie ad una speciale legislazione israeliana che dal 2002 consente la detenzione amministrativa per un periodo rinnovabile per sei mesi in assenza di processo per i “combattenti illegali”. Una definizione dalle maglie larghissime e che consente di fatto arresti di massa indiscriminati: viene considerato un “combattente illegale” chi “ha partecipato direttamente o indirettamente ad atti ostili contro lo Stato di Israele, o è membro di una forza che compie atti ostili contro lo Stato di Israele”, accusa rivolta alle migliaia di palestinesi arrestati dal 7 ottobre ad oggi.
Le condizioni di detenzione
Per i palestinesi le condizioni di detenzione nelle carceri israeliane, la maggior parte di loro sono reclusi nelle base militare di Sde Teyman, nel deserto del Negev, nella prigione di Ofer vicino Ramallah e nel campo militare di Anatot, vicino Gerusalemme Est, sono durissime. Per i prigionieri è difficile incontrare avvocati e familiari, nelle celle per molte ore al giorno non c’è elettricità e spesso ai palestinesi vengono ridotti i pasti, come denunciato dalla Commissione per i prigionieri palestinesi dell’Anp. La Ong Save the Children ha rivelato che i minori subirebbero abusi fisici e psicologici all’interno delle carceri, interrogati senza la presenza di un genitore e sfruttati come informatori.
Una ulteriore stretta è arrivata lo scorso 17 ottobre quando, come riferito dal quotidiano israeliano Haaretz, il Parlamento dello Stato ebraico ha approvato un disegno di legge che riduce temporaneamente lo spazio minimo assegnato a ciascun prigioniero, precedentemente fissato in 3,5 metri quadrati. In questo modo si è consentito ad alcune carceri israeliane di aumentare la propria capacità massima, messa a dura prova dalla raffica di arresti tra la popolazione palestinesi: secondo l’Anp con questa mossa in una singola cella possono essere rinchiuse oltre dieci persone. Ai prigionieri verrà assegnato un materasso sul pavimento solo se non saranno disponibili letti e solo per “brevi periodi”.
Anche un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso giugno denunciava le detenzioni arbitrarie di Israele, sottolineando che “i palestinesi sono spesso considerati colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, detenuti senza accusa né processo e brutalizzati nelle carceri israeliane”. Redazione - 30 Ottobre 2023
Da tg.la7.it lunedì 30 ottobre 2023.
Hamas ha diffuso poco fa un video di tre donne prese in ostaggio a Gaza. Nel video gli ostaggi criticano il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e chiedono la liberazione: "Tu ci uccidi, tu vuoi ucciderci tutti, non ci hai abbastanza massacrato? Non sono morti abbastanza cittadini israeliani? Liberaci adesso, libera i loro cittadini, libera i loro detenuti" ha detto una delle tre donne in ostaggio rivolgendosi al premier israeliano. "Liberaci tutti, facci tornare dalle nostre famiglie adesso, adesso!", ha poi urlato la donna. Il filmato è stato diffuso dagli account di Hamas sui social media.
(ANSA lunedì 30 ottobre 2023) - Le reti televisive nazionali israeliane si astengono per ora dal rilanciare il video prodotto da Hamas che mostra un appello accorato a Netanyahu di tre donne tenute in ostaggio a Gaza. ''Si tratta di guerra psicologica di Hamas e dunque non è opportuno rilanciarla'', ha osservato un giornalista delle televisione pubblica Kan. Le emittenti, finora, mostrano solo una inquadratura delle tre donne, accompagnata da un testo informativo di spiegazione.Sono proprio lì, i miei sogni, nella vista dalla mia casa, nella Valley, sulle increspature e i lampi che rimbalzano sull’oceano quando il sole lo colpisce… proprio così. Quando qualcuno fa qualcosa di bello per un altro, io vedo Dio. Ma non puoi dare quello che non hai. Così, provo a essere ogni giorno migliore. Quando quei momenti arrivano e c’è bisogno di me, ho risolto le mie questioni finalmente, e faccio quello per cui tutti siamo qui, che è semplicemente aiutare gli altri.
Medio Oriente, donne ostaggio di Hamas pubblicano video-appello a Netanyahu. Il Tempo il 30 ottobre 2023
La guerra in corso tra Israele e Hamas ha anche le facce e i volti spaventati dagli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi islamici. Sul sito del "Jerusalem Post", tre donne ostaggio di Hamas si rivolgono direttamente al premier israeliano Netanyahu e gli chiedono di poter essere liberate subito. «Fateci ritornare dalle nostre famiglie adesso». Lo dice una delle tre donne ostaggio di Hamas in un video pubblicato dallo stesso gruppo palestinese e pubblicato dal Jerusalem Post.
«Ciao Bibi Netanyahu», ha esordito una delle donne, rivolgendosi al premier israeliano, «siamo prigionieri di Hamas da 23 giorni. C’è stata una conferenza stampa con le famiglie degli ostaggi, sappiamo che doveva esserci un cessate il fuoco. Avreste dovuto liberarci tutti». La donna ha poi proseguito: «Siamo cittadini innocenti, cittadini che pagano le tasse allo Stato di Israele». La donna ha poi chiesto: «Lasciamo andare i loro cittadini, lasciamo andare i loro prigionieri. Liberateci. Liberateci tutti. Ritorniamo alle nostre famiglie adesso».
La battaglia degli ostaggi. Il video di tre donne rapite: "Netanyahu liberaci e rilascia i detenuti di Hamas". Israele salva una soldatessa a Gaza. Morta la tedesca sequestrata al rave: è stata decapitata. Roberto Fabbri il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Una soldatessa israeliana liberata dalla prigionia a Gaza e trasferita in buona salute a casa sua in Israele; tre donne ostaggio di Hamas che in un video girato dai loro carcerieri si rivolgono al premier Benyamin Netanyahu affinché faccia di tutto per liberare loro e le altre circa 235 persone tuttora prigioniere a Gaza, incluso il rilascio di migliaia di uomini di Hamas dalle carceri israeliane; i familiari degli ostaggi che manifestano a Tel Aviv contro Netanyahu e fanno pressione su di lui perché consideri la loro liberazione priorità assoluta. E tutto questo mentre si apprende della morte atroce della ventiduenne tedesco-israeliana Shani Louk, sgozzata e decapitata dai suoi rapitori, e mentre si è saputo che inviati del Mossad si sono recati nel Qatar (Paese del Golfo che ospita in un esilio dorato i vertici di Hamas) «dopo il 7 ottobre» per cercare di favorire il rilascio degli ostaggi.
La questione degli ostaggi, com'era prevedibile fin dal primo giorno di questo drammatico confronto, conferma la sua centralità, accresciuta dal fatto che molti dei prigionieri di Hamas nell'inferno della Striscia hanno anche nazionalità americana, di vari Paesi europei e perfino russa. Il tema è come Israele intenda affrontare il problema della loro liberazione. Si confrontano due linee inconciliabili: quella dei familiari degli ostaggi (fatta propria dall'opposizione di sinistra a Netanyahu) che spingono per qualche forma di compromesso, e quella del premier israeliano che punta su un implacabile uso della forza contro Hamas. La quale ha ben poche speranze di sopravvivere a uno scontro militare definitivo con Israele e cerca dunque di comprare tempo in ogni modo: gli ostaggi (non solo quelli israeliani, ma altrettanto i civili palestinesi di Gaza, donne, bambini e anziani, che sono stati «invitati» a morire per la causa dal capo di Hamas) sono lo strumento ideale.
Ieri sera Netanyahu anche lui sotto pressione perché consapevole che prima o poi sarà chiamato a pagare il prezzo della giornata nera del 7 ottobre è ricorso una volta di più a toni perentori nel complimentarsi con intelligence e forze armate che recentemente aveva criticato. «L'entusiasmante liberazione della soldatessa Ori Magidish dimostra il nostro impegno. Hamas non rilascerà gli ostaggi a meno che non sia messa sotto pressione e noi vogliamo liberarli tutti. Ai terroristi di Hamas-Isis dico: siete dei mostri, continueremo a darvi la caccia».
Il messaggio veicolato dal video delle tre civili israeliane diffuso dai loro carcerieri a Gaza (il secondo dopo quello delle due israelo-americane poi liberate la settimana scorsa), è stato invece bollato come irricevibile ricatto: «È una crudele propaganda psicologica», ha tagliato Netanyahu mentre i familiari delle tre donne chiedevano pubblicamente il sostegno dei leader occidentali, Joe Biden in testa, per farle rilasciare.
Netanyahu non è il solo capo delle istituzioni israeliane a definire mostri gli uomini di Hamas che altri leader internazionali (primo fra tutti il turco Recep Tayyip Erdogan in cerca di popolarità nel mondo islamico) chiamano liberatori della Palestina. Ieri il presidente Isaac Herzog ha chiamato «bestie barbare e sadiche» coloro che hanno massacrato Shani Louk, rapita il 7 ottobre: «È stato trovato il suo cranio e ricordo che l'identificazione di altri 40 corpi è in sospeso perché sono stati bruciati e smembrati nel modo più orribile».
L'orrore delle bestie. Shani Louk uccisa (non decapitata) da Hamas al rave, il ‘trofeo’ portato in festa per le strade di Gaza: Ciro Cuozzo su Il Riformista il 31 Ottobre 2023
Non è stata decapitata. Shani Louk, la 22enne con la doppia nazionalità (israeliana e tedesca) era probabilmente già morta quando il 7 ottobre scorso il video dei terroristi di Hamas sconvolse il mondo dopo gli attacchi delle ore precedenti. Il corpo della giovane, sequestrata al rave party nel deserto, era seminudo sul retro di un pick up, privo di sensi, circondato da miliziani in festa, che esultavano per il ‘bottino‘ di guerra, arrivando anche a sputare sul quel corpo che era già cadavere. Nel breve filmato Shani non si muoveva, aveva le ossa delle gambe spezzate e, dopo che le immagini divennero virali, venne riconosciuta dalla madre Ricarda ‘grazie’ ai tatuaggi.
Dopo oltre tre settimane da quel terribile 7 ottobre arriva l’ufficialità della morte della ragazza anche se il cadavere non è stato ancora ritrovato. Ad avvertire i familiari è lo stesso esercito israeliano dopo i risultati del test del Dna in seguito a un frammento di osso del cranio ritrovato nel deserto dove era in corso il rave. Familiari delle persone scomparse in seguito all’attentato commesso da Hamas che si presentarono nei commissariati di polizia con vestiti usati ed altri elementi utili (capelli aggrovigliati nelle spazzole) per i test del Dna.
Shani Louk è morta, il presidente Herzog: “E’ stata decapitata”. Ma non ci sono conferme
La madre della giovane ipotizza che Shani sia stata uccisa lo stesso 7 ottobre, con un colpo d’arma da fuoco alla testa. “Questi animali le hanno tagliato la testa” ha invece dichiarato alla Bild il presidente israeliano Yitzchak Herzog in un’intervista, riferendo quanto crudelmente Shani Louk sia stata assassinata dopo essere stata trascinata a Gaza. Sulla decapitazione tuttavia non emergono riscontri. Anzi le ultime immagini della giovane, proprio sul pick up, sembrano smentire la versione fornita dal presidente israeliano. “Sono davvero spiacente di riferire che ora abbiamo ricevuto la notizia che Shani Nicole Louk è stata confermata assassinata e morta. Il suo cranio è stato ritrovato”, ha detto il presidente Herzog. “Ciò significa che questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa mentre attaccavano, torturavano e uccidevano gli israeliani. È una grande tragedia e porgo le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia”, ha detto citato da Bild, riferendosi all’ostaggio di doppia nazionalità israelo-tedesca. Herzog ha poi spiegato che l’identificazione di altri 40 corpi è in sospeso poiché le persone sono state abusate, bruciate o smembrate nel modo più raccapricciante.
Chi era Shani Louk, la giovane israeliana uccisa da Hamas al rave party
Shani era una tatuatrice e influencer tedesco-israeliana era nata il 7 febbraio 2001 da padre israeliano e madre tedesca. Ricarda Louk aveva vissuto a Ravensburg, in Germania, e si era trasferita in Israele all’inizio degli anni ’90. Da lì la famiglia si era trasferita a Portland, in Oregon all’inizio degli anni 2000, e lì era nata Shani che aveva frequentato l’asilo nella Portland Jewish Academy. Viveva a Tel Aviv, dove lavorava come tatuatrice freelance. I miliziani di Hamas l’avevano catturata durante l’incursione e il massacro al festival musicale Supernova Sukkot Gathering, festival di trance psichedelica all’aperto, in coincidenza con la festa ebraica di Sukkot, nel deserto del Negev, a circa 5 chilometri dalla barriera Gaza-Israele. Era al festival, accompagnata dal suo fidanzato, un cittadino messicano. Nel mezzo dell’attacco era riuscita a parlare al telefono con la madre, avvertendola di ciò che stava accadendo e dicendo di non sapere dove nascondersi.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Il dramma degli ostaggi. Come è morta Shani Louk, la 22enne israeliana rapita da Hamas: “Torturata, fatta sfilare per Gaza, decapitata e poi bruciata”. La giovane, la cui scomparsa è stata denunciata dai genitori dopo i rastrellamenti fatti da Hamas in territorio israeliano lo scorso 7 ottobre, sarebbe stata vittima di un vero e proprio orrore. Le parole del presidente d'Israele Herzog. Redazione Web su L'Unità il 30 Ottobre 2023
“Torturata e fatta sfilare per Gaza“. Il ministero degli Esteri israeliano ha annunciato che il corpo di Shani Louk, 22 anni, rapita dai terroristi nella Striscia di Gaza durante il festival musicale di Re’im, è stato identificato. In precedenza la madre di Shani dalla Germania ha detto che era stata confermata la morte. Dpa ha riferito che la morte era stata confermata in seguito al ritrovamento di schegge del cranio. Secondo il ministero, la 23enne Louk, che aveva la doppia cittadinanza israeliana e tedesca, è stata “torturata, fatta sfilare per Gaza dai terroristi di Hamas. Ha vissuto orrori inenarrabili“.
Come è morta Shani Louk: la 22enne israeliana rapita da Hamas
Nel filmato diffuso il 7 ottobre, Louk sembra giacere priva di sensi su un camioncino, circondato da diversi terroristi. La morte di Louk è stata determinata in modo simile a quella dei soldati dell’Idf Oron Shaul e Hadar Goldin, uccisi durante l’operazione Protective Edge nel 2014. Nel caso di Louk, è stato identificato un osso dei suoi resti scheletrici dal quale è stato prelevato un campione di Dna. La determinazione della morte è stata condotta dall’Istituto nazionale israeliano di medicina forense. La madre presumeva che la figlia fosse morta il 7 ottobre, giorno dell’attacco terroristico. “Almeno non ha sofferto“, aveva detto Ricarda Louk.
Il presidente d’Israele Herzog: “Orrori e torture”
In base a quanto affermato da Israele, non sarebbe stato così. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha dichiarato: “È stato trovato il suo cranio. Ciò significa che questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa mentre attaccavano, torturavano e uccidevano. È una grande tragedia e porgo le mie più sentite condoglianze alla famiglia“. Solo ora è stato possibile identificare il corpo di Shani, ha spiegato Herzog, aggiungendo che l’identificazione di altri 40 corpi è in sospeso, poiché le persone sono state abusate, bruciate o smembrate nel modo più raccapricciante. Redazione Web 30 Ottobre 2023
Ritorno a casa. Chi è Ori Magidish, la soldatessa israeliana liberata dall’esercito. La giovane è stata individuata grazie ad un 'intervento chirurgico' dell'esercito israeliano. Un'iniziativa militare concretizzatasi con l'ausilio delle informazioni raccolte dallo Shin Bet. Magidish sta bene ed è già in contatto con la famiglia. Le parole del premier Netanyahu. Redazione Web su L'Unità il 30 Ottobre 2023
Una soldatessa israeliana rapita lo scorso 7 ottobre è stata liberata dall’esercito israeliano con un’operazione terrestre. Lo annuncia il portavoce militare. La soldatessa, secondo il portavoce militare e lo Shin Bet, si chiama Ori Magidish ed è in buone condizioni mediche. È già stata messa in contatto con la famiglia. “L’esercito e lo Shin Bet – hanno aggiunto – faranno ogni sforzo per liberare anche altri ostaggi“. La soldatessa era una delle vedette messa a guardia del kibbutz di Nahal Oz.
Chi è Ori Magidish: la soldatessa israeliana liberata dall’esercito
L’operazione con cui la corsa notte è stata liberata la soldatessa Magidish non è avvenuta casualmente, ma è stata progettata per alcuni giorni dopo che lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno aveva ottenuto informazioni sul suo luogo di prigionia a Gaza. Lo riferiscono i media secondo cui le forze israeliane (esercito e Shin Bet assieme) sono riuscite a sorprendere i rapitori e a riportarla indenne in Israele.
L’operazione militare
All’operazione – secondo la televisione commerciale Canale 13 – hanno preso parte ”decine di agenti dello Shin Bet, se non centinaia”. Il blitz è stato reso possibile – ha aggiunto – dalla presenza all’interno di Gaza delle forze dell’esercito israeliano. ”C’è da ritenere che i rapitori abbiano opposto resistenza”, ha detto la televisione pubblica Kan, restando nei limiti concessi dalla censura militare. Le forze israeliane non hanno avuto perdite. Il luogo in cui Megidish si trovava, da sola, non è stato reso noto.
Le parole di Netanyahu
Secondo alcuni commentatori è probabile che non tutti i 239 ostaggi siano tenuti a Gaza nello stesso posto. “Mi congratulo con lo Shin Bet e l’esercito per questo risultato importante ed entusiasmante. Un risultato che esprime il nostro impegno per il rilascio di tutti i rapiti“. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu sulla liberazione della soldatessa. “Ai terroristi di Hamas-Isis dico: siete dei mostri. Continueremo a inseguirvi, continueremo – ha aggiunto Netanyahu – a darvi la caccia“. Redazione Web il 30 Ottobre 2023
Estratto dell'articolo di Uski Audino per “La Stampa” martedì 31 ottobre 2023.
Da tre settimane la famiglia la credeva viva e «gravemente ferita» in un ospedale di Gaza, ostaggio di Hamas. Poi, ieri mattina, l'annuncio che ha spento ogni speranza: «Purtroppo abbiamo avuto la notizia che mia figlia non è più in vita», ha dichiarato la madre Ricarda Louk all'agenzia Dpa, riferendo le notizie ricevute dai militari israeliani sulla sorte di Shani Louk, la ventiduenne tedesca-israeliana, che si trovava al Festival Super Nova nel deserto del Negev, all'alba del 7 ottobre.
Assieme ad altri 260 giovani accorsi al rave-party, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, Shani è stata uccisa probabilmente lo stesso giorno dell'attacco di Hamas. «Almeno non ha sofferto», ha aggiunto la mamma.
[…]
Il cadavere della giovane Shani non si trova e si è potuto risalire alla sua identificazione soltanto grazie all'esame del Dna di una scheggia di un osso del cranio. La famiglia, infatti, aveva già fornito per eventuali riscontri il Dna della ragazza. In mattinata, la madre di Shani aveva ipotizzato un colpo di pistola alla testa come causa del decesso. Il presidente israeliano, Isaac Herzog, invece nel corso della mattinata ha precisato altri dettagli sulla dinamica dell'omicidio al tabloid Bild. «Sono veramente dispiaciuto di dover comunicare che abbiamo ricevuto la conferma della notizia che Shani Nicole Louk è stata assassinata. Hanno trovato il suo cranio», ha dichiarato il presidente Herzog.
«Questo significa che questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa mentre attaccavano, torturavano e uccidevano gli israeliani. È una grande tragedia e porgo le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia». […]
Il dramma dei reduci del rave. "Molti suicidi tra i superstiti". Storia di Matteo Basile su Il Giornale giovedì 7 dicembre 2023.
Le immagini della mattanza compita dai terroristi di Hamas al rave party nel deserto il 7 ottobre hanno fatto il giro del mondo. Una violenza cieca e terribile con giovani uccisi, inseguiti e braccati come prede. Senza alcuna forma di pietà o umanità. 360 sono stati quelli massacrati sul posto. Decine quelli rapiti. Moltissime donne stuprate e poi uccise. Quelli che si sono salvati, chi riuscendo a fuggire, chi nascondendosi, chi fingendosi morto per evitare le raffiche, a due mesi dal raid stanno male. Al punto che alcuni di loro non hanno retto al trauma subito e si sono tolti la vita nei giorni successivi. Ad altri invece è andata meglio, grazie al supporto psicologico che stanno ricevendo. Secondo il capo della polizia israeliana Yaacov Shabtai in 18 tra uomini e donne sono tutt'ora in cura nei reparti per la salute mentale. Per cercare di riprendersi e provare a tornare a una vita normale.
Non è facile, perché quello che hanno vissuto e visto è un bagaglio pesantissimo da portare. Alcuni sono rimasti in stato vegetativo per giorni. In altri si è sviluppato un senso di colpa per essere sopravvissuti, con quella tragica domanda «perché io sì e loro no» che non esce dalla testa. «Penso che alcuni di loro non testimonieranno mai su ciò che hanno vissuto», spiega la ministra per l'empowerment femminile May Golan. A spingere perché i sopravvissuti avessero un supporto psicologico importante è stata la dottoressa Lia Naorche ha di fatto costruito una comunità in cui segue le vittime dell'assalto. «I loro corpi erano integri ma i loro occhi vuoti, non sembravano neanche vivi. Il male che hanno incontrato non si può spiegare - ha raccontato la dottoressa alla BBC - Noi cerchiamo di riportarli alla luce, di riportarli a credere in loro stessi e negli altri». Lior Gelbaum, 24 anni, (nella foto) è uno dei pochi che riesce a ricordare quanto successo quel giorno. «Abbiamo iniziato a sentire degli spari sopra le nostre teste, abbiamo iniziato a correre verso il campo aperto. Non sapevamo dove stavamo andando o cosa stava succedendo. Eravamo bloccati, due persone avevano una grande macchina e ci hanno fatti salire. Ci hanno salvato la vita».
Il disturbo da stress post-traumatico è considerato una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche. Si è iniziato a studiare a partire dalla guerra del Vietnam e dai suoi effetti devastanti sui veterani. Ma anche attacchi terroristici, guerre, bombe, incidenti aerei, terremoti, inondazioni o altri eventi portano alle stesse conseguenze. Effetti anche devastanti sulla salute mentale delle vittime. Un dramma per chi è sopravvissuto. Che va di pari passo con quello ancora peggiore di chi non c'è più. E rende ancora più terribilmente indimenticabile quel maledetto 7 ottobre.
Osservatorio Euro-Med sui diritti umani: “Israele espianta organi dai corpi dei palestinesi”. Michele Manfrin su L'Indipendente il 7 Dicembre 2023
L’Euro-Med Human Rights Monitor (Osservatorio Euromediterraneo dei Diritti Umani) ha chiesto la creazione di una commissione internazionale d’inchiesta indipendente riguardo al sequestro e alla detenzione di cadaveri palestinesi da parte di Israele. Ciò che la ONG palestinese chiede è che venga accertata la possibilità che Israele abbia asportato organi e pelle ai deceduti nel conflitto scoppiato il 7 ottobre scorso. Si riaccende così una faccenda dai contorni macabri che riguarda Israele, già venuta alla luce una ventina di anni fa e tornata in auge nel 2014, in seguito alla pubblicazione di una ricercatrice israeliana. Secondo Euro-Med Human Rights Monitor, Israele avrebbe confiscato decine di corpi di deceduti palestinesi dal complesso medico Al-Shifa di Gaza senza riconsegnarli alle famiglie e avrebbe anche dissotterrato alcuni corpi già seppelliti. L’organizzazione chiede quindi che sia fatta luce sulla fine fatta dai corpi. Una situazione che riporta l’attenzione anche su una controversa legge approvata nel 2021 dal Parlamento israeliano, che ha permesso all’esercito e alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi morti.
Euro-Med Human Rights Monitor è un’organizzazione indipendente e senza scopo di lucro per la protezione dei diritti umani, fondata nel 2011 dal palestinese Ramy Abdu, ex coordinatore di progetti e investimenti per la Banca Mondiale. Il Consiglio di Amministrazione dell’organizzazione è composto da accademici, avvocati, consulenti e attivisti di varie nazionalità. Lo statunitense Richard A. Falk, professore emerito della Princeton University, è il Presidente del consiglio d’amministrazione; i membri del Consiglio sono: Christine Chinkin, Noura Erakat, Celso Amorim, Lisa Hajjar, Tareq Ismael, John V. Whitbeck e Tanya Cariina Newbury-Smith. L’Osservatorio comunica di aver documentato la confisca da parte dell’esercito israeliano di dozzine di cadaveri dal complesso medico Al-Shifa – messo sotto assedio per vari giorni – e dall’ospedale indonesiano nel nord della Striscia di Gaza, così come nei pressi del così detto “corridoio sicuro” (Salah al-Din Road), designato a sfollare i palestinesi verso il sud della Striscia di Gaza. L’organizzazione denuncia anche il fatto che l’esercito israeliano ha dissotterrato e confiscato i corpi da una fossa comune in uno dei cortili del complesso medico Al-Shifa. Euro-Med Human Rights Monitor riferisce che, mentre decine di cadaveri sono stati consegnati al Comitato Internazionale della Croce Rossa che li ha trasportati nel sud della Striscia di Gaza per completare il processo di sepoltura, l’esercito israeliano conserva ancora i corpi di decine di morti.
Israele ha una lunga storia di detenzione dei corpi dei palestinesi morti, ha spiegato Euro-Med Monitor, in quanto detiene i resti di almeno 145 palestinesi nei suoi obitori e circa 255 nel suo Cimitero dei Numeri, vicino al confine giordano e off-limits al pubblico. Vi sono poi 75 persone scomparse che non sono state identificate da Israele. Secondo il gruppo per i diritti umani, Israele ha recentemente reso legale la detenzione dei corpi dei palestinesi morti e il prelievo dei loro organi. Alla fine del 2021, la Knesset (il Parlamento israeliano) aveva approvato leggi che consentivano all’esercito e alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi deceduti. Prima del conflitto attuale, il 26 agosto 2023, Nashat Al-Wahidi, coordinatore della Campagna nazionale palestinese per il recupero dei corpi dei martiri, denunciò le azioni di Israele ad una TV palestinese, accusando anche lo Stato ebraico di espiantare organi e pelle dai corpi palestinesi che trattiene.
La CNN, nel 2009, documentò come Israele, dagli anni Novanta, prelevasse organi dai corpi dei deceduti senza chiedere il permesso alle famiglie. Ad ammetterlo fu anche il dottor Yehuda Hiss, a capo, dal 1988 al 2004, dell’istituto forense di Abu Kabir – luogo in cui avvenivano le pratiche di espianto. Cornee, valvole cardiache, ossa, pelle, erano tra gli organi che venivano prelevati all’istituto di Abu Kabir, come spiegato da Hiss. Sempre la CNN compì lo stesso anno un’indagine sul traffico illecito di organi a livello mondiale e trovò che Tel Aviv costituiva un mercato florido, dove si potevano acquistare organi tramite la mediazione di broker specializzati: un rene poteva costare anche 100 mila dollari. Inoltre nel 2014, la professoressa Meira Weiss, antropologa dell’Università Ebraica, pubblicò un libro riguardo la sua esperienza di ricerca presso l’istituto di Abu Kabir, dal 1996 al 2002. Over Their Dead Bodies (Sopra i loro cadaveri), nel quale si testimonia come gli organi fossero prelevati da palestinesi morti per essere utilizzati nella ricerca medica all’interno della facoltà di medicina delle università israeliane, così come per essere trapiantati nei corpi di pazienti israeliani. Ora, la storia sembra tornare a ripetersi. [di Michele Manfrin]
Ong denuncia possibile furto di organi dai cadaveri palestinesi. Martina Melli su L'Identità il 30 Novembre 2023
Secondo la Ong Euro-Med Human Rights Monitor, l’esercito israeliano avrebbe rubato gli organi di dozzine di palestinesi uccisi. L’organizzazione, nel tentativo di chiarire la questione, ha chiesto la creazione di un comitato investigativo internazionale indipendente.
Euro-Med Monitor aveva già documentato la confisca da parte dell’esercito israeliano di dozzine di cadaveri dal complesso medico Al-Shifa e dall’ospedale indonesiano nel nord della Striscia di Gaza, e di altri nelle vicinanze del cosiddetto “corridoio sicuro” destinata agli sfollati diretti verso le parti centrali e meridionali della Striscia. Secondo la Ong l’esercito israeliano avrebbe anche dissotterrato e confiscato i corpi di una fossa comune allestita più di 10 giorni fa in uno dei cortili del complesso medico Al-Shifa.
Mentre dozzine di cadaveri sono stati consegnati al Comitato internazionale della Croce Rossa, che a sua volta li ha trasportati nel sud della Striscia di Gaza per completare il processo di sepoltura, l’esercito israeliano trattiene ancora i corpi di dozzine di persone morte.
Le preoccupazioni per il furto di organi dai cadaveri sono state sollevate dall’organizzazione in seguito ai rapporti di diversi medici di Gaza che hanno rilevato coclee e cornee mancanti, nonché altri organi vitali come fegato, reni e cuore.
Il furto di organi non può essere provato o smentito, dal momento che più corpi sono stati sottoposti a procedure chirurgiche prima della morte. Inoltre, è impossibile condurre un esame analitico completo dei cadaveri recuperati a causa degli intensi attacchi aerei e di artiglieria e dell’afflusso di civili feriti.
Israele ha una lunga storia nel trattenere i corpi dei palestinesi morti, poiché conserva i resti di almeno 145 palestinesi nei suoi obitori e di circa 255 nel suo “Cimitero dei numeri”, che è vicino al confine giordano e vietati al pubblico. Secondo l’organizzazione per i diritti con sede a Ginevra, Israele conserva i corpi dei palestinesi morti in quelle che definisce “tombe di combattenti nemici”, che sono fosse comuni nascoste situate in zone militari chiuse.
Secondo il gruppo per i diritti umani, Israele ha recentemente reso legale detenere i corpi dei palestinesi morti e rubare i loro organi. Una di queste decisioni è la sentenza della Corte Suprema israeliana del 2019 che consente al sovrano militare di seppellire temporaneamente i corpi in quello che è noto come il “Cimitero dei Numeri”. Entro la fine del 2021, la Knesset israeliana aveva approvato leggi che consentivano all’esercito e alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi morti.
La dottoressa israeliana Meira Weiss ha rivelato nel suo libro “Over Their Dead Bodies” che gli organi prelevati da palestinesi morti vengono utilizzati nella ricerca medica presso le facoltà di medicina delle università israeliane e trapiantati nei corpi di pazienti ebrei-israeliani. Ancora più preoccupanti sono le ammissioni fatte da Yehuda Hess, ex direttore dell’Istituto israeliano di medicina forense Abu Kabir, sul furto di tessuti umani, organi e pelle di palestinesi morti senza che i loro parenti ne fossero a conoscenza o approvassero.
Come ogni altro Paese, Israele deve rispettare le norme del diritto internazionale, che stabiliscono la necessità di rispettare e proteggere i corpi dei morti durante i conflitti armati. La Quarta Convenzione di Ginevra INFATTI sottolinea che “ciascuna parte in conflitto deve adottare tutte le misure possibili per impedire che i morti vengano mutilati” e deve riconsegnare i corpi dei defunti affinché possano essere seppellite con dignità e in conformità con le loro convinzioni religiose.
"Un salasso": quanto costa la guerra contro il terrore di Hamas. Federico Giuliani il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
Secondo alcune stime la guerra di Israele contro il movimento islamista palestinese Hamas nella striscia di Gaza costerà fino a 200 miliardi di shekel (51 miliardi di dollari)
Tabella dei contenuti
Il costo della guerra per Israele
Le altre stime
La guerra di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza costerà fino a 200 miliardi di shekel, ovvero circa 51 miliardi di dollari. È questa la stima che si può leggere consultando alcuni dati preliminari del ministero delle Finanze di Tel Aviv. Nel caso in cui il conflitto dovesse durare un lasso di tempo compreso tra gli 8 e i 12 mesi, e avere come unico nemico Hamas, senza quindi includere la piena partecipazione del movimento libanese Hezbollah, dell'Iran o dello Yemen, il bilancio costerà dunque allo Stato ebraico il 10% del suo pil.
Il costo della guerra per Israele
La notizia è stata riportata dal quotidiano economico israeliano Calcalist. Tra le condizioni elencate per una spesa non superiore ai 51 miliardi di dollari - oltre, come detto, alla durata della guerra non superiore ad un anno e all'unico nemico individuato in Hamas - troviamo anche il fatto che i circa 350 mila israeliani arruolati come riservisti tornino presto al lavoro presto. La testata ha inoltre affermato che il ministero ritiene che 200 miliardi di shekel siano una stima "ottimistica", il che significa che il conto potrebbe aumentare a causa di variabili non considerate.
Scendendo nei dettagli, la metà del costo preventivato riguarderebbe le spese per la difesa che ammontano a circa 1 miliardo di shekel al giorno. Altri 40-60 miliardi deriverebbero invece dalla perdita di entrate, 17-20 miliardi dai risarcimenti alle imprese e, infine, 10-20 miliardi di shekel per il risanamento generale del Paese. Per fare un confronto, la pandemia di Covid-19 è costata alle casse del Paese qualcosa come 160 miliardi di shekel, ma la spesa è stata diluita nell'arco di due anni.
Ebbene, il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha dichiarato che il governo israeliano sta preparando un pacchetto di aiuti economici per le persone colpite dagli attacchi palestinesi che sarà "più grande e più ampio" rispetto a quello registrato durante la pandemia di Covid-19. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha invece affermato che lo Stato si impegnerà ad aiutare tutte le persone colpite dalla crisi. "La mia direttiva è chiara: aprire i rubinetti e destinare i fondi a chi ne ha bisogno, proprio come abbiamo fatto durante il Covid", ha detto senza fornire cifre dettagliate.
Le altre stime
Nel frattempo, secondo le proiezioni iniziali della Bank Hapoalim, il costo della guerra tra Israele e Hamas è attualmente stimato ad almeno 27 miliardi di shekel (6,8 miliardi di dollari). Questo, ha spiegato il Times of Israel, tiene conto del significativo e massiccio appello dei riservisti che devono lasciare il lavoro – la più grande mobilitazione dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, quando Israele chiamò 400.000 riservisti – del ripristino delle infrastrutture, dell’aspettativa di una lunga campagna e costi pluriennali per la riabilitazione dei soldati disabili, nonché per la cura delle famiglie dei soldati caduti nel conflitto.
"Attualmente si può presumere, in una stima molto approssimativa, che i costi della guerra attuale ammonteranno almeno all’1,5% del pil, il che significa un aumento del deficit di bilancio di almeno l’1,5% del pil nei prossimi anni", ha detto il capo stratega della Banca Hapoalim Modi Shafrir.
Secondo l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS), le spese della seconda guerra del Libano nel 2006, durata 34 giorni, sono state stimate in 9,4 miliardi di shekel (2,4 miliardi di dollari), ovvero l’1,3% del pil. Il costo dell'operazione Piombo Fuso dal dicembre 2008 al gennaio 2009 è stato invece stimato a 3,3 miliardi di shekel (835 milioni di dollari).
Un nemico fa comodo: quali sono i veri interessi di chi sostiene Hamas. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 6 Novembre 2023
Sebbene in molti paventassero l’allargamento del conflitto tra Israele e i terroristi di Hamas, con l’ingresso in campo delle truppe cammellate di Hezbollah, dopo l’atteso discorso del suo leader, Hassan Nasrallah, non è successo nulla di rilevante.
D’altro canto, ciò era stato ampiamente previsto da Edward Luttwak, il quale così si è espresso in un lungo commento sul Giornale del 28 ottobre: “Il violento leader di Hezbollah, Nasrallah, e i suoi padroni iraniani continuano a invocare la distruzione di Israele (insieme ai consueti slogan di «morte agli Stati Uniti»), ma nel frattempo nessuno dei due ha reagito alla distruzione, da parte di Israele, dei terminal merci negli aeroporti di Aleppo e Damasco che l’Iran utilizza per consegnare le armi a Hezbollah.” Il politologo statunitense ha poi aggiunto che lo stesso Nasrallah, memore della distruzione operata dall’esercito israeliano nei territori libanesi controllati da Hezbollah, durante il conflitto del 2006, difficilmente metterebbe a repentaglio le infrastrutture che la sua fazione ha costruito negli ultimi 15 anni. “Non è irragionevole aspettarsi – aggiunge Luttwak – che l’unico leader della regione che si preoccupa dei suoi sostenitori (Hamas sacrifica volentieri i suoi seguaci alla causa islamica) non voglia esporli a un’altra devastante campagna di bombardamenti, solo per lanciare dei razzi contro Israele – soprattutto perché dal 2006 la capacità di fuoco israeliana è quasi triplicata (senza voler citare anche la piccola questione della vulnerabilità personale di Nasrallah).”
Ebbene, al netto del lungo e incendiario discorso pronunciato il 3 novembre, il capo di Hezbollah ha fornito l’ennesima dimostrazione di quanto sia essenziale per le autocrazie della regione la presenza di nemico forte come Israele. Un nemico esterno che, come sostenuto da Roberto Arditti nei riguardi dei regimi totalitari in generale, risulta piuttosto funzionale per controllare le proprie dinamiche di potere interne. Quindi, partendo da questo presupposto, è ovvio che né l’Iran né Hezbollah, al pari di altri regimi della regione ostili allo Stato ebraico, non hanno nessun interesse pratico a sostenere una concreta strategia per risolvere la tormentata causa palestinese. Così come, e da qui probabilmente scaturisce l’orrenda strage del 7 ottobre, lo storico avvicinamento dell’Arabia Saudita ad Israele, conseguenza diretta degli Accordi di Abramo, avrebbe inflitto un colpo mortale alla strategia del terrore perseguita dalle stesse autocrazie.
Eppure nel mondo occidentale, a parte i soliti sinistri personaggi antisistema, eternamente contro Israele in quanto emanazione delle oligarchie demoplutocratiche americane, non sono pochi gli osservatori e gli analisti che continuano a dividere il campo tra chi vorrebbe “liberare” la Palestina, includendo Hamas, Hezbollah, Iran e compagnia cantante, e chi vi si oppone, con in testa Israele, gli Stati Uniti e i suoi alleati.
Sbaglierò, ma finché in quella rovente zona del globo prospereranno regimi lontani anni luce dalle nostre assai imperfette democrazie liberali, sarà assai difficile che la sempre più strumentale causa palestinese trovi una ragionevole soluzione. Claudio Romiti, 6 novembre 2023
Vicina ai Fratelli musulmani e finanziata dalla Commissione Ue. Storia di Redazione su Il Giornale il 12 dicembre 2023.
La Germania svela uno scandalo: una Ong tedesca-musulmana ha legami con gli estremisti ed è finanziata dalla Ue. L'organizzazione Islamic Relief Germany, registrata come associazione senza scopo di lucro, promette sul suo sito web: «Agiamo indipendentemente dalle convinzioni politiche, dall'origine nazionale o etnica, dal sesso e dalla religione e senza aspettarci nulla in cambio», afferma. E ancora: «Rifiutiamo fermamente ogni forma di odio, discriminazione, razzismo e antisemitismo». Peccato che da anni la valutazione del governo federale sia diversa: Islamic Relief ha «legami personali significativi con i Fratelli Musulmani» in tutto il mondo e anche in Germania, ha affermato il governo nel 2020 in risposta a una domanda minore del gruppo parlamentare FDP. I Fratelli Musulmani lottano per una teocrazia islamica basata sulla legge della Sharia. Rivendica la verità assoluta; il sistema politico a cui mira mostra chiare caratteristiche di dominio totalitario. Non solo: i soldi all'Ong arrivano anche dalla Ue. Come si può vedere dal sito web del programma «Erasmus+» dell'Unione europea (Ue), la Commissione europea finanzia con 58.640 euro un progetto in corso di Islamic Relief Germany sul tema della consulenza telefonica. «Erasmus+» è il più grande programma dell'Ue per la promozione dell'istruzione, della gioventù e dello sport in Europa. È finanziato dal bilancio dell'Ue. La Germania contribuisce al bilancio dell'Ue con il contributo nazionale più elevato tra tutti gli Stati membri ed è il maggiore contribuente netto dell'Ue
Traduzione dell’articolo di Mark Mazzetti and Ronen Bergman per nytimes.com lunedì 11 dicembre 2023.
Poche settimane prima che Hamas lanciasse gli attacchi mortali del 7 ottobre contro Israele, il capo del Mossad era arrivato a Doha per un incontro con i funzionari del Qatar. Per anni, il governo del Paese del Golfo ha inviato milioni di dollari al mese nella Striscia di Gaza, denaro che ha contribuito a sostenere il governo di Hamas. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non solo tollerava questi pagamenti, ma li incoraggiava.
Durante gli incontri di settembre, al capo del Mossad, David Barnea, è stata posta una domanda che non era all'ordine del giorno: Israele voleva che i pagamenti continuassero?
Il governo di Netanyahu aveva recentemente deciso di continuare con quella politica, quindi Barnea disse di sì. Il governo israeliano accoglieva ancora con favore il denaro proveniente da Doha.
Consentire quei pagamenti - miliardi di dollari in circa un decennio - è stata una scommessa di Netanyahu, secondo cui un flusso costante di denaro avrebbe mantenuto la pace a Gaza e mantenuto Hamas concentrata sul governo, non sulla lotta.
I pagamenti del Qatar, sebbene apparentemente segreti, erano ampiamente conosciuti in Israele, e i media dello Stato ebraico ne hanno discusso per anni. I critici di Netanyahu li hanno denigrati come parte di una strategia per "comprare la tranquillità", e ora quella scelta è al centro di una spietata revisione dopo gli attacchi del 7 ottobre. Netanyahu si è scagliato contro queste critiche, definendo "ridicola" l'insinuazione che abbia cercato di rafforzare Hamas.
Attraverso interviste a più di due dozzine di attuali ed ex funzionari israeliani, americani e qatarioti, e a funzionari di altri governi mediorientali, il New York Times porta ora alla luce nuovi dettagli sulle origini di quella politica, sulle controversie scoppiate all'interno del governo israeliano e su quanto Netanyahu si sia spinto a fare per proteggere i qatarioti dalle critiche e continuare a far circolare il denaro.
I pagamenti facevano parte di una serie di decisioni prese da leader politici, ufficiali militari e funzionari dell'intelligence israeliana, tutte basate sulla valutazione, fondamentalmente errata, che Hamas non fosse interessata né capace di un attacco su larga scala. Il Times ha già riferito in precedenza dei fallimenti dell'intelligence e di altre ipotesi errate che hanno preceduto gli attacchi.
Anche se l'esercito israeliano ha ottenuto piani di battaglia per un'invasione di Hamas e gli analisti hanno osservato importanti esercitazioni di terrorismo appena oltre il confine di Gaza, i pagamenti sono continuati. Per anni, gli agenti dei servizi segreti israeliani hanno persino scortato un funzionario del Qatar a Gaza, dove distribuiva denaro da valigie piene di milioni di dollari.
I soldi provenienti dal Qatar avevano ufficialmente scopi umanitari, come il pagamento degli stipendi governativi a Gaza e l'acquisto di carburante per mantenere in funzione una centrale elettrica. Ma i funzionari dell'intelligence israeliana ora ritengono che il denaro abbia avuto un ruolo nel successo degli attacchi del 7 ottobre, se non altro perché le donazioni hanno permesso ad Hamas di dirottare parte del proprio budget verso le operazioni militari. Separatamente, l'intelligence israeliana ha da tempo valutato che il Qatar utilizza altri canali per finanziare segretamente l'ala militare di Hamas, un'accusa che il governo del Qatar ha negato.
"Qualsiasi tentativo di gettare un'ombra di incertezza sulla natura civile e umanitaria dei contributi del Qatar e sul loro impatto positivo è infondato", ha dichiarato un funzionario del Qatar in un comunicato.
Molti governi israeliani hanno permesso che il denaro andasse a Gaza per ragioni umanitarie, non per rafforzare Hamas, ha detto un funzionario dell'ufficio di Netanyahu in un comunicato. Ha aggiunto: "Il Primo Ministro Netanyahu ha agito per indebolire Hamas in modo significativo. Ha guidato tre potenti operazioni militari contro Hamas che hanno ucciso migliaia di terroristi e alti comandanti di Hamas".
Hamas ha sempre dichiarato pubblicamente il suo impegno per eliminare lo Stato di Israele. Ma ogni pagamento è stato una prova del fatto che il governo israeliano riteneva che Hamas fosse una seccatura di basso livello, e, anzi, persino una risorsa politica.
Già nel dicembre 2012, Netanyahu disse all'importante giornalista israeliano Dan Margalit che era importante mantenere Hamas forte, come contrappeso all'Autorità Palestinese in Cisgiordania. Margalit, in un'intervista, ha affermato che Netanyahu gli disse che avere due forti rivali, tra cui Hamas, avrebbe diminuito la pressione su di lui per negoziare la nascita di uno Stato palestinese.
Il funzionario dell'ufficio del primo ministro ha detto che Netanyahu non ha mai fatto questa dichiarazione. Ma il primo ministro avrebbe espresso questa idea ad altri nel corso degli anni.
Mentre i leader militari e dei servizi segreti israeliani hanno riconosciuto le carenze e gli errori che hanno portato all'attacco di Hamas, Netanyahu si è rifiutato di affrontare tali questioni. E con la guerra in corso a Gaza, la resa dei conti politica per l'uomo che è stato primo ministro per 13 degli ultimi 15 anni è, per il momento, in sospeso.
Ma i critici di Netanyahu affermano che il suo approccio ad Hamas faceva parte, in fondo, di un calcolo politico cinico: la “tranquillità” di Gaza era un mezzo per rimanere in carica senza affrontare la minaccia di Hamas o il ribollente malcontento palestinese.
"La concezione di Netanyahu per un decennio e mezzo è stata: ‘se ci compriamo il silenzio e facciamo finta che il problema non ci sia, possiamo aspettare e il problema svanirà’", ha detto Eyal Hulata, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele dal luglio 2021 all'inizio di quest'anno.
Alla ricerca di un equilibrio
Netanyahu e il suo staff sulla sicurezza hanno lentamente iniziato a riconsiderare la loro strategia nei confronti della Striscia di Gaza dopo diversi conflitti militari sanguinosi e inconcludenti contro Hamas.
"Tutti erano stanchi di Gaza", ha detto Zohar Palti, ex direttore dell'intelligence del Mossad. "Tutti dicevamo: 'Dimentichiamoci di Gaza', perché sapevamo che era una situazione di stallo".
Dopo uno dei conflitti, nel 2014, Netanyahu ha tracciato un nuovo corso, enfatizzando una strategia per cercare di "contenere" Hamas mentre Israele si concentrava sul programma nucleare iraniano e sui suoi eserciti per procura come Hezbollah.
Questa strategia è stata sostenuta da ripetute valutazioni di intelligence secondo cui Hamas non era interessato né in grado di lanciare un attacco significativo all'interno di Israele.
Il Qatar, in quel periodo, è diventato un finanziatore chiave per la ricostruzione e le operazioni governative a Gaza. Il paese del Golfo, una delle nazioni più ricche del mondo, ha a lungo sostenuto la causa palestinese e, tra tutti i suoi vicini, ha coltivato i legami più stretti con Hamas. Questi rapporti si sono rivelati preziosi nelle ultime settimane, quando i funzionari del Qatar hanno contribuito a negoziare il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza.
Il lavoro del Qatar a Gaza fu benedetto dal governo israeliano. Netanyahu ha persino esercitato pressioni su Washington a favore del Qatar. Nel 2017, mentre i repubblicani spingevano per imporre sanzioni finanziarie a Doha, per il suo sostegno ad Hamas, Netanyahu inviò a Washington alti funzionari della difesa. Gli israeliani dissero ai legislatori americani che il Qatar aveva svolto un ruolo positivo nella Striscia di Gaza, secondo tre persone che hanno familiarità con quel viaggio.
Yossi Kuperwasser, ex capo della ricerca dell'intelligence militare israeliana, ha detto che alcuni funzionari hanno visto i benefici del mantenimento di un "equilibrio" nella Striscia di Gaza. "La logica di Israele era che Hamas dovesse essere abbastanza forte da governare Gaza", ha detto, "ma abbastanza debole da essere scoraggiato da Israele".
Le amministrazioni di tre presidenti americani - Barack Obama, Donald J. Trump e Joseph R. Biden Jr. - hanno ampiamente sostenuto il ruolo diretto del Qatar nel finanziamento delle operazioni a Gaza. Ma non tutti erano d'accordo.
Avigdor Lieberman, mesi dopo essere diventato ministro della Difesa nel 2016, scrisse una nota segreta a Netanyahu e al capo di stato maggiore israeliano, sostenendo che Hamas stava lentamente costruendo le sue capacità militari per attaccare Israele, e che Israele avrebbe dovuto colpire per primo.
L'obiettivo di Israele è "assicurare che il prossimo confronto tra Israele e Hamas sia la resa dei conti finale", ha scritto nel promemoria, datato 21 dicembre 2016, una copia del quale è stata esaminata dal Times. Secondo Lieberman, un attacco preventivo avrebbe potuto permettere la rimozione della maggior parte della "leadership dell'ala militare di Hamas". Netanyahu respinse il piano, preferendo il contenimento allo scontro.
Hamas come "una risorsa”
Tra gli agenti del Mossad incaricati di tracciare i finanziatori dei terroristi, alcuni sono arrivati a credere che, anche al di là del denaro proveniente dal Qatar, Netanyahu non fosse molto preoccupato di impedire che il denaro andasse ad Hamas.
Uzi Shaya, ad esempio, ha fatto diversi viaggi in Cina per cercare di bloccare quella che l'intelligence israeliana aveva valutato essere un'operazione di riciclaggio di denaro per Hamas gestita attraverso la Bank of China.
Dopo il suo pensionamento, è stato chiamato a testimoniare contro la Bank of China in una causa americana intentata dalla famiglia di una vittima di un attacco terroristico di Hamas.
All'inizio, il capo del Mossad lo ha incoraggiato a testimoniare, dicendo che avrebbe potuto aumentare la pressione finanziaria su Hamas, ha ricordato Shaya in una recente intervista. Poi i cinesi hanno offerto a Netanyahu una visita di Stato. Improvvisamente, ha ricordato Shaya, gli ordini cambiarono: Non doveva più testimoniare.
Netanyahu ha visitato Pechino nel maggio 2013, nell'ambito di uno sforzo per rafforzare i legami economici e diplomatici tra Israele e Cina. Shaya disse che gli sarebbe piaciuto testimoniare. "Purtroppo", ha detto, "ci sono state altre considerazioni".
Anche se le ragioni della decisione non sono mai state confermate, il cambiamento di rotta lo ha lasciato sospettoso. Soprattutto perché a volte i politici hanno parlato apertamente del “valore” di un Hamas forte. Shlomo Brom, generale in pensione ed ex vice del consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, sostiene ad esempio che il rafforzamento del movimento avrebbe aiutato Netanyahu a evitare di negoziare uno Stato palestinese.
"Un modo efficace per impedire una soluzione a due Stati è la divisione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania", ha dichiarato in un'intervista. La divisione dà a Netanyahu una scusa per disimpegnarsi dai colloqui di pace, sostiene Brom: "Può dire di non avere nessun partner con cui negoziare".
Netanyahu non ha espresso pubblicamente questa strategia, ma alcuni esponenti della destra politica israeliana non hanno avuto esitazioni.
Bezalel Smotrich, un politico di estrema destra che ora è il ministro delle Finanze di Netanyahu, lo ha detto senza mezzi termini nel 2015, l'anno in cui è stato eletto in Parlamento. "L'Autorità palestinese è un peso", ha detto. "Hamas è una risorsa".
Valigie piene di contanti
Durante una riunione di gabinetto del 2018, gli assistenti di Netanyahu presentarono un nuovo piano: ogni mese, il governo del Qatar avrebbe versato milioni di dollari in contanti direttamente alla popolazione di Gaza come parte di un accordo di cessate il fuoco con Hamas.
Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza nazionale del Paese, avrebbe monitorato l'elenco dei beneficiari per cercare di garantire che i membri dell'ala militare di Hamas non ne beneficiassero direttamente.
Nonostante queste rassicurazioni, il dissenso esplose. Lieberman vide subito il piano come una capitolazione, dimettendosi nel novembre 2018. Accusò pubblicamente Netanyahu di "comprare una pace a breve termine al prezzo di un grave danno alla sicurezza nazionale a lungo termine". Negli anni successivi, Lieberman sarebbe diventato uno dei più feroci critici di Netanyahu.
Durante un'intervista rilasciata il mese scorso nel suo ufficio, Lieberman ha affermato che le decisioni prese nel 2018 hanno portato direttamente agli attacchi del 7 ottobre. "Per Netanyahu c'è solo una cosa veramente importante: essere al potere a qualsiasi costo", ha detto. "Per rimanere al potere, ha preferito pagare per la tranquillità".
Le valigie piene di denaro cominciarono presto ad attraversare il confine con Gaza. Ogni mese, i funzionari di sicurezza israeliani incontravano Mohammed al-Emadi, un diplomatico del Qatar, al confine tra Israele e Giordania. Da lì, lo accompagnavano al valico di frontiera di Kerem Shalom e a Gaza.
Inizialmente, Emadi portava con sé 15 milioni di dollari da distribuire, con 100 dollari consegnati in luoghi designati a ogni famiglia approvata dal governo israeliano, secondo quanto riferito da ex funzionari israeliani e americani.
I fondi erano destinati a pagare gli stipendi e altre spese, ma un diplomatico occidentale di alto livello, che ha vissuto in Israele fino all'anno scorso, sostiene che i governi occidentali avevano da tempo valutato che Hamas faceva la cresta sugli esborsi di denaro.
"Il denaro è fungibile", dice Chip Usher, analista senior per il Medio Oriente presso la C.I.A. fino al suo pensionamento quest'anno. "Tutto ciò che Hamas non ha dovuto utilizzare dal proprio bilancio ha liberato denaro per altre cose".
Naftali Bennett, che era ministro dell'Istruzione di Israele nel 2018 quando sono iniziati i pagamenti e poi è diventato ministro della Difesa, è stato tra i membri del governo di Netanyahu che hanno criticato i pagamenti. Li ha definiti "denaro di protezione".
Eppure, quando Bennett ha iniziato il suo mandato di un anno come primo ministro nel giugno 2021, ha continuato con quella politica. A quel punto, il Qatar spendeva circa 30 milioni di dollari al mese a Gaza.
Bennett e i suoi assistenti, tuttavia, decisero che gli esborsi di denaro erano un imbarazzo per il suo governo. Durante le riunioni con i funzionari della sicurezza, Barnea, il capo del Mossad, esprimeva la sua opposizione a continuare i pagamenti, certo che parte del denaro venisse dirottato verso le attività militari di Hamas.
Da parte loro, i funzionari del Qatar volevano un modo più stabile e affidabile per far arrivare il denaro a Gaza a lungo termine. Tutte le parti hanno raggiunto un compromesso: le agenzie delle Nazioni Unite avrebbero distribuito il denaro del Qatar al posto del signor Emadi. Una parte di quei soldi è stata destinata direttamente all'acquisto di carburante per la centrale elettrica di Gaza.
Hulata, il consigliere per la sicurezza nazionale di Bennett, ricorda la tensione di quei giorni: Israele stava benedicendo questi pagamenti del Qatar, anche se le valutazioni dell'intelligence del Mossad concludevano che il Qatar stava usando altri canali per finanziare segretamente il braccio militare di Hamas.
Era difficile fermare questi pagamenti, ha detto, quando Israele era diventato così dipendente dal Qatar.
Yossi Cohen, che ha gestito il dossier del Qatar per molti anni come capo del Mossad, è arrivato a mettere in discussione la politica di Israele nei confronti del denaro di Gaza. Durante il suo ultimo anno di gestione del servizio di spionaggio, ha ritenuto che ci fosse poca sorveglianza sulla destinazione del denaro.
Nel giugno 2021, Cohen ha tenuto il suo primo discorso pubblico dopo il ritiro dal servizio di spionaggio. Ha detto che il denaro del Qatar destinato alla Striscia di Gaza era andato "fuori controllo".
Estratto dell'articolo di Marco Ventura Per "Il Messaggero" martedì 14 novembre 2023.
Sono passati per la rete di cambia-valute Hawala e la loro conversione dal contante alle criptovalute i soldi, fiumi di dollari, 100-150 milioni l'anno nell'ultimo biennio, con cui l'Iran ha finanziato Hamas per comprare le armi e stipendiare decine di migliaia di miliziani. Il mix dei tradizionali sportelli che da Gaza alla Siria, dalla Turchia al Libano e all'Iran, con propaggini in Occidente e terminali fisici nelle strade della Striscia, sarebbe stato l'asso nella manica degli Ayatollah e dei capi di Hamas. In barba ai controlli, pur stringenti, degli 007 di Israele e Stati Uniti.
È un'inchiesta del Wall Street Journal a raccontare la guerra sotterranea del ministero della Difesa di Tel Aviv e del Tesoro Usa all'inseguimento del denaro insanguinato. A metà del 2019, un drone mirato uccise in un vicolo di Gaza un comandante di Hamas, Hamid Ahmed Khudari, noto come il Money Man, l'uomo dei soldi, dell'Iran. Il National Bureau of Counter-Terror Financing, l'agenzia di controterrorismo finanziario della Difesa israeliana, è convinto che fosse lui a gestire le rimesse in cui agenti di fiducia facevano la spola attraverso la barriera portando cash e merci nella Striscia, decine di milioni di dollari l'anno per foraggiare l'ala militare di Hamas.
Subentrò un uomo d'affari, Zuhair Shamlakh, che per eludere i controlli avrebbe cambiato strategia passando alle valute digitali. L'Nbctf emise, a partire dal 2021, sette ordini di sequestro di fondi in bitcoin, detenuti da 3 cambia-valute gazawi: due per 41 milioni di dollari secondo una società d'analisi di Tel Aviv, la BitOk, ulteriori 93 milioni sarebbero finiti tramite altri cambiavalute alla Jihad islamica palestinese. La provenienza, iraniana. La conversione alle criptovalute serve a aggirare le sanzioni occidentali.
In cinque degli ordini è citato lo sportello di cambi di Shamlakh, l'Al Mutahadun. Il proprietario di un'altra società coinvolta nella trama iraniana, Dubai Money, sarebbe «una figura chiave nell'infrastruttura economica di Hamas per riciclaggio e trasferimento di capitali», sempre per il ministero della Difesa israeliano. I protagonisti dell'affaire negano o tacciono.
All'inizio i cripto-scambi erano irrilevanti, ma dal 2020 sono diventati il sistema principale di finanziamento sommerso a Gaza, «parte essenziale dell'attività operativa di Hamas». Tom Alexandrovich, capo della Divisione difesa al Direttorato nazionale cyber, spiega che è questo il «modo silenzioso» in cui arriva il denaro da Teheran a Gaza, per la debolezza dei controlli e la difficoltà d'identificare gli attori. […]
Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio” martedì 14 novembre 2023.
Il palco è vuoto, c’è soltanto la riproduzione di una casa in mattoncini. Dei bambini in fila lentamente e con attenzione salgono le scale che portano alla scena, hanno in braccio dei fucili finti, sono in mimetica, si danno ordini senza parlare. Si fanno cenni, quello che apre la fila indica agli altri di muoversi. La mimetica è a misura di bambino, ma li ingombra, il fucile invece li sovrasta. Alcuni hanno uno zaino sullo spalle, enorme anche quello. Tutti hanno il volto coperto.
L’avanzata si fa rapida e con un semplice cenno parte l’attacco alla casa in mattoncini, iniziano gli spari che danno il ritmo alla recita di una scuola di Gaza in cui i bambini rappresentano i miliziani di Hamas, la casa è israeliana e tutto ricorda il 7 ottobre.
E’ un’abitazione piccola, che rammenta quelle dei kibbutz colpiti, i bambini che fanno irruzione sparando tirano fuori dei bambolotti che dovrebbero rappresentare dei cittadini israeliani. La gente sotto al palco applaude e, anche se queste immagini arrivano dal 2019, sono state viste e riviste, sono state condannate, sembrano la premonizione di quanto è accaduto un mese fa al confine tra Gaza e Israele.
Tutto era nei piani, tanto che un gruppo di bambini lo metteva in scena. Oggi i soldati israeliani sono dentro a Gaza City, i loro carri armati sono sulla spiaggia della città principale della Striscia, e la forza militare di Hamas dentro Gaza finora si è dimostrata meno tenace e meno organizzata di quanto Gerusalemme temesse.
[…] I bambini che mettono in scena l’attacco contro la casa israeliana sono un esempio di cosa abbia generato l’ideologia di Hamas e di quanto sia stato sbagliato […] non controllare il denaro che per vent’anni è andato a quello che viene chiamato il sistema Dawa di Hamas.
Dawa significa predicazione o chiamata ed è la rete civile di Hamas che sostiene il terrorismo, che incita, smuove, fa propaganda e appunto si occupa dell’educazione dei bambini, come quelli vestiti da miliziani.
Uzi Shaya, ex agente del Mossad, ha seguito e studiato per gran parte della sua carriera questi finanziamenti. [...] Con Shaya il Foglio ha seguito alcune delle principali linee di finanziamento del gruppo ed è arrivato a una cifra importante: il budget annuale di Hamas è di circa due miliardi di dollari.
Il denaro del Qatar. Israele ha sempre saputo e accettato che il Qatar si occupasse del finanziamento di Hamas. […] Sono 360 i milioni che ogni anno il Qatar consegna al gruppo. Prima il trasferimento di denaro veniva effettuato con delle valigie cariche di contanti tracciate da Israele stesso, poi le transazioni sono andate avanti attraverso conti bancari.
Questo denaro dovrebbe servire per la Sanità, le infrastrutture, il carburante e per gli stipendi statali, ma viene destinato soprattutto al sistema Dawa, a religiosi, a famiglie vicine a Hamas, all’infrastruttura civile del gruppo che non va confusa con i civili che di questo denaro vedono poco.
Oltre ai fondi dichiarati […], ci sono anche ong qatarine che mandano circa 70-80 milioni di dollari all’anno e a queste […] va aggiunto tutto ciò che il paese spende per mantenere i leader di Hamas a Doha. In generale, sono 500 milioni i dollari che il Qatar spende per Hamas.
Le tasse dei civili. Con il denaro che entra nella Striscia, con le donazioni – dal 2011 al 2021, a Gaza sarebbero stati destinati circa 26,7 miliardi di dollari di donazioni trasferite dai paesi membri dell’Ocse – con il sostegno internazionale, si fatica a capire come mai lo stipendio medio di un cittadino della Striscia sia di circa 200-300 dollari e come mai la disoccupazione superi il 50 per cento.
[...] la popolazione [...] è anche sottoposta a un rigido sistema di tassazione che colpisce stipendi e qualsiasi merce che entri legalmente o di contrabbando. Dalle tasse ai suoi cittadini, l’organizzazione ricava circa 300 milioni di dollari.
Dalle stime di Shaya emerge che neppure i fondi dell’Unrwa riescono a raggiungere i bisogni dei cittadini e circa il 30 per cento del denaro dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi viene trattenuto. […]
L’Autorità nazionale palestinese. L’Anp non ha mai smesso di dare denaro a Gaza e di destinare alla Striscia parte delle tasse dei suoi cittadini e si tratta di circa 100 milioni al mese, questo denaro serve a pagare gli stipendi di alcuni funzionari ma è anche destinato a finanziare le scorte di acqua e di gas, a finanziare medicinali e programmi di assistenza sociale. L’Anp destina a Gaza circa il 30 per cento del suo budget. […]
Il tesoretto dell’Iran. Da Teheran, il denaro arriva compiendo delle strade più complesse. Passa per il Libano, poi dalla Turchia, e annualmente ammonta a circa 100-150 milioni di dollari. [...]
La sede turca. L’intelligence israeliana ha identificato nella Turchia il centro finanziario di Hamas. A Istanbul ci sono sia un ufficio finanziario sia uno militare. C’è anche un uomo di riferimento: il capo dell’apparato finanziario di Hamas in Turchia si chiama Zaher Ali Moussa Jabarin, era uno degli oltre mille terroristi palestinesi che Israele scambiò per la liberazione del soldato Gilad Shalit nel 2011.
Jabarin risiede in Turchia, […] possiede un passaporto qatarino e si sposta tra Beirut, Doha e Teheran, il suo ultimo incarico è stato quello di gestire i contatti tra Hamas e le Guardie della rivoluzione in Iran.
[…] In Turchia vivono anche molti leader dell’organizzazione, gestiscono aziende e commerci. […] In questi anni gli affari di Hamas si sono espansi, nelle sue mani l’organizzazione gestisce circa quaranta aziende che operano nel settore immobiliare, ha accesso a dozzine di banche turche e anche ai loro istituti corrispondenti in Europa.
I soldi dall’Italia. […] Del sistema Dawa fanno parte alcune scuole e moschee, tutti coloro che sono incaricati di convincere le nuove generazioni, di mandare i bambini su un palco vestiti da miliziani. Nel 2008, l’intelligence israeliana aveva rintracciato circa cinquanta enti di beneficenza che facevano parte dell’Unione del bene oppure Coalizione di carità.
Si tratta di un’organizzazione che fa da ombrello agli enti di beneficenza che poi convogliano il denaro nei fondi di Hamas. L’Unione del bene venne fondata nel 2001 con sede in Arabia Saudita, da allora venne sanzionata da diversi paesi, inclusi gli Stati Uniti.
In Italia no e c’è un’associazione che è tenuta sotto osservazione dall’intelligence israeliana come presunto braccio dell’Unione del bene. Si tratta dell’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, che fa capo all’architetto Mohammad Hannoun. Nel 2021, in seguito a delle segnalazioni dell’Antiriciclaggio, Unicredit fece alcune verifiche sul conto bancario dell’associazione e lo chiuse.
Un secondo conto venne aperto presso il Crédit Agricole, ma venne chiuso. Hannoun è riuscito a conquistare anche alcuni partiti italiani e politici, gli è stato consentito di entrare nelle istituzioni italiane nonostante i sospetti di finanziamenti a Hamas.
Hannoun ha definito l’attacco di Hamas del 7 ottobre autodifesa, ha negato gli stupri e le barbarie compiute dai terroristi. L’intelligence israeliana lamenta un basso livello di allerta e una scarsa attenzione da parte dei paesi occidentali nei confronti del sistema Dawa. Se si continuerà a permettere che si doni denaro per investire nell’incitamento all’odio, sradicare Hamas sarà impossibile. E questa battaglia non si esaurisce a Gaza, va ben oltre Israele, è internazionale.
Affari con Hamas e discorsi d’odio: le zone d’ombra dell’Onu a Gaza. L’Unrwa gestisce da 70 anni l’emergenza dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente. L’agenzia ha ricevuto negli anni miliardi di dollari dai paesi donatori e spesso è stata accusata di connivenza con il gruppo islamista. Daniele Zaccaria su Il Dubbio l'11 novembre 2023
L’Unrwa è l’agenzia delle Nazioni Unite che da oltre settant’anni si occupa per mandato dei rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza ma anche nei campi profughi in Siria e in Libano. Fu creata nel 1948 alla fine della prima guerra arabo- israeliana con i soli voti contrari del blocco comunista che all’epoca vedeva nell’agenzia «uno strumento dell’imperialismo americano». Di fatto i rifugiati palestinesi sono l’unica popolazione che dipende da un organismo ad hoc, distinto dall’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) che gestisce le emergenze umanitarie nel resto del mondo.
C’è subito una cifra che salta all’occhio, qualcosa di difficilmente spiegabile che attiene alla metafisica: l’Unhcr ha a libro paga circa 6400 impiegati per occuparsi di circa sessanta milioni di profughi sparsi in tutto il pianeta ( un operatore ogni 9375 rifugiati) , mentre l’Unrwa dà lavoro a oltre 28mila persone per occuparsi di cinque milioni di palestinesi ( un operatore ogni 178). Si tratta in gran parte di insegnanti, medici e lavoratori sociali, al 95% assunti tra le persone del luogo. Il 70% di loro lavora nel campo dell’educazione, il principale core business dell’agenzia che gestisce programmi pedagogici per 800 scuole elementari e decine di istituti superiori per un totale di 500mila studenti. Il suo budget annuale gravita intorno al miliardo di dollari provenienti in gran parte dagli Stati Uniti, da Arabia Saudita, Iran e Kuwait e dai principali paesi europei più altri donatori non governativi e molto eterogenei come Bank of Palestine, Fondation Real Madrid, Islamic relief Canda e il gruppo giapponese Uniqlo.
Nella sua lunga storia l’Unrwa si è ovviamente occupata di venire incontro ai bisogni materiali dei palestinesi offrendo servizi gratuiti e un’assistenza a tratti essenziale. Ma è stato spesso oggetto di critiche feroci, accusata da Israele di connivenza se non proprio di venire controllata dalle milizie islamiste di Hamas a cui dirotterebbe parte di finanziamenti e di tenere un discorso pubblico ostile all’esistenza dello Stato ebraico. Nel 2014, durante le drammatiche fasi dell’operazione militare israeliana “Bordo di protezione” diverse istallazioni militari di Hamas sono state ritrovate negli scantinati di scuole, ospedali e altri centri gestiti dall’Unrwa, circostanza ammessa dai suoi stessi dirigenti.
Anche la destra americana ha più volte attaccato l’Unrwa per gli stessi motivi, in particolare l’entourage di Donald Trump che durante la sua presidenza ha ridotto in modo significativo il flusso di dollari destinato all’agenzia.
Non solo attacchi politici e di parte, però: nel 2022 l’ong Un Watch, che da trent’anni controlla che le Nazioni unite rispettino la loro Carta fondamentale, ha infatti pubblicato un rapporto che documenta come nelle scuole di Gaza e della Cisgiordania gli insegnanti dell’Unrwa incitino i giovani palestinesi all’odio nei confronti di Israele diffondendo contenuti antisemi-ti e a volte esplicitamente «neonazisti». Vengono citati testimoni diretti ma anche gli stessi programmi scolastici e libri di testo fondati sull’insegnamento della legge coranica e sul rifiuto dei diritti umani in cui gli ebrei sono «assassini», i terroristi di Hamas «martiri» e, manco a dirlo, la Shoah non è mai realmente esistita.
La stessa Un watch ha ricevuto a sua volta critiche per posizioni troppo filo- israeliane e per l’aggressività che ha riservato al Consiglio dell’Onu per i diritti umani ma le conclusioni a cui è giunto il rapporto sono difficilmente smentibili. L’aspetto più allarmante è che sono decenni che l’Unrwa coltiva questa ambiguità di fondo facendo poco e nulla per rimuoverla: nel 2004, quando Hamas non aveva ancora preso il potere a Gaza, l’ex commissario, il danese Peter Hansen ammise che «circa il 30%» degli operatori dell’agenzia sono membri del movimento islamista malgrado quest’ultimo sia considerato un’organizzazione terrorista.
Parole che spinsero l’allora Segretario generale Kofi Annan a non rinnovare il suo mandato. Nel 2009 ci fu anche una denuncia di un ex consigliere, lo statunitense James G. Lindsay che accusò l’Unrwa di non effettuare alcun controllo nel reclutamento dei suoi impiegati e di fare «pochissimi passi» per evitare che l’agenzia venga infiltrata dall’ala militare di Hamas. Più recentemente, nel 2021, è stato il parlamento europeo a esprimere preoccupazione per «l’incitamento alla violenza» che avviene regolarmente nelle scuole palestinesi controllate dall’Unrwa.
Poi ci sono anche le denunce di corruzione e nepotismo, l’accusa di gonfiare i dati demografici dei rifugiati per ottenere più finanziamenti, e poiché si tratta del solo organismo autorizzato a far entrare dollari liquidi a Gaza che rifiuta transazioni via carta bancaria è sospettata di ingrassare la macchina del contrabbando di Hamas in un sistema che, al netto della durissima occupazione israeliana, mantiene da decenni milioni di palestinesi nella più assoluta povertà materiale.
Estratto dell’articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” venerdì 10 novembre 2023.
Follow the money, segui i soldi: «C’è uno strumento cruciale per combattere Hamas. Bisogna tagliar loro i fondi». Uzi Shaya, ex agente dello Shin Bet e del Mossad, indaga da oltre vent’anni sul sistema di finanziamento dei terroristi. […] Hamas conta su un impero economico i cui numeri sono strabilianti. «Nella Striscia entrano ogni anno circa 2 miliardi e mezzo di dollari. Eppure, c’è grande povertà. Di quei soldi alla popolazione arriva ben poco».
Dal solo Qatar, dice, arrivano alla luce del sole 360 milioni di dollari. Che «spesso vanno ai circa 50mila operativi e i funzionari di Hamas, che vivono con le loro famiglie al sicuro e nel lusso. La benzina, invece, se la tengono da parte, immagazzinata nei tunnel».
L’organizzazione, insiste, «preleva dagli stipendi e tassa qualunque merci che entra: legalmente da Israele o clandestinamente dall’Egitto. E da questo ricava un altro tesoretto da 300 milioni di dollari l’anno».
Non basta. A sentire l’agente, preleva trattiene pure circa 30 per cento dei 600 - 800 milioni di dollari introdotti invece dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi.
Altri fondi arrivano dall’Iran: circa 100-150 milioni che passano attraverso “money chage” libanesi o perfino malesi. E poi vengono ulteriormente “ripuliti” attraverso una serie di operazioni gestite da Istanbul, in Turchia, vero centro finanziario di Hamas.
Flussi di denaro, transitano pure dall’Europa – e dall’Italia - attraverso quelle che definisce “false ong”, […] Nelle maglie dei controlli per verificare eventuali finanziamenti ad Hamas, sono finiti dunque anche due conti italiani intestati all’ “Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese”, riconducibile all’architetto palestinese, con base a Genova, Mohammad Hannoun, accusato, senza però avere mai ripercussioni penali, di nascondere dietro al suo gruppo un sostengo economico ai gruppi di kamikaze palestinesi. […]
Un’inchiesta della procura di Genova era finita in un nulla di fatto, anche a causa della mancata collaborazione palestinese. Il primo conto presso Unicredit è stato chiuso dalla banca nel 2021, dopo una serie di segnalazioni all’Antiriciclaggio. Il secondo conto invece era presso il Credit Agricole che dopo alcuni controlli, ne ha predisposto la chiusura nel giro di pochi mesi.
Chi aiuta i palestinesi? Più fondi da Usa ed Europa che dai Paesi arabi. Il ruolo di Iran e Qatar. Storia di Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera giovedì 2 novembre 2023.
I soldi destinati alla Palestina seguono almeno tre flussi. Il primo è quello alimentato dai singoli Stati o da organismi come l’Unione europea. Il secondo è gestito dall’Onu. Il terzo, il più pericoloso, foraggia l’armata terrorista di Hamas. Non è semplice fare i calcoli, perché le cifre oscillano tra fonti diverse.
1. Partiamo dai canali ufficiali. Quali sono i donatori più generosi?
Il Pecdar,«Palestinian economic council for Development and reconstruction», con sede in Cisgiordania, ha raccolto i dati ufficiali dal 1994 al 2021, con riferimenti parziali al 2022 e al 2023. Il 1994 è l’anno successivo agli Accordi di Oslo, quando Yasser Arafat, leader dell’Olp, riconobbe il «diritto all’esistenza di Israele». Ebbene al primo posto tra i finanziatori troviamo l’Unione europea con 7,6 miliardi di dollari. Seguono Stati Uniti, con 5,746 miliardi e Arabia Saudita, con 4 miliardi e così via. Il calcolo non comprende le somme transitate dall’Onu, che vedremo tra poco.
2. Qual è stato il ruolo dell’Unione europea?
L’impegno europeo si è evoluto nel tempo. Dopo una prima fase di soli aiuti umanitari, nel 2003 la Ue mette a punto diversi progetti per lo sviluppo economico, nel quadro della «Road Map for peace», in collaborazione con Stati Uniti, Russia e Onu. L’iniziativa avrebbe dovuto dare sostanza economica alla formula dei «due Stati», Palestina e Israele, indipendenti e sovrani. Da ultimo la Ue ha lanciato la «Strategia comune europea 2021-2024» che può contare su un bilancio pari a 1,17 miliardi di euro. Per ora sono arrivati a destinazione 681 milioni di euro distribuiti tra i sette capitoli del piano, che va dalle riforme istituzionali ai bisogni di base, come acqua ed energia. I fondi dovrebbero servire a pagare anche gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni, l’assistenza sociale e sanitaria per i più deboli.
3. Come si è mosso l’Onu?
Il secondo canale di finanziamenti, sostanzialmente aiuti umanitari, passa attraverso l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei «rifugiati palestinesi nel vicino Oriente», compresa, quindi, la Striscia di Gaza. Qui in testa ci sono gli Stati Uniti con 343 milioni di dollari. Segue la Germania con 202 milioni. L’Italia è al 14° posto con 18 milioni. Il Qatar è ventesimo, con 10,5 milioni. I dati si riferiscono al 2022.
4. Chi finanzia Hamas?
Entriamo nel terzo livello, quasi sempre clandestino. Ue e Stati Uniti assicurano di non aver mai finanziato Hamas. Tuttavia è forte il sospetto che i miliziani di Gaza abbiano usato una quota degli aiuti umanitari per comprare armi e missili. Ora sono sotto osservazione le mosse del Qatar. Nel 2005 il governo israeliano si ritirò da Gaza; Hamas poi vinse le elezioni e chiese aiuto a un Paese amico, il Qatar appunto. Gli «spalloni» di Doha trasportarono valigie di dollari nella Striscia, con il tacito consenso degli israeliani. Gli stessi qatarini hanno dichiarato che dal 2012 al 2021 hanno versato 1,49 miliardi di dollari nelle casse di Hamas, da utilizzare per i bisogni della popolazione. Poi ci sono le entrate occulte. Secondo il dipartimento di Stato americano, l’Iran passa ai jihadisti di Gaza almeno 100 milioni di dollari ogni dodici mesi. Altre donazioni non quantificabili arriverebbero da gruppi di simpatizzanti con basi in Turchia, Kuwait, Malesia. Non basta. Vanno conteggiati gli utili provenienti dal portafoglio finanziario di Hamas: 500 milioni di investimenti immobiliari in Algeria, Arabia Saudita, Sudan, Turchia, Emirati Arabi. Chiudono il conto i 450 milioni di dollari fruttati dal contrabbando di merci, compresa la droga in arrivo dal Sudamerica. Tutto ciò serve a mantenere un esercito e la rete di tunnel che costano tra i 300 e i 500 milioni di dollari all’anno.
Quei miliardari leader di Hamas (che vivono all'estero): ecco dove nascondono tutte le loro fortune. Filippo Jacopo Carpani il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
I vertici del movimento terroristico vivono in Turchia o in Qatar e hanno raccolto immense fortune sfruttando e derubando la popolazione che sostengono di proteggere
Mentre i civili palestinesi vengono usati come scudi umani da Hamas, i leader dell’organizzazione che giura di combattere per loro vivono all’estero nel lusso e gestiscono patrimoni miliardari. La corruzione endemica dei quadri dirigenti del movimento terroristico non è una novità. Nel 2019 Suheib Yousef, figlio di uno dei sette fondatori dell’organizzazione, è fuggito dalla Turchia e, dopo aver raggiunto una località sconosciuta in Asia, ha rilasciato un’intervista alla rete israeliana Channel 12, in cui ha denunciato i canali di arricchimento dei suoi ex superiori.
In particolare, l’allora 38enne ha affermato che uno dei compiti degli agenti di Hamas nei territori controllati da Anakara era intercettare i leader palestinesi in Cisgiordania e in altri Paesi arabi. “Lavoravano per interessi stranieri. Vendono le informazioni all’Iran in cambio di sostegno finanziario”. Il terrorista pentito ha affermato che una delle fonti d’arricchimento principale per i capi corrotti è un prelievo per ogni prodotto contrabbandato nella Striscia e destinato alla popolazione. “I leader di Hamas vivono all’estero in hotel eleganti e grattacieli di lusso”, ha attaccato Yousef. “Mi appello ai leader, incluso mio padre, perché si dimettano da questo movimento corrotto. Sono certo che anche lui sa come stanno le cose”.
Le sue dichiarazioni sono state solo il primo sguardo dietro le quinte di un mondo che, ad oggi, i media arabi hanno denunciato molte volte. Un esempio lampante di questa corruzione è il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, che dal 2020 vive nel comfort di Doha. Suo figlio Hazem Haniyeh ha ottenuto facilmente l’autorizzazione a uscire da Gaza nel luglio 2022, un fatto che ha scatenato sui social la protesta della popolazione bloccata nel territorio. Pochi mesi dopo, il sito saudita Elaph.com ha riferito che Maaz Haniyeh, altro figlio del capo, ha ottenuto un passaporto turco e si è trasferito a Istambul per gestire il vasto patrimonio immobiliare della famiglia, dal valore di circa 4 miliardi di dollari. Non è da escludere in questa situazione lo zampino del presidente Erdogan, i cui legami con Hamas sono molto stretti.
La rivista araba Al-Mallaja ha provato stimare le fortune di alcuni dei dirigenti dell’organizzazione eletti dal 2006: il numero due Musa Abu Marzuk dovrebbe disporre di due o tre miliardi di dollari, mentre l’ex capo politico Khaled Mashal avrebbe il controllo di circa quattro miliardi. Cifre enormi, queste, guadagnate grazie a quasi vent’anni di tirannia su un territorio dove i finanziamenti e gli aiuti internazionali difficilmente vengono impiegati per la costruzione di infrastrutture utili alla popolazione o raggiungono coloro che ne hanno realmente bisogno.
Giulio Meotti per ilfoglio.it - Estratti martedì 17 ottobre 2023.
Nelle jeep usate dai terroristi di Hamas per l’assalto del 7 ottobre sono state trovate numerose sacche dell’Unicef, l’agenzia Onu per l’infanzia, mentre l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati) ieri lamentava il furto di materiale dell’Onu da parte del ministero della Sanità di Hamas.
Hamas ha utilizzato gran parte del cemento donato dalla comunità internazionale per costruire i tunnel, da cui passano armi, esplosivi, cellule terroristiche e il 7 ottobre sono passati anche i 190 civili israeliani rapiti. “Israele ha fatto entrare a Gaza 4.824.000 tonnellate di materiali da costruzione e questi sono stati spesso utilizzati per costruire nuovi tunnel che penetrano nel territorio israeliano”, ha accusato Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu. Ogni giorno dal 2006, 700 camion di rifornimenti, tra cui farmaci, cibo e materiale da costruzione, sono entrati a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom con una media di 3,5 milioni di tonnellate di materiali da costruzione all’anno.
Aiuti arrivati da organizzazioni umanitarie e stati di tutto il mondo nella speranza di migliorare la situazione nella Striscia. In realtà, il ripetuto sfruttamento delle organizzazioni umanitarie da parte di Hamas significa che molti palestinesi a Gaza non hanno mai visto gran parte degli aiuti.
Hamas stanzia il 55 per cento del suo budget per finanziare le necessità militari.
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Un agente di Hamas, Mohammad Halabi, che lavorava nell’organizzazione umanitaria World Vision, è stato condannato per aver dirottato fondi verso Hamas. E’ riuscito a trasferire 7,2 milioni di dollari all’anno, per un totale di 36 milioni di dollari, all’ala militare di Hamas che rappresentano il 60 per cento delle risorse di World Vision a Gaza.
Il denaro, che era stato destinato a programmi di aiuto per bambini disabili, assistenza umanitaria e cibo, è stato utilizzato per acquistare armi, pagare gli stipendi dei terroristi ed espandere la rete di tunnel. Molto denaro dei fondi destinati a progetti civili è stato dato in contanti alle Brigate Izz al-Din al-Qassam, le formazioni militari di Hamas.
Un agente di Hamas si è anche infiltrato nell’Agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), responsabile della ricostruzione delle case di Gaza. E Muhammed Faruq Sha’ban Murtaja, direttore della filiale di Gaza dell’agenzia umanitaria turca Tika, è stato arrestato con l’accusa di aver dirottato denaro a Hamas. Nella sua confessione ha ammesso di aver sfruttato la sua posizione di alto rango nell’organizzazione. Secondo le istruzioni di Murtaja, tredici milioni di dollari donati per la costruzione di venti nuovi condomini sono stati utilizzati per costruire alloggi per gli agenti di Hamas. In totale, Murtaja è riuscito a dirottare quasi 23 milioni di dollari in aiuti ai membri di Hamas e alle famiglie dei terroristi.
Il coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori, Yoav Mordechai, si è rivolto così alla popolazione di Gaza: “Oggi vi parlo dell’organizzazione terroristica Hamas che ruba il vostro denaro per far promuovere il terrorismo. Grazie a una lunga indagine abbiamo scoperto che Hamas utilizza costantemente i fondi che i paesi occidentali versano alle organizzazioni internazionali, come l’organizzazione World Vision a Gaza: milioni di dollari che dovevano servire per progetti di costruzione, per sostenere economicamente i residenti, persino i pacchi alimentari per i bisognosi sono stati dati all’ala militare di Hamas per costruire postazioni, pagare bonus salariali, scavare i tunnel della morte che a voi e alla Striscia di Gaza hanno portato solo distruzione”.
Poi c’è il capitolo delle ong occidentali. Nel video di propaganda si vedono numerosi bambini palestinesi a un festival nella Striscia di Gaza con indosso l’hijab e la mimetica, mentre simulano l’uccisione di israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Il “Festival palestinese per l’infanzia” è stato trasmesso dal canale televisivo di Hamas. Agghiacciante, ma fin qui nulla di nuovo. Se non fosse che questo festival ha uno sponsor speciale: Interpal o Palestinian Relief and Development Fund, la ong inglese finanziata dall’allora leader del Labour Jeremy Corbyn e da altri parlamentari della sinistra britannica. Interpal ha dato 6.800 sterline a questo festival di Hamas. Corbyn e consorte hanno perfino fatto un tour a Gaza. Il fianco umanitarista. Si scrive carità, si legge jihad. Un capolavoro di taqiya.
Quei fondi alla Striscia di Gaza: Così Ue e Arabia pagano Hamas. Redazione su L'Identità il 18 Ottobre 2023
Quei fondi alla Striscia di Gaza: ecco chi ostacola lo sviluppo socio-economico di quella piccola fetta di terra
di CARLO GIOVANARDI
Quando ero vicepresidente della Camera dei deputati invitai a cena Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, ambedue ex presidenti del Consiglio e ministri degli Esteri. La conversazione cadde sulla decisione del Governo italiano di chiudere con il trattato di Osimo del 1975 il contenzioso con la Yugoslavia sulla sovranità dei Territori della Zona B dell’Istria, occupati militarmente dagli slavi sin dal 1945.
Ambedue mi ricordarono colloqui con Arafat, capo dell’OLP, nei quali i ministri italiani indicavano la strada di pace percorsa dall’Italia (lungimirante oggi che siamo tutti in Europa), sulla quale Arafat non ebbe nulla da obiettare anzi lodò la nostra astuzia nel far finta di rinunciare a terre che appena possibile avremmo riconquistato militarmente.
E inutili furono i tentativi di Andreotti e Forlani di spiegargli che sul serio noi non rimettevamo in discussione i confini così come erano stati disegnati dopo la seconda guerra mondiale.
L’episodio mi è venuto in mente ricordando che diversamente da quello che fece la Yugoslavia dei Comunisti di Tito, costringendo all’ esodo trecentomila italiani di Fiume, Istria, Dalmazia e Zara, nel caso così discusso in questi giorni della striscia di Gaza, Israele ha restituito nel 2005 quel Territorio, che aveva occupato nel 1967 nel corso della Guerra dei 6 giorni, alla sovranità della Autorità Palestinese.
Negli anni successivi il controllo di Gaza è stato assunto dall’organizzazione terroristica di Hamas, che dopo aver vinto le elezioni del 2006, ha instaurato un regime nel quale non può esistere dissenso.
Quando pertanto si enfatizza la tragica situazione dei due milioni di abitanti residenti nella Striscia, bisognerà pure porsi qualche domanda.
Tipo: è vero o no che l’Europa e ricchi Paesi arabi sovvenzionano con somme importanti le Autorità della Striscia ?
E’ vero o no che tali importanti risorse, invece di essere destinate al miglioramento delle condizioni economiche e civili della popolazione, vengono dirottate per scavare tunnel, fabbricare od acquistare armi e decine di migliaia di missili con i quali colpire indiscriminatamente la popolazione civile di Israele, a cui si nega il diritto di esistere? E’ vero che dopo il 2006 non si è più votato, e chi dissente, compresi i militanti dell’OLP, viene eliminato fisicamente?
E infine: è vero che la popolazione di Gaza è condannata per sempre ad un futuro di povertà e disperazione?
Nelle tabelle allegate ho messo a confronto la situazione di cinque piccoli Stati, tutti con una densità di popolazione per Chilometro quadrato superiore a quella di Gaza.
Gibilterra e’ ancora contesa tra Inghilterra e Spagna, Hong Kong vive un difficile momento politico dopo essere stato assorbito dalla Cina Comunista, Singapore ha proclamato unilateralmente la sua indipendenza dalla Malesia, Monaco è poco più di una piccola cittadina.
Quello che invece accomuna queste quattro realtà, così lontane culturalmente e geograficamente, è la loro straordinaria ricchezza, frutto di uno strepitoso sviluppo economico.
Se chi legge può avere la pazienza di guardare una carta geografica del Medio Oriente scoprirà che in uno sterminato territorio con decine di Stati arabi e mussulmani, sciiti o sunniti, Israele è un piccolissimo pezzo di terra all’interno del quale c’è la minuscola Striscia di Gaza.
La pace di Israele con l’Arabia Saudita ed altri Paesi arabi, che sembrava a portata di mano, avrebbe creato le condizioni perché Gaza potesse ambire ad uno sviluppo come quello conosciuto da Israele, dove tra l’altro si recavano a lavorare migliaia di palestinesi.
Con la pace tutto si può ottenere, con la violenza ed il terrorismo tutto è perduto: lo sa bene Israele la cui sopravvivenza viene ancora una volta messa in discussione.
Sono convinto che così la pensi anche larga parte del popolo palestinese, che purtroppo però non può far sentire la sua voce.
Fotografi con Hamas il 7 ottobre? L'inviata del TG La7 ricostruisce la bufera sui media di Gaza. Un sito pro-israeliano punta il dito contro Ap, Cnn e Reuters. Paola Mascioli di Redazione digitale su tg.la7.it il 09.11.2023
Le loro foto dei terroristi di Hamas che irrompono nei kibbutz vicini a Gaza, rapiscono civili e incendiano carri armati israeliani la mattina del 7 ottobre hanno fatto il giro del mondo. Ora i quattro fotografi che hanno scattato quelle immagini - diffuse da Associated Press, Cnn e Reuters - sono finiti al centro delle polemiche dopo che HonestReporting, un sito pro-israeliano, ha puntato l'attenzione sulla loro presenza sulla scena di quei crimini, portando alla luce foto compromettenti.
Foto e video "compromettenti"
Sotto accusa ci sono alcuni freelance di Gaza indicati come autori degli scatti del 7 ottobre: Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud, Hatem Ali, Mohammed Fayq Abu Mustafa e Yasser Qudih. In particolare, di Eslaiah il sito ha diffuso un video da lui stesso postato su X - e nel frattempo cancellato - in cui lo si vede, senza elmetto o giubotto che lo segnali come 'stampa', davanti a un carro armato israeliano in fiamme con la didascalia, "in diretta dall'interno degli insediamenti della Striscia di Gaza".
Un'altra foto, sempre segnalata da HonestReporting, mostra Eslaiah abbracciato al leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, con quest'ultimo che gli da' un bacio sulla guancia. Anche Masoud era presente sulla scena del carro armato in fiamme, come Abu Mustafa e Qudih che riprendevano uomini armati che si infiltravano in Israele e infierivano sul corpo di un soldato estratto dal mezzo corazzato.
La Cnn prende le distanze, Ap respinge le accuse
Il dubbio sollevato dal sito pro Israele è se i fotografi, tutti o in parte, fossero a conoscenza dell'attacco di Hamas in anticipo.
Le autorità dello Stato ebraico hanno chiesto spiegazioni ai media internazionali, i quali hanno immediatamente preso le distanze. La Cnn ha fatto sapere di "essere a conoscenza dell'articolo e della foto riguardanti Hassan Eslaiah, un fotoreporter freelance che ha lavorato con numerosi organi di stampa internazionali e israeliani. Anche se in questo momento non abbiamo trovato motivo di dubitare dell'accuratezza giornalistica del lavoro che ha svolto per noi, abbiamo deciso di sospendere ogni legame con lui". Da parte sua, l'AP ha sottolineato che "non era a conoscenza degli attacchi del 7 ottobre prima che accadessero". Stessa linea di Reuters che ha negato "categoricamente di essere a conoscenza dell'attacco o di aver mandato giornalisti 'embedded' con Hamas il 7 ottobre".
Reuters: "Non eravamo presenti"
L'agenzia britannica ha spiegato di aver "acquisito foto di due fotografi freelance basati a Gaza che erano al confine la mattina del 7 ottobre, con i quali non aveva lavorato in precedenza. Le immagini pubblicate da Reuters sono state scattate due ore dopo che Hamas ha lanciato razzi sul sud di Israele e più di 45 minuti dopo che Israele ha reso noto che uomini armati avevano attraversato il confine". Per poi precisare che "lo staff giornalistico di Reuters non era sul posto nei luoghi menzionati nell'articolo di HonestReporting".
«Sapevano in anticipo dell’attentato?»: il report israeliano e i dubbi sui 4 fotografi freelance presenti al massacro di Hamas. Greta Privitera su Il Corriere della Sera giovedì 9 novembre 2023.
L’organizzazione non governativa Honest Reporting e il governo d’Israele chiedono spiegazione a Reuters, Ap, Cnn e New York Times sulla presenza di alcuni fotoreporter che lavorano con loro durante l’attentato terroristico del 7/10
Che cosa ci facevano il 7 ottobre i fotografi di Gaza che lavorano per Associated Press e Reuters, così presto, sul luogo del massacro di Hamas? Sono stati avvertiti dal gruppo terroristico? E le agenzie di stampa che hanno pubblicato le foto hanno approvato la loro presenza in quel territorio insieme ai terroristi? I fotoreporter hanno informato gli organi di stampa?
Quello che è successo sabato 7/10 lo abbiamo visto dai video e dalle foto che sono circolate sui giornali e sui nostri feed social. Ormai siamo certi che Hamas — che progettava segretamente l’attacco da mesi, se non da anni — aveva organizzato anche la parte della «comunicazione» dell’attentato, riprendendo le immagini dei rapimenti con bodycam, delle uccisioni e dei linciaggi.
L’organizzazione non governativa israeliana Honest Reporting , un’associazione che da sempre «monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele», ha pubblicato però oggi una serie di «indizi» e di domande che hanno fatto sorgere qualche dubbio — soprattutto al governo israeliano — su quanto dell’attacco fosse noto ad alcuni fotografi le cui immagini sono state utilizzate da agenzie di stampa e media internazionali.
Nel report il gruppo si chiede come potessero essere presenti sui luoghi degli attacchi quattro fotoreporter con sede a Gaza: Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali. Tutti freelance che lavorano per le agenzie di stampa Associated Press e Reuters e per media come Cnn e New York Times. Per Cnn, Eslaiah ha scattato foto di un carro armato israeliano in fiamme e poi ha catturato gli infiltrati mentre entravano nel Kibbutz Kfar Aza, dove sono state uccise oltre cento persone. Honest Reporting scrive che Eslaiah su X avrebbe postato un’immagine in piedi davanti al carro armato israeliano in fiamme e una didascalia : «In diretta dall’interno degli insediamenti della Striscia di Gaza». La sua è la posizione più controversa. Il collaboratore di Cnn e Ap sarebbe anche protagonista di un filmato in cui è in moto, dietro a un miliziano, e sembrerebbe tenere nella mano sinistra una granata.
Sempre Honest Reporting scrive che poco dopo la pubblicazione dell’articolo, sono stati avvisati di un vecchio tweet in cui si vede Hassan Eslaiah con il leader di Hamas, Yahya Sinwar. Non una prova del coinvolgimento del giornalista nell’attentato ma — secondo il gruppo — una conferma di una conoscenza.
La Reuters ha pubblicato le foto scattate da Mohammed Fayq Abu Mostafa e Yasser Qudih di un carro armato israeliano in fiamme, e un’immagine della folla mentre brutalizzava il corpo di un soldato israeliano.
Honest Reporting fa un’altra domanda: è possibile supporre che dei giornalisti siano comparsi casualmente al confine la mattina presto senza previo coordinamento con i terroristi? Oppure facevano parte del piano?
Difficile avere certezza che i fotoreporter di Gaza fossero a conoscenza del piano di Hamas, perché dalle ricostruzioni degli ultimi giorni si è capito che nemmeno il commando dei miliziani aveva idea di quello che sarebbe successo fino a poco prima di agire. Il dilemma, a questo punto, oltre che etico, diventa legale. Che responsabilità hanno i giornalisti e i fotografi che riprendono crimini di guerra e seguono un gruppo terroristico in azione?
Un portavoce dell’Associated Press ha affermato: «La nostra agenzia non era a conoscenza degli attacchi del 7 ottobre prima che accadessero. Il ruolo dell’AP è quello di raccogliere informazioni sugli eventi dell’ultima ora in tutto il mondo, ovunque accadano, anche quando tali eventi sono orribili e causano vittime di massa. AP utilizza immagini scattate da freelance in tutto il mondo, inclusa Gaza». Honest Reporting scrive che secondo Ynet News, la Cnn ha deciso di sospendere i legami con Eslaiah nonostante non abbia trovato «alcun motivo per dubitare dell’accuratezza giornalistica del lavoro che ha svolto per noi».
L’ufficio stampa del governo israeliano ha rilasciato una dichiarazione affermando di considerare con «severità» queste informazioni, ed etichettando i giornalisti come «complici di crimini contro l’umanità».
«Se ci sono giornalisti che sapevano del massacro, e che hanno scattato foto mentre i bambini venivano massacrati, non sarebbero diversi dai terroristi e la loro punizione dovrebbe essere severa», ha scritto su X Benny Gantz, leader centrista israeliano.
Muhammad Shehada, analista palestinese, accusa Israele di voler screditare i giornalisti di Gaza, gli unici a poter raccontare quello che succede nella Striscia. Per ora, sia Cnn che Ap hanno sospeso la collaborazione con Hassan Eslaiah.
I sospetti sui fotografi di Gaza e il bacio del leader jihadista. Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 10 novembre 2023.
Con le loro fotografie sono stati i primi testimoni dell'orrore, che hanno mostrato al mondo la barbarie compiuta da Hamas il 7 ottobre. Ma ora aleggia un sospetto su 6 fotoreporter della Striscia di Gaza, le cui immagini sono state acquistate e rilanciate nel mondo da colossi dell'informazione come Associated Press (Ap) e Reuters, Cnn e New York Times: sono davvero fotogiornalisti in prima linea o sono invece fiancheggiatori di Hamas, che sapevano in anticipo della strage?
Hassan Eslaiah è l'autore dello scatto in cui si vedono i palestinesi festeggiare su un carro armato preso d'assalto e dato alle fiamme dai terroristi, dopo l'irruzione di Hamas in Israele attraverso la frontiera con la Striscia di Gaza. Yousef Masoud ha mostrato al mondo altre immagini di quella scena, circostanza in cui i soldati israeliani sono stati rapiti. Mohammed Fayq Abu Mostafa e Yasser Qudih hanno catturato anche la scena della folla che brutalizzava il corpo di un militare israeliano trascinato fuori dal carro armato. Non è tutto. Ali Mahmud è l'artefice della foto-shock del pick up che porta via, seminuda e con le gambe spezzate, Shani Louk, la 22enne tedesco-israeliana rapita al rave nel deserto e poi morta per le ferite. Hatem Ali ha immortalato anche lui donne e anziani mentre venivano sequestrati nel kibbutz di Kfar Aza. Scatti di un giorno che ha segnato la Storia.
A chiedersi per primo come facessero a essere sul posto con una tempistica sospetta e se siano stati complici della strategia del terrore di Hamas, è stata per prima l'organizzazione non governativa israeliana HonestReporting. È bastato sollevare la questione per scoprire che almeno uno dei fotoreporter, Hassan Eslaiah, ha qualche altro scheletro nell'armadio. Oltre a un video da lui stesso postato e poi rimosso da X, in cui senza elmetto e giubbotto Press Hassan si mostra davanti al tank in fiamme, c'è un altro filmato, realizzato sempre il giorno della strage, in cui lo si vede sul retro di una moto che con una mano riprende gli orrori e con l'altra tiene in mano una granata. Ma a moltiplicare i sospetti è soprattutto una foto, pare di qualche anno fa, che lo ritrae sorridente mentre il grande leader di Hamas, Yahya Sinwar, mente del massacro, lo bacia su una guancia.
Tanto è bastato per scatenare la reazione dell'esecutivo israeliano, che ha denunciato la «gravità» del fenomeno dei giornalisti che coprono Hamas e ha inviato, tramite ufficio stampa, un'urgente richiesta di spiegazioni alle testate coinvolte sulle «inquietanti rivelazioni». Il leader centrista Benny Gantz, oggi nel governo israeliano di emergenza, ha commentato lapidario: «Giornalisti che sapevano del massacro e hanno comunque scelto di rimanere passivi mentre bambini venivano massacrati, non sono differenti dai terroristi e dovrebbero essere trattati come tali». Il capo dell'opposizione, Yair Lapid, ha rilanciato la domanda: erano a conoscenza delle intenzioni di Hamas? Danny Danon, ex ambasciatore Onu e deputato del Likud, il partito del premier Netanyahu, chiede addirittura che vengano uccisi.
Immediata la replica di Reuters e Ap. Entrambe hanno negato che propri giornalisti fossero «embedded» al seguito di Hamas e hanno spiegato di aver acquistato foto da freelance. Ap ha aggiunto che «le prime immagini sono state prese oltre un'ora dopo l'inizio dell'attacco». E ha precisato che il suo ruolo «è raccogliere informazioni sugli eventi dell'ultima ora, ovunque accadano, anche quando sono orribili e causano vittime di massa». Il Nyt ha difeso Yousef Masoud e avvertito dei rischi di accuse non supportate. La Cnn ha deciso di sospendere i legami con Eslaiah, pur non avendo trovato «alcun motivo per dubitare dell'accuratezza giornalistica del lavoro svolto per noi».
L’orrore di Hamas e la vergogna di certi talk show. Di Franco Genzale il 12 Ottobre 2023 su itvonline.news.
Il terrorismo bestiale e cinico di Hamas. Le cronache di ieri ci hanno restituito il senso plastico dell’orrore. Nel Kibbutz di Kfar Aza, praticamente al confine con Gaza, sono stati rinvenuti centinaia di cadaveri – opera di Hamas, appunto – tra cui quaranta bambini, anche neonati, alcuni dei quali sono stati addirittura decapitati.
Era inimmaginabile, fino a ieri, che la mano dell’uomo potesse arrivare a tanto, e la coscienza cadere così in basso da cancellare ogni traccia d’umanità. Ogni limite è stato ormai superato. Oltre queste scene può esserci soltanto la notte eterna dell’Universo, il Nulla assoluto.
Tuttavia, ancora ieri, non sono mancate immagini e voci deplorevoli nella cosiddetta società civile, quella che dovrebbe essere “normale” e sempre più spesso tale non appare. In qualche talk show di rinomate Tv nazionali si sono avvicendati personaggi d’improbabile arte, ma bravi a recitare la parte, che perfino davanti alla mostruosa realtà di bambini decapitati non hanno saputo resistere alla tentazione di “distinguersi” – orrore dell’egolatria – e con i soliti “se” e “ma” hanno velatamente sostenuto le presunte ragioni di Hamas, elevando così il terrorismo al rango di razionalità e dignità umana.
Decisamente deplorevoli i protagonisti televisivi del bestiale teatro dell’assurdo messo in onda. Ma ancor di più lo sono certi conduttori e certi editori che hanno come codice morale ed etico Sua Maestà l’Audience, e non si fanno scrupolo di dare voce ai difensori dei terroristi e dei criminali di guerra – oggi con Hamas, ieri con Putin – facendo vergognosamente passare un indegno spettacolo commerciale per sostegno alla libertà di opinione.
Arrivano i mostri. Il nuovo circo televisivo con Elena Basile, i soliti retequattristi e i coniugi Boccia. Mario Lavia il 12 Ottobre 2023 su L'Inkiesta.
L’ex (per fortuna) ambasciatrice è la nuova Orsini di La7, il canale dei talk show più acrobatici. Alla Rai è buio pesto, proprio mentre servirebbe un’informazione intelligente e autorevole
Tornano i mostri puntualmente, inesorabilmente. Più la situazione è drammatica e più spuntano da ogni parte, e la tv invece di aiutare a comprendere i fatti eccita i picchiatelli di ogni risma come era successo prima con la pandemia e poi con l’Ucraina. Adesso tocca alla tragedia di Israele scatenare l’ego di personaggi, altrimenti fuori dal giro, che devono farsi notare, gente assurda che disinforma, che non sa niente. Ed ecco che i talk show preparano le sedie per i filo-Hamas comunque camuffati e per i pensosi intellò del terzo tipo a caccia di bisunte contestualizzazioni e distillati di storia desunta dal Bignami nei ritagli di tempo.
La star di questa nuova generazione di mostri è senza dubbio l’ex ambasciatrice Elena Basile, la “nuova Orsini”, che si era già affacciata sul mondo con posizioni, diciamo così, discutibili sull’Ucraina – tanto è vero che era stata subito ingaggiata dal Fatto, dove si reclutano “firme” purché di sicura fede antioccidentale, e la sua firma era “Ipazia”, nom de plume che si richiama a una leggendario personaggio che da sempre e ancora oggi affascina chi, come lei, è alla ricerca della verità e vive nella libertà, come scrisse Silvia Ronchey nella biografia dedicata alla scienziata di quindici secoli fa.
Invece, altro che verità, Basile racconta le cose a senso unico finendo per mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito, come le ha rimproverato Beppe Severgnini, ospite insieme a lei di una puntata surreale di Otto e mezzo (c’erano anche Marco Travaglio e Lucio Caracciolo, e abbiamo detto tutto).
E in effetti affermare che «indifendibile è l’arroganza con la quale l’Occidente crede di appartenere a una civiltà privilegiata, a un giardino assediato dalla giungla» e che «questa opposizione democrazie-autocrazie è una opposizione falsa, perché nelle relazioni internazionali bisogna comporre interessi diversi, entrambi legittimi» è semplicemente una vergogna: la giungla esiste, si chiama Hamas.
Ma se Basile è una new entry nel mostrificio televisivo che purtroppo ci sorbiremo per i prossimi mesi, da Giovanni Floris sono andati in scena l’usato sicuro Alessandro Di Battista, che tra le decine di mortaretti ne ha anche sparato uno a favore di Sergey Lavrov e Vladimir Putin sullo Stato palestinese, una Donatella Di Cesare un po’ confusa e poi anche una sindacalista della minoranza Cgil, una specie di Lotta Continua mezzo secolo dopo, tal Eliana Como, per la quale il principale problema è «togliere l’assedio a Gaza» senza dire una parola sul massacro dei tagliagole, che è poi la “linea” degli studenti che in questi giorni comiziano con il telefonino in mano per leggere il testo del loro bel discorsetto.
Non abbiamo visto il sequel di Cartabianca su Retequattro, regno di Alessandro Orsini, il re dei mostri per la verità un po’ sbiadito, perché impegnati ad assistere al catastrofico debutto di Nunzia De Girolamo su Rai3 con l’intervista al marito Francesco Boccia, una trovata da animatori di un villaggio turistico, emblema di una Rai (quella meloniana) i cui programmi serali fanno spavento – e meno male che il giornalismo Rai si salva con Monica Maggioni la domenica pomeriggio, il resto fa spavento – evidentemente a Saxa Rubra stanno andando persino oltre i mostri, siamo alle tenebre, alla notte della revisione. È proprio mentre servirebbe più che mai un’informazione intelligente e autorevole, in uno dei momenti più drammatici della nostra storia.
Stasera Italia, il dramma di Israele: quanto tempo hanno per andare nel bunker. Il Tempo il 09 novembre 2023
Medio Oriente, il dramma di Israele nelle parole del presidente della comunità ebraica milanese Meghnagi Walker. Tutti parlano dei morti di Hamas ma pochi prendono in considerazione che anche i bambini israeliani stanno soffrendo e morendo. Nessuno prende in considerazione che i problemi psicologici sono dietro l'angolo. Se n'è parlato nel corso della puntata di Stasera Italia in onda il 9 novembre su Rete4.
"Il 35% di Israele è stato evacuato - ha detto Meghnagi Walker - Il sud e l'ovest è stato evacuato. Perché non dicono niente? Perché non dicono che i cittadini hanno dovuto abbandonare le loro case? I bambini hanno dovuto abbandonare le scuole. I bambini israeliani hanno molti problemi psicologici. Ma sapete che quando suona la sirena in un minuto bisogna andare nel bunker? Ma di tutto questo non si dice nulla? Perché non si parla anche di questo? Perché il mondo occidentale non obbliga Hamas a liberare gli ostaggi, a bloccare il lancio dei missili e a discutere con gli Stati che oggi si fanno promotori?".
Il caso. Chi è Elena Basile, l’ex diplomatica al centro delle polemiche dopo le sue parole a ‘Otto e mezzo’: “Peccato che gli ostaggi americani nelle mani di Hamas siano pochi”. Ieri le dichiarazioni del 'ministro plenipotenziario' che hanno fatto infuriare Aldo Cazzullo, altro ospite in studio di Lilli Gruber. La Basile è stata già definita la 'nuova Orsini'. Redazione Web su L'Unità il 12 Ottobre 2023
Ha fatto infuriare Aldo Cazzullo editorialista de Il Corriere della Sera e scaldato gli animi in ‘casa’ di Lilli Gruber. I due erano ospiti, insieme a Paolo Mieli, della trasmissione Otto e mezzo. Elena Basile, ex diplomatica, con questa frase ha scatenato una forte polemica che ancora oggi la vede protagonista: “Peccato perché in effetti, se fossero tanti gli ostaggi americani, gli Stati Uniti potrebbero avere un ruolo di mediazione“. L’argomento era, ovviamente, la guerra esplosa tra Israele e Hamas dopo l’attacco dell’organizzazione terrorista contro lo Stato Ebraico avvenuto lo scorso sabato. Furioso Cazzullo: “Ma come fa a dire una cosa del genere? Finché stiamo scherzando va bene, ma questo…Non è una buona notizia che ci siano pochi ostaggi americani? Ma cosa sta dicendo? Si vergogni della sua erudizione“.
Chi è Elena Basile, l’ex diplomatica
La Basile è già nota per alcuni suoi articoli scritti su Il Fatto Quotidiano con lo pseudonimo di Ipazia. In quegli editoriali, l’ex diplomatica si scagliava contro il governo del Presidente Zelensky, ritenuto colpevole di aver provocato la Russia e quindi di aver scatenato la guerra in Ucraina. Per questo motivo, dopo le frasi contro gli Usa e Israele, è considerata la nuova ‘Orsini‘. Nata a Napoli, il 26 dicembre 1959, la Basile si è laureata presso l’Università Orientale. Nonostante abbia svolto nel corso della sua carriera anche le funzioni pro tempore di capo missione in Svezia e Belgio non è mai stata promossa al grado di ambasciatrice. Ha prestato servizio a Tananarive, Toronto, Budapest e Lisbona.
Le reazioni
Il Sndmae contro la Basile per il suo intervento di ieri sera a ‘Otto e mezzo‘. In una nota, il sindacato rappresentativo dei diplomatici italiani, pur nel rispetto delle libere opinioni di ognuno, “stigmatizza dichiarazioni ed interventi pubblici che gettano un’ombra sulla fedeltà ai valori repubblicani dei membri della carriera stessa, come quelle pronunciate dalla collega, ormai a riposo, Elena Basile, comunque mai iscritta al sindacato e mai pervenuta al grado apicale della carriera, come un utilizzo improprio del titolo di ambasciatrice farebbe presumere. La dottoressa Basile si è infatti dimessa dalla carriera diplomatica con il grado di ministro plenipotenziario, e sebbene, dopo aver servito a Tananarive, Toronto, Budapest e Lisbona abbia svolto nel corso della sua carriera anche le funzioni pro tempore di capo missione in Svezia e Belgio non è mai stata promossa al grado di ambasciatrice.
Il Sindacato rappresentativo dei diplomatici italiani
Non si tratta di una mera distinzione formale – puntualizza il Sndmae – ma di una corretta informazione del pubblico, dal momento in cui l’appellativo di ambasciatore/ambasciatrice incide direttamente sulla percezione dell’autorevolezza dell’interlocutrice. Sono più di cento i diplomatici italiani che rappresentano l’Italia nel mondo come capi missione con rigore e decoro, al servizio del Paese e dei suoi cittadini. Esprimiamo solidarietà e vicinanza di tutta la carriera diplomatica al popolo e allo Stato di Israele per il brutale attacco terroristico di sabato 7 ottobre. Uguali sentimenti sono rivolti a tutti i Paesi che, come l’Italia, hanno connazionali ricompresi nel novero dei rapiti dai terroristi di Hamas, senza distinzione alcuna“.
Redazione Web 12 Ottobre 2023
Non nel mio tinello Appello a spegnere la tv e a non andare più in quei cessi di talk show. Christian Rocca su L'Inkiesta il 12 Ottobre 2023
Il dibattito televisivo è particolarmente indegno quando affronta tragedie come quelle degli ebrei e degli ucraini, ma è arrivato il momento di smetterla di lamentarsene e di seguire l’insegnamento di Giuliano Ferrara
Ricevo continuamente segnalazioni di cose orrende trasmesse dalla tv italiana nei talk show serali e purtroppo ogni tanto mi imbatto su Twitter nelle relative clip di questo o quel saltimbanco, quasi sempre in forza ai giornali reazionari tipo Il Fatto o La Verità, creati dal “pensiero unico del conduttore collettivo” che in realtà è il responsabile primario, non solo il complice, dell’imbarbarimento del discorso pubblico italiano, già reso indigesto dalle fake news, dalle post verità, dalle verità alternative ingegnerizzate per riprodursi in modo esponenziale e poi esplodere come bombe a grappolo su tutti noi.
“La macchina del caos”, raccontata in un magistrale libro di Max Fisher da poco pubblicato in Italia, produce creature insulse e fregnacce in diretta tv particolarmente insopportabili su tragedie come quelle degli ucraini e degli ebrei di Israele, ma in realtà già presenti all’alba della stagione del populismo italiano.
I talk show di questi anni si sono chiamati Piazzapulita, La gabbia, L’aria che tira, Annozero, Bersaglio mobile, Virus, Ballarò, L’Arena, Agorà, Quarto grado, Povera Patria, Popolo Sovrano, Carta Bianca. Un parterre di figuranti trasformati in mangiatori di fuoco che da anni popola trasmissioni televisive che fin dal nome, appunto, incitano al taglio delle teste, alla depressione post atomica, al mettersi le mani a imbuto per vendere pesce al mercato rionale: con questo scenario, sinceramente, non è che ci potessimo aspettare altro che queste acque reflue scaricate sul discorso pubblico e ormai impossibili da depurare.
Certamente esistono alcune eccezioni (il palinsesto di Skytg24 è una di queste, così come Linea Notte e la trasmissione di Monica Maggioni), ma forse per i telespettatori costantemente indignati è arrivato il momento di non lamentarsi più, di spegnere il televisore, di non guardare più le clip sui social, e di comportarsi come se quel mondo malefico non esistesse. Lo predico, inascoltato, da quattro anni, ma vi assicuro che si vivrà molto meglio, la salubrità dell’aria ne trarrà giovamento, sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno.
Quanto alle persone serie invitate ogni tanto nei talk show per fare da foglia di fico necessaria a coprire le vergogne, il suggerimento è di rispondere cortesemente alle richieste di partecipazione ai talk show con la massima pronunciata alcuni anni fa da Giuliano Ferrara in diretta tv da Enrico Mentana: «È l’ultima volta che metto piede in questo cesso di trasmissione».
La libertà di stampa per la sinistra è lasciare Gaza al monopolio di Hamas. Giovanni Longoni su Libero Quotidiano il 9 dicembre 2023
La polemica sull’informazione attorno alla guerra di Gaza imperversa sui nostri social. Ieri Selvaggia Lucarelli ritwittava l’intervista di Francesca Mannocchi a RadioTre in cui l’inviata di Repubblica raccontava che il suo quotidiano aveva accettato, per avere l’ok israeliano ed entrare in territorio di guerra, di sottostare al controllo del materiale filmato. Mannocchi ha provato a spiegare che ciò capita a «tutti i colleghi che sono entrati, Selvaggia. NYT, CNN, Channel4 e che lo hanno, esattamente come Repubblica, dichiarato ai lettori. Succede in tempo di guerra». Appunto, succede spesso. Il controllo sui filmati risponde a criteri di sicurezza (possono essere filmati i volti dei militari o armi sofisticate o altri oggetti sensibili) ed è quasi la norma. Israele, poi, dice Mannocchi, non mette il becco sui testi degli articolisti. Lei stessa difficilmente si può accusare di parzialità filoisraeliana. Eppure la polemica infuria e lo Stato ebraico passa per un regime che impedisce la libertà di stampa.
In guerra l’informazione è sempre stata uno strumento di importanza pari alle armi vere e proprie. Da Sun Tzu a Montecuccoli, i maggiori teorici bellici ne sono stati consapevoli. E anche se il loro collega più influente sulla contemporaneità, Clausewitz, non era di questo avviso, oggi in una società informatizzata si combatte anche con l’informazione. Sia quella ottenuta dai servizi di intelligence, sia dal giornalismo. Lo scontro a Gaza non solo non fa eccezione ma visi assiste a un fenomeno singolare: secondo l’ong americana Committee to Protect Journalists, si tratterebbe del conflitto con il bilancio di cronisti uccisi di gran lunga più elevato degli ultimi 30 anni. Un’altra ong, la famosa Reporters sans frontières, tiene il bilancio giorno per giorno dei professionisti dell’informazione morti durante l’operazione “Spade di ferro”. A ieri sera risultavano 48 caduti, di cui 11 durante l’«esercizio della loro professione».
Secondo un calcolo del Washington Post, i giornalisti deceduti sono il 4% del totale, che ammonterebbe a un po’ più di 1200 persone. Una cifra alta per un Paese di neanche 2 milioni e mezzo di abitanti ma non spropositata, dato l’interesse che riveste a livello internazionale. Un po’ più strano è il fatto che la “copertura” sulla Striscia sia mediata praticamente dai soli corrispondenti locali. Una delle poche agenzie occidentali a possedere un proprio ufficio di corrispondenza a Gaza è la France Presse (AFP), come racconta CNN, ma l’impiego di cronisti palestinesi è la prassi comune. Già di per sè la cosa non suona bene: immaginate la Guerra in Ucraina raccontata soltanto da voci dei due contendenti, ucraini e russi, senza l’intervento di inviati stranieri. Ma soprattutto il problema è che Gaza non è una città come le altre: la governa (-ava) un gruppo terrorista che difficilmente non avrà avuto a cuore il modo in cui il mondo viene informato sul territorio da essa controllato.
Ieri, nei filmati dei terroristi che si sono arresi, qualcuno ha notato il giornalista palestinese Diaa Al-Kahlout, corrispondente della testata qatarina The New Arab, arrestato nel Nord della Striscia insieme ad alcuni parenti. Ong e palestinesi ne invocano la liberazione e accusano Israele di prendere di mira i cronisti perché raccontano la verità sugli abusi di cui si macchierebbe l’IDF. Qualcuno sembra pure crederci ma poi capitano cose come la rivelazione fatta dal sito HonestReporting che ha incastrato quattro fotoreporter che lavoravano per Associated Press, Cnn e Reuters. I quattro erano presenti sulla scena dei crimini del 7 ottobre, ospiti dei terroristi (“embedded” qualcuno ha scritto, come se i tagliagole di Hamas fossero un esercito regolare) e la scoperta ha portato al loro allontanamento dalle testate occidentali. Di fronte a questi fatti, anche l’accusa che l’IDF prenda di mira questi “giornalisti” assume un significato diverso. Ieri per esempio è stato eliminato, centrato da un drone, Refaat Elarir, poeta e collaboratore del New York Times. La stampa progressista, col Guardian in testa, ne ha pianto la scomparsa. Times of Israel, invece ricorda un suo intervento alla BBC in cui dichiarò «legittimo e morale» il massacro del 7 ottobre. Il Daily Mail non ha taciuto nemmeno il suo tweet in cui si prendeva gioco del racconto dei testimoni che avevano trovato in un forno il cadavere carbonizzato di un bambino ebreo. «Lievitato o no?», fu la battuta del poeta palestinese. Che gli è costata la vita.
Intervista a Marco Travaglio. Estratto dell’articolo di Giulio Gambino per tpi.it giovedì 7 dicembre 2023.
Partiamo dal tuo libro, “Israele e i palestinesi in poche parole”. Se ne può davvero parlare in poche parole?
«Io ci ho provato perché penso sia necessaria almeno un’infarinatura generale, un quadro d’insieme di questa storia complicatissima. Poi per chi vuole approfondire alla fine del libro ho segnalato una vasta e trasversale bibliografia.
[…] Mi sembra che invece adesso ci sia la tendenza a dover stare “senza se e senza ma” da una parte o dall’altra. Si parte da un preconcetto e poi si vanno a cercare brandelli di storia che lo confermino, strappando le pagine che non ci convengono. Io invece ho voluto, seppure in sintesi, mettercele tutte. In cento anni di storia i torti e le ragioni si intrecciano, si sovrappongono».
Quali sono dunque questi fondamentali da cui non si può prescindere?
«Non si può invocare il diritto internazionale se poi si nega il diritto di Israele a esistere, legittimato dalla Risoluzione dell’Onu numero 181 del 1947: quella che divide l’ex mandato britannico di Palestina, dal Giordano al Mediterraneo, in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo-palestinese.
Tutt’oggi […] ci sono personaggi anche autorevoli secondo cui il problema di Israele è che non doveva nascere. Ma allora non si può chiedere a uno Stato che tu ritieni abusivo […] di rispettare le altre risoluzioni delle Nazioni Unite. Bisogna partire dalla 181 per poi pretendere che Israele restituisca i territori ancora occupati: il diritto internazionale non funziona a intermittenza, a targhe alterne».
Quella risoluzione fu un errore?
«Assolutamente no. Anzi, se non avessero suddiviso il territorio in due Stati, sarebbe stato subito un bagno di sangue. Ricordiamoci che in quel momento il leader dei palestinesi era il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, uno dei migliori amici di Hitler, uno che aveva reclutato le SS musulmane durante la guerra mondiale ed era arrivato a proporre di avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv per sterminare gli ebrei.
Prima del 1947 c’era stata la Grande Rivolta Araba con scontri e massacri fra ebrei e palestinesi e dopo la guerra del 1948 ci fu la Nakba, l’esodo forzato di centinaia di palestinesi da Israele verso gli Stati arabi e il parallelo controesodo di centinaia di migliaia di ebrei dagli Stati arabi verso Israele. Non era possibile creare un unico Stato in cui convivessero entrambi: si oscillava tra la guerra latente e quella effettiva».
Ha ragione chi ritiene che la comunità internazionale abbia registrato una chiusura a priori verso il riconoscimento del popolo palestinese?
«La risoluzione Onu 181 del 1947 stabiliva che anche i palestinesi avessero il loro Stato. Quello che oggi tutti sogniamo – il principio “due popoli, due Stati” – è nel diritto internazionale da 76 anni.
Purtroppo i peggiori nemici dei palestinesi si rivelarono la loro leadership e gli Stati della Lega araba che li tenevano sotto tutela. Infatti nel ’48, anziché dare vita allo Stato palestinese […], rifiutarono la risoluzione dell’Onu e scatenarono la guerra contro Israele per ricacciare a mare gli ebrei.
Ma persero sia la guerra sia i territori, che in minima parte furono annessi da Israele e in gran parte furono occupati dagli Stati arabi: dal 1948 al 1967 la Striscia di Gaza se la tenne l’Egitto e la Cisgiordania l’annesse la Transgiordania, che si chiamò Giordania proprio per quello.
In quei 19 anni gli Stati arabi non mossero un dito per far nascere lo Stato della Palestina: preferirono usare i palestinesi nei campi profughi come arma propagandistica contro Israele. Intanto preparavano altre guerre e persero anche quelle: quella di Suez nel 1956 e quella dei Sei Giorni nel 1967».
In quei sei giorni Israele si prese tutto.
«Sì, quadruplicò il territorio del ’47. E si impegnò a restituire Sinai, Gaza e Cisgiordania agli arabi in cambio di trattati di pace, che però nessuno Stato arabo volle firmare, perché nessuno di essi riconosceva l’esistenza di quello ebraico.
Solo l’Egitto di Sadat lo riconobbe e firmò la pace, nel 1978, dopo aver perso anche la guerra del Kippur del 1973. Begin restituì al Cairo il Sinai, ma non Gaza, perchè Sadat non la rivolle indietro.
Intanto però Israele iniziò a passare dalla parte del torto colonizzando sempre più la Cisgiordania e la Striscia di Gaza: se sono territori che prevedi di restituire in cambio di pace, non puoi imbottirli di insediamenti ebraici. Infatti, a furia di “fatti compiuti”, oggi quello dei coloni in Cisgiordania è uno dei problemi più importanti da risolvere».
Chi sono i palestinesi oggi?
«Sono divisi in quattro categorie. Oltre 2 milioni di palestinesi sono cittadini israeliani, integrati con tutti i diritti. Altri 3 milioni vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ma non sono cittadini israeliani: vivono sotto occupazione militare […] (salvo rare oasi amministrate dall’Anp dopo gli accordi di Oslo).
Poi ci sono i 2,4 milioni di palestinesi a Gaza, che dal 2006 sono governati da Hamas. Infine ci sono i palestinesi che vivono negli altri Paesi arabi, come Giordania, Libano, Siria, Egitto e penisola arabica. Sono un popolo senza Stato e vivono in condizioni molto diverse a seconda di dove si trovano: le migliori sono in Israele, le peggiori a Gaza e perlopiù anche in Cisgiordania».
Come già avvenuto con il Covid e la guerra in Ucraina, anche nel conflitto israelo-palestinese si verifica sulla stampa italiana un cortocircuito per cui si creano fazioni opposte. Che rende molto difficile parlarne. Una guerra delle parole.
«Si formano due tifoserie ultrà. La Curva Palestina non fa distinzioni tra Netanyahu e lo Stato di Israele, o tra quest’ultimo e il popolo ebraico, o fra il genocidio della Shoah (e di pochi altri casi della storia) e i crimini di guerra perpetrati da Netanyahu a Gaza.
La Curva Israele non distingue tra Hamas, Olp e al-Fatah, fra l’ala politica di Hamas e quella militar-terroristica, e fra tutte queste e il popolo palestinese; e poi tira fuori la Shoah a sproposito, come un alibi perenne, confondendo antisionismo e antisemitismo. Tutti gli antisemiti sono antisionisti, ma non tutti gli antisionisti sono antisemiti.
Ci sono perfino degli ebrei contrari all’esistenza dello Stato ebraico: alcuni per pacifismo o solidarietà coi palestinesi, altri perchè sognano una “Grande Israele” oltre i confini del 1947 e anche oltre quelli del ‘67. È una storia talmente complicata che ingabbiarla in queste due tifoserie non aiuta a capire, ma solo a confondere le idee. I due popoli sono le prime vittime delle loro classi dirigenti che, a fasi alterne, hanno fatto il male non soltanto del popolo avversario, ma anche e soprattutto del proprio».
Quando per esempio?
«Il peccato originale è il rifiuto arabo dello Stato palestinese nel 1947: se anche gli arabi, come gli israeliani, avessero osservato la risoluzione 181, oggi non staremmo qui a discutere e avremmo risparmiato centinaia di migliaia di morti.
I territori che l’Onu assegnava ai palestinesi erano molto più vasti di quelli che oggi rivendicano. Poi ci sono gli errori e i crimini di Israele: la Nakba, le colonie nei territori, le due guerre del Libano […] che hanno prodotto solo massacri (indirettamente anche quello ad opera delle falangi cristiano-maronite a Sabra e Chatila) moltiplicando il terrorismo che si voleva ridurre.
Oggi Netanyahu […] è il peggior premier che potesse capitare non solo ai palestinesi, ma anche a Israele. Che è sprovvisto di una classe dirigente in grado di risolvere la questione palestinese e dunque di dare più sicurezza al proprio Paese: persino il falco Sharon, nel 2004, aveva abbandonato la sua intransigenza e capito che Israele doveva diventare più piccolo per essere più sicuro.
Infatti nel 2005 ritirò esercito e coloni da Gaza e, contestato nel Likud da Netanyahu, lasciò il partito per fondarne uno di centro, Kadima, dove lo seguì anche il laburista Shimon Peres.
Kadima era favorevole a “due popoli, due Stati”, ma purtroppo Sharon fu messo ko da un ictus in mezzo al guado. Il suo braccio destro Olmert proseguì il suo lavoro e, dopo 36 incontri con Abu Mazen, arrivò a proporgli più territori di quelli che i palestinesi rivendicano.
Ma Abu Mazen si tirò indietro e non accettò, forse perché sapeva che se avesse firmato anche l’accordo più vantaggioso che Israele aveva mai proposto, sarebbe finito nel mirino degli estremisti di Hamas e della Jihad islamica come traditore. […] Chiunque, da entrambe le parti, firmi un accordo di pace finisce male».
Un controsenso per il popolo palestinese stesso.
«È accaduto a Sadat, espulso dalla Lega araba e ucciso da un estremista dopo la pace di Camp David. È accaduto ai dirigenti di Fatah, sterminati e cacciati da Gaza dopo che Hamas aveva vinto le elezioni nel 2006. È accaduto sull’altro fronte a Rabin, ucciso da un ebreo estremista dopo la pace di Oslo.
Per questo oggi servirebbero […] degli statisti dotati di coraggio, carisma e autorevolezza per far accettare ai rispettivi popoli una soluzione definitiva: che poi è sempre quella della risoluzione Onu del 1947, due popoli in due Stati.
Il dentifricio è uscito dal tubetto e oggi non c’è nessun leader forte in grado di rimetterlo dentro. E purtroppo ogni volta che fallisce la soluzione negoziale trionfa l’oltranzismo. Infatti, naufragata la proposta Olmert nel 2008, dal 2009 hanno vinto gli opposti estremismi di Netanyahu e di Hamas, che sono fatti l’uno per l’altro: si aiutano a vicenda a non risolvere il problema. Simul stabunt, simul cadent».
Ma questa figura autorevole non può certo essere calata dall’alto, pena il ripetersi di errori cruciali della storia.
«Gli accordi imposti da fuori non hanno senso. Ma certo, possono essere sollecitati con pressioni anche economiche sui due fronti. Dalle grandi potenze. Non però con idee folli come quella lanciata da Biden, che vorrebbe paracadutare a Gaza l’ottantasettenne e screditato Abu Mazen, che durerebbe quanto un gatto in tangenziale.
O i due popoli trovano il modo di fidarsi l’uno dell’altro, o non accetteranno mai di convivere l’uno accanto all’altro: stiamo parlando di 15 milioni di persone, metà ebrei e metà palestinesi, che dovrebbero coabitare in un territorio minuscolo, che in tutto equivale al Piemonte e alla Valle d’Aosta. Non so se mi spiego».
Se appare evidente che il popolo palestinese è privo di una leadership accettata e riconosciuta, come spieghi il successo di Hamas?
«Nel 2006, quando si votò per il Parlamento dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza e in Cisgiordania, Hamas accettò di rinunciare agli attentati kamikaze contro Israele e di “accontentarsi” dei territori occupati dallo Stato ebraico nel 1967 per presentare le proprie liste. Usa e Ue incoraggiarono quella svolta.
Poi però Hamas vinse le elezioni: non perché i palestinesi volevano la guerra, ma proprio perchè Hamas – almeno a parole – sembrava avervi rinunciato, e per punire la leadership di Fatah e dell’Olp vicina ad Abu Mazen dei suoi lussi e delle sue corruzioni.
Ma subito Usa e Ue, oltre a Israele, proclamarono l’embargo su Gaza e incoraggiarono Fatah a riprendersi il potere in Cisgiordania pur avendo perso nelle urne. Una doppia follia: a Gaza gli unici dispensatori di stipendi e stato sociale furono quelli di Hamas, grazie ai finanziamenti di Qatar, Algeria & Co; e i palestinesi capirono al volo che cosa intendiamo noi occidentali per democrazia, una funzione che vale soltanto se le elezioni le vince chi vogliamo noi.
Ora i crimini di guerra di Netanyahu completano l’opera: regalano a Hamas nuovi adepti, perché chi a Gaza non viene ammazzato si convincerà che non c’è alternativa alla lotta armata e diventerà un kamikaze o un adepto di Hamas; e fanno dimenticare agli occhi dei palestinesi l’orrore che molti di essi hanno provato per l’infame pogrom di Hamas del 7 ottobre contro i civili ebrei.
Netanyahu è il primo premier israeliano che ha sempre pensato di poter rimuovere la questione palestinese nascondendo sotto il tappeto 3 milioni di palestinesi in Cisgiordania e 2,4 milioni a Gaza. E ha convinto molti israeliani che il problema, a furia di non parlarne, sparisse da solo. In questo senso, “Bibi” è un corpo estraneo nella storia dei governi israeliani: mai nessun premier prima di lui aveva ostentatamente rifiutato di dare una soluzione alla questione cruciale per la sicurezza e la sopravvivenza dello Stato ebraico».
Qual è l’errore più grande che ha fatto Israele e quale quello dei palestinesi?
«Le leadership palestinesi hanno sempre oscillato senza mai decidersi tra terrorismo e guerra da una parte e negoziato e convivenza pacifica dall’altra. Il più grave errore di Israele è stato prima quello di colonizzare i territori occupati. E poi, appunto, quello di affidarsi per tanto tempo a un criminale di guerra senza alcun progetto politico come Netanyahu.
Che è tutto tattica e niente strategia, niente visione: sarà di Gaza o della Cisgiordania? I suoi predecessori rispondevano […]. Lui non si pone proprio il problema, sperando che se ne vadano tutti i palestinesi: ma sono 5 milioni e mezzo! La verità è che quando finirà la guerra, finirà anche Netanyahu: il suo consenso elettorale è ai minimi storici, ha un gravissimo processo per corruzione e ora dovrà rispondere anche dei crimini di guerra a Gaza e dell’impreparazione che ha favorito il pogrom di Hamas del 7 ottobre. Non augurerei i suoi panni al mio peggior nemico».
[…] Chi sono oggi i fan sfegatati dei palestinesi, sia nella società civile che sulla stampa?
«Non voglio fare liste di proscrizione. Ma, a proposito della Curva Palestina, ho letto l’appello di alcune migliaia di professori universitari che parlano di un’occupazione illegale da parte di Israele da 75 anni e oltre. E così negano la risoluzione 181 dell’Onu, come se gli ebrei si fossero presi quei territori abusivamente.
Ma negano anche l’occupazione egiziana dalla Striscia di Gaza e quella giordana della Cisgiordania dal 1948 al 1967 e perfino il ritiro israeliano da Gaza nel 2005. E non spiegano perché, se la risoluzione 181 che l’ha legittimato alla nascita non vale, dovrebbero valere soltanto quelle successive sul sacrosanto ritiro dai territori ancora occupati.
Se questa ignoranza (o malafede, non saprei) monta in cattedra, che cosa potranno mai sapere e capire gli studenti? Anche per loro ho scritto il mio libricino. Per evitare che qualcuno pensi di risolvere la mancanza di uno Stato palestinese cancellando quello israeliano».
E di Israele?
«Quelli che stanno con Israele senza se e senza ma dicono che si sta difendendo, mentre si sta vendicando per il pogrom del 7 ottobre con un rapporto che ormai supera i dieci morti a uno. Dicono che sta combattendo il terrorismo, mentre lo sta rinfocolando e moltiplicando, e mette a rischio anche noi in Europa.
Non riescono neppure a dire ciò che scrive ogni giorno la migliore stampa israeliana e ripetono le migliaia di manifestanti in Israele. Non ammettono che […] Netanyahu è entrato di diritto nel club dei criminali di guerra e dovrà risponderne dinanzi alla Corte suprema israeliana e, se si sveglia, anche dinanzi alla Corte penale internazionale, oltre a fare il male del suo Paese e del suo popolo».
Netanyahu dovrebbe dimettersi?
«Subito. È il principale alleato di Hamas e il principale ostacolo a un negoziato per chiudere questa guerra dei cent’anni. D’altronde è la stessa storia della guerra in Ucraina…».
Cioè?
«Fino a qualche mese fa, se dicevi che Russia e Ucraina dovevano sedersi a un tavolo per negoziare, passavi per un servo di Putin. Ora lo sostengono tutti perché adesso lo dicono gli americani. Sui giornali oggi tutti scrivono quello che scrivevano il professor Orsini e altri sul Fatto un anno e mezzo fa, finendo regolarmente nelle liste di proscrizione dei presunti putiniani».
Questo perché siamo servitori degli interessi Usa nel senso che, letteralmente, il nostro Paese fa quello che Washington gradisce?
«Esatto. Siamo colonizzati e felici di esserlo. Ma c’è di peggio: contiamo talmente poco che spesso gli americani si scordano pure di avvertirci dei contrordini e quindi rimaniamo fermi al penultimo ordine: continueremo a inviare armi a Zelensky quando Washington avrà smesso da un pezzo». […]
Cronaca vera. Il falso appello alla Scuola Holden e le inutili smentite nell’era della postverosimiglianza. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Novembre 2023
Un cretino anonimo ha scritto un testo sgrammaticato per invitare a boicottare i docenti israeliani e sionisti, attribuendolo a sei ignari insegnanti. E ne è seguita una vicenda, scusate i termini, orwelliana e kafkiana
Non so come, fino a due mesi fa, rispondessi ai messaggi che contenevano link a notizie assurde, messaggi che come tutti voi ricevo a decine ogni settimana, essendo ormai il numero di notizie che ci paiono folli o paradossali o insensate parecchio superiore alla capienza della nostra attenzione.
Da due mesi, uso sempre una vignetta disegnata da Evan Lian e pubblicata a settembre sul New Yorker. C’è un ring di boxe, i due pugili negli angoli, e in mezzo l’annunciatore che dice: «In questo angolo, un tizio che descrive tutto come “orwelliano”, e in quest’altro angolo uno cui piace molto dire “kafkiano”».
La storia di oggi è orwelliana, è kafkiana, ma soprattutto è la storia che mi ha fatto capire che la postverità è un falso problema: il guaio è che viviamo nell’era della postverosimiglianza.
Un po’ gli strumenti non incentivano la riflessione – mica mi starete dicendo che, in quei venticinque secondi in cui, al cesso, spollicio il cellulare, devo mettermi a vagliare ciò che cuoricino o condivido – e un po’ la deriva irrazionale del mondo rende tutto verosimile, e questo da ben prima dei social: se ai nostri nonni cinquant’anni fa avessero detto che mangiare la mortadella era una forma di militanza adottata da un parlamentare, avrebbero chiesto il ricovero in manicomio di chi lo ipotizzava; poi quindici anni fa è diventato vero, senza prendersi il disturbo di passare per la verosimiglianza.
Quindi, nel regno dell’inverosimiglianza, qualche giorno fa inizia a girare una lettera con sei firme. Il testo è di facile socializzazione, essendo breve e avendo gli abitanti di questo secolo la soglia d’attenzione dei moscerini.
«Lettera aperta alla direzione didattica della Scuola Holden – I sottoscritti docenti chiedono che davanti all’opera di genocidio perpetrata dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese il consiglio della didattica esprima una posizione certa e non derogabile a pareri personali dei singoli docenti su quanto sta avvenendo in questi giorni. I nostri studenti senza esitazione ci hanno dimostrato di voler essere protagonisti di un cambiamento culturale contro il patriarcato e il colonialismo, una modalità didattica che trova pieno svolgimento nella nostra opera quotidiana ma che viene stravolta da alcuni docenti e responsabili di sedi esterne creando problemi di identità alla nostra missione educativa. Chiediamo quindi alle direzione di didattiche di esprimersi senza paura su questi comportamenti singoli, giustificazionisti dei massacratori israeliani, che portano in dote fake news e notizie non verificabili per sbilanciare il piano comunicativo. Essere oggi accanto al popolo palestinese contro l’aggressione sionista israeliana vale di più di ogni sforzo didattico o fondo privato che sostiene la nostra scuola».
Prima di proseguire con la cronaca, è il caso di soffermarci sul crollo delle istituzioni, una delle questioni che più hanno contribuito a portarci nell’era della postverosimiglianza. Una volta esisteva un portato culturale delle classi sociali – i milionari non postavano didascalie sgrammaticate su Instagram – ma soprattutto un portato culturale delle istituzioni culturali.
Leggevamo che una certezza veniva da uno studio realizzato a Harvard, e ci illudevamo di poterci fidare. Poi sono arrivati i social, e qualunque imbecille scriva una cosa che se la dicesse nostro cognato al pranzo di Natale ci sotterreremmo dalla vergogna, su quel qualunque imbecille ci clicchi e ci trovi una cattedra, un dottorato, una sfilza di Ivy League. Almeno nostro cognato fa l’elettrauto.
Qualche tempo fa mi hanno raccontato che un docente della Holden ha fatto vedere alcune puntate di “The Office” agli allievi, agli allievi iscritti a una scuola per diventare creativi, autori, intellettuali, e che gli allievi si sono offesi per la cattiveria delle battute e delle situazioni e hanno protestato con la direzione.
Come tutti noi per cui la verità non è un criterio, non ho verificato se la storia fosse vera, ma non ho esitato a crederci. Era verosimile che alla più prestigiosa scuola di scrittura d’Italia fosse iscritta gente che non ha mai guardato Ricky Gervais, e che se lo guarda si offende; era verosimile che persone totalmente inadeguate accedessero a istituzioni che un tempo sarebbero state garanzia di qualcosa.
E quindi io li capisco quelli che hanno letto quelle righe in cui si chiedeva l’allontanamento dei docenti israeliani – pochi giorni fa, alla Holden aveva tenuto una lezione Ilan Pappé, storico israeliano che insegna in Inghilterra – e non si sono posti il problema della verosimiglianza delle firme.
Del fatto che a chiedere che agli israeliani non fosse permesso parlare fossero Loredana Lipperini, Elena Varvello, Matteo Nucci: non influencer che scrivono Palestina coi numeretti convinti che l’algoritmo li discrimini, ma intellettuali che una volta avremmo dato per scontato non sottoscrivessero appelli da assemblea d’istituto.
Oggi non lo diamo per scontato, ma più ancora non ci poniamo il problema. E fa tenerezza guardare le foto della questura di Torino postate da Loredana Lipperini, così novecentesca da credere nella tutela della reputazione, che è andata a denunciare ignoti per essersi appropriati del suo nome.
Ha fatto bene, lo dico senza alcuna ironia, ma – poiché conosco le regole della postverosimiglianza e ve ne farò dono – so che ora succederanno due cose. La prima è che inevitabilmente ci sarà gente che vedrà la lettera e non le smentite, e quindi resterà convinta che lei e gli altri abbiano firmato quel verbale da assemblea d’istituto contro il patriarcato e il colonialismo. Andreotti aveva torto: una smentita non è una notizia data due volte, una smentita è una goccia perduta nell’algoritmo.
L’altra cosa che accadrà è che qualcuno se ne dovrà occupare, di questo cretino, o cretina, o gruppo di cretini che ha messo sotto un testo dei nomi di intellettuali che quel testo non l’avevano mai visto, di questo nostalgico degli appelli contro Calabresi che voleva fare un po’ di casino, di questo Jannacci in sessantaquattresimo che voleva stare a vedere l’effetto che fa.
E, tecnicamente, chi se ne deve occupare è la Digos, cioè quelli che investigano sulle attività terroristiche. E quindi, come ogni volta che qualcuno sui social annuncia denuncia contro qualcun altro che gli ha detto «ma sei scemo?» o simili, io penso: ma con le mie tasse? Ma veramente vogliamo intasare i tribunali con queste stronzate?
L’avrei denunciato anch’io, uno che avesse firmato col mio nome una cosa non scritta da me, figuriamoci: ho pensato per anni di denunciare mia madre che quando morì mio padre pubblicò un necrologio scritto nel di lei italiano ma firmato da me, sembrandole più grave che non ci fosse un mio necrologio che non che qualcuno potesse pensare che mi esprimessi per frasi fatte (il mio vicino di casa mi disse «ho visto il tuo necrologio»: avrei dovuto capirlo quel giorno, che eravamo nell’era della postverosimiglianza).
L’avrei denunciato epperò vorrei una riforma del codice penale in cui il cretino del caso viene condannato a studiare di cosa si dovrebbe occupare, la Digos, invece che delle sue puttanate. E, già che ci siamo, anche ad apprendere un uso parco ma corretto di «orwelliano» e «kafkiano»: in questo caso, vanno bene entrambi.
Cattivo Mattino. L’oscena reiterazione della menzogna sugli ebrei che hanno ucciso Gesù. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 28 Novembre 2023
Un piccolo giornale locale pubblica in prima pagina un titolo antisemita che alimenta una bugia conclamata su cui si fondano secoli di persecuzione
Come giudicare il caso di un giornalino che non conosce nessuno, “Il Mattino di Puglia e Basilicata”, che se ne esce con un titolo pescato in purezza dalla più fetida e antica fogna della propaganda antisemita? Bisognerebbe, forse, giudicarlo secondo quel criterio: che non importa, perché a leggerlo sono tutt’al più i polpi e gli sgombri, la roba da incartocciare con quel foglio altrimenti inutile. Ma sarebbe un criterio sbagliato, esattamente come giudicare i giovanotti che ruttavano nelle birrerie di Monaco considerandone l’isolata irrilevanza.
Se non per altro, è perché ancora sono vivi coloro che furono bambini nelle scuole in cui il maestro ordinava agli allievi di sputare in faccia al compagno che «aveva ucciso Gesù Cristo», se non per altro è già solo per questa memoria che un titolo simile (ora vediamo qual è), per quanto grandeggi su un foglio sconosciuto e degno soltanto dell’immondezzaio, dovrebbe essere considerato molto seriamente.
Scrivere, anche se solo da un trivio di Puglia e Basilicata, e alludendo alle vittime infantili dei bombardamenti, che ci sono «6.150 Gesù uccisi da Israele», non rappresenta una contestazione dell’iniziativa israeliana dopo il pogrom del 7 ottobre e non serve in nessun modo a contrastarne le ragioni: rappresenta la vergognosa reiterazione della menzogna su cui si fondano secoli di persecuzione e serve ad attizzare l’odio discriminatorio e la violenza cui drammaticamente tocca assistere da alcune settimane in qua.
Ma non basta. Perché quella porcheria di titolo è la copia ridotta e vernacolare di una proclamazione più levigata e diffusa, e ben più accreditata: una infamia che in modo solo formalmente e grammaticalmente più inibito risuona negli spropositi dell’Onu secondo cui gli sgozzamenti, gli stupri e i rapimenti non vengono dal nulla e nelle divagazioni degli avvocati farlocchi sulla lobby ebraica che ha soggiogato le democrazie genocidiarie.
La risicata visibilità di una sconosciuta pubblicazione provinciale sarebbe consolante se non denunciasse un fenomeno più ampio, come lo scarafaggio che sbuca dal cesso denuncia la nidiata che infesta il ventre della casa. Ma appunto: più grave e pericoloso è il fatto che quella sguaiata e oscena enormità ridondi in forme appena più ritenute nelle riflessioni perfettamente rispettabili di tanto buon giornalismo di casa nostra ed estero, nelle fesserie geopolitologiche dei peggio tromboni su piazza, negli slogan dell’accademia embedded in Settembre nero. Senza il coro ufficiale che non li fa propri solo perché non sta bene, non ci sarebbero giornali «di Puglia e di Basilicata» con quei titoli.
Tagliagole dal volto umano. La formidabile strategia di comunicazione di Hamas, e le complicità degli utili idioti. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 27 Novembre 2023
La liberazione di alcune persone tenute in ostaggio dal gruppo terrorista palestinese a un mese e mezzo dal pogrom del 7 ottobre è stato accolto come un gesto caritatevole. Merito anche dei media che non hanno quasi mai parlato dei prigionieri, attaccando solo Israele
Non è cosa da poco riuscire nell’impresa di assassinare milleduecento civili, deportarne qualche centinaio e rilasciarne dopo un mese e mezzo qualche decina passando per gente civile e caritatevole. Senza ironia: tanto di cappello agli strateghi della comunicazione dei massacratori del 7 ottobre.
Va detto però, una volta riconosciute le indubbie capacità comunicazionali dei tagliagole, che a tanto risultato non sarebbero mai giunti senza il fattivo contributo del collaborazionismo pacifista che per settimane e settimane ha fatto le prime pagine, le seconde pagine, le terze pagine, le quarte pagine, le quinte pagine e dentro fino all’ultima, fino al meteo e all’oroscopo, senza neppure una virgola dedicata agli ostaggi oppure con qualche giudiziosa riflessione sulla protervia di Israele che non si rassegna all’idea che anche quella, signori miei, è resistenza, anche rapire donne e vecchi e bambini appartiene al comprensibile comportamento che, come l’atto di sgozzare, decapitare, stuprare, bruciare vivi centinaia di civili, e gioirne, e proporsi di rifarlo dal fiume al mare, è roba che mica viene dal nulla, accidenti.
Senza questo bell’apparato di negazionismo giustificazionista sarebbe stato un po’ più difficile assistere al clima di favore celebrativo non già per il ritorno a casa degli ostaggi, bensì per le doti umanitarie dei rapitori: altro che la ferocia dell’entità sionista tanto ingrata, tanto sprezzante, tanto ingenerosa, che ha la sfrontatezza di non costituirsi all’Aia mentre gli ostaggi liberati dichiarano che il vitto era ottimo e abbondante.
Non per tutti, fortunatamente, ma per moltissimi eccome, sia gli sterminati sia i deportati durante il pogrom del mese scorso erano i dimenticati del giorno appresso: ma quando andava bene, perché non raramente si spiegava – e non solo a suon di berci nelle manifestazioni «Fuori i sionisti da Roma», ma anche sul filo editoriale delle complessità – che in guerra queste cose succedono e che in guerra ci sono i prigionieri di guerra, pressappoco il modulo interpretativo che attribuisce alle cose inopinate della guerra l’eccidio di Bucha, le stanze della tortura di Yahidne e la deportazione di migliaia di bambini ucraini.
Anche nel caso di quei mostruosi misfatti, non c’è che dire, è stato ottimo il lavoro negazionista della propaganda mandata in battaglia con l’operazione speciale: ma anche in quel caso è stato e continua a essere formidabile l’aiuto del collaborazionismo pacifista, quello che dal 25 febbraio del 2022 annotava che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione», quello che i bambini rapiti erano in realtà provvidenzialmente sottratti ai genitori che volevano mettergli addosso le cinture esplosive, quello che i mercati rasi al suolo erano depositi di armi della Nato, quello che le scuole incenerite erano covi nazisti, e via così.
E in perfetta e contrapposta armonia nel nuovo scenario quel pacifismo collaborazionista è adesso quello che non solo non denuncia, ma persino giustifica gli RPG sotto le culle dei neonati e le granate e i Kalashnikov nelle corsie dei malati. Tutto per la pace, ovviamente. La pace delle decapitazioni e dei bunker sotto gli ospedali imbottiti di civili. E la pace degli ostaggi, molestati dai bombardamenti.
Distrazione di massa. La rete propagandistica antisemita del Cremlino. Antonio Pellegrino su L'Inkiesta il 18 Novembre 2023
Da un mese Mosca ha intrapreso una campagna militante mediatica anti israeliana per lavarsi la coscienza dei crimini umanitari commessi contro Kyjiv, cercando così di spostare l’attenzione globale dalla guerra in Ucraina
Dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre e lo scoppio del conflitto in Medio Oriente, la Russia ha iniziato a giocare la carta dell’antisionismo (in molti casi, dell’antisemitismo puro) per dare nuova linfa alla macchina della propaganda di stato. La retorica putiniana esce indebolita dal lungo stallo militare in Ucraina ed è per questo che il Cremlino ha un bisogno disperato di nuove parole d’ordine, tanto estreme quanto sconnesse e incoerenti.
Così, dopo la battaglia per la denazificazione a cui si è aggiunta la crociata per i valori tradizionali contro l’Occidente degenerato, il Paese che ha scritto “I Protocolli dei Savi di Sion” rispolvera la storia dell’ebreo cattivo per giustificare la guerra contro il governo di Kyjiv. Propagandisti di regime, ufficiali dello stato maggiore, neonazisti dichiarati e una serie di canali Telegram dedicati alla diffusione di fake news compongono la rete antisemita di Vladimir Putin, una rete che da più di un mese ha avviato una campagna martellante per sfruttare la questione israeliana al fine di indebolire l’Europa e gli Stati Uniti. L’accusa principale rivolta contro i paesi occidentali è quella di aver adottato un “doppio standard” tra la risposta militare di Israele e l’invasione russa: «l’Occidente condanna ed esagera le azioni della Russia in Ucraina mentre minimizza i crimini israeliani a Gaza» ha dichiarato Kirill Semenov, analista del Russian International Affairs Council (think thank accademico filogovernativo) sostenendo quanto il doppio standard sia «ovvio».
A questo approccio vittimistico si aggiunge una colpevolizzazione di Israele che ribalta la realtà; un esempio surreale è stato offerto da Vladimir Solovyov, conduttore di punta del regime e megafono della «guerra santa contro i satanisti», che commentando i bombardamenti israeliani ha sentenziato «stanno radendo al suolo Gaza […] noi russi non combattiamo così, nemmeno lontanamente». Il bombardamento di Gaza è diventato il cavallo di battaglia di Solovyov che rincarando la dose afferma: «Spero che l’Occidente smetta di parlare delle brutalità dell’armata russa. Volete le brutalità? Guardate l’esercito israeliano […] Ora vi è chiara la differenza tra una guerra e un’operazione militare speciale». Non importa ricordare l’ampia documentazione dei bombardamenti sui civili da parte dell’esercito russo, per la Tv di stato putiniana Israele è diventato il termine di paragone per lavarsi la coscienza e negare la realtà, tanto che i più accaniti guerrafondai contro l’Ucraina si sono riscoperti pacifisti.
Ad affiancare Solovyov troviamo personaggi come Margarita Simonyan, caporedattrice di Russia Today, principale diffusore di fake news filorusse in Europa fino alla messa al bando nel 2022, e Olga Skabeyeva – soprannominata “la bambola di ferro di Putin Tv» per i suoi attacchi contro l’opposizione democratica – che ha definito quella di Israele una guerra «contro i mussulmani», una carneficina che ha tra i suoi principali responsabili gli Stati Uniti di Joe Biden perché «solo gli americani possono fermare questo bagno di sangue, ma al momento stanno facendo tutt’altro».
A fare da contraltare a questa narrazione finto-pacifista c’è la galassia neonazista russa e in particolare il gruppo Rusich – unità paramilitare di estrema destra attiva in Donbas dal 2014 e impegnata nella guerra contro Kyjiv sotto il comando della Wagner – che sul suo canale Telegram ha commentato entusiasticamente gli attentati di Hamas del 7 ottobre («è un peccato non poter partecipare»). Al gruppo del neonazista Milkacov si aggiunge il canale nazionalista Grey Zone che invoca la «demilitarizzazione e la denazificazione di Israele» augurandosi lo sterminio di massa della popolazione ebraica.
Le posizioni deliranti degli opinionisti russi sono accompagnate dalla diffusione sistematica di fake news sul conflitto, un’operazione finalizzata a inquinare i pozzi e mettere in discussione i media che dal 24 febbraio 2022 documentano le stragi russe in Ucraina; l’esempio più plateale è un articolo pubblicato da Komsomolskaya Pravda dal titolo “La Buča di Israele” in cui si paragonano le decapitazioni dei bambini israeliani da parte di Hamas al massacro di Buča perpetrato dall’esercito russo nel marzo 2022. Per i giornalisti del regime, entrambi sarebbero dei falsi creati ad arte dall’Occidente per infangare i suoi avversari.
Altre fake news avallate dal governo riguardano il presunto utilizzo delle armi destinate all’Ucraina nel conflitto, tesi sostenuta dallo stesso Vladimir Putin e dall’ex premier Dmitrij Medvedev – «le armi date al regime neonazista ucraino vengono usate attivamente in Israele» – così come il rilancio dei comunicati di Hamas come uniche fonti di informazione sui principali casi di cronaca (il Cremlino ha immediatamente attribuito allo Stato di Israele la responsabilità per il bombardamento dell’ospedale di Gaza). In un articolo pubblicato dal Carnegie Endowment for International Peace, il giornalista ed ex diplomatico Alexander Baunov ha spiegato le ragioni dietro questa operazione di Vladimir Putin: accomunando Israele e Ucraina, si fortifica l’idea avallata dal regime russo di una contrapposizione tra il vecchio ordine mondiale (trainato da Stati Uniti e Unione Europea) e il mondo multipolare di cui la Russia rappresenterebbe la testa di ponte, un blocco che coinvolgendo i paesi in via di sviluppo includerebbe per forza di cose anche il mondo arabo, o meglio, quella parte di mondo arabo ferocemente anti-occidentale.
È per questo delirio geopolitico che oltre a rinsaldare i legami con la teocrazia di Teheran, Vladimir Putin ha accolto una delegazione di Hamas al Cremlino lo scorso mese, elevando l’organizzazione terroristica a interlocutore nel Medio Oriente. Un mix di duginismo – l’occhiolino all’Islam radicale come custode dei valori tradizionalisti contro il liberalismo euroatlantico – e di terzomondismo anti-americano per cercare di coprire tutte le fazioni dell’area anti-occidentale. Da sola, la retorica putiniana è talmente sgangherata che non basta il nemico ebreo per reggerla in piedi, è per questo che il vero obiettivo della Russia è un altro: sperare che la questione israeliana monopolizzi l’attenzione dell’opinione pubblica, contribuendo al disinteresse per la guerra scatenata contro l’Ucraina. Un motivo più che valido per continuare a denunciare il regime di Putin.
Propaganda condivisa. La macchina della disinformazione russa adesso lavora anche per Hamas. Maurizio Stefanini su L’Inkiesta il 28 Novembre 2023
La quantità di fake news diffuse dal Cremlino ha raggiunto livelli senza precedenti con diverse reti di bot e i soliti account falsi. Un lavoro sporco attuato già da mesi per disinformare sulla guerra in Ucraina e poi ripetuto in Medio Oriente dopo il pogrom del 7 ottobre
Quando iniziò la guerra in Ucraina, fu presto evidente che sui social molti utenti già attivi sul fronte No Vax erano diventati pro Putin. Adesso, un fenomeno simile vede i pro Putin schierarsi con Hamas. In più, con un uso sempre più massiccio dell’intelligenza artificiale per creare contenuti fake. Lo scorso giugno erano già state le autorità francesi a rilevare la presenza di repliche perfette dei siti di grandi testate, immagini «deep fake» generate dall’intelligenza artificiale e profili fasulli in particolare su X per diffondere notizie false sulla guerra in Ucraina.
Sempre in Francia, il 2 novembre da Le Monde era arrivata la notizia che un account Telegram legato a campagne di disinformazione era stato il primo a condividere una foto delle stelle di Davide dipinte sui muri di Parigi tracciate da due cittadini moldavi pagati da uno straniero che non conoscevano e che si è poi rivelato essere russo. E France Press osservò che «la campagna di disinformazione russa ha iniziato una nuova fase il 25 ottobre, quando i bot russi hanno inondato i social media come X (precedentemente noto come Twitter) con articoli falsi sulla guerra in corso tra Israele e Hamas che screditano l’Ucraina».
Il 6 novembre fu il New York Times ha spiegare che secondo le informazioni di funzionari e ricercatori «il volume della disinformazione e della propaganda online sta raggiungendo livelli senza precedenti, in gran parte a causa delle reti di bot e di account falsi». «In un solo giorno dall’inizio del conflitto, circa un account su quattro su Facebook, Instagram, TikTok e X che pubblicava post sul conflitto sembrava essere falso». «Nelle ventiquattro ore successive all’esplosione all’ospedale arabo Al-Ahli, più di un account su tre pubblicato su X era [falso]». L’11 novembre ad un Forum per la Pace a Parigi era stato il vice-presidente di Microsoft Brad Smith a accusare la Russia di stare diffondendo «disinformazione» sulla guerra tra Israele e Hamas. Un’altra ricerca ha appurato che era un gruppo di sessantasette account X a diffondere disinformazione coordinata sulla guerra tra Israele e Hamas.
Adesso è stata Haaretz mettere assieme le varie cose, rilevando come l’offensiva di bot russi a favore di Hamas stia appunto diffondendo in modo massiccio contenuti fake fabbricati con l’intelligenza artificiale. Un esempio citato è una replica esatta di Fox News in cui si vedevano congressisti statunitensi dirottare sull’Ucraina aiuti previsti per Israele. Un altro è un sito identico al portale israeliano Walla secondo cui l’assalto all’aereo proveniente da Tel Aviv nell’aeroporto in Daghestan sarebbe stato un’operazione dell’intelligence ucraina. Un terzo era un finto articolo dello Spiegel che attribuiva al conflitto tra Israele e Hamas l’aumento dei prezzi dell’energia in Germania.
È l’evoluzione segnalata al convegno «Disinformation across the EU-Ukraine Media Landscape», tenutosi a Madrid il 20 e 21 novembre. In particolare, in un panel dedicato alla disinformazione da parte di Russia e Iran e nella relazione «The design and deployment of hybrid threats», a cura di David Arroyo: ricercatore esperto in Cybersicurezza presso la Universidad Carlos III di Madrid. Corrispondente a un paper pubblicato autonomamente, l’intervento rileva come nei primi tre giorni della crisi «funzionari e media iraniani hanno diffuso numerose notizie false che supportano i propri interessi, principalmente diffondendo narrazioni antisemite». Alcune immagini presentate come militanti di Hamas che catturavano generali dell’esercito israeliano, ad esempio, si riferivano in realtà a commandos azeri che avevano arrestato funzionari armeni del Nagorno Karabakh un paio di settimane prima.
Contenuti fake a parte, secondo il paper dopo gli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre il Cremlino avrebbe lanciato una vera e propria campagna per spiegare che la colpa era dell’Occidente, responsabile in particolare di aver trascurato i conflitti in Medio Oriente per stare ad appoggiare l’Ucraina. Veniva dunque previsto che a questo punto l’Ucraina sarebbe stata inevitabilmente abbandonata. Lo stesso Medvedev ha fatto discorsi di questo tipo, mentre nelle tv russe si paragonava Israele all’Ucraina per concludere che «non dovrebbe esserci un briciolo di pietà o simpatia per gli israeliani». D’altra parte, il sostegno della Russia ad Hamas è arrivato anche a livello diplomatico, con la delegazione del gruppo terroristico che ha visitato Mosca il 26 ottobre e successivamente ha rilasciato una propria dichiarazione elogiando gli sforzi del presidente russo Putin e del Ministero degli Esteri per porre fine a quelli che definisce «i crimini di Israele sostenuti dall’Occidente».
Il paper costruisce una vera e propria tabella sulle attività parallele di alcuni tra questi peculiari «influencer» a favore della Russia e dell’Iran. «Scott Ritter. Critiche la controffensiva ucraina. Diffusione di narrazioni che sottolineano la forza militare dell’Iran». «Alan MacLeod. Critiche ai media occidentali. Narrazioni antisemite». «Pepe Escobar. Diffusione di narrazioni anti-Nato. Sostegno ai leader iraniani». «Alfredo Jalife-Rahme. Sostegno al concetto di “multipolarità” sottolineato dalla Russia. Sostegno alle politiche del regime iraniano». «Iñaki Gil de San Vicente. Narrazioni antiucraine. Narrazioni anti-israeliane». «Ben Norton Narrazioni antiucraine. Narrazioni antiamericane». E ricorda anche che «è importante tenere conto di come i canali di disinformazione iraniani siano particolarmente consigliati nei social network russi, come HispanTV in Spagnolo e VKontakte».
Insomma, «la propaganda dell’Iran e della Russia sulle questioni medio-orientali, e quindi sulla questione della guerra contro Hamas è simile, e non solo è simile ma utilizza anche gli stessi influencers» è una sintesi delle conclusioni del convegno di Madrid che ci viene fatta da Massimiliano Di Pasquale: esperto di Ucraina e ricercatore dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici che era presente con una relazione su «Disinformation and Active Mesures: pro Kremlin Strategic Narratives in Italy on the War in Ukraine».
La poetessa Premio Pulitzer Anne Boyer lascia il New York Times Magazine per divergenze sulla narrazione della guerra a Gaza. Il Fatto Quotidiano il 20 novembre 2023
Ha voluto manifestare la sua contrarietà per la narrazione del suo giornale sulla guerra a Gaza, così Anne Boyer, poeta, saggista e giornalista vincitrice del premio Pulitzer, nei giorni scorsi si è dimessa dal suo incarico per il New York Times Magazine. È stata lei stessa a rendere nota la decisione attraverso una lettera pubblica, spiegando le proprie ragioni etiche e professionali su Substack, una famosa newsletter americana.
“Mi sono dimessa da responsabile della pubblicazione delle poesie del New York Times Magazine. La guerra sostenuta dagli Stati Uniti dello Stato israeliano contro il popolo di Gaza non è una guerra per nessuno. Non c’è sicurezza in essa o da essa, non per Israele, non per gli Stati Uniti o l’Europa, e soprattutto non per i molti ebrei calunniati da coloro che affermano falsamente di combattere in loro nome. Il suo unico profitto è il profitto mortale degli interessi petroliferi e dei produttori di armi.”. Inizia così la lettera di Boyer che analizza politicamente l’attuale situazione bellica: “Non è solo una guerra di missili e invasioni terrestri. È una guerra in corso contro il popolo palestinese, persone che hanno resistito durante decenni di occupazione, dislocazione forzata, privazione, sorveglianza, assedio, prigionia e tortura”.
Secondo la giornalista, la modalità di protesta più efficace per gli artisti e per gli intellettuali è il rifiuto attivo: “Non posso scrivere di poesia tra i toni ‘ragionevoli’ di coloro che vogliono acclimatarci a questa sofferenza irragionevole. Niente più eufemismi macabri. Niente più paesaggi infernali igienizzati verbalmente. Niente più bugie guerrafondaie. Se questa rassegnazione lascia un buco nelle notizie delle dimensioni della poesia, allora questa è la vera forma del presente”.
Boyer non è la prima, tra giornalisti, scrittori e intellettuali, a essersi schierata apertamente in merito al conflitto e ad aver di conseguenza deciso di presentare le proprie dimissioni. Come riporta Il Corriere della Sera, il 3 novembre scorso anche la scrittrice del Times Magazine Jazmine Hughes ha lasciato il giornale per cui lavorava. Hughes aveva firmato la lettera aperta di opposizione alla guerra di Israele a Gaza di Writers Against the War on Gaza che, secondo il Times, rappresentava una violazione delle politiche della redazione.
Writers Against the War on Gaza (WAWOG) è un collettivo impegnato nella solidarietà al popolo palestinese che riunisce scrittori, editori e altri operatori culturali. Si occupa anche di aiutare gli operatori dei media che hanno subito repressioni a causa della loro solidarietà a Gaza e alla Palestina in generale, oltre che di divulgare tutte le lettere e i documenti redatti da intellettuali contrari a tutto ciò che sta accadendo nella Striscia.
La furia di Biden contro il New York Times: "Diffonde propaganda di Hamas". Valerio Chiapparino il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il New York Times accusato dal presidente Biden di aver dato troppo credito in una fase iniziale alla versione di Hamas delle cause dell'esplosione avvenuta all'ospedale di Gaza il 17 ottobre
Le guerre non si combattono solo sul campo con soldati, droni e carri armati ma anche nel mondo dell’informazione a colpi di articoli, analisi e breaking news. Le notizie diffuse dai media o dai social possono condizionare l’esito di un conflitto in maniera imprevedibile contribuendo all'aggravamento di una crisi internazionale. A volte è sufficiente un titolo sbagliato per dare fuoco alle polveri. La Casa Bianca ne è consapevole e, secondo quanto riportato da Semafor, non avrebbe infatti gradito la copertura da parte del New York Times di uno degli episodi più drammatici dallo scoppio della guerra scatenata dall’attacco di Hamas nel sud di Israele: l’esplosione avvenuta il 17 ottobre nei pressi dell’ospedale Al-Ahli di Gaza City.
Il sito di news ha riportato che la settimana scorsa, durante una riunione con rappresentanti di aziende di Wall Street, Joe Biden si sarebbe lamentato dello spazio riservato inizialmente dal quotidiano alla ricostruzione fornita da Hamas delle dinamiche del sanguinoso evento. In particolare la "Signora in grigio" avrebbe dato troppo credito all’accusa avanzata dall'organizzazione islamista secondo la quale la strage sarebbe stata causata da un bombardamento israeliano. Di opposto avviso quanto dichiarato da Israele, Stati Uniti e da altri Paesi occidentali che hanno puntato il dito contro il lancio di un razzo difettoso compiuto dalla Jihad islamica. Una versione, quest’ultima, confermata dai servizi di intelligence e da vari autorevoli siti di informazione che hanno evidenziato come il 15% circa dei missili lanciati dalla Striscia di Gaza siano malfunzionanti.
Il presidente avrebbe espresso la sua disapprovazione per una notizia rilasciata con un titolo “irresponsabile” che avrebbe potuto provocare un’escalation militare in Medio Oriente. Disappunto per Biden accresciuto dal fatto che sia stato un giornale americano ad aver amplificato le dichiarazioni di Hamas. L’esplosione, che per gli islamisti avrebbe fatto 500 vittime, si era verificata poche ore prima dell’arrivo dell’inquilino della Casa Bianca in Israele, prima tappa di una delicata e rischiosa missione che si sarebbe dovuta concludere in Giordania con un incontro, poi annullato, con altri leader della regione.
In una nota editoriale successiva lo stesso New York Times ha riconosciuto di aver concesso troppo spazio in una fase iniziale alla versione di Hamas - come per la verità hanno fatto anche la Reuters e l’Associated Press – dichiarando di non aver precisato sin da subito che in quel momento “non era possibile verificare” la credibilità delle affermazioni del movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza.
Semafor sottolinea la complessità dei rapporti tra i democratici e il prestigioso quotidiano, un media in grado di condizionare l’agenda politica del partito dell’asinello e di Capitol Hill. Il presidente nutrirebbe del rancore nei confronti del New York Times sin dai tempi della sua campagna elettorale quando riscontrò da parte dei suoi giornalisti un atteggiamento di diffidenza e sottovalutazione delle sue doti politiche nonché delle possibilità di sconfiggere Donald Trump alle presidenziali del 2020. Da allora Biden eviterebbe di concedere interviste a quel giornale preferendo altri reporter di testate considerate più “amichevoli”.
A prescindere dai rapporti tra la Casa Bianca e il quarto potere, non sarebbe poi un caso che il presidente abbia espresso le sue lamentele in occasione di un meeting con i rappresentanti di Wall Street, un influente gruppo pro-Israele che nelle ultime settimane osserva con orrore le proteste nei campus universitari e nelle strade del Paese spesso caratterizzate da espressioni di antisemitismo. Un altro modo insomma per segnalare la vicinanza dell'amministrazione Biden allo Stato ebraico e, come notano gli osservatori più cinici, per assicurarsi una fonte di finanziamento fondamentale in vista delle elezioni dell'anno prossimo.
"Fa disinformazione": spunta un dossier segreto contro Biden. Storia di Francesca Salvatore su Il Giornale lunedì 13 novembre 2023.
Nuova tegola in testa per l'amministrazione Biden: un memorandum interno del dipartimento di Stato, firmato da un centinaio di funzionari, accuserebbe il presidente di "diffondere disinformazione" sulla guerra fra Israele e Hamas.
L'accusa di disinformazione per il presidente Biden
Lo rivela il sito Axios, spiegando che il documento è stato preparato da un giovane diplomatico, il cui nome non viene reso noto, che sui social ha già accusato Biden di "complicità in genocidio" a Gaza. Firmato da un centinaio di funzionari del dipartimento di Stato e dell'Usaid (l'agenzia Usa per lo sviluppo e la cooperazione), il memorandum accusa il presidente di aver diffuso "disinformazione" nel suo discorso del 10 ottobre, in cui ha espresso sostegno a Israele, senza però fare specifici esempi. Viene chiesto un cessate-il-fuoco e si raccomanda uno sforzo per il rilascio degli ostaggi, mettendoli però sullo stesso piano dei detenuti palestinesi. Infine, si afferma che Biden dovrebbe fare di più per contrastare le azioni di Israele a cui vengono imputati crimini di guerra. Nell'insieme, nota Axios, parte del linguaggio del testo ricorda esattamente gli slogan delle proteste della sinistra del partito Democratico.
Il "canale del dissenso"
Dai tempi della guerra in Vietnam, il dipartimento di Stato dispone di un "canale per il dissenso" attraverso il quale i diplomatici possono esprimere liberamente pareri contrari alla politica ufficiale: lo si fa per lasciare spazio alla voce delle ambasciate lontane, ma anche una parte del cuore degli Esteri, liberi di disapprovare la politica estera nazionale. Tali pareri dovrebbero però rimanere riservati e non filtrare all'esterno.
Il promemoria, trasmesso il 3 novembre, si apre con riferimento immediato all'attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Gli autori, tuttavia, si concentrano nelle cinque pagine di nota sulla rappresaglia voluta dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Pur appoggiando Israele, secondo gli autori della missiva, il presidente Biden dovrebbe fare di più per mettere in discussione le azioni israeliane, sebbene abbia espresso più volte la sua preoccupazione per i risvolti umanitari a Gaza. Le azioni prese di mira dal promemoria riguardano l'interruzione di elettricità, la limitazione degli aiuti e l'esecuzione di attacchi che hanno causato centinaia di sfollati: questi costituiscono "tutti crimini di guerra e/o crimini contro l'umanità secondo il diritto internazionale". E ancora, il sunto prosegue, "Eppure non abbiamo rivalutato la nostra posizione nei confronti di Israele. Abbiamo raddoppiato la nostra incrollabile assistenza militare senza linee guida chiare o perseguibili".
Non solo disinformazione: tutte le colpe della Casa Bianca secondo il memorandum
Il promemoria allarga la visuale al più generale atteggiamento americano nell'intero Medio Oriente: oltre a questo si imputa all'amministrazione Biden il fallimento del progetto dei due Stati, che il presidente, fin dalla campagna elettorale, ha sempre dichiarato di perseguire. Dall'accusa di disinformazione il funzionario junior del dipartimento passa poi alle colpe dei membri della Casa Bianca e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di aver mostrato disprezzo per le vite dei palestinesi, fornendo una documentata indisponibilità alla de-escalation e la mancanza di lungimiranza strategica ben prima del 7 ottobre.
Nel documento, inoltre, si punta il dito sui dubbi sollevati dal presidente circa il reale numero dei morti a Gaza, riferendosi alle dichiarazioni dello scorso 27 ottobre, quando Biden aveva ammesso di "non aver fiducia" delle cifre fornite dal ministero della Sanità a Gaza. Tuttavia, il mistero resta: non sarebbe chiaro quando la nota sarebbe stata scritta, e non vi sarebbe certezza sul fatto che sia riferibile all'ultimo episodio del conflitto arabo-israeliano. Sta di fatto che questi dissensi, sebbene costituiscano una prassi sana e rodata, non vengono mai fuori per caso. Accadde lo stesso nel 2016 per un cablogramma che criticava le azioni dell'amministrazione Obama in Siria. Un altro promemoria del 2021, riguardante la fuga americana dall'Afghanistan, non arrivò nelle mani dei media ma divenne oggetto di acceso dibattito tra Congresso e Dipartimento di Stato.
La vignetta rimossa dal Washington Post: l’autocensura sull’Islam dell’America vittima delle ideologie. Federico Rampini su Il Corriere della Sera sabato 11 novembre 2023.
Una parte dei giornalisti americani abbandona i principi della deontologia, vuole prendere una posizione dividendo il mondo tra buoni e cattivi
L’America ha la massima tutela della libertà di espressione, il Primo emendamento. La sua protezione si ferma davanti a Hamas ? Il Quarto potere esercitò un compito di vigilanza sui leader. Il Washington Post ebbe un ruolo nella caduta del presidente Nixon per lo scandalo Watergate. Oggi il Post batte in ritirata quando si tratta di fustigare il terrorismo islamico?
I dubbi nascono dalla vignetta che il quotidiano — di proprietà di Jeff Bezos (Amazon) — ha deciso di non pubblicare, dove un terrorista di Hamas si è legato al corpo donne e bambini, scudi umani. Si può discutere sulla qualità del disegno, sui tratti del jihadista. Ma questa discussione non è avvenuta.
La redazione del Post è insorta, soprattutto i giovani, e i vertici hanno fatto marcia indietro, spaventati dalla rivolta interna. Il Post è un giornale progressista, ha fatto battaglie contro Trump. Sul Medio Oriente cerca un delicato equilibrio: difende il diritto all’esistenza di Israele; condanna l’antisemitismo; dà massima visibilità alle vittime civili fra i palestinesi e sostiene il loro diritto ad avere uno Stato. Tutto ciò non basta per una parte della redazione.
Quando Trump era presidente il Post si lanciò nel «giornalismo resistenziale»: addio alle sfumature. Ora una parte di giornalisti americani abbandona i principi antichi della deontologia, vogliono che i media prendano posizione, che dipingano un mondo diviso tra buoni e cattivi. Israele e l’Occidente sono l’impero del male; gli altri sono vittime. La vicenda della vignetta si situa in questo contesto, le redazioni sono soggette ai diktat della parte militante. È il parallelo con quel che accade nelle università.
L’autocensura sui crimini compiuti in nome dell’Islam (che si estende alla cultura e allo spettacolo) è frutto di uno slittamento percepibile da tempo. Qualche aneddoto «leggero» per ricostruirlo. Per molti anni a Broadway ha fatto il tutto esaurito il musical «The Book of Mormon», satira beffarda dei mormoni, che hanno accettato di esserne lo zimbello. Nessuno ha mai osato proporre a Broadway una satira sul fondamentalismo islamico. Lì il Primo emendamento non vale.
Barack Obama durante la sua ultima campagna elettorale, in una cena per la raccolta di fondi con alcuni miliardari di San Francisco, ebbe parole sprezzanti verso gli elettori della destra: «Questi bianchi pieni di amarezza e risentimento si aggrappano alle loro birre, ai loro fucili, alla loro Bibbia». Non si è autocensurato nel dileggiare dei bianchi cristiani. Mai avrebbe osato pronunciare parole simili su chi «si aggrappa al Corano». È questo il clima da anni, i giovani redattori del Post sono cresciuti in questa America ideologizzata.
A rendere ossessiva la difesa dei musulmani, è intervenuta la saldatura tra gli estremisti afroamericani e i filo-palestinesi. Per il movimento ultrà Black Lives Matter, neri e palestinesi sono vittime della stessa oppressione dell’uomo bianco. L’America rivive gli anni Sessanta, che nel mondo giovanile furono segnati da un’egemonia dell’estremismo. Allora però le redazioni dei giornali rappresentavano l’establishment moderato-conservatore, ancorché illuminato e attento verso la contestazione.
Mezzo secolo dopo il cerchio si è chiuso: l’establishment dei miliardari digitali come Jeff Bezos, Larry Page (Google) e Mark Zuckerberg (Meta-Facebook) sostiene il politicamente corretto; l’accademia è in mano a un corpo docente molto schierato oppure impaurito dalla pressione degli studenti; nelle redazioni sono avvenute purghe di moderati. La censura di una vignetta è troppo normale per fare scandalo.
Una formidabile rassegna di bufale raccontate da Gian Antonio Stella oggi all’ex colonia Vena d’Oro alla festa di Insieme si può. Scritto da redazione bellunopress.it l'1 Ottobre 2023
Gian Antonio Stella, giornalista, scrittore
Belluno, 1° ottobre 2023 – Parte dalle fake news attuali che quotidianamente vengono propalate dai social per istigare all’odio, Gian Antonio Stella, celebre firma del Corriere della Sera, inviato, editorialista, e scrittore, ospite oggi per i 40 anni della fondazione del primo gruppo dell’Associazione “Insieme si può” che si è tenuta nell’ex colonia della Vena d’Oro in località Levego (Belluno). Dopo aver demolito Facebook, consigliando siti ritenuti più affidabili come Open di Mentana. Benché, siano poche le fonti di informazioni totalmente immuni da bufale, soprattutto “in guerra la verità è la prima vittima” (Eschilo). Stella ha raccontato attraverso una ricca carrellata di aneddoti le più grandi bufale di tutti i tempi. Probabilmente la frase attribuita a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena «Se non hanno più pane, che mangino brioche» che avrebbe detto riferendosi al popolo affamato è la bufala più conosciuta. In realtà – precisa Stella – la frase secondo Jean-Jacques Roussos (Confessioni), sarebbe stata ascoltata da una “grande principessa “ nel salotto di Madame de Mably nel 1741, ossia 14 anni prima della nascita di Maria Antonietta. Ma sono molti i falsi del passato svelati da Stella. Prima di Hitler qualcun altro si occupò di sterminare gli ebrei servendosi della false lettere del Re di Tunisi “intercettate e tradotte” dal medico Pierre de Aura, dove si legge “Badate a avvelenare nel più breve tempo possibile i cristiani senza badare a spese. Vi farò avere oro e argento per le spese. Come sapete l’accordo tra noi, gli ebrei e i malati, ha avuto luogo poco tempo fa”. Seguirà l’editto di Filippo V di Francia “il Lungo” (Vincennes, 17 novembre 1293 – Parigi, 3 gennaio 1322) contro i lebbrosi. “Ho fatto catturare tutti gli ebrei del nostro regno per cospirazione… per porre veleni mortali nei pozzi e nelle fontane per far morire il popolo e i sudditi del nostro regno”. (Massacro degli ebrei a Verdun sur Garonne). E ancora “La storia della colonna infame” del Manzoni, appendice dei Promessi Sposi, nella Milano del 1630, afflitta dalla peste con la condanna a morte di diverse persone accusate d’essere gli «untori», ossia i responsabili della diffusione della pestilenza. La prima bufala a scopo economico fu quella fatta circolare da Thomas Cochrane ammiraglio e politico britannico, arrestato sotto l’accusa di aggiotaggio, per essersi arricchito con speculazioni in borsa a seguito della notizia falsa “Napoleone ucciso dai cosacchi” il 21 febbraio 1814. Questo e altro ancora nella cronistoria di bufale proposte da Gian Antonio Stella.
Ma per tornare al presente, aggiungiamo noi, diventa sempre più difficile riconoscere la bufala, soprattutto quando si tratta di “bufala di Stato”. Ricordate la II^ Guerra del Golfo scatenata nel 2003 il governo di George W. Bush quando invase l’Iraq accusando Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa? Nessuno ci avvisò che non era vero, né Mentana né i Tg. Le armi di distruzione di massa erano una grande bufala costata mezzo milione di morti. Più recentemente abbiamo visto nel Tg 2 Rai del febbraio 2022 una pioggia di missili cadere in Ucraina. Peccato che fosse un filmato del videogame War Thunder”. Anche Mentana direttore de La 7 scivola mandando in onda la scena di un film ‘Project X’ che scambia per l’assalto al Congresso Usa il 6 gennaio 2021. Il compianto Purgatori sul programma televisivo Atlantide in onda l’8 gennaio 2020 su La7 descrive il video del drone che ha ucciso il generale Soleimani, ma è un videogioco già usato dai russi nel 2017. Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra. (rdn)
Video falsi e altre menzogne, le guerre parallele online. Gian Antonio Stellasu Il Corriere della Sera il 7 novembre 2023.
Propaganda: i morti reali in Israele e a Gaza e poi immagini manipolate, che cercano di cambiare il senso di quel che accade
«Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre sia falsa», ammoniva Umberto Eco. Parole d’oro. La guerra sui social parallela a quella che sta dilaniando israeliani e palestinesi e il mondo intorno mostra quanto mai prima come la propaganda sia diventata centrale e come troppi se ne infischino, dall’una e dall’altra parte, della «verità». Impazzita come nell’urlo di Zavattini: «La veritàaaa».
Dalla parte dei filoisraeliani spunta un video: «Ecco i terroristi di Hamas cosa fanno ai Palestinesi che tentano di lasciare Gaza. Peggio dei Nazisti». Rovine di un magazzino, macerie sparse, polvere, una fossa piena
di pneumatici, due uomini in mimetica che spintonano un poveretto legato,
lo scaraventano nella fossa e gli sparano. Poi un altro e un altro ancora e un altro ancora. Spaventoso. Altro video su Gaza, messo online da un complottista filopalestinese australiano. Stesse rovine, stesse macerie, stessi assassini, stesse vittime: The true face of Israel, la vera faccia di Israele. Ma non è Gaza, non è oggi. È un video del 2013. Alla periferia di Damasco, guerra civile siriana. Che importa? Conta solo seminare odio.
Si sa tutto, grazie all’inchiesta di due studiosi, su quel video messo online da New Lines Magazine già un anno e mezzo fa. Si sa che fu una mattanza di 288 civili, tra cui donne e bambini accusati di opporsi a Bashar al-Assad, si sa che avvenne nel quartiere Tadamon, si sanno perfino i nomi dei due boia. Eppure c’è chi dall’una e dall’altra parte, in perfetta malafede, ha costruito una narrazione su misura del proprio fiele.
Direte: ma se sono così scafati da saper manipolare una foto, un audio, un video, sapranno bene che c’è anche chi potrà smascherarli! Sicuro. Ma avverrà sempre «dopo»: dopo che la loro fake avrà colpito il bersaglio raggiungendo di clic in clic più persone possibili buttando lì una «verità» alternativa. Letale. Spiega Michelangelo Coltelli, il fondatore di butac.it, (Bufale Un Tanto Al Chilo), che ha smascherato la doppia falsificazione sul video siriano: «Siamo davanti ad avvelenatori di pozzi. In un’epoca in cui l’informazione viaggia alla velocità della luce, la responsabilità di condividere un post con accuratezza e responsabilità è più cruciale che mai». Ma quanti la avvertono?
C’è di tutto, online. Ecco una foto di israeliani in festa col titolo sovrimpresso: «Gaza, Gaza, Gaza is a cemetery». Commento: «Fanatici di dx israeliani celebrano la carneficina a Gaza, esultano per l’uccisione di 4 mila bambini palestinesi, cantano: Gaza è un cimitero. Non ci saranno più scuole per bambini perché non ci sono più bambini...». La foto è il fermo immagine di un documentario girato otto anni fa, non c’entra con Gaza e la stessa autrice denuncia scandalizzata online il furto e la fake? Troppo tardi...
Un giornalista indiano posta un video: «Una donna incinta nel sud di Israele è stata trovata dai terroristi di Hamas. Hanno sezionato il suo corpo. Le hanno aperto lo stomaco e hanno estratto il feto...». Un’avvocata americana dei diritti civili rilancia: «Attenzione: questo è il peggiore che abbia mai visto in vita mia. Ecco ciò che i nazisti palestinesi fanno a una donna incinta». Le immagini, parzialmente oscurate, sono agghiaccianti sul serio. Ma «ripulite» ribaltano la storia: la vittima non è una donna ebrea ma un giovane spacciatore messicano sventrato davanti alla cinepresa dai rivali di un altro cartello della droga nel gennaio 2018 a Isidoro Montes de Oca, a nordovest di Acapulco.
«Attenzione immagini forti!». Nei social arabi gira un video di atrocità veramente estrema. Si dice che si tratta di «una ragazza israeliana presa in ostaggio dai palestinesi e bruciata viva oggi in risposta ai bombardamenti di Israele contro le zone residenziali di Gaza», strilla un reel su Facebook. Segnala solo che «l’autenticità del filmato dovrebbe essere ancora confermata». Cautela, per una volta, benedetta: il video, come spiega su open.online.it un altro grande cacciatore di bufale, Davide Puente, mostra davvero una ragazza sedicenne massacrata e bruciata, ma il video originale non è in arabo ma in spagnolo e il fatto è accaduto nel 2015 in Guatemala dove «la folla inferocita bruciò viva una 16enne accusata di omicidio».
E via così. Falsa l’enorme bandiera palestinese appiccicata col Photoshop sugli spalti dello stadio dell’Atletico Madrid con la didascalia «Tutto il mondo si sta rivoltando contro le follie di Netanyahu… In Israele stesso sono migliaia le persone che stanno manifestando a favore della Palestina». Falsa la foto di un palestinese dentro un sacco bianco «beccato mentre usa il cellulare in attesa di fingersi morto dopo un bombardamento israeliano»: è una foto di Halloween scattata nel 2022 in Thailandia. Falsa l’immagine di centinaia di persone festanti che traboccano dai balconi sventolando la bandiera con la Stella di David «al passaggio dei soldati israeliani in marcia verso Gaza». Lo confessa all’agenzia Reuters e a Usa Today lo stesso autore: ha usato un programma di intelligenza artificiale. Forse lo stesso usato sul fronte opposto, secondo boomlive.in/fact-check, da chi avrebbe confezionato la foto di un padre palestinese che tra le macerie tiene per mano un bimbo e ne regge altri quattro appollaiati un po’ qua un po’ là sulla schiena. Una fake, se davvero è una fake, particolarmente stolta e feroce. Un’immane tragedia come quella che sta accadendo sotto i nostri occhi non ha proprio bisogno di altri stregoni eccitatori di odio.
Bugie sistematiche. La retorica anti-propagandista si abbevera delle fake news dei regimi autoritari. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 9 Novembre 2023
La guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese ci insegnano che le false notizie nelle società democratiche sono sempre esposte a critica e controllo, mentre nelle autocrazie delinquenziali, la menzogna e la distorsione della verità sono continue e impunite
Non è un’osservazione di strabiliante originalità, ma ha ragione Gian Antonio Stella quando osserva (sul Corriere della Sera di ieri) che il gran mercato dell’informazione, specie nei reparti online e social, è pieno di notizie false e contraffatte.
È poi vero che il fenomeno non riguarda mai soltanto uno schieramento, ma tutti, ed è vero che la cosa è tanto più grave quando non si tratta di un rigore sbagliato o della polemica sulle buche di Roma, ma di gente sgozzata e dei crateri in una scena di guerra.
Fare però gli esempi delle rispettive falsità, come se l’una valesse l’altra, rischia di generare un fenomeno disinformativo anche più grave, tipo che è tutto un magna magna, che li politisci so’ tutti ladri e che signora mia i torti non stanno da una sola parte.
È infatti un’altra specie di propaganda l’anti-propaganda secondo cui, quando arriva dall’Ucraina la notizia dei bambini stuprati, bisogna andarci cauti perché si sa che anche gli ucraini scrivono balle. È un altro tipo di propaganda l’anti-propaganda che mette sullo stesso piano lo sgozzamento trasfigurato in decapitazione e la sistematica fabbrica di menzogne e falsità che alimenta non solo il postribolo social e il Porcaio Unico Televisivo, ma anche tanta tradizionale stampa sussiegosa.
Perché c’è una differenza, una differenza abissale e sostanziale, tra una realtà civile, democratica e informativa da cui promana una falsità, da un lato, e una realtà autoritaria e delinquenziale che dall’altro lato fa della menzogna e della sistematica e impunita alterazione della verità il proprio modo di essere e di operare.
C’è una differenza di premesse e di conseguenze tra la fake news che fiorisce in un sistema che la espone a critica, a controllo, un sistema in cui quella presunta verità è correggibile ed emendabile, e la panzana promanante e divulgata da professionisti della menzogna che per accreditarla si affidano all’ignoranza e alla malafede altrui.
Ed è esattamente ciò che succede non più nel campo dell’informazione, ma sullo stesso terreno delle azioni criminali. Perché anche qui c’è una differenza, una differenza irriducibile, tra una democrazia che commette un crimine – il che può ben succedere, e succede – e un sistema intrinsecamente e deliberatamente criminale che fa del crimine lo strumento esclusivo della propria affermazione.
Qualcuno ha anche un solo dubbio sul fatto che in mesi e mesi di guerra all’Ucraina quest’ultima, l’Ucraina, abbia qualche volta fatto passare notizie false o non verificate? Non può esserci nessun dubbio. Ma l’esercito di troll – ben ascoltato anche qui da noi da certi osceni figuri che pure se la tiravano da commendatori del reportage comme il faut – quel branco di magliari che s’era messo a confezionare fotografie e video contraffatti con i cadaveri di Bucha che muovevano le braccia e facevano l’occhiolino alla telecamera, ecco, quello rappresentava un’altra cosa: non rappresentava il fungibile ed equiparabile ricorso a un’informazione così così, ma appunto la scientifica, per quanto grossolana, opera di sbianchettatura stalinista sulla scena di un massacro.
E vale per il conflitto scatenato dal pogrom del 7 ottobre. Qualcuno ha dubbi sul fatto che qualche disinvolto supporter possa aver divulgato notizie inveritiere poste ad aggravare (ma diciamo che deve essersi impegnato parecchio) quanto successo il 7 ottobre o ad attenuare gli effetti della reazione israeliana? Anche qui, nessun dubbio.
Ma qualcuno vorrà ammettere che si tratterebbe di ben altra cosa rispetto alla fogna di volgari mistificazioni cui si abbevera senza perplessità certo nostro giornalismo, che ha pure l’impudenza di spiegare che mica si può dar credito solo agli israeliani: ovviamente col corollario che siccome non si può dar credito solo a quelli, allora si dà credito solo all’Ordine dei giornalisti di Settembre nero. C’è una retorica anti-propagandista più contraffattoria della propaganda.
La bufala di Al Jazeera sui combattenti italiani in Israele. Circa mille giovani con doppio passaporto italiano e israeliano sono arruolati nelle Idf come riservisti. Dopo la diffusione di un servizio di Al Jazeera, si temono rappresaglie contro le loro famiglie, ma il servizio è pieno di fake news. Filippo Jacopo Carpani il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
Gli ebrei italiani in Israele sono in allerta dopo la diffusione di “avvertimento interno alla comunità per non far intervistare figli o parenti” dei militari con doppia cittadinanza o solo il passaporto del nostro Paese impegnati nella guerra contro Hamas che, a quanto riferito da fonti ben informate dell’Adnkronos, dovrebbero essere “svariate centinaia”.
Il motivo di questo allarme è la messa in onda di un servizio di Al Jazeera, in cui si denuncia proprio la partecipazione di soldati italiani nel conflitto tra Tel Aviv e Gaza. Il timore è che vi siano “ripercussioni sulle famiglie in Italia e che i musulmani” presenti nel nostro territorio nazionale “vadano a cercarle”. Per questo è stato chiesto alla comunità ebraica di avvertirle. Nel video diffuso dall’emittente qatariota, ci si interroga sulla presenza dei nostri connazionali tra le fila delle Idf e si dichiara che ve ne sono “migliaia”. Vengono mostrati spezzoni del Tg5 con scritte arabe in sovrimpressione, in cui si dice che i media nostrani concordano con questa stima. I dati ufficiali della Farnesina, però, parlano di soli mille nostri concittadini arruolati nelle forze di difesa israeliane.
Sempre citando il telegiornale di Mediaset, Al Jazeera riporta la presenza di “tre paracadutisti italiani convocati dall'esercito israeliano per prestare il servizio di riserva, oltre ad altri militari che non hanno la cittadinanza israeliana”. L’emittente con sede a Doha, infatti, afferma che le Idf hanno arruolato persone che “non hanno alcun legame con Israele, non sono nati lì e non hanno parenti nella Palestina occupata” e hanno deciso di imbracciare le armi contro i palestinesi per la loro appartenenza etnica o religiosa.
Al Jazeera, inoltre, sostiene che l’esercito di Tel Aviv “può reclutare ebrei da tutto il mondo a condizione che abbiano un nonno ebreo e che prestino servizio per un periodo che va dai 18 ai 24 mesi senza la necessità di ottenere la cittadinanza ebraica”. Entrambe queste informazioni solo false. Per combattere nelle Idf è necessario avere il passaporto israeliano o la doppia cittadinanza, e l’appartenenza al popolo ebraico viene stabilita guardando al parentado femminile, non maschile. Inoltre, il servizio è fisso a 36 mesi per gli uomini e a 24 per le donne.
Per quanto riguarda i soldati stranieri senza legami con lo Stato ebraico, la fake news nasce da account pro-Hamas e pro-Cremlino, che hanno diffuso informazioni false su mercenari che dall’Ucraina si sono spostati in Medio Oriente per combattere contro i terroristi. La notizia è stata smentita più volte, anche da Euronews.
Al Jazeera riserva spazio anche agli italiani che si schierano contro Israele. Nel servizio, l’emittente mostra i profili X di due utenti. Uno in particolare ricorda che il nostro Paese ripudia la guerra e accompagna la foto di un militare con il commento “Cosa ci fa lì questo idiota? Tutte queste persone dovrebbero essere accusate di crimini di guerra e lasciare immediatamente l'Italia”. Il video della piattaforma araba si conclude con un rimando all’intervista dell’ex ministro della Sanità di Gaza Bassem Saeed, che accusa l’Italia di essere “complice dell'aggressione contro Israele e di aver scelto la parte sbagliata della storia”.
Dai post ai video: un mese di strafalcioni su Israele targati Rula Jebreal. Storia di Gianluca Lo Nostro su Il Giornale martedì 7 novembre 2023.
Quella tra Israele e Hamas è una guerra che si combatte anche con mezzi non lineari, soprattutto in rete. È qui che spuntano e vengono condivise informazioni false o manipolate usate per dare forza alla narrazione secondo cui le uniche vittime dell'annoso conflitto arabo-israeliano apparterrebbero a una fazione sola. La demonizzazione dell'avversario è un espediente efficace che purtroppo in questi giorni drammatici si sta riscontrando parallelamente ai combattimenti sul campo di battaglia. L'elenco di immagini e filmati rilanciati online per attaccare lo Stato di Israele è infinito.
Nelle ultime settimane sono ricomparse foto di bambini siriani risalenti, appunto, alla fase più acuta della guerra tuttora in corso in Medio Oriente ma esplosa lo scorso decennio. E che dire del video decontestualizzato che ritrarrebbe ebrei in festa per la "carneficina di Gaza": scene del 2015, dunque che non riguardano fatti di attualità, ma comunque propagate da profili seguitissimi. Uno di questi è quello di Rula Jebreal, giornalista di origini palestinesi che dopo il primo "scivolone" si è ripetuta rendendosi protagonista dell'ennesimo diverbio sul suo account X.
Stavolta la giornalista 50enne ha pubblicato un servizio in una scuola ebraica in cui i bambini, rispondendo alle domande degli insegnanti, ammetterebbero di voler uccidere gli arabi. Una dichiarazione scioccante, che però non corrisponderebbe a quanto accaduto veramente. "Cosa pensa un gruppo di bambini israeliani dei palestinesi…Come vengono indottrinati nelle scuole, ai tempi di pace. Intervistati in una secuola da politici israeliani e un insegnante. Dobbiamo uccidere gli arabi/palestinesi o saranno i nostri schiavi", ha scritto Jebreal. La clip in questione mostra anche dei sottotitoli in inglese aggiunti con uno sfondo nero che coprono il testo in ebraico, forse inseriti per nascondere la versione originale. Il bambino intervistato, infatti, non avrebbe detto di sentirsi arrabbiato e per questo di voler compiere un massacro, bensì il contrario.
"Sono spaventato, perché ho paura che possa uccidermi", è la frase pronunciata davvero. Un ribaltamento totale della realtà. Ma la mistificazione non si ferma qui. Innanzitutto, come nei casi precedenti, il video è del 2016, parte di un reportage dell'emittente israeliana N12, ed è iniziato a circolare nel 2021. Già smentito allora, ora sotto al post originale appaiono perfino le cosiddette community notes, i commenti che gli utenti dell'ex Twitter possono scrivere per spiegare il contesto di messaggi e informazioni giudicate tendenziose o infondate. Sicuramente non è equiparabile a una sentenza della Cassazione, ma un tale avviso accanto a qualsiasi contenuto dovrebbe far suonare più di un campanello d'allarme prima di darlo in pasto a centinaia di migliaia di persone sprovviste degli strumenti per verificare ed eventualmente confermare una notizia così grave.
Lo scorso 31 ottobre, inoltre, Jebreal aveva scelto un parallelismo alquanto fuori luogo per descrivere il comportamento delle forze armate israeliane a Gaza, paragonabile secondo lei a un ipotetico bombardamento sulla città di Palermo contro la mafia. "Immaginate – si legge sempre sui suoi canali – se il governo bombardasse Palermo per scovare i mafiosi dopo una strage…giustificando i crimini di guerra dicendo che la mafia usa i civili come scudi umani. Se il diritto internazionale vale per gli europei, perché non dovrebbe valere per i bambini di Gaza?".
Oggi a cercare di ristabilire la verità almeno nel panorama mediatico italiano ci ha pensato la Iena Antonino Monteleone, che ha attaccato l'ex conduttrice sempre su X. "Bufala Jebreal – evidenzia Monteleone – pubblica un video del 2016 la cui traduzione deliberatamente fuorviata è stata già denunciata come vera e propria manipolazione , ma se glielo fai notare si adonta un pochettino. Peraltro ne ha inanellate un paio, di gaffe così, in due giorni". Immediata la replica: "A differenze di quel genio delle iene, io parlo l’ebraico, l’arabo, e l’inglese…ecco il video e la traduzione completa in inglese. I bambini indottrinati parlano di uccidere gli arabi, o di prenderlo come schiavi, e di distrugere la Moschea di Al Aqsa". Ma il girato è sempre lo stesso, così come i fantomatici sottotitoli in inglese. Lo scontro è poi continuato e i toni non si sono per niente abbassati, ma il danno si è ormai consumato.
Svarioni. fake news e deliri idelogici: la rabbia dei radical chic fa brutti scherzi. Domenico Di Sanzo il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.
Jebreal condivide il falso lanciato da un estremista nero. E Luccarelli si confonde
Prima di ripercorrere gli inciampi social delle ultime ore di Rula Jebreal e Selvaggia Lucarelli, tocca fare un passo indietro e riavvolgere il nastro. Bisogna partire dal 2006 e dalla filosofa Judith Butler, studiosa femminista, esperta di questioni di genere e punta di diamante del pensiero «woke» statunitense. Ecco cosa diceva Butler diciassette anni fa durante un convegno all'università di Berkeley: «Hamas e Hezbollah sono movimenti sociali progressisti, parte integrante della sinistra globale». Una saldatura tra certe frange della sinistra radical e il fondamentalismo islamico che ora è quanto mai attuale.
Un atteggiamento che porta alla diffusione di notizie non verificate e fake news anche da parte di quei giornalisti sempre attenti alla deontologia degli altri. Prendiamo il caso di Jebreal, giornalista e scrittrice palestinese con cittadinanza israeliana e italiana, volto noto della televisione italiana e molto conosciuta negli Stati Uniti. L'attivista attacca Israele in tv e dal suo seguitissimo profilo su X. Solo che la foga può fare brutti scherzi. E così accade che la paladina della correctness, sempre pronta a bacchettare i colleghi, soprattutto se di idee diverse dalle sue, inciampa in una vera e propria bufala.
Venerdì Jebreal condivide un video in cui si vedono dei cittadini israeliani intonare cori che inneggerebbero alla distruzione di Gaza. Poi commenta indignata: «Fanatici di destra israeliani celebrano la carneficina a Gaza, esultano per l'uccisione di 4mila bambini palestinesi». Benzina sul fuoco sull'antisemitismo. Solo che il video è del 2015. Un montaggio di filmati girati otto anni fa durante una manifestazione di un gruppetto di estrema destra contro i matrimoni misti. Ma la cosa più grave è che il video è stato preso dal profilo di Matteo Cocchi, un utente neofascista che twitta citazioni di Adolf Hitler. E poi c'è Lucarelli, opinionista e firma del Fatto Quotidiano.
Anche lei nell'impazienza di attaccare Israele rilancia una clip in cui si vedono dei civili morti su una strada. Poi scrive: «Sembrano le immagini di Bucha. Ma vedo meno pietà in giro». La fonte del video sostiene che l'esercito israeliano è il responsabile del massacro. Altri utenti accusano Hamas. Lucarelli poi fa marcia indietro e spiega di non sapere chi abbia commesso il crimine. Sicuramente sarebbe stato opportuno evitare di diffondere un filmato non verificato. Ma sui social c'è di tutto. E impazzano giovanissimi tik toker con decine di migliaia di followers, invitati anche dalle tv nazionali, che accostano la Palestina e Hamas alla resistenza contro il nazifascismo. Non manca nemmeno chi si esalta davanti ai lanci di razzi da Gaza contro i civili israeliani. L'odio contro Israele è virale e si nutre di bufale.
A Gaza in 3 settimane sono morti più bambini che in tutte le guerre del mondo in un anno. L'Indipendente l'1 Novembre 2023
I numeri sono impressionanti, almeno quanto è impressionante la scarsa rilevanza che media mainstream e telegiornali stanno dando alla notizia. Secondo i dati pubblicati ieri, 31 ottobre, dalla agenzia delle Nazioni Unite UNRWA, sono 3.457 i bambini e le bambine uccise a Gaza in appena 23 giorni di bombardamenti israeliani. Significa che in appena tre settimane i bambini palestinesi uccisi sono più di quelli che muoiono in un anno intero in tutti i conflitti militari attivi nel resto del mondo. Secondo l’ultimo rapporto annuale del Segretario generale delle Nazioni Unite sui bambini e i conflitti armati, infatti, in tutto il 2022 furono uccisi in totale 2.985 bambini in 24 Paesi. I bambini rappresentano oltre il 40% delle 8.306 persone uccise complessivamente a Gaza e il bilancio reale è probabilmente molto più alto, poiché ci sono circa 1.000 bambini dispersi che si presume siano sepolti sotto le macerie.
Per comprendere il dramma che si sta consumando sotto gli occhi del mondo, nell’indifferenza dei media e con la collaborazione attiva dei governi Occidentali, incluso quello italiano che si è astenuto dal voto della risoluzione ONU che chiedeva un immediato cessate il fuoco. Riportiamo di seguito alcuni passaggi del discorso tenuto il 30 ottobre davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite da parte di Philippe Lazzarini, Commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA):
«Il livello di distruzione non ha precedenti e la tragedia umana che si svolge sotto i nostri occhi è insopportabile. In tre settimane un milione di persone, metà della popolazione di Gaza, sono state spinte dal nord della Striscia di Gaza verso il sud. Il sud, tuttavia, non è stato risparmiato dai bombardamenti, con un numero significativo di morti. L’ho detto molte volte, e lo dirò ancora, “nessun posto è sicuro a Gaza”. Ora, i civili rimasti nel nord stanno ricevendo avvisi di evacuazione dalle forze israeliane, che li invitano a sud a ricevere una scarsa assistenza umanitaria. Ma molti, tra cui donne incinte, persone con disabilità, malati e feriti, non possono muoversi. Ciò che è accaduto e continua ad accadere è lo sfollamento forzato. Oltre 670.000 sfollati si trovano attualmente nelle scuole e negli edifici sovraffollati dell’UNRWA. Vivono in condizioni spaventose e antigeniche, con cibo e acqua limitati, dormendo sul pavimento senza materassi o all’aperto. La fame e la disperazione si stanno trasformando in rabbia contro la comunità internazionale».
«Signor Presidente, Quasi il 70% delle persone uccise sono bambini e donne. Questo non può essere un “danno collaterale”. Chiese, moschee, ospedali e strutture dell’UNRWA, comprese quelle che ospitano gli sfollati, non sono state risparmiate. Troppe persone sono state uccise e ferite mentre cercavano sicurezza in luoghi protetti dal diritto umanitario internazionale. L’attuale assedio imposto a Gaza è una punizione collettiva.
Due settimane di assedio totale seguite dal rivolo di aiuti la scorsa settimana significano che: i servizi di base sono fatiscenti; le medicine stanno finendo; cibo e acqua stanno finendo; il carburante sta finendo; le strade di Gaza hanno iniziato a traboccare di liquami, il che causerà molto presto un enorme pericolo per la salute. L’ultimo colpo, il blackout delle comunicazioni avvenuto nel fine settimana, ha aggravato il panico e l’angoscia della gente.
Signor Presidente, Gaza conta oltre 2 milioni di persone, la metà dei quali bambini. Gli abitanti di Gaza sono persone vivaci e istruite che aspirano ad avere una vita normale, famiglie, figli, istruzione e sogni di un futuro migliore. Oggi gli abitanti di Gaza sentono di non essere trattati come gli altri civili. Un’intera popolazione viene disumanizzata. Hannah Arendt ha detto: “La morte dell’empatia umana è uno dei primi e più rivelatori segni di una cultura che sta per cadere nella barbarie”.
Signor Presidente, in questi tempi bui non dobbiamo perdere di vista la nostra umanità. La nostra empatia dovrebbe applicarsi a tutti. Palestinesi, israeliani, ebrei, cristiani e musulmani. Le regole della guerra devono essere rispettate da tutte le parti, in ogni momento e in ogni luogo. I civili devono essere protetti, gli ostaggi rilasciati e deve essere agevolata un’autentica risposta umanitaria. Un cessate il fuoco umanitario immediato è diventato una questione di vita o di morte per milioni di persone. Il presente e il futuro dei palestinesi e degli israeliani dipendono da questo. Esorto tutti gli Stati membri a cambiare la traiettoria di questa crisi e a lavorare per una vera soluzione politica. Prima che sia troppo tardi, grazie».
Spesso si accusano le agenzie dell’ONU di essere distratte o inefficaci. In questo caso ci troviamo di fronte a un rappresentate delle Nazioni Unite che invece lancia un chiaro e disperato monito al mondo. A Gaza si sta consumando un genocidio che deve essere fermato. A questo fine centinaia di associazioni stanno chiedendo al mondo di far sentire la propria richiesta di pace in modo concreto, boicottando tutti i marchi che supportano l’occupazione israeliana.
Quando Ferrara tirava pugni contro chi ignorava la strage di Shatila. Un giovane dirigente del Pci di Torino, appena trentenne, fece irruzione alla festa e chiese che il concerto fosse dedicato alla strage e alla protesta contro la violenza di Israele. Lui per protesta lasciò il partito. Si chiamava Giuliano Ferrara. Piero Sansonetti su L'Unità l'1 Novembre 2023
È difficile in questi giorni trovare sui giornali racconti e versioni su ciò che sta succedendo in Medio Oriente, diverse dalle versioni ufficiali fornite dal governo israeliano. L’atrocità delle stragi e dei crimini di guerra che sta commettendo l’esercito di Netanyahu quasi non hanno diritto di essere raccontati. E certamente non possono suscitare indignazione, perché se esprimi qualche riprovazione vieni subito accusato di essere antisemita e amico dei terroristi.
Gli israeliani in poche settimane hanno ucciso più di 4000 bambini. Difficile trovare precedenti. Ieri Israele ha attaccato un campo profughi molto grande e famoso, quello di Jabalia. Era popolatissimo e pieno di bambini. Pare che ci siano 150 morti, però guardando le foto prese dall’alto c’è da temere che siano parecchi di più. A parti invertite, capite bene, sarebbe uno scandalo senza pari. Giustamente. Perché attaccare un campo profughi è un terribile crimine di guerra. Tra i peggiori. Temo che la stampa italiana si indignerà con molta moderazione.
Mi è tornato in mente un episodio di quarant’anni fa. Era il 18 settembre del 1982 e a Torino credo che fosse in corso la festa dell’Unità. Il pezzo forte era un concerto di Luciano Berio – padre della musica dodecafonica italiana – messo al centro di una manifestazione per la pace. Si leggevano anche poesie di Sanguineti. A sera arrivò la notizia dell’attacco di milizie cristiane coperte dall’esercito israeliano al campo profughi di Shatila e al quartiere di Sabra. Il campo era pieno di palestinesi in fuga, e anche lì con moltissimi bambini. Fu un mattatoio con centinaia di morti, forse più di mille.
Un giovane dirigente del Pci di Torino, appena trentenne, fece irruzione alla festa e chiese che il concerto fosse dedicato alla strage e alla protesta contro la violenza di Israele. Gli organizzatori si rifiutarono. Il giovane dirigente prese a pugni un funzionario del partito e credo anche l’assessore alla cultura, Giorgio Balmas. Il giorno dopo fu da tutte le persone per bene stigmatizzato. Lui per protesta lasciò il partito. Tornò a Roma. Si chiamava Giuliano Ferrara. Piero Sansonetti 1 Novembre 2023
"Abbiamo ucciso i bambini": l'ammissione del terrorista di Hamas. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale mercoledì 1 novembre 2023.
"La nostra sola missione era uccidere. Non rapire. Uccidere ogni persona e tornare a Gaza". A parlare nel video diffuso dalle Forze di difesa israeliane (Idf) è un "terrorista di Hamas" che ha ammesso di compiuto nefandezze di ogni tipo nel corso dell'attacco del 7 ottobre a Kfar Aza, in Israele. Il protagonista del filmato si chiama Omar Abu Rusha ed è un membro dei commando Nukhba di Hamas. "Ci è stato detto di uccidere ogni persona che vediamo e di tornare indietro", ha ripetuto l'uomo. Ad un certo punto della clip, l'intervistatore chiede al prigioniero se, durante il blitz, i suoi capi gli avessero ordinato di fare qualche distinzione tra uomini, donne e bambini. La risposta è stata negativa: non c'era alcuna distinzione.
La testimonianza del terrorista di Hamas
Secondo le dichiarazioni di Rusha, il suo gruppo è arrivato a bordo di una jeep e ha fatto irruzione nella comunità di Kfar Aza. Hanno distrutto il cancello e, una volta entrati, gli uomini di Hamas sarebbero andati avanti casa per casa, dando fuoco alle abitazioni e sparando alle persone. Il terrorista del filmato ha quindi ricordato di aver sentito le grida di bambini piccoli dopo essere entrato in una casa, e di aver sparato contro la porta della safe room dove erano rinchiusi. Ha affermato di aver ripetuto l'azione fino a quando le grida dei piccoli, presumibilmente morti, erano cessate.
Ad Abu Rusha è stato quindi chiesto quale fosse lo scopo dell'attacco e perché i suoi superiori gli avevano ordinato di uccidere indiscriminatamente. "Ci hanno detto che tutti i coloni erano soldati. Dovevamo uccidere tutti quelli che vedevamo", ha proseguito il prigioniero. "Ti hanno detto di uccidere tutti? Le donne e i bambini?", ha chiesto l'intervistatore. "Sì", ha replicato l'uomo.
Il saccheggio di Kfar Aza
Abu Rusha era tra i terroristi responsabili del saccheggio del kibbutz Kfar Aza. "Siamo arrivati a Kfar Aza. Eravamo a bordo di una jeep. La nostra guida ha aperto la recinzione usando un ordigno esplosivo", ha affermato. Lui e il suo equipaggio sono entrati in diverse case. Dopo aver appiccato il fuoco alla prima casa, "qualcuno è uscito verso il giardino sul retro con un tubo dell'acqua. I membri della nostra squadra lo hanno visto, gli hanno sparato e lo hanno ucciso. Questa è la prima cosa che è successa".
Nella seconda casa, lo stesso Abu Rusha ha spiegato di aver appiccato il fuoco alla camera da letto. "Siamo andati alla terza casa. C'era una donna all'interno. Hamzeh l'ha uccisa. Le ha sparato". Il terrorista ha riferito che la sua squadra ha esaminato un'altra casa vuota, per poi spostarsi su una quinta, nella quale sarebbero rimasti per circa novanta minuti. "Poi tre coloni sono venuti nella nostra direzione", ha detto.
C'è stato uno scontro a fuoco durante il quale Abu Rusha ha ucciso una persona e i suoi compagni hanno lanciato granate. Il gruppo sarebbe entrato in un'altra casa ancora. "Abbiamo controllato l'edificio e sentito i suoni dei bambini piccoli in una stanza. Abbiamo sparato", ha aggiunto. Poco dopo, sempre secondo il racconto del terrorista, sarebbero giunte sul posto le forze di sicurezza israeliane. A quel punto lui e i suoi compagni si sono costituiti in seguito ad un’altra sparatoria.
L'intervistatore ha posto due domande secche a Rusha: "Uccidere bambini è consentito nell'Islam? Cosa ha detto il profeta Maometto a riguardo?". "No. I bambini non sono coinvolti", ha risposto il prigioniero. Infine, nell'ultima risposta, l'uomo ha dichiarato che i suoi genitori non sanno niente della sua appartnenza ad Hamas. "Se mio padre mi vede, mi sparerà. Mi ucciderà per le cose che ho fatto", ha concluso il terrorista.
I veri nemici di Gaza sono palestinesi. Storia di Alessandro Sallusti su Il Giornale mercoledì 1 novembre 2023.
Certo, le immagini della popolazione civile palestinese ridotta alla fame, al netto della sua diffusa complicità con i terroristi di Hamas, sono strazianti, ma non è che prima della reazione israeliana quell'angolo di mondo fosse un'oasi di tranquillità e benessere. E non lo era, tra l'altro, perché la gerarchia di Hamas, ma in generale delle autorità palestinesi, oltre che tra le più feroci, è anche tra le più corrotte al mondo.
Mentre il popolo arranca tra povertà e degrado, i suoi capi hanno accumulato ricchezze personali che li pongono tra gli uomini più benestanti al mondo. Un interessante articolo uscito ieri sul Corriere della Sera a firma di Federico Fubini ricostruisce, citando fonti affidabili, la stima del patrimonio occultato all'estero dai tre leader dell'organizzazione terroristica che governa su Gaza: quattro miliardi per Ismail Haniyeh, capo politico e ministro dell'Autorità palestinese; quattro miliardi è la ricchezza di Khaled Mashal, leader storico; tre miliardi il patrimonio di Musa Abu Marzouk, capo dell'ufficio di relazioni con l'estero. Va da sé che le loro famiglie non vivono nei tuguri sotto le bombe, bensì all'estero Turchia e Qatar in eleganti dimore e lussuosi hotel.
Tutto ciò non è una novità. Al momento della morte, avvenuta nel 2004, Yasser Arafat, leader dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, lasciò un patrimonio personale superiore a 1,3 miliardi di dollari frutto di distrazione di fondi e corruzione e si scoprì che ogni mese mandava alla moglie, esule a Parigi, un assegno di centomila dollari per fare fronte alle esigenze personali.
Insomma, a derubare ed affamare i palestinesi è storia provata - non sono stati certo gli israeliani, bensì i palestinesi stessi, oltre ai Paesi arabi presunti amici che da sempre li tengono in povertà per poterli aizzare all'occorrenza. Se il Qatar avesse investito a Gaza un decimo di quanto fatto in Europa per comperare interi quartieri di diverse capitali per non parlare del business del calcio - oggi la Striscia sarebbe una piccola Svizzera. Invece no: la povertà chiama la bruttezza dei luoghi, che a sua volta chiama ignoranza e bruttura degli uomini, elementi indispensabili per perpetuare la guerra contro il diritto all'esistenza di Israele e arricchire a dismisura gli ideologi antisemiti.
Com'è che si dice? Per capire un problema c'è un solo modo sicuro: segui i soldi e, nel caso, si scoprirà che metà dei finanziamenti umanitari al popolo palestinese finisce in armi e l'altra metà nelle tasche dei suoi dirigenti.
Un comandante di Hamas: «Prendiamo il carburante dall'ospedale», l'audio con un residente di Gaza. Un comandante di Hamas: «Prendiamo il carburante dall’ospedale», l’audio con un residente di Gaza La conversazione intercettata dall’intelligence militare israeliana, declassificata e resa pubblica - Corriere Tv su Il Corriere della Sera mercoledì 1 novembre 2023.
“I TUNNEL CI PROTEGGONO. I CIVILI PALESTINESI? SONO RESPONSABILITÀ DELLE NAZIONI UNITE”
Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio” mercoledì 1 novembre 2023.
[…] Abu Marzouk è uno degli uomini più importanti di Hamas. Conosce benissimo il gruppo, lo ha aiutato a risollevarsi economicamente in varie occasioni, ha studiato negli Stati Uniti ed è sempre stato molto bravo a trovare contatti e denaro, anche in Europa.
Quando Marzouk parla non va preso come una voce isolata, ma come una persona che ha dentro ben radicata l’ideologia di Hamas, che ha contribuito a crearne lo statuto, a portarne avanti le intenzioni. In una recente intervista concessa a Rt ha risposto con naturalezza a una domanda molto importante: come mai Hamas è stato così attento e abile a scavare cinquecento chilometri di tunnel dentro la Striscia di Gaza e non ha pensato invece a costruire dei rifugi antiaerei per la popolazione per proteggersi dalle bombe israeliane.
[…] Marzouk risponde che i tunnel sono stati costruiti perché loro, ossia gli uomini di Hamas, non hanno avuto altra scelta per proteggersi: “I tunnel sono destinati a proteggerci dagli aerei, noi combattiamo da dentro i tunnel. Tutti sanno che il 75 per cento della popolazione della Striscia è costituita da rifugiati ed è compito delle Nazioni Unite prendersi cura di loro”.
I palestinesi, dice Marzouk, non sono responsabilità di Hamas, né del braccio politico né di quello armato, per chi ama dividere le due cose che ormai sono indivisibili. Hamas governa la Striscia dal 2007, ma uno dei suoi esponenti politici non ritiene di dover pensare alla costruzione di rifugi antiaerei e mentre gli uomini del gruppo vivono all’estero o possono proteggersi nei tunnel, preclusi alla popolazione, i cittadini non hanno alcuna protezione.
Sono le Nazioni Unite a pensare ai cittadini, l’Unrwa, l’Agenzia che si occupa dei rifugiati palestinesi, pensa agli aiuti umanitari da prima della guerra e nelle scorse settimane ha denunciato anche il furto di acqua e carburante da parte di uomini armati probabilmente del ministero della Salute, quindi di Hamas […] e avverte che il territorio che ospita i palestinesi è in seria difficoltà.
Si potrebbe pensare che Hamas, che governa la Striscia in totale assenza di diritti e libertà, non abbia i mezzi per aiutare la sua popolazione. Ma non è una questione di risorse finanziarie, è una questione di metodo. Il quotidiano tedesco Welt è riuscito a ottenere e consultare dei documenti sul patrimonio di Hamas e sui suoi conti bancari molto gonfi.
L’ufficio per gli Investimenti del gruppo terroristico è uno dei comitati che dipendono dal Consiglio della Shura, vigila sulle attività commerciali e ha accesso a quello che viene chiamato “il portafoglio segreto”: una specie di registro dei conti stranieri di Hamas.
L’impero finanziario fuori dalla Striscia avrebbe un valore di quasi settecento milioni di euro. Del portafoglio segreto fanno parte circa quaranta aziende operanti nel settore edile e immobiliare che si trovano in Turchia, Qatar, Algeria, Emirati e Sudan. Gli introiti vengono destinati alla leadership di Hamas, i cui capi vivono all’estero e i loro conti bancari sono aperti in tutto il mondo.
La leadership di Hamas, secondo la Welt, ha conti presso varie banche turche, alle quali arrivano bonifici effettuati in Europa attraverso istituti corrispondenti. Circa vent’anni fa, secondo fonti sentite dal giornale tedesco, Hamas ha iniziato a costruirsi un proprio ombrello di sicurezza finanziaria, per tutelarsi quando i paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar o la Turchia avessero deciso di interrompere ogni sostegno.
L’uomo di riferimento dell’apparato finanziario di Hamas è Zaher Ali Moussa Jabarin, ed era uno dei più di mille terroristi palestinesi rilasciati nel 2011 nello scambio con il soldato rapito Gilad Shalit. Si è trasferito in Turchia, da dove si reca in Libano, Qatar e Iran e la sua funzione è quella di aiutare i vertici del gruppo a espandere i propri affari. Un tempo Ismail Haniyeh, uno dei volti più noti di Hamas, aveva giurato di voler sopravvivere a olio e za’atar, una miscela di spezie usata per condire molti cibi e considerata un potenziatore di virtù fisiche e mentali, ora invece vive in alberghi di lusso e le sue attività sono ben lontane dai palestinesi. Senza risorse, denaro, cibo né rifugi, i cittadini sono lasciati alla guerra scatenata dalle azioni terroristiche del gruppo.
Israele, bombe sul campo profughi: “Un covo di Hamas. Lì si nascondeva una delle menti del massacro del 7 ottobre”. Redazione su Il Secolo D'Italia 1 Novembre 2023
Sull’attacco al campo profughi di Jabaliya Israele si difende e rivendica di aver colpito con il raid infrastrutture terroristiche di Hamas e di aver ucciso Ibrahim Bihari, comandante del battaglione di Hamas Jabaliya centrale: uno dei leader del massacro del 7 ottobre. «Un ampio numero di terroristi» è stato ucciso assieme a Bihari, rendono noto le forze di Difesa Israeliane (Idf), dopo le bombe sganciate sull’insediamento nel nord della Striscia di Gaza, che hanno provocato decine di morti. Allora vediamo chi era questo capo di Hamas, considerato una delle menti delle stragi nei kibbutz, nella mattanza al rave nel deserto, nel rastrellamento strada per strada, casa per casa, di militari e civili israeliani, rapiti, torturati e tuttora nelle mani di miliziani palestinesi e jhadisti.
Idf: «A Jabalya ucciso uno dei capi di Hamas, tra i responsabili dell’attacco del 7 ottobre»
Intanto, bisognerà cominciare col riferire quanto precisato da un portavoce militare delle forze di difesa israeliane che, nel day after l’attacco al capo profughi di Jabalaya, ha spiegato: «Forze combinate hanno colpito numerosi obiettivi in tutta la Striscia, inclusi centri di comando operativi e cellule terroristiche di Hamas». Una caccia serrata, quella dell’Idf, condotta «sulla base di informazioni di intelligence dell’Isa (Israel Security authority)» che hanno portato all’individuazione e all’uccisione di Ibrahim Bihari, comandante del battaglione di Hamas Jabaliya centrale. Bihari era uno dei leader responsabili di aver inviato terroristi Nukbha in Israele per compiere il sanguinoso attacco del 7 ottobre.
Ecco chi era Ibrahim Bihari, uno dei capi di Hamas
Una delle menti di quel massacro, insomma. E uno dei capi che supervisionava tutte le operazioni militari nel nord della Striscia di Gaza da quando vi sono entrate le Idf. Era anche responsabile di aver inviato i terroristi che realizzarono l’attacco terroristico al porto di Ashdod nel 2014 in cui furono assassinati 13 israeliani. Oltre ad aver diretto il fuoco dei razzi contro Israele. E ad aver portato avanti numerosi attacchi alle Idf negli ultimi vent’anni», riferiscono le Idf.
Nel mirino: centri di comando operativi e cellule terroristiche di Hamas
«La sua eliminazione – si legge in una nota diffusa dalle forze di Difesa israeliane – è stata condotta nell’ambito di un raid su vasta scala contro terroristi e infrastrutture terroristiche del battaglione Jabaliya centrale, che aveva preso il controllo di diversi edifici civili a Gaza. L’attacco ha danneggiato il comando e il controllo di Hamas nell’area. Così come la sua capacità di condurre attività militari contro i soldati delle Idf operanti nella Striscia di Gaza». «Come risultato del raid, un largo numero di terroristi che erano con Bihari sono stati uccisi. E strutture terroristiche sotterranee sotto gli edifici sono crollate dopo l’attacco», concludono le Idf. Rinnovando contestualmente «l’appello rivolto ai residenti dell’area di trasferirsi a sud per la loro sicurezza».
Si intensificano gli scontri: l’esercito israeliano sta «colpendo ovunque»
Intanto, si intensificano attacchi, scontri e combattimenti a Gaza, dove l’esercito israeliano sta «colpendo ovunque». Le forze di Tel Aviv sono entrate anche nella zona nord-occidentale. Hanno occupato l’autostrada principale «mentre cercano di separare il nord dal sud», e Gaza City è assediata. «Combatteremo nelle strade, nei tunnel, ovunque sia necessario. Elimineremo l’abominevole nemico che fronteggiamo», ha assicurato il comandante del fronte sud di Israele Yaron Finkelman parlando ai soldati. Militari ai quali ha chiesto: «Colpite il nemico, ancora e ancora»…
Altri raid su Jabalia, l'Onu si indigna. Gaia Cesare il 2 Novembre 2023 su Il Giornale. Colpito di nuovo il campo profughi. Per Guterres c'è l'ipotesi di "crimine di guerra"
«L'ultima atrocità», la definisce l'Onu. E l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) parla di «attacchi sproporzionati che potrebbero equivalere a crimini di guerra». Da ogni parte del mondo è un susseguirsi di dichiarazioni sconvolte e proteste per i bombardamenti israeliani sul campo profughi di Jabalia, appena quattro chilometri a nord di Gaza, uno scenario di morte, macerie e feriti. Dopo il primo raid martedì, ieri ne è seguito un altro. «Gran parte delle vittime erano terroristi di Hamas», spiega l'ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar: «Il fatto che ci siano anche civili è perché gli islamisti usano donne, bambini e innocenti, per proteggere loro stessi». I terroristi sostengono che fra i morti, almeno 50 martedì e altre decine ieri, ci sarebbero anche 7 ostaggi, 3 con passaporto straniero. L'esercito israeliano, per dimostrare quanto Hamas sfrutti i palestinesi, diffonde l'audio di una telefonata, in cui un islamista, comandante del Battaglione Jabalia, si accorda per sottrarre mille litri di benzina all'Ospedale indonesiano di Gaza, «per il bene del Paese».
È guerra di informazione e propaganda, che prosegue come sul campo, con l'esercito israeliano che riferisce di essere entrato «in profondità», di trovarsi «alle porte di Gaza City» e aver ucciso il capo dell'unità missilistica anticarro di Hamas, Muhammad Asar. I terroristi accusano Israele di «massacri per coprire le sconfitte» e puntano sugli ostaggi: «Il cessate il fuoco è precondizione per un accordo».
I missili sul campo profughi di Jabalia scioccano il mondo e non aiutano la diplomazia. Il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, si dice «sconcertato», la Spagna e Medici senza frontiere «inorriditi», il ministro degli Esteri Ue, Josep Borrell, «sconvolto». Egitto e Venezuela condannano e Berlino chiede a Israele «proporzionalità», pur ribadendo che Hamas usa i civili come scudi umani. Il Qatar ha avvertito che «gli attacchi su larga scala a Gaza minano la nostra mediazione». Nonostante ciò, anche grazie al regime di Doha, oltre 400 civili, fra cui 4 italiani, 73 feriti e oltre 330 fra stranieri e palestinesi con doppio passaporto, sono riusciti a uscire dall'inferno della Striscia ieri attraverso il valico di Rafah. Ma il caso Jabalia è foriero di nuove fratture e violenze. Manifestanti a Tunisi hanno chiesto l'allontanamento dell'ambasciatore americano e tedesco. La Giordania ha richiamato il proprio: tornerà «solo quando Israele metterà fine alla guerra e alla crisi umanitaria che ha provocato». Eppure anche gli Stati Uniti, che venerdì invieranno in Israele e in Giordania il segretario di Stato Antony Blinken, frenano sullo stop alle armi: «Un ampio cessate il fuoco non è la risposta giusta».
Da Tel Aviv il messaggio resta netto: non ci si ferma, spiega il ministro della Difesa Gallant, dopo che sono stati «raggiunti importanti risultati», colpiti 11mila obiettivi, «terroristi a ogni livello», e si lavora «per scoprire la rete sotterranea di tunnel di Hamas». «Sarà una guerra lunga e difficile», ha ribadito il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si è detto vicino alle famiglie dei 15 soldati israeliani uccisi finora «nella più giusta delle guerre, la guerra per la nostra casa». «Hamas ha scelto questo conflitto, non noi», ha aggiunto il generale Itzik Cohen, comandante della 162/a divisione, mentre l'esercito diffondeva i numeri degli islamisti entrati in azione il 7 ottobre, circa 3mila, e dopo che il portavoce di Hamas, Ghazi Hamadi, ha dichiarato alla tv libanese che il gruppo è pronto a ripetere più volte il massacro, finché «Israele non sarà annientato». Si va avanti, dunque, con un'offensiva aerea, navale e terrestre sempre più intensa, mentre si tenta di tenere a bada la Cisgiordania, dove l'esercito ha arrestato ieri almeno 46 palestinesi, di cui 30 di Hamas.
Le sirene ieri hanno suonato ancora nel centro di Israele e a Tel Aviv. Se i razzi di Hamas non fanno vittime fra i civili è perché la difesa anti-aerea riesce a fermarli.
Israele e Palestina, propaganda e realtà: ecco le dieci bugie più grandi. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2023
Slogan. Spesso ripetuti a pappagallo, in una piazza che s’infiamma, si fa trascinare, che neanche sa ciò che urla. I cortei di sostegno alla “resistenza” palestinese stanno vomitato di tutto. Odio, per cominciare. Tanto odio. E poi inesattezze storiche, formulette da propaganda sovietica, falsità. Non è il caso di commentare gli striscioni come «rivedrete Hitler all’inferno» o le immagini di Anna Frank con la kefiah al collo: quelli si commentano da soli. È il caso di analizzare uno dopo l’altro i motti berciati a Milano, a Roma, a Bologna, a Torino, per cercare di ristabilire un minimo di verità oltre alla marea di menzogne che è stata detta. Ecco i dieci punti sui cui i filo-palestinesi e i pro-Hamas di casa nostra non hanno ragione.
1 - «Quello a Gaza è un genocidio»
Nel 2000 la popolazione della Striscia di Gaza contava 1,1 milione di abitanti. Nel 2004 il premier israeliano Ariel Sharon annunciò il Piano di disimpegno unilaterale ebraico (in soldoni, l’intenzione di ritirarsi dalla Striscia), piano che venne attuato l’anno successivo, nel 2005. Nel 2010 la popolazione di Gaza è passata al milione e 600mila abitanti, nel 2020 ha raggiunto i due milioni e 300mila. Significa che, da quando gli israeliani hanno lasciato Gaza, il numero dei palestinesi che vi risiedono è più che raddoppiato. Genocidio?
2 - «Basta con l’apartheid israeliano»
La Lista araba unita, Ra’am, è un partito politico israeliano fondato nel 1996 e che oggi detiene cinque seggi alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme. Non è l’unico: in Israele ci sono Mada (il Partito democratico arabo) e Ta’al (il Movimento arabo per il rinnovamento). Nel giugno del 2021, Ra’am, perla prima volta nella storia di Israele, è entrata a far parte della coalizione del governo Bennett-Lapid. Gli arabo-israeliani che vivono in Israele votano, lavorano, vanno al mercato, a scuola, pagano le tasse, vengono curati se prendono un raffreddore esattamente come gli ebrei che vivono in Israele.
Nel 2022 l’Israel democracy institute ha condotto un sondaggio tra la popolazione araba residente in Israele il quale ha mostrato che l’81% degli arabi-israeliani preferisce vivere in Israele piuttosto che in un altro Paese occidentale. L’apartheid è altra cosa (e comunque in nessuno Stato arabo esiste un partito ebraico).
3 - «Queer for Palestine»
Ovviamente il movimento Lgbtq è libero di dire quel che vuole e difendere chi crede. In Occidente, però. A Gaza, ma anche a Hebron o Ramallah o Jenin, non può fare altrettanto per una ragione semplice: perché a Gaza, ma anche a Hebron o Ramallah o Jenin, non esiste alcun movimento Lgbtq, lì gli omosessuali sono perseguitati. Impiccati, buttati dai palazzi, decapitati.
Vengono incriminati con pretesti tra i più svariati (non ultima l’accusa di essere “collaborazionisti del sionismo”) e uccisi. Numeri ufficiali non ci sono, perché per le grandi organizzazioni internazionali evidentemente questo non è un problema rilevante, ma solo nel 2020 almeno 150 gay palestinesi hanno trovato rifugio in Israele dove esistono ong come Agudà o Habait Hashonè che danno loro riparo. Secondo il Pew research center di Washington solamente il 4% dei palestinesi sarebbe disposto ad accettare, nel consesso civile, una qualsiasi forma di omosessualità. A giugno, alla parata del gay pride di Tel Aviv, hanno invece sfilato 250mila persone.
4 - «Israele è uno Stato terrorista»
Nel giugno del 1948 (in piena guerra iniziata da Egitto, Siria, Libano e Giordania), in un contesto nel quale l’Haganah, il babbo delle Idf, non aveva munizioni manco per difendersi, e infatti ai giovani che iniziavano il sevizio militare veniva consegnata una pallottola, una di numero, e la tenevano nel taschino della giacca per loro stessi qualora fossero stati catturati, il primo ministro ebraico David Ben Gurion fece bombardare e affondare, al largo di Jaffa, la nave Altalena che trasportava un carico di armi destinato all’Irgun, la più famosa entità ebraica paramilitare e terroristica. Le casse dell’Altalena sarebbero state di vitale importanza per l’esercito regolare israeliano, ma Ben Gurion non volle che finissero nelle mani dei terroristi che pure combattevano, mettiamola così, la sua stessa battaglia di sopravvivenza.
Israele non è uno Stato terrorista, è uno Stato che coi suoi terroristi (prima di quelli degli altri) non scende a compromessi. Sul lungomare di Tel Aviv, ancora oggi, c’è una targa che ricorda l’Altalena: a dimostrazione che la lezione di Ben Gurion è ben radicata nella coscienza israeliana.
5 - «L’Anp è più moderata»
L’Autorità nazionale palestinese (Anp) è l’organo di autogoverno palestinese nelle aree A e B di West Bank ed è stata costituita nel 1994 a seguito degli accordi di Oslo. In realtà è retta da Al Fatah, un’organizzazione paramilitare palestinese il cui leader è (non a caso) Abu Mazen. L’articolo 19 dello statuto di Al Fatah (scritto nel 1959 sotto l’egida di Yaser Arafat e mai cancellato o abrogato o modificato) recita: «La lotta armata è una strategia e non una tattica e la rivoluzione armata del popolo arabo-palestinese è il fattore decisivo nella lotta per la liberazione e lo sradicamento della presenza sionista, questo scontro non cesserà sino a quando lo Stato sionista non sarà demolito e la Palestina completamente liberata». A riprova della “moderazione” dimostrata dall’Anp, Abu Mazen ha stanziato, in questi giorni, un fondo di 2,7 milioni di dollari per le famiglie dei terroristi di Hamas morti nel pogrom del 7 ottobre. In base alla legge dell’Anp, infatti, ogni famiglia di un “martire” del jihad anti-ebraico ha diritto a un bonus di 1.511 dollari più un vitalizio mensile di altri 353 (con un bizzarro meccanismo di sussidiarietà retroattiva perché in passato diversi combattenti di Gaza non avevano ricevuto le somme pattuite e l’Anp sta correndo ai ripari pagando ex-post quanto non versato in precedenza).
6 - «Dal fiume al mare»
Il fiume è il Giordano, il mare il Mediterraneo. A parte l’ovvio assunto che considerare tutto il territorio ad esclusivo uso palestinese significherebbe spazzare dalla cartina geografica Israele, il punto non è che non esiste uno Stato palestinese: il punto è che i palestinesi non hanno mai voluto che esistesse. Dalla fine del mandato britannico in Medioriente lo hanno rifiutato ufficialmente almeno quattro volte: nel 1947 quando non hanno accettato la risoluzione dei “due Stati” voluta dall’Onu; a seguito della Guerra dei sei giorni (1967) quando Israele si era detta pronta a restituire i territori occupati militarmente a condizione che venisse riconosciuto lo Stato ebraico nato con i confini di vent’anni prima; nel 2000, quando a Camp David il premier israeliano Ehud Barak era pronto a concedere ad Arafat il 97% dei territori e Gerusalemme est; e nel 2008 quando ci ha riprovato il successore di Barak, Ehud Olmert, ampliando, per quanto fosse possibile, l’offerta sul tavolo di Abu Mazen. Alla luce di tutti questi rifiuti, “dalla terra al mare” è uno slogan vuoto: ciò che ha sempre mosso il jihadismo arabo-palestinese non è un nazionalismo di tipo territoriale, ma la volontà di distruggere lo Stato ebraico.
7 - «Serve una risposta proporzionata»
Cosa significa, di preciso, “risposta proporzionata”? Il diritto internazionale non la codifica: non lo fanno né la Convenzione dell’Aia del 1907 né la Convenzione di Ginevra del 1949 e non lo fa nessun manuale o trattato o atto anche solo bilaterale sottoscritto da chicchessia diciamo (ma solo per tracciare un arco temporale) dal Secondo dopoguerra a oggi. Sarebbe impossibile definirla ed equivarrebbe a legittimare una sorta di legge del taglione la quale non avrebbe fine. Israele non ha mai violato un accordo a cui ha partecipato. Però non è solo questo. È che il suo esercito è l’unico al mondo ad affermare il principio della Tohar Haneshek, ossia la purezza delle armi che esplicita come le unità delle Idf e i suoi uomini siano prima di tutto rispettosi della legge e abbiano il diritto (anzi, il dovere) di contrastare o rifiutare un ordine quando lo ritengono non conforme al diritto internazionale o all’etica.
Le Convenzione sopra citate, tra l’altro, prevedono un divieto assoluto di utilizzo di abitazioni civili, luoghi di culto o ospedali per lo stoccaggio delle armi o il posizionamento delle basi operative. Ne consegue che, tuttalpiù, sarebbe imputabile ad Hamasla responsabilità della violazione del diritto internazionale per l’esposizione dei civili palestinesi ai pericoli del conflitto militare.
8 - «Non c’è pace sotto l’occupazione»
In un raro momento di lucidità delle Nazioni unite, il 22 novembre del 1967 è stata approvata dal consiglio di sicurezza dell’Onu la risoluzione 242 che impegnava Israele a ritirarsi dai territori occupati con la Guerra dei sei giorni a condizione che gli Stati arabi confinanti riconoscessero la sua esistenza. Israele ha sempre tenuto fede all’accordo: nel 1978 ha restituito all’Egitto di Sadat il Sinai, nel 2005 si è ritirata da Gaza e la Cisgiordania è diventata una sorta di limbo (regolamentato solo nel 1993 dagli accordi di Oslo, sicuramente imperfetti ma non per volontà israeliana) dopo che re Hussein aveva rinunciato alla sua sovranità.
L’«occupazione di 56 anni», citata vergognosamente anche dal segretario generale dell’Onu António Guterres, non nasce come un sopruso di Israele in chiave anti-islamica, ma come un’esigenza di difesa. Gli unici arabi che hanno provato a porre fine a questa situazione cercando di vivere in pace con gli ebrei (re Abdullah I di Giordania nel 1951 e Anwar al-Sadat nel 1981) sono stati assassinati. Da altri arabi.
9 - «Gaza è una prigione a cielo aperto»
Prima della guerra, oltre l’80% dei palestinesi di Gaza viveva grazie agli aiuti umanitari internazionali e il tasso di disoccupazione era del 46,6%. In tutta Israele lavoravano 140mila palestinesi, 11mila provenienti da Gaza che potevano passare la frontiera di Erez esibendo un permesso di lavoro (alcuni di loro sono stati assassinati nella mattanza di Hamas di tre settimane fa). Solo nel 2007 Israele ha concesso 7.176 permessi ai medici palestinesi di Gaza per trasportare altrettanti pazienti nel vicino ospedale ebraico Barzilai, ad Ashkelon, dove ci sono strumentazioni e cure all’avanguardia. Non è esattamente uno scenario da penitenziario di massa. La Striscia di Gaza, tra l’altro, non confina solamente con Israele, ma anche con l’Egitto. A sud, tramite il valico di Rafah che dal 7 ottobre non ammette il passaggio (se non di pochi camion con derrate umanitarie): tuttavia nessuno ha mai accusato il Cairo di avere in mano una delle due chiavi della “prigione” palestinese.
10 - «Piangono tutti gli ebrei e nessuno si cura dei profughi palestinesi»
I rifugiati palestinesi sono gli unici ad avere una propria agenzia all’Onu, la Unrwa. Fondata nel 1950, la Unrwa, si occupa di 5,6 milioni di rifugiati, ha 28mila dipendenti quasi tutti palestinesi e nel 2021 metteva a bilancio 1.206.677.000 dollari per le sue attività. Nello stesso periodo, l’Unhcr, che è l’Alto commissariato delle Nazioni unite per (tutti gli altri) profughi del mondo registrava queste cifre: 97,3 milioni di persone seguite, 13mila dipendenti e un bilancio di 8.616.000.000 dollari. A proposito di proporzioni: l’Unrwa gestisce un numero di profughi di più di diciotto volte inferiore rispetto a quello del totale mondiale, ma lo fa con risorse che sono a malapena sette volte più basse. Vivere in un campo profughi è chiaramente drammatico per chiunque, palestinese o no: ma agli occhi della comunità internazionale, e degli aiuti che è disposta a elargire, i profughi palestinesi non sono affatto stati dimenticati. Al contrario, hanno sempre ottenuto un’attenzione privilegiata.
LE TRE VERSIONI DELL ARTICOLO DEL NEW YORK TIMES SUL BOMBARDAMENTO ALL'OSPEDALE DI GAZA
1. Estratto dell'articolo di ilfattoquotidiano.it venerdì 27 ottobre 2023.
Quello che l’esercito israeliano ha identificato come un “razzo puntato su Israele” che “ha fatto cilecca ed è esploso” quasi in contemporanea con l’esplosione dell’ospedale Al-Ahli di Gaza in realtà “non è mai stato vicino all’ospedale”. Non solo: “È stato lanciato da Israele, non da Gaza, e sembra essere esploso sopra il confine tra Israele e Gaza, ad almeno due miglia” dalla struttura. È la conclusione alla quale è arrivato il team di Visual Investigation del New York Times al termine di un’inchiesta condotta da sette persone – Aric Toler, Haley Willis, Riley Mellen, Alessandro Cardia, Natalie Reneau, Julian E. Barnes e Christoph Koettl – con il supporto di altri tre cronisti (Hiba Yazbek, John Ismay e Yousur Al-Hlou).
La conclusione dell’autorevole quotidiano statunitense è dirompente perché, pur non entrando nel merito di cosa (e lanciato da chi) abbia provocato l’esplosione e ritenendo ancora “plausibile” il razzo palestinese, “complica” la ricostruzione ufficiale fornita dalle Forze armate israeliane, basata sui video disponibili dei momenti immediatamente precedenti all’esplosione che, secondo Hamas, ha provocato “centinaia di vittime”.
Una ricostruzione, quella dell’Idf, sposata anche dall’intelligence Usa, e ribadita dal portavoce dell’esercito anche in interviste con Cnn, Bbc e India Today. “Numerosi media – rimarca il New York Times – hanno mostrato il filmato e molti lo hanno citato come prova che un razzo palestinese ha colpito l’ospedale”. Ma il Times – che negli scorsi giorni si era scusato per la copertura nelle ore successive all’evento – ha concluso che il razzo visibile in quei filmati è stato “lanciato da Israele, non da Gaza” ed è esploso lontano dalla struttura.
Il Times, si legge nella lunga inchiesta, “ha sincronizzato le riprese di Al Jazeera con altri cinque video girati contemporaneamente, comprese le riprese di una stazione televisiva israeliana, Channel 12, e di una telecamera Cctv a Tel Aviv”. I video “fornivano una visione del missile da nord, sud, est e ovest”. A quel punto il team investigativo del Nyt ha usato “immagini satellitari per triangolare il punto di lancio” e “ha stabilito che il proiettile è stato lanciato verso Gaza da vicino alla città israeliana di Nahal Oz poco prima” dell’esplosione nel parcheggio dell’ospedale. […]
2. GAZA, AUTOCRITICA DEL NYT SUL BOMBARDAMENTO DELL’OSPEDALE: «TROPPO SBILANCIATI SULLA VERSIONE DI HAMAS»
Estratto da ilsole24ore.com venerdì 27 ottobre 2023.
Il New York Times ha ammesso che il suo primo articolo sull’esplosione nell’ospedale di Gaza la scorsa settimana si fondava erroneamente su quanto riferito da ufficiali di Hamas che puntavano il dito contro Israele. In un editoriale di autocritica […], l’illustre testata americana ha ammesso di non aver chiarito nell’articolo in questione che le fonti non erano state verificate.
L’articolo affermava che il bombardamento dell’ospedale Al-Ahli Arab il 17 ottobre era stata causato da un missile israeliano. Poco dopo Israele ha negato ogni colpa, dicendo che la Jihad islamica era responsabile dell’esplosione e presentando delle prove […]. […]
Il giornale ha ammesso che avrebbe dovuto avere «più cura nella presentazione iniziale, ed essere più esplicito riguardo a quali informazioni potevano essere verificate». Questo perché le notizie inizialmente riportate hanno dato ai lettori «un’impressione non corretta» di quanto si sapesse dell’esplosione e della credibilità della versione fornita dagli ufficiali di Hamas.
L’editoriale sottolinea però che il pezzo è stato continuamente aggiornato, e poco dopo la versione iniziale era stato chiarito che c’era una disputa riguardo al responsabile.
Oggi, il Times ha anche scritto in un articolo che da Hamas non sono arrivate prove o ricostruzioni in grado di sostenere le accuse mosse a Israele per il bombardamento dell’ospedale. E il premier britannico Sunak […] ha confermato che secondo le fonti di intelligence britannica il razzo che ha colpito l’ospedale è partito da Gaza.
3. IL REPORTER FILONAZI
Estratto dell’articolo di Luciano Capone per “il Foglio” venerdì 27 ottobre 2023.
Dopo il pogrom del 7 ottobre di Hamas, con il massacro di 1.400 civili e il rapimento di oltre 200, al New York Times devono aver pensato: chi abbiamo a Gaza per coprire la guerra? Ma sì, quel reporter palestinese che avevamo licenziato perché fan di Adolf Hitler. Bene, riassumiamolo!
E’ successo, infatti, che alcuni media vicini a Israele e alla comunità ebraica […] si sono accorti che in questi giorni a seguire per il New York Times il conflitto tra Hamas e Israele è tornato Soliman Hijjy. Si tratta di un videoreporter che appena un anno fa era stato segnalato da HonestReporting per le sue uscite pubbliche apertamente antisemite.
Nel 2012, Hijjy aveva elogiato Hitler in un post su Facebook, scrivendo: “Quanto sei grande, Hitler”, condividendo un meme del Führer nazista che si fa un selfie. Nel 2018, ha pubblicato sui social network un post in cui scriveva, con una sua foto di accompagnamento, di essere “in uno stato di armonia come lo era Hitler durante l’Olocausto”.
Nel 2020, il giornalista ha giustificato i crimini di Hamas contro i civili israeliani descrivendo il lancio indiscriminato di razzi come una forma di “resistenza”. Il Nyt, dopo che scoppiò il caso, decise di interrompere la collaborazione con Hijjy. Ora però ci ha ripensato.
[…] Ai giornali della destra non è parso vero. Alla richiesta di spiegazioni di Fox News, il Nyt ha fornito una risposta surreale: “Abbiamo esaminato i post problematici sui social media del signor Hijjy quando sono venuti alla luce per la prima volta nel 2022 e abbiamo intrapreso una serie di azioni per garantire che comprendesse le nostre preoccupazioni e potesse aderire ai nostri standard se avesse voluto svolgere un lavoro freelance per noi in futuro”, ha detto un portavoce del giornale liberal.
“Il signor Hijjy ha seguito questi passi e ha mantenuto elevati standard giornalistici. Ha svolto un lavoro importante e imparziale con grande rischio personale a Gaza durante questo conflitto”. Il Nyt non ha poi risposto alle altre domande su quali siano di preciso questi “standard” e come potesse coprire in modo “imparziale” il conflitto tra Hamas e Israele un giornalista che elogiava Hitler e l’Olocausto.
La vicenda imbarazzante dell’imparziale collaboratore antisemita arriva insieme alle polemiche sulla copertura dell’esplosione all’ospedale al Ahli di Gaza, molto probabilmente dovuto alla caduta di un razzo sparato dai miliziani islamisti, e che invece il giornale aveva attribuito a un bombardamento di Israele affidandosi alla versione di Hamas.
Nei giorni successivi, e dopo molte pressioni dell’opinione pubblica, il New York Times si è scusato […]. […] Da un lato, insomma, il New York Times ammette di aver fatto troppo affidamento come fonte su Hamas – spesso citato come “il ministero della Salute di Gaza”, manco fossero i bollettini di Brusaferro e dell’Istituto superiore di sanità – dall’altro, sostiene che per fare le verifiche “imparziali” sul campo si affida a un giornalista antisemita ed estimatore di Adolf Hitler. C’è, insomma, qualcosa che non torna, anche considerando gli standard di sensibilità della redazione del giornale sulle questioni che riguardano il razzismo e le minoranze. […]
Nel conflitto israelo-palestinese parlare per slogan non aiuta a capire: una guida per orientarsi nel dibattito. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera mercoledì 18 ottobre 2023.
Mai come adesso non sono accettabili posizioni partigiane e preconcette, polarizzazioni e pregiudizi. Abbiamo provato a decifrare le frasi più usate da una parte e dall’altra e a sciogliere nodi che, per loro natura, tendono a farsi più intricati
Il conflitto tra Israele, i palestinesi e i Paesi arabi circostanti è uno dei più complessi, contraddittori e difficili da decifrare di sempre. Torti e ragioni si sommano e si elidono, lutti e offese, rivendicazioni legittime e prevaricazione si alternano dal 1947, anno della prima risoluzione delle Nazioni Unite, che decise una spartizione che non avvenne come era stata pensata. Mai come in questa vicenda non sono accettabili posizioni partigiane e preconcette, polarizzazioni e pregiudizi. Eppure, si continua spesso a discutere con foga per sentito dire, usando slogan ripetuti meccanicamente, che hanno smarrito il loro significato. Slogan che finiscono per inquinare il discorso, rendendo impossibile comprendere le ragioni di ognuno. Abbiamo provato a decrittare le frasi più usate da una parte e dall’altra e a sciogliere nodi che, per loro natura, tendono a farsi più intricati.
Le ultime notizie sulla guerra Israele-Hamas, in diretta
«Quelli di Hamas non sono terroristi sono resistenti»
Il parallelo con la resistenza non regge. Se parliamo della resistenza partigiana, questa combatteva contro l’occupazione nazifascista, contro una concezione totalitaria, antidemocratica e liberticida. Hamas è un movimento islamico fondamentalista, che ha instaurato una dittatura religiosa basata su un’interpretazione reazionaria della legge islamica. Come ha detto Federico Rampini, «trovo sconcertante chi scambia per partigiani progressisti quelli di Hamas, che sono portatori di una cultura del fanatismo religioso più reazionario, oscurantista, maschilista, sessista, omofobo». Il suo obiettivo è distruggere il nemico e non condivide con noi nessuno dei valori che riteniamo essenziali in Occidente, a cominciare dal rispetto dei diritti delle donne. Basta leggere i suoi documenti per capire che è un’ideologia che propugna il genocidio degli ebrei.
«Hamas rappresenta i palestinesi, perché è stata eletta democraticamente»
La democrazia nel mondo arabo è sconosciuta. L’unico Stato democratico in Medio Oriente è Israele, dove però i palestinesi con cittadinanza israeliana sono talvolta discriminati e trattati come cittadini di serie B. A Gaza ci sono state elezioni nel 2006, ma si fronteggiavano due movimenti con una concezione autoritaria. Hamas ha usato metodi di intimidazione e se è vero che ha vinto anche perché i gazawi non accettavano più la corruzione e il controllo dell’Olp, è anche vero che un secondo dopo il voto ha ucciso e cacciato i palestinesi avversari, per rimanere dunque il partito unico. Da allora, sono passati 17 anni e non si sono più svolte elezioni.
«La violenza per liberarsi degli occupanti è necessaria»
La concezione della violenza come «levatrice della storia», per dirla con Marx, è ben nota. E non c’è dubbio che in alcuni casi – pensiamo anche alla storia dell’Italia – è stata necessaria per liberarsi dell’invasore. Ma la violenza degli eserciti, delle legittime guerre di liberazioni, è diversa dalla violenza contro i civili, che disumanizza l’avversario trasformandolo in nemico, che si persegue attraverso la tortura e gli omicidi indiscriminati ed efferati contro innocenti. La barbarie, il compiacimento della violenza, non ha nulla a che fare con la lotta di liberazione.
«Anche Israele uccide i civili»
I bombardamenti di Israele uccidono, come gli attentati arabi. La violenza è una regola in quel territorio. Israele la esercita legittimamente in chiave difensiva, ma talvolta senza adottare criteri di proporzionalità e continenza. Un atteggiamento che si può spiegare con la storia di Israele, un piccolo Paese circondato da Stati che ne hanno chiesto la distruzione per decenni, combattendo guerre sanguinose. Nella storia di Israele ci sono poi diversi episodi che si possono ricondurre ad atti di violenza collettiva. Il primo è il massacro di Deir Yassin, avvenuto il 9 aprile 1948, quando 254 civili, tra cui donne e bambini, furono uccisi da combattenti sionisti dell’Irgun e della Banda Stern che entrarono nel villaggio palestinese. Il secondo è la bomba che distrugge nel 1946 l’hotel King David, a Gerusalemme, attentato compiuto dalle bande guidate da Menachen Begin, diventato in seguito primo ministro. E poi il massacro di Sabra e Shatila, in Libano, commesso dalle milizie cristiane maronite libanesi, con la complicità passiva dell’esercito israeliano.
«Hamas lotta contro l’occupazione israeliana, come gli ucraini contro l’invasione russa»
Le similitudini storiche hanno il difetto di essere spesso imprecise e fuorvianti. Questa lo è particolarmente. Gli ucraini hanno uno Stato indipendente che è stato invaso dalla Russia. Senza giustificazione alcuna, che non sia una rivincita tardiva per l’umiliazione subita con la fine dell’Unione sovietica e il tentativo di evitare un’eccessiva avanzata della Nato ai confini. Ma l’attacco non è stato provocato e fa capo all’imperialismo russo e alla volontà di potenza di Putin e non a esigenze di giustizia. Israele è uno Stato legittimo, riconosciuto dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del 1947, che aveva deciso la spartizione del territorio con la nascita anche dello Stato di Palestina. Quest’ultimo fu rifiutato dagli Stati arabi che decisero di sferrare una guerra contro il neonato Stato di Israele, perdendola. Torti e ragioni, in questo caso, si alternano e si sommano, nel ciclo di una storia che va vista nella sua complessità. Ogni aggressione e reazione va inquadrata nel contesto storico.
«Israele ha il diritto di difendersi»
Ogni Stato ha il diritto di difendere i propri confini e i propri cittadini. Ma, come hanno detto praticamente tutti gli attori internazionali, occorre che la reazione sia continente e proporzionata all’offesa. È il concetto della legittima difesa, applicata agli Stati. In questo caso, Israele è circondato da nazioni ostili e spesso la difesa preventiva è un’arma necessaria, come è accaduto nella guerra dei sei giorni del 1967. Ma una reazione eccessiva che sconfini nella punizione collettiva - che va oltre i «danni collaterali», ovvero un numero limitato di vittime civili coinvolte nell’obiettivo militare -, non è ammessa dall’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra.
«Gaza era un territorio libero, prima dell’attacco di Hamas»
Israele nel 2005 ha liberato completamente la striscia di Gaza, smantellando i 21 insediamenti e riportando sul suo territorio 8.500 cittadini israeliani, su volontà del primo ministro Ariel Sharon. Il «disimpegno», come fu chiamato, fu un trasferimento dei coloni in parte libero e incentivato e in parte forzato, che non fu indolore per il Paese. Ma Israele mantenne il controllo delle frontiere marittime e terrestri e dei valichi, escluso quello di Rafah, di competenza egiziana. Gaza dipende da Israele per acqua, elettricità e comunicazioni. Dopo le elezioni del 2006, Hamas ha preso il controllo. Israele ha deciso il blocco, non facendo più entrare e uscire merci e persone. Più che un territorio libero, per effetto combinato del regime islamico di Hamas e del blocco israeliano, la striscia di Gaza è diventata una sorta di prigione.
«Gli ebrei hanno occupato la Palestina»
In Palestina viveva una grande maggioranza di arabi e alcuni ebrei che si erano stabiliti a partire dal 1878, con la prima colonia ebraica di Petah Tiqwa. Come scrive Maxim Rodinson, nel 1880 gli ebrei erano 24 mila su una popolazione di mezzo milione. I pogrom in Russia fecero crescere il numero degli arrivi. Prima del ‘47 cominciò un afflusso di ebrei che entrarono in possesso della terra, comprandola legalmente dai proprietari arabi. Al momento della spartizione del 1947, però, gli ebrei controllavano solo il 7 per cento della Palestina del mandato inglese. A quel punto, con la Nakba (la Catastrofe, per i palestinesi), come ha rivelato lo storico israeliano Benny Morris, la gran parte dei palestinesi (se ne andarono in 700 mila) fu cacciata con la forza o costretta a lasciare le proprie case.
«I palestinesi non esistono»
Fino all’arrivo degli ebrei, la popolazione del territorio non aveva un’identità definita come nazione. Il nazionalismo arabo nasceva negli stessi anni e quello palestinese è stato un riflesso successivo, di reazione all’omologa corrente israeliana, che ha contribuito a formare un popolo, così come si è creato dalla diaspora ebraica (incentivato dai progrom e della Shoah) il popolo israeliano. La sintesi del pensiero dei primi sionisti, a fine ‘800, è racchiusa nella formula: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Così la pensava Golda Meir, che ancora negli anni ‘70 diceva: «Quando mai c’è stato un popolo indipendente con uno Stato palestinese?». Ancora adesso il leader del partito di estrema destra Bezalel Smotrich sostiene che i palestinesi non esistono. Ma con il nazionalismo, non più panarabo ma palestinese, nato anche dall’ostilità di molti Paesi arabi confinanti (vedi il Settembre nero del ‘70, in Giordania), con le guerre, le intifada e l’amministrazione di Cisgiordania e Gaza, si è consolidata sempre di più l’identità del popolo palestinese.
«I palestinesi si son sempre rifiutati di fare la pace»
Nel ‘47, gli arabi di Palestina e i Paesi confinanti rifiutarono la risoluzione dei due Stati e attaccarono Israele. Per decenni, nelle carte e nell’ideologia dei palestinesi c’è stato un rifiuto totale del sionismo e dello Stato d’Israele, di cui si è invocata la distruzione, con continue aggressioni e guerre. Ma negli ultimi decenni, prima con gli accordi di Camp David del 1978 poi con gli accordi di Oslo del 1993, palestinesi e israeliani hanno provato in misura altalenante e contraddittoria la via della pace e della coesistenza. Ma i palestinesi hanno adottato spesso atteggiamenti ambigui. E gli israeliani, governi laburisti compresi, attraverso la politica degli insediamenti, hanno reso sempre più impraticabile la soluzione dei due Stati.
«Io non sono antisemita, sono antisionista»
La parola «sionista» è stata usata in senso quasi spregiativo per molti anni, in alcuni ambienti della sinistra pro Palestina. Dall’altra parte, si è spesso associato l’antisionismo all’antisemitismo. La parola «sionismo» indica il movimento fondato da Theodor Hertzl, in reazione all’affaire Dreyfuss, e viene teorizzato nel libro «Lo Stato ebraico», nel 1896. Con il sionismo ci si proponeva di assegnare una terra, una patria, una nazione, al popolo ebraico. Non necessariamente la terra di Israele, all’inizio, visto che furono presi in considerazione anche Uganda e Argentina. Poi si scelse la Palestina e dal 1948 il sionismo si è materializzato nella creazione dello Stato di Israele. Dirsi «antisionista» oggi, dunque, vuol dire professarsi contrari all’esistenza di Israele. È come se qualcuno oggi fosse contrario all’esistenza dell’Italia e magari puntasse a distruggerla.
Antisionismo, certo, non equivale necessariamente ad antisemitismo. Molti ebrei ultraortodossi (il movimento Satmar e il gruppo Neturei Karta) erano e sono contrari a un’entità statale per il popolo ebraico, tanto che si rifiutano di servire nell’esercito. Ma è chiaro che talvolta l’antisemitismo si maschera dietro l’antisionismo. I terroristi che combattono contro Israele attaccano in tutto il mondo gli ebrei, non solo gli israeliani. I confini rischiano, insomma, di essere labili.
Assia Neumann Dayan per “La Stampa” mercoledì 18 ottobre 2023.
Sono morte cinquecento persone nell’ospedale Al-Ahli Arabi Baptist di Gaza. Sono morte cinquecento persone perché l’ospedale è stato bombardato. Sono morte cinquecento persone tra donne, bambini, uomini, anziani, medici.
Sono morte cinquecento persone, sono morte, e altre ne moriranno. Il ministero della salute palestinese, controllato da Hamas, dice che è stato un bombardamento israeliano. Israele dice che è stato il lancio fallimentare di un missile di Hamas a causare la strage. Vale la pena ricordare che bombardare un ospedale è un crimine internazionale
Noi ancora non sappiamo chi abbia causato la morte di cinquecento persone, ma quello che sappiamo è che nemmeno i filmati, nemmeno le fotografie, nemmeno le prove documentate, nemmeno i testimoni faranno cambiare idea a chi dice che è stato Israele o a chi dice che è stato Hamas. Quindi: è ancora importante la verità? A cosa serve la verità se nessuno è disposto a crederci?
Qual è il numero esatto di morti? Chi è il responsabile? Cercare di capire quello che sta succedendo è un dovere che ognuno di noi dovrebbe sentirsi addosso, ma non è così, perché nessuno è disposto a sacrificare la propria di verità. Si dirà che quella notizia non è vera perché non corrisponde alla nostra idea di vero, e non perché sia falsa.
(...)
È il trauma della Palestina, condannata a subire le conseguenze delle decisioni di Israele, e di Hamas. Ieri era la vigilia della visita di Biden in Israele, e di certo bombardare un ospedale non era la miglior cosa da fare, mettendo a repentaglio qualsiasi intervento degli Stati Uniti. Era anche la vigilia dell’incontro con Abu Mazen, incontro che è stato cancellato. Di certo, ogni notizia diramata da Hamas va verificata, perché sono terroristi, quindi una fonte per natura non attendibile. Di certo, questa è una guerra, e se la responsabilità di Israele venisse verificata, constateremmo che ha commesso un crimine contro l’umanità e ne pagherebbe le conseguenze.
In Occidente nessuno ha la percezione del massacro, è tutto ridotto a una compiaciuta ipocrisia di quelli che occupano il proprio tempo libero a cercare le fonti, le foto, i filmati, a commentare in maniera patologica qualunque notizia. Quello che è venuto meno è il senso dell’opportunità. I morti si piangono, e piangere richiede un tempo di elaborazione che nessuno è più disposto a spendere. È venuto a mancare il senso della comunità civile, sono tornate le svastiche, sono tornate le stelle di David sulle porte, è tornato il silenzio di chi non ha speso una parola per le vittime di Israele.
Un bambino di sei anni negli Usa è stato ucciso solo perché musulmano, i palestinesi muoiono ogni giorno, e chi sopravvive è condannato a vivere l’inferno sulla terra. È vero che in guerra la prima vittima è la verità, così come è vero che le prime vittime sono i civili. Il nostro tempo occidentale andrebbe speso meglio, andrebbe speso a cercare la verità senza sostituirla all’ideologia. I terroristi sono persone innamorate della morte. Si può davvero combattere, e sconfiggere, qualcuno che non crede nella vita, ma solo nella vita che viene dopo?
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - "Ieri sera ho osservato con orrore le notizie di vittime di massa in quello che dovrebbe essere un sito protetto. Centinaia di palestinesi sono stati uccisi quando l'ospedale al-Ahli di Gaza City è stato colpito.
Le circostanze di questa catastrofe e le responsabilità rimangono oscure e dovranno essere indagate a fondo, ma il risultato è molto chiaro, è una tragedia terribile per quelli che sono stati coinvolti".
Lo ha detto il coordinatore speciale dell'Onu sul processo di pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, alla riunione del Consiglio di Sicurezza.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - Gli Stati Uniti hanno raccolto informazioni di intelligence che indicano che l'esplosione all'ospedale di Gaza è stata causata dal gruppo Jihad Islamico Palestinese.
Lo riporta il Wall Street Journal secondo il quale la valutazione americana si basa, in parte, sulle comunicazioni intercettate ma anche su dati satellitari che indicano il lancio di un razzo o di un missile da una posizione di combattimento palestinese all'interno di Gaza. "La nostra attuale valutazione è che Israele non è responsabile per l'esplosione all'ospedale di Gaza", afferma Adrienne Watson, portavoce del consiglio della sicurezza nazionale della Casa Bianca.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - Sembra che l'esplosione all'ospedale di Gaza "sia stata fatta dall'altra parte". Lo ha detto il presidente americano Joe Biden nell'incontro a Tel Aviv con il premier israeliano, Benyamin Netanyahu.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - L'esercito israeliano ha diffuso l'audio di una conversazione telefonica, attribuendola a due miliziani di Hamas, nella quale uno informa l'altro che il razzo caduto sull'ospedale di Gaza è stato lanciato dalla Jihad islamica: "Lo hanno sparato dal cimitero dietro all'ospedale Al-Ma'amadani, ha fatto cilecca ed è caduto su di loro".
Ecco il testo del colloquio secondo la traduzione fornita dall'esercito:
- Ti dico che è la prima volta che vediamo un missile come questo cadere, ed ecco perché stiamo dicendo che appartiene alla Jihad islamica.
- Cosa? - Stanno dicendo che appartiene alla Jihad islamica.
- Viene da noi? - Così sembra.
- Chi lo dice? - Stanno dicendo che il proiettile del missile è un proiettile locale e non come un proiettile israeliano. - Cosa stai dicendo? Silenzio.
- Ma Santo Dio, non poteva trovare un altro posto per esplodere? - Non importa, sì, lo hanno lanciato dal cimitero dietro all'ospedale. - Cosa?? - Lo hanno sparato dal cimitero dietro all'ospedale Al-Ma'amadani, e ha fatto cilecca ed è caduto su di loro.
- C'è un cimitero dietro (l'ospedale)? - Sì, Al-Ma'amadani si trova esattamente nel compound. - Dove si trova quando entri nel compound?
- Prima entri nel compound e vai verso la città, e si trova sul lato dell'ospedale Al-Ma'amadani. - Sì, lo conosco.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - "Il razzo della Jihad islamica sull'ospedale a Gaza è una tragedia orribile. Purtroppo non è la prima volta che razzi lanciati dalla Jihad islamica e Hamas contro Israele cadono invece dentro Gaza, colpendo la popolazione usata da Hamas come scudo umano.
Non è una guerra tra versioni differenti, ma una questione di verità e menzogne. Israele ha le prove che si è trattato di un razzo lanciato dalla Jihad islamica. Ci aspettiamo che i media italiani si attengano ai fatti". Lo afferma l'ambasciatore d'Israele in Italia, Alon Bar.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - La Jihad islamica palestinese ha respinto l'affermazione del portavoce militare israeliano secondo cui un fallito lancio di razzi da parte del gruppo militante di Gaza sarebbe all'origine dell'esplosione all'ospedale Al-Ahli, sostenendo che "l'angolo dell'impatto e l'intensità del fuoco dimostrano che si è trattato di un attacco dall'aria".
Lo riferisce Haaretz. La Jihad ha affermato che "gli ospedali della Striscia di Gaza hanno ricevuto avvisi di evacuazione prima di essere colpiti dai bombardamenti, ma nessuno della comunità internazionale è intervenuto", aggiungendo che "Israele sta diffondendo versioni contraddittorie".
Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Ben-Dor, ha prima affermato che l'ospedale ospita armi e che l'esplosione è avvenuta da dove queste sono state lanciate, mentre l'esercito afferma che l'esplosione è stata il risultato di un lancio fallito da parte della Jihad islamica", sostiene il gruppo islamico.
L'organizzazione ha anche osservato che "proprio come Israele ha precedentemente abdicato alla responsabilità per i crimini che ha commesso, incluso il ferimento della giornalista Shireen Abu Akleh, questo si sta ripetendo anche ora".
(ANSAmed mercoledì 18 ottobre 2023) - Israele ribadisce che l'esplosione avvenuta ieri nell'ospedale al-Ahli di Gaz è stata causata da un razzo difettoso lanciato ieri alle ore 18.59 dalla Jihad islamica da un cimitero non lontano.
Lo ha affermato il portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, in un conferenza stampa in cui ha mostrato immagini degli eventi di ieri sera. Israele, ha aggiunto, ha anche la registrazione di una conversazione fra miliziani palestinesi che confermerebbe il lancio di un razzo difettoso. Dall'inizio del conflitto, ha precisato, 450 razzi palestinesi difettosi sono esplosi all'interno della Striscia
Il portavoce militare ha sostenuto che un volta appreso della esplosione vicino all'ospedale, "Hamas ha controllato le informazioni, ha compreso che si trattava di un razzo difettoso della Jihad islamica e ha deciso di lanciare una campagna globale sui media per nascondere quanto era accaduto davvero. Hanno inoltre gonfiato il numero delle vittime".
Hagari ha precisato che le conclusioni dell'indagine condotta da Israele sulla esplosione nell'ospedale si sono fondate su informazioni di intelligence, su 'sistemi operativi', e su immagini aeree. "Confermiamo che in quella circostanza non ci sono stati attacchi israeliani" ha detto. Hagari ha poi fatto ascoltare la registrazione di una conversazione fra due miliziani palestinesi che confermerebbe che in apparenza parlavano di una esplosione causata da un razzo difettoso.
(ANSAmed mercoledì 18 ottobre 2023) - L'edificio dell'ospedale al-Ahli a Gaza (dove ieri sono rimaste uccise centinaia di persone) ''non e' stato colpito''. Danni sono stati rilevati invece nel parcheggio esterno, dove sono presenti ''i segni di un incendio''. Lo ha affermato in una conferenza stampa il portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, sulla base di immagini aeree. ''Non si notano crateri né danni agli edifici circostanti, come sarebbe da aspettarsi nel caso di un attacco aereo'', ha rilevato.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - "Siamo arrivati d'urgenza nell'ospedale situato nel centro di Gaza e abbiamo visto il genocidio. Li hanno bombardati con i razzi mentre cercavano di riparare i pazienti sotto gli alberi perché non ci sono più stanze. Nessuno è rimasto ferito, sono morti tutti. Questo è un genocidio".
E' la testimonianza drammatica, ripresa da una tv palestinese, che sta facendo il giro dei siti, del medico d'urgenza palestinese Ahmed Yousef el-Luh dopo la strage nell'ospedale al-Ahli di Gaza, arrivato sul luogo subito dopo l'attacco. Nell'intervista il medico lancia un appello: "Leader del mondo, dovete fermare questo massacro contro il popolo di Gaza. Dovete fermare il genocidio. Non possiamo contare i morti perché la maggior parte di loro è dilaniata. Almeno il 30-40% di loro sono bambini. Abbiamo recuperato prima i cadaveri dei bambini, poi quelli delle donne e degli uomini", ha aggiunto.
(ANSA giovedì 19 ottobre 2023) - Le agenzie di intelligence americane stimano che l'esplosione di martedì in un ospedale di Gaza abbia ucciso tra le 100 e le 300 persone, ma hanno avvisato che le loro valutazioni potrebbero cambiare: lo scrive il New York Times citando dirigenti statunitensi e una valutazione dell'intelligence non classificata. Secondo le fonti, il bilancio delle vittime si colloca probabilmente nella fascia bassa di quella stima, ma rappresenta comunque una significativa perdita di vite umane.
(ANSA giovedì 19 ottobre 2023) - Le agenzie di intelligence statunitensi hanno valutato che Israele non è probabilmente responsabile dell'esplosione all'ospedale Al Ahli di Gaza, sulla base di video raccolti da civili, immagini satellitari, attività missilistica tracciata da sensori a infrarossi e altre informazioni di intelligence.
Ma i funzionari dell'intelligence, scrive il New York Times, hanno ammesso di non comprendere appieno cosa sia successo all'ospedale, dove si sarebbero verificati solo lievi danni strutturali senza alcun cratere da impatto, e stanno continuando a raccogliere informazioni. All'esame anche un'esplosione vicino all'ospedale.
"Israele probabilmente non ha bombardato l'ospedale della Striscia di Gaza", si legge nella valutazione non classificata dell'intelligence. "Riteniamo che Israele non sia responsabile dell'esplosione che ieri (17 ottobre) ha ucciso centinaia di civili presso l'ospedale Al Ahli nella Striscia di Gaza", si legge nella valutazione.
Le agenzie di intelligence non hanno però neppure stabilito con certezza che il responsabile del danno sia un razzo palestinese, riferendo alla Casa Bianca e al Congresso che in seguito all'esplosione si sono verificati solo lievi danni strutturali all'ospedale e nessun cratere da impatto.
Due strutture vicino all'ospedale principale hanno subito lievi danni ai tetti, ma le strutture sono rimaste intatte. Dirigenti Usa hanno riferito al Nyt che stanno esaminando attentamente un'esplosione vicino all'ospedale, nel suo cortile o parcheggio, per vedere se sia responsabile di parte o gran parte della perdita di vite umane.
Strage all’ospedale di Gaza: «Decine di bambini morti, fuoco e sangue. Chi si assumerà la responsabilità?» Storia di Greta Privitera su Il Corriere della Sera martedì 17 ottobre 2023.
Quando il dottor Bashar Murad sente l’esplosione, non ci fa molto caso: «Da dodici giorni, l’esercito israeliano bombarda senza sosta, i boati non ci sorprendono più», racconta al telefono. Un collega paramedico gli manda un messaggio: «Hanno colpito». «La nostra base operativa si trova a due chilometri e mezzo dall’ospedale, più passavano i minuti e più capivamo che eravamo davanti al massacro più grande della storia di Gaza», continua dal suo ufficio il responsabile della della Striscia. «A quel punto abbiamo mandato tutti i nostri paramedici e più di cinquanta ambulanze sul posto per evacuare i feriti e portarli all’ospedale di Al-Shifa — il più grande — che dista due chilometri da lì. Cerchiamo di fare il possibile, ma ho paura che siamo davanti a un numero gigantesco di morti e feriti». Poi, racconta l’inferno: «Nel cortile c’erano centinaia di corpi sventrati. Al-Ahli Hospital era diventato il rifugio di moltissimi gazawi che in questi giorni hanno perso la casa sotto le bombe. Adesso c’è sangue dappertutto. Fuoco. Ci sono decine di bambini a terra, squarciati, morti accanto ai loro pochi giocattoli. Gli unici che erano riusciti a portare con loro». Racconta di uomini e donne che urlano disperati i nomi dei figli. Li cercano nel buio: « Che cosa abbiamo fatto di male per meritare anche questo?», continua il dottor Murad . La sua voce viene coperta dal suono delle sirene delle ambulanze e dei colleghi che stanno coordinando tutti gli spostamenti: «Manca l’elettricità, manca l’acqua, manca il carburante, i medicinali. In queste condizioni è quasi impossibile curare i feriti. Non ho la forza né il tempo per arrabbiarmi, ma in quell’ospedale non si nascondevano i miliziani di Hamas. C’erano delle persone senza niente, disperate. E c’erano i pazienti. Non posso immaginare la paura». «Siamo davanti a un genocidio. Secondo la Convenzione di Ginevra, gli ospedali dovrebbero essere il luogo più sicuro del mondo, e invece sono morti tutti. Il mondo deve fare qualcosa. Non c’è rifugio per chi vive qui», scrive Yousef Mema, un giovane infermiere. Murad vede la rabbia delle persone che si sentono abbandonate dalla comunità internazionale. «Quanti bambini di Gaza devono ancora morire per un cessate il fuoco? Perché l’Europa e gli Stati Uniti non si fanno sentire? Siamo in trappola, ci chiedono di evacuare gli ospedali ma non abbiamo né mezzi, né le possibilità per farlo. Non ci sono posti nelle strutture del Sud del Paese e noi non abbandoniamo la nostra gente. È assurdo che non abbiano ancora aperto il . Ci serve tutto per sopravvivere e per curare chi sta morendo». Un paramedico, collega del dottor Murad, piange metre gli racconta quello che ha visto. «Io piango ogni giorno, lo faccio quando non mi vede nessuno. Ho cinquant’anni e sono nato e cresciuto a Gaza. Mi chiedo chi avrà sulla coscienza questo disastro», conclude il dottore.
Cosa è successo all’ospedale Al Ahli di Gaza: i rottami, l’incendio, le voci. «Un missile della Jihad». Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2023.
Anche l’intelligence Usa propende per l’incidente «interno». Una fonte dei servizi europei all’Afp: i morti forse tra i 10 e i 50
L’esplosione è avvenuta nel cortile dell’ospedale Al Ahli, fondato nel 1882 dalla diocesi episcopale di Gerusalemme e dove si sono rifugiati centinaia di civili. Non sta nella parte della Striscia che l’esercito ha dichiarato zona più o meno sicura, quelle aree verso cui da una settimana spinge a spostarsi gli abitanti del nord. La clinica è però almeno a sud di Gaza City.
Alle 9 del mattino il viceammiraglio Daniel Hagari, portavoce delle forze armate, riunisce i giornalisti internazionali per illustrare la ricostruzione israeliana di quello che è successo 13 ore prima, alle 18.59 di martedì, una striscia di fuoco — nei primi video diffusi da Gaza — che arrossa il buio. Hamas ha accusato subito il nemico di un massacro — i fondamentalisti intervengono al posto del ministero della Sanità, considerata la fonte ufficiale — e denuncia oltre 500 morti. Cifra molto ridimensionata da una fonte dei servizi segreti di un Paese europeo: «È molto probabile che siano tra i 10 e i 50», dice all’agenzia France Presse.
Nei filmati apparsi sui canali digitali si sente il fischio di un proiettile in arrivo fendere l’aria, poi lo scoppio. La televisione Al Jazeera, di proprietà del Qatar, diffonde la ripresa da una telecamera fissa in cui si vede un razzo lanciato da dentro il territorio palestinese che esplode in aria e si fionda giù all’indietro in una scia di fiamme, pochi secondi dopo sullo sfondo compare il flash della detonazione. Un analista consultato dalla televisione britannica Bbc commenta: «L’incendio sembra generato dal carburante di un razzo più che da un ordigno».
Il dialogo intercettato
«Cosa?». La prima reazione non è una domanda, è stupore, incredulità.
«Dicono che appartenga alla Jihad islamica», risponde l’altra voce in arabo.
«È nostro?».
«Sembra proprio di sì».
«Chi lo dice?».
«I resti corrispondono a un razzo locale, non israeliano».
«Ma in nome del cielo non poteva trovare un altro posto per esplodere».
A parlare sarebbero due comandanti di Hamas intercettati dall’intelligence militare. Hagari ha reso pubblica la conversazione, mentre il mondo arabo — la gente nelle strade, i leader nei palazzi del potere — continua a ritenere Israele responsabile.
Ieri mattina, con la luce del giorno, i palestinesi hanno rilanciato le immagini del piazzale colpito, il danno materiale maggiore visibile sono le auto bruciate. Non si scorgono crateri di grandi dimensioni, la maggior parte dei palazzi attorno sembra intatta — qualche finestra in frantumi, tegole rovesciate sul tetto di un edificio a un piano — rispetto alla devastazione che dovrebbe causare un missile israeliano. Se è stato il razzo della Jihad Islamica a fare da miccia, potrebbe aver centrato un deposito di combustibile o si trattava di un’arma più potente con più propellente nei serbatoi: le vittime sopravvissute presentano i segni di ustioni, i volti anneriti dal fumo nero dei combustibili.
La fazione
I boss della Jihad Islamica, la fazione più legata all’Iran dentro a Gaza, replicano che gli israeliani «mentono»: «L’angolo dell’impatto e l’intensità del fuoco dimostrano che si è trattato di un attacco dall’aria». Hosam Naoum, il vescovo anglicano di Gerusalemme, dice che l’ospedale aveva ricevuto nei giorni scorsi almeno tre ordini di evacuazione, ma «che il personale medico non aveva voluto andarsene». Ammette: «Non siamo esperti militari, chiediamo solo che la gente veda quello che sta succedendo, ne abbiamo abbastanza di questa guerra».
L’esercito israeliano dichiara di aver individuato 450 casi di razzi ripiombati dentro la Striscia in queste quasi due settimane, è successo anche in altri conflitti tra lo Stato ebraico e Hamas. Durante i due mesi di scontro tra luglio e agosto del 2014, nove bambini erano stati ammazzati mentre giocavano in un parchetto vicino al campo di rifugiati Shati, la Spiaggia. Pochi minuti dopo la strage, miliziani con il passamontagna nero erano apparsi, avevano avvolto i resti del proiettile in un telo e l’avevano portato via. «Hanno voluto nascondere la prova — sostenevano testimoni locali — che fossero stati loro».
Anche l’intelligence americana — scrive il New York Times — propende per l’ipotesi di un disastroso incidente interno, precisando che si tratta di «conclusioni preliminari». Gli analisti avrebbero utilizzato i rilevamenti dei satelliti dotati di sensori a infrarossi che raccolgono migliaia di dati per rilevare in diretta eventuali lanci: lo stesso sistema aveva fornito le prime prove che l’aereo della Malaysia Airlines in volo sopra l’Ucraina nel 2014 era stato abbattuto da un missile di fabbricazione russa.
Nella battaglia digitale delle versioni, la ricostruzione israeliana è contestata via social media non tanto nei dettagli, viene messa in discussione la credibilità dei portavoce militari ricordando l’uccisione di Shirin Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera morta durante la battaglia a Jenin, in Cisgiordania, l’11 maggio dell’anno scorso: l’inchiesta interna aveva impiegato quattro mesi per ammettere che la reporter «poteva esser stata colpita accidentalmente dai soldati», anche se «non è possibile determinare in modo inequivocabile l’origine degli spari».
Toni Capuozzo, cosa non torna sulla strage di Gaza: "Circostanze sospette". Gabriele Imperiale su Il Tempo il 17 ottobre 2023
“Una strage servita sul vassoio a un incontro molto importante per il destino di Gaza”, è il sospetto di Toni Capuozzo, giornalista e volto storico di Mediaset, interrogato da Nicola Porro nel suo Stasera Italia sull'esposione dell’ospedale Al-Ahli Arabi Baptist nel centro di Gaza City. Interrogato dal conduttore – “Toni cosa può essere successo?” – il cronista esprime tutte le sue perplessità sui video che ritraggono la distruzione del complesso ospedaliero dove, secondo fonti palestinesi, sarebbero morte oltre 500 persone. "Non sono un perito balistico”, esordisce, però guardando le immagini "mi sembra che si senta abbastanza nettamente quello che è il rumore di un razzo, non di un missile scagliato da un elicottero o da un aereo". Capuozzo, esperto cronista di guerra e conoscitore del Medio Oriente, mette in discussione – con tutte le cautele del caso - la paternità del raid, attribuita da fonti palestinesi e da alcuni media alle forze di Israele.
“Compito del giornalista è cercare di capire che cosa si ci sia dietro i dettagli”, spiega Capuozzo che spiana la strada ad altri dubbi: “Come mai c'era un cameraman che inquadrava quella scena?”. E perché era presente “in quel preciso momento ea questa debita distanza di sicurezza?”, si chiede il cronista. Dubbi che motiva con un precedente: “Giorni fa c'era una giornalista di Al jazeera che parlava in diretta e sulla cosiddetta ‘torre di Gaza’ è arrivato il colpo di avvertimento che gli israeliani mandano su un edificio per permettere ai civili di evacuare”. ricorda Capuozzo. “Lì era ovvio che sai che devi riprendere l'edificio perché starà per essere bombardato, ma qui è un colpo di fortuna per un cameraman prendere il momento dell'esplosione”, sottolinea.
“Ci sono circostanze sospette”, conclude il suo pensiero Capuozzo, “a me pare poi che tutto questo avviene alla vigilia della visita di Joe Biden”: l’attacco all’ospedale sembra “una strage servita sul vassoio a un incontro molto importante per il destino di Gaza”.
La strage all’ospedale di Gaza scatena la rabbia nel mondo arabo. Andrea Legni su L'Indipendente mercoledì 18 ottobre 2023.
Il tremendo attacco all’ospedale al-Ahli, nella striscia di Gaza, che nella serata di ieri ha ucciso centinaia di civili ha prontamente provocato rabbia nei governi e nelle popolazioni arabe. Mentre Israele cerca di negare la paternità della strage, attribuendone la causa ad un razzo lanciato male dai “terroristi”, nel mondo arabo nessuno crede alla giustificazione presentata senza alcuna prova. In molti Paesi si sono scatenate immediate proteste popolari che hanno preso di mira le ambasciate israeliane e statunitensi, proprio a poche ore dal viaggio programmato di Biden, che avrebbe dovuto incontrare – oltre al premier israeliano Netanyahu – il re di Giordania e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, i quali hanno però annullato l’incontro per protesta. Con il viaggio diplomatico il presidente americano puntava a tenere a moderare la reazione dell’alleato israeliano, con lo scopo di scongiurare il possibile allargamento del conflitto. Una missione che ora sarà molto difficile, anche perché – stando alle dichiarazioni rilasciate dai governi arabi – la linea rossa è stata superata.
La rabbia si è riversata nelle strade e nelle piazze del mondo arabo. In tutta la Cisgiordania sono stati proclamati tre giorni di lutto, lo sciopero generale e sono partiti immediati cortei spontanei di protesta che hanno coinvolto anche i palestinesi di Gerusalemme Est e sono stati particolarmente violenti, con attacchi alle forze di occupazione, a Jenin, Nablus, Betlemme e Ramallah. In Turchia migliaia di persone si sono radunate a Istanbul, mentre un gruppo di manifestanti ha assaltato la stazione radar della NATO di Kürecik. In Iraq un attacco con i droni ad una base americana è stato sventato. Mentre le proteste più accese si sono verificate in Iran – dove una folla oceanica si è riunita a Teheran – e soprattutto in Libano. Nella capitale Beirut migliaia di manifestanti si sono riversati in strada in un lunghissimo corteo contro Israele composto da auto, motorini e persone a piedi. Mentre altri manifestanti sono passati all’azione dando alle fiamme l’ambasciata americana e attaccando il palazzo delle Nazioni Unite, per protestare contro l’inazione della comunità internazionale.
La rabbia dei popoli arabi ha trovato cassa di risonanza nelle proteste formali dei governi. Il re di Giordania, Abdullah II, ha definito l’attacco «un crimine di guerra» e, come detto, ha annullato l’incontro con Biden. L’Egitto ha invitato la comunità internazionale ad intervenire per far rispettare a Israele il diritto internazionale. L’Arabia Saudita, che con Israele stava firmando uno storico accordo di normalizzazione dei rapporti diplomatici, condanna «nella maniera più forte possibile l’atroce crimine commesso dalle forze di occupazione israeliane». La Turchia, alleato della NATO, ha reagito duramente: il presidente Erdogan ha definito gli attacchi israeliani «privi dei valori umani più basilari» mentre tutti i partiti turchi – incluso il filocurdo HDP – hanno firmato un documento congiunto di condanna a Israele.
Ma a preoccupare maggiormente Tel Aviv e l’esercito israeliano sono le reazioni del popolo palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme – dove la situazione rischia di esplodere – e soprattutto quella dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah controllate da Teheran. Il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha annunciato che «le fiamme delle bombe israelo-americane sganciate stasera sui palestinesi innocenti in cura nell’ospedale di Gaza travolgeranno presto i sionisti», mentre i miliziani di Hezbollah hanno proclamato per oggi «una giornata di rabbia senza precedenti», chiamando tutti i musulmani a punire i crimini di guerra israeliani. Le prossime ore saranno decisive per capire se il conflitto si andrà ad allargare al Libano, con esiti che a quel punto potrebbero essere imprevedibili con un possibile effetto domino che potrebbe portare a un conflitto regionale allargato. Il presidente USA, se vuole evitare di aggiungere un nuovo fronte a quello ucraino, dovrà riuscire ad obbligare il governo israeliano ad abbassare la tensione e cessare i bombardamenti su Gaza. Ammesso che a questo punto possa bastare. [di Andrea Legni]
Colpire gli ospedali è un crimine di guerra che Israele ha già compiuto di frequente Giorgia Audiello su L'Indipendente giovedì 19 ottobre 2023
Il brutale ed efferato attacco compiuto probabilmente dalle forze israeliane contro l’ospedale al-Ahli, nella striscia di Gaza – che ha provocato 471 morti – ha suscitato la più ferma condanna e l’indignazione di un’ampia parte dell’opinione pubblica internazionale, considerato che colpire le infrastrutture civili, privare le strutture sanitarie di elettricità e acqua e danneggiare il personale medico significa violare le leggi di guerra stabilite dal diritto internazionale, in particolare dalla Convenzione di Ginevra del 1949 e dai Protocolli aggiuntivi del 1977. Ai sensi dell’articolo 18 della citata Convenzione, infatti, “gli ospedali civili che si prendono cura di feriti e malati, di infermi e casi di maternità non possono in alcun caso essere oggetti di attacco, ma devono in ogni circostanza essere rispettati e protetti dalle parti in conflitto”. La stessa Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che l’attacco alla struttura è stato “senza precedenti nella sua portata”. Non sarebbe comunque la prima volta che Israele colpisce ospedali e infrastrutture non militari: secondo l’agenzia britannica Reuters, nella sola giornata di martedì ben 115 attacchi sarebbero stati compiuti contro strutture sanitarie a Gaza. Tuttavia, Israele non riconosce la paternità dell’ultimo bombardamento, scaricando la responsabilità sulla Jihad islamica, senza però fornire prove – al momento – a sostegno di quanto affermato.
Da parte sua, il gruppo militare palestinese ha negato le accuse, dichiarando che in quel momento non stava portando avanti alcuna azione militare né a Gaza né nei suoi dintorni. Inoltre, a rendere poco credibile la tesi israeliana vi è un tweet – poi subito rimosso – del nuovo portavoce del premier Netanyahu, Hananya Naftali, in cui si scriveva che «l’aeronautica militare israeliana ha colpito una base terrorista di Hamas dentro un ospedale di Gaza». L’ambasciatore palestinese all’ONU ha esplicitamente dichiarato che il presidente dello Stato ebraico «è un bugiardo» e ha spiegato che «Il suo portavoce e il portavoce digitale hanno twittato che Israele ha eseguito il bombardamento pensando che questo ospedale fosse una base di Hamas. Poi ha cancellato quel tweet. Ma noi abbiamo la copia di quel tweet». La prova che nell’ospedale non ci fossero basi di Hamas è data dal fatto che tutte le vittime dell’attentato sono civili.
Come anticipato, non sarebbe la prima volta che Israele prende di mira obiettivi e infrastrutture civili: martedì si sarebbero verificati 115 attacchi contro strutture sanitarie a Gaza, mentre la maggior parte degli ospedali non può operare a causa della mancanza di acqua e elettricità. Inoltre, come riporta il media Al Jazeera, all’inizio di questo mese, le bombe israeliane hanno colpito una scuola gestita dall’UNRWA – l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi – nella Striscia di Gaza. L’agenzia afferma che almeno quattro scuole a Gaza hanno subito danni a causa dei bombardamenti israeliani dall’inizio della guerra tra Hamas e le forze israeliane il 7 ottobre. Un altro crimine contro civili compiuto di recente dall’IDF (forze di difesa israeliane) e inizialmente negato da Tel Aviv è quello della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa nel 2022 mentre seguiva un’incursione israeliana nel campo rifugiati di Jenin, in Cisgiordania. Anche in questo caso, Tel Aviv aveva negato ogni responsabilità facendo ricadere la colpa sulle milizie palestinesi, mentre in seguito un rapporto di un organismo investigativo incaricato dalle Nazioni Unite ha confermato la responsabilità delle forze israeliane che hanno usato “forza letale senza giustificazione”.
Ma bombardare ospedali e infrastrutture civili non è l’unico crimine di guerra perpetrato dallo Stato ebraico: lo stesso stato di assedio a cui è stata sottoposta la popolazione della Striscia viola il diritto internazionale ed è stato equiparato da esperti di diritto internazionale e da alcuni attivisti ad una punizione collettiva dell’intera popolazione dell’area, pari a 2,3 milioni di persone, vietata dalle leggi internazionali. Per questo, alcuni osservatori ritengono che quella in corso nella Striscia possa essere considerata una vera e propria pulizia etnica ai danni del popolo palestinese: a sostenerlo è stata, negli ultimi giorni, la relatrice speciale dell’ONU per i Territori occupati, Francesca Albanese, che ha spiegato essere altissimo il rischio che Israele metta in atto una «pulizia etnica di massa». Cosa che si sta puntualmente verificando e che appare una reazione decisamente spropositata rispetto ad un “semplice” atto di difesa contro gli attacchi di Hamas, tanto che il massimo diplomatico cinese Wang Yi ha dovuto ricordare che il diritto all’autodifesa deve rispettare il diritto internazionale e il diritto internazionale umanitario. Del resto, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha definito i palestinesi un «popolo bestiale», ordinando un «assedio completo» della Striscia di Gaza, ossia niente elettricità, niente cibo, niente carburante. In questo modo, la popolazione rischia di morire di stenti e gli ospedali non possono curare i feriti: «Stiamo soffrendo e il mondo non muove un dito. Questo è un SOS al mondo intero», ha detto mercoledì un rappresentante dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.
Si tratta della più completa e manifesta violazione delle leggi di guerra, rispetto alla quale l’Occidente non ha nulla da dire. Anzi, il presidente americano Joe Biden, arrivato ieri in Israele per provare a far sì che il conflitto non si estenda su scala regionale, ha preso le parti di Tel Aviv, dichiarando con riferimento all’esplosione dell’ospedale di martedì sera che «sembra che sia stato fatto dall’altra squadra, non da te, ma alcune persone non ne sono sicure». Tuttavia, come dichiarato dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, «[Israele] non deve limitarsi a commentare nei media o sui social media, deve produrre le prove». Ha quindi esortato a fornire immagini satellitari che possano aiutare a chiarire la situazione e identificare l’autore della strage.
Indipendentemente dal disumano attacco all’ospedale di al-Ahli, la totale disapplicazione delle regole del diritto internazionale – a partire dallo stato di assedio della Striscia – è indiscutibile e mentre il “democratico” Occidente è sempre pronto a condannare i presunti crimini di guerra dei suoi avversari geopolitici, tace ipocritamente su quelli compiuti dagli “alleati”. [di Giorgia Audiello]
Gaza, tutti i morti causati dagli errori dei terroristi islamici. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 20 ottobre 2023
L’11 maggio scorso, Layan Midawekh, di appena
dieci anni, è morta a Gaza dopo che le è esploso sulla testa un razzo difettoso
sparato dalla Jihad islamica. Sotto gli stessi “colpi amici” è morta anche Yazen
Alian, di sedici anni. Sia Layan che Yazen erano civili palestinesi. Nelle
stesse ore altri due palestinesi sono morti, a Beit Hanun, per altrettanti
missili della Jihad islamica che hanno fatto cilecca. Le loro quattro bare sono
entrate nel computo delle “perdite palestinesi”: senza che sia stato specificato
come quelle vite si siano in effetti spezzate e, quindi, mettendole tacitamente
sul conto dei “crimini” di Israele.
Il 7 agosto 2022 un razzo lanciato da Gaza è caduto vicino a una clinica di
Jabalia, nella stessa zona, e ha ucciso due civili. Il giorno dopo le Idf hanno
puntualizzato che dei 1.100 razzi lanciati dalla Jihad islamica e da Hamas in
una manciata di giorni, 200 (uno su cinque) sono caduti all’interno della
Striscia uccidendo almeno quindici palestinesi. Per tutto il 2021 il Centro
d’informazione israeliano per i diritti umani nei territorio occupati, il
B’Tselem, testimonia 27 palestinesi uccisi dai palestinesi: 25 nella Striscia di
Gaza (sette bambini). Il 5 maggio del 2019 sono morte una neonata di quattordici
mesi e sua madre che era incinta: «Non uccise da un attacco israeliano, ma da
armi difettose della Jihad islamica», hanno precisato i riservisti sul campo.
Di nuovo B’Tselem riporta che, tra il giugno del 2004 e il luglio del 2014, i civili israeliani morti sotto i missili di Gaza sono stati ventisei, quelli palestinesi undici. Nell’agosto del 2014 un razzo palestinese si è schiantato sul campo profughi palestinese di al-Shati e ha ucciso tredici civili, tra i quali undici bambini. Potremmo andare avanti, ma la verità è che l’ospedale di Gaza colpito martedì ha dei precedenti che si ascrivono nel capitolo della guerriglia (spesso artigianale) e non della guerra che Israele fa per difendersi. Tutto il resto (a cominciare dalla vergognosa reazione d’acchito di certa stampa occidentale) è propaganda.
Porcaio Unico Televisivo. L’indecente informazione anti israeliana sull’ospedale di Gaza (colpito da Hamas). Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 20 ottobre 2023.
In questi giorni abbiamo assistito a uno scempio civile, morale e professionale in cui si è esercitato un buon numero di plenipotenziari del giornalismo democratico, dando a Israele la colpa dei morti uccisi dal missile dei terroristi palestinesi
Potevamo aspettarcelo. L’entità sionista non ha esitato a censurare l’evidenza definitiva delle responsabilità giudaiche: il missile che ha distrutto l’ospedale di Gaza aveva la punta adunca. Questa verità inoppugnabile, che avrebbe potuto fare piazza pulita della propaganda dell’imperialismo usuraio, è stata scientificamente oscurata dalla coltre di fake news che nel giro di pochi minuti si è addensata a copertura di quella risultanza imbarazzante.
E una volta che la stampa asservita, con solerte
unanimità, si è data a cacciare in clandestinità una simile prova del nove, non
c’è stato più nulla da fare. Si è insinuata con irrefrenabile capacità pervasiva
l’ipotesi satanica e controrivoluzionaria secondo cui la paternità del disastro
potesse essere dubbia: e addirittura – si è giunti perfino a questo! – che la
responsabilità di tutti quei morti potesse essere addebitata a quelli che il 7
ottobre avevano magari ecceduto un po’, ma certamente senza decapitare nessun
bambino e in ogni caso reagendo in modo ben comprensibile a una sopraffazione
che nessuno, si spera, vorrà negare.
Si può capire allora perché la notizia circa le inequivocabili fattezze ebraiche
di quel missile sia stata censurata. Se così non fosse stato, sarebbe emerso
quel che solo la potenza della cospirazione sionista ha potuto finora
nascondere, mentre purtroppo nessuno, ma proprio nessuno, neppure in un
trafiletto, ha avuto il coraggio di dirlo: che sul pretesto delle finte
decapitazioni e della giusta sanzione a un rave party organizzato senza
l’autorizzazione dell’Anpi, Israele ha deliberatamente ucciso centinaia di
persone in un ospedale.
Se ci fosse ancora qualcuno che legge i giornali, saprebbe che quella fatta qui
sopra non è la messa in vignetta di certa informazione, ma una descrizione
addirittura edulcorata dello scempio civile, morale e professionale in cui si è
esercitato un buon numero di plenipotenziari del giornalismo democratico fondato
sulla Resistenza, sull’Atac, sul reddito da 25 aprile e sulla denazificazione
dell’Ucraina.
Sperare che quei poveri innocenti uccisi avessero diritto a una giustizia
diversa, fondata su un dovere di verità ormai in desuetudine, e su
un’informazione meno indecente rispetto a quella del Porcaio Unico Televisivo e
della stampa pro-sgozzatori, era quel che si dice speranza vana.
Scontri e molotov. Dal Libano alla Turchia, insorgono le piazze arabe contro Israele. Linkiesta il 19 Ottobre 2023
A Berlino una sinagoga è stata attaccata con bombe incendiarie. In Libia è stata presa di mira l’ambasciata italiana. Mentre negli Stati Uniti cinquecento persone, tra cui una ventina di rabbini, sono stati arrestati al Campidoglio mentre protestavano contro la guerra
Le piazze arabe sposano la versione di Hamas sul missile caduto sull’ospedale di Gaza e insorgono contro Israele. Migliaia di persone hanno manifestato a Tunisi, in Turchia, in Giordania e in Libano, con scontri tra manifestanti e forze di sicurezza. Bersaglio delle proteste, sono le ambasciate di Tel Aviv degli Stati Uniti e anche dei Paesi europei. E a Berlino la sinagoga è stata danneggiata dal lancio di bottiglie incendiarie.
«Morte alla Francia e all’Inghilterra», hanno gridato i manifestanti a Teheran, lanciando uova contro i muri del complesso dell’ambasciata francese. Ad Amman oltre 5mila persone si sono radunate nei pressi dell’ambasciata d’Israele. In Marocco e in Egitto, il ministero degli Esteri israeliano ha disposto l’evacuazione dello staff delle ambasciate a causa delle locali manifestazioni di protesta. A Beirut, in Libano, le forze di sicurezza hanno dovuto fare ricorso agli idranti per arginare i manifestanti che dopo un sit in organizzato a sostegno delle vittime di Gaza hanno tentato di raggiungere l’ambasciata degli Stati Uniti.
Le proteste si sono allargate anche alla Turchia. Ieri una persona ha perso la vita nelle imponenti manifestazioni davanti al consolato israeliano, mentre le moschee di tutta la Turchia hanno intonato dagli altoparlanti il richiamo all’unione e al raccoglimento di tutti i fedeli dinanzi un evento grave.
A Tunisi, migliaia di manifestanti si sono riuniti davanti all’ambasciata francese per esprimere la loro rabbia contro l’attacco di Gaza . «Il licenziamento dell’ambasciatore è un dovere», hanno scandito i manifestanti che accusano i francesi di essere «alleati dei sionisti». E un gruppo di manifestanti si sono radunati pure nel centro di Tripoli raggiungendo l’ambasciata italiana e accusando il nostro Paese di appoggiare «l’aggressione di Israele a Gaza».
Non sono mancate le proteste anche in Europa. Con gravi conseguenze. A Berlino una sinagoga è stata attaccata con bombe molotov. Secondo la polizia tedesca, il tempio della comunità di Kahal Adass Jisroel nel quartiere Mitte è stato colpito con due ordigni incendiari. E ci sono stati scontri durante la notte tra immigrati musulmani e polizia nei quartieri di Neukoelln e Kreuzberg e alla Porta di Brandeburgo, con diversi agenti che sono rimasti feriti.
Dall’altra parte dell’Oceano invece, negli Stati Uniti, cinquecento persone, tra cui una ventina di rabbini, sono stati arrestati al Campidoglio mentre protestavano contro la guerra, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza. Lo comunica Jewish Voice for Peace, una delle due organizzazioni ebraiche dietro la protesta. La polizia del Campidoglio ha strappato striscioni con la scritta «cessate il fuoco adesso» mentre i manifestanti indossavano magliette con la scritta «non nel nostro nome: gli ebrei dicono ora il cessate il fuoco».
Guerra in Israele. L'ignorantezza.
Alessandro Sallusti il 19 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Si chiama "riflesso condizionato", è il meccanismo studiato dallo scienziato
russo Ivan Pavlov agli inizi del secolo scorso che spiega la reazione
dell'animale in cattività a un certo stimolo
Si chiama «riflesso condizionato», è il meccanismo studiato dallo scienziato
russo Ivan Pavlov agli inizi del secolo scorso che spiega la reazione
dell'animale in cattività a un certo stimolo. Nulla che abbia a che fare con la
logica o con l'intelligenza, semplice ed immutabile rimbalzo tra azione e
reazione. Ecco, tra i tanti mali di cui soffre la sinistra, certamente c'è il
«riflesso condizionato», per cui se non sei dei loro sei fascista, se sei ricco
sei un evasore, se sei islamico sei nel giusto, eccetera eccetera. E, quindi, se
un'esplosione fa saltare in aria un ospedale a Gaza provocando decine o forse
centinaia di morti, sono certamente stati gli israeliani.
Non solo. La sinistra soffre di un altro male, quello che il comico romagnolo
Paolo Cevoli, parlando dei suoi corregionali, ha definito «l'ignorantezza»,
sindrome che consiste nel parlare prima di pensare. Bene. Il micidiale mix tra
«riflesso condizionato» e «ignorantezza» fattori che come abbiamo visto
escludono l'uso del cervello - ha fatto sì che l'altra sera tutti i leader della
sinistra italiana abbiano pronunciato una sentenza di condanna senza appello
contro Israele per quella maledetta bomba sull'ospedale. Non un dubbio, non un
attendere almeno i primi riscontri. No, «Israele assassina e stragista», detto
quasi con un filo di compiacimento per un insperato regalo che avrebbe potuto,
nella loro testa, compensare, almeno mediaticamente, l'orrore compiuto dai loro
amici di Hamas.
Se qualcuno di questi signori avesse acceso per un attimo il cervello, avrebbe potuto chiedersi perché mai Israele, al netto della questione civile e morale, dovrebbe compiere volontariamente un simile errore politico passando in un istante da vittima a carnefice agli occhi del mondo. E perché avrebbe dovuto smentire con forza e da subito di essere l'autore di quell'orrore, quando è noto che oggi la tecnologia è in grado di ricostruire il percorso di ogni singola bomba e che, quindi, la bugia avrebbe avuto le ore contate e aggravato la sua posizione.
No, a sinistra nessuno si è fatto domande simili, salvo poi passare, nel corso della giornata, al silenzio quando, ora dopo ora, si è fatta strada, supportata da indizi e prove, l'ipotesi concreta che quel missile non fosse israeliano, bensì palestinese. In attesa di certezze definitive, l'unica certezza attuale è che la sinistra ha fatto l'ennesima figura di palta.
Israele mostra il video che inchioda i palestinesi: ecco chi c'è dietro la strage dell'ospedale di Gaza. Giorno dodici del conflitto in Medio Oriente. Tel Aviv accusa il Jihad Islamico e si difende mostrando un filmato: "Un loro razzo ha colpito l'ospedale di Gaza". Biden atteso oggi a Tel Aviv: saltato il vertice a quattro in Giordania. Gianluca Lo Nostro il 18 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Proteste contro Israele e l'Occidente
La Russia: "Israele dimostri che non è coinvolto"
Gaza, verso nuova evacuazione
Missili e artiglieria al confine con il Libano
Guterres: "No a punizione popolo palestinese"
La guerra tra Israele e Hamas è arrivata al suo 12esimo giorno. Oggi il presidente degli Stati Uniti Joe Biden atterrerà in Israele, dove incontrerà il gabinetto del governo di emergenza e discuterà i piani militari. La missione del capo della Casa Bianca rischia però di non portare a casa i risultati sperati dopo che ieri l’ospedale Al Ahli a Gaza City è stato distrutto in un attacco che ha causato centinaia di vittime palestinesi.
Una delle conseguenze della strage nell’ospedale di Gaza è lo stop alla visita in Giordania di Biden, il quale aveva programmato un vertice a quattro ad Amman con il re giordano Abdullah II, il presidente egiziano al Sisi e il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Abu Mazen. La dinamica del bombardamento non è ancora chiara: Hamas, l’Anp, la Turchia, la Giordania e altre nazioni arabe puntano il dito contro l’aviazione di Israele. Tel Aviv rigetta totalmente le accuse e parla invece di un razzo del Jihad Islamico, un movimento islamista alleato di Hamas sulla Striscia di Gaza. Le forze armate israeliane hanno diffuso un video del media arabo al Jazeera che mostrerebbe un razzo sparato da Gaza negli attimi antecedenti l’esplosione. In un secondo filmato, condiviso successivamente, le Israel Defense Forces (Idf) si difendono evidenziando l'assenza di un cratere nel sito dell'impatto. Biden si è detto "indignato" per l'accaduto e ha incaricato il team della sicurezza nazionale della Casa Bianca di capire cosa è successo ieri all'ospedale. Ecco tutte le notizie di mercoledì 18 ottobre.
Proteste contro Israele e l'Occidente
La notizia del bombardamento dell’ospedale al Ahly di Gaza ha scatenato un effetto domino di proteste nei Paesi arabi. Migliaia di palestinesi sono scesi in piazza ieri sera in Libano, Turchia, Libia, Giordania e in Iraq. Momenti di tensione si sono registrati vicino alle sedi diplomatiche israeliane all’estero. Ad Ankara è stato disposto un dispiegamento massiccio di poliziotti per proteggere l’ambasciata di Tel Aviv, mentre a Teheran, Beirut e Londra la folla ha assaltato l’ambasciata americana. Il partito armato libanese Hezbollah ha indetto per oggi il “giorno della rabbia”.
La Russia: "Israele dimostri che non è coinvolto"
Israele dovrà dimostrare con immagini satellitari che non è stato coinvolto nell'attacco contro l'ospedale di al Ahli a Gaza City. A dirlo è la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha definito il raid un "crimine scioccante" e un "atto disumano".
Gaza, verso nuova evacuazione
L'esercito israeliano è tornato a chiedere ai residenti del nord della Striscia di Gaza e di Gaza City di evacuare verso sud, in particolare nell'area di al-Mawasi, verso la quale "saranno incanalati gli aiuti umanitari internazionali se necessario", ha dichiarato il portavoce delle Idf.
Missili e artiglieria al confine con il Libano
Israele ha bombardato le postazioni militari nell'area di Shtula e al confine con il Libano in risposta al lancio di missili anticarro che avevano come bersaglio i soldati israeliani. "L'esercito sta sparando con l'artiglieria sul luogo del bombardamento", scrivono le Idf sul loro canale Telegram. Gli Stati Uniti hanno sconsigliato ai cittadini americani di viaggiare in Libano: il dipartimento di Stato ha alzato l'avviso di allerta per il Paese dei cedri al livello 4.
Guterres: "No a punizione popolo palestinese"
Gli attacchi di Hamas contro Israele non giustificano la "punizione collettiva del popolo palestinese". È questa la posizione, dopo i fatti di ieri, del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ospite del terzo forum dedicato alla Belt and Road Initiative (Bri) a Pechino. "Non è possibile infliggere tali punizioni alla popolazione", ha spiegato il diplomatico portoghese. Gianluca Lo Nostro
Strage dell’ospedale di Gaza, tutte le dita puntate: gli Usa accusano i palestinesi. VALERIA COSTA E ANNA MANISCALCO su Il Domani il 18 ottobre 2023
L’esplosione nell’ospedale episcopale al-Ahli non ha ancora un colpevole certo. Per il presidente Joe Biden i dati raccolti dal Pentagono puntano verso una responsabilità della jihad. L’Autorità nazionale palestinese ha chiesto un’indagine della Corte penale internazionale
L’unica cosa certa sull’esplosione nell’ospedale episcopale al-Ahli di Gaza è che si tratta di un evento in grado di cambiare sensibilmente gli equilibri nel conflitto tra Israele e Hamas. La dinamica è invece un garbuglio, dove le parti in causa si accusano a vicenda. Intorno alle 18.59 di martedì sera il parcheggio dell’ospedale, dove si erano rifugiati centinaia di sfollati, ha preso fuoco.
Il ministero della Salute di Gaza ha detto che era il risultato di un bombardamento israeliano, causando circa 500 morti. L’esercito israeliano, di contro, ha negato il proprio coinvolgimento, scrivendo sui propri canali social che era stato un razzo lanciato dall’interno di Gaza a cadere sulla zona e che disponeva di prove audio e video per dimostrarlo.
Ci sono anche alcuni video, indipendenti dall’esercito, che mostrano l’accaduto: uno girato in verticale, verificato dal New York Times, riprende la scena da dietro una recinzione. Si sente un sibilo, poi il botto e le fiamme. L’altro video è di Al Jazeera, che stava riprendendo in diretta: alle 18.59 si vede un oggetto salire in cielo, poi esplodere nell’aria. Subito dopo, due esplosioni a terra, la seconda ritardata di qualche istante e molto più estesa della precedente.
I PUNTI DA CHIARIRE
Circa quattro ore dopo la denuncia di Hamas, l’esercito israeliano ha risposto accusando la Jihad islamica, gruppo terroristico alternativo ad Hamas . Ieri mattina poi il portavoce militare israeliano, Daniel Hagari, in conferenza stampa ha mostrato le immagini satellitari della zona colpita. «Non si notano crateri né danni agli edifici circostanti, come sarebbe da aspettarsi nel caso di un attacco aereo israeliano» ha detto il portavoce. Secondo il governo di Tel Aviv. La versione israeliana è sostenuta anche dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che si trova da ieri in Terra Santa. «Dai dati del pentagono risulta che non è colpa di Israele ma dell’altra parte» ha detto Biden.
A questo si aggiunge una presunta intercettazione tra due agenti del gruppo Hamas, pubblicato su X dal ministero degli Esteri di Tel Aviv. Nell’audio i due discutono dell’esplosione ammettendo che si è trattato di un errore della Jihad e che il razzo partiva dall’interno della striscia.
Haaretz - quotidiano israeliano spesso critico del governo di Nethanyau - ha però riportato la risposta della Jihad islamica palestinese ad Hagari: «L’angolo dell'impatto e l'intensità del fuoco dimostrano che si è trattato di un attacco dall'aria».
Secondo la Jihad, il governo israeliano «sta diffondendo versioni contraddittorie», a questo proposito il gruppo islamico ha ricordato che gli ospedali della Striscia avevano ricevuto avvisi di evacuazione. E in effetti secondo il vescovo anglicano di Gerusalemme, lo stesso ospedale Al-ahli - che era già stato colpito parzialmente da bombardamenti israeliani lo scorso 14 ottobre - riceveva ordini d’evacuazione dall’esercito istrealiano da domenica. Notizia confermata dalle Nazioni Unite che in comunicato ha riportato che l’ospedale era uno dei venti che aveva ricevuto ordini di evacuazioni.
Un altro nodo rimane da sciogliere. Secondo quanto riportato ieri dal ministero della Salute di Gaza il bilancio è di 471 morti (martedì sera lo stesso ne aveva stimati più di 500), ma il team di volontari Geoconfirmed, che si occupa di geolocalizzare immagini e filmati pubblicamente disponibili in contesti di crisi, citato dal quotidiano britannico Telegraph, afferma che i danni della struttura non sembrano compatibili con le stime di circa 500 morti.
Lo staff dell’ospedale colpito ha invece detto di non essere in grado di valutare il bilancio preciso «perché molti dei corpi sono stati smembrati con l’impatto». La direttrice Suhaila Tarazi ha potuto solo stimare che le vittime erano nell’ordine delle centinaia ma non si è sbilanciata a fornire il numero preciso, mentre Mohammed Abu Selmia, direttore generale dell'ospedale Shifa, dove tutti i feriti e i morti sono stati trasferiti dopo l’esplosione, ritiene che il bilancio delle vittime sia di circa 250 morti.
GLI ERRORI DI COMUNICAZIONE
A complicare la ricostruzione, il fatto che la comunicazione iniziale sia avvenuta tramite X, vecchio Twitter, che dall’inizio del conflitto è stato causa di imbarazzi istituzionali, anche per la Commissione europea. Oltre al tweet pubblicato e cancellato dal portavoce Hananya Naftali, le forze di difesa israeliane avevano condiviso un video dell’esplosione, poi rimosso perché l’orario impresso sulla registrazione era successivo rispetto all’orario dell’evento.
Durante la conferenza stampa del portavoce Hagari un giornalista ha posto la questione della credibilità delle forze di difesa israeliane, «che ha un curriculum non proprio perfetto: tra gli altri incidenti, si era inizialmente dichiarato che erano stati dei militanti palestinesi armati a uccidere Shireen Abu Akleh», riferendosi al caso della giornalista colpita da un proiettile alla testa mentre seguiva un’operazione delle forze israeliane vicino al campo profughi di Jenin. Hagari ha risposto che, proprio perché in passato era stato veloce nell’arrivare a delle conclusioni, in questa situazione l’esercito si è invece preso il tempo necessario per fare le sue verifiche.
LA REAZIONE INTERNAZIONALE
L’Autorità nazionale palestinese ha chiesto intanto un’indagine della Corte penale internazionale. Anche gli altri attori internazionali si stanno posizionando su una versione dei fatti. La portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Adrienne Watson ha fatto eco a Biden: «Mentre continuiamo a raccogliere informazioni, la nostra attuale valutazione è che Israele non è responsabile per l’esplosione nell’ospedale di Gaza». Il presidente russo Vladimir Putin, che si trova a Pechino, ha parlato di un «evento terribile», mentre la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova in precedenza aveva chiesto delle prove satellitari che confermassero l’estraneità di Israele.
L’Alto commissario per la politica estera Josep Borrell ha rifiutato di pronunciarsi: «In questo momento non abbiamo alcuna conferma su chi è stato a bombardare», ha detto ai giornalisti a margine della plenaria di Strasburgo. Il parlamento europeo sta lavorando intanto a una risoluzione, incentrata su una de-escalation del conflitto.
È stata netta invece la condanna da parte dell’Iran: «Il bombardamento dell’ospedale di Gaza da parte del regime sionista sicuramente non resterà senza risposta». La più visibile è la risposta dai paesi della regione: l’incontro previsto ieri ad Amman tra Biden, il re di Giordania Abdallah II Ibn Al Hussein, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen è stato cancellato. Il colloquio tra Stati Uniti, Egitto e Palestina è stato fissato al telefono, nel viaggio di ritorno di Biden a Washington.
VALERIA COSTA E ANNA MANISCALCO
Giorno della rabbia, nei paesi arabi l’ondata di proteste contro Israele. MICOL MACCARIO su Il Domani il 18 ottobre 2023
L’esplosione dell’ospedale di Gaza e l’appello di Hezbollah scatenano decine di manifestazioni in Libano, Giordania, Tunisia, Cisgiordania e Iran
«Che mercoledì sia un giorno di rabbia senza precedenti», ha detto il gruppo paramilitare libanese Hezbollah dopo il bombardamento dell’ospedale al Ahli a Gaza martedì sera, invitando i sostenitori a scendere in piazza per esprimere la rabbia contro Israele e contro la visita del presidente Joe Biden a Tel Aviv. Secondo Hezbollah l’attacco all’ospedale «rivela il vero volto criminale di questa entità e del suo sponsor, gli Stati Uniti, che hanno la responsabilità diretta e completa di questo massacro».
Dopo l’appello di martedì sera centinaia di manifestanti stanno protestando in Libano, Giordania, Tunisia, Cisgiordania e Iran mirando soprattutto alle ambasciate. È la seconda volta dal 7 ottobre che viene indetto il giorno della rabbia, la prima volta era stato proclamato da Hamas venerdì 13 ottobre.
IL LIBANO AL CENTRO DELLE RIVOLTE
In Libano le proteste sono iniziate martedì sera in varie città. Centinaia di persone si sono trovate davanti all’ambasciata americana ad Awkar e hanno protestato lanciando pietre e dando fuoco a un edificio dopo la mezzanotte. Altri si sono radunati di fronte all’ambasciata francese a Beirut. Ci sono state manifestazioni anche nelle città meridionali di Sidone e Tiro.
Le proteste sono continuate oggi, in particolare a Beirut e ad Awkar. «Ci sono decine di migliaia di nostri sostenitori pronti con il dito sul grilletto per andare al martirio. A Biden, Netanyahu e agli ipocriti europei diciamo: attenzione. Qualsiasi errore commettiate con la nostra resistenza riceverete una risposta fragorosa più forte della vostra», ha detto oggi Hashem Safieddine, il capo del consiglio esecutivo di Hezbollah durante una manifestazione nella periferia di Beirut. L’allerta nel paese è alta. Il Dipartimento di stato americano questa mattina ha autorizzato la partenza volontaria e temporanea dei familiari del personale governativo americano. Anche l’Arabia Saudita ha invitato coloro che si trovano in Libano a «lasciare immediatamente il territorio».
Anche in Cisgiordania le proteste sono iniziate ieri sera. I manifestanti hanno chiesto le dimissioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas, considerato troppo poco critico nei confronti di Israele. Il fulcro delle proteste è stato piazza al-Manara, a Ramallah, ma scontri con le forze di sicurezza sono scoppiati anche nelle città di Nablus, Tubas e Jenin. Osama Hamdan, il portavoce di Hamas, ha incitato i palestinesi residenti in Cisgiordania a «sollevarsi contro il nemico sionista e a scontrarsi con esso in tutte le città, i villaggi e i campi». Secondo l’agenzia palestinese Wafa, tra ieri notte e oggi sono stati arrestati 65 palestinesi in quella zona.
In Giordania oggi circa 5mila manifestanti si sono radunati davanti all’ambasciata israeliana ad Amman con l’intento di assaltarla. In queste ore le forze di sicurezza stanno cercando di disperdere la folla. Già ieri in serata i manifestanti avevano tentato l’assalto. Le ambasciate sono state l’obiettivo principale anche a Teheran, in Iran, dove, secondo il notiziario statale Rna, i manifestanti urlavano «morte alla Francia, all’Inghilterra, all’America e ai sionisti». Anche altre città iraniane, Esfahan e Qom, sono state interessate dagli scontri.
LA SITUAZIONE IN TUNISIA ED EGITTO
In Tunisia ci sono state, secondo l’agenzia di stampa statale Tap, «proteste di massa» martedì e stanno continuando anche in queste ore. Ieri in migliaia si sono trovati su Avenue Bourguiba, a Tunisi, davanti all’ambasciata francese a sostegno del popolo palestinese. La folla ha chiesto l’espulsione dal paese dell’ambasciatore francese e di quelli dei paesi occidentali che giustificano Israele. Oggi centinaia di studenti, sindacalisti e attivisti si sono nuovamente trovati davanti all’ambasciata.
Instanbul e Ankara sono state il centro delle proteste in Turchia. Secondo l’Agence France Press, 63 persone sono rimaste ferite durante gli scontri davanti al consolato israeliano a Istanbul nella giornata di ieri. Le forze di sicurezza hanno utilizzato cannoni ad acqua e spray al peperoncino per disperdere i manifestanti, che però si sono fatti comunque strada con la forza nei pressi del consolato israeliano.
La rivolta del giorno della rabbia non ha risparmiato l’Egitto. «Se chiedo al popolo egiziano di scendere in piazza, saranno milioni», ha detto il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. In queste ore in migliaia stanno manifestando in diverse città del paese.
Secondo il Guardian, ci sono state proteste anche a Ta'izz, nel sud ovest dello Yemen, nella capitale marocchina Rabat e in quella irachena Baghdad. In particolare, in Iraq i manifestanti hanno cercato di attraversare un ponte che conduce a un’area in cui si trovano uffici governativi e ambasciate, ma le forze di sicurezza li hanno bloccati.
Intanto, le ambasciate di Israele e Stati Uniti a Buenos Aires sono state evacuate dopo aver ricevuto delle minacce via mail: «Bomba dall’ambasciata. Ebrei vi uccidiamo tutti». Un’operazione di polizia è attualmente in corso per verificare la presenza di materiale esplosivo.
La situazione è più tranquilla in Europa, solo a Berlino ci sono state tensioni. Una sinagoga sulla Brunnenstrasse è stata attaccata con bombe molotov in mattinata senza causare danni e ci sono stati scontri nella notte tra alcuni musulmani e la polizia nei quartieri di Neukoelln, Kreuzberg e presso la storica Porta di Brandeburgo. Due agenti sono rimasti feriti.
MICOL MACCARIO. Laureata in lettere e in giornalismo e comunicazione multimediale. Frequenta la scuola di giornalismo Giorgio Bocca di Torino
Antonio Giangrande: Le manifestazioni per la pace dei pacifondai. Sono loro: di sinistra. Si fanno sempre riconoscere. Sempre dalla parte sbagliata: dalla parte del torto. Sempre contro l’Occidente.
Mai che ci sia una manifestazione spuria. Solite facce, solite bandiere, solita ideologia e soliti quattrogatti fracassoni.
La mattanza degli bambini israeliani: manifestano in favore dei palestinesi e dei terroristi di Hamas.
Quei palestinesi e terroristi di Hamas che festeggiano l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 con la morte di cira 3000 persone.
La mattanza dei bambini ucraini: manifestazioni a favore del dittatore Putin.
Putin: il macellaio di Cecenia, Giorgia, Siria, Ucraina.
La Parlamentare comunista Luciana Castellina da Porro a “Stasera Italia” su Rete4 Mediaset il 30 ottobre 2023: «Prima di tutto le vorrei dire, lei ha detto: “le nostre idee”, io le sue non le condivido per nulla. E’ difficile che lei mi dica che sono antisemita, visto che io sono per metà ebrea…» Però la sua parte comunista ha prevalso rispetto alla sua parte ebrea, schierandosi nel suo intervento platealmente contro Israele con la solita litania dei decenni di occupazione dei territori palestinesi, nonostante le si facesse notare in studio che era stata la risoluzione dell’Onu n. 181 del 29 novembre 1947 ad aver deciso due Stati, due Nazioni e che fossero stati gli Stati arabi a non averla accettata muovendo guerra ad Israele.
Ma si sa le idee dei comunisti sono incrollabili ed inamovibili. E’ inutile instaurare un contraddittorio con loro. Non si riuscirà ma a smuovere le loro certezze...sbagliate, frutto di ignoranza e/o malafede. E propagandano e mistificando le loro verità, per proselitismo antioccidentale, alimentano odio e violenza. Ai comunisti non è andata giù il non essere caduti nelle grinfie dell’URSS alla fine della seconda guerra mondiale.
Facebook ANPI Avetrana - TA: 27 novembre 2023 Ieri ad Avetrana un utile incontro pubblico per ripassare la STORIA ed avvicinarsi alla realtà.
Grazie al prof. Fernando Dubla, Enzo Pilò ed la palestinese #AMIRAABUAMRA. sono emerse alcune "sfumature" difficilmente ascoltabili altrove.
La RESISTENZA palestinese non è solo AMAS, con il ben venuto scambio di ostaggi con prigionieri ed il silenzio delle armi, Israele ha riconosciuto nei fatti Amas.
È ancora sottovalutato il ruolo belligerante dei coloni ed è ancora nascosta la verità su cosa realmente è avvenuto il famigerato 7 ottobre.
In questo crogiuolo di interessi internazionali l'unica vera vittima è il popolo palestinese.
W la PACE con un CESSATE IL FUOCO INDETERMINATO.
AVETRANA – Controversie nell’Aula Consiliare: La critica del cittadino alle idee espresse in un evento polemico. Redazione la Voce di Maruggio 2 Dicembre 2023
Ci giunge con profonda preoccupazione il resoconto del simposio tenutosi nell’Aula Consiliare di Avetrana, durante il quale sono state esposte idee e affermazioni che suscitano disapprovazione e sconcerto. La giustificazione di atti terroristici e la divulgazione di informazioni distorte non possono essere tollerate in contesti istituzionali come quello del Consiglio Comunale.
La democrazia implica il diritto alla libertà di espressione, ma deve essere esercitata con responsabilità, rispettando il contesto e la dignità delle istituzioni. La scelta di un luogo così solenne per un evento che veicola messaggi controversi solleva legittime preoccupazioni tra i cittadini, e la richiesta di chiarimenti alle forze politiche locali è assolutamente comprensibile.
Riceviamo e pubblichiamo:
Ho provato un senso di profonda delusione quando ho scoperto che qualche giorno fa l’Aula Consiliare della mia città è stata concessa per consentire lo svolgimento di un evento in cui si è giustificato l’attentato terroristico del 7 Ottobre realizzato dai nazisti di Hamas, affermando che «ci voleva qualcosa di così grosso per tornare a far parlare di Palestina.»
A questo simposio, fra le tante cose e in un clima di reciproca condivisione, è anche stato detto che a massacrare, stuprare e gambizzare i ragazzi del rave-party in realtà sono stati gli israeliani stessi e quel rave-party, tra l’altro, non doveva tenersi in quel luogo, ma gli organizzatori hanno cambiato location all’ultimo momento. (quindi se la sono cercata?) Hanno anche detto che i cadaveri dei civili trovati carbonizzati, non sono opera dei terroristi-nazisti di Hamas ma sempre degli israeliani.
Si è parlato di pulizia etnica, si è affermato che Hamas non riceve finanziamenti privati e pubblici, che Hamas non voleva prendere ostaggi ed anzi sin dai primi giorni ci teneva a restituire alcuni di loro per motivi umanitari senza chiedere niente in cambio. Tutto è colpa dei nostra media e della “narrazione inquinata” che non ci raccontano queste cose.
Continuo a chiedermi da una settimana come sia stato possibile autorizzare lo svolgimento di una tale iniziativa nel luogo più istituzionale e solenne della nostra città e non posso accettare risposte in cui mi si provi a vendere per esercizio della libertà di espressione una così palese esibizione di conformismo dogmatico e rancore ideologico, intrisa di complottismo e demolizione dei fatti storici.
E non mi riferisco alle idee che ciascuno può avere sul merito della questione arabo-israeliana in generale. Io sono il primo ad auspicare uno Stato palestinese riconosciuto internazionalmente, il ritiro dei coloni dalle Aree A e B della West Bank e il tramonto della stagione politica di Netanyahu. In questa iniziativa, però, non si è parlato solo di questo.
Tutti hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni persino se sono pericolose, distorte, legittimano il ricorso alla violenza e al terrorismo, ma ciò non può avvenire all’interno di una Aula Consiliare. Lo facciano in qualunque altro luogo, anche pubblico, ma non nella sede del Consiglio Comunale, sotto le bandiere con il tricolore italiano e il blu stellato dell’Unione Europea.
Un po’ come entrare in una Chiesa e recitare un rito satanico sotto il crocefisso.
Si lanciano spesso allarmi per la salute della nostra democrazia, anche senza motivo a volte. Ecco, difendere la democrazia significa soprattutto difendere la dignità dei luoghi in cui essa si esercita.
Sia chiaro, il mio non è un attacco agli organizzatori di questa iniziativa, che riconosco essere degli assidui promotori di attività culturali significative e piacevoli. Su questo tema, però, non mi aspettavo nulla di diverso da loro. Se queste sono le loro idee e i loro valori possono diffonderli liberamente.
Piuttosto, da cittadino/elettore di questa città, a questo punto, per me diventa determinante conoscere cosa ne pensano le forze politiche del mio paese, soprattutto alla luce del fatto che fra i loro esponenti c’è: o chi ha firmato l’autorizzazione per l’utilizzo dell’Aula; o chi era presente fisicamente all’iniziativa senza mai intervenire per esprimere la propria contrarietà; o chi ha manifestato il personale apprezzamento per i contenuti dell’iniziativa cliccando like su facebook.
Mi farebbe piacere ricevere una risposta nella forma che ciascuna preferirà, meglio se pubblica, magari può interessare anche ad altri cittadini/elettori oltre che a me.
Perché, se si fanno passare indisturbati messaggi come quelli riportati sopra, diventa troppo comodo organizzare fiaccolate per la pace o, poi, fra due mesi mettere in scena eventi per commemorare le vittime dell’Olocausto. Salvatore Luigi Baldari
Altrimenti è antisemitismo. Se volete criticare Netanyahu, come già fanno gli israeliani, non raccontate balle. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'11 Novembre 2023
I video contraffatti degli studenti israeliani, le falsità contro la società ebraica e tutte le menzogne che circolano sono operazioni mortifere che sminuiscono il dolore di tutti coloro che stanno subendo ingiustizie e sofferenze. E non servono a combattere l’estremismo
Discutere di certo confessionalismo estremista israeliano – che esiste e che è contestato innanzitutto in Israele – spacciando il video contraffatto in cui uno scolaretto dice (in realtà, appunto, non lo dice) che ha l’ambizione di uccidere i bambini arabi, insomma raccontare balle, serve forse a combattere le aberrazioni di quelle componenti forsennate e produce qualcosa di buono? No, non serve a questo e non produce nulla di buono: serve a far salire la febbre di un dibattito già molto alterato dalla menzogna, e produce le reazioni odiose e pericolose cui stiamo assistendo.
Denunciare la tragedia e l’ingiustizia de bombardamenti – che ci sono, ma non sono materia di festa, come invece sulla scena del pogrom del 7 ottobre – facendo circolare il video manipolato in cui un gruppo di ragazzini ne gioisce, insomma un’altra volta raccontare balle, serve forse a rinforzare le legittime critiche rivolte a quelle scelte militari? No, non serve a questo: serve a virulentare un risentimento già abbastanza diffuso e preoccupante. Serve a por fine alla violenza? No, serve a produrne altra.
Segnalare le oscene e imperdonabili aggressioni fatte da alcuni coloni fondamentalisti e guerrafondai – perlopiù statunitensi – presentandole come la normale abitudine di un’intera società, insomma raccontare l’ennesima balla, serve forse a pretendere che quel Paese isoli e reprima i responsabili di quelle intollerabili sopraffazioni? No, serve a legittimare il proclama «dal fiume al mare», e ad armare le mani di quelli che lo voglio attuato sgozzando i bambini e decapitando le ragazze stuprate davanti ai genitori.
Potremmo continuare chissà per quanto, visto il florilegio di simili contraffazioni e di dolose falsità che quotidianamente infesta il dibattito – chiamiamolo così – sulle prove generali di seconda Shoah del 7 ottobre e sulle tragiche conseguenze che quell’orrore ha prodotto. Ma è più che sufficiente così. È più che sufficiente osservare che la realtà della sofferenza e dell’ingiustizia non si narra e non si combatte guarnendola di menzogne; anzi se si fa in questo modo, se quella realtà è adulterata dalla denuncia che pesca nel torbido, che rimesta nella inesausta fogna del falso, il risultato ottenuto è semmai opposto. E a uscirne sminuita è proprio quella sofferenza, a uscirne ridimensionata è proprio quell’ingiustizia. E a rimanerne offeso è proprio chi quella sofferenza e quell’ingiustizia subisce.
Né appunto, come abbiamo già scritto proprio qui, si tratta solo di avventate parzialità. Al contrario, e ben più gravemente, si tratta di operazioni mortifere. È giocare (sporco) con il fuoco. Quello vero. Quello che uccide.
"Siamo tutti ebrei". Sinagoga di Milano, Andrea Ruggieri: “Israele assediata da 75 anni, dev’essere difesa a prescindere. C’è del pregiudizio che si chiama antisemitismo”. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2023
Nella sinagoga di via della Guastalla a Milano, a un mese esatto dagli attacchi terroristici dello scorso 7 ottobre, la comunità ebraica, e non solo, si ritrova in massa – oltre 1.000 i partecipanti all’evento “Bring them home now’’ – per chiedere a tutti di “non dimenticare” i 1.400 morti e di riportare a casa gli oltre 200 ostaggi. Presente anche Andrea Ruggieri, direttore responsabile de Il Riformista, che è intervenuto a sostegno della causa israeliana.
“Vi confesso che sono abituato a parlare in pubblico ma adesso sono paralizzato dall’emozione” – esordisce Ruggieri chiamato sul palco dal presidente della comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi – “sono consapevole di parlare a delle persone che stanno rivivendo un dolere che noi immaginiamo, che abbiamo studiato, ma che per nostra fortuna non abbiamo mai vissuto. Israele per noi è un modello di democrazia liberale e quindi a prescindere dev’essere difesa quello che mi indigna è che si fatichi un po’ troppo nel farlo. Mi piange il cuore a vedere che i miei connazionali possano scendere in piazza per difendere l’odio che assale la civiltà di cui sono figli. Una situazione assai deludente ma devo domandarmi perché.”
Israele assediato da 75 anni da vicini che sono terroristi
“Bambini uccisi, massacrati e arsi vivi.” prosegue Ruggieri “donne che celebravano la ritualità cresciuta sotto il tetto di una democrazia liberale che è proliferata malgrado sia assediata dalla sua nascita – ovvero 75 anni fa – da vicini che sono stati terroristici o organizzazioni criminali terroristiche. Quelle donne sono state rapite, uccise, decapitate, stuprate.” In prima fila anche la senatrice a vita, deportata e sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz Liliana Segre.
Come è possibile che un gay manifesti per la Palestina?
“Mi chiedo come sia possibile che un gay, al quale non sarebbe consentito di essere tale in Palestina, manifesti contro Israele. Bisognerebbe manifestare contro Hamas che è il primo problema, il primo danno per i palestinesi. Cosa spinge persone figlie dell’occidente, della tolleranza e della democrazia a prendere un abbaglio talmente enorme in favore di un’organizzazione terroristica che è tale e niente altro.” dice Ruggieri.
C’è del pregiudizio che si chiama antisemitismo
“C’è qualcosa sotto ovvero un pregiudizio. E quel pregiudizio si chiama antisemitismo che significa odio. L’odio non è compatibile con i valori occidentali che io voglio difendere. Oggi Israele è il confine dell’occidente e va difeso ed è per questo che noi dobbiamo essere tutti ebrei.” conclude Ruggieri.
Cari anti-Israele, rispondete a queste 6 domande. Milko Pennisi su Nicolaporro.it il 10 Novembre 2023
Siamo arrivati al trentaseiesimo giorno di questa guerra di difesa dello Stato israeliano nei confronti di un esercito definito terrorista ma che, per dimensioni e potenza, non sembra proprio riconducibile ad una piccola cellula terroristica. Forse nei mesi a venire cambierà anche il lessico nel definire questi eserciti che comunque sono finanziati con milioni di euro. In un’intervista al Corriere della Sera, Uzi Shaya, ex uomo dello Shin Bet e del Mossad, che oggi collabora con il governo israeliano per smantellare l’impero finanziario di Hamas e degli Hezbollah ha parlato di 360 milioni di dollari che, purtroppo, sono arrivati ai terroristi dal Qatar ma ha anche detto che, in tutto, a Gaza in un anno arrivano circa 2,6 miliardi.
Di questi soldi cosa arriva realmente alla popolazione palestinese? A chi? A quali organismi? In pratica alla popolazione non arriva quasi nulla! Mentre scriviamo, l’IDF – dopo aver completato l’accerchiamento di Gaza city – sta entrando nel quartier generale di Hamas, praticamente interrato sotto un ospedale, e oramai tutti hanno capito come Hamas abbia usato quali scudi umani l’intera popolazione di Gaza e come l’esercito israeliano non stia “facendo una passeggiata” in termini militari; infatti, ci sono decine di militari israeliani morti e feriti.
Siamo profondamente angustiati dalle morti di bambini, civili da entrambe le parti e già molti hanno rilevato, sottolineato, accusato le falle dell’intelligence israeliana e del suo esercito, della sua disposizione in campo, molto più propenso a pensare ad un attacco dal Libano che dalla striscia di Gaza. Quante domande e quante dietrologie alla luce delle postazioni di missili ritrovate nei campi giochi dei bambini, con le autombulanze usate per trasportare armi, con la benzina sottratta agli ospedali per lanciare razzi, dell’esercito di Hamas nascosto tra ospedali e campi profughi… possiamo anche farci alcune domande?
Le domande che vorremmo fare:
1. i cittadini di Gaza city non conoscevano l’esistenza della rete di tunnel che si estendevano per km pieni di militari e armi e con una necessaria logistica complicata? Nessuno aveva visto nessuno.
2. I cittadini di Gaza city non si rendevano conto di cosa – prima o poi – sarebbe successo e con quali conseguenze?
3. I cittadini di Gaza city erano (sono) ostaggi, conniventi o complici?
4. Quante Ong lavoravano a Gaza city? Decine.
5. Nessuno nelle Ong si era accorto di un esercito militarmente importante di migliaia di persone che stava progettando un’incursione simile?
6. Le Ong erano timorose di rappresaglie, conniventi o complici?
Vincono sempre loro. Il nicodemismo degli intellettuali italiani che stanno con tutti e non stanno con nessuno. Mario Lavia su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
In questi giorni è tornata di moda la vocazione a nascondere il proprio pensiero, di chi si è già stancato di criticare Putin per la sua aggressione criminale e chi ha già cambiato idea dopo il massacro di Hamas contro i civili ebrei
«Speravo che dopo la Resistenza il vecchio costume del doppio gioco (chiamiamolo in termini più brutali e meno dotti di nicodemismo) fosse scomparso», scrive Giorgio Amendola sull’Unità il 12 giugno 1977. L’anziano dirigente del Partito comunista italiano, indignato dall’atteggiamento soi disant neutrale e equidistante di molti scrittori rispetto al terrorismo che in quegli anni insanguinava l’Italia attaccandone le istituzioni con violenza cieca, richiamava un’antica polemica (vi è qui un’eco gobettiana) a proposito del “nicodemismo degli intellettuali”.
Lo storico Delio Cantimori aveva spiegato che il nicodemismo consiste «nell’atteggiamento di simulazione o di dissimulazione di coloro che tenevano celata la propria fede, aspettando per manifestarla che cessasse il timore del martirio, e facendo intanto atto di ossequio alle autorità ecclesiastiche dei paesi dove si trovavano».
Carlo Ginzburg, nel suo “Il nicodemismo: simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ’500”, scrive che fu «Giovanni Calvino a chiamare “nicodemiti” coloro che, convertiti interiormente alla Riforma, continuavano a partecipare alle cerimonie della Chiesa di Roma»: dal non prendere parte alla dissimulazione il passo è breve. Questo succedeva nel 1500. Ma si tratta di una postura sempre attuale.
In questi giorni in vario modo torna tra gli intellettuali italiani, in sintonia con un più generale atteggiamento dell’opinione pubblica, questa vocazione a nascondere il proprio pensiero. La sera del 7 ottobre tutti giustamente inorriditi, ma nemmeno un mese dopo molto è cambiato, come un sentimento precedente che torna a galla dopo essere stato momentaneamente scalzato da un altro.
Un mese dopo il Sabato nero, tutto ritorna. Si celebra la Chiesa di Roma, come prima. La cosa più semplice è non prendere una posizione netta. Schierandosi semmai dalla parte di chi non si schiera. Arrivando finanche a sbeffeggiare chi invece sceglie da che parte stare: «Non è una partita di calcio», ripetono in coro, «basta col tifo da stadio». Frasi che suonano bene e prendono l’applauso. Come tutte quelle che suonano il piffero dell’equidistanza, nel senso che “hanno tutti torto” – hanno ragione solo loro, dallo studio di casa o da quello televisivo.
Va molto di moda il ragionamento che ha svolto brillantemente Chiara Valerio su Repubblica: «Noi non discutiamo più, rispondiamo a sondaggi e a incitamenti di una curva, il cui principio e fine è la riduzione a macchietta dell’altro e della sua posizione che si suppone parimenti basata su sondaggio e tifo». Naturalmente c’è del vero. I talk show e i sondaggi aizzano il tifo. E quante macchiette. Ma a ben guardare il “tifo” è la volgarizzazione mediatica, superficiale e persino volgare, del “prendere posizione”, che è invece è cosa nobile. La famosa “difesa della causa”. Gli intellettuali dreyfusardi facevano il “tifo”? E facevano bene, alla fine vinsero pure. E così sull’antifascismo, o sul Vietnam. Ma oggi? Oggi no.
Prendiamo l’Ucraina, proprio in questi giorni nei quali la premier italiana spiffera al telefono come se fosse la sora Augusta Cecioni che in giro c’è «stanchezza»: è sparito ogni residuo di indignazione contro il dittatore di Mosca (aveva visto bene Paul Berman) a partire dagli intellettuali che, annoiati, non hanno mai sopportato Volodymyr Zelensky e non compreso sino in fondo le tremende conseguenze che potrebbero derivare da una vittoria di Putin. Stanchi di vedere i servizi sulle tante Bucha, si sgranchiscono sui loro divani e cambiano canale. Molti si predispongono al finale di partita e già pensano che in fondo lo zar ha le sue ragioni. E già si stanno stufando della guerra che Hamas ha mosso ad Israele, il 7 ottobre è lontano.
Gli intellettuali sono sempre i primi a dimenticare i motivi scatenanti di un conflitto, così da smarrire rapidamente la distinzione morale tra torti e ragioni. E chi si schiera con le ragioni di Israele per i nostri maîtres à penser è un tifoso, dunque non ragiona, scansa la complessità, ignora la storia, non guarda avanti, rifiuta la discussione, si trincera dietro le pietre d’inciampo, si arma del filo spinato di Buchenwald, non legge Haaretz e non capisce Grossman (che sono poi emblemi della superiorità intellettuale di Israele). In questi conflitti il nicodemista è parente non lontano dell’antisraeliano e del filoputiniano, non la può dire così perché non sta bene, sta ben attento a non valicare il sottile confine dell’impolicità più infame, conosce i buoni sentimenti dei salotti e delle sacrestie.
In definitiva, come suona bene il jingle «io non sto con nessuno, io sto con chi soffre», come alligna facilmente il pilatesco rifugio nella complessità diventata come una bambagia che attutisce dolori e rumori. E dunque cosa c’è di più facile per le anime belle che sospirare che «Israele ha ragione però…»? Oppure, «che orrore l’antisemitismo ma è Israele che lo alimenta», ignorando che l’antisemitismo precede Israele di qualche secolo. Tutti questi dangling men, direbbe Saul Bellow, che vivono le guerre come un impaccio al dispiegarsi tranquillo delle loro esistenze, rimandano il momento delle scelte di campo a quando tutto sarà finito per concludere con l’immancabile «io ve l’avevo detto che finiva così», un altro di quei tic insopportabili degli intellettuali italiani, i nicodemisti di oggi che pensano una cosa e ne dicono un’altra, che stanno con tutti e non stanno con nessuno. Così da vincere sempre loro.
Però, Israele…Le retoriche tiranne dell’umanitarismo antisionista e i diritti degli scudi umani palestinesi. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
Nessuno sembra notare che il problema di Gaza non è iniziato l’8 ottobre scorso, ma quando Hamas ha buttato fuori a cannonate Fatah innescando l’effetto domino che ha portato fin qui e poi si è consentito ad Hamas di trasformarla in una bomba di dolore e di violenza
Non è che il tema del rispetto del diritto umanitario, nelle operazioni militari di Israele a Gaza, sia da considerarsi subordinato alle ragioni della legittima difesa dello Stato ebraico e degli ebrei. Come dicono gli studiatissimi “equidistantisti” che oggi fanno scuola di galateo bellico a Israele – e ovviamente solo a Israele – non esistono diritti tiranni, destinati a prevalere sugli altri in virtù di un rango superiore.
Il fatto è che però esistono retoriche tiranne, a cui sono subordinate tutte le riflessioni e azioni in tema di diritti ai quattro angoli del mondo e che, come diceva Marco Pannella, rendono visibile e invocabile il diritto dei palestinesi – e oggi dei palestinesi di Gaza – solo quando incrociano una pallottola israeliana.
Il diritto di un arabo palestinese ricoverato in un ospedale di Gaza e usato come scudo umano da Hamas, che piazza sotto il suo letto, esattamente sotto il suo letto, parte del proprio arsenale militare, per renderne mediaticamente fruttifera la morte, è uguale al diritto dell’ebreo palestinese che di quell’arsenale è il bersaglio. Però quello dell’arabo è un diritto di cui rileva l’esistenza solo quando Israele è costretto a cercare sotto il suo letto, esattamente sotto il suo letto, l’arsenale destinato alla carneficina degli ebrei, non quando sono i carcerieri palestinesi, con residenza e conto in banca a Doha, a votare il carcerato palestinese a questo fatale destino.
In ogni caso, a non essere uguale è la catena di responsabilità delle parti in causa e in conflitto, che, da una parte, ha portato a degradare il diritto alla vita degli arabi palestinesi a quello di “non morire” oggi, ma piuttosto domani, a maggior gloria della Jihād nella necrofila corvée umanitaria che è loro imposta dai tagliagole di Hamas e che, dall’altra parte, continua a consentire agli ebrei palestinesi di esigere un diritto pieno e pienamente umano di riconoscimento delle libertà fondamentali (a partire da quella di sbarazzarsi democraticamente del governo dell’eterno Benjamin Netanyahu e dal suo corteggio di impresentabili lepenisti ebraici).
Tutt’altro che uguale è poi la concreta possibilità degli arabi e degli ebrei di Palestina di scampare al destino che è stato per entrambi apprestato dai pupari del terrore. Il riconosciuto diritto alla libertà rende più sicuro e esigibile anche il diritto alla vita.
Il problema di Gaza non è iniziato l’8 ottobre scorso, è iniziato nel 2007, quando Hamas ha buttato fuori a cannonate Fatah, anzi nel 2005 quando con il ritiro unilaterale israeliano è iniziato l’effetto domino che è arrivato fin qui.
Il problema è continuato quando si è fatto in modo o si è comunque consentito che Gaza venisse trasformata in una bomba umana di dolore e di violenza e sotto di essa venisse scavata una Gaza sotterranea, in cui i macellai di Hamas potessero dettare i tempi e il racconto delle macellazioni islamiste.
Il problema è diventato politicamente irrisolvibile e mediaticamente tossico quando in Europa e in Occidente si è elevato questo crimine umanitario, che è l’esistenza stessa di Gaza nelle mani di Hamas, a trincea della resistenza ai crimini degli occupanti, cioè di Israele, che però a Gaza non occupa più nulla dal 2005.
La retorica tiranna sul colonialismo israeliano è quella che rende tutte le parole contro i diritti tiranni delle digressioni complici o pilatesche rispetto alla responsabilità politica di una soluzione che, non solo per gli israeliani, ma anche per i palestinesi, non può decentemente essere lo status quo di Gaza com’è e come l’abbiamo lasciata diventare.
Se la retorica tiranna sfigura la verità sull’occupazione di Gaza, continuando ad addebitarla a Israele, o riconosce Hamas come, se non legittima, inevitabile rappresentante della resistenza ad essa – si legga sul punto l’incredibile appello di oltre centocinquanta docenti dell’Università di Bologna – i diritti dei palestinesi continueranno a valere non come obiettivi politici, ma come semplici capi di imputazione sulla natura criminale dello Stato ebraico.
Il "Principe verde" tradisce i terroristi: "Ecco tutta la verità su Hamas". Storia di Filippo Jacopo Carpani su Il Giornale il 2 novembre 2023.
Le piazze del mondo occidentale non condannano Hamas, ma chi conosce bene l’organizzazione terroristica è di tutt’altro parere. "La popolazione di Gaza è stata oppressa per tanto tempo. Ha dovuto sopportare assedi, violenza e molte guerre, tutto per la sete di potere e le ambizioni politiche di Hamas". A parlare è Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei fondatori del movimento, Sheikh Hassan Yousef, e nipote di un noto imam. Il 45enne è praticamente di sangue reale, principe di una delle famiglie più importanti della Cisgiordania tra gli anni Ottanta e Novanta.
Conosce il movimento terroristico meglio di chiunque altro e soprattutto di coloro che, approfittando della libertà di parola concessa nelle democrazie del Mondo libero, inneggia alla distruzione di Israele. “A distanza di qualche anno, scatenano una nuova guerra. Lo fanno ogni volta che hanno bisogno di soldi. Versano il sangue dei bambini”, spiega Mosab in un video diffuso dal profilo di X dell’esercito israeliano. “Questa è la loro strategia”. Ogni sillaba che lascia le sue labbra è uno schiaffo a chi crede ancora che Hamas abbia a cuore il popolo palestinese.
Una convinzione, questa, che aveva anche lui fino a metà degli anni Novanta, quando è stato rinchiuso nel carcere israeliano di Megiddo assieme ad alcuni collaboratori di suo padre. Il servizio di sicurezza interno di Tel Aviv, lo Shin Bet, ha lavorato fin da subito per reclutarlo e, come raccontato dallo stesso Mosab, lui ha inizialmente accettato con l’idea di tradirli una volta liberato. Ciò che ha visto tra le mura della prigione, però, gli ha aperto gli occhi: per un anno, i prigionieri affiliati ad Hamas hanno torturato e ucciso centinaia di palestinesi rinchiusi con loro, perché sospettati di essere collaboratori di Israele.
"Non dimenticherò mai le loro grida", ha raccontato negli anni seguenti, ricordando scene raccapriccianti di corpi bruciati e aghi inseriti sotto le unghie. “Ho iniziato a pormi una domanda: e se Hamas dovesse riuscire a distruggere Israele e creare uno Stato? Distruggerà anche il nostro popolo in questo modo?”. Mosab ha cambiato bandiera, si è convertito al cristianesimo ed è diventato un agente sotto copertura dello Shin Bet, nome in codice “Principe Verde”. Le informazioni che ha passato all’intelligence israeliana dal 1997 al 2007 hanno permesso di sventare attentati, individuare numerose cellule di Hamas e incarcerare molti dei suoi leader, incluso il padre Sheikh Hassan Yousef.
Mosab non collabora più con lo Shin Bet. Oggi è un cittadino statunitense e vive in California, ma non ha mai smesso di denunciare l’oppressione del suo popolo ad opera del gruppo terroristico. “La società e i bambini palestinesi sono stati sequestrati da questi criminali e chiunque prenda le loro parti è complice di questi crimini”, tuona nel video condiviso dalle Idf. “Sfortunatamente, ora Hamas ha lasciato Israele e il mondo libero senza altra scelta, se non quella di combatterli e mettere fine alla loro violenza. Molti civili stanno morendo: il loro sangue è solamente sulle mani di Hamas”.
Eroi anti jihad. I due intellettuali arabi che combattono Hamas e la guerra santa. Linkiesta l'1 Novembre 2023.
Il coraggio di Kamel Daoud e Boualem Sansal, i due scrittori algerini che denunciano (da soli) la barbarie islamista
Kamel Daoud e Boualem Sansal sono due grandi intellettuali, due scrittori algerini. Appartengono al mondo arabo ma hanno, e non da oggi, il coraggio di andare controcorrente. Hanno denunciato il terrorismo di Hamas chiamandolo con il suo nome. Ne hanno ricevuto in cambio le solite minacce, le accuse di essersi asserviti all’Occidente, nelle shitstorm online e pure sui media foraggiati dai broker dell’escalation.
Hanno preso la parola, in Francia, rispettivamente sul settimanale Le Point e in un’intervista a Le Figaro. Sansal, in lizza nel 2014 per il Nobel della Letteratura, nel 2012 ha vinto il Prix du Roman Arabe: la cerimonia, a Parigi, era stata inizialmente annullata. L’autore aveva partecipato a un festival letterario in Israele e così gli ambasciatori dei Paesi arabi avevano ritirato il compenso, garantito poi da un mecenate anonimo svizzero. Nel 2008 “Il villaggio del tedesco” è stato censurato in Algeria per un parallelismo tra nazismo e islamismo.
Daoud, premio Goncourt (“colpa” imperdonabile agli occhi degli estremisti) nel 2015, per un intervento in tv si era attirato la fatwa di un imam, che su Facebook aveva invocato l’uccisione dell’«apostata» da parte dei veri musulmani. Cosa aveva detto di così grave? «Se nel mondo arabo non risolviamo la questione di Dio non riusciremo a riabilitare l’uomo, non avanzeremo». Tra due fuochi: gli islamisti e, anni fa, alcuni intellò l’hanno tacciato di «islamofobia» sulle colonne di Le Monde.
Recrudescenze riviste dopo l’aggressione del 7 ottobre, quando entrambi – Daoud e Sansal – hanno semplicemente detto la verità sull’orrore. Su Le Point Daoud ha scritto che «le immagini dei raid delle brigate di Hamas non regalano una vittoria, come gridato in tutto il mondo “arabo”, ma una clamorosa sconfitta. Un brivido violento percorre gli “influencer” dell’islamismo in armi, i fedeli la cui esaltazione li salva dalla noia nei loro paesi, i caffè dove ripropongono queste bottino mediatico».
L’operazione distorsiva degli jihadisti, secondo Daoud, è spacciare una sconfitta per il suo contrario. «La causa palestinese? È una storia collettiva di eroismo arabo in cui, alla fine, vengono uccisi solo palestinesi ed ebrei». A suo avviso, la barbarie – anche mediatica – è costata a questa causa consensi a livello internazionale quando ha preferito «il rapimento di una donna alla vittoria su un esercito avversario». In una riga: «La causa palestinese è stata appena talebanizzata».
L’intellettuale prevede – anzi, sa – che il suo intervento sarà recepito in modo ostile (eufemismo) nel mondo arabo. «E questo è comprensibile. Nei Paesi cosiddetti arabi, liberare la Palestina significa spesso restare a casa e attaccare, lapidare e scomunicare chiunque si faccia da parte di fronte alle ortodossie».
Sul magazine di Linkiesta in collaborazione con il New York Times, Daoud aveva descritto la democrazia europea vista a distanza, «per difetto», dal «punto cieco» di chi è «sotto una dittatura»: «Nel cosiddetto “mondo arabo” l’Europa esiste e anche la sua democrazia: è, una volta per tutte, quello che non abbiamo. È quello che pretendiamo o che mimiamo. È anche quello che rifiutiamo in nome delle nostre identità segregate e del diritto di essere diversi dopo le decolonizzazioni. Una persona che è stata decolonizzata è sempre permalosa e la sua diffidenza è quella di un sopravvissuto».
Un frame che spiega, in parte, anche la saldatura ideologica – rivista nelle nostre piazze come in quelle mediorientiali – tra le “ragioni” di chi ha sparato il primo colpo e l’anticolonialismo settario e di facciata. Intervistato da Figaro, Sansal teme che l’attacco di Hamas sia «l’inizio di un’ondata di attentati che colpirà Israele e i Paesi arabi che lo hanno riconosciuto (Egitto, Giordania), quelli che hanno firmato gli Accordi di Abramo».
Lo scrittore distingue Islam e islamisti, ma sono i secondi a impedire una riforma che i fedeli forse vorrebbero. La lettura del 7 ottobre è chiarissima: «Un’operazione che ha mobilitato così tante risorse umane, materiali e finanziarie, che ha richiesto mesi di addestramento e preparazione, ha coinvolto uno Stato estero, l’Iran, forse un secondo, il Qatar, oltre al partito-Stato libanese Hezbollah, non è un atto terroristico, il cui scopo è terrorizzare, ma un atto di guerra totale il cui obiettivo è distruggere, un episodio della guerra santa».
Riflette Sansal: «La lotta al terrorismo e la guerra sono affare dei nostri governi, ma della guerra contro la guerra santa chi se ne occupa, i politici, i religiosi, i filosofi? In realtà, nessuno. Su questo terreno l’islamismo non incontra resistenza. Al contrario, utili idioti e opportunisti corrono da tutte le parti per tradirsi e servirlo». È difficile dirlo meglio di così. Proprio per questo, invece, è importante resistere, anche al diritto di tribuna e di replica dell’appiattimento mediatico.
Giuliano Ferrara per “il Foglio” - Estratti lunedì 30 ottobre 2023.
Se la Grand Central Station di New York e la piazza di regime a Istanbul, agli ordini di Erdogan, si riempiono nello stesso giorno di folle che gridano Not In My Name, questo che cosa significa? Significa che virtù e conoscenza scompaiono, che viviamo come bruti, come struzzi.
Dennis Ross, uomo di governo del mondo democratico americano, conoscitore per esperienza diretta del medio oriente, ha scritto un articolo magistrale sul New York Times per dire l’ovvio: Hamas non può e non deve cavarsela, sarebbe la vittoria del terrorismo e dell’Iran che assembla una vasta alleanza sicaria per annientare Israele, e l’unico modo per impedire la vittoria di quelli del pogrom del 7 ottobre, l’unico modo per respingere l’attentato alla pace di ogni giorno costituito dall’offensiva dell’islam politico-terroristico è che Tsahal entri a Gaza e snidi e elimini gli uomini e le strutture e infrastrutture di comando operazionale di Hamas.
(...)
E’ molto facile pensare con compassione al derelitto destino delle popolazioni a Gaza, l’immagine disperante di donne e bambini colpiti dalla reazione bellica di Tsahal, di giovani e uomini e vecchi che vestono abiti civili e in qualche misura sono estranei o anche lontani dalla follia di chi li governa da tanti anni, di chi scava tra loro i cunicoli della morte e della prigionia degli ostaggi razziati, di chi si ripara dietro le scuole, gli ospedali e altri luoghi teoricamente neutrali, secondo il diritto di guerra, per ottenere gli scopi di morte e distruzione che si sa. Le bombe e i tiri di artiglieria, la guerra urbana che mette tutti in pericolo e si presenta come un teatro di tragedia, tutto questo Not In My Name.
Ma il mondo è fatto così, che le cose giuste spesso non sono compassionevoli. Snidare i killer dell’islamismo politico, colpire i terroristi dove si nascondono e contrattaccano dopo aver fatto quello che hanno fatto a gente inerme, mettere in pericolo centinaia di migliaia di riservisti, il fiore del tuo paese, e la tua economia, il tuo benessere, cercare con tutti i rischi di una campagna sul terreno di risparmiare le vite dei civili e la vita degli ostaggi, per conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace, per costruire il famoso e celebratissimo “mai più”, ecco che questo non può essere fatto In My Name.
Si nasconde la testa sotto la sabbia, ci si inoltra nei tunnel dei predoni, incuranti della vittoria della morte travestita da umanitarismo, si sceglie di gridare in piazza, sapendolo coscientemente o no, “ancora e sempre”. Le piazze per il cessate il fuoco sono le piazze dei guerrafondai.
Estratto dell’articolo di Danilo Ceccarelli per “La Stampa” giovedì 26 ottobre 2023.
La mattina di quel 7 gennaio del 2015, Gérard Biard non era in redazione. Il caporedattore di Charlie Hebdo era in viaggio a Londra mentre i fratelli Kouachi entravano negli uffici del settimanale satirico francese con i fucili spianati. Ben 12 persone persero la vita durante quei giorni, in una strage che diede inizio ad una stagione di attentati islamisti in un Paese rimasto profondamente segnato da quel periodo.
Un incubo che resta e continua a farsi sentire, soprattutto dopo il recente attentato di Arras, dove un ventenne originario del Caucauso ha ucciso un insegnante a coltellate. «Ci si abitua a tutto, ma ogni volta che avviene un fatto simile tornano in mente certi brutti momenti», spiega Biard parlando dell'atmosfera che regna nel giornale quando arriva una notizia simile. […]
Signor Biard, in Francia e nel resto d'Europa sembra essere tornata la minaccia terroristica, con un conseguente innalzamento dei livelli di sicurezza. Come incide questa situazione sulla libertà di espressione?
«Ogni volta che in Francia avviene un attentato si ha il riflesso di abbandonare alcuni dei nostri valori credendo che questo porti a più protezione. Lo stesso vale per la sicurezza: se ne aumenta il livello fino a minacciare le libertà individuali. Questo è molto pericoloso. È vero che lo Stato deve proteggere i cittadini ma è necessario mantenere un equilibrio».
E sull'attività di Charlie Hebdo?
«Per noi non cambia nulla. Dopo gli attentati del 2015 abbiamo deciso di continuare ad essere quello che siamo sempre stati e a difendere i valori che abbiamo sempre difeso: la libertà di espressione, la laicità e il diritto alla blasfemia. Facciamo sempre molta attenzione a questi valori per evitare che vengano attaccati».
E in Francia che aria si respira?
«Qualche giorno fa a Parigi c'è stata una manifestazione a sostegno della Palestina, durante la quale è stato urlato "Allah Akbar!". È una novità, che non ha nulla a che fare con il diritto dei palestinesi nel vivere in pace e ad avere uno Stato. Vediamo quindi come la religione oggi sia diventata un discorso politico».
Come si è arrivati a questo?
«Bisogna distinguere la fede, che rappresenta una convinzione intima, dal culto, che è l'espressione di questa credenza. Il modo in cui questo si esprime e si manifesta deve essere regolato perché riguarda la società. La religione è quindi l'organizzazione politica e sociale della fede e del culto. E questa è politica».
Un fattore che riguarda esclusivamente l'Islam?
«Non solo. Neanche la Chiesa cattolica e le religioni cristiane non hanno abbandonato questo aspetto. Lo vediamo negli Stati Uniti o in Polonia ad esempio. Le religioni non rinunciano mai all'esercizio politico: è la loro ragione di essere».
[…]
E Charlie Hebdo come fa a raccontare con ironia un contesto internazionale come quello di oggi?
«Siamo un giornale satirico ma anche politico. Lavoriamo cercando di fare un'analisi politica degli eventi che sia la più onesta possibile, ma soprattutto vicina ai nostri valori e a quello che pensiamo. Un disegno satirico pone l'attenzione su un aspetto preciso, mette in luce qualcosa che non è evidente. Questo vale per un personaggio e per una situazione».
Qual è il suo sguardo sulla crisi in corso tra Israele e Hamas?
«Sono settant'anni che va avanti questa situazione. Ma stavolta il governo di Benjamin Netanyahu si è gravemente sbagliato, considerando inizialmente Hamas come una forza politica classica. Si tratta invece di un movimento terroristico, che oggi adotta un modo di agire simile a quello dello Stato islamico».
Israele, la strage e il mondo alla rovescia. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera martedì 24 ottobre 2023.
L’atto originario dell’attuale conflitto, gli oltre mille abitanti di Israele sgozzati, bruciati vivi e in parte rapiti, quell’atto è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione
Fino ad oggi il colpo più duro inferto ad Hamas glielo ha assestato una giovane giornalista araba, Rasha Nabil, che, intervistando su Al Arabya, il leader dell’organizzazione terroristica, Khaled Meshal, lo ha messo più volte in difficoltà. Al Arabya — rivale della qatarina Al-Jazeera — è un’emittente televisiva fondata negli Emirati arabi uniti una ventina di anni fa, ha sede a Dubai e gode di finanziamenti sauditi. Per il resto, la risposta di Israele allo sconvolgente attentato del 7 ottobre è stata fin qui inefficace, poco comprensibile e, ad ogni evidenza, controproducente. Nel mondo intero — eccezion fatta per piccole minoranze — s’è levata un’onda possente anti israeliana e sempre più spesso antisemita dalle proporzioni preoccupanti. Onda che ha trovato eco addirittura al vertice delle Nazioni Unite dove il segretario generale Antonio Guterres — pur senza abbandonarsi a stereotipi antigiudaici — dopo parole di condanna all’attacco del 7 ottobre che potevano apparire insincere, ha ricondotto la responsabilità dell’accaduto a «cinquantasei anni di soffocante occupazione israeliana». Un’enormità. Parole dall’innegabile sottinteso giustificazionista. Anche se, per eccesso di precipitosità, ha sbagliato il delegato israeliano a chiedere le dimissioni del segretario delle Nazioni Unite. Guterres in ogni caso non è solo.
L’atto originario dell’attuale conflitto, gli oltre mille abitanti di Israele sgozzati, bruciati vivi e in parte rapiti, quell’atto è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione. Ha dovuto cedere il passo al «genocidio» perpetrato contro la popolazione di Gaza cui allude il segretario dell’Onu. Grandi personalità del mondo intero — anche quello occidentale — seguono il «modello Guterres» e si adeguano ogni giorno di più a questo modo impressionante di guardare a ciò che sta accadendo in Israele. Ogni residua speranza è affidata alle «mediazioni» del Qatar (tra i principali supporter di Hamas) grazie alle quali si riesce ad ottenere, goccia a goccia, la liberazione di qualche prigioniero. Persino in Israele i giornali dibattono su quando verrà l’ora di dimissionare Netanyahu — per alcuni è già scoccata — e descrivono senza autocensurarsi divisioni all’interno dell’esercito. Raccontano di dirigenti politici e militari il cui principale intento è quello di mettersi al riparo da contestazioni e accuse dopo, quando tutto sarà finito.
Ma verrà presto quel dopo? Possiamo dire che sia questione di giorni, di qualche settimana? Ci sia consentito di dubitarne. Ogni paragone con le guerre del passato è improprio. Nel senso che quelle di cinquanta, sessant’anni fa (1956, 1967, 1973) furono guerre di uno Stato contro altri Stati. E in parte anche per quel che riguarda il Libano fu così. Ma contro le organizzazioni terroristiche — soprattutto se, come Hamas, hanno dato prova di godere di un qualche consenso nella popolazione civile — la faccenda è totalmente diversa. Da quando Sharon «liberò» Gaza (2005) le guerre con Israele si sono moltiplicate e ognuna di queste guerre si è conclusa in modo tale da poter ricominciare poco tempo dopo. Questo tipo di scontri con i terroristi si possono «vincere» solo nei modi che Putin usò a suo tempo per la Cecenia. Terreno su cui, ci auguriamo, nessun dirigente di Israele abbia in mente di avventurarsi.
Biden quando con coraggio ha rievocato come sono andate le cose in Iraq e, soprattutto, in Afghanistan, ha provato a farcelo capire. Non è quella la strada da battere. Il prolungato attacco a Gaza, accompagnato da immagini quotidiane di vecchi, donne e bambini che mostrano i loro lutti, non è «compensato» dalla notizia che è stato colpito questo o quel dirigente di Hamas. Neanche un po’. Progressivamente si è costretti ad assistere all’aumento delle tensioni e all’arrivo di missili anche nel resto di Israele avendo sullo sfondo la sempre più esplicita e provocatoria rivendicazione da parte dell’Iran della regia di tutto quel che sta accadendo.
A nulla vale che sia ogni ora più evidente il fatto che Hamas non ha minimamente a cuore la sorte dei palestinesi, che l’obiettivo dichiarato dell’operazione avviata il 7 ottobre è la distruzione dello Stato di Israele. L’Europa (non tutta, per fortuna) isola ogni giorno di più Ursula von der Leyen che — come già accadde per l’Ucraina — sembra essere tra i pochi a rendersi conto di quel che sta realmente accadendo. Le manifestazioni ostili agli ebrei vengono ignorate come accadde negli Anni Trenta. Fa una certa impressione assistere allo spettacolo di persone che non versarono una sola lacrima per l’uccisione di innocenti a Mariupol, e adesso si strappano le vesti per qualcosa che — fino ad ora — non è neanche lontanamente paragonabile a quel che si è visto in Ucraina.
Eppure, il fatto che Rasha Nabil abbia osato sfidare Khaled Meshal ci induce a sperare che quella tela tessuta con l’Arabia Saudita non sia definitivamente strappata. Che re Abdullah II di Giordania abbia rifiutato di incontrare Biden solo per opportunismo. Che, in Egitto, al Sisi sia preoccupato per quel che sta accadendo forse più di Netanyahu. Che gli Emirati arabi uniti stiano attentamente valutando il vero senso della «mediazione» del Qatar. Anni fa in occasioni consimili eravamo soliti evocare l’«islam moderato». Stavolta — per decenza verso noi stessi — abbiamo rinunciato a quell’appello. Però, forse, quando poneva quelle domande scomode a Meshal, Rasha Nabil era consapevole di avere alle spalle un mondo. Un mondo più grande di quel che oggi possiamo immaginare.
Le responsabilità degli altri. Le vittime ingiuste e gli indignati di guerra per cui i morti sono tutti uguali. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2023
Un soldato di un esercito che uccide terroristi non può essere paragonato a uno che ha il solo compito di trovare e uccidere gli ebrei, siano essi militari o civili, inclusi donne, anziani e bambini
Un esperimento. Una stessa persona che non giudica un’altra e le cose che fa un’altra, ma giudica sé stessa calata ora nei panni di uno e ora nei panni di un altro.
Il primo è un soldato. Deve trovare e uccidere dei terroristi. Non vuole che le sue bombe e le sue pallottole uccidano dei civili: ma sa che può succedere. È istruito e comandato a selezionare i propri obiettivi, e ad adottare ogni attenzione ragionevolmente necessaria a evitare che il suo fuoco colpisca degli innocenti inermi: ma sa che quelle cautele possono non bastare. Conduce la sua azione non volendo che succeda, facendo il necessario affinché non succeda, ma sapendo che può succedere, e per effetto della sua azione restano uccisi dei civili, delle donne, dei bambini. Civili, donne, bambini fatti a pezzi dalle bombe e dalle pallottole di quel soldato. Massacrati, sventrati, come testimonieranno le fotografie rese disponibili da quelli che hanno hanno allestito depositi di armi e rampe di lancio di missili nei giardini, nelle case, nelle scuole, negli ospedali in cui stavano quei civili, un dispositivo di guerra non adoperato a difesa di quei civili, ma per aggredire i vicini. E il mondo, comprensibilmente e giustamente, guarderà inorridito quelle immagini, e quel soldato sarà il male assoluto, sarà il destinatario della riprovazione, degli urli, degli insulti, delle requisitorie che in nome della pace, degli oppressi, dei segregati, si rivolgeranno contro di lui e contro le sue armi.
Le armi – ed eccoci al cambio di scena – che mettiamo nelle mani della stessa persona calata non più nei panni del soldato di cui abbiamo detto, ma in quelli di un altro, un combattente per la libertà. Il quale deve trovare e uccidere gli ebrei. Non i soldati ebrei: qualunque ebreo, i civili ebrei, i ragazzi ebrei, le donne ebree, i bambini ebrei. Deve cercarli e quando li trova deve torturarli, stuprarli e assassinarli. E allora si mette all’opera, li cerca e li trova, cerca gli ebrei nelle loro case e nei loro raduni e uno per uno ne stermina a centinaia, mille, millecinquecento, nel giro di poche ore.
Quella stessa persona, impersonando quest’altro ruolo, sgozza i neonati ebrei nelle culle, prende una gravida e le apre la pancia con un coltello, che le rimesta dentro e maciulla il feto, prende le madri di quei neonati e le stupra accanto al marito con la testa fracassata, prende i vecchi e le vecchie e li fucila davanti ai nipoti, e poi prende anche loro, altri bambini, che provano a scappare, li prende e li brucia vivi, e poi prende il loro padre, e lo sgozza, e poi lo fotografa, con batuffoli di cervello che gli escono dagli occhi e con la bocca riempita di merda.
Queste immagini circolano meno, e le gesta di questo combattente vanno incontro bensì a un po’ di precaria deplorazione e a una minoritaria condanna senza appello, ma non solo: incontrano anche la festa diffusa, il compiacimento tutt’altro che disparato, il pensoso scrutinio delle cause e delle responsabilità (degli altri, ovviamente), le manifestazioni in mezzo mondo, a cominciare dai Paesi della Shoah, in cui turbe di impudenti bastardi si mobilitano a denuncia del nazismo degli ebrei e dove una stronzetta – contro cui evidentemente non si attivano le democratiche azioni penali obbligatorie né le democratiche leggi contro l’odio – arringa una folla di filo-sgozzatori gridando: «Fuori i sionisti da Roma».
Ecco. Ora questa stessa persona, prima messa nei panni di quel soldato e su quella prima scena di civili morti, e adesso messa nei panni di quel combattente e sulla seconda scena di altri civili morti, si giudichi in un caso e nell’altro. Giudichi se meritano un medesimo giudizio non i civili morti in un caso e nell’altro – tutti morti, tutti ingiustamente morti – ma se merita un medesimo giudizio chi rispettivamente li ha uccisi. E vediamo se gli sarà ancora facile dire che i morti sono tutti uguali. Vediamo se questa persona non sentirà schifo per sé stessa nell’adoperare quella indiscutibile verità – e cioè che i morti sono tutti uguali – per dire che sono uguali quelli che li uccidono.
Rifare le squadre. Di qua i difensori dei valori dell’occidente, di là fascisti, omofobi e pupazzi di Putin. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 21 ottobre 2023.
Mentre in America Biden pronuncia uno dei suoi discorsi più limpidi sulla sfida di fronte al mondo libero, tanto in Medio Oriente quanto in Ucraina, qui da noi la gravità del momento ha già trovato il più improbabile degli interpreti
Ogni democrazia ha i governanti che si merita, d’accordo. Fa comunque una certa impressione, e anche parecchia tristezza, che mentre negli Stati Uniti Joe Biden pronuncia uno dei suoi discorsi più limpidi sulla sfida di fronte all’occidente, in Italia la bandiera dei «valori dell’occidente» sia imbracciata e strumentalizzata, con effetti inevitabilmente caricaturali, proprio da Matteo Salvini.
Nelle stesse ore in cui il presidente americano spiega le ragioni per cui il suo paese continuerà a sostenere tanto l’Ucraina quanto Israele (senza dimenticare la necessità di rispettare il diritto di guerra, far arrivare aiuti alla popolazione di Gaza, continuare a lavorare per la pace e per la soluzione dei due Stati), il leader della Lega, dismessa la maglietta di Vladimir Putin e idealmente indossata per l’occasione quella di Oriana Fallaci, lancia una provocatoria «manifestazione nazionale a difesa dei valori e delle libertà occidentali, dei diritti, della sicurezza» per il 4 novembre, peraltro mentre lo stesso governo di cui Salvini sarebbe vicepresidente sta pensando al contrario di ridimensionare persino la tradizionale parata delle forze armate.
Di là Biden spiega che «Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono annientare completamente una democrazia vicina », ricorda «le fosse comuni, i corpi ritrovati con segni di tortura, gli stupri usati come arma di guerra dai russi e le migliaia e migliaia di bambini ucraini portati con la forza in Russia, sottratti ai loro genitori», e ricorda anche che «l’Iran sostiene la Russia in Ucraina e sostiene Hamas e altri gruppi terroristici nella regione», tracciando una chiara linea di demarcazione tra chi combatte per la libertà e chi combatte per la tirannia.
Di qua Salvini, nella sua ultima incarnazione euro-atlantista, scopre improvvisamente non solo «l’importanza delle libertà e della democrazia», ma persino «le conquiste e i diritti fondamentali che qualificano l’Occidente», al solo scopo di scavalcare un’altra volta gli alleati sul terreno dell’irresponsabilità e strappare così qualche altro punto nei sondaggi.
Viene alla mente – casomai l’idea di un Salvini paladino dei diritti non facesse già ridere abbastanza – quel vecchio tormentone di Roberto Benigni, quando immaginava l’intera umanità riunita nella valle di Giosafat per il giudizio universale. «Imbianchini, preti, musicisti, faraoni, imperatori, re, ciclisti, tutto il mondo, tutti insieme, davanti a Dio… e pensate Dio quanto c’avrà da fare per organizzare tutto: “Boni, fermi… gli americani a destra, gli inglesi a sinistra… quelli avanti Cristo dopo, quelli dopo Cristo avanti…”».
Quarta Repubblica, Ben e la lezione alla Bompiani: "Piazze piene di tanta ignoranza". Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2023
A Quarta Repubblica non c’è stata solo la rissa tra Sallusti e Ginevra Bompiani. Il momento più intenso in studio da Nicola Porro a Rete 4 è forse la “lezione” di un 42enne nato in Marocco e in Italia da 30 anni, Ben. Sbarcato da un barcone a Gibilterra, si definisce «musulmano praticante e imprenditore: faccio lo stilista, ho un’azienda di moda e lavorano con me circa 40 persone». «Nel 2011 ho avuto un attacco cardiaco. Dopo sette mesi ho avuto un trapianto di cuore, al momento dentro di me batte un cuore di un italiano cristiano».
Ben osserva con un misto di stupore, amarezza e rabbia le manifestazioni in piazza dei musulmani e degli italiani filo-palestinesi, trasformatesi come da tradizione in cortei anti-Israele e anti-semiti: «Penso che ci sia molta ignoranza, non capiscono a fondo per cosa manifestano. Io faccio parte della famiglia islamica, ma dovrei andare in piazza per protestare a favore di chi ha offeso gli islamici uccidendo e rapendo? Io mi dissocio da Hamas. Vorrei andare a manifestare contro Hamas che ha ucciso bambini e ha offeso anche la mia religione».
La testimonianza. Ben Mbarek, un musulmano dal cuore italiano: “Sradicate Hamas, sono una vergogna per l’Islam. Sogno la pace tra religioni”. La storia e la testimonianza di un bambino arrivato in Italia a sei anni su un barcone, oggi imprenditore di successo a Firenze: “I gruppi terroristici macchiano la nostra reputazione. Capisco che in Palestina in moltissimi siano sotto scacco di queste bestie, ma io non voglio che si scateni la caccia al musulmano”. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 18 Ottobre 2023
“Io, musulmano, ho tantissimi amici ebrei e sono incazzato nero. Quelli di Hamas sono terroristi assassini, bastardi criminali che hanno ammazzato innocenti, persino bambini, violentato donne. Sono una vergogna per l’Islam. Non rappresentano che se stessi, e vanno eliminati”. Ben Mbarek, 41 anni, marocchino, musulmano, orfano del papà da quando ha 6 mesi, trapiantato (in più sensi, lo vedremo) in Italia dove è arrivato a sei anni con la mamma su un barcone nel 1987, e oggi imprenditore di successo a Firenze, si dispera. E non usa mezzi termini. “Mi sono stufato di non sentire una voce musulmana capace di dire le cose come stanno, e come la stragrande maggioranza di noi musulmani pensa. Io non voglio che si associ l’Islam a queste bestie. Non ci deve essere alcun paradiso per loro. Queste bestie offendono tutti i musulmani per bene”.
Ben ha una storia straordinaria, di quelle che mi hanno molto commosso. Arriva in Italia, dal Marocco, a sei anni, su un barcone, con la mamma. Vengono accolti a Empoli dalla famiglia di Teresita Mazzei, primaria di oncologia dell’ospedale Careggi di Firenze (“Ancora oggi quando ci vediamo è una festa, gli sono molto grato”). Poi, a scuola fino alla terza media, a Firenze, quindi pasticcere a 16 anni (“Avevo il sogno di aprire una pasticceria”, diceva sempre a mamma). Mamma che, da donna di grande dignità, ha sempre lavorato come domestica, o cameriera in ristoranti e hotel, e che oggi vive con lui. Poi l’intuizione della moda, nata dalle prese in giro dei suoi amici: “Ci tenevo molto a vestirmi bene. Ogni volta che ci trovavamo, i miei amici esclamavano: ‘Ecco, è arrivato lo stilista’”, ricorda ridendo. Ben ha un carattere solare, è un entusiasta, contento di essere ormai fiorentino, ricorda quanto bene sia sempre stato trattato in Italia (“Io mi sono sempre comportato bene, e di razzismo sulla mia pelle non ne ho mai patito”), e lasciata la pasticceria comincia a produrre artigianalmente vestiti che vende ai commercianti di Firenze.
Ma ha un sogno e lo insegue: “Fare qualcosa di grande e di mio, diventare imprenditore, l’ambizione è il sentimento che mi rappresenta meglio”, dice. Fonda quindi Benheart, azienda che oggi conta 10 negozi nel mondo (5 in Italia, poi Stati Uniti, Emirati Arabi e Francia) e 34 dipendenti, 30 di quali italiani (“Ma do da lavorare a 190-200 persone, se consideri l’indotto”, dice con l’orgoglio di chi si è arrampicato sull’albero della vita, da solo e partendo da zero, e la freschezza di chi è entusiasta della vita che aveva tragicamente perso e poi ritrovato). Il marchio si compone infatti del suo nome, e della parola ‘cuore’ in inglese, che affonda le radici in una tragedia a lieto fine. La passione per il calcio, dove Ben gioca fino in terza categoria (“Ero bravino come mezz’ala sinistra”) lo porta, nel 2011, su un campo di calcio a Scandicci. In piena partita, Ben crolla a terra: arresto cardiaco. Defibrillato, viene ricoverato a Siena. Coma farmacologico per sette mesi. Poi, il miracolo del trapianto: “Io che sono musulmano credente, sono rinato col cuore di un cristiano”.
Il donatore è infatti un ragazzo italiano. “Sono orgoglioso e onorato di avere quel cuore, e io dico sempre di fare Made in Italy al 100% anche perché il prodotto è pensato col cuore, con quel cuore”, dice molto fiero.
“Io ho amici di ogni religione, e non voglio che l’Islam sia associato a queste bestie di Hamas. Sono le pecore nere dell’Islam, vanno perseguitati in ogni centimetro di mondo. Mi piange il cuore a sapere che ora tante persone, bambini compresi, rischieranno di morire in Palestina solo perché si trovano nel posto sbagliato, con la gente sbagliata. E non voglio che i miei figli, che hanno un cognome arabo, vengano visti male a causa loro. È il motivo per cui io voglio lottare”, ripete più volte, mentre mi racconta di avere quattro figli, due femmine e due maschi (e tre di questi hanno sia un nome italiano, che uno arabo), e mentre scherzando mi ricorda che una mia ex fidanzata è stata sua modella qualche anno fa. “Se essere musulmani significa dover sottacere il fatto che questi terroristi sono un problema da risolvere per sempre, allora io mi dimetto da musulmano. Siccome non è così, siccome quasi tutti la pensano come me, è giusto esporsi.
Io ho tanti amici ebrei, e li amo come fossero miei fratelli”. Giusto un mese fa Ben è stato a Miami ospite a casa di suoi amici israeliani per una settimana. “A casa loro, con loro ho mangiato, bevuto, dormito, mi sono divertito, gli voglio bene. Il giorno dopo gli attentati in Israele, ho inviato loro messaggi di condoglianze, e le loro risposte affettuose mi hanno commosso. Tra dieci giorni aspetto Ronen (il suo ospite a Miami) da me a Firenze”. Ben, giustamente, mischia fratellanza e severità: “È ora di dire basta, e di non risultare equivoci: io voglio la pace con i miei amici di religioni diverse, capisco che in Palestina in moltissimi siano sotto scacco di queste bestie e che dunque abbiano difficoltà a esprimere il loro dissenso, la loro diversità, ma io non voglio che si scateni la caccia al musulmano: perché noi la pensiamo quasi tutti cosi su Hamas e gli atri gruppi terroristici che macchiano la nostra reputazione e non ci rappresentano in nulla”. Chiarissimo.
Ascoltando questo fantastico ragazzo, che è un inno alla vita (e anche all’Italia migliore, di cui ieri è stato figlio e oggi è grande protagonista), la commozione mi ha assalito più volte. Ascoltare la entusiastica gratitudine di Ben per l’Italia che lo ha accolto e integrato, curato e salvato, e che oggi è teatro delle sue imprese e del suo animo buono che sparge coraggio e speranza, è stata un’esperienza anche per me. Perché sono storie come queste che riaccendono in noi la speranza concreta di un futuro migliore. Perché sono protagonisti come questi che ti offrono la certezza che salveranno il nostro mondo, miscelando durezza e dolcezza, ambizione e umanità, in un cocktail decisivo. “Il mondo è sufficientemente grande per vivere tutti insieme, abbracciati. E i primi che abbraccio, sono i miei amici della comunità ebraica, in Italia e ovunque”, sospira deciso. Evviva Ben, il suo coraggio, e tutti quelli come lui. Andrea Ruggieri
Il solito Paese canaglia. L’insopportabile retorica di chi indugia sul ritorno del fascismo ma chiude gli occhi su Hamas. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 18 Ottobre 2023
È strano vedere certi osservatori democratici sbraitare contro un presidente del Senato che non partecipa a una commemorazione e poi non dire niente sul nazi-pacifismo che giustifica le aggressioni contro i giovani a un rave party
Chissà se adesso è più chiaro. Chissà se adesso qualcuno, almeno qualcuno, capisce quanto sia stata e continui a essere contraffattoria, assolutoria, mortifera la retorica sulla Repubblica nata dalla Resistenza, sulla Costituzione antifascista, sulla democrazia delle leggi contro l’odio.
Chissà se qualcuno, almeno qualcuno, considera l’inaderenza e il carattere oltraggioso di quella retorica rileggendo come si deve le supercazzole, i giri di parole, i ragionamenti complessi attorno al posizionamento capolista del simpatizzante di Hamas.
Chissà se qualcuno, almeno qualcuno, mette al posto che merita la divagazione grillina sull’Europa governata dai mercanti di Venezia, la prefazione del magistrato antimafia al libro degli autori allegramente neonazisti, la vignetta in prosa del fascistello che indugia sul folto sopracciliare del deputato giudeo.
Chissà se qualcuno, almeno qualcuno, si accorge di come tutto quel ben di dio assomigli in modo impressionante a certi slogan che nei giorni scorsi erano strillati, non – si badi bene – a denuncia della risposta (sbagliata) che Israele ha dato ai massacri del 7 ottobre, ma a giustificazione e perfino a rivendicazione della giustezza di quei massacri e a santificazione della valentìa dei massacratori.
Se ne dubita. Ho già fatto questo riferimento, ma mi sembra l’illustrazione esemplare dello schifo cui assistiamo, mi sembra la verità più pura del dissesto morale italiano: si dubita che sia apprezzata ancora una volta come si deve, si dubita che sia percepita per quel che di profondo rappresenta ed evoca, l’immagine del corteo imbandierato di pace che calpesta le pietre d’inciampo e grida a denuncia del nazismo israeliano.
Si dubita che la faccenda sia ben inquadrata quando il civile osservatore democratico indugia bensì sul fascismo che ritorna perché il presidente del Senato non partecipa a questa o quella commemorazione, ma non sul risuono goebbelsiano dell’apoftegma nazi-pacifista che condanna la musica e le danze capitaliste sul confine della prigione a cielo aperto dove la gente soffre.
Si dubita che sia chiaro come, sotto un tegumento democraticamente rimpannucciato, le anse e i giri delle budella del Paese siano sempre gli stessi.
Pierluigi Battista per huffingtonpost.it domenica 15 ottobre 2023.
Hamas massacra gli abitanti dei kibbutz, prende in ostaggio bambini e anziani, sevizia le donne, fa scempio del corpo di un soldato israeliano? La colpa è di Israele, se non esistesse, e se non esistessero gli ebrei sionisti, vivremmo in un idillio.
(...)
Gaza si incendia? Colpa degli israeliani anche se non ci stanno più dal 2005.
(...)
Il proliferare di tutte queste scemenze che intossicano anche la tv e i giornali? Colpa di chi non le ha contrastate in tempo, con forza e convinzione. Peggio per noi.
Il valore della vita. Se Israele non avesse una reazione forte metterebbe in discussione il suo futuro, dice Crosetto. Linkiesta il 16 Ottobre 2023
Intervistato da Repubblica, il ministro della Difesa spiega che l’obiettivo dei prossimi giorni è limitare il coinvolgimento di civili, fermare la crisi umanitaria e riportare l’ordine nella regione a tutti i livelli. Il rischio, altrimenti, è che resti coinvolta direttamente anche l’Italia
«Abbiamo assistito alla ferocia, alla spietatezza, alla mancanza di umanità dimostrata da Hamas: se Israele non avesse una reazione forte, proporzionata a una tale offesa, metterebbe in discussione il suo stesso futuro». Le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto ricordano che lo Stato ebraico è sotto attacco, un’aggressione che mette in pericolo la sua esistenza. E se non si difendesse Hamas lo farebbe sparire, perché questo è il suo obiettivo. «Israele – dice Crosetto nell’intervista a Repubblica – ha la necessità di dimostrare al mondo che lo odia che ha una capacità di deterrenza di un certo tipo, altrimenti è morta. Non si tratta di mera contrapposizione politica: per Hamas è normale tagliare la testa a un neonato e per l’Iran uccidere una ragazza iraniana perché poco coperta dal velo. Significa che il valore della vita altrui è meno di zero. Quella gente non capisce il dialogo».
Adesso l’obiettivo è limitare il coinvolgimento di civili, fermare la crisi umanitaria e riportare l’ordine nella regione a tutti i livelli. Uno degli snodi geografici fondamentali è il valico di Rafah. «È essenziale che quel valico venga aperto per consentire ai palestinesi di lasciare Gaza», dice Crosetto. Ma non è così facile. L’Egitto deve assumere un ruolo di leadership nel mondo arabo, Israele deve dimostrare che la sua guerra è solo contro Hamas, la comunità internazionale deve farsi carico di intervenire sul piano umanitario, l’Onu dovrebbe dimostrare di poter ancora avere un ruolo nel dirimere questioni internazionali così delicate.
Proprio quest’ultimo punto sembra, oggi più che in passato, argomento di discussione. «Ci sono organizzazioni burocratiche che hanno perso la loro funzione e magari chiudono il sabato e la domenica con una guerra in corso», dice Crosetto. Una condizione inaccettabile in uno scenario che rischia di cambiare, in peggio, da un giorno all’altro: un attentato di ieri a un alto funzionario dell’intelligence iraniana dimostra proprio che il conflitto potrebbe avere rapida espansione geografica e politica.
Potrebbe esserne coinvolta direttamente anche l’Italia, almeno secondo la premier Giorgia Meloni, che negli scorsi giorni ha più volte sottolineato il pericolo di emulazioni che mettono a rischio il nostro territorio. Anche per Crosetto quel rischio «è scritto nella storia, anche recente. È un pericolo che ritorna quando si accende lo scontro fra Occidente e Islam, anche se magari nessuno dei due lo vorrebbe. Alcune organizzazioni terroristiche, negli ultimi anni, non hanno più rivendicato attentati, ma il problema è che basta un singolo, nella sua folle autodeterminazione, a compiere un atto scellerato. Puoi tentare di controllare le reti del terrore, non i singoli».
Occhio all'Italia peggiore. Schlein rompe il silenzio e chiede di difendere Gaza. I filo-palestinesi in piazza ieri a Roma e oggi a Milano fanno il gioco di Hamas. Alessandro Sallusti il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Due attentati di matrice islamica, uno riuscito e uno sventato, danno il benvenuto in Europa alla crisi israelo-palestinese. Giorgia Meloni prova a rassicurare, ma anche in Italia lo stato di allerta è alto. Einstein diceva: «Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma dell'universo non sono sicuro». Ecco, in queste ore drammatiche la stupidità sta debordando sugli schermi e nelle piazze italiane, i primi inquinati da autoproclamati esperti di geopolitica (in prima linea la finta ambasciatrice Elena Basile e l'egocentrico professor Orsini), le seconde terreno di scorribande di gruppi di delinquenti a loro volta autoproclamatisi difensori degli sgozzatori di bambini di Hamas. È l'Italia peggiore che mostra il suo volto cinico e feroce, certamente antisemita, che smentisce chi sostiene che i pericolosi rigurgiti razzisti sarebbero arrivati da destra.
In un clima di tale tensione, ha voglia la segretaria del Pd Elly Schlein - nota per la sua antipatia nei confronti di Israele - a fare appelli perché venga evitato un bagno di sangue a Gaza. Certo, lei condanna pure Hamas, ma c'è sempre un «ma» di troppo: «Ma il popolo palestinese». No, cara segretaria, non so se tutto, ma certo una gran parte del popolo palestinese, e più in generale della comunità islamica, è complice materiale e morale di quello che è successo. No, cara segretaria, non è questo il momento dei «ma», delle bandiere della pace al posto o insieme a quelle israeliane, della comprensione per chi in queste ore scende in piazza pro Hamas, con il sangue dei bimbi israeliani decapitati ancora caldo. Certo, anche io mi auguro che Israele trovi il modo di risolvere la questione senza compiere una strage indiscriminata come quella pianificata e realizzata dai palestinesi di Gaza. Ma altra cosa è non dire chiaramente - e la sinistra non lo dice - che chi in questo momento va in televisione o scende in piazza pro Palestina si mette fuori da qualsiasi comunità politica democratica e che il Pd si prende una enorme responsabilità nel tenere una posizione ambigua, se non addirittura equidistante.
Dopo il «non con Putin ma neppure con l'Ucraina», siamo al «non con Hamas ma neppure con Israele». Che ricorda tanto quel «né con le Brigate Rosse né con lo Stato» slogan del Pci all'insorgere del nostro terrorismo. Per l'appunto, stiamo parlando dell'Italia peggiore, che quella sì, purtroppo non muore mai.
L’orrore dei bimbi sgozzati da Hamas. E ora cosa dicono i filopalestinesi? GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 14 Ottobre 2023
Nel dramma che il mondo vive dal 7 ottobre (il giorno dell’assalto dei terroristi di Hamas a Israele) è circolata una frase di Golda Meir la grande statista che governò lo Stato ebraico dal 1969 al 1974, dopo Eskol e prima di Rabin (si entra con questi nomi nella grande storia di quel popolo), la quale disse rivolgendosi ai nemici della propria gente: «Forse potremo perdonarvi per i nostri bambini che avete ucciso, ma non vi perdoneremo mai per i vostri che abbiamo ucciso».
Ho ricordato queste parole assistendo a un’esibizione in tv di una ex ambasciatrice, Elena Basile, che ha deciso di svolgere sulla tragedia del nuovo conflitto tra Israele e il terrorismo palestinese, il medesimo ruolo che Alessandro Orsini ha svolto per mesi reggendo la coda a Putin e giustificando i motivi dell’aggressione nei confronti dell’Ucraina.
NON C’È LIMITE AL PEGGIO
Almeno Orsini aveva riguardo per i bambini che, a suo avviso, potevano vivere felici anche nel contesto di un regime totalitario, purché ciò consentisse di evitare quella terza guerra mondiale che il professore, un sosia del burattino Sganapino, dava per imminente se l’Occidente non si arrendeva al disegno del despota del Cremlino.
Purtroppo non c’è alcun limite al peggio. L’ex ambasciatrice -una nuova scoperta delle fumerie d’oppio dei talk show – a chi le faceva notare il trattamento riservato dai miliziani di Hamas nei confronti dei bambini ebrei, rispondeva che non c’è alcuna differenza tra un bambino che muore decapitato o bruciato vivo (l’ebreo) e quello che muore di inedia e di malattia (nella Striscia di Gaza).
Ma il problema non è quello del bambino, ma di chi e come gli provoca la morte. Anche chi bombarda o lancia un missile è consapevole che ci possono essere degli effetti collaterali e che possono essere colpiti di civili, comprese le donne e i bambini.
Ne deriva che uno Stato democratico e civile deve dare alle sue truppe regole di ingaggio molto precise: colpire obiettivi militari. Non avviene sempre così. A volte si massacra la popolazione civile ed è proprio quello che compie regolarmente l’esercito russo in Ucraina) proprio per fiaccare la capacità di resistenza del nemico.
Anche gli Alleati durante la Seconda guerra mondiale bombardarono Dresda con l’obiettivo di colpire la popolazione, come aveva fatto la Luffwaffe su Londra. E anche la bomba atomica fu lanciata sul Giappone nella consapevolezza di colpire dei civili inermi.
È diverso, però, avere la forza e il coraggio di guardare negli occhi un bambino mentre ci si accinge a tagliarli la gola. E si compie questo crimine feroce soltanto perché questo essere umano, che si affaccia alla vita, è un ebreo. Gli israeliani non espongono i bambini in prima linea. Gli estremisti palestinesi li mandano avanti per primi quando decidono di ripetere episodi di “intifada”.
IL SOSTEGNO AD HAMAS
Un’altra “perla” delle teorie dei pacifisti del giorno dopo è la seguente: le trattative si fanno con i nemici. È il tentativo che fecero le democrazie europee nei confronti del nazismo. Le politiche dell’ appeasement si rivelarono ben presto inutili e rinunciatarie.
È stato il presidente Sergio Mattarella a ricordare nei giorni scorsi gli errori compiuti nel 1938 e nel 1939 che non evitarono ma spalancarono le porte alla Seconda guerra mondiale, che iniziò con il rifiuto del Regno Unità di intavolare negoziati con Hitler nonostante la situazione apparisse disperata e insostenibile. Ma gli Alleati decisero di annientare il nazismo e i suoi alleati.
Tutte le persone in buona fede si accorgono delle difficoltà in cui versa Israele. Più passano i giorni e più le dichiarazioni di solidarietà e di sostegno si fanno più caute. Secondo molte Cancellerie toccherebbe a Israele dimostrare responsabilità, per non allargare il conflitto, incendiare il Medio Oriente e far pagare ai civili della Striscia le colpe di Hamas.
Come se fosse possibile distinguere in quella comunità i terroristi dai civili palestinesi. Se Hamas fosse davvero interessato a proteggere gli abitanti di Gaza, non se ne farebbero uno scudo umano, uno strumento di ricatto politico e morale nei confronti di un’opinione pubblica democratica alla quale il governo deve rispondere, non solamente sul piano internazionale, ma anche su quello interno.
Poi, sono inaccettabili le manifestazioni di sostegno ad Hamas che stanno emergendo in giro per l’Italia, con crescente imbarazzo della sinistra. Anche il Pd si arrampica sugli specchi per non rompere del tutto con quei settori che, anche al suo interno, hanno fatto dello slogan dei due Stati, un sostanziale pretesto perché Hamas non vuole “farsi Stato”, ma soltanto ammazzare gli ebrei L’antisemitismo è una piaga mai suturata nella storia secolare dell’Europa, sulla quale ha potuto imporsi la “banalità del Male’’ del nazismo.
Ma le radici erano piantate in vicende tragiche e spietate di secoli di autodafé, di pogrom, di ghettizzazione, di conversioni forzate, di negazione dei più elementari diritti, di torture e massacri.
L’ODIO ANCESTRALE
Hannah Arendt ha spiegato quali sono i motivi di questo odio ancestrale che non ha solo aspetti religiosi (gli ebrei sono stati qualificati per secoli dalla Chiesa Cattolica come “deicidi’’, gli uccisori di Dio).
Fu Giovanni Paolo II, quando si recò a visitare la Sinagoga di Roma, a dichiarare che non solo non hanno nessuna colpa le generazioni che si sono succedute nel tempo, ma neppure l’intero popolo ebraico di allora, perché la responsabilità della morte di Gesù ricade soltanto su coloro che la vollero, agendo con settarismo e ingiustizia.
Abbiano, coloro che lo raccomandano, il coraggio di spiegare quale sarebbe la reazione proporzionata che dovrebbe condurre Israele. Durante la tragedia dell’Olocausto, gli ebrei si fecero prendere casa per casa, imbarcare su carri piombati e vennero condotti nei campi di sterminio. L’unico caso di resistenza armata avvenne nel Ghetto di Varsavia, laddove gli ebrei dimostrarono ai nazisti la dignità di morire combattendo. Israele è sorto proprio da quella pagina gloriosa.
Harry Potter e i tagliagole. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2023.
Lo scrivo senza intenti polemici né divisivi, spinto dal desiderio di capire: perché la di bambini e adolescenti israeliani non ha suscitato un unanime moto di indignazione? Perché fin da subito sono apparsi i distinguo, i «sì, ma» e le altre mille formule escogitate dall’ipocrisia umana per spostare l’attenzione dall’enormità del momento - la più spaventosa carneficina premeditata di ebrei dai tempi della Seconda Guerra mondiale - alle pur sacrosante riflessioni sulle concause storiche e le corresponsabilità di Israele e dell’Occidente intero?
Perché tanti giovani e meno giovani, in Italia e in Europa, sono scesi in piazza o sui social agitando slogan contro i «sionisti», ma neanche uno contro i tagliagole? Perché, quando vedono i morti palestinesi dicono che è colpa di Israele, ma quando vedono i morti israeliani non dicono (se non in pelosa e frettolosa premessa) che è colpa di Hamas? Possibile dipenda solo dal senso di colpa di vivere nella parte ricca della Storia? Una risposta implicita l’ha offerta JK Rawling. La creatrice di Harry Potter ha citato la lettera ai giornali in cui una madre inglese raccontava che, dopo i massacri di sabato scorso, la scuola aveva «raccomandato» ai compagni di classe ebrei della figlia di camuffare la loro identità, nascondendo la kippah sotto un cappellino da baseball. Come mai, si chiede sconfortata la Rawling, una simile resa morale non indigna nessuno? Almeno per un giorno, almeno per un minuto.
Uno schiaffo a tutta Italia. Alessandro Sallusti l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
"Ma quante Italie esistono?", si chiederanno domani nel resto del mondo
«Ma quante Italie esistono?», si chiederanno domani nel resto del mondo apprendendo che sulla guerra in Israele il nostro Parlamento ha approvato ben quattro mozioni diverse nella forma e, a tratti, nel contenuto, proprio nel giorno in cui si scopre che i terroristi palestinesi, durante il loro attacco, hanno decapitato donne e bambini civili inermi. Stiamo con i tagliagola o con le vittime? «Con i secondi», dice senza ombra di equivoco la mozione proposta dalla maggioranza; «dipende», si sostiene invece con sfumature diverse nelle tre mozioni in cui si è divisa l'opposizione.
Ovvio che il Parlamento sia il luogo del dibattito, che non tutti i suoi componenti siano obbligati a pensarla allo stesso modo. Ma il Parlamento non è neppure uno studio televisivo dove gli ospiti si scannano a favore di telecamera per vincere la gara dell'applausometro. No, quando si tratta materia delicata quale è la politica estera e il ruolo dell'Italia nel mondo, sia pure dopo «ampio e approfondito dibattito», il responso di un Paese che aspira ad avere credibilità e affidabilità nel contesto internazionale dovrebbe essere univoco e gli inevitabili e legittimi distinguo relegati agli ambiti politici e mediatici.
La sola idea che qualcuno, alla luce delle quattro distinte mozioni, possa pensare che l'Italia in questo momento non stia compattamente dalla parte di Israele è cosa che mette i brividi, eppure la sinistra ha ancora una volta anteposto la sua ideologia all'interesse dell'Italia, la sua frustrazione al senso dello Stato.
Un passo indietro. Primo marzo 2022: il Parlamento è chiamato a esprimere la sua opinione sulla guerra in Ucraina e il conseguente da farsi. Mario Draghi, allora premier, chiede una posizione univoca e netta pro Kiev, ne va della credibilità dell'Italia. La sua variegata maggioranza tentenna e si rischia il pasticcio se non fosse che il leader dell'opposizione, Giorgia Meloni, invece di specularci sopra a sorpresa annuncia: «Io voto con il governo». A quel punto le divisioni rientrano e Draghi porta a casa il risultato sperato. Ecco, per dire che ci sarà un motivo se a distanza di pochi mesi le elezioni le ha vinte lei e la sinistra le ha perse.
Anche da Roma fiumi di soldi alle Ong vicine ai terroristi. Dall'Italia 23 milioni a organizzazioni sospette tra il 2015 e il '21. Boldrini difese le sovvenzioni: "Non ci sono prove". Lodovica Bulian l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un fiume di denaro dalla Commissione Ue e dagli stessi Paesi europei, compresa l'Italia, è finito in questi anni nelle casse di ong palestinesi che secondo Israele avrebbero connessioni con le organizzazioni terroristiche che operano sulla Striscia di Gaza. Stando ai dati di Ngo Monitor, la banca dati israeliana che mappa i finanziamenti, milioni di euro sono stati donati anche da Roma: 23 milioni tra il 2015 e il 2021 per progetti gestiti da associazioni palestinesi operanti tra Israele, Striscia di Gaza e Cisgiordania. Di questi, una parte sarebbero andati a ong finite da tempo nelle black list di Tel Aviv, per presunti legami con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, considerato da Stati Uniti, Ue, Canada, un'organizzazione terroristica. Per Gerusalemme ci sarebbero nei casi più gravi connessioni con gruppi operanti sotto l'ombrello di Hamas, ma più in generale sarebbero ong che sostengono il cosiddetto «Bds», il movimento di boicottaggio contro lo Stato di Israele.
Nel 2020 il governo israeliano ha emesso una nuova lista nera, con sei associazioni finanziate dalla Ue, chiedendo di interrompere i finanziamenti. Non tutti però hanno creduto alle accuse di Israele. Nel 2021 la Commissione Ue aveva temporaneamente congelato i trasferimenti, ma poi aveva fatto sapere di essere pronta a riattivarli. Paesi come l'Olanda, la Svizzera, hanno invece stoppato le erogazioni. Non lo ha fatto il precedente governo italiano, ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Nel caso, per esempio, della palestinese Uawc, l'Olanda ha fermato i finanziamenti per l'evidenza, da un'indagine indipendente, non di passaggi di denaro, ma di legami con gruppi considerati terroristi. La stessa ong è stata coinvolta in alcuni progetti della Agenzia italiana per la cooperazione con finanziamenti a due associazioni che sostengono a loro volta Uawc. Perché molti Stati non hanno ascoltato gli alert israeliani? «Motivazioni politiche, ma anche la difficoltà da un punto di vista giuridico di dimostrare un collegamento diretto che presuppone l'apertura di un procedimento per finanziamento al terrorismo - spiega Lorenzo Vidino, direttore del programma estremismo della George Washington University - la dinamica spesso è quella di un finanziamento indiretto o di rapporti tra un'organizzazione basata in Europa con Hamas e altre organizzazioni terroristiche. Poi i fondi magari vanno davvero a scuole e orfanotrofi, ma sono sotto il controllo di Hamas, sono il suo braccio sociale. Le ong sono state usate così anche da Al Qaeda».
Del resto nel 2021, dopo che sei ong erano state messe al bando da Israele, la nostra Camera dei deputati ospitava una video audizione di due delle organizzazioni incriminate, Al Haq - finanziata dall'Italia - e Addameer, nell'indignazione della comunità ebraica. Presiedeva la seduta della sottocommissione dei diritti umani Laura Boldrini, che evidenziava l'assenza di prove a sostegno delle accuse di Israele, così come aveva fatto anche l'Onu. Uno degli auditi, Shawan Jabarin, direttore di Al Haq, rilanciava le accuse contro Tel Aviv, «vogliono zittirci», e parlava così di Israele: «Non è uno stato democratico, per noi non è solo una potenza occupante è un sistema di apartheid coloniale». Secondo Ngo Monitor negli anni l'Italia, tramite un'altra ong ha sostenuto indirettamente anche progetti del Centro di Sviluppo di Ma'an. Un dipendente, Ahmad Abdallah Aladini, sarebbe stato membro del Fronte popolare. Prima di rimanere ucciso nel 2018, sulla sua pagina Facebook, postava propaganda, e inneggiava ai martiri di Hamas. «In quel territorio non c'è foglia che si muova senza il controllo di Hamas - dice ancora Vidino - quando si hanno tre quattro passaggi di fondi da un'organizzazione A a una B, e poi a una C e D, è molto difficile capire questi fondi dove vadano a finire».
Prendersela con le vittime. L’ipocrita complessità di chi minimizza i crimini di Hamas contro gli ebrei. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 10 Ottobre 2023
Da anni sui social si denunciano patriarcato, femminicidi, cultura dello stupro, consenso, catcalling, femminismo intersezionale, victim blaming, però se di mezzo c’è Israele meglio non spendere mezza parola per le donne stuprate dai terroristi islamici. Questo è antisemitismo
C’è il video di una ragazza con i pantaloni zuppi di sangue che viene presa per i capelli e messa su un camion. Eh, però è complesso.
C’è il video di una ragazza con gambe e braccia rotte su un camion, seminuda, a faccia in giù, non si muove, la toccano, ridono, le tirano i capelli, noi sappiamo cosa è successo. Eh, però è complesso.
C’è il video di una ragazza portata via su una motoretta che urla di non ucciderla, e noi sappiamo cosa succederà. Eh, però è complesso.
C’è una ragazza che ha scritto che sua nonna è stata ammazzata in casa, lo ha scoperto perché chi l’ha ammazzata è entrato nel profilo Facebook della nonna e ha caricato le foto dell’omicidio. Eh, però è complesso.
C’è il video di un bambino israeliano che non avrà più di otto anni che viene umiliato e abusato da suoi coetanei palestinesi. Eh, però è complesso.
Ci sono quasi trecento morti a un festival musicale, chi era lì racconta che le ragazze venivano stuprate vicino ai cadaveri dei loro amici, poi alcune le ammazzavano, altre le hanno lasciate vive, e cosa sia peggio io non lo so e non lo sa nessuno. Eh, però è complesso.
Eh, però è Israele. Israele è un buco, e tutti noi che abbiamo la famiglia che vive là conosciamo almeno una persona a cui è morto un amico o un parente negli ultimi due giorni. Questa guerra non è lo Yom Kippur, non assomiglia a niente di quello che è stata la storia di Israele fino a oggi, e non finirà bene.
Non starò qui a fare analisi geopolitiche perché al contrario di Twitter non ne sono in grado, ma quello che so è quello che mi diceva mia nonna: non finirà mai, e non finirà mai perché la religione non finisce. Da una parte e dall’altra.
Ho visto la gente chiedersi come sia stata possibile l’ascesa di Adolf Hitler, e ho visto che se lo domandavano proprio mentre scandivano la parola “complessità” sotto le foto di ragazze morte, e sono anche piuttosto certa che oggi qualcuno Hitler lo inviterebbe in uno studio televisivo perché è importante esercitare il contraddittorio, il pluralismo, la complessità. Che cos’è l’antisemitismo? Nessuno pare essere più in grado di rispondere, perché se tutto è diventato fascismo, contemporaneamente niente è più antisemitismo. Sarà che è complesso.
Stiamo assistendo a questa grave epidemia di dissonanza cognitiva, o malafede, dove davanti a uno stupro, davanti a estremisti religiosi, davanti ai bambini rapiti, davanti all’Iran che festeggia, ci sono queste persone che insomma, sì è grave, però Israele poteva pure pensarci prima. Le stesse persone, che si percepiscono sempre divulgatrici e Golda Meir, un giorno sì e l’altro pure trovano il tempo, tra la promozione di un podcast e l’altro, di parlarci di: patriarcato, femminicidi, cultura dello stupro, consenso, catcalling, femminismo intersezionale, victim blaming. Eh, però se c’è in mezzo Israele non sono mica sicure che sia il caso dire mezza parola per queste donne, metti che poi qualcuno si risente, metti che il podcast poi va male, metti che avere un’idea si riveli pericoloso.
Non avevo mai visto qualcosa fare veramente il giro come quelle ragazze e quei ragazzi con lo striscione «Queers for Palestina», e io spero per loro che non scoprano mai cosa fa Hamas alle donne se gli fai notare che hanno sbagliato pronome.
In tutti questi anni non era mai capitato che nonostante i video di stupri, esecuzioni, ragazzi ammazzati con una vanga spaccata in testa o decapitati, bambini rapiti, anziani rastrellati, corpi morti portati in giro per le strade, venisse detto in maniera così disinvolta: eh, però è complesso.
Anzi no: è già successo con l’Ucraina. Non avevo mai visto la celebrazione di un massacro in giro per il mondo con così tanti applausi in piazza e da casa, lettere commosse di studenti di Harvard, silenzi di opportunità.
Non avrei mai pensato che davanti alle prove di crimini di guerra, prove documentate in diretta, ci fosse gente che dice che, alla fine, bisogna capire che ci sono dei pregressi. La verità non è mai complessa, la verità è che le vittime di Hamas sono gli israeliani, e sono i palestinesi. Hamas è un’organizzazione terroristica, non è resistenza, non è un movimento di liberazione, non è un gruppo estremista, non rappresenta i palestinesi tutti.
Mio fratello, in questo momento tra le sirene e le bombe, e molto più spiritoso di me, aveva preso parte alle manifestazioni contro il governo Netanyahu portandosi in piazza un sofà, realizzando così il sogno della rivoluzione dal divano. È questa l’unica idea che avrei voluto avere io, in modo da dare la definitiva risposta a chi dice «eh facile parlare dal salotto». Sì, è facile, ma mai quanto parlare di complessità. Mio fratello ha due figli, il più grande ha circa l’età del mio. L’unico problema attuale di mio figlio è quello di giocare o meno titolare nella squadra di calcio, mentre il problema del figlio di mio fratello è sopravvivere. Chissà se i bambini ne capiscono la complessità.
Nostalgia dell’età adulta. Le conseguenze della divulgazione social, mentre il mondo cade a pezzi. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2023
Nessuno ha voglia di leggere, ma tutti hanno un’opinione su tutto, specialmente nell’epoca in cui l’informazione ha deciso di assecondare la pigrizia intellettuale del pubblico
Nessuno ha voglia di leggere ma tutti hanno voglia di scrivere. Penserete che questa frase serva a sintetizzare la crisi del romanzo, e invece: sto parlando non di Israele in sé, ma di come la guerra in Israele ha fatto risaltare le due malattie endemiche del nostro tempo.
Tutti hanno un’opinione su tutto, anche su un conflitto stratificato nei secoli e sul quale, se non tifoso, non ha una risposta definitiva neanche chi lo studia da una vita; e tutti sono ormai abituati a non leggere niente che superi le dieci righe.
È andata così. Quando, più di quarant’anni fa, ero alle elementari, ci facevano comprare dei fascicoli di cui purtroppo non ricordo il nome. Avevano delle schede sugli argomenti, su sfondo arancione. Ritagliavamo con le forbici a punta arrotondata la scheda su siderurgia e barbabietola da zucchero nella tal regione, la incollavamo con l’attaccatutto dal tubetto giallo sul quadernone.
Quali erano le differenze con oggi, che la gente non si vergogna di usare espressioni quali «informarsi sui social network»? La prima era tecnica: le neuroscienze dicono che i gesti fisici – sfogliare, ritagliare, attaccare – facessero imprimere le informazioni nei nostri cervelli con un’efficacia che non ha il prendere a ditate il telefono mentre cinquanta altre notifiche appaiono sullo schermo.
La seconda era anagrafica: avevamo otto anni. Gli adulti leggevano libri, leggevano giornali, andavano persino al cinema: vivevano in quel mondo di istruzione diffusa che è durato pochissimi decenni, ma pensavamo fosse la normalità ormai perpetua, e lo rimpiangeremo per sempre. Quella che oggi ritiene d’essersi informata perché ha letto dei tweet è gente tecnicamente adulta: se da una disabilità cognitiva è afflitta la totalità degli esseri umani, dobbiamo riconsiderare la nostra idea di normalità, o sperare sia curabile?
Non abbiamo visto arrivare l’infantilizzazione del mondo. Quella per cui agli adulti devi dare i libri illustrati, e chiamarli graphic novel. Devi dare le fiabe della buonanotte, e chiamarle podcast. Quella per cui nessun adulto è più disposto a far fatica: la fatica di leggere, di approfondire, di contestualizzare, di unire i puntini, di informarsi, di conoscere.
A proposito di «non abbiamo visto arrivare». L’altro giorno ho visto la rappresentazione plastica del mondo in cui viviamo nelle storie Instagram di una delle più determinate ad allargare il proprio pubblico e quindi il proprio fatturato, abbassando il livello per venire incontro a un pubblico che non sa niente, non legge niente, non intende sforzarsi di avere riferimenti più vecchi di un quarto d’ora.
In una storia Instagram, diceva di sé che non l’avevano vista arrivare. Nella successiva, con lo scrupolo di chi sa che una citazione di otto mesi fa è ormai appannaggio dei laureati in storia, metteva il video di Elly Schlein la sera delle primarie. Certo, spiegare le barzellette fa alzare gli occhi al cielo a noi quattro stronzi che le avevamo capite, ma ti garantisce che il tremebondo e pigrissimo pubblico di questo secolo mai si spaventi per lo sforzo di seguirti.
Ora, se il pubblico medio non riconosce una frase che otto mesi fa gli è apparsa nelle notizie riportate dai social, e da allora è stata citata un po’ da chiunque, pensiamo davvero che sappia qualcosa di medioriente, che cercherà su Google che diavolo sia successo e non si spaventerà scoprendo che la storia non sta nelle dieci righe d’una didascalia di Instagram, che all’inserimento (ipotesi dell’irrealtà, figuriamoci) di “intifada” in un motore di ricerca esso motore non gli suggerirà, caritatevole, «cercavi forse Intimissimi»?
Ieri Assia Neumann ha scritto qui un articolo in cui sbeffeggiava coloro che non prendono posizione perché «è complesso», e io ho immediatamente pensato alla storia Instagram d’una divulgatrice che invitava a informarsi approfonditamente sul tema, e nel farlo linkava a un post Instagram di, giuro, otto righe, scritto da altro divulgatore che secondo lei parlava del tema, giuro che non sto inventando l’avverbio, «compiutamente». Riassuma il candidato Israele e Palestina, mi raccomando compiutamente, ma in meno di dieci righe, ché mica abbiamo tempo da perdere.
Alla complessità, porella, mancava solo il disprezzo esplicito di chi due cose le sa, per rincarare la strafottente indifferenza di chi pensa che «informarsi» significhi leggere quelle che vengono chiamate «slide», quei testi brevi (su sfondo colorato, mi raccomando, sennò ci sembra poco ricreativo e troppo culturale) che vengono condivisi dalle testate su cui s’informa l’esercito del surf.
Alla gara a intervenire per non venire percepiti fuori da quel campo di gioco che è l’argomento di tendenza del giorno – che nel Grande Indifferenziato può essere costituito da centinaia di civili trucidati o da Flavia Vento che dice d’aver visto una qualche madonna: li affrontiamo con lo stesso zelo – mancava solo Assia che dice che, se non opini, sei antisemita.
Forse sono solo due prospettive diverse. Assia vede Kourtney Kardashian o Alessia Marcuzzi che postano il loro bravo penzierino su Israele e si rallegra: meno male, non sono antisemite; io le guardo e penso: ma come ti viene in mente, ma perché devi dirmi la tua, ma non ce l’hai un po’ di senso delle proporzioni, di continenza, di idea del mondo e del ridicolo.
(Naturalmente quello attuale è l’ennesimo esempio della dinamica, e naturalmente quella di Assia è la posizione socialmente presentabile: sembra ieri che, se non postavi il riquadro nero in solidarietà a Black Lives Matter, eri razzista. Una volta ridevamo del gruppo musicale che, a ogni concerto del primo maggio, saliva sul palco urlando «Non c’è primo maggio senza “Bella ciao”»; poi abbiamo smesso di ridere di noialtri che ci sentiamo manchevoli se facciamo passare un 25 aprile senza postare qualche evocazione di qualche avo partigiano più o meno immaginario).
Sento fortissimo la mancanza di mister Pordy, unico studioso di geopolitica che mi abbia mai convinto. Mister Pordy viene evocato, durante l’ennesima crisi mediorientale, dal presidente degli Stati Uniti in una puntata dello sceneggiato televisivo che ci insegnava la politica quando non ce la insegnavano le schede di Instagram.
È un insegnante – di storia? Non lo sappiamo, il signor Pordy viene nominato solo in questa scena, eppure di lui vorrei saperne di più, almeno quanto vorrei uno spin-off sul fratello di Assia che va a protestare contro Nethanyau portandosi un divano – di una delle figlie del presidente degli Stati Uniti.
Il signor Pordy è, evidentemente, sodale di Assia nell’aborrire l’evocazione della complessità, e tuttavia sono abbastanza certa che non inviterebbe le vallette di tutto il mondo a dirci la loro sulle guerre.
«Ellie aveva un insegnante, si chiamava Pordy, che non era interessato alle sfumature. Chiese alla classe come mai ci fossero sempre stati conflitti in medioriente, e Ellie alzò la mano: “È un conflitto religioso che va avanti da secoli, c’entra la terra, e i sospetti, e la cultura, e…” “Sbagliato”, la interruppe il signor Pordy. “È perché fa molto caldo, e non c’è acqua”».
Sono contraria al concetto stesso di divulgazione, ai format moderni fatti per assecondare la pigrizia intellettuale del pubblico, a tutto ciò che non sono volumi di cinquecento pagine che selezionino in partenza chiunque voglia avere l’ardire di parlare di cose complicate. Però un format col fratello Neumann e il signor Pordy seduti sul divano mentre il mondo cade a pezzi, quello lo guarderei.
I guai di casa nostra. Lo scempio della tv italiana e di chi punta il dito contro gli israeliani al rave party. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2023
Proprio come ottant’anni fa c’era chi voleva impedire agli ebrei di vivere la loro vita, oggi nel nostro porcaio televisivo si attaccano quelli che erano andati a fare musica e ballare e sono stati aggrediti dai terroristi di Hamas
Nel trionfo di troppe magnificenze, mi pare che sia sfuggita all’attenzione di tanti la fioritura forse più bella offerta dalle fecondità del porcaio televisivo italiano: e cioè che in Israele mica potevano pensare che fosse possibile fare musica e ballare mentre su quella inopportuna spensieratezza si affacciava l’ingiusta sofferenza altrui, la rabbia di gente vilipesa da un simile affronto danzante.
E in effetti ci sta, esattamente come ci stava ottant’anni fa. Pensavano forse gli ebrei di poter fare impunemente i loro commerci, di godersi le loro abitazioni e di mandare a scuola i figli mentre il mondo circostante subiva la loro soperchieria usuraia? Pensavano forse di farsi mettere quei costosi denti d’oro senza incorrere nel comprensibile risentimento della brava gente spinta dalle circostanze a cavarglieli dalla bocca? Pensavano forse di gironzolare per le strade così sfrontati, senza portare addosso il segno di riconoscimento di quella loro avidità tanto oltraggiosa nei confronti del popolo soggetto alle loro cospirazioni?
Funziona così nell’Italia nata “dalla resistenza contro il nazi-fascismo”, nell’Italia della Giornata della Memoria, nell’Italia adunata in vigilanza del tenore democratico del Paese messo a rischio dal busto di Mussolini sulla mensola di casa del presidente del Senato, nell’Italia che insorge contro le norme liberticide per la soppressione del diritto al rave party ad Abbiategrasso e Benevento: funziona che se un altro rave è preso di mira dai terroristi che massacrano centinaia di ragazzi, e mica ad Abbiategrasso o a Benevento, accidenti, dove c’è la Costituzione più bella del mondo fondata sul reddito da 25 aprile, ma in quel deserto usurpato, allora c’è ben da domandarsi come sia possibile tanta insensibilità, come sia possibile che ci si senta liberi di fare quella ricreazione in musica sculettando a un tiro di sasso – ops, di kalashnikov – da gente che ha in corpo tanta fame e tanta rabbia (naturalmente per colpa dei ballerini). Poi ti sorprendi perché su quella festa ai margini del bisogno e del degrado piombano i commandos che fanno strage di quegli sventati e restituiscono al deserto la sua tranquillità silenziosa.
Sveliamo un segreto. Sì, pensavano di avere il diritto di vivere e di ballare. Il diritto che ai loro genitori e ai loro nonni era stato negato qui: dove oggi, ottant’anni dopo, si fanno serissime riflessioni sulle cause, sui motivi, sulle geopolitiche spiegazioni per cui gli ebrei sono massacrati mentre pretendono di divertirsi incuranti di chi sta male.
Quel silenzio dovuto e non concesso ai 40 bambini uccisi da Hamas. Andrea Soglio su Panorama l'11 Ottobre 2023
Quel silenzio dovuto e non concesso ai 40 bambini uccisi da Hamas Politici, studenti, analisti anche ieri hanno cercato giustificazioni storiche e politiche alle azioni di Hamas, senza fermarsi nemmeno 24 ore davanti ai piccoli decapitati in un kibbutz 40 bambini, tra cui alcuni neonati sono (e non sarebbero, ma SONO) stati uccisi. 40 bambini sono stati ammazzati nelle loro case, magari mentre cercavano la fuga o forse nel letto dove dormivano, per non parlare di quelli presi in braccio da mamma e papà come gesto ultimo di protezione. Bambini morti terrorizzati. Ad alcuni di questi è (e non sarebbe) stata tagliata la testa. Si fa fatica persino a respirare se si pensa a tanto orrore. È per questo che davvero non capisco chi ieri sui social, in tv, sui giornali è riuscito anche solo per un momento non solo a parlare ma persino a cercare giustificazioni storiche, comprensione politica per commentare quanto compiuto dagli uomini di Hamas sabato nel kibbutz dove oltre ai 40 corpi di bambini nel kibbutz dove oltre ai 40 corpi di bambini ne hanno lasciati a terra altri 160 di adulti. Uccisi come se si fosse dentro un videogame. Non si tratta di commentare le parole di Patrick Zaki, Rosy Bindi, Pierluigi Bersani, dei collettivi studenteschi di alcuni licei della Milano bene, di molti manifestanti scesi in piazza con la Cgil, di gran parte dei centri sociali sparsi nel paese e degli altri politici ed esperti che da 48 ore usano la peggiore delle espressioni possibili: «però…». Le frasi e le opinioni sono sempre le stesse, fateci caso. Il però arriva come una lama dopo la debita e debole premessa: «Condanna per le azioni di Hamas… PERO’…» e dopo il però vai di discorsi che possono partire dagli anni ’70, per raccontare che Israele ha invaso e schiavizzato il popolo palestinese, oppure fermarsi agli ultimi mesi, attaccando la politica di Benjamin Nethaniau. Frasi dentro cui si nasconde la vera opinione antiisraeliana a filo palestinese di Zaki, Bindi, etc etc etc. Ripeto: ognuno può pensarla come vuole, dagli studenti dei liceli del centro di Milano a politici di lungo corso. Ma ieri, davanti alla notizia di tanto orrore sarebbe stato giusto quantomeno il silenzio, per 24, 48 ore. Ieri bisognava tacere o almeno parlare per chiedere ad Hamas di fermarsi. Quei PERO’ pronunciati ieri dopo che il mondo ha visto di cosa sia capace un uomo (che qualcuno ha pure il coraggio di definire «partigiano») sono un’offesa a quei 40 bambini, trucidati. C’è un tempo per ogni cosa, soprattutto c’è e ci sarebbe stato da domani il tempo per parlare di una questione che divide il mondo da decenni. 24 ore di silenzio sarebbero state il minimo sindacale.
Estratto dell’articolo di Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2023.
No, non è come la guerra del Kippur. Anche allora Israele fu colta di sorpresa, ma quelli di cinquant’anni fa erano eserciti (arabi) contro un esercito (israeliano), soldati contro soldati, divise contro divise. Stavolta si tratta invece di miliziani Hamas, che sgozzano abitanti di Israele, i quali non avevano altra colpa se non di aver casa vicino ai confini di Gaza. [...] stavolta è assai peggio di altre guerre, compresa quella del 1973: quei filmati sono molto molto più crudi ed è impossibile, come ci ha insegnato proprio l’Ucraina, immaginare che la partita si chiuda qui. Perciò, al di là dei nostri auspici, è probabile che nei prossimi giorni vengano alla luce altri massacri. Persino peggiori.
Conosciamo tutti la complessità della questione mediorientale (quantomeno ne sanno qualcosa quelli che davvero se ne sono occupati seriamente). E siamo consapevoli del fatto che, in quel contesto, «bene» e «male» non sono collocabili per intero da una parte o dall’altra. Ma fa davvero impressione che ci sia un certo numero di nostri connazionali — cantanti o rettori d’università — i quali, senza concedersi neanche un attimo di rispettoso silenzio al cospetto di incursioni esplicitamente indirizzate ad uccidere «ebrei» (non «israeliani», «ebrei»), abbiano ritenuto di esaltare i «legittimi attacchi palestinesi».
E abbiano addirittura criticato coloro che anche a sinistra avevano condannato quei misfatti perché — sempre secondo gli stessi cantanti e rettori — non avrebbero «a cuore la libertà e l’autodeterminazione dei popoli», desiderosi esclusivamente di «servire gli interessi dell’imperialismo occidentale del quale sono servi e portavoce».
Allo stesso modo fa una certa impressione assistere allo spettacolo di quelli che, come accade da decenni, hanno immediatamente girato i riflettori sulla «terribile reazione israeliana». Una «reazione», quella israeliana, sottolineiamo. Non un’aggressione.
Una risposta ad atti che partono da una terra, la striscia di Gaza, consegnata nel 2005 da Israele ai palestinesi. Striscia da cui, nel corso dei diciotto anni successivi al ritiro da quella terra di ogni cittadino israeliano, sono venuti solo attacchi terroristici. Con l’unica differenza che quelli del passato erano meno spietati di quelli di ieri mattina.
Vale la pena di soffermarci su quelle che prevedibilmente nei prossimi giorni saranno le «reazioni alla reazione». Speriamo di essere in errore ma siamo sicuri che tutti (proprio tutti) quelli che hanno considerato eccessiva la risposta armata degli ucraini all’aggressione russa, definiranno sproporzionata l’azione israeliana contro gli aggressori di Hamas.
Diranno che Netanyahu è un assassino e ci mostreranno immagini di innocenti morti a causa di bombe israeliane. Per poi invocare una pace del cui mancato ottenimento il premier israeliano sarebbe l’unico responsabile. Dopodiché l’ecatombe di ieri (come tante altre del passato, sia pure di minore entità) passerà in secondo piano per essere al più presto dimenticata. Ma stavolta sarà più arduo tornare a questo consueto copione. Stavolta è suonata la campana della guerra. Guerra forse scongiurabile solo con un riesame obiettivo di quel che è accaduto negli ultimi mesi.
Questo riesame può indurci ad analisi più meditate. Al termine delle quali scopriremmo che tra gli obiettivi delle azioni di ieri, oltre a Israele, potrebbe esserci anche l’Arabia Saudita. Arabia Saudita che nel marzo scorso, sollecitata da una mediazione cinese, aveva firmato un accordo con l’Iran (probabile mandante degli attuali attentati) per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche. La stessa Arabia Saudita che, con una imprevedibile giravolta, in settembre si era pubblicamente riavviata sulla strada dell’avvicinamento a Israele.
Strada, al termine della quale, Riad sarebbe forse giunta a sottoscrivere il patto degli «Accordi di Abramo» già stipulato nel 2020 da Israele con Emirati arabi uniti, Bahrein e Marocco. Paesi che sono andati ad aggiungersi a Giordania ed Egitto, i quali già da anni avevano normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico. [...]
Le due sinistre. I liberal americani non tentennano su Hamas, lo stesso non si può dire di quelli europei. Luciana Grosso su L'Inkiesta il 12 Ottobre 2023
A Washington, da Biden a Sanders e Ocasio-Cortez, i progressisti non hanno avuto alcun dubbio sulla condanna dei fondamentalisti islamici. Su quest’altra sponda dell’Atlantico, invece, sono andati in ordine sparso
Quando Hamas ha attaccato Israele, sabato scorso, la sinistra americana si è espressa compatta e veloce. Tutti i leader, da Joe Biden a Bernie Sanders, hanno espresso la stessa posizione: condanna, senza se e senza ma.
«Condanno assolutamente il terribile attacco contro Israele da parte di Hamas e della jihad islamica. Non c’è alcuna giustificazione per questa violenza e persone innocenti di entrambe le parti ne soffriranno enormemente. Deve finire adesso», ha dichiarato Sanders, facendo eco alle parole di Biden che, sabato, aveva parlato espressamente di terrorismo e aveva detto che il suo Paese e il suo governo sono e resteranno al fianco di Israele.
Anche Alexandria Ocasio-Cortez, nota per le sue posizioni spesso in disaccordo con l’amministrazione Biden – che pure sostiene – ha rilasciato una dichiarazione di fermissima condanna. Un’unità piuttosto inedita ma sostanziale, rotta solo da alcune voci discordanti, come quelli della deputata di origine palestinese Rashida Tlaib, che ha parlato della «necessità di un futuro giusto, possibile solo con la rimozione del blocco, la fine dell’occupazione e lo smantellamento del sistema di apartheid che crea condizioni soffocanti e disumanizzanti che possono portare alla resistenza».
Aria molto diversa, di disgregazione invece che di unità concorde, soffia dalle parti della sinistra europea, che storicamente distingue, contestualizza, valuta molto di più.
In Europa il rompete le righe rispetto agli attacchi di sabato è evidente: c’è la sinistra con aspirazioni di governo (quella più moderata, simile al nostro Partito democratico, o ai socialdemocratici tedeschi) che ha separato la pula dal grano e ha preso le parti di Israele e dei civili palestinesi, contro Hamas. I gruppi che si auto considerano depositari dell’essenza più pura della sinistra di sinistra, invece, sembrano essere più confusi, smarriti in mille reticenze.
In Francia Jean-Luc Mélenchon, il leader del partito La France Insoumise e del cartello di “sinistra-di-sinistra” Nupes, sabato ha rilasciato una generica dichiarazione di condanna della violenza e di richiamo alla pace. Poi, nelle ore successive, ha rincarato la dose, rifiutando di partecipare alla manifestazione pro Israele tenuta a Parigi e accusando la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo di cercare, attraverso un tweet di solidarietà con Israele e con gli ebrei di Parigi, il voto clientelare; in un altro tweet (non suo, ripostato) accomuna il presidente Emmanuel Macron all’estrema destra di Benjamin Netanyahu. «Come gran parte della sinistra francese – scrive Le Monde – la France Insoumise si è sempre posizionata come difensore del popolo palestinese oppresso. Ciò è comprensibile, ma il fatto che in nome di questa indignazione non riesca a caratterizzare correttamente le atrocità commesse durante un’operazione terroristica, fomentata da un’organizzazione estremista, lo spinge verso qualcos’altro: una forma di compiacenza verso la violenza più barbara».
Solfa molto simile in Spagna, dove il cartello di Sumar (di cui fa parte Podemos e le cui parole pesano come pietre in questi giorni di tentativi di formare una maggioranza di governo) ha espresso generica condanna delle violenze, ma non ha condannato Hamas, preferendo invece attaccare l’Unione europea, accusandola di «doppio standard tra israeliani e palestinesi».
Posizione simile quella di Yanis Varoufakis, leader della sinistra altromondista europea e del piccolo partito greco MeRa 25 (Fronte della Disobbedienza Realistica Europea) che ha chiesto l’immediata cessazione dell’apartheid israeliano nei confronti di Gaza.
Nel Regno Unito, invece, tanto è stata ferma la condanna del leader laburista Keir Starmer, tanto fumosa quella dell’ex leader (ora fuori dal partito) Jeremy Corbyn che ha detto che «tutti gli attacchi sono sbagliati». Una situazione simile è quella dello Sinn Fein irlandese, partito che per ovvie ragioni ha molto a cuore la causa palestinese, e che appare lacerato tra sostenere la Palestina e giustificare Hamas.
Così, tra un distinguo e l’altro, tra un se e un ma, la sinistra europea rischia di perdere di vista il punto: e il punto è che, se si è, come si dice di essere, di sinistra, si sta dalla parte degli ultimi, dei dimenticati, dei rimasti indietro, delle vittime innocenti.
Non si prendono gli ultimi, i dimenticati, i rimasti indietro, e le vittime innocenti, e li si sacrificano nelle eterne dispute su chi ha ragione e chi no. C’è un tempo per ogni cosa. Anche per i congressi. Ma quel tempo non è adesso.
Un Parlamento di ragazzini. I partiti si dividono anche sulla condanna delle atrocità di Hamas. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2023
Le Camere non sono riuscite a produrre una condanna bipartisan neanche contro i tagliagole islamisti. Colpe a destra come a sinistra, ma anche di un governo che pensa solo a seminare scompiglio nell’opposizione
Il mondo non verrà salvato dai ragazzini del Parlamento italiano, che ieri non è riuscito a produrre una mozione unitaria contro il terrorismo di Hamas che decapita i bambini e dilania i ragazzi a un rave party ma ha approvato ben quattro mozioni simili ma diverse. Immaginiamoci se il 16 marzo del 1978, a Montecitorio, a pochi chilometri in linea d’aria dal più orrendo eccidio politico della storia italiana, i partiti si fossero messi a litigare sulle virgole e a votare mozioni diverse per parti separate. Solo che oggi non ci sono gli Ugo La Malfa e i Benigno Zaccagnini, ma gente che più che all’immagine del proprio Paese si preoccupa di quanti carriarmatini ha conquistato, come a Risiko.
Eppure a parole quello di arrivare a un testo comune era parso l’auspicio di tutti. Non è appassionante qui ricostruire chi si è messo di traverso, però molti indizi portano a Giovanbattista Fazzolari, il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che pare non volesse votare una mozione insieme alle opposizioni, le quali da parte loro, già che c’erano, hanno pensato bene di produrre tre mozioni diverse (Pd-M5s-Sinistra/Verdi; Italia viva-Azione; Più Europa), tutti uniti sulla condanna di Hamas ma divisi sulla opportunità di infilare il giudizio critico su governo di Bibi Netanyahu, come se questo, in queste ore nelle quali si accatastano i cadaveri, fosse la questione dirimente.
Il Partito democratico, con due forti discorsi di Peppe Provenzano e di Elly Schlein, ha mostrato di reggere sulla inequivoca condanna del terrorismo dei tagliagole e sull’appoggio a Israele, seppure condendo il tutto con l’auspicio di una «pace» che purtroppo al momento suona come una parola retorica. E si sa che giungere a questa linea non è stato esattamente una passeggiata stante la presenza nel gruppo dirigente schleiniano e nei gruppi parlamentari di una forte ostilità nei confronti di Israele in quanto tale.
Qui bisognava fare una cosa semplice e opportuna (come fece Mario Draghi sull’Ucraina): una mozione di cinque righe di durissima condanna degli assassini e di sostegno a Tel Aviv. Punto. Nei momenti drammatici si fa così, non ci si perde in quelle chiacchiere che alla fine non possono non dividere.
Strano che gente esperta come i dirigenti del Partito democratico non si siano mossi in questo modo, e anche più strana è la mancanza di una iniziativa esterna del Partito democratico tanto più evidente se paragonata all’attivismo della premier che ieri si è recata a far visita alla Sinagoga di Roma: un bel gesto. C’è dunque un’ala che nell’opposizione frena, un certo maldipancia nel prendere le parti di uno storico “nemico” come lo Stato ebraico – che certo non va confuso con le prime dimostrazioni sostanzialmente antisemite di studenti romani e milanesi, poca roba finora ma il fenomeno si può pericolosamente allargare, e che tuttavia rappresentano un problema per la sinistra democratica.
È un freno speculare all’oltranzismo dei vari Fazzolari e di altri settori della maggioranza, ma a questo riguardo sinceramente non si è capito perché il governo abbia lavorato per dividere e non per unire (malgrado l’intento di Antonio Tajani), cioè come mai Giorgia Meloni non abbia capito che mostrare al mondo di avere dietro di sé tutto il Parlamento sarebbe stata una medaglia non da poco. Evidentemente ha preferito seminare un po’ di scompiglio nell’opposizione a scapito dell’unanimità delle Camere: ma se è così vuol dire che anche lei è una ragazzina.
GIUSEPPE CRUCIANI: “I SIGNORI DI HAMAS SONO ASSASSINI, CONDUCO CON LA BANDIERA ISRAELIANA”. Da lawebstar.it il 10 ottobre 2023.
Il nuovo inasprimento del conflitto nella striscia di Gaza è stato al centro anche della trasmissione radiofonica La Zanzara, la cui ultima puntata è stata condotta da Giuseppe Cruciani completamente avvolto da una bandiera israeliana.
Netta la sua presa di posizione contro Hamas: “I signori di Hamas sulle donne senza velo considerano la libertà delle donne come i talebani. Sono assassini, rapitori e torturatori. Oggi conduco la trasmissione con una bandiera israeliana. Io la penso in maniera molto semplice: da una parte c’è il governo legittimo di uno stato democratico, dall’altra parte c’è un gruppo di terroristi infami e spietati assassini”.
Estratto da liberoquotidiano.it il 10 ottobre 2023.
[…] Il conduttore ha parlato della situazione in Israele, sottolineando con forza la sua posizione. “Da una parte c’è il governo legittimo di uno stato democratico. Ripeto, un governo contestabile, non c’è dubbio, ma il governo legittimo di uno stato democratico, che funziona democraticamente con le elezioni, i suoi giudici, eccetera.
Dall’altra parte c’è un gruppo di spietati terroristi infami e assassini. I signori che si chiamano Hamas che molti piccoli leader e ridicoli, altrettanto ridicoli, capi partito italiano, oggi non condannano apertamente,” ha dichiarato Cruciani.
Il giornalista non ha dubbi su quale sia la posizione da assumere. “Dunque, se uno deve scegliere se stare dalla parte di uno stato democratico, il cui governo ovviamente può essere contestato, e infatti viene contestato anche in Israele, è un gruppo di spietati assassini, che rapiscono persone, uomini, donne, bambini e anziani, sgozzano e li imprigionano, io sono dalla parte senza se e senza ma di questo stato democratico, lo stato di Israele.”
Ma non sono mancati anche dei durissimi attacchi contro chi in Italia gioisce per i bombardamenti di Hamas sui cittadini israeliani. Cruciani, infatti, ha riservato parole dure per alcuni studenti antifa del liceo Manzoni di Milano: “Un gruppo di signori ha scritto, poi lo ha tolto, un post su Instagram in cui ha vergato le seguenti parole: ‘Quanto è bello quando brucia Tel Aviv’. Questi sono degli emeriti coglioni.
Sono degli emeriti imbecilli, sono delle teste di cazzo internazionali. Ma non ci deve essere nessun provvedimento. Come dice il ministro Valditara, è sbagliato anche prendere provvedimenti. Si definiscono da soli e sono dei coglioni. Che scrivessero quello che vogliono, noi li definiamo coglioni, imbecilli e teste di cazzo.”
Giampiero Mughini per Dagospia sabato 14 ottobre 2023.
Caro Dago, a proposito del corteo romano di ieri in cui erano in molti ad augurarsi la vittoria dei palestinesi e dunque la distruzione di Israele - perché è esattamente questo che proclama Hamas - lo sai che ho una qual certa esperienza di prima mano dei "sinistroidi" italiani, e questo a partire da quando fecero i primi passi nei Sessanta. Erano i miei compagni e compagne di generazione.
Nella città in cui ero nato (Catania) li vidi sfilare il 1° maggio 1969 sotto le gigantografie di Stalin e di Mao mentre ululavano contro i sindacalisti della Cgil. Salvo scappare a gambe levate quando il servizio d'ordine del sindacato scattò a insegnar loro le buone maniere.
Oggi ho visto con orrore sul Corriere della Sera la foto di uno dei partecipanti al corteo romano da cui sono partito mentre sferra in calcio da arti marziali giapponesi contro lo scudo di un poliziotto, che naturalmente ha avuto l'ordine di non reagire ed è benissimo che sia così. Mi ha colpito l'odio di cui è capace il volto di quel ragazzo, un odio che credo lui estenda agli israeliani in quanto tali.
Agli israeliani che si trovano di fronte un'armata semiclandestina ma ferocissima che li bombarda da mane a sera con i razzi forniti dall'Iran. Perché c'è questo a Gaza, che un paio di milioni di civili non hanno i soldi di che mangiare, in pochissimi hanno l'accesso all'acqua potabile, ma quelli di Hamas sono pieni a strafottere di razzi da lanciare contro Israele a dove coglio coglio. E naturalmente, questi di Hamas, non vogliono che i civili retrocedano, si allontanino dall'inferno di bombe che piovono dagli aerei israeliani, perché quei due milioni di civili sono la loro arma migliore, gli ostaggi quelli sì più importanti dei neonati israeliani, due milioni di scudi umani che li proteggano dalla reazione degli israeliani dopo che 1300 di loro sono stati massacrati nelle loro case e per strada, dov'era andati a sentire della musica.
Lo so lo so lo so che non c'è popolo più martoriato di quello di Gaza, lo so lo so lo che sono a centinaia i bambini palestinesi che stanno morendo sotto il fuoco israeliano, li vedo quegli uomini e quelle donne palestinesi che muniti di un paio di valige cercano di sottarsi al putiferio di bombe (forse anche al fosforo?), è vero che noi europei siamo stati e siamo miopi nell'assistere al martirio di questo popolo colpevole solo di abitare la terra politicamente dominata dai criminali islamici di Hamas dopo che i soldati di Ariel Sharon l'avevano "liberata" dei coloni israeliani. Va fatto di tutto per alleviare la loro tragedia, anche se non so bene a questo punto che cosa sia possibile fare davvero e in concreto.
I soldati israeliani stanno per andare all'attacco e mi sembra difficile trovare argomenti atti a dissuaderli dopo che i bambini israeliani sono stati sgozzati a quel modo.
Lo dico con la morte nel cuore, non ci sarà pace per i civili di Gaza. Solo che è possibile trovare la causa di questo inferno, ed è la ferocia di cui hanno fatto prova i miliziani di Hamas nell'irrompere in Israele. A quella ferocia vanno imputati i bambini di Gaza che stanno morendo e di cui io mi vergogno a non poter fare altro che piangerli. Non lo dico io, lo ha scritto il New York Times in un lapidario articolo di cui Claudio Cerasa tesse oggi l'elogio sulla prima pagina del Foglio.
Vi prego vi prego vi prego fate qualcosa per aiutare in concreto quei martoriati palestinesi e uomini e donne e bambini, per soccorrerli, per sottrarli al ricatto dei "mostri" di Hamas.
Giampiero Mughini per Dagospia l'11 ottobre 2023.
Caro Dago, ovvio che ciascun civile palestinese morto a Gaza in seguito ai bombardamenti israeliani è una perdita e una ferita per l'umanità. Ovvio che nessuno di noi, e per quanto commosso dalle atrocità subite dai civili israeliani che vivevano a poca distanza da Gaza, è affranto dagli spettacoli di distruzione provocati dai bombardamenti israeliani, dai bambini e dalle donne morte.
Il fatto è che il grosso della popolazione palestinese è fatto da ostaggi né più né meno che i 100 o 200 ostaggi israeliani attualmente nelle mani dei tagliagole. Né più né meno. Li usano come possibili morti da esibire al mondo, e come se quei morti non fossero la diretta emanazione e conseguenza di ciò che avevano fatto sabato e domenica in terra d'Israele.
Non solo. Sono io che non l'ho ascoltata o davvero non c'è stata nessuna voce di un qualche palestinese di rilievo che esprimesse orrore per quei bambini ebrei decapitati? Qualcuno di voi l'ha sentita quella voce? Mi direte che ciascun palestinese vive già talmente dolorosamente da non avere l'agio di curarsi dei dolori altrui. Non è un grande argomento. L'argomento è che l'universo palestinese in Medio Oriente è fatto in modo tale che esiste solo la voce - o meglio la furia, i crimini - di Hamas e null'altro. Lo stesso ottantottenne Abu Mazen, l'uomo che prese il posto dell'Arafat che aveva stretto la mano a un primo ministro israeliano, tace.
Qualcuno di voi dirà che è tutta colpa di Israele, dei suoi coloni in Cisgiordania, se le cose stanno così. Non ne sono convinto. Di sicuro c'è che mai nella mia vita sono stato talmente allibito innanzi a un orrore così totale. O no, una volta sì. Quando vedevo quei civili americani precipitare dall'ottantesimo e passa piano delle Torri in fiamme.
Antonio Giangrande: Le manifestazioni di piazza: conformismo ed ipocrisia. La dittatura della minoranza.
Ci vogliono tutti conformati al pensiero unico dei salvatori della pseudo-civiltà.
Le manifestazioni di piazza. Sono sempre loro: di sinistra. Si fanno sempre riconoscere. Sempre dalla parte sbagliata: dalla parte del torto. Mai a favore di qualcuno. Sempre contro un nemico da combattere.
Manifestano contro i Femminicidi: combattono contro il Maschio, ma solo se è occidentale. Ed i maschi coglioni presenti, manifestano contro se stessi.
Mi ricordo quando per il delitto di Sarah Scazzi, noi avetranesi ignari dei fatti, diventammo tutti colpevoli, nell'ignavia dell'Amministrazione comunale.
Manifestano contro la Mafia: combattono contro i Meridionali.
Manifestano contro l'Omofobia: combattono contro gli Etero.
Manifestano per l'Aborto: combattono contro i Nascituri.
Manifestano per la Pace: combattono contro l'Ucraina ed Israele.
Manifestano per il Lavoro: combattono contro la classe Media ed il Governo.
Manifestano per l'Accoglienza e l'Inclusione: combattono contro l'Occidente e la Cristianità.
Manifestano per il Politicamente Corretto. combattono contro la Libertà di Parola.
Mai che ci sia una manifestazione spuria. Solite facce, solite bandiere, solita ideologia e soliti quattrogatti fracassoni.
Dove ci sono le telecamere ed i taccuini di media partigiani, lì ci sono loro: è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.
Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura.
Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi.
Non capisco chi va a dimostrare. I loro problemi li manifestano in piazza: a chi?
Alla stampa omertosa? Ai politici menefreghisti? Ai colleghi di sventura che pensano a risolvere la loro personale situazione?
Non basta una buona rete sul web per far sentire la nostra voce?
Chi ha votato, si rivolga al suo rappresentante in Parlamento, affinchè tuteli il cittadino dai poteri forti.
Chi non ha votato, partecipi con altri alla formazione di un movimento democratico e pacifista per poter fare una rivoluzione rosa e cambiare l’Italia.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Niccolò Carratelli per “La Stampa” - Estratti lunedì 11 dicembre 2023.
Un cessate il fuoco immediato a Gaza. E il riconoscimento della Palestina come Stato. Ecco le richieste che si alzano dal corteo pacifista, mentre sale verso la rocca di Assisi.
Una marcia della pace straordinaria, organizzata in occasione del 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, ma in formato ridotto. Non solo per il percorso di pochi km (la partenza non da Perugia, ma dalla vicina basilica di Santa Maria degli Angeli), ma anche per la scarsa partecipazione: circa un migliaio di persone
(...)
Elly Schlein arriva mentre all'inizio, accompagnata dalla fedelissima Marta Bonafoni, coordinatrice della segreteria Pd, e dai dirigenti umbri del partito. «Siamo qui per ribadire la necessità di un cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza, dove si è già passato il segno – dice la leader dem –. Le vittime civili sono un numero inaccettabile, incredibile». Il punto è che «per ricostruire un percorso di pace, bisogna trovare gli interlocutori giusti – avverte Schlein – che non possono essere né i terroristi di Hamas né il governo di Netanyahu, che comprende esponenti di estrema destra che nemmeno riconoscono la causa palestinese».
La segretaria si muove lungo il corteo, fa un pezzo di strada a braccetto con Nicola Fratoianni, il leader di Sinistra italiana, convinto che il punto di partenza debba essere «un cessate il fuoco duraturo, per fermare la carneficina senza fine in corso a Gaza». Poi incontra don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, che si infervora indicando «l'unica strada possibile» per sbloccare la situazione: «Cominci l'Europa a riconoscere subito i due Stati, Israele e Palestina».
Schlein non incrocia, invece, Giuseppe Conte, perché il presidente dei 5 Stelle non c'è. Ufficialmente è costretto a casa da «una brutta influenza». A fine ottobre era stato lui il protagonista della fiaccolata pacifista in piazza Esquilino a Roma, mentre Schlein era impegnata altrove. Oggi ha lasciato la scena alla leader Pd (il M5S è rappresentato da una delegazione umbra). «Dobbiamo raccogliere il grido di aiuto che si leva dalla popolazione civile palestinese – scrive l'ex premier sui social –. Il veto posto dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza Onu a una risoluzione che chiedeva un immediato cessate il fuoco umanitario è una decisione pericolosa e ingiustificabile», di fronte a «un'operazione militare che sta assumendo i contorni di una indiscriminata rappresaglia collettiva». Schlein sorride quando le fanno notare l'assenza del leader M5s, mentre Bonafoni si fa scappare una battuta: «L'altra volta la manifestazione era a Roma e lui era a Perugia, oggi il corteo è ad Assisi e lui è a Roma».
Il riferimento è alla grande manifestazione contro la violenza di genere e i femminicidi, che due settimane fa ha riempito il Circo Massimo a Roma, e il confronto numerico è oggettivamente impietoso. «Non faccio confronti – dice la segretaria –, noi eravamo in quella piazza e siamo in questo corteo, perché per noi sono tutte sfide intrecciate: la pace, i diritti, la giustizia sociale e climatica». A poca distanza c'è l'attore Alessandro Bergonzoni, che saluta Schlein e commenta questa marcia a ranghi ridotti: «È una questione emotiva, sulla violenza contro le donne c'è stata una reazione forte e molto bella – spiega –; mi piacerebbe vedere la stessa partecipazione in nome della pace, del resto anche in guerra ci sono donne violentate e uccise, o no? ». C'è anche un problema di scarsa unità, di prospettive diverse, fa notare qualcuno, proponendo a Schlein una contrapposizione tra questa manifestazione e quella di martedì scorso a piazza del Popolo a Roma contro l'antisemitismo, dove la leader dem era andata e dove prevalevano le bandiere israeliane.
(...) Nonostante non ci sia una gran ressa, Schlein stavolta manca l'abbraccio con Maurizio Landini, che non completa il percorso fin sotto la basilica di San Francesco, ma è l'unico a ricordare che «dobbiamo batterci per un cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi, ma pure in Ucraina». Al tramonto, mentre il corteo entra nella piazza francescana, si alzano cartelli neri con scritto "cessate il fuoco", Schlein dribbla altre domande. Dal palco conclude Flavio Lotti, storico organizzatore della Perugia-Assisi: «Esortiamo l'Assemblea generale dell'Onu a fare ciò che il Consiglio di sicurezza non è riuscito a fare, cioè approvare una risoluzione che richieda il cessate il fuoco. Abbiamo bisogno che l'Italia si assuma le sue responsabilità insieme all'Ue, che qualcuno dica basta».
Bandiere ammainate. Sulle battaglie più importanti (Ucraina e Israele), la sinistra è ferma agli slogan. Mario Lavia su L'Inkiesta il 12 Dicembre 2023
Il fronte teoricamente progressista Pd-Cgil-Arci-Acli-Anpi è stanco di guerra e anche di lotta alla guerra. Una rassegnazione scolorita che porta solo a chiedere la pace e il cessate il fuoco, dimenticando che Kyjiv e il popolo ebraico sono ancora sotto attacco, ogni giorno
Alla marcia straordinaria per la pace che si è svolta domenica a Perugia non c’era molta gente. Forse il freddo. Forse perché già è arrivato il clima di vacanze natalizie. O forse anche perché ’sta guerra tra Israele e Hamas, per non dire della “vecchia” guerra in Ucraina, non mobilita più di tanto nemmeno i pacifisti di professione – nell’occasione schierati con “il popolo palestinese” e contro Israele.
Fatto sta che la sinistra pacifista Pd-Cgil-Arci-Acli-Anpi eccetera è stanca di guerra e anche di lotta alla guerra. Non sa bene che fare, e si capisce. Pace subito, cessate il fuoco: slogan. Li ha gridati anche Elly Schlein a Perugia, dove c’era anche l’instancabile Maurizio Landini, mentre Giuseppe Conte, il terzo lato del triangolo, era a casa malato («Avrei tanto voluto esserci»).
Sembra di assistere a un pacifismo militante che trascolora in rassegnazione. Ed è proprio per contrastare la frustrazione di non poter fare niente che si rafforza la vecchia critica delle armi: perché le armi della critica non portano da nessuna parte, in questo contesto.
Di certo, la sinistra, e in parte il Partito democratico, ha mollato Israele. Come ha notato Walter Vecellio su HuffPost, a Perugia non c’era una sola bandiera israeliana, erano tutte palestinesi o arcobaleno, come si era visto anche alla manifestazione del Partito democratico di piazza del Popolo a Roma. «Cessate il fuoco umanitario e stop ai bombardamenti», chiede Schlein mentre i soldati israeliani danno la caccia nel sottosuolo di Gaza ai capi di Hamas, che intanto continua a lanciare razzi, saccheggiare le scorte e detenere gli ostaggi. Mica chiede ai tagliagole di arrendersi, il socialismo europeo, che sarebbe l’unica via per salvare subito vite umane. Anzi, come detto, cresce l’ostilità per gli israeliani che non si fermano finché non avranno vinto, come accade in tutte le guerre. Purtroppo questa è la situazione.
Ora, invocare la pace prescindendo dalla realtà è un modo buono per tranquillizzare le coscienze, ma non è politica. Di qui l’impasse e la crescente insofferenza del pacifismo. E più o meno lo stesso discorso vale per la “vecchia” guerra, quella che insanguina da quasi due anni l’Ucraina. Paolo Mieli ha scritto sul Corriere della Sera parole preoccupate sulla «mutazione di linea» del Partito democratico sull’Ucraina, auspicando un chiarimento.
Alcuni dirigenti, come Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa che è stato ed è in prima linea nel sostegno a Kyjiv, ha ribadito il suo «Slava Ukraini!». Gianni Cuperlo, chiamato in causa da Mieli, dice a Linkiesta: «Nessuna sconfessione delle scelte fatte. Il tema è come recuperiamo un’iniziativa politica che non archivi il concetto di una pace possibile in contesti dove ora dominano solamente altre logiche e interessi». Però la guerra continua: l’invasore russo è sempre lì. E dunque non sfugge a nessuno che il cuore del “popolo del Pd” non si scalda più per la bandiera gialloblu, e anche i dirigenti, se non l’hanno proprio ammainata, per stanchezza o chissà per che cos’altro, sembra proprio che abbiano smesso di sventolarla.
La peggio Italia. Lo spettacolo di arte varia delle falangi contestualizzatrici degli orrori di Hamas. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 7 Dicembre 2023
Il grande evento organizzato a Roma per Israele e contro i crimini del gruppo terrorista palestinese è stato disertato da alcuni illustri personaggi di sinistra e non solo. Gli stessi che partecipano in pompa magna a manifestazioni contro la violenza sulle donne (ebree a parte)
La componente antisemita e pro Hamas della sinistra, le falangi contestualizzatrici verdi e comuniste e la risulta parassitaria e boniniana dell’usurpata eredità radicale che hanno creduto di non sostenere formalmente la manifestazione dell’altra sera per la vita degli ebrei e di Israele rappresentano un’Italia non molto diversa, e per certi aspetti peggiore, rispetto a quella che stava a guardare mentre gli ebrei erano caricati sui carri bestiame.
Quella piazza romana, nella quale risuonavano le parole giuste e dovute di Piero Fassino, di Carlo Calenda, di Antonio Tajani, di Matteo Salvini, di Ignazio La Russa e degli altri, dei pochi altri che hanno fatto stecca nel coro delle assenze, delle latitanze equivicine ai macellai del 7 ottobre, delle nobili complessità che sconsigliavano la partecipazione perché, vedi mai, c’era caso che in vista dell’appuntamento elettorale europeo andasse a monte l’affascinante avventura due punto zero tra il progressismo dal fiume al mare e i diritti civili nel perimetro degli hotel di Bruxelles e Strasburgo, ecco, quella piazza effettivamente non troppo piena raccontava molto bene il significato che presso certuni ha avuto il pogrom del 7 ottobre e tutto quel che è successo dopo.
Quel che è successo dopo non solo lontano da qui, nelle strade palestinesi in cui i cadaveri degli ebrei massacrati erano fatti a pezzi e coperti di sputi, o negli aeroporti e negli alberghi dove si apriva la caccia all’ebreo, o nei ristoranti e nei negozi degli Stati Uniti presi d’assalto dalle turbe pro sgozzatori, ma quel che è successo anche qui, anche ai margini di quella piazza romana allestita dagli ebrei, partecipata da pochi buoni e giusti e disertata dai troppi, quei comunisti, quei verdi, quegli “europeisti” per calcolo spicciolo di collegio, gli stessi che invece partecipavano alla manifestazione femminaia dei giorni scorsi, quella che rivendicava il diritto donnista contro il patriarcato dell’imperialismo sionista, altro che la civiltà del sistema che sgozza gli omosessuali e propugna le virtù della lapidazione delle adultere.
C’erano spazi vuoti in quella piazza. Non era piena come quella sindacal-arcobaleno che scacciava le bandiere ucraine e israeliane e conveniva tanta brava gente che riteneva di soprassedere se c’era qualche trascurabile dettaglio goebbelsiano, qualche rivolo apologetico delle gesta degli eroi del 7 ottobre: perché dopotutto era importante esserci, sarai mica indifferente ai femmincidi, sarai mica insensibile alle sofferenze di quelle che si tagliano la ciocca mentre sono sottoposte all’imperio delle destre e al regime della desinenza maschilista.
La peggio Italia che riempiva le manifestazioni maggioritarie contro la violenza sulle donne, donne ebree a parte; la peggio Italia che svuotava la piazza in cui si chiedeva di non dimenticare gli ebrei uccisi in quanto ebrei dopo ottant’anni di retorica «Mai più».
Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” martedì 5 dicembre 2023.
«Cosa sarà del Medio Oriente se vincerà Hamas? Cosa sarà del resto del mondo, di Londra, Parigi, Roma? Agli italiani vorrei dire che questa è una lotta per i valori comuni della libertà e della democrazia. Pensiamo veramente che ci possa essere un futuro per la popolazione palestinese in un "Hamasistan" governato da un regime fondamentalista islamico che stupra le donne?».
Moran Atias è un'attrice israeliana popolare in tutto il mondo e ha vissuto per un lungo periodo in Italia. La sua casa oggi è a Los Angeles [...]
Perché il giorno successivo al massacro compiuto da Hamas in Occidente centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza a manifestare non per la Pace, ma contro Israele?
«In Occidente in tanti si rifiutano di vedere le immagini. Negano ciò che è successo. Non vogliono la verità. [...]».
Perché l'Onu ha aspettato 55 giorni prima di condannare gli stupri? Perché le femministe in Occidente non sono intervenute?
«Questa è una domanda chiave. Perché il 7 ottobre chi dirige Un Women non ha preso un aereo e non è venuto in Israele per indagare? Erano stati invitati. Io non mi rifiuto di vedere tutto ciò che sta avvenendo a Gaza. Ma ciò che ha compiuto Hamas viene rimosso, perché non aiuta una certa narrazione […]».
Cosa servirebbe ora?
«Condanne chiare, anche da parte dell'Italia. Indagare e processare. Serve educare, così come si condannano giustamente i femminicidi in Italia, perché non si condannano gli stupri e le uccisioni di Hamas?».
Non lo fanno neanche le femministe.
«Il loro silenzio è una condanna a loro stesse. Parlo del silenzio delle donne in Italia, ma anche in America. Pensiamo al movimento Me too: zero parole. Eppure sono bravissime con le parole. Lo slogan che siamo state costrette a creare noi donne israeliane ora è "Me too unless you are a jew", il "me too" non vale se sei ebrea».
[…] Israele con i bombardamenti uccide i bambini.
«Di nuovo: è come dare la colpa alla donna che è stata aggredita. In guerra non ci sono vincitori, perdiamo entrambi. Ho compassione per ogni bambino e per ogni madre. Ma se quella madre vuole uccidere mio figlio cosa devo fare?».
Mattinale pacifista. Il negazionismo giustificazionista che allarga le braccia davanti all’attentato a Gerusalemme. Iuri Maria Prado su LInkiesta il 4 Dicembre 2023
Non si comprende che le stelle sulle case degli ebrei a Berlino e l’aggressione ai danni di un rabbino a Genova sono conati di soluzione finale, la reiterazione apparentemente meno grave della “resistenza” che ambisce a una vittoria passando per l’omicidio di una ragazza incinta che aspetta il bus
L’attentato dell’altro giorno a Gerusalemme non è passato come la solita cosa immeritevole di diventare notizia per la solita ragione, e cioè perché i morti sono israeliani, i morti sono ebrei, e appunto ci sarà pure una ragione se gli israeliani e gli ebrei vengono ammazzati. No: questa volta l’assassinio dei civili per mano terrorista (due uomini e una donna incinta, abbattuti alla fermata dell’autobus) si è meritato il rango più eminente del mattinale pacifista che squaderna pensosità a braccia allargate davanti alla guerra che purtroppo causa anche queste inevitabili tragedie.
Sulla scorta della teoretica di marca Onu, secondo cui milleduecento tra sgozzati, bruciati vivi e accoppati “regular” nel giro di un paio d’ore non vengono dal nulla, il tirassegno antiebraico di settimana scorsa ha preso la dignità deplorevole dei fatti bellici: in Israele c’è l’apartheid e quindi che vuoi farci, c’è il governo di destra e dunque che cosa ti aspetti, ci sono i suprematisti e allora di che ti sorprendi.
Il criterio è lo stesso che si adopera quando l’aggressione è altrove, quando la violenza è a diecimila chilometri di distanza dal nazismo dello Stato ebraico: la devastazione di una sinagoga di Seattle è certamente un esempio di scarso senso civico, ma bisognerà pur dire che Israele compie «attacchi deliberati in ospedali e persino in luoghi di pace e di preghiera» (così il plenipotenziario di Amnesty Italia, Riccardo Noury, su l’Unità del 29 novembre); l’assedio di una biblioteca a New York, dentro un gruppo di ebrei costretti a nascondersi e fuori una turba che voleva linciarli in nome di dio, inneggiando agli eroi del 7 ottobre, sarà pure una manifestazione un po’ scomposta, ma non può far dimenticare le sofferenze di un popolo causate da settantacinque anni di imperialismo sionista.
Quelli che adottano simili criteri valutativi – chiamiamola così, questa porcheria – non sospettano neppure vagamente che essi si adattano in modo perfetto al negazionismo giustificazionista che abbisogna solo di un pizzico di sprezzo in più per collocare in ambito storicizzante Auschwitz e Treblinka. Non comprendono che le stelle sulle case degli ebrei a Berlino e l’aggressione ai danni di un rabbino a Genova sono conati di soluzione finale, la reiterazione parcellare, disparata e apparentemente meno grave della “resistenza” che ambisce a una vittoria, dal fiume al mare, passando per l’omicidio di una ragazza incinta che aspetta il bus.
Il Papa e i rapporti (tesi) con la comunità ebraica e (buoni) con i palestinesi. Egidio Lorito su Panorama il 28 Novembre 2023.
Il Papa e i rapporti (tesi) con la comunità ebraica e (buoni) con i palestinesi “Non è guerra, è terrorismo”. Queste le parole di Papa Francesco creano frizioni nei rapporti con la comunità ebraica. E sul contestato uso della parola “genocidio” da parte del Pontefice (smentita dal portavoce della Santa Sede), anche i palestinesi si sono sentiti offesi. Il sociologo Salvatore Abbruzzese, studioso del dialogo interreligioso, spiega cosa c'è dietro al rapporto che il Vaticano mantiene con israeliani e palestinesi E’ di pochi giorni l’incontro che Papa Francesco ha tenuto con i parenti dei cittadini israeliani rapiti da Hamas: da tempo fortemente richiesto dalla Comunità ebraica di Roma, finalmente l’incontro si è tenuto, seguito addirittura da un altro con i parenti dei cittadini palestinesi tenuti in ostaggio in Israele. E qui pare essere nato un piccolo incidente diplomatico, visto che il Vaticano, così procedendo, avrebbe equiparato i giovani israeliani letteralmente sequestrati ai presunti terroristi autori di efferati crimini. Nello specifico la Comunità ebraica si sarebbe risentita in quanto dal Vaticano, per quanto accaduto nelle ultime settimane, non ci sarebbe posizione della condanna del Papa per l’aggressione di Hamas. Insomma, un risentimento ufficiale, provocare la dichiarazione dell’Assemblea dei rabbini d’Italia secondo cui “ci domandiamo a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa”. L’antefatto Lo scorso 22 novembre Papa Francesco aveva ricevuto in Vaticano due delegazioni, una israeliana e l’altra palestinese, con le quali ha affrontato la vicenda del conflitto in corso: la prima, formata dai parenti degli israeliani catturati da Hamas, era stata ricevuta a Santa Marta, la seconda nell’Auletta Paolo VI. Subito dopo proprio i parenti degli ostaggi israeliani erano apparsi delusi dall’incontro, visto che Papa Francesco, a loro dire, pare gli avesse dedicato poco tempo, non avesse condannato Hamas e non lo avesse definito un’organizzazione terroristica. Successivamente, anche a seguito della dichiarazione rilasciata dal Pontefice che avrebbe messo sullo stesso livello l’attacco terroristico di Hamas e la risposta israeliana, era intervenuta la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, Noemi Di Segni, che aveva stigmatizzato l’accaduto sottolineando che “avrei preferito ascoltare dal Papa una chiara presa di condanna del terrorismo del 7 ottobre e di tutto il percorso che porta a uno sterminio”. Ma la controversia è arrivata ad interessare anche la delegazione palestinese convinta che Papa Francesco avesse utilizzato, nella sua dichiarazione, la parola “genocidio” palestinese a proposito degli accadimenti di Gaza. Nello specifico, “Il Papa ha riconosciuto che viviamo un genocidio ha detto Shrine Halil cristiana di Betlemme che faceva un genocidio - ha detto Shrine Halil, cristiana di Betlemme che faceva parte della delegazione palestinese ricevuta in Vaticano- Ci ha detto che il terrorismo non si combatte con il terrorismo”. Insomma, posizioni diametralmente opposte riscaldatesi a seguito dell’incontro separato con il Pontefice che sarebbe dovuto servire per abbassare i toni del dibattito e che, invece, avrebbero ulteriormente riscaldato gli animi. Il successivo intervento del portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni, aveva smentito tale prospettiva, evidenziando come “Non mi risulta abbia usato tale parola” (genocidio, nda): Panorama.it ha incontrato il sociologo Salvatore Abbruzzese, studioso del dialogo interreligioso, per un commento sui fatti e, soprattutto, sul reale rapporto che il Vaticano mantiene con israeliani e palestinesi. Professore, un incontro bipartisan, a camere separate, pare abbia creato frizione nei rapporti tanto con gli israeliani che con i palestinesi… «Credo che le informazioni contraddittorie rivelino una tensione reale sulla quale nemmeno la presidenza delle Nazioni Unite è riuscita a muoversi con chiarezza. Certamente lo sconcerto della comunità ebraica è un pessimo segnale. I nostri fratelli ebrei si sono sentiti soli. Dinanzi a quanto è accaduto ciò è incomprensibile e spero che il malinteso venga presto chiarito». Il papa avrebbe fatto meglio a riceverli insieme? «E’ stato prudente l’incontro separato. Dopo quanto ha fatto da Hamas non è pensabile nessun avvicinamento». Difficile pensare alla malafede del Vaticano. «La malafede del Vaticano è impensabile! Implicherebbe una sconcertante sottovalutazione del conflitto e della comunità ebraica sconcertante sottovalutazione del conflitto e della comunità ebraica. Non lo credo possibile.». Si sono irrigiditi sia gli israeliani che i palestinesi… «Proprio l’irrigidimento di entrambe le parti mi induce a pensare ad un corto circuito diplomatico più che ad una scelta consapevole». Insomma, non è che anche l’iniziativa del papa sia stata strumentalizzata dalle due opposte fazioni? «Anche la tesi della strumentalizzazione mi pare poco credibile: non credo che la diplomazia vaticana sia fatta da sprovveduti. Non credo si lasci manipolare con facilità». Da studioso del dialogo interreligioso, vede lontana la cessazione del conflitto? «Il dialogo interreligioso è stato pesantemente riportato indietro dalla politica già con il conflitto russo-ucraino. Con il pogrom del 7 novembre è stato consapevolmente violato un limite che solo un ripudio totale e senza appello nei confronti di Hamas potrà restituire una qualche speranza».
Salvatore Abbruzzese, frusinate di Arce, classe 1954, è ordinario di Sociologia dei processi culturali e Sociologia della Religione presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento. Allievo all’Université Paris V-René Descartes del celebre sociologo liberale francese Raymond Boudon, focalizza nel rapporto tra religioni e modernità nella società contemporanea il principale interesse di ricerca. È membro della Membro della Société Internationale des Sociologues de la Religion e del Comitato di Redazione degli Archives de Sciences Sociales des Religions. Tra le sue pubblicazioni: La sociologia di Tocqueville (Rubbettino 2005) Un moderno desiderio di Dio. Ragioni del credere in Italia (Rubbettino 2010); Modernità e individuo. Sociologia dei processi culturali (ELS La Scuola 2016); Il Meeting di Rimini: Dalle inquietudini alle certezze (Morcelliana, 2019), (a cura di), "La razionalità", di Raymond Boudon, (La Scuola, 2021)
Roma, il corteo per Giulia è contro il governo. Contestata pure Schlein. Il Tempo il 25 novembre 2023
Dietro ogni violenza "c'è il fallimento di una società" intera. Sergio Mattarella, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, va dritto al punto. "Drammatici fatti di cronaca scuotono le coscienze del Paese. Una società umana, ispirata a criteri di civiltà, non può accettare, non può sopportare lo stillicidio di aggressioni alle donne, quando non il loro assassinio", dice chiaro. Serve quindi un "rinnovato impegno" da parte di tutti, perché non basta "l'indignazione a intermittenza". Dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin il Paese si è fermato, e ora dolore, indignazione e rabbia non vanno sprecati. Il Capo dello Stato chiama a raccolta istituzioni, associazioni, imprese, mondo della scuola, della cultura. "Abbiamo bisogno del contributo di ciascuno, per sradicare un fenomeno che tradisce il patto su cui si fonda la nostra stessa idea di comunità", insiste invocando quel "profondo cambiamento culturale" indicato dalla Costituzione e che dovrà portare a un tempo in cui le donne "conquistano l’eguaglianza perché libere di crescere, libere di sapere, libere di essere libere".
E' la giornata delle piazze, migliaia di ragazze e ragazzi sfilano al grido di 'Non una di meno' e fanno sentire il loro "rumore" contro la violenza e il patriarcato. Giorgia Meloni decide di non partecipare a nessun corteo ma rilancia sui social il messaggio rivolto alle donne nel corso della cerimonia di illuminazione della facciata di palazzo Chigi con il numero 1522: "Siamo libere e nessuno può toglierci quella libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso. Nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, voglio dire alle donne italiane che non sono sole e che quando hanno paura, 1522 è il numero da chiamare, in qualsiasi momento, per avere aiuto immediato", scrive.
L'unica leader di partito a partecipare alla manifestazione nazionale di Roma è Elly Schlein. La segretaria Pd arriva quando il Circo Massimo è già pieno: una marea rosa. La vigilia ha raccontato le polemiche contro la piattaforma "anti-israeliana e pro Hamas' di 'Non una di meno'. In piazza le bandiere della Palestina non mancano e alcuni collettivi intonano cori contro Tev Aviv: "Israele criminale, Palestina immortale", viene scandito. E ancora: "Meloni fascista, complice sionista". Schlein non intende entrare nella disputa. Non risponde nemmeno a chi, ripetutamente, le chiede di commentare l'assenza in piazza della premier. "Una straordinaria partecipazione, qui a Roma come nel resto d'Italia. Ci stanno arrivando fotografie molto belle, piazze strapieno. È un segnale importante. Il Paese chiede un passo avanti contro la violenza di genere", esordisce. "Indignazione e rabbia non bastano, vogliamo fermare questa mattanza". In piazza c'è anche chi non apprezza la sua mano tesa nei confronti della presidente del Consiglio. "Unità sui nostri corpi? Non nel nostro nome", recita uno striscione che ritrae Schlein e Meloni una accanto all'altra. "Così Schlein legittima la Meloni, legittima un Governo fasciosessista, all'insegna di Dio, patria, famiglia. Da questo punto di vista l'operato di Schlein è inaccettabile", spiega Donatella, attivista del Movimento femminista proletario rivoluzionario, che regge il cartellone. "Noi non vogliamo unità con chi ogni giorno ci toglie anche i minimi diritti con il suo modello Medioevo", aggiunge un'altra militante. Schlein tira dritto: continua a chiedere risorse per prevenzione e formazione ed educazione all'affettività obbligatoria in tutti i cicli scolastici. In piazza c'è anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, i due si abbracciano: la battaglia è comune. Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni sfilano insieme al corteo di Perugia, dopo aver partecipato insieme al congresso di Sinistra italiana.
Estratto dell’articolo di Adriana Logroscino per il “Corriere della Sera” sabato 25 novembre 2023.
Due cortei, quello che parte alle 14.30 dal Circo massimo di Roma, che si annuncia partecipatissimo con un gran numero di pullman e treni in arrivo da tutta Italia, e quello di Messina, dalle 15 da largo Seggiola, convocati dalle organizzatrici storiche: «“Non una di meno” per l’ottavo anno consecutivo chiama la marea a Roma e a Messina con più rabbia che mai». Moltissime altre forme di presidio e di impegno nelle piazze di quasi tutte le città, inclusa Caivano, teatro dello stupro ripetuto di due cuginette.
Tutte nel segno di Giulia Cecchettin, il cui femminicidio, solo una settimana fa, ha innescato una reazione unanime: la lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, di cui oggi si celebra la giornata internazionale, è un’emergenza. A Roma non escludono di esserci Giorgia Meloni ed Elly Schlein, entrambe alle prese con gli impegni delle rispettive agende. […]
Tuttavia intorno alle principali manifestazioni è nata una polemica che ha diviso le forze politiche, anche quelle di opposizione. A innescarla la decisione di concedere il palco anche alle donne palestinesi, iraniane, curde, con il movimento fucsia che chiederà la fine della guerra in Medio Oriente. «Se accetteremmo le donne israeliane? — hanno poi chiarito le attiviste di “Non una di meno” —. La nostra piazza è apolitica e aperta. Siamo contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti di Gaza, dei palestinesi, non contro le donne israeliane. Niente bandiere né simboli, la nostra sarà una piazza contro la violenza di genere e contro il patriarcato».
Un distinguo insufficiente per la comunità ebraica: «C’è tutto un mondo che a parole si mobilita per i diritti civili, ma tace e volge lo sguardo dall’altra parte rispetto a stupri e torture, documentati, sulle donne ebree aggredite, massacrate ed esposte pubblicamente dai terroristi di Hamas. Un silenzio complice e assordante», la sintesi del presidente della comunità di Roma, Victor Fadlun. […]
Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” sabato 25 novembre 2023.
Ci volevano le parole chiare, dirette e durissime di una storica come Tamar Herzig per rompere un silenzio – mondiale e colpevole – sugli stupri efferati compiuti dai terroristi di Hamas sulle donne israeliane nell’attacco del 7 ottobre 2023. Stupri come arma di guerra, stupri etnici, stupri come la violenza più estrema su donne, ragazze, bambine, anziane, abusate con ferocia, mutilate e poi esposte sanguinanti come trofei non solo perché “israeliane”, ma in quanto donne e oggetti sessuali. Un femminicidio di massa.
In un commento pubblicato due giorni fa su Repubblica, Herzig, docente di Storia all’università di Tel Aviv, sottolineava con stupore il silenzio sugli stupri compiuti dai miliziani di Hamas, non solo delle grandi agenzie internazionali che si occupano di violenza di genere, ma del femminismo europeo e americano, in particolare del MeToo.
Come se oggi, di fronte alla tragedia di Gaza e mentre migliaia di civili muoiono sotto le bombe di Israele, delle violenze sessuali subite dalle donne nell’assalto di Hamas non fosse necessario parlare. Uno stupro però non è sempre uno stupro, qualunque donna ne sia vittima? E la parola d’ordine del MeToo non era: «Sorella io ti credo?».
[…] Cosa accadrà oggi alla manifestazione contro la violenza, la cui piattaforma non cita, mai, il femminicidio di massa contro le donne israeliane? L’Unione delle Comunità Ebraiche italiane lancia un appello per «lottare assieme, ricordando tutte coloro che il 7 ottobre hanno subìto crimini di guerra, violentate e stuprate in quanto donne, in quanto israeliane, in quanto ebree».
Ma sono diverse le sigle del mondo ebraico che sottolineano il silenzio sugli strupri di Hamas e la piattaforma “escludente” della manifestazione nonostante ieri “Non una di meno” abbia detto: «Saremo una piazza aperta anche alle donne israeliane». Scrive “Hashomer Hatzair”, organizzazione di teenager dagli 8 ai 18 anni: «Ogni anno partecipiamo alla giornata del 25 novembre lottando per tutte le donne abusate ovunque nel mondo.
Quest’anno però è diverso: credevamo che voi, come noi, voleste combattere per ogni donna, di ogni nazionalità, religione,etnia, idea politica. Invece neanche una parola è stata spesa da voi per denunciare il massacro delle le donne stuprate, torturate, mutilate e uccise da Hamas.
Come se quelle donne non meritassero la vostra pena, il vostro cordoglio». E la Fiep, Federazione italiana ebraismo progressivo, annuncia di aver deciso di non aderire alla manifestazione, «visto che da molte organizzazioni femministe non viene espressa condanna contro le violenze per le donne uccise e abusate il 7 ottobre». E infatti oggi le piazze saranno due: le donne palestinesi al corteo di “Non una di meno”, le donne israeliane ricorderanno al Ghetto le vittime «stuprate e uccise da Hamas».
Dirotta su Gaza. Se il femminismo in Italia è in questo stato non è solo colpa di “Non una di meno”. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 29 Novembre 2023
Dov’erano i partiti quando nella piattaforma politica del corteo di sabato contro la violenza sulle donne è stato inserito il no al Ponte sullo Stretto invece delle israeliane che hanno subito sevizie nel pogrom del 7 ottobre?
C’è da credere che la gran parte delle donne e degli uomini, giovani e meno giovani, che hanno partecipato alla manifestazione di sabato scorso «per Giulia e le altre donne vittime di violenza» non solo non condividessero, ma neppure conoscessero la piattaforma politica delle organizzatrici di “Non una di meno“, che hanno programmaticamente dirottato la piazza su Gaza e sul «genocidio in corso del popolo palestinese».
C’è però anche da credere che la grandissima parte delle donne e degli uomini, che hanno voluto partecipare a quell’happening di festa e di rabbia, abbiano risposto a un bisogno di presenza e di (auto)riconoscimento, che sarebbe troppo severo considerare gregario, ma sarebbe al contempo troppo generoso considerare politicamente alternativo a quello della piazza ufficialmente antisionista.
Certo non si poteva pensare che, tra quelle centinaia di migliaia di persone, i manifestanti indifferenti e ignari dalla piega grottesca data a una manifestazione «per Giulia» fossero capaci di contendere la questione femminista al monopolio ideologico intersezionalista, che riduce ogni conflitto di potere, compreso quello tra i sessi, a una forma di lotta di classe multilevel e quindi non si accende né di indignazione né di interesse verso ogni patriarcato tribale o barbarico che non sia giunto alla compiuta maturità capitalistico-borghese del «conquista e distruggi», e non abbia dispiegato fino in fondo il suo potenziale spregevolmente coloniale.
Questo spiega perché “Non una di meno” abbia ritenuto di non sprecare parole per il pogrom del 7 novembre e per le sevizie subite dalle donne israeliane – violentate, assassinate, vilipese, smembrate ed esibite come reliquie della sacra mattanza di Hamas – ma abbia ritenuto di allargare la polemica alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, punto di fatale coincidenza tra (si cita testualmente) la «lotta transfemminista intersezionale» e la «lotta ecologista e per la difesa dei territori».
Se l’egemonia culturale è la capacità di dirigere il discorso pubblico pur senza rappresentare maggioranze sociali, quella di “Non una di meno” è stata un’operazione di indubbio successo, non solo per la partecipazione di massa alla manifestazione, ma per l’assenza in quella piazza di una vera alternativa culturale e politica alla proposta dalle organizzatrici.
Del resto, come lo si poteva pretendere dalle centinaia di migliaia di convocate e convocati, trascinati dall’emozione di un caso di cronaca, dal tam tam della sua mediatizzazione voyeuristica e da un bisogno di protagonismo facile, poco compromettente e rigorosamente apolitico, come hanno raccomandato le organizzatrici per rendere quella piazza ancora più grande e più anonima?
Una maggiore consapevolezza e un più doveroso coraggio si sarebbe però potuto pretendere da tutti i partiti che hanno aderito alla manifestazione (PD, Sinistra Italiana, Verdi, Più Europa, Movimento 5 Stelle) e vi si sono immersi in una sorta di protettiva invisibilità, guardandosi bene sia dal contestare che dal condividere la sua piattaforma. Una scelta parassitaria e rinunciataria che dice molto della debolezza di quel che rimane del pensiero femminista della sinistra, fuori da quel settarismo ideologico che domina negli apparati culturali e mediatici del deep state artistico-letterario e giornalistico.
Se pure può apparire più coerente, anche la scelta di chiamarsi fuori da quella piazza, per non farsene intendenza, rappresenta però un vuoto di alternativa, quando non, come nel caso dei partiti sovranisti, una scelta per così dire contro-parassitaria per lucrare comodamente sulle contraddizioni, un po’ mostruose e un po’ ridicole, di un femminismo quarto-internazionalista di permanenti rivoluzioni immaginarie.
Peraltro, se si può accusare il femminismo woke di non essersi accorto, ad esempio, di “Donna, Vita e Libertà”, non si può certo assolvere chi si è limitato sul punto a muovere un’accusa agli altri, senza neppure immaginare una mobilitazione politico-culturale e senza darsi da fare in proprio per la bisogna. Troppo facile, anche questo.
Alle manifestazioni contro il regime degli ayatollah, nel pieno della repressione, c’erano solo qualche decina di militanti del Partito Radicale transnazionale e basta, come ammetteva onestamente e dolorosamente Concita Di Gregorio. Sono quelle piazze vuote dei mesi scorsi e quei silenzi nella piazza piena di sabato la fotografia dello stato della politica femminista in Italia.
Il femminismo sputa sulle donne israeliane: in piazza commedia pro-Hamas e ironia su ostaggi “usciti da casa di riposo”. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 28 Novembre 2023
L’assente ha sempre ragione, scriveva Giuseppe Pontiggia.
E nel dipanarsi carnevalesco e arrabbiato, caotico, punteggiato di vetero-slogan e fumogeni, dei cortei femministi per le principali piazze d’Italia si è scorta la fisionomia di un fantasma, di una assenza celata nell’oscuro cattiverio della coscienza sporca e che pure ha ragione da vendere, nonostante le femministe intersezionali: le donne israeliane.
Figlie di un Dio minore, un po’ meno donne delle altre, le israeliane brutalizzate, violentate, ammazzate nei modi più crudeli o rapite e condotte a Gaza, esibite sulle jeep come trofei, fatte circolare a beneficio di una piazza con la bava alla bocca, sono semplicemente scomparse.
L’aria che sarebbe tirata la si era capita sin da subito.
Bastava leggere il pessimo comunicato, pessimo nella sostanza e nell’italiano sbilenco, con cui Non una di meno aveva riassunto e anticipato la piattaforma concettuale dei grandi cortei, a partire da quello romano: uno stortignaccolo e funambolico equilibrismo sulla corda che separa oscenità terzomondista da pregiudizio ideologico, assemblando patriarcato, violenza contro le donne, a partire dal caso della povera Giulia Cecchettin, per finire, attraverso qualche lovecraftiano gorgo-spazio temporale, col condannare Israele, Stato genocida per eccellenza secondo le filosofe crepuscolari di Non una di meno.
Hanno smesso di sputare su Hegel, come suggeriva la Lonzi, ed evidentemente hanno preferito iniziare a sputare su Israele e su quelle donne che Hamas ci ha tenuto a immortalare, in un delirio social da mostra delle atrocità, con pantaloni inzuppati del loro stesso sangue in corrispondenza degli organi genitali, coi tendini recisi per non farle scappare, come si sarebbe fatto in epoche passate con gli schiavi, stuprate una, cinque, dieci volte, prese per i capelli e trascinate in un moto di dominio primitivo.
A Roma, a Torino, a Milano, il movimento femminista si è spaccato, prevedibilmente, con una fetta di intellettuali e di femministe, anche storiche, che non hanno voluto assecondare questa deriva psicotica e rullante, nutrita a colpi di complessità e di fucile, quello di Hamas, coi suoi silenzi, le sue reticenze, e il suo oblio.
E mentre a Roma, il corteo finiva per cercare di smottare la sede di Pro Vita & Famiglia, le cui idee forse, la butto qui, sarebbe il caso di contrastare sul piano delle idee e non su quello della tentata devastazione fisica, lo spettacolo più indegno ma a modo suo coerente ci è giunto da Milano.
Qui, in piazza Castello, in un appuntamento pro-palestinese, pur scisso dal precedente corteo femminista, è andata in onda la peggiore retorica anti-israeliana, rimandata in tutto il suo fulgore dal video di una militante col volto travisato dalla kefiah e dalla bollente retorica sarcastica, alle cui spalle garrivano le bandiere palestinesi e annuivano i patriarchi della militanza pro-palestinese, a partire da Mohammed Hannoun, noto ai servizi di intelligence mondiali come finanziatore di Hamas e che noi in Italia facciamo scorrazzare come fosse il figlio di Foucault.
La stand-up comedian pro-Hamas ha pensato bene di irridere gli ostaggi israeliani appena rilasciati, definiti a monte ‘prigionieri di guerra’ e poi ‘usciti da una casa di riposo’.
Donna violentata, uccisa e fatta a pezzi da Hamas, l’orrore del 7 ottobre: “Terroristi si lanciavano corpo mutilato”
E giù di glorificazione in glorificazione dei guerriglieri di Hamas, sempre col volto celato, roba che se un pensionato durante un corteo in una giornata gelida si tira poco su lo scaldacollo i poliziotti lo fermano per violazione del TULPS e qui invece niente.
Nonostante oggi le femministe intersezionali si affrettino a far rilevare come quell’appuntamento non fosse inserito nella loro agenda di mobilitazione, verrebbe da chiedere loro perché prendano le distanze, visto che quella retorica è esattamente la stessa retorica che dimentica le donne israeliane e definisce Israele uno Stato genocida. D’altronde anche a Roma, alcune femministe, kefiah al collo, intervistate per via hanno sostenuto che non si hanno prove certe che siano avvenute violenze contro le donne israeliane.
Negare, negare sempre, come facevano durante i processi, negli anni settanta, quelli che le loro madri combattevano. Andrea Venanzoni
Le donne israeliane: «Stuprate, picchiate. E il mondo tace». Storia di Fiammetta Martegani, Tel Aviv su Avvenire il 28 novembre 2023
«Alla vigilia del 25 novembre ci siamo dette che non potevamo aspettare un giorno in più. Era necessario far sentire la nostra voce, la voce delle donne israeliane sopravvissute al massacro del 7 ottobre. E di tutte coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta».
Sono le parole di Liron Kroll, direttrice creativa della campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew (“MeToo, a meno che tu sia ebrea), organizzata in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Proprio grazie alla sua professione di direttore artistico, Liron si è attivata fin dal 7 ottobre nell’aiutare chi è stato più colpito dal massacro di Hamas, a partire delle famiglie degli ostaggi.
«Molte di loro sono donne: madri, figlie, nonne – ci racconta –. E la loro pena è doppia. Non solo per quello che hanno subìto durante quel Sabato Nero, ma anche perché a questo dolore si aggiunge il silenzio del mondo: il fatto che quel dolore non venga riconosciuto all’estero. Che non venga addirittura riconosciuto dall’Onu e da quei gruppi femministi che il 25 novembre sfilavano per le strade delle capitali europee e americane».
Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia.
Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati.
Il silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne. Nel denunciare tutto questo, Nicole Lampert, firma di Haaretz, mette in luce anche un aspetto che riguarda le donne a Gaza: «Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi ben prima del 7 ottobre, quando le credenziali di Hamas in fatto di femminismo non erano certo brillanti visto che il gruppo impone l’uso dell’hijab, ha reso illegale viaggiare senza un tutore maschio e si è rifiutato di vietare gli abusi fisici o sessuali all’interno della famiglia».
Invece, la maggior parte dei movimenti femministi ha taciuto. Addirittura, il 30 ottobre, 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione «per il cessate il fuoco» dichiarando, però, che essere solidali con le donne israeliane significa cedere al «femminismo coloniale». Come osservato dalla Lampert, nel Regno Unito l’unica organizzazione a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata “Jewish Women’s Aid”, sottolineando come «il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane».
«Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa», sottolinea dunque la campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew. «Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime», ha scritto – nella campagna Instagram – Keren Sharf Shem, la cui figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Festival Nova. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo (“mamma anch’io”) in cui si possono ascoltare le voci delle donne i cui figli sono stati rapiti o uccisi da Hamas. Lo scopo è sensibilizzare le madri di tutto il mondo per creare consapevolezza su quanto è accaduto. E subito dimenticato dal mondo.
Questo femminismo cieco non riconosce la mattanza delle donne israeliane. Nessuna denuncia di violenza contro le donne ha senso se non misurata su quella del 7 di ottobre contro le donne israeliane. Oppure, si è antisemiti. Fiamma Nirenstein il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.
Nessuna denuncia di violenza contro le donne ha senso se non misurata su quella del 7 di ottobre contro le donne israeliane. Oppure, si è antisemiti.
Non solo chi l'ha vista nei film girati dai terroristi stessi lo sa, come me, ma anche chiunque veda la tv o abbia un po' di buon senso. Oppure, si è antisemiti. I terroristi di Hamas si sono autofilmati mentre violentano, strappano le vesti, trascinano per i capelli, caricano sulle macchine vive e morte donne spogliate nella parte inferiore del corpo sanguinante. Alla morgue dove i resti delle donne uccise venivano ricomposti a centinaia spesso solo per parti recuperabili dalle mutilazioni e dal rogo, spesso le gambe erano fratturate e irrecuperabili a causa delle violenze. Bambine, vecchie e anche bambini piccolissimi sono stati violentati, hanno verificato i dottori: dopo tentativi difficili per raccogliere le prove dei fatti, anche i dna dei violentatori sono stati ricuperati. Una sopravvissuta dalla festa dove sono state uccise più di trecento giovani che ballavano, ha testimoniato di una sua amica brutalizzata da diversi, tenuta ferma per i capelli; l'ultimo le ha sparato in testa e dopo ha continuato,fino a che ha finito il suo atto sessuale. Una ragazza è stata mutilata dei seni coi quali i terroristi hanno giocato. Il footage che abbiamo visto mostra molte ragazze morte, svestite, sanguinante. Ma che razza di esseri umani sono le donne che non protestano?
Il femminismo ha sempre albergato una tarantola nel suo guscio, fin da quando negli anni settanta con un gruppo di amiche fondammo la rivista Rosa, sofisticata, intelligente, certo di sinistra. Io ero stata comunista, avevo perfino scritto un libretto sulla storia delle donne comuniste: il mio femminismo, molto primigenio, istintivo, di famiglia, pure non poteva fare a meno delle catena della rivoluzione, di Rosa Luxemburg, del diritto al lavoro. Poi venne il corpo, l'aborto, il divorzio, l'autocoscienza: eppure restava l' indispensabile intersezione con le grandi radunate internazionali, terzomondiste, sovietiche! che già sbattevano le donne israeliane fuori dai loro incontri. Donne meravigliose, che avevano affrontato come eroine la maternità e la guerra, la zappa, la scienza, la poesia. La libertà! Donne senza soggezione verso gli uomini nel loro valoroso ritorno a casa, Israele, un simbolo non certo di colonizzazione, ma di decolonizzazione dalle grandi potenze. Per saperlo, bisogno studiare un po' dio storia. Ma il femminismo già soffriva allora dell'enorme soggezione al movimento comunista, aveva bisogno della sua approvazione e delle sue bandiere. Quindi una volta che esso ha sanzionato lo Stato d'Israele, l'unico che garantisse l'uguaglianza dei sessi in tutto il Medio Oriente, il femminismo si è associato nella gran parte appiccicando etichette fasulle, coloniale, imperiale, capitalista, apartheidil femminismo si è allineato.
Adesso la femminista si è evoluta, è intersezionale, woke, pronta a sacrificarsi alla violenza di Hamas, perché gli oppressori sono bianchi, cristiani o ebrei: non importa se proprio loro salvano gli lgtbq dagli oppressi che li appendono ai lampioni; e non importa se Hamas, da loro difeso, impone alle bambine matrimoni con adulti pedofili, protegge e anzi ordina gli stupri, le botte, i rapimenti. È provato dalle loro stesse testimonianze dopo la strage.
Il divorzio fra il femminismo e i diritti umani si è concluso da tempo: dopo quello che hanno patito le donne in Iran all'Onu gli Ayatollah presiedono la commissione per i diritti umani e non risulta che il movimento abbia sussurrato. Adesso siamo all'antisemitismo: peggiore, disperante direi, è che non si sia levata dalle manifestazioni italiane una voce sullo stupro di massa unito al femminicidio seriale che il 7 di ottobre ha travolto donne, bambine, anziane, mentre i loro cari, 1400, venivano uno a uno trucidati. Perché avete rapito i bambini e le bambine, ha chiesto la polizia ai terroristi catturati. per violentarli hanno risposto. Maschilismo? Violenza? No, caccia alle ebree imperialiste e coloniali. Uccidiamole.
"Ma li avete visti? Una casa di riposo...". Il comizio choc della sostenitrice di Hamas a Milano. Con kefiah e velo ha deriso gli ostaggi israeliani liberati da Hamas, il tutto tra gli applausi del corteo milanese. Così le piazze occidentali covano l'odio filo palestinese. Francesca Galici il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.
Le manifestazioni femministe che si trasformano in cortei pro Palestina e pro Hamas. Questa è la deriva assunta dal femminismo occidentale, entrato in un cortocircuito ideologico per il quale in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne manifestano per chi le donne le vorrebbe zitte e senza identità. La piazza di Milano non ha fatto eccezione questa mattina e nella giornata che sarebbe dovuta essere dedicata alle vittime di violenza di genere, si è assistito a un comizio vergognoso di una sostenitrice palestinese che, adeguatamente travisata con la kefiah, sotto la quale si scorge il velo, non ha solo insultato Israele ma ha umiliato gli ostaggi liberati da Hamas. Considerando il velo, non si esclude che sia un'italiana di seconda generazione o figlia di immigrati.
Un discorso che si fatica ad ascoltare per la sua ferocia, che si stenta a credere che sia stato pronunciato in una piazza occidentale. "Oggi sono molto contenta, perché pensavano di poter prendere gli ostaggi con la forza. E invece hanno fatto quello volevano i palestinesi (Hamas, ndr). Hanno dovuto fermare i bombardamenti per avere i loro prigionieri di guerra", dice la ragazza al microfono. Chiamare prigionieri di guerra i civili rapiti nel corso di azioni terroristiche è quanto meno scorretto a livello intellettuale. Ma non è finita qui, perché la ragazzina con la kefiah insiste: "Non offendetevi. Rispetto tutte le età, ma li avete visti i giovani palestinesi? E poi li avete visti loro prigionieri? Sembrava avessero liberato una casa di riposo".
Non ci sono commenti possibili davanti a questa esaltazione di Hamas, non ci sono davvero parole per commentare il livello toccato da questa manifestante perché, ed è l'aspetto più grave, lei queste cose le ha dette a un microfono, ma migliaia di persone lo pensano. "Ieri sono usciti i nostri 20enni, 18enni, 30enni, giovani con una forza enorme. E quando li senti parlare capisci perché li hanno imprigionati. Israele ha paura dei giovani palestinesi, dei bambini palestinesi", ha detto ancora la ragazza con la kefiah dal palco di piazza Castello a Milano. E ha definito "problemi e malattie mentali" i controlli effettuati dai soldati israeliani alla liberazione dei prigionieri che, a differenza di quelli rilasciati da Hamas, erano in carcere per lo più per reati legati al terrorismo. "Israele è malato, gli israeliani sono malati. Dovrebbero essere tutti in manicomio", ha urtato al microfono prima dello slogan "Palestina libera". L'Occidente è davvero diventata tutto questo?
"Odio cieco e furioso". Femministe assaltano la sede di Pro Vita e Famiglia. Francesca Galici il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.
Hanno tentato l'ennesima dimostrazione con fumogeni, provando a imbrattare vetrine e pareti della sede di Roma di Pro Vita e Famiglia: femministe bloccate dalla polizia
Oggi le piazze si sono riempite "contro ogni violenza", hanno detto gli organizzatori prima dei cortei. Le solite belle parole alle quali non sono seguiti i fatti, come dimostra il violento attacco contro la sede di Pro Vita e Famiglia a Roma. Scene che ricordano da vicino, troppo da vicino, una caccia alle streghe dei tempi moderni. "Stanno rompendo i vetri delle nostre vetrine, stanno dando fuoco alle serrande. Un odio cieco e una violenza furiosa. Chi non condanna è complice", ha denunciato sui social il portavoce di Pro Vita e Famiglia, Jacopo Coghe.
Stando a quanto si apprende, a margine del corteo realizzato da "Non una di meno" sono state lanciate bottiglie e fumogeni contro l'edificio che era presidiato dalle forze dell'ordine. Il gruppo di manifestanti si è poi allontanato. Sul posto blindati e agenti in tenuta antisommossa. Ovviamente, come è ormai consuetudine in questo Paese, alcuni manifestanti pensano di essere in diritto di scatenare la loro violenza contro qualunque cosa non sia inquadrata all'interno della loro linea di pensiero.
Così hanno fatto davanti alla sede di Pro Vita e Famiglia, associazione che in modo lecito e in pieno diritto ha come obiettivo la tutela della vita e della famiglia, portando avanti campagne contro l'aborto o contro le famiglie omogenitoriali. Si può concordare o meno con il pensiero dell'associazione, ma in una democrazia deve trovare spazio anche questo punto di vista. E dev'essere tutelato. Pertanto, davanti all'attacco dei manifestanti, la polizia ha reagito, scatenando la solita reazione isterica: "Le forze dell'ordine ci hanno preso a manganellate mentre facevano un'azione con fumogeni e scritte sul muro".
E ancora: "Due ragazze sono rimaste ferite, una al viso, che è stata portata in ospedale, l'altra alla testa". Nei video, si sentono chiaramente gli insulti contro le forze dell'ordine: "Fascisti, pezzi di merda…". Con tanto di lancio di bottigli e oggetti contro gli agenti. Come al solito le veterofemministe, che attingono a piene mani dai centri sociali, cercano di imporre il pensiero unico con la violenza e si lamentano se si prova a impedirlo.
L'assalto alla sede di Pro Vita e Famiglia è la dimostrazione che in questo Paese la sinistra è permeata di soggetti e organizzazioni che provano a imporre con la forza il proprio pensiero, cercando di intimorire o eliminare chi va in una direzione diversa. "Se assaltano la sede della Cgil c'è (giustamente) indignazione nazionale. Se estremisti rossi assaltano la sede di una Onlus che aiuta e difende le famiglie, silenzio? La solidarietà mia, di tutta la Lega e di tutto il popolo italiano", ha dichiarato Matteo Salvini. "Eccole, le militanti "democratiche" e "contro ogni violenza" che, dietro la maschera della lotta alla violenza sulle donne, nascondono l'odio per chi difende vita e famiglia. Un abbraccio agli amici di Pro Vita & Famiglia Onlus e una durissima condanna, che spero arrivi da parte di tutte le forze politiche, a chi in queste ore ha dato l'assalto alla loro sede", è il commento del capodelegazione di Fratelli d'Italia-Ecr al Parlamento europeo Carlo Fidanza.
In piazza le femministe filo Hamas. La Giornata per le donne, oggi, diventa un delirio su Meloni e Israele. Sinistra spiazzata. Francesco Giubilei il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.
L'iniziativa di organizzare per oggi, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, una grande manifestazione dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin, poteva essere una buona notizia. Eppure l'appuntamento, invece di restare apolitico e trasversale, si è trasformato in un evento con una connotazione ideologica estrema, a causa delle posizioni degli organizzatori dei cortei di Roma e Messina del movimento transfemminista «Non una di meno». Un evento nato per contrastare la violenza contro le donne si è trasformato in occasione per mettere sul banco degli imputati tutti gli uomini in quanto tali, il governo Meloni e Israele. Anche a sinistra qualcuno se n'è accorto. Carlo Calenda, di Azione, già ieri criticava la linea oltranzista: «Questa non è la piattaforma di una manifestazione contro la violenza sulle donne e per una società meno maschilista e più equa - ha sbottato - Questa è la piattaforma di un collettivo di estrema sinistra antisraeliano e filo Hamas (notoriamente sostenitore dei diritti delle donne). Sorvolo sui restanti deliri veteromarxisti». I leader dell'opposizione, salvo ripensamenti, non dovrebbero partecipare al corteo romano. Chi per impegni concomitanti, chi per una scelta politica. Fatto sta che il documento di «Non una di meno» ha politicizzato il tema: «Quelle di Roma e di Messina non saranno piazze neutre» hanno spiegato dal movimento, accusando il governo di procedere «a colpi di decretazione di urgenza razzista e classista». Come se non bastasse il comunicato infarcito di asterischi e schwa, è in particolare la posizione su Israele a lasciare sgomenti: «Lo stato italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo» perché «schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggi di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese». Lecito chiedersi cosa c'entri Israele con il tema dei femminicidi ma, se proprio si vuole citare la situazione in Medio Oriente, sarebbe opportuno spendere almeno una parola per le donne uccise, torturate, stuprate, rapite dai terroristi di Hamas. E le transfemministe, sempre in prima linea nel puntare il dito contro Israele («la guerra è la manifestazione più totalizzante della violenza patriarcale, per questo, e più che mai, siamo al fianco del popolo palestinese»), non dicono nulla sull'attacco terroristico di Hamas.
Indignata l'ex ministra Mariastella Gelmini (Azione): «Confondere la lotta contro la violenza di genere con quello che sta accadendo tra Israele e l'organizzazione terroristica Hamas - dice - è inaccettabile. Non dire una parola sugli stupri subiti dalle donne israeliane è un grave errore. Senza fare chiarezza su questo punto (si è ancora in tempo), la piazza rischia di essere un'occasione persa». E anche Maria Elena Boschi (Iv) considera «deliranti» le parole su Israele.
Le manifestazioni di oggi, insomma, sono una grande occasione mancata e testimoniano la spaccatura che si è creata nell'opinione pubblica dopo la morte di Giulia Cecchettin. Partendo dalla necessità di contrastare la violenza contro le donne, sembrano essersi delineate due anime: una che vuole trovare soluzioni di buon senso legate al problema, un'altra che usa questo tema per cercare di cambiare la società in ambiti che nulla hanno a che vedere con la violenza sulle donne. Facile dire a quale delle due categorie appartengono le transfemministe.
Anti tutto. Il demone dell’estremismo si è mangiato la sinistra, e anche il femminismo. Mario Lavia Linkiesta il 24 Novembre 2023
Per la Giornata mondiale sulla violenza contro le donne il Partito democratico va in piazza al fianco di “Non una di meno”, associazione che ha diramato frasi obsolete e dichiarazioni d’odio verso Israele. Elly Schlein non può far finta di niente
Ci deve essere un demone a sinistra che incendia gli animi, fa guizzare le fiammelle dell’ideologia bruciando la possibilità di costruire qualcosa su un terreno comune, e questo demone è segnato dal vecchio marchio di fabbrica estremista degli organizzatori/organizzatrici di tutte le manifestazioni su qualunque argomento.
Accade in Italia anche in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne: ed è singolare – eufemismo – che il Partito democratico oggi vada in piazza fischiettando, senza chiedere qualche chiarimento su una manifestazione connotata nei suoi documenti da violenti accenti filo-Hamas, che è la ragione per cui Italia Viva e Azione non ci saranno.
Sì, ci deve essere come una “centrale” di sessantenni o più che da sempre gode a scrivere piattaforme e documenti, mettere il cappello sulle iniziative più lodevoli, una “centrale” di personaggi che si conoscono tutti tra di loro da sempre, professionisti degli slogan, arruffapopolo anti-tutto, alcuni sbarcano il lunario altri stanno comodi magari pagati da quello Stato che detestano, sono loro da sempre a riapparire all’improvviso per appestare l’aria.
Il demone si è puntualmente risvegliato in vista delle manifestazioni di oggi a Roma e Messina in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne , occasione perfetta specie mentre ancora si piange per Giulia Cecchettin per cercare di unire, di allargare gli orizzonti del femminismo, di parlare un linguaggio non settario, senza peraltro ledere l’autonoma identità del movimento delle donne.
E invece ecco che “Non una di meno”, l’associazione che promuove le manifestazioni di oggi, tira fuori un documento che pare scritto trent’anni fa e che soprattutto, del tutto incongruamente, se ne esce con un attacco a Israele. Che poi se un nesso si può stabilire tra la violenza alle donne e la guerra caso mai sta esattamente nella ripulsa per gli stupri commessi da Hamas il 7 ottobre, per qui corpi di donne devastati e offerti al ludibrio, come hanno rilevato in Francia alcuni artisti e intellettuali francesi come gli scrittori Marc Levy e Marek Halter, l’attrice Charlotte Gainsbourg, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo: «I loro nomi erano Sarah, Karine, Céline… Su iniziativa dell’associazione Paroles de femmes, lanciamo un appello alle femministe e ai sostenitori della nostra causa affinché il massacro delle donne in Israele del 7 ottobre sia riconosciuto come femminicidio».
E invece le femministe di “Non una di meno” in un documento del 7 novembre preparato per la manifestazione di oggi hanno pensato bene di scrivere tutt’altra cosa. Sembra un volantino di Autonomia operaia: «Il governo partecipa e finanzia in prima fila all’escalation bellica, con la produzione e invio massiccio di armi, tentativi di moltiplicare le basi militari, oltre quelle già esistenti (non ultimo sul territorio di Pisa, a Capo Frasca, Sigonella e Niscemi), nonché in pratiche di controllo varie; quali ricoprire le Città di Venezia e Messina di telecamere a riconoscimento facciale (prodotte in Israele) già in sperimentazione nel trasporto pubblico di Padova. Uno strumento spacciato come prevenzione di una violenza sistemica che lo Stato risolve in un solo modo: repressione. Le stesse utilizzate per la repressione e genocidio delle nostre sorelle Palestinesi». Toni Negri non avrebbe saputo fare meglio. Lui era un cattivo maestro, ma queste sono alunne penose.
E già che ci siamo ecco l’attacco diretto a Israele: «Lo stato Italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggia di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese».
All’Ansa qualcuna di “Non una di meno“ ha detto testualmente: «Porte aperte alle donne israeliane». Grazie tante. E poi: «Noi siamo contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti dei palestinesi, non contro le donne israeliane». Ma questo è diventato il femminismo? Possibile che le femministe vere, le donne di sinistra, le famose intellettuali scrittrici giornaliste registe attrici, non abbiano nulla da dire? Elly Schlein può far finta di niente su questa deriva estremista cui bellamente resta il fianco? Ascolti quello che dice la dem Pina Picierno: «Il 7 ottobre Hamas durante le azioni nei kibbutz ha ucciso e stuprato. Gli esiti delle autopsie e delle refertazioni mediche che ho letto in queste settimane sono terribili, i racconti dei terroristi arrestati fanno rabbrividire e i video che ho visionato dalle bodycam dei terroristi sono la rappresentazione dell’orrore. Queste donne israeliane, le loro storie, le violenze subite sono state escluse dal dibattito femminista così come accadde per gli stupri di guerra avvenuti in Ucraina. In questa giornata che precede il 25 novembre abbiamo il dovere di raccontare quello che avvenne il 7 ottobre, abbiamo il dovere di alzare la voce perché se toccano una toccano tutte, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione e dai conflitti».
La “centrale”, quella del pacifismo imbelle e senso unico che ha condizionato tante manifestazioni sull’Ucraina finendo per dar fiato alle trombe di Vladimir Putin, si è rimessa in moto e il demone rianima le sue lingue di fuoco contro l’Occidente, non contro il califfato, contro “la politica”, non contro i tagliagole di Hamas. E tutto fa brodo, per questa propaganda avvelenata, anche stendere un mantello di odio contro i “nemici”, anzi, le “nemiche” stuprate il Sabato nero. Per loro non c’è pietà, ha sentenziato il demone. Rovinando una giornata importante.
Le ribellioni degli ebrei, in 30mila in marcia contro Netanyahu: mille intellettuali contro il genocidio di Gaza. La marcia per chiedere che il governo si impegni per la liberazione degli ostaggi. Nello stesso giorno dell’appello di Grossman e altri 1000 intellettuali- Umberto De Giovannangeli su L'Unità il 19 Novembre 2023
«Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che desiderano sconfessare l’idea diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita». È l’incipit della lettera aperta intitolata «Un’equiparazione pericolosa», apparsa sul periodico statunitense N+mag.
L’appello è stato firmato da oltre mille intellettuali, tra cui spiccano i nomi di Naomi Klein, David Grossman, Judith Butler, filosofa che insegna a Berkeley, e Tony Kushner, sceneggiatore, drammaturgo e premio Pulitzer.
Accusare di antisemitismo chi critica Netanyahu, i coloni o le politiche portate avanti dalla destra religiosa è «una tattica retorica per proteggere Israele dalle sue responsabilità, oscurare la realtà mortale dell’occupazione e negare la sovranità palestinese. Questo insidioso imbavagliamento della libertà di parola viene utilizzato per giustificare il continuo bombardamento militare di Gaza da parte di Israele e per mettere a tacere le critiche della comunità internazionale», denuncia la lettera-appello.
«Condanniamo i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi – si legge – e piangiamo questa straziante perdita di vite umane. Nel nostro dolore, siamo inorriditi nel vedere la lotta contro l’antisemitismo utilizzata come pretesto per crimini di guerra con dichiarato intento genocida».
Ed ancora: «i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascun popolo dipende da quella dell’altro». I valori ebraici, continuano, «ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi rispetto all’oppressore. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese».
Un altro passaggio illuminante è quello in cui i firmatari affermano: “Le accuse di antisemitismo alla minima obiezione alla politica israeliana hanno permesso a lungo a Israele di sostenere un regime che gruppi per i diritti umani, studiosi, analisti legali e organizzazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse continuano ad avere un effetto spaventoso sulla nostra politica. Questo ha significato la soppressione politica a Gaza e in Cisgiordania, dove il governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei di tutto il mondo.
Nella propaganda rivolta internamente ai propri cittadini ed esternamente all’Occidente, il governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo. Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi.. .Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile degli Stati Uniti e dell’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. Ci rifiutiamo di permettere che queste richieste urgenti e necessarie vengano soppresse in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio”.
Altra importante novità nella giornata di ieri la marcia da Tel Aviv a Gerusalemme. «Liberateli adesso». È il grido che arriva dalla folla di migliaia di persone che, arrivate in corteo a Gerusalemme davanti agli uffici del premier israeliano Benjamin Netanyahu, chiedono maggiore impegno per la liberazione degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre. Una marea di palloncini gialli e bandiere.
Si parla di 300 mila persone partite da Tel Aviv martedì scorso. Numeri che ricordano la protesta contro la riforma della giustizia di qualche mese fa, e che cova ancora sotto la cenere della “nuova” guerra nella Striscia di Gaza. «Non abbiamo il privilegio di poter aspettare ancora che i nostri cari vengano liberati per buon cuore e buona volontà, perché questa cosa non avverrà mai», ha detto nel suo intervento in piazza, Yuval Haran, che aspetta il ritorno a casa di sette membri della sua famiglia portati nella Striscia di Gaza.
“Abbiamo camminato per cinque giorni senza fermarci e mi fanno male le gambe e le spalle e mi fa male tutto, ma niente fa male come il cuore”, ha detto Orin, la madre di Eden Zacharia, che è tenuto in ostaggio in Gaza, secondo quanto riportato dal Times of Israel. “Anche se avessimo bisogno di camminare fino a Gaza, cammineremo fino a Gaza. Ovunque dovremo andare andremo, non rinunceremo ai nostri figli”, ha aggiunto la donna. Umberto De Giovannangeli 19 Novembre 2023
Al bar dell’accademia. La supercazzola della lettera dei mille intellettuali di origine ebraica. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 20 Novembre 2023
Che poi tra questi che ostentano la loro legittimante ebraicità ci siano anche certuni per i quali Hamas rappresenta una valorosa formazione di popolo, e pure tanto de sinistra, è solo la sfaccettatura buffamente miserabile di una iniziativa che bisognerebbe considerare chiacchierona e futile se non fosse invece pericolosa
La lettera dei “mille” volantinata nei meglio bar dell’accademia «Anche Israele cià le sue colpe» e presso i circoli arcobaleno «Fuori i sionisti da Roma» meriterebbe desolato disprezzo già per come comincia: «Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei…».
Evidentemente sfugge sia agli estensori sia ai propalatori di quella supercazzola da dopolavoro Cgil (al contenuto arriviamo tra poco) che uno «scrittore ebreo», che così si definisce e così tiene a proporsi, è ineluttabilmente un cretino, che è inesorabilmente un cretino chi sottoscrive un appello in quanto «artista ebreo», che è irrevocabilmente cretino chi conduce il proprio attivismo in quanto «attivista ebreo».
Però anche il cretino più radicale dovrebbe capire che cosa va a impreziosire la strepitosa teoria da cartiglio bacioperugina secondo cui – urca! – «criticare Israele non significa essere antisemiti»: va a impreziosire di bella letteratura, di buona arte e di nobile attivismo (ma ebraico eh, mica cazzi) l’andazzo da Kristallnacht che hanno preso le manifestazioni «per la pace» dal pomeriggio del 7 ottobre in qua, la pace delle decapitazioni e la pace del kibbutz denazificato.
E pensa! C’è chi non capisce che «dal fiume al mare» quello è, dopotutto: una critica a Netanyahu, il democratico dissenso che qualche sconsiderato scambia per il progetto inesistente, mai da nessuno neppure vagheggiato, di sottrarre quelle terre alla grinfia giudaica.
Naturalmente la lettera adunca, e per ciò insospettabile, dei mille e non più mille si attarda a spiegare che con la scusa della lotta all’antisemitismo sarebbe stato deliberato e si starebbe attuando un programma di genocidio, argomentazione che è un altro capolavoro di fedeltà storico-politica e di opportunità comunicazionale: perché non serve a condannare e contrastare iniziative militari che con ogni diritto possono essere considerate tragicamente sbagliate e perfino criminali, ma a rivoltarle nell’abominio sterminatore perpetrato dalla «razza» che «da perseguitata si fa persecutrice», secondo la memorabile trovata del comunista Asor Rosa (quello che reclamava la destituzione del governo sgradito tramite un bel colpo di mano dei carabinieri democratici).
Che poi tra i mille che ostentano la loro legittimante ebraicità ci siano anche certuni per i quali Hamas rappresenta una valorosa formazione di popolo, e pure tanto de sinistra, è solo la sfaccettatura buffamente miserabile di una iniziativa che bisognerebbe considerare chiacchierona e futile se non fosse invece, come al solito, pericolosa: tanto che immancabilmente è fatta propria dai minchioni che da «È apartheid, l’ha detto l’Onu!» sono passati a «È genocidio, lo dicono gli ebrei!».
Poi tutti insieme nei cortei del 25 aprile, mi raccomando con un po’ di vernice gialla per contrassegnare le case e i negozi dell’entità sionista. E se qualcuno dice qualcosa rispondiamo che abbiamo tanti amici ebrei e che ce lo ha imparato anche David Grossman che Israele ha occupato Saturno e l’ha circonciso.
Il mondo libero. La difesa delle società aperte, e la chiusura della mente occidentale. Christian Rocca su L'Inkiesta il 20 Novembre 2023
Quello che stiamo vivendo è cominciato nel momento esatto in cui l’America ha smesso di fare l’America. Ora per fortuna abbiamo Biden, ma dobbiamo vedercela con un asse delle autocrazie molto ben coeso e con gli «utili idioti» che aiutano chi vuole sostituire la democrazia e la libertà con il terrore e le tenebre
Ieri pomeriggio al Castello di Milano, l’associazione Ponte Atlantico, in collaborazione con Linkiesta, ha organizzato la manifestazione più adeguata ai tempi che stiamo vivendo: «In difesa delle democrazie» si leggeva nel manifesto di convocazione, «Con Israele, con l’Ucraina, con l’Iran libero».
L’imperialismo russo nei confronti del popolo ucraino ha una storia plurisecolare. Il conflitto arabo-israeliano intorno al moderno Stato ebraico è cominciato lo stesso giorno della nascita di Israele, 75 anni fa. La persecuzione delle donne iraniane risale al 1979, a 44 anni fa.
La resistenza dell’Ucraina, la società aperta israeliana e il movimento Donna, Vita, Libertà hanno storie, origini e protagonisti diversi, ma sono tre battaglie della stessa guerra scatenata dall’asse delle dittature contro il mondo libero.
Quello che stiamo vivendo oggi non è cominciato il 24 febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina né con l’uccisione di Masha Amini il 16 settembre 2022 in Iran né il 7 ottobre 2023 con il pogrom di Hamas. Quello che stiamo vivendo è cominciato nel momento esatto in cui l’America ha smesso di fare l’America.
Siamo nell’agosto 2008, la presidenza Bush è agli sgoccioli e sfinita dalle guerre in Medioriente, e la Russia ne approfitta per invadere l’Ossetia, il Donbas della Georgia. Il candidato repubblicano John McCain si infervora, ma l’astro nascente Barack Obama fa capire che l’America non è interessata a occuparsi delle mire imperialiste della Russia, tanto che una volta eletto presidente smantella il progetto di scudo missilistico europeo in Polonia e Repubblica ceca pianificato da Bush in funzione anti iraniana e anti russa, e va alla ricerca di un reset delle relazioni con Mosca e con l’Iran. I russi capiscono quello che devono capire: l’America non ha più voglia di guidare il mondo libero.
Nel 2013, sei mesi dopo che Obama aveva ridicolizzato il suo secondo avversario repubblicano Mitt Romney come un relitto della Guerra Fredda perché aveva osato dire durante un dibattito presidenziale che la Russia era «senza dubbio il principale nemico strategico degli Stati Uniti», le vicende in Siria hanno definitivamente convinto Putin che era arrivato il suo momento. Di fronte all’uso di armi chimiche che hanno ucciso 1400 persone a nord di Damasco, Obama non fece niente per fermare il dittatore Bashar Assad sostenuto da Putin, nonostante avesse posto alla Siria egli stesso come limite invalicabile quello dell’uso di armi di distruzione di massa.
La Georgia e la Siria hanno convinto Putin, e non solo lui, che l’America aveva scelto di amministrare il suo declino anziché continuare a guidare il mondo democratico. Da lì a poco l’occupazione illegale della Crimea e del Donbas e la possente campagna di diffusione del caos in Occidente, con i finanziamenti ai partiti estremisti, i rapporti con i movimenti populisti, l’inquinamento dei processi democratici europei, il gran successo della Brexit e lo scacco matto a Washington con l’elezione a sorpresa di Donald Trump.
Obama non ha fatto niente per fermare il Cremlino e il risultato è stato Trump alla Casa Bianca. Trump ha facilitato il compito di Putin, disinteressandosi del tutto degli alleati europei, smantellando il geniale reticolato di istituzioni multilaterali con cui l’America ha governato il caos del mondo, e lasciando carta bianca a Benjamin Netanyahu che negli anni di Obama, vista la scelta americana di aprire all’Iran e di trattare Israele come un lontano parente fastidioso, aveva interpretato al peggio la radicalizzazione della politica israeliana.
Trump avrebbe sciolto la Nato, se avesse vinto le elezioni del 2020, ma le elezioni le ha vinte Joe Biden, il grandissimo Joe Biden, la cosa migliore che sia successa all’Europa dalla caduta del Muro di Berlino.
Biden ha rimesso in campo l’America, dopo aver gestito malissimo il lascito trumpiano dell’accordo con i talebani per il ritiro dall’Afghanistan. Biden ha salvato l’America, ha salvato l’Ucraina, ha salvato l’Europa e si appresta a salvare Israele dai suoi nemici e dalle sue comprensibili isterie che però spesso sfociano in radicalizzazione inaccettabile.
La sfida è ancora aperta, il fronte occidentale è pervaso da legittimi dubbi e pieno di osceni mestatori al suo interno, mente l’asse Russia-Iran-Hamas-Corea del Nord, con la supervisione della Cina, è compatto nel tentare di demolire il sistema di governo occidentale basato sulla libera circolazione delle idee, delle persone e delle merci.
L’attacco ad Israele del 7 ottobre è nato per distogliere l’attenzione occidentale dall’Ucraina e non è escluso che Mosca possa presto aprire altri fronti, magari nei Balcani e certamente al confine tra l’Armenia e l’Azerbaigian, per non parlare delle mosse antiebraiche dell’Iran attraverso gli Hezbollah in Libano. Il tutto sempre sotto l’occhio vigile della Cina alla ricerca del momento giusto per prendersi l’isola democratica di Taiwan.
Le società aperte occidentali non hanno ancora compreso la portata della minaccia esistenziale che corrono, anzi si mobilitano per soccorrere chi le vuole demolire, sono stanche di aiutare gli ucraini che resistono all’imperialismo russo anche per loro che al massimo sono stanchi dell’ultima serie Netflix, riempiono le piazze in solidarietà con i cacciatori di ebrei, rivalutano Bin Laden su TikTok, si disinteressano dei femminicidi di massa degli ayatollah iraniani, e guardano con ammirazione ai successi economici del regime dittatoriale cinese.
Questa attiva partecipazione degli «utili idioti dell’Occidente» al discorso pubblico dimostra perfettamente la chiusura della mente occidentale, ormai sopraffatta dal relativismo culturale e da un malinteso senso di uguaglianza, ma soprattutto è un’ulteriore conferma della superiorità civile della società aperta. Almeno finché durerà.
Doppio standard. L’attacco alle fondamenta dell’Occidente e l’indulgenza verso qualsiasi altra società. Douglas Murray su L'Inkiesta il 20 Novembre 2023
C’è un assalto in corso contro i Paesi che discendono dalla civilizzazione europea. Come spiega Douglas Murray in “Guerra all’Occidente” (Guerini e Associati), «è una guerra culturale, e viene condotta implacabilmente contro tutte le radici della tradizione»
Attacco alle fondamenta
C’è un assalto in corso contro tutto ciò che ha a che fare con il mondo occidentale: il suo passato, il suo presente e il suo futuro
Negli ultimi anni è diventato chiaro che c’è una guerra in corso: una guerra all’Occidente. Non è una guerra come quelle del passato, in cui gli eserciti si scontrano e le vittorie vengono proclamate a gran voce. È una guerra culturale, e viene condotta implacabilmente contro tutte le radici della tradizione occidentale e contro tutto ciò che di buono la tradizione occidentale ha prodotto.
All’inizio, è stato difficile riconoscerla. Molti di noi sentivano che qualcosa non andava. Ci chiedevamo come mai si continuasse a portare avanti argomentazioni a senso unico e a produrre affermazioni ingiuste. Ma non ci rendevamo conto della reale portata di ciò che si stava tentando di fare. Soprattutto perché persino il linguaggio delle idee era corrotto. Le parole non avevano più il significato che avevano avuto fino a poco tempo prima. Le persone avevano iniziato a parlare di «uguaglianza», ma non sembravano interessarsi alla parità di diritti. Parlavano di «antirazzismo», ma le loro proposte sembravano profondamente razziste. Parlavano di «giustizia», ma sembravano intenderla come «vendetta».
Solo negli ultimi anni, quando i frutti di questo movimento sono venuti alla luce, la loro portata è diventata evidente. C’è un assalto in corso contro tutto ciò che ha a che fare con il mondo occidentale: il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Una parte di questo fenomeno consiste nel fatto che siamo imprigionati in un ciclo punitivo senza fine. Senza alcun vero tentativo (o addirittura interesse) di alleviamento.
[…] Dovunque, le società considerate «occidentali» (cioè i Paesi europei o quelli che discendevano dalla civilizzazione europea) sperimentavano lo stesso schema di ragionamento. Nessun luogo non occidentale ha subìto un trattamento simile. Solo ai Paesi occidentali, distribuiti su tre continenti, veniva ripetuto in continuazione che per avere qualche forma di legittimità – anche solo per essere considerati rispettabili – avrebbero dovuto alterare prontamente e radicalmente il loro assetto demografico. La visione del XXI secolo sembrava indicare che alla Cina sarebbe stato concesso di restare Cina, ai vari Paesi dell’Estremo e Medio Oriente e all’Africa sarebbe stato permesso – come effettivamente ci si aspettava – di restare così com’erano, o persino tornare a qualcosa che forse erano stati in passato. Ma ci si aspettava che l’insieme dei Paesi identificati come «l’Occidente» sarebbe diventato qualcosa di diverso o avrebbe perso tutta la sua legittimità.
Ovviamente, i Paesi e gli Stati hanno tutto il diritto di cambiare. Nel corso del tempo un certo grado di cambiamento è inevitabile. Ma sembrava ci fosse qualcosa di tendenzioso in ciò che stava succedendo: qualcosa di fazioso e sfasato. Queste osservazioni non erano suscitate dall’amore per i Paesi in questione, ma dal malcelato disprezzo nei confronti di essi. Agli occhi di molte persone, tra l’altro anche all’interno delle loro stesse cittadinanze, sembrava che questi Paesi avessero fatto qualcosa di sbagliato. Qualcosa per cui dovevano fare ammenda. L’Occidente era il problema. La dissoluzione dell’Occidente era la soluzione.
C’erano altri indizi che qualcosa non andava. Nel 2019, ne ho affrontati alcuni ne “La pazzia delle folle”. Ho parlato delle sfide lanciate dalle «politiche identitarie»: in particolare del tentativo di frammentare le società occidentali in base ai criteri del sesso, della sessualità e della razza. Dopo il XX secolo, l’identità nazionale è diventata una forma di appartenenza vergognosa, e improvvisamente sono apparse al suo posto tutte queste altre forme di appartenenza. Si iniziava a dire alle persone di considerare se stesse come membri di altri gruppi specifici. Erano gay o etero, donne o uomini, neri o bianchi. Queste forme di appartenenza venivano anche sollecitate al fine di propendere verso una posizione antioccidentale. […]
Il discorso sulla razza si incrudelì ulteriormente. Le minoranze razziali che si erano integrate bene in Occidente, che avevano contribuito alla sua crescita e che addirittura provavano ammirazione per l’Occidente venivano trattate sempre di più come se fossero dei traditori. Come se da loro ci si aspettasse un altro tipo di lealtà. I radicali che volevano distruggere tutto venivano venerati. Ci si riferiva ai neri americani e agli altri individui che volevano celebrare l’Occidente e arricchirlo come se fossero degli apostati. Sempre più di frequente, si affibbiavano loro i peggiori appellativi. L’amore per la società in cui vivevano era considerato un punto a loro svantaggio.
Nello stesso tempo, era diventato inaccettabile parlare di qualsiasi altra società con toni anche solo vagamente simili. Nonostante tutti gli inconcepibili abusi perpetrati nella nostra epoca dal Partito Comunista cinese, quasi nessuno parla della Cina con anche solo un briciolo della rabbia e del disgusto riversati quotidianamente contro l’Occidente dall’interno. I consumatori occidentali continuano a comprare vestiti a basso costo dalla Cina. Non c’è alcun tentativo diffuso di boicottaggio. «Made in China» non è un’etichetta di cui vergognarsi. Cose terribili continuano a succedere attualmente in quel Paese, e ancora viene trattato come se nulla fosse. Gli autori che si rifiutano di permettere che i loro libri siano tradotti in ebraico sono entusiasti di vederli comparire in Cina. E nel frattempo la catena di fast food Chick-fil-A viene criticata più aspramente per produrre i suoi sandwich sul suolo americano di quanto lo sia Nike per confezionare le sue sneakers grazie allo sfruttamento della manodopera in Cina. Perché nell’Occidente sviluppato si applicano criteri diversi.
Quando si parlava di diritti delle donne e delle minoranze sessuali, e, ovviamente, di razzismo, si diceva che la situazione non era mai stata peggiore, mentre invece non era mai stata migliore. Nessuno poteva negare la piaga del razzismo, una piaga che si può reperire in varie forme nel corso di tutta la storia. Le tendenze inglobanti ed escludenti sono eccezionalmente forti nella nostra specie. Non siamo così evoluti come ci piacerebbe immaginare di essere.
Negli ultimi decenni, però, in Occidente la situazione rispetto all’uguaglianza razziale è la migliore di sempre. Le nostre società hanno fatto uno sforzo per andare «oltre la razza», guidate dall’esempio di alcuni uomini e donne eccezionali di ogni provenienza razziale, ma in particolare da alcuni straordinari afroamericani. Non era scontato che le società occidentali avrebbero sviluppato, o anche solo aspirato a raggiungere, la tradizione di tolleranza razziale che abbiamo ora. Non era scontato che avremmo finito per vivere in società che giustamente considerano il razzismo come uno dei peccati più aberranti. È accaduto perché molti uomini e donne coraggiosi hanno fatto valere le proprie ragioni, hanno lottato contro quello stato di cose e hanno rivendicato i loro diritti.
Negli ultimi anni, si è iniziato a ragionare come se quella battaglia non fosse mai avvenuta. Come se fosse un miraggio. Negli ultimi anni, sono giunto a rappresentarmi i problemi razziali in Occidente come un pendolo la cui oscillazione ha superato il punto di correzione per arrivare all’ipercorrezione. Come se, qualora il pendolo restasse in una leggera ipercorrezione abbastanza a lungo, l’uguaglianza potesse essere stabilita più fermamente. Ormai è chiaro che, per quanto benintenzionata potesse essere una tale convinzione, era decisamente fuorviante. La razza oggi è un tema di discussione in tutti i Paesi occidentali come non lo era stato per decenni. Invece della color blindness (la cecità verso il colore della pelle), siamo stati spinti all’ultrasensibilità razziale. Ci viene presentato un quadro profondamente distorto. Come tutte le società nella storia, tutte le Nazioni occidentali hanno il razzismo iscritto nel loro passato. Ma questa non è l’unica versione della storia dei nostri Paesi.
Il razzismo non è l’unica lente attraverso cui le nostre società possono essere comprese, eppure sempre più spesso è l’unica lente impiegata. Tutto ciò che fa parte del passato è visto come razzismo, e quindi tutto ciò che rientra nel passato è viziato.
Però, ancora una volta, solo nel passato dell’Occidente, grazie al radicale filtro razziale che è stato sovrapposto a qualsiasi cosa. Un orrendo razzismo esiste attualmente in tutta l’Africa, espresso dai neri africani contro altri neri africani. Nel Medio Oriente e in India il razzismo abbonda. Fate un viaggio in qualsiasi luogo del Medio Oriente – addirittura nei «progressisti» Stati del Golfo – e vedrete all’opera un moderno sistema di caste. Ci sono gruppi razziali di «classe superiore» che governano queste società e persone che da essi traggono benefici. E poi ci sono i lavoratori stranieri non tutelati affluiti per lavorare per loro come una classe lavoratrice d’importazione. Questi ultimi vengono guardati dall’alto in basso, maltrattati e persino buttati via come se le loro vite non contassero nulla. E nel secondo Paese più popolato al mondo, come chiunque abbia viaggiato in India ben saprà, il sistema delle caste resta ancora attivo in modo evidente e sconvolgente. Al punto che certi gruppi di persone sono considerati «intoccabili» senza alcun motivo a parte la casualità della loro nascita. Si tratta di un disgustoso sistema basato sul pregiudizio, ancora vivo e vegeto. Eppure non sentiamo parlare molto di questo argomento.
Invece, il mondo riceve rapporti giornalieri su come i Paesi meno soggetti sotto ogni aspetto al razzismo, e dove il razzismo è più aborrito, siano la patria del razzismo. Quest’affermazione distorta arriva addirittura a un’estrema conseguenza, cioè che se altri Paesi sperimentano qualche forma di razzismo, ciò accade perché l’Occidente ha esportato il vizio fino a lì. Come se il mondo non occidentale fosse sempre composto da edenici innocenti. Anche in questo caso, è chiaro che si è creato un registro ingiusto. Un registro in cui l’Occidente viene trattato secondo un certo insieme di standard e il resto del mondo secondo un altro. Un registro in cui sembra che l’Occidente non possa fare nulla di giusto e il resto del mondo nulla di sbagliato. O che sbagli solo perché noi occidentali lo abbiamo portato a farlo. Questi sono solo alcuni dei sintomi che è possibile individuare nel nostro tempo. Sintomi che ho cercato di cogliere uno dopo l’altro negli ultimi anni. Ma più li ho presi in considerazione e più ho viaggiato lontano per il mondo, più è diventato chiaro che quest’epoca è definita soprattutto da una cosa: un cambiamento di civiltà che è in corso da sempre.
Un cambiamento che ha scosso le fondamenta delle nostre società, perché è una guerra contro tutto ciò che esiste in quelle società. Una guerra contro tutto quello che ha contraddistinto le nostre società come qualcosa di inusuale – o addirittura di eccezionale. Una guerra contro tutto ciò che le persone che abitano in Occidente davano per scontato, fino a non molto tempo fa. Se questa guerra si rivelerà fallimentare, allora dovrà essere denunciata e respinta.
Tratto da “Guerra all’Occidente” (Guerini e associati), di Douglas Murray, pp. 364, 29€
Distrazione di massa. La rete propagandistica antisemita del Cremlino. Antonio Pellegrino su L'Inkiesta il 18 Novembre 2023
Da un mese Mosca ha intrapreso una campagna militante mediatica anti israeliana per lavarsi la coscienza dei crimini umanitari commessi contro Kyjiv, cercando così di spostare l’attenzione globale dalla guerra in Ucraina
Dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre e lo scoppio del conflitto in Medio Oriente, la Russia ha iniziato a giocare la carta dell’antisionismo (in molti casi, dell’antisemitismo puro) per dare nuova linfa alla macchina della propaganda di stato. La retorica putiniana esce indebolita dal lungo stallo militare in Ucraina ed è per questo che il Cremlino ha un bisogno disperato di nuove parole d’ordine, tanto estreme quanto sconnesse e incoerenti.
Così, dopo la battaglia per la denazificazione a cui si è aggiunta la crociata per i valori tradizionali contro l’Occidente degenerato, il Paese che ha scritto “I Protocolli dei Savi di Sion” rispolvera la storia dell’ebreo cattivo per giustificare la guerra contro il governo di Kyjiv. Propagandisti di regime, ufficiali dello stato maggiore, neonazisti dichiarati e una serie di canali Telegram dedicati alla diffusione di fake news compongono la rete antisemita di Vladimir Putin, una rete che da più di un mese ha avviato una campagna martellante per sfruttare la questione israeliana al fine di indebolire l’Europa e gli Stati Uniti. L’accusa principale rivolta contro i paesi occidentali è quella di aver adottato un “doppio standard” tra la risposta militare di Israele e l’invasione russa: «l’Occidente condanna ed esagera le azioni della Russia in Ucraina mentre minimizza i crimini israeliani a Gaza» ha dichiarato Kirill Semenov, analista del Russian International Affairs Council (think thank accademico filogovernativo) sostenendo quanto il doppio standard sia «ovvio».
A questo approccio vittimistico si aggiunge una colpevolizzazione di Israele che ribalta la realtà; un esempio surreale è stato offerto da Vladimir Solovyov, conduttore di punta del regime e megafono della «guerra santa contro i satanisti», che commentando i bombardamenti israeliani ha sentenziato «stanno radendo al suolo Gaza […] noi russi non combattiamo così, nemmeno lontanamente». Il bombardamento di Gaza è diventato il cavallo di battaglia di Solovyov che rincarando la dose afferma: «Spero che l’Occidente smetta di parlare delle brutalità dell’armata russa. Volete le brutalità? Guardate l’esercito israeliano […] Ora vi è chiara la differenza tra una guerra e un’operazione militare speciale». Non importa ricordare l’ampia documentazione dei bombardamenti sui civili da parte dell’esercito russo, per la Tv di stato putiniana Israele è diventato il termine di paragone per lavarsi la coscienza e negare la realtà, tanto che i più accaniti guerrafondai contro l’Ucraina si sono riscoperti pacifisti.
Ad affiancare Solovyov troviamo personaggi come Margarita Simonyan, caporedattrice di Russia Today, principale diffusore di fake news filorusse in Europa fino alla messa al bando nel 2022, e Olga Skabeyeva – soprannominata “la bambola di ferro di Putin Tv» per i suoi attacchi contro l’opposizione democratica – che ha definito quella di Israele una guerra «contro i mussulmani», una carneficina che ha tra i suoi principali responsabili gli Stati Uniti di Joe Biden perché «solo gli americani possono fermare questo bagno di sangue, ma al momento stanno facendo tutt’altro».
A fare da contraltare a questa narrazione finto-pacifista c’è la galassia neonazista russa e in particolare il gruppo Rusich – unità paramilitare di estrema destra attiva in Donbas dal 2014 e impegnata nella guerra contro Kyjiv sotto il comando della Wagner – che sul suo canale Telegram ha commentato entusiasticamente gli attentati di Hamas del 7 ottobre («è un peccato non poter partecipare»). Al gruppo del neonazista Milkacov si aggiunge il canale nazionalista Grey Zone che invoca la «demilitarizzazione e la denazificazione di Israele» augurandosi lo sterminio di massa della popolazione ebraica.
Le posizioni deliranti degli opinionisti russi sono accompagnate dalla diffusione sistematica di fake news sul conflitto, un’operazione finalizzata a inquinare i pozzi e mettere in discussione i media che dal 24 febbraio 2022 documentano le stragi russe in Ucraina; l’esempio più plateale è un articolo pubblicato da Komsomolskaya Pravda dal titolo “La Buča di Israele” in cui si paragonano le decapitazioni dei bambini israeliani da parte di Hamas al massacro di Buča perpetrato dall’esercito russo nel marzo 2022. Per i giornalisti del regime, entrambi sarebbero dei falsi creati ad arte dall’Occidente per infangare i suoi avversari.
Altre fake news avallate dal governo riguardano il presunto utilizzo delle armi destinate all’Ucraina nel conflitto, tesi sostenuta dallo stesso Vladimir Putin e dall’ex premier Dmitrij Medvedev – «le armi date al regime neonazista ucraino vengono usate attivamente in Israele» – così come il rilancio dei comunicati di Hamas come uniche fonti di informazione sui principali casi di cronaca (il Cremlino ha immediatamente attribuito allo Stato di Israele la responsabilità per il bombardamento dell’ospedale di Gaza). In un articolo pubblicato dal Carnegie Endowment for International Peace, il giornalista ed ex diplomatico Alexander Baunov ha spiegato le ragioni dietro questa operazione di Vladimir Putin: accomunando Israele e Ucraina, si fortifica l’idea avallata dal regime russo di una contrapposizione tra il vecchio ordine mondiale (trainato da Stati Uniti e Unione Europea) e il mondo multipolare di cui la Russia rappresenterebbe la testa di ponte, un blocco che coinvolgendo i paesi in via di sviluppo includerebbe per forza di cose anche il mondo arabo, o meglio, quella parte di mondo arabo ferocemente anti-occidentale.
È per questo delirio geopolitico che oltre a rinsaldare i legami con la teocrazia di Teheran, Vladimir Putin ha accolto una delegazione di Hamas al Cremlino lo scorso mese, elevando l’organizzazione terroristica a interlocutore nel Medio Oriente. Un mix di duginismo – l’occhiolino all’Islam radicale come custode dei valori tradizionalisti contro il liberalismo euroatlantico – e di terzomondismo anti-americano per cercare di coprire tutte le fazioni dell’area anti-occidentale. Da sola, la retorica putiniana è talmente sgangherata che non basta il nemico ebreo per reggerla in piedi, è per questo che il vero obiettivo della Russia è un altro: sperare che la questione israeliana monopolizzi l’attenzione dell’opinione pubblica, contribuendo al disinteresse per la guerra scatenata contro l’Ucraina. Un motivo più che valido per continuare a denunciare il regime di Putin.
Il 7 ottobre molti israeliani sono stati uccisi dal “fuoco amico”: le prove. Michele Manfrin su L'Indipendente il 18 novembre 2023.
Le prove, composte da immagini e testimonianze affidabili si sono moltiplicate in queste settimane, al punto che una verità – ipotizzata fin dall’inizio, ma indicibile sui mezzi di comunicazione dominanti – appare ormai del tutto chiara: molti dei circa 1.400 israeliani, sia militari che civili, rimasti uccisi durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso sono stati causati dal “fuoco amico”, ovvero da colpi sparati dall’esercito israeliano e non da miliziani palestinesi. Questo risulta evidente dalle varie testimonianze di soldati e di sopravvissuti all’attacco delle brigate Al-Qassam, come riportato da molte testate internazionali, comprese quelle israeliane. Il “sacrificio” di cittadini e soldati israeliani nel contrasto ad azioni di guerra è d’altra parte accettato anche da uno dei principi di azione della dottrina militare israeliana, messo nero su bianco nella “direttiva Annibale”. Si tratta di una procedura in vigore dagli anni ’80 che prescrive i comportamenti da tenere per reagire ai tentativi di sequestro, specie ai danni di soldati: i commilitoni devono sparare sul commando in fuga, considerando il contrasto all’azione prioritario rispetto alla vita dell’ostaggio.
Le finalità dell’attacco di Hamas
Sembra ormai acclarato da varie testimonianze che l’obiettivo dell’attacco di terra di Hamas fosse il rapimento del più alto numero possibile di civili e militari israeliani da riportare all’interno di Gaza per poter trattare uno scambio di prigionieri con Israele. Lo scambio del 2011 con Gilad Shalit, soldato israeliano catturato cinque anni prima e rilasciato in cambio di 1027 prigionieri, ha fornito una chiara ispirazione per le gesta dei guerriglieri palestinesi. Hamas e la Jihad islamica palestinese (PIJ) hanno lanciato l’operazione “Al-Aqsa Flood” con obiettivo principale la cattura di prigionieri da poter scambiare con le migliaia di palestinesi attualmente detenuti senza accuse e/o i 700 minori trattenuti da Israele. Se per un soldato israeliano i palestinesi avevano ottenuto il rilascio di più di un migliaio di persone, cosa avrebbero potuto ottenere con decine, centinaia, di ostaggi tra civili e militari? Il successo del piano di Hamas sarebbe senz’altro stato un colpo politico doloroso per Israele, molto di più di quello subito con il caso di Shalit.
Cos’è la “direttiva Annibale”
Dal 1982 al 2014 sono stati scambiati 7.000 prigionieri palestinesi in cambio di 19 israeliani. Nel 1986, in seguito all’accordo di Jibril con cui Israele ha scambiato 1.150 prigionieri palestinesi con tre soldati israeliani, e al pesante contraccolpo emotivo e politico di tale evento, l’esercito israeliano ha redatto un ordine segreto per prevenire futuri rapimenti e/o la possibilità che vi siano trattative per lo scambio di prigionieri. La “direttiva Annibale” è la procedura da seguire quando un militare viene catturato e prevede di usare tutti i mezzi necessari perché non venga portato via: i commilitoni devono sparare sul commando in fuga, senza preoccuparsi per la vita dell’ostaggio.
L’ultima volta che la direttiva Annibale è stata ordinata era il primo giorno di agosto del 2014 a Rafah, Gaza, in cui i combattenti di Hamas hanno catturato un ufficiale israeliano, il tenente Hadar Goldin. Questo è stato il giorno in cui l’esercito israeliano ha bombardato la città di Rafah, nella striscia di Gaza, con quasi tutti i mezzi di distruzione a sua disposizione, dai missili degli aerei F-16 ai razzi degli elicotteri Apache, ai bombardamenti condotti dal mare così come attacchi con droni e mortai, in quella che è stata chiamata Operazione Margine Protettivo. I bulldozer abbattevano le case mentre i carri armati sfrecciavano attraverso i quartieri, bombardando tutto ciò che capitava a tiro. Nel giro di poche ore, almeno 500 proiettili di artiglieria e centinaia di missili sono stati scaricati sulla città, quasi interamente in aree civili. L’obiettivo dell’operazione non era necessariamente la popolazione civile di Rafah quanto invece non permettere che il soldato israeliano fosse utilizzato come pedina politica, anche a costo della sua stessa vita. E così fu. Alla fine, il tenente Goldin fu ucciso insieme a circa 190 palestinesi.
Haim Avraham, padre del soldato Benny che nel 2000 fu rapito al confine con il Libano, in occasione degli eventi del 2014, ha detto in merito alle ragioni dietro alla “dottrina Annibale”: “Se fossero venuti a dirmi che mio figlio era stato ucciso dal fuoco amico, mi avrebbe ferito, mi avrebbe fatto infuriare. Ma lo avrei accettato: lo Stato non può agire inseguendo i sentimenti di un genitore, deve tenere in considerazione la sicurezza di tutti i suoi cittadini. Il dovere di un soldato è proteggere la nazione e può succedere che cada in battaglia”. In quell’occasione, gli aerei da guerra di Israele bombardarono 26 auto che tentavano di passare la frontiera con il Libano per impedire il successo del rapimento. Successivamente fu dichiarato che il soldato era già stato ucciso dai rapitori.
La risposta israeliana all’attacco di Hamas: caos o “direttiva Annibale”?
Venerdì 20 ottobre, Haaretz ha pubblicato un lungo articolo del suo analista militare, Amos Harel, che descrive il fallimento di Israele nel prepararsi agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, parlando con paradossale entusiasmo del comandante della Divisione di Gaza, il generale di brigata Avi Rosenfeld, tra i maggiori responsabili della debacle israeliana. Nel racconto del 7 ottobre riferisce qualcosa di interessante: «Una grande forza di Hamas si è impadronita dell’adiacente valico di Erez, che è stato chiuso per la festa di Simhat Torah. Da lì, in pochi minuti e senza opporre resistenza, avanzarono nella base militare, uccidendo e sequestrando i soldati dell’Amministrazione Civile, anche se alcuni di loro riuscirono a rispondere al fuoco prima di essere colpiti. Il generale di brigata Rosenfeld si trincerò nella sala di guerra sotterranea della divisione insieme a una manciata di soldati e soldati, cercando disperatamente di salvare e organizzare il settore sotto attacco. Molti dei soldati, la maggior parte dei quali non erano membri del personale di combattimento, sono stati uccisi o feriti all’esterno. La divisione è stata costretta a richiedere un attacco aereo contro la base stessa per respingere i terroristi».
In altre parole, mentre il comandate e un manipolo di altri uomini erano nascosti nei bunker sotto la base e tutto il resto era fuori che cercava di respingere l’attacco di Hamas, è stato ordinato il bombardamento della base stessa – con i propri uomini – pur di respingere l’assalto e non far cadere la struttura militare in mano del nemico. Proprio la mentalità che sta alla base della “direttiva Annibale”.
Electronic Intifada ha pubblicato una lunga intervista a Yasmin Porat, sopravvissuta all’attacco di Hamas nel Kibbutz Be’eri, dopo che era stata presa in ostaggio. Secondo il suo racconto, i rapitori hanno trattato lei e gli altri ostaggi «umanamente», spiegando come fossero convinti che lo scudo fornito dai prigionieri israeliani avrebbe permesso loro di rientrare tranquillamente a Gaza. Tuttavia, quando i soldati israeliani sono arrivati, «hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi. C’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante». La sua testimonianza è completata da testimonianze di soldati israeliani. L’11 ottobre, Quique Kierszenbaum ha riferito sul Guardian del suo tour del Kibbutz Be’eri, un tour organizzato dall’unità di propaganda dell’esercito israeliano. Kierszenbaum scrive: «Un edificio dopo l’altro è stato distrutto, sia nell’assalto di Hamas che nei combattimenti che ne sono seguiti, gli alberi vicini si sono scheggiati e i muri sono stati ridotti a macerie di cemento da dove i carri armati israeliani hanno fatto saltare in aria i militanti di Hamas dove si nascondevano. I pavimenti sono crollati sui pavimenti. Le travi del tetto erano aggrovigliate ed esposte come gabbie toraciche». Richard Hecht, un portavoce dell’esercito, ha riferito: «Quando sono arrivato ho visto i soldati che combattevano qui solo per entrare nel kibbutz. Andavamo da un appartamento all’altro. Avremo domande difficili da porci. Per ora dobbiamo guardare avanti: alla difesa delle persone e all’uscita dei sopravvissuti».
Nir Hasson ha intervistato un residente locale di nome Tuval Escapa, che era fuori dal kibbutz al momento dell’attacco, la cui compagna è invece rimasta uccisa. Nell’articolo di Hasson del 20 ottobre su Haaretz, egli riferisce: «La sua voce si spezza quando ricorda il suo compagno, che in quel momento era assediato nella stanza sicura. Secondo lui, solo lunedì notte e solo dopo che i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – tra cui bombardare le case con i loro abitanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi – l’IDF ha completato la presa del kibbutz. Il prezzo fu terribile: almeno 112 abitanti rimasero uccisi. Altri sono stati rapiti. L’altro ieri, 11 giorni dopo la strage, i corpi di una madre e di un figlio sono stati scoperti in una delle case distrutte. Si ritiene che altri corpi siano ancora sepolti tra le macerie». Risulta inoltre chiaro da una semplice osservazione dei danni provocati a strutture e veicoli, impossibili da ottenere con l’utilizzo di Kalasnikov, RPG e bombe a mano, ovvero le armi che abbiamo visto utilizzare dei guerriglieri nei numerosi video girati in rete sull’assalto del 7 ottobre; compresi quelli di casi in cui vengono commessi omicidi su civili inermi o disarmati.
In un intervista con l’agenzia di stampa israeliana Mako, un pilota Apache ha riflettuto sul tortuoso dilemma che lo ha afflitto sul dover sparare o meno alle persone e alle auto che tornavano a Gaza. Sapeva che molti di quei veicoli potevano contenere prigionieri israeliani ma scelse comunque di aprire il fuoco. Il tenente colonnello A., un pilota di riserva dell’unità, ricorda: «Mi trovo in un dilemma su cosa sto sparando, perché ce ne sono così tanti». Un rapporto sugli squadroni Apache da parte dell’organo di stampa israeliano Yedioth Aharanoth ha osservato che «i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile».
In un altro passaggio dell’articolo viene detto: «In meno di 20 minuti era di nuovo in volo e, utilizzando le informazioni prodotte, ordinò agli altri caccia aerei di sparare a tutto ciò che vedevano nell’area della recinzione, e a un certo punto attaccò anche una postazione dell’IDF con soldati assediati per di aiutare i caccia di Shayetet 13 a prenderla d’assalto e liberarla». Secondo l’aviazione israeliana, nelle prime quattro ore dopo l’inizio dei combattimenti, elicotteri e aerei da combattimento hanno attaccato circa 300 obiettivi, la maggior parte dei quali in territorio israeliano.
Quale fine per i prigionieri a Gaza?
E che dire delle decine, centinaia di ostaggi, soldati e civili, trattenuti a Gaza? Già il 26 ottobre scorso le Brigate Al-Qassam di Hamas stimavano che circa 50 prigionieri fossero rimasti uccisi dai bombardamenti di Israele sulla Striscia. Secondo Yehuda Shaul, ex militare, co-fondatore dell’ONG israeliana Breaking the Silence, la prima organizzazione di veterani militari israeliani che chiede la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza, l’enorme numero di prigionieri catturati renderebbe addirittura la direttiva ridondante: «Diciamo che Hamas ha un soldato e diciamo che l’accordo dice di liberare un migliaio di prigionieri [palestinesi]. Ci sono 5.000 prigionieri in carcere. Ora, diciamo che Hamas ne ha sei e decide di liberarne 3.000. Ma ora Hamas ne ha 200!». Secondo Annyssa Bellal, giurista internazionale specializzata in conflitti armati e diritto internazionale e ricercatrice senior presso il Geneva Graduate Institute, la direttiva non è mai stata una politica ufficiale e quindi non è mai stata pubblicata nella sua interezza. Bellal ha detto che, nella pratica, la direttiva è già stata messa in atto nella guerra attuale a Gaza. Israele ha in gran parte rifiutato di negoziare con Hamas per il rilascio dei suoi prigionieri, scegliendo invece di impiegare l’uso della forza contro la Striscia, e questo «rispecchia ciò di cui parlava la direttiva». L’attuale assalto israeliano a Gaza supera già i precedenti attacchi più letali del 2008 e del 2014. Nel 2008, 1.385 palestinesi sono stati uccisi in 22 giorni, mentre nel 2014 Israele ha ucciso 2.251 palestinesi, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA). Oggi, quando scriviamo, sono più di 11.000 i morti civili palestinesi.
In definitiva, che sia stato mandato di applicare la direttiva Annibale o meno, è del tutto evidente che la potenza di fuoco che Israele ha scatenato sui miliziani di Hamas ha finito per uccidere decine, centinaia, di cittadini israeliani. [di Michele Manfrin]
Gli universitari continuano ad occupare gli atenei per sostenere la Palestina. Gioele Falsini e Monica Cillerai su L'Indipendente il 17 Novembre 2023
Dopo le occupazioni della Sapienza e della Federico II di Napoli della scorsa settimana, in questi ultimi giorni centinaia di studenti hanno occupato diverse Università, tra cui quella di Torino, Bologna e Padova, per denunciare il genocidio in corso nella Strisca di Gaza e per solidarizzare con il popolo palestinese. La motivazione principale che spinge studenti e studentesse ad interrompere le lezioni è quella di provare a rovesciare la narrazione dominante sul conflitto israelo-palestinese: un racconto mediatico definito fazioso, violento, ipocrita e mistificatore, in quanto non contestualizza la questione e la spoglia da ogni analisi storica. Per questa ragione durante le occupazioni si sono organizzati incontri e dibattiti con giornalisti, attivisti e studiosi del medio-oriente che hanno raccontato la realtà del sistema di colonizzazione e apartheid perpetuato dallo Stato di Israele.
A Torino inoltre, nella giornata di ieri, in seguito all’occupazione dell’Università, alcuni attivisti hanno bloccato l’accesso alla Mole per un’ora e hanno appeso uno striscione con la scritta “cease-fire” in cima al monumento simbolo della città. Al fianco degli studenti si sono schierati anche molti professori e studiosi che in 4000 hanno firmato un appello per il cessate il fuoco immediato e per interrompere gli accordi e le collaborazioni con gli atenei israeliani.
In questi giorni, tra azioni, dibattiti, assemblee e pranzi sociali, gli studenti stanno riempiendo di scritte, bandiere, murales e cartelli pro Palestina le Università, risignificandole attraverso un’occupazione che vuole rompere con l’ordinarietà degli eventi, con l’indifferenza rispetto questo massacro e con l’assuefazione alla narrazione dominante. Anche oggi diverse manifestazioni studentesche si sono prese le strade delle città per protestare contro il Governo Meloni ed il Ministro Valditara, e contro l’indifferenza mostrata dalle istituzioni rispetto al genocidio ai danni della popolazione palestinese.
Nella mattina di oggi, 17 novembre, a Torino, durante un corteo determinato a cui hanno partecipato circa mille studenti, ci sono stati scontri con la polizia che non voleva far convergere i manifestanti in Piazza Castello dove c’era un presidio dei lavoratori in sciopero. Bloccati all’ingresso di Via Roma, dopo alcuni tafferugli, gli studenti e le studentesse di scuole superiori ed università sono riusciti a raggiungere il centro città passando per i parcheggi sotterranei.
Arrivati in piazza al grido di “Palestina libera” e con slogan contro un governo accusato di investire sempre più nella guerra invece che nella scuola e nella formazione, gli studenti si sono uniti in solidarietà ai lavoratori della logistica in sciopero.
Il blocco dei lavoratori ai mercati generali di Torino
La mobilitazione per la Palestina, infatti, non coinvolge solo gli studenti, ma anche lavoratori e sindacalisti. Sempre a Torino, ad esempio, nella serata di ieri 16 novembre, i cancelli dei mercati generali sono rimasti chiusi per alcune ore. Decine di lavoratori dei mercati con altri solidali hanno aderito allo sciopero nazionale chiedendo un immediato cessate il fuoco a Gaza. I lavoratori, con bandiere del sindacato di base Si Cobas e palestinesi, hanno risposto all’appello del sindacato per un presidio che disturbasse la logistica dei mercati e supermercati cittadini. «Ci sono state iniziative di sciopero che hanno bloccato le merci di Israele nei porti di Sidney, Oakland, da una parte all’altra del mondo. Anche da noi in Italia con l’iniziativa di sciopero a Genova della scorsa settimana, e oggi, nella giornata di sciopero nazionale, anche qui ai mercati generali di Torino» dice al microfono uno degli scioperanti. Nel buio della notte, decine di camion sono rimasti incolonnati per quasi un’ora e poi sono stati costretti a fare marcia indietro. [di Gioele Falsini e Monica Cillerai]
Quei replicanti degli anni '70 che si riconoscono in Hamas. Reinterpretano i vecchi dogmi con l'estetica di Instagram. E non stanno con le Mahsa Amini, ma con chi le opprime. Vittorio Macioce il 18 Novembre 2023 su Il Giornale.
Stanno qui e le loro parole sembrano ciclostilate da anni lontani. Sono gli stessi occhi di allora, affamati di piazza, con il rancore assoluto verso le proprie radici. Si sentono un branco, ma sono un gregge e alzano i pugni chiusi e giurano vendetta, resa dei conti, rivoluzione. Le frasi che urlano sono le stesse di quando eri bambino. Da quale ferita del tempo sono usciti questi replicanti? Non c'è, forse, una risposta sensata. Sono usciti da un passato che non hanno mai conosciuto e replicano senza memoria gli slogan, le bandiere, i gesti, le smorfie sul volto e la visione del mondo di gente che si avvicina agli ottanta.
Li vedi ventenni, in corteo, per le strade di Roma e di Torino, senza il piombo e il bianco e nero, con i vestiti anni '70 reinterpretati dai cataloghi di Instagram e Tik tok e minacciano chi indossa una divisa. Se la prendono con l'assessore regionale a portata di mano: «Marrone fascista sei il primo della lista». Se la sono tramandata in tutti questi anni, un po' come tutto il resto, come l'odio viscerale contro ciò che puzza di Occidente, di America, di mercato, senza sentire un minimo di contraddizione verso la vita che portano a spasso.
Sì, certo, anche adesso sono una minoranza, metropolitana, chiassosa, sempre sul fronte del palco e convinta per arbitrio ideologico di rappresentare il tutto. La Palestina ora è la nuova terra promessa. Ci si sentono a casa, condividendone il dolore, fino a rivendicare sottobanco le ragioni di Hamas. È l'occasione che aspettavano per acquartierarsi in un'appartenenza. Nessun dubbio su chi siano i buoni e chi i cattivi. «Israele il nuovo nazismo». Non li sfiora il paradosso e così cantano, rispolverando da qualche soffitta un testo messo in musica da Umberto Fiori, vecchio chitarrista degli Stormy Six, progressive rock dalle sfumature country, che qualcuno ancora ricorda al concerto del Parco Lambro del 1975. «Abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco e il nero, stretto in pugno la bandiera: i colori di Al Fatah. Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam». Dicono sia virale e qualche volta la cantano in piazza.
La Palestina porta in dote una certa simpatia per la civiltà islamica, da preferire senza dubbio al tiranno americano, ribadendo il senso di colpa dell'Occidente verso il resto del mondo. E qui viene da chiedere come in fretta siano pronti a rinnegare i diritti Lgbt e tutte le lettere che vengono dopo. Ti aspettavi di vederli in piazza per Mahsa Amini, ammazzata di botte per il no a un velo sulla testa, una loro coetanea. Invece no, stanno con chi lapida chi non si allinea alla morale di Dio.
I nipotini del comunismo pregano Allah, è come se il muro di Berlino non fosse mai caduto. Non è rimasto nulla di quella notte di novembre e il violoncello di Mstislav Rostropovich non suona più. Smarrito, disperso, svanito. È rimasto quello che il Muro sembrava aver sepolto. Hanno vinto quelli che avevano perso, che hanno continuato a narrare nel sottosuolo la vecchia promessa, totalitaria, di un paradiso in terra.
Manifestanti e benpensanti. Bye, bye Hamas, non mancherai a nessuno. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 17 Novembre 2023
Cari manifestanti e benpensanti italiani e non, nutriti e beneficiati della libertà occidentale (anche di dissentire) che solo da noi vi è garantita, piangete pure: siamo alla fine di Hamas, un’organizzazione del terrore che avete sostenuto (sì, avete sostenuto lei, non i palestinesi che essa non rappresenta affatto, e anzi danneggia). Avete sostenuto, pur di andare contro Israele, dei terroristi che vogliono talmente bene ai palestinesi che, dopo aver fatto mattanza brutale di civili solo perché ebrei, e aver causato una dovuta reazione che ristabilisse il principio di deterrenza grazie a cui Israele protegge la sua sopravvivenza in vita da stati (Iran) e organizzazioni terroristiche che ne vogliono un secondo definitivo olocausto, li usa come scudi umani nascondendosi in ospedali, nidi e scuole, alcune costruite e mantenute con i soldi dell’Occidente di cui vaneggia la distruzione.
Solo una domanda: dov’eravate quando la guerra siriana, di palestinesi ne ammazzava a mazzi? Tutti a casa, zitti. Quanta coerenza. Siete stati gli utili idioti di Hamas, i cui capi non sono sul campo di battaglia né a difesa di nessuno, ma asserragliati in lussuosi hotel a varie stelle in paradisi dove cullarsi su ricchezze miliardarie in euro di cui non vi domandate nemmeno l’origine. Hamas vuole arricchirsi, uccidendo persone e progetto di pace, alla cui soluzione siamo però assai più vicini. Perché gli stati arabi moderati hanno scelto il benessere cui la pace è necessaria: non c’è spazio per il fanatismo omicida. Mollati da tutti, tranne che dall’Iran, i terroristi sono per fortuna nell’angolo. Certo, esagerare sul piano militare produrrebbe un risentimento che rischia di produrre generazioni di palestinesi risentiti, terreno fertile per altri mercenari di morte.
Dunque servono misura e progettualità per garantire “due popoli, due stati” e chiudere la partita con beneficio di tutti noi. Non una passeggiata, per carità: l’Onu, finora buono solo per farci un bel condominio sull’East River, dovrà contribuire alla exit strategy che garantisca la pace tra palestinesi e israeliani, e alla prodromica impossibilità di ricostituzione di Hamas. Agli israeliani l’obbligo di contribuire risolvendo la questione coloni in Cisgiordania; ai palestinesi quella di soffocare eventuali focolai estremistico terroristici in casa sua. Alla fine, Hamas i conti li aveva fatti male. Credeva di riuscire a tirarsi dietro i paesi arabi in uno scontro di civiltà e geopolitico ritagliandosi il profilo di ago della bilancia, e invece è finita a essere considerata da tutti, più o meno esplicitamente, un reprobo da schiacciare. La morale della favola per cui la voglia di crescita e benessere batte il terrore è una buonissima notizia. E Hamas non mancherà a nessuno. Forse solo a qualche esibizionista antisemita. Che presto dovrà trovarsi un’altra battaglia da perdere. Andrea Ruggieri
Dagospia mercoledì 15 novembre 2023. Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago,
Leggo sempre volentieri la tua rassegna di esteri perché non fai sconti a nessuno. Non sono d’accordo tuttavia con il titolo sulla Birmania dicendo che non protestiamo perché non ci sono nostri interessi in campo.
La verità è che non ci è interessato dei 250.000 morti yemeniti fatti dai bombardamenti sauditi e gli Houthi, né del milione di morti siriani di cui il 30% bambini, circa cento volte quelli do Gaza.
O ancora il milione e mezzo di Afghani deportati dal Pakistan che vanno verso morte certa dai Talebani, o i curdi senza stato (come i palestinesi) bombardati dai Turchi, dai Curdi e dagli Iracheni, il milione in Sudan, e altri ancora.
Sono numeri schiaccianti rispetto a quelli palestinesi, eppure non ci sono folle urlanti né boicottaggi universitari. Improvvisamente gli islamici nelle università e nelle piazze non hanno interesse a chiedere cessate il fuoco, forse perché gli assassini sono islamici?
E Marco Rizzo perché non mette questi altri milioni di vittime al centro del dibattito? E Orsini? E Di Battista? E Zerocalcare?
Milioni di morti che non vanno di moda. Fammi indovinare…forse perché non sono morti causati dagli israeliani, e quindi non servono alla propaganda anti occidentale? Centinaia di funzionari ONU morti a Gaza, e in Birmania, Pakistan, Sudan, Afghanistan invece stanno tutti bene? Giulia Amore
(ANSA martedì 14 novembre 2023) Più di 30 organizzazioni religiose e di attivisti - fra le quali Oxfam America, Amnesty International e Center for Civilians in Conflict - scrivono al Pentagono per chiedere la sospensione delle forniture di munizioni a Israele. "In queste circostanze concedere al governo di Israele l'accesso a queste munizioni mettere a rischio la protezione di civili, il rispetto della legge internazionale e la credibilità dell'amministrazione Biden", affermano le associazioni nella missiva riportata dal Washington Post.
La deputata democratica Ilhan Omar introdurrà nei prossimi giorni in aula un provvedimento per bloccare un pacchetto da 320 milioni di dollari di bombe destinate dall'amministrazione Biden a Israele. Lo riporta Huffington Post citando alcune fonti, secondo le quali Omar presenterà entro mercoledì una risoluzione per disapprovare la vendita.
Il Center for Constitutional Rights (Ccr), gruppo per la difesa dei diritti civili di New York, fa causa al presidente americano Joe Biden per aver fallito nei suoi obblighi previsti dalla legge americana e internazionale nel prevenire il "genocidio" di Israele a Gaza.
L'azione legale chiede alla Corte di vietare agli Stati Uniti di fornire armi e sostegno diplomatico a Israele e punta a ottenere una dichiarazione dal presidente, dal segretario di Stato Antony Blinken e da quello alla Difesa Lloyd Austin che richieda vengano prese "tutte le misure per prevenire che Israele commetta atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza".
L'azione del Ccr è da parte di alcuni gruppi palestinesi e alcuni individui. L'associazione è salita alle cronache nel 2004 quanto ha ottenuto dalla Corte Suprema i diritti per i prigionieri di Guantanamo.(ANSA)
Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” - Estratti martedì 14 novembre 2023.
Ieri pomeriggio si è tenuta a Parigi una manifestazione contro l’antisemitismo all’indomani di quella londinese a favore dei palestinesi e delle dichiarazioni del presidente iraniano Ebrahim Raisi al summit dei Paesi musulmani in Arabia Saudita («Baciamo le mani di Hamas»). Il raduno all’Esplanade des Invalides ideato da Gérard Larcher e Yaël Braun-Pivet ha avuto un insperato e inaspettato successo. Era però assente un pezzo non irrilevante della sinistra francese.
Il presidente Emmanuel Macron che all’indomani dell’attacco del 7 ottobre era corso in Israele per proporre un’alleanza mondiale contro Hamas come quella contro l’Isis, negli ultimi giorni si è mostrato più sensibile alle sorti dei civili di Gaza e ha preso le distanze dall’adunata di Larcher e Braun-Pivet. Per non essere costretto, s’è giustificato, a sfilare al fianco di Marine Le Pen che prontamente invece aveva dato la propria adesione.
Dando prova, Macron, di aver conservato intatta la disinvoltura che all’inizio della guerra d’Ucraina gli consentiva di svolazzare tra Mosca e Kiev annunciando «svolte» che coincidevano prevalentemente con suoi mutamenti d’umore.
Per fortuna — a vantaggio della sinistra superstite — erano presenti l’ex presidente della Repubblica François Hollande, l’attuale premier Élisabeth Borne e gli ex Bernard Cazeneuve e Manuel Valls (in prima fila). Dietro di loro l’ecologista Marine Tondelier, il socialista Olivier Faure e persino il comunista Fabien Roussel, fischiatissimi in quanto appartenenti all’alleanza guidata da Jean-Luc Mélenchon.
Il quale Mélenchon, trascinandosi dietro pressoché l’intera gauche, ha abbracciato come è noto — sempre sotto le insegne palestinesi — la causa islamica. Senza preclusioni nei confronti degli islamici più radicali.
Secondo il filosofo Pascal Bruckner l’estrema sinistra francese è oggi «antisemita» né più né meno che l’estrema destra.
(…)
Per agganciare le «minoranze» islamiche, in tutti i Paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è impugnata da mani di sinistra e i gruppi dirigenti mostrano qualche incertezza nel contrastare questo fenomeno. Mentre la destra, pur con una sospetta rapidità, si è spostata di campo, a difesa degli ebrei, contro ogni manifestazione di giudeofobia.
Il che crea dappertutto, anche qui in Italia, qualche imbarazzo.
Tre donne (la prima ex internata ad Auschwitz, le altre due, esponenti della comunità ebraica) hanno messo in evidenza il fastidio provocato da alcuni atteggiamenti di quella che è — presumibilmente, in linea generale — la loro parte politica. Edith Bruck ha dichiarato che i fatti dell’ultimo mese le hanno fatto cambiare idea circa la sensibilità della sinistra in tema di antisemitismo. Anche per quel che concerne la riflessione sui migranti. Noemi Di Segni ha messo in evidenza quanto sia ancora diffusa nel campo progressista un’indiscriminata ostilità nei confronti di Israele. E, a seguito di questa constatazione, s’è presa in sovrappiù qualche ruvida rampogna. Ruth Dureghello ha ricordato come già ai tempi della guerra del Libano (1982) s’innescò un equivoco «processo di colpevolizzazione di tutto il popolo ebraico».
Dopodiché nel corso di un raduno della Cgil fu deposta una bara davanti alla Sinagoga di Roma e, trascorsi pochi giorni, un commando palestinese uccise, nello stesso posto, un bambino di due anni: Stefano Gaj Taché. Un delitto «di cui peraltro non sono mai stati individuati i responsabili», sottolinea Dureghello ponendo indirettamente qualche interrogativo sulle modalità e la solerzia con cui furono condotte le indagini.
Non che Bruck, Di Segni e Dureghello intendessero dire che qualcuno a sinistra si è, un mese fa, sottratto all’immediato dovere di pronunciare parole di condanna nei confronti dell’ecatombe del 7 ottobre. Figuriamoci. Ma forse si aspettavano che il tema venisse successivamente approfondito in modi più circostanziati. Soprattutto quando a quel lutto in Europa s’è accompagnata una moltiplicazione di aggressione a cittadini ebrei, svastiche sui muri, oltraggi a sinagoghe e cimiteri israelitici.
Sfregi a ebrei. Non a israeliani in un qualche rapporto con Netanyahu. Gente che non aveva nessuna relazione con bombardamenti e missili su Gaza. Ebrei. Solo ebrei. Nient’altro che ebrei. In Germania, Olaf Scholz, ma ancor più il vicecancelliere Robert Habeck e la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, questo genere di riflessioni e di distinzioni le hanno fatte. Eccome. In Gran Bretagna il leader laburista Keir Starmer si è spinto addirittura a denunciare l’ambiguità contenuta in alcuni appelli per il «cessate il fuoco» a Gaza. Da noi meno. Molto meno.
Una qualche sensibilità ha suggerito a Elly Schlein di evitare che la «sua» manifestazione di sabato scorso fosse caratterizzata dallo sventolio di bandiere palestinesi e da slogan che invitavano a «liberare la Palestina dal fiume Giordano alle rive del mare» (il modo corrente di chiedere la distruzione dello Stato di Israele). Il che, conoscendo parte dei gruppi dirigenti (occulti o palesi) selezionati dalla sinistra italiana negli ultimi decenni, è già qualcosa di ardimentoso da parte della giovane leader.
Corbyn getta la maschera: si rifiuta di definire Hamas “terrorista” per 17 volte. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale martedì 14 novembre 2023.
Dallo scorso 7 ottobre diversi leader di sinistra sono stati costretti a prendere una posizione su Israele e su Hamas. Alcuni hanno ribadito il pieno sostegno allo Stato ebraico, mentre altri hanno traccheggiato, strizzando l’occhio alla Palestina ma senza denunciare il brutale attacco compiuto dal gruppo terrorista. Ebbene, ieri è toccato a Jeremy Corbyn. E l’ex leader laburista non ha fatto una bella figura, anzi: la figuraccia rimediata nell’intervista a “Piers Morgan Uncensored” di TalkTV è diventata virale.
Nel corso del dialogo con Morgan, Corbyn ha farfugliato qual cosina sul cessate il fuoco a Gaza e nelle altre zone del conflitto per proteggere i civili palestinesi. Ma nulla più. Clima di alta tensione in studio: in più di un’occasione, il conduttore ha accusato il deputato di Islington North di “essere semplicemente incapace” di rispondere alle domande poste. Prima della domanda sulla natura terrorista di Hamas, Corbyn aveva dribblato un altro quesito, a proposito della possibile permanenza di Hamas al comando dei palestinesi a Gaza. “Non spetta a noi decidere”, la replica ponziopilatesca.
“Ti ho fatto due domande: Hamas dovrebbe rimanere al potere? Ed è un gruppo terroristico? Ti stai rifiutando di rispondere ad entrambe. Questo è molto significativo e ti chiedi perché la gente pensa che tu abbia un problema con gli ebrei”, l’affondo di Morgan, elogiato sui social network per non aver fatto sconti al suo interlocutore. L’idolo della sinistra (anche italiana) ha però gettato la palla in tribuna: “Urli alle persone tutto il tempo”, sottolineando “l’incapacità (di Morgan, ndr) di stare in silenzio per trenta secondi”. E ancora: “Perché non puoi chiedere qualcosa sul comportamento dell’esercito israeliano e del governo israeliano? Perché non puoi discutere di come si potrebbe arrivare a un cessate il fuoco? Perché non puoi interrogarti su un processo per il futuro che porti la pace per tutti?”.
Già criticato in passato per le sue posizioni anti-Israele, Corbyn è finito nel mirino della critica per aver partecipato a diverse marce filo-palestinesi a Londra. Dopo l’intervista di Morgan, gli attacchi si sono moltiplicati. “Come ministro degli Interni, posso confermare che Hamas è un gruppo terroristico”, la stilettata di James Cleverly. La polemica è esplosa anche alla Camera dei Comuni: “Vorrei esprimere il mio shock per il fatto che non tutti i membri di questa Camera possano affermare che Hamas è un gruppo terroristico”, la punzecchiatura di David Lammy.
GUERRA E IDEOLOGIA. Se Lgbt e femministe preferiscono la sharia, vadano pure. L’Occidente ormai si odia. A tal punto da generare folli paradossi: l’universo gay e quello femminista fanno il tifo per Hamas e l’islam. Salvatore Di Bartolo su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023.
In un Occidente sempre più bramoso di suicidio, l’ipocrisia e il conformismo imperano ormai sovrani. I feroci e ripetuti attacchi dall’interno ai capisaldi della cultura occidentale, unitamente alla sfrenata esigenza di perorare ad ogni costo cause spiccatamente antioccidentali, possono assumere un solo significato: l’Occidente, o perlomeno una parte di esso, si odia profondamente. Talmente tanto da far apparire spesso la civiltà occidentale la più antioccidentale fra tutte le civiltà del nostro tempo.
Tale profondo e ben radicato odio di sé di cui si alimenta l’ormai agonizzante Occidente è infatti sempre più facilmente riscontrabile, con una carica peraltro oltremodo accentuata, in alcune sue frange, soprattutto laddove si annida una mai paga bramosia di tutele e corsie preferenziali.
Accade così che quel mondo minoritario, sempre più rumoroso e ostile nei confronti delle silenziose e sempre più soggiogate maggioranze, dopo aver fatto incetta di diritti e libertà nel tollerante e libero mondo occidentale, abbia inscenato il più classico dei voltafaccia per sostenere la causa dei più acerrimi nemici dell’Occidente.
Si originano così degli autentici paradossi, delle prese di posizione perverse e irrazionali, totalmente incomprensibili almeno senza una cospicua dose di insulsa ignoranza e becero conformismo. Si stenta infatti a comprendere, ad esempio, come il variopinto universo Lgbt, in perenne lotta contro l’oscurantismo occidentale, possa ergersi a paladino dell’Islam più radicale che disconosce le libertà sessuali e perseguita barbaramente le diversità. Oppure, come le agguerritissime femministe, sempre così ostili verso il bigotto e fallocratico Occidente, possano scendere in piazza a difesa di quell’integralismo culturale e religioso che predica, e poi pratica, la sottomissione del genere femminile al volere maschile e la sistematica negazione dei più basilari diritti della donna.
Orbene, laddove femministe e omosessuali avessero lecitamente modificato il loro punto di vista sul tema dei diritti civili, e altrettanto lecitamente avessero scelto di abbandonarsi al fascino irresistibile di imam, burqa e scimitarre, che ben venga. Nessun problema. Se la Sharia li rappresenta più dei valori occidentali e della cristianità, che facciano pure. Che aprano anche le braccia all’indulgente e democratico Islam. Il cotanto odiato Occidente riuscirà, presto o tardi, a farsene una ragione.
Ma ci risparmiassero perlomeno le false invettive, i soliti fastidiosissimi piagnistei e le deliranti lezioncine politicamente corrette intrise di ideologismo, ipocrisia e antioccidentalismo. Non sono più credibili.
Pd, alla manifestazione bandiere della Palestina e slogan pro migranti. Gianni Di Capua su Il tempo il 12 novembre 2023
Elly Schlein aveva chiesto ai suoi di non portare bandiere di Israele o della Palestina, ma solo bandiere del Pd o della pace. Ma la tentazione era troppo forte e alla fine due bandiere palestinese sono spuntate vicino al palco. Anche se la segretaria ci tiene a ripetere la litania con cui si attacca Israele senza cadere nell’appoggio ad Hamas. «Al terrorismo sanguinario di Hamas va la nostra condanna ma la brutalità di Hamas non consente altra brutalità verso i civili palestinesi. Chiediamo con forza un cessate il fuoco umanitario non possiamo assistere ancora a questo massacro di civili, non è accettabile né umano. E chiediamo di liberare gli ostaggi di Hamas e difendere i civili palestinesi. Bisogna evitare una spirale di odio e violenza» ha detto dal palco. Nella piazza anche tanti cartelli per chiedere politiche più «accoglienti» in materia di immigrazione. «Basta con la guerra alle Ong, la solidarietà non è un reato» ha detto Schlein dal palco durante il suo intervento conclusivo. Ma c’è anche chi paragona Giorgia Meloni a Wanna Marchi.
Una piazza che ha visto l’ennesimo tentativo di dialogo fra Pd e le altre forze di opposizione. Una presenza che i militanti dem sembrano gradire tant’è che quando Giuseppe Conte entra nel retropalco da una transenna laterale scatta l’applauso. Con il segretario del M5S anche Roberto Fico, con la scorta a seguito, il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri, il deputato Riccardo Ricciardi e la senatrice Alessandra Maiorino. Una volta raggiunto lo spazio antistante al palco principale il leader del Movimento 5 Stelle è stato accolto da Francesco Boccia, Roberto Speranza e Nicola Zingaretti. Poi l’incontro con Elly Schlein. «Io sono per il campo giusto non per il campo largo. Siamo oggi qui per confermare il dialogo che abbiamo già avviato con il Pd. Siamo due forze politiche ciascuna con la propria autonomia, quindi il dialogo serve a convergere sulle posizioni ma anche a segnare, qualche volta, qualche differenza» ha detto Conte ai cronisti presenti. Poi il leader grillino ha attaccato la manovra economica del governo «che è assolutamente inadeguata, è una sciagura per il Paese». Ecco perché, per Conte, la piazza di ieri era «un’occasione per ribadire come con il Pd e le altre forze di opposizione disponibili lavoreremo per contrastare l’azione e le politiche sbagliate di questo governo». Non a caso ieri c’era tutta l’opposizione in piazza col Pd come in una sorta di prove generali di carrozzone.
Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato Avs, il segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni anche lui deputato di Avs. Una presenza che Schlein ci tiene a sottolineare dal palco: «Un grandissimo applauso alle altre forze politiche dell’opposizione che sono venute a trovarci». In piazza anche Stefano Bonaccini per il quale «la luna di miele fra il governo e il Paese è conclusa e credo che peggiorerà perché le condizioni materiali delle persone peggioreranno». Ma per le critiche al governo bisogna aspettare il discorso di Schlein che addossa a Meloni tutti i mali dell’Italia: dai migranti alla sanità passando per il ponte sullo Stretto e il salario minimo. «Siamo qua per dire basta a questo governo, possono travestirsi come vogliono ma la destra è sempre la stessa» tuona dal palco. E per riuscire nell’impresa l’esempio da seguire è Pedro Sanchez al quale Schlein manda un abbraccio perché «ha dimostrato che le destre si possono fermare». Ritorna in voga anche la battaglia sul salario minimo nonostante il parere del Cnel che ha chiarito come non sia una misura utile per alzare i salari. «Siamo qui a rilanciare una battaglia fatta con le altre opposizioni per dire che in Italia serve un salario minimo legale. Il governo non può continuare a rinviare. Abbiamo già raccolto oltre 500mila firme» ricorda Schlein. E poi ancora sull’immigrazione «al governo sono ossessionati dall’immigrazione e non vedono l’emigrazione dei tanti giovani che devono andare altrove per cercare il proprio futuro».
I "martiri" di Allah che la sinistra non vuol vedere: così l'Italia è a rischio. Aumentano gli arresti di islamici legati ai tagliagole dell'Isis. Anni di immigrazione indiscriminata hanno creato una minaccia sempre più forte. Ecco gli errori commessi e come evitare di finire sottomessi. Matteo Carnieletto il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.
Sono tra noi. E noi, per troppo tempo, abbiamo preferito non vederli. Abbiamo preferito sentirci al sicuro a tutti i costi, anche negando la realtà. Anzi: soffocandola. Mentre i jihadisti attaccavano Parigi, Bruxelles, Berlino e Londra noi pensavamo di essere al sicuro.
Poi però Anis Amri, uno degli attentatori di Berlino, veniva ucciso a Sesto san Giovanni e oltre 700 jihadisti venivano espulsi dal nostro Paese dal 2015 ad oggi (e quest’anno abbiamo già superato quota 50). Solamente in quest’ultimo mese, la polizia ha arrestato due egiziani accusati di essere affiliati allo Stato islamico; un gambiano è stato allontanato dall’Italia; un bengalese, affiliato ad Al Qaeda, è stato arrestato; e ieri un algerino, veterano del jihad, è stato fermato nella metropolitana di Milano mentre aveva con sé un coltello.
Sono i fatti e i numeri a dircelo: i combattenti della guerra Santa sono tra noi. E sono, purtroppo per noi, più di quanti pensiamo. Molto spesso sono arrivati con i barconi, mischiandosi ai disperati che partivano dalla Libia e dalla Tunisia. Si sono poi dati alla macchia. Hanno vissuto di espedienti e, apparentemente, hanno condotto una vita normale. Nel frattempo, però, si sono radicalizzati ancor di più e, soprattutto, hanno fatto proselitismo cercando (e trovando) nuovi affiliati. E ora potrebbero iniziare ad agire.
Per troppo tempo, soprattutto a sinistra, si è detto che l’immigrazione indiscriminata non rappresentava un problema. Non è così. E questo vale sia per la sicurezza ordinaria, legata alla criminalità, sia per quella straordinaria riguardante la minaccia terroristica con la quale dobbiamo iniziare a fare i conti. Ciò non significa guardare con sospetto chiunque non sia come noi. Gli immigrati onesti, che lavorano e cercano di costruirsi un futuro nel nostro Paese sono molti. E spesso conservano anche valori che abbiamo perduto. Qualche settimana fa, un video mostrava alcuni poliziotti inseguire uno straniero mentre camminava con un coltello in mano e sbraitava frasi incomprensibili. Lo minacciavano senza far nulla. Tacevano e restavano immobili anche gli italiani che guardavano la scena. Poi, ecco spuntare due ragazzi di colore. Capiscono la situazione e agiscono. Uno imbraccia il monopattino come una clava e abbatte la minaccia.
Quella che ci preoccupa è la minoranza di immigrati islamici che è arrivata qui e che è disposta a colpirci. Forse sogna di farlo. E che può fomentare anche gli altri, i semplici casseurs, che hanno raggiunto l’Europa credendo fosse un Eldorado e che li ha delusi. Lo scenario peggiore, ma forse il più realistico, è quello immaginato da Laurent Obertone in Guerriglia (Signs publishing). Lo scrittore francese, basandosi su alcuni documenti degli 007, immagina una Francia piegata dalle rivolte islamiche, dove tutto è messo a ferro e fuoco. Dove i bianchi vengono cacciati, pestati e ammazzati. Sarà questo il nostro domani? Probabilmente sì. O forse sarà più silenziosa: accetteremo di essere sottomessi. Di diventare minoranza. Di perdere la libertà. In nome di un errato concetto di accoglienza.
I dubbi sull’«imparzialità» e le accuse all’agenzia Onu che si occupa dei palestinesi. Goffred Buccini su Il Correre della Sera mercoledì 15 novembre 2023.
L’Unrwa aiuta 700 mila persone a Gaza, il mandato prolungato in eterno
Nelle sue scuole sono stati allevati quasi tutti i terroristi della strage di Monaco 1972 e, più di recente, l’inafferrabile Mohamed Deif, comandante delle brigate Al-Qassam che il 7 ottobre hanno macellato 1.200 ebrei nei kibbuz e nel deserto del Negev.
Tanti, tra i suoi educatori e i suoi insegnanti, hanno celebrato questo massacro il giorno dopo sui social: «Allah è grande, la realtà sorpassa i nostri sogni più folli», ha postato il maestro Osama Ahmed . «Una data da scolpire», ha aggiunto (con emoji a cuore) Asmaa Rafiq Kuhleil. Più «istituzionale», la preside Iman Hassan s’è limitata a giustificare la carneficina quale via per «ripristinare i diritti» dei palestinesi. Come molte cose nella terra più contesa e sfortunata del Medioriente, anche l’Unrwa sembra causa, o vittima, di un grande equivoco. Nata nel 1949 (dopo il conflitto che sancì l’indipendenza di Israele), questa agenzia delle Nazioni Unite è un unicum. La sua missione è occuparsi esclusivamente dei rifugiati palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, in Giordania, Siria e Libano. Con un mito: quello del ritorno di chi fuggì o fu cacciato al tempo della diaspora, la «Nakba». E, certo, anche con molti meriti, nell’istruzione (non tutti i suoi insegnanti stanno con Hamas e non tutti gli studenti coi terroristi, ovviamente), nell’assistenza sanitaria, nel microcredito, nell’impiego e nell’integrazione della popolazione. «Fa un lavoro straordinario, migliaia di operatori rischiano la vita ogni giorno per i palestinesi», ha detto il segretario di Stato americano Antony Blinken il 4 novembre, durante la sua visita in Israele.
Il mandato
L’agenzia ha un mandato quadriennale rinnovabile, diventato eterno come i problemi della Palestina. Ed è finanziata da tutti noi (solo nel 2022, 340 milioni di dollari dagli Stati Uniti, 114 dall’Unione Europea, 18 dall’Italia). Il suo commissario generale, Philippe Lazzerini, seduto accanto a Emmanuel Macron alla conferenza umanitaria di Parigi del 9 novembre, nell’invocare il cessate il fuoco ha sostenuto che i bambini dentro i rifugi della Striscia chiedono ai maestri perché mai insegnare loro i diritti umani «se questi valori non si applicano anche a Gaza».
L’Unrwa è il retroterra professionale di Francesca Albanese, poi diventata relatrice speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e finita al centro di dure polemiche a causa delle sue posizioni fortemente filopalestinesi: di luglio 2022 lo scontro, clamoroso, alla Camera con Piero Fassino, che le imputava carenza di «terzietà», venendo a sua volta contestato dalla sinistra massimalista sulla scorta di rapporti di Human Rights Watch e Amnesty nei quali Israele è accusata di praticare l’apartheid. La medaglia ha, come sempre, due facce. La Ong Un Watch (molto vicina a Israele ma molto accurata nel denunciare i limiti e le notevoli contraddizioni dell’Onu) ha diffuso in questi giorni un dossier («L’odio nasce qui») in cui, recensendo i profili social dello staff e dei maestri dell’agenzia, ne ha identificati 153 che incitano all’antisemitismo e al terrorismo.
Il senso principale del rapporto (le mappe della Palestina usate nelle scuole raffigurano tutto il territorio di Israele dipinto in nero) è mostrare come l’Unrwa sia sottomessa di fatto ad Hamas e alla Jihad, al punto da dover reintegrare, sotto la loro pressione, insegnanti faticosamente messi alla porta per apologia delle stragi o allontanare da Gaza il direttore Matthias Schmale quale «persona non gradita» ai gruppi terroristi dopo avere espresso un parere sulla «precisione» dei bombardamenti israeliani mirati, ove possibile, a risparmiare civili.
Doppio standard
L’equivoco sta in una terzietà da un lato rivendicata e dall’altro pretesa ma, nella realtà, implausibile e, in buona misura, menzognera. Lo dimostrano bene, assai più delle nostrane baruffe televisive di Francesca Albanese, le parole di Rawia Halas, direttrice del Training Center di Khan Younis: la stessa persona che santifica come «eroe» chi ha decapitato i bambini israeliani ci si mostra in uno sconvolgente video dell’agenzia, implorando in lacrime medicine, aiuti e misericordia per i tanti bambini palestinesi accolti nel rifugio a sud di Gaza: «Abbiamo quindicimila persone senza cibo né acqua qua sotto, Gaza sta morendo!». In 150 rifugi simili, l’Unrwa aiuta più di 700 mila persone, ha spiegato alla Bbc Juliette Touma, responsabile delle comunicazioni.
L’agenzia ha più di cento caduti sul campo dall’inizio del conflitto. Secondo Un Watch, una delle spiegazioni di questo massacro nel massacro starebbe nel fatto che un trenta per cento dei suoi dipendenti fa parte di Hamas. Ed è possibile. Ma è certo che quasi il cento per cento vive da palestinese, lavora da sempre «con» e «per» i palestinesi; dunque, non può avere un punto di vista terzo di fronte a un mese di bombardamenti e all’esodo disperato di vecchi, donne e bambini. E forse non è nemmeno sensato chiedere a costoro prove di terzietà, se neppure organizzazioni umanitarie meritorie come Amnesty riescono a stare alla larga da scivoloni e diatribe sull’antisemitismo (i volantini strappati a Napoli con le foto dei bimbi israeliani rapiti sono un piccolo ma significativo episodio).
In questa storia non tutte le ragioni si equivalgono, c’è un 7 ottobre da non dimenticare mai e che fa ricadere su Hamas anche la responsabilità delle sofferenze di Gaza. Ma tutti i torti si intrecciano. Come nell’ospedale di Al Shifa: camera di tortura e covo di terroristi nei suoi sotterranei, ultima speranza di salvezza per tanti gazawi innocenti nei suoi reparti ormai devastati, rovello morale per quanti da bambini hanno imparato che chi salva una vita salva il mondo intero.
Scoppia il caso Amnesty. "Strappano i volantini dei bimbi rapiti a Gaza". Storia di Francesco Giubilei su Il Giornale sabato 11 novembre 2023.
Nelle città europee e occidentali da vari giorni sembra essersi diffusa una nuova usanza che prevede siano strappati i volantini con i volti e i nomi degli ostaggi israeliani di Hamas.
In rete sono numerosi i video - da Parigi a New York, da Los Angeles a Londra - che riprendono persone accartocciare e buttare a terra i volantini in cui si chiede la liberazione degli ostaggi. Purtroppo anche l'Italia non è da meno ma che a farlo siano i militanti di Amnesty International, «l'organizzazione internazionale che lotta contro le ingiustizie e in difesa dei diritti umani nel mondo», lascia sconcertati. È quanto si vede in un video pubblicato da Jonathan Pacifici, nome di spicco della comunità ebraica, corredato da un suo commento: «C'è qualcosa di più antisemita che strappare le immagini dei bambini israeliani rapiti? Lo fa Amnesty Italia. Avete capito bene, Amnesty. Pagliacci antisemiti».
Nel video si sente una persona chiedere a un'attivista di Amnesty «perché hai buttato questi flyers di persone rapite israeliane nel cestino?», l'attivista rimane in silenzio visibilmente imbarazzata per poi provare goffamente dopo qualche minuto a negare l'accaduto. Un altro militante aggiunge: «Ora che li hai dati , la gente ci fa quello che vuole». L'uomo che riprende con il cellulare replica: «Questo si chiama supporto al terrorismo, voi avete un doppio standard per le vittime nel mondo. C'è il sangue degli ebrei e c'è il sangue di tutti gli altri! Ti ho dato questo e tu l'hai strappato e buttato».
Dopo che il video è diventato virale suscitando l'indignazione di numerosi utenti, Amnesty ha provato a correre ai ripari: «L'accusa che sia stato nostro personale a strappare volutamente il volantino è infondata. Alla persona che si è avvicinata è stato detto che non era possibile esporre materiale di altri e i volantini sono stati messi via per questo». Una risposta che ha aumentato le critiche verso l'organizzazione: «Quando la toppa è peggiore del buco» ha scritto un utente, «mai più Amnesty, vergogna» ha aggiunto un altro.
In effetti Amnesty non è nuova a scivoloni e dal 7 ottobre è stata accusata da più parti di avere posizioni non equilibrate. Solo pochi giorni fa aveva rinunciato alla partecipazione al «Lucca Comics» per il patrocinio dell'ambasciata israeliana, una decisione commentata così dal vicepremier Matteo Salvini: Questo si chiama razzismo». Lo scorso anno aveva invece suscitato una dura reazione da parte delle comunità ebraiche un rapporto di 211 pagine della sezione inglese di Amnesty che accusava Israele di «praticare l'apartheid verso i palestinesi».
Dopo aver scritto un comunicato stampa nel 2022 in cui accusava le forze ucraine di «aver messo in pericolo la popolazione civile», Amnesty è stata costretta a scusarsi riconoscendo che l'esito del report «non era sufficientemente comprovato», sottolineando la necessità di migliorare i processi interni e «il modo in cui lavoriamo».
Tornano alla mente le parole dello scrittore Salman Rushdie, minacciato di morte dall'islam per i suoi «Versi satanici», che nel 2010 accusò Amnesty di essere travolta da «un'autentica bancarotta morale». Passano gli anni ma le cose non sembrano essere cambiate.
Dinto ‘a munnezza. L’ipocrita equidistanza di Amnesty International sugli ostaggi di Hamas. Iuri Maria Prado Linkiesta il 15 Novembre 2023
Alcuni volontari dell’organizzazione umanitaria hanno gettato nella spazzatura i volantini raffiguranti i prigionieri israeliani perché non accettano «materiale da altri gruppi». Ma in questi giorni hanno rilanciato contenuti altrui che denunciano le morti palestinesi. Questa incoerenza ne scredita la credibilità
Non sarebbe necessario parlare del triste e piccolo caso dei manifesti degli ostaggi israeliani finiti l’altro giorno in un bidone della spazzatura davanti ai banchetti di Amnesty International se si trattasse soltanto di un triste e piccolo caso. Le giustificazioni offerte dai responsabili della costola italiana di quell’organizzazione, dopo quelle diffuse dai giovanotti presenti nella flagranza del caso («Vuie i manifesti l’avete dati, poi la ggente ne fa chillo che vvuôle», cioè ‘sticazzi) potrebbero vantare qualche ineccepibilità se non insistessero su una situazione, diciamo così, un po’ particolare. Il plenipotenziario italiano, certo Riccardo Noury, ha dichiarato che i manifesti – sventolati da un attivista «aggressivo» – non potevano essere messi sui banchetti di Amnesty perché questa non adopera documenti di «altri gruppi», e per ciò il «materiale» è stato «rimosso e deposto in un cestino». Non stracciato, dunque, o non «volutamente» (così spiega Amnesty), dal personale di Amnesty.
Il presupposto dichiarato è che Amnesty, come non ha accettato il «materiale» costituito dalle facce degli uomini, delle donne e dei bambini rapiti dalle belve del 7 ottobre, così non avrebbe accettato documentazione fotografica dei civili uccisi dai bombardamenti né (questo lo aggiungiamo noi) aggressive rappresentazioni dello sterminio dei pellerossa.
Ora, una breve rassegna dei “lanci” social in cui anche solo negli ultimi giorni si è impegnata Amnesty italia rivela qualche inaderenza rispetto a quella proclamata linea di condotta: vedi, per esempio, le fotografie di mamme coi bambini in braccio tra le macerie, a guarnizione del titolo «Cessate il fuoco!»; vedi, ancora, il rilancio degli articoli e delle foto del Fatto Quotidiano (evidentemente non è «un altro gruppo») a proposito delle «torture e detenzioni arbitrarie dei palestinesi da parte di Israele»; vedi le locandine di promozione del libro di Patrick Zaki, quello che Netanyahu è un serial killer, che ancora una volta non sarà stato materiale di «un altro gruppo» e dunque non meritava la deposizione dinto ‘a munnezza.
Ma, pure lasciando perdere queste divaricazioni di condotta, forse si potrebbe osservare e domandare banalmente quanto segue: ma non vi fa proprio nessun effetto che le immagini di quegli uomini e donne e vecchi e bambini, rapiti dai macellai sulla scena degli eccidi, degli sgozzamenti, delle decapitazioni, degli stupri, dei cadaveri ricoperti di sputi e piscio e merda, non vi fa nessun effetto, non vi ripugna che siano «rimosso e deposto in un cestino? Non vi dice nulla di voi stessi il fatto che non avvertiate la portata maestosamente e oscenamente simbolica di quel gesto, tanto più insultante, tanto più carico di macabra violenza, per come pretende di ispirarsi a un ordinario adempimento di equanime apparecchiatura dei banchetti?
Non è un piccolo e triste caso. È dove finisce il 7 ottobre grazie all’esegesi storicizzante e all’equidistanza: nella spazzatura.
(ANSA giovedì 9 novembre 2023) - La scuola internazionale H-Campus (H-Farm) ha deciso "la sospensione formale dalle attività lavorative" di Hanane Hammoud, la docente di matematica che ammesso di essere l'autrice della storia su Instagram in cui affermava "Andate all'inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei". La scuola si impegna anche "ad assumere tutte le misure necessarie per garantire il benessere della comunità scolastiche". "Abbiamo immediatamente cercato di ricostruire l'accaduto - racconta la dirigenza di H-Campus - chiedendo all'insegnante la veridicità della notizia che lei ha ammesso, rendendosi conto della gravità del fatto e abbiamo affrontato questa situazione con la massima attenzione e serietà da tutte le angolazioni che coinvolgono la nostra comunità educante".
Il preside, Conan De Wilde, in un suo intervento personale, ha ribadito che "frasi che istigano all'odio o che minimizzano le sofferenze di individui o gruppi sono inaccettabili in qualsiasi circostanza". "Abbiamo organizzato una discussione e un confronto in cui coloro che hanno causato dolore si incontrano con coloro che erano feriti. Abbiamo iniziato questa mattina, con gli studenti del Diploma programma e l'insegnante che ha fatto i commenti offensivi e inappropriati su Instagram. Stabiliremo un percorso successivo - aggiunge - coinvolgendo studenti e insegnanti".
Estratto dell’articolo di Alessio Antonini per corriere.it giovedì 9 novembre 2023.
La professoressa Hanane Hammoud, docente di matematica alla media superiore internazionale di H-Farm in provincia Treviso, in un momento incontrollato di rabbia, ha postato sul suo profilo Instagram un video che mostra gli orrori della guerra tra Israele e Palestina corredato di una semplice frase: «Andate all’inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei». Il video postato tra le «stories» […] è rimasto on line per una manciata di minuti.
Lei per prima si è resa conto dei possibili effetti del suo post, ma, si sa, il web non perdona. Proprio in quel momento, una studentessa è capitata sul suo profilo Instagram, ha congelato il video e la frase con un banale «screenshot» e ha mostrato il contenuto del telefono ai genitori. Come da copione, la foto inneggiante a Hitler è velocemente rimbalzata sulle chat dei genitori degli altri studenti comprensibilmente preoccupati che quella frase fosse stata partorita dall’insegnante dei loro figli.
A sua discolpa, […] Hammoud ha raccontato ai dirigenti scolastici di vivere un momento di forte difficoltà psicologica per la drammatica situazione in Medio Oriente. La docente, nata in Libano […] ha un forte legame con il Paese d’origine e ha amici e conoscenti che in questo momento vivono in Palestina. Le giustificazioni fornite dalla docente però non dovrebbero metterla al riparo da un provvedimento disciplinare da parte di H-Farm che oggi potrebbe valutare anche la sospensione.
La scuola di Roncade infatti promuove da sempre modelli di inclusività, multiculturalità e si fa vanto della provenienza internazionale degli studenti e dei docenti. […] A rendere ancora più ingiustificabile il post della professoressa concorre anche il fatto che da quasi un mese, dopo l’inizio delle ostilità a Gaza, H Farm sta organizzando continui dibattiti sull’attualità incentrati proprio sulla comprensione della guerra per evitare banalizzazioni dettate da posizioni personali […]
Bufera sull'inviata Onu Francesca Albanese: "Finanziata da lobby palestinesi". La relatrice per i Territori palestinesi occupati criticata da un'Ong per il suo ultimo viaggio in Australia. "Ha violato il codice di condotta". Gianluca Lo Nostro il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.
Nuova bufera su Francesca Albanese. La relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 delle Nazioni Unite è stata accusata di aver violato il codice di condotta dell'Onu. A finire nel mirino dell'Ong Un Watch è stato l'ultimo viaggio in Australia della "esperta indipendente". "Il suo recente viaggio in Australia come relatrice speciale è stato finanziato da noti gruppi di pressione palestinesi in quel Paese, l'Associazione australiana degli Amici della Palestina e l'Australia Palestine Advocacy Network, oltre a Free Palestine Melbourne e Palestinian Christians in Australia", scrive il direttore esecutivo di Un Watch Hillel Neuer in una lettera rivolta al segretario generale Antonio Guterres.
Secondo il numero uno di Un Watch, Albanese avrebbe violato l'articolo 3 del codice di condotta previsto dalle procedure speciali del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a cui devono attenersi tutti gli esperti indipendenti di diritti umani che lavorano per l'organizzazione. Il primo comma dell'articolo in questione prescrive infatti di "agire in maniera indipendente", "liberi da qualsiasi tipo di influenza estranea, incitamento, pressione, minaccia o interferenza, diretta o indiretta, da parte di qualsiasi soggetto, sia esso parte in causa o meno, per qualsiasi motivo".
Neuer mette quindi in dubbio l'imparzialità di Albanese, incalzata per i presunti sponsor che avrebbero sostenuto questa trasferta della Relatrice. "La sponsorizzazione del viaggio della signora Albanese da parte dei lobbisti costituisce una forma di favore, dono o remunerazione palesemente vietata ai sensi dell'articolo 3", continua il documento che si conclude con una richiesta ufficiale, indirizzata direttamente a Guterres, di rimuovere l'inviata dal suo ruolo occupato da maggio 2022.
L'11 novembre scorso Francesca Albanese ha tenuto l'annuale discorso Edward Said Memorial Lecture ospitata dall'Australian Friends of Palestine Association ad Adelaide, mentre nei giorni successivi ha parlato per oltre un'ora al National Press Club, dove ha ribadito ancora una volta che le frasi attribuite ai leader politici e militari israeliani "svelerebbero l'intento genocida di spazzare via Gaza e i suoi abitanti".
Durante questo evento, inoltre, non sono mancate polemiche quando il giornalista Daniel Hurst del The Guardian ha chiesto alla Special Rapporteur Onu cosa intendeva dire quando ha accusato Israele di "dominio" e se il termine utilizzato non fosse un tropo. Albanese, evidentemente infastidita dalla domanda, lo ha invitato a leggere la convenzione sulla discriminazione razziale perché, a detta sua, nel caso israeliano si tratterebbe legalmente di un "regime di apartheid".
L'inviata dell'Onu fa il tifo per la Striscia. Il marito a libro paga dei leader palestinesi. Francesca Albanese, relatrice dei diritti umani nei Territori, spopola in tv come opinionista anti israeliana. Ma nasconde i suoi conflitti d'interesse. Francesco Giubilei il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.
Dall'inizio della guerra in Israele una nuova opinionista (molto amata dalla sinistra) spopola nelle televisioni nazionali, il suo nome è Francesca Albanese ed è «relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967» delle Nazioni Unite.
La Albanese si presenta come un «esperto indipendente» sulla situazione israelo-palestinese e, svolgendo un incarico per le Nazioni Unite, teoricamente dovrebbe avere posizioni equilibrate e super partes ma in realtà, ascoltando i suoi interventi, emerge una visione apertamente filo-palestinese e anti-israeliana. Per fare solo qualche esempio, pochi giorni fa dichiarava: «Israele occupa come una dittatura militare» e «la risposta militare non serve a niente», non proprio dichiarazioni imparziali. Infatti imparziale la Albanese non sembra esserlo come emerge da un report del 2022 di Unwatch intitolato emblematicamente «Mandate to discriminate». Unwatch è un'organizzazione non governativa che analizza e monitora l'attività delle Nazione Unite e ha scoperto una grave omissione nel modulo dei conflitti di interesse presentato dalla Albanese nella sua candidatura all'Un. A quanto si apprende non avrebbe infatti dichiarato che suo marito, Massimiliano Calì, ha lavorato per il ministero dell'economia dell'Autorità Nazionale Palestinese.
Come spiega il giornalista Antonino Monteleone su X: «Nel suo modulo di domanda all'Onu, a pagina 14, ad Albanese è stato chiesto se esistessero rapporti personali o finanziari che avrebbero potuto indurre la candidata a limitare la portata delle indagini, a limitare la divulgazione o a indebolire o distorcere in qualsiasi modo i risultati; su eventuali fattori che possano direttamente o indirettamente influenzare o comunque pregiudicare la capacità del candidato di agire in autonomia nell'adempimento del mandato; e a proposito di qualsiasi motivo, attuale o passato, che possa mettere in dubbio l'autorità morale e la credibilità del candidato. A tutti questi, lei ha risposto: No». Eppure il ruolo di suo marito Massimiliano Calì era tutt'altro che marginale svolgendo l'incarico di consigliere economico del ministero dell'Economia Nazionale dello Stato di Palestina a Ramallah. Proprio in questa veste, lavorando per il governo del presidente palestinese Mahmoud Abbas, il marito di Albanese ha scritto un rapporto intitolato: «I costi economici dell'occupazione israeliana per i territori palestinesi occupati».
Il report di Unwatch sottolinea come Francesca Albanese abbia preso una serie di posizioni pubbliche che «lascerebbero dubitare dell'assenza di pregiudizi nei confronti di Israele». Emblematica in tal senso una recente intervista al Palestine Chronicle in cui la collaboratrice delle Nazioni Unite ha attaccato l'esistenza di Israele sostenendo che lo Stato ebraico è «in violazione di lunga data dei principi fondamentali del diritto internazionale, iniziato 70 anni fa con lo spopolamento forzato di due terzi del territorio popolazione araba indigena in quello che divenne lo Stato di Israele nella Palestina sotto mandato britannico».
Alla luce di queste posizioni e soprattutto del conflitto di interessi non dichiarato è lecito chiedersi se sia giusto che Francesca Albanese continui a svolgere il suo incarico per le Nazioni Unite o se sia invece più opportuno che faccia un passo indietro.
Albanese, lady-Onu accusa Libero? Non solo il marito, ecco cosa spunta: ko tecnico. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano l'11 novembre 2023
La parola che Francesca Albanese usa di più nella sua autodifesa diffusa via Facebook è «fandonia». La relatrice speciale delle Nazioni Unite «sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967» - questo il nome dell’ufficio in nome del quale Albanese interviene in tv sulla crisi in Medio Oriente, con relativo salto in avanti della sua popolarità - ieri ha sentito il bisogno di mettere qualche puntino sulle “i” a proposito della sua vicenda professionale.
Un passo indietro è necessario. Ieri questo giornale ha contribuito a sollevare il caso dell’inviata speciale del Palazzo di Vetro. Punto principale: le osservazioni sulla sua presunta parzialità sollevate da Un Watch, organizzazione non governativa che monitora proprio le mosse dell’Onu. E il ritratto che ne esce di Albanese non è lusinghiero, a partire da un particolare che la professionista avrebbe omesso di comunicare alle Nazioni Unite in sede di candidatura. Ovvero il fatto che suo marito, Massimiliano Calì, prima di entrare alla Banca Mondiale avrebbe lavorato con il ministero dell’economia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
DUE GIALLI
E qui si passa alle «fandonie a reti unificate» diffuse, secondo Albanese, da Libero e dagli altri giornali che stanno seguendo la vicenda. Nel suo lungo post su Facebook, la dottoressa si difende attaccando. Forse troppo, come vedremo. Tant’è. Punto primo: per lei Un Watch è un organismo «noto come dileggiatore di qualsiasi voce critica delle politiche di Israele nel territorio palestinese occupato». Parziale, casomai, sarà lui. E pazienza se Un Watch è l’unica Ong che vanta il diritto di parola all’assemblea generale dell’Onu.
Punto secondo: il marito. Qui la difesa si articola a sua volta in due parti. Nella prima, Albanese usa l’arma dell’emancipazione femminile: «Siamo nel XXI secolo. Non è più l’era in cui le donne rispondono del lavoro degli uomini. Il patriarcato è roba del passato, no?». Nella seconda parte, però, l’inviata Onu scende nello specifico: «Mio marito non è mai stato assunto o pagato dall’Autorità palestinese. MAI. Nel 2011, quando vivevamo a Gerusalemme, ha fatto una consulenza per l’Onu nel territorio palestinese occupato, il cui ruolo prevedeva il rafforzamento di capacità del ministero dell’Economia palestinese».
Come nota su X, l’ex Twitter, il giornalista Antonino Monteleone, l’inviato delle Iene che ha sollevato il caso, la formula che lo stesso Calì usa riguardo se stesso è «molto diversa». Nel blog della Banca Mondiale di cui è funzionario, ripercorrendo le sue passate esperienze lavorative, il marito di Albanese cita il suo precedente incarico con queste parole (tradotte dall’inglese): «Ha servito come consigliere economico del Ministero palestinese dell’Economia nazionale». Poi c’è il caso dell’abilitazione professionale di Albanese.
Su Facebook, la donna fa mea culpa: «Nel divincolarmi da insulti e protervie, ho usato il termine “avvocato” («faccio l’avvocato», ndr) durante l’incontro (traducendo, da mente che ormai pensa in inglese, il termine “advocate”). Non sono iscritta all’albo degli avvocati in Italia». E pubblica un link che rimanda al suo curriculum (dove, curiosità, la prima esperienza lavorativa come supporto legale è presso la Cgil). Ma anche qui qualcosa stona, secondo Monteleone: nelle 15 pagine con le quali Albanese si candida all’incarico Onu, l’esperto indipendente per tre volte si definisce «lawyer». Ovvero «avvocato» (proprio come detto in tv). Monteleone, in un tweet, pubblica il documento e chiede lumi sulla contraddizione. Per tutta risposta la donna minaccia di portarlo in tribunale («tu te la vedrai con i miei legali») mostrando la foto della sua compiuta pratica forense ad Ariano Irpino.
DUELLO SUI SOCIAL
Caso chiuso? Tutt’altro. Intanto perché il post di risposta ai dubbi di Monteleone risulta cancellato, e poi perché il giornalista delle Iene rilancia: « Al termine della pratica ha fatto l’esame? L’ha superato?». Inizia il botta e risposta. Albanese, su X, comunica di aver «concluso la pratica legale il 30/12/04». Monteleone la incalza di nuovo: «Scusi dottoressa giusto per completezza: ha per caso conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense?». «Possiamo tornare a occuparci dei massacri a Gaza?», quasi implora l’inviata Onu. Ma pure qui un guaio tira l’altro. Su X, infatti, spunta un video nel quale Hillel Neuer, direttore di Un Watch, in un’audizione davanti al Congresso americano accusa Albanese di essersi riferita con queste parole ad Hamas nel novembre 2022: «Avete il diritto di resistere».
Fancesca Albanese, chi è la piccola Boldrini che imperversa in tv. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 15 ottobre 2023
Dopo Orsini, Francesca Albanese. Si affolla di strani personaggi il parterre televisivo: sono quelli che dalle loro bizzarre opinioni vorrebbero far dipendere la lettura dei fatti del mondo, ma il loro destino è solo di provocare fastidi nelle persone serie dotate di buonsenso. Riassunto delle puntate precedenti: all’Aria che Tira, condotta da David Parenzo, e poi dalla Gruber, a Ottoemezzo col nostro direttore Mario Sechi, la signora Albanese, relatrice-dell’Onu-presso-i-territori-occupati (giuro!), ne ha sparate davvero assai sul conflitto che coinvolge Israele dal momento in cui Hamas è passato all’azione in modo orribile.
Forse non serviva assistere alle sue performance in tv. Bastava Twitter, o X come l’ha ribattezzata Elon Musk. Un suo tweet da brividi a poche ore dai 5mila razzi del 7 ottobre: «La violenza di oggi deve essere contestualizzata. Quasi sessant’anni di governo militare ostile su un’intera popolazione civile (incomprensibilmente ignorato da troppe dichiarazioni ufficiali e mezzi di informazione) sono di per sé un’aggressione e la ricetta per una maggiore insicurezza per tutti». Con aggiunta televisiva sul diritto internazionale a cui dovrebbe attenersi lo Stato ebraico. Magari gliela fa lei una lezione sul tema a quelli di Hamas? Che cosa vuole contestualizzare questa Boldrini in miniatura? La democrazia che in Israele c’è e nella striscia di Gaza no? Lo sala “relatrice” che a Tel Aviv puoi contestare il premier e che se invece protesti “nei territori occupati” Hamas non ti processa e ti mette direttamente al muro?
Vuole sapere come sono fatti i suoi sostenitori, signora Albanese? Vada sui social, legga i commenti, guardi che dicono, ad esempio, di David Parenzo, che pure l’ha ospitata in tv: «Parenzo stesso che in quanto ebreo, sul tema va preso con le pinze». Complimenti. A questo signore manda lei un biglietto di ringraziamento? È talmente partigiana, la “relatrice dell’Onu” che Fiamma Nirenstein ha detto in tv che con l’Albanese non vuole condividere neppure «l’aria che respiro», lei è «un’odiatrice degli ebrei e di Israele». Azz, pure la Nirenstein è ebrea, non può parlare ve’?
Ma il meglio di sé Francesca Albanese l’ha messo in mostra proprio dalla Gruber. Dove scuoteva la testa – e si permetteva sorrisini imbarazzanti nel parlare di una tragedia - quando Sechi ricordava che Hamas non è un esercito regolare ma una banda di terroristi criminali e che non si può equiparare ad uno Stato come Israele. E che è «inaccettabile la pretesa che Israele sventoli bandiera bianca». Ma l’Onu ha una rappresentante per la quale difendersi dal terrorismo è il reato vero e proprio.
Perché secondo la Albanese lo Stato ebraico dovrebbe evitare ogni azione militare a Gaza, «ritirare l’occupazione, interrompere la colonizzazione e smettere di tenere sotto pressione cinque milioni di persone». Prego, si accomodino. Persino Lilli Gruber è stata costretta a ricordarle che parliamo della reazione a un attacco terroristico. La relatrice Onu come un carro armato: si tratta di «gravi crimini di guerra che vanno giudicati ma la risposta militare non serve a niente». Un processo, forse? Con toghe arabe? E insiste: «Serve una soluzione politica» ecco, come non averci pensato. E fa la rappresentante dell’Onu... Domanda alle Nazioni unite: ma questa signora bisogna tenersela per forza? La questione è stata posta anche da noi italiani, col presidente della commissione Esteri del Senato, Giulio Terzi di Sant’Agata (Fdi), che ha chiesto al ministro Tajani di sollecitare le Nazioni unite perla nomina di un diverso relatore, imparziale e obiettivo. Stavamo dimenticando: è bastato nominare la proposta di sostituzione della Albanese all’Onu che è subito partito il primo appello. Immancabile. Con le solite associazioni, i soliti parlamentari, i soliti professori. E ovviamente Laura Boldrini. Tutto torna. La Albanese è una Boldrini piccola piccola.
Il Belgio incendia il fronte europeo. "Ora boicottaggio contro Israele". La ministra Gennez propone di mettere al bando i prodotti di Tel Aviv. Francesco De Remigis l'8 Novembre 2023 su Il Giornale.
Finché erano l'Iran e il leader del Partito di Dio libanese Nasrallah a chiedere il boicottaggio globale di Israele era un film già visto. Ma a riprova del fatto che la crisi provocata da Hamas a Gaza gioca una sua partita pure in Europa (e che certi inviti a isolare Tel Aviv rischiano di attecchire non solo nell'opinione pubblica ma anche nei decisori) è arrivata la presa di posizione della ministra belga della Cooperazione allo sviluppo, Caroline Gennez (nella foto).
In tv domenica ha lanciato un appello ai colleghi europei, suggerendo ai 27 di vietare l'importazione di prodotti israeliani per indebolire un intero Stato attaccato barbaramente un mese fa e oggi alle prese con l'opzione militare per distruggere Hamas e riprendersi gli ostaggi. Nello studio di VTM Nieuws, la socialista ha ipotizzato sanzioni come quelle che l'Ue ha votato nel corso degli anni per «Stati canaglia», organizzazioni e persone fisiche vicine a paria dell'ordine internazionale; il caso Russia è solo il più recente. Un pezzo di governo belga ha iniziato a contare i prodotti made in Israel sugli scaffali dei supermercati, mettendoli su un piatto della bilancia e sull'altro il vantaggio di tener buone le piazze arabe e le Molenbeek del Paese dando loro un segnale di abbandono dell'unica democrazia compiuta del Medio Oriente. Nasrallah si era rivolto ai Paesi arabi per iniziare il pressing sulla fetta di popolazione musulmana che è parte integrante del tessuto sociale ed economico del Vecchio continente. D'altronde in Europa una campagna di boicottaggio coordinata dalla Rete BDS è attiva dal 2005. Israele la denuncia da tempo come minaccia esistenziale e le aveva fatto perdere smalto. Ma ora è una ministra a prendere in mano quegli stessi argomenti, rilanciati da chi oggi sventola in sit-in cartelli pro-Hamas chiedendo di boicottare Tel Aviv.
Una sottile gara Ue dai contorni antisemiti complessi da definire giuridicamente. Dal cambio nome di una città chiesto in Francia da pezzi di sinistra estrema (Villejuif sarebbe «un insulto al popolo palestinese») alle scuole (l'asilo tedesco che non vuol più chiamarsi «Anne Frank»). Ora l'attacco ai beni alimentari. Frutta e spezie. Fiori, vino, preziosi e Sodastream, il marchio che produce dispositivi per la gasatura delle bevande. Germania e Francia si sono schierate contro queste pratiche denigratorie. Ma in passato hanno dovuto smettere di denunciare chi inneggiava al boicottaggio di prodotti israeliani perché una sentenza della Corte Ue dei diritti dell'Uomo, in nome della libertà di espressione, bocciò nel 2020 quelle condanne penali. Se la strada del boicottaggio belga è quasi impraticabile sul piano comunitario, è un segnale di quanto sia divisa l'Ue sulla crisi. Il tutto mentre il parlamento turco ha già deciso la messa al bando di aziende israeliane del settore alimentare, igienico e tessile.
Le contraddizioni di Fiorella Mannoia. Like e post condivisi di continuo in favore della Palestina: Fiorella Mannoia schierata nel conflitto in Medio Oriente dimentica i bambini di Israele. Francesca Galici il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
Fiorella Mannoia su X si definisce cantante-parlante ma, forse, è giunto il momento di cambiare bio: cantante-militante è una descrizione più appropriata per la rossa, di capelli e di intenti, interprete di alcune delle più belle canzoni del repertorio musicale italiano. Non che sia una novità, visto che anche questo tratto del suo essere ha contribuito al suo successo, ma da quando di è riacutizzato il conflitto tra Israele e Palestina, la nostra ha risvegliato quel mai sopito senso di ribellione sinistra. Una cosa va detta: di artisti che in questo momento si stanno schierando in questo conflitto ce ne sono pochi. E meno male, si potrebbe aggiungere, visto che non si tratta di una partita di pallone. Ma Mannoia ha deciso di fare il paio con Zoro e con pochi altri, condividendo e mettendo like a tutto spiano senza timore di schierarsi: di questo le va dato atto, almeno non si nasconde e porta avanti coerentemente le sue idee.
Le argomentazioni che piacciono alla cantate sono diverse, ma inevitabilmente a senso unico. Non che stupisca, ovviamente, ma vedere sulla bacheca di Mannoia il retweet e il like a un post secondo il quale questa è "la guerra di Israele contro i bambini" fa un certo effetto. Che nessuno mai neghi che nei bombardamenti di Israele nella Striscia di Gaza stiano morendo i civili, e che anche un solo innocente che perde la vita è un innocente di troppo, ma se poi si condivide il post di Selvaggia Lucarelli in cui si stigmatizza la "disonestà intellettuale", allora si entra in un cortocircuito. Hamas ha usato i civili, insieme ai miliziani, per i suoi assalti ai kibbutz e al rave party del 7 ottobre, e continua a usarli come scudi umani contro i razzi di Israele. Ma chi "tifa" Palestina questo lo dimentica.
Continuando a scorrere la bacheca dei mi piace di Fiorella Mannoia si trova anche il "mi piace" a un post in cui si dice che "tutti i bambini sono nostri figli": vero, verissimo. Ogni bambino ha il diritto di vivere, di crescere e di scoprire il mondo facendo ogni errore che gli venga consentito. Anche i bambini israeliani che sono stati barbaramente uccisi e rapiti il 7 ottobre ne avevano diritto, però. Anche quelli erano nostri figli, anche quelli che ora sono nelle mani di Hamas e vengono usati per scoraggiare gli attacchi di Israele contro i terroristi sono nostri figli. Quelli che vengono ritratti nei manifesti "kidnapped" in giro per il mondo, che vengono strappati dai sostenitori della Palestina, sono nostri figli.
Ecco, è bene non dimenticare mai le atrocità che hanno portato agli assalti di queste settimane: e se davvero Mannoia crede davvero che tutti i bambini siano nostri figli, allora inserisca nel suo flusso social anche le immagini di quegli altri. Lei come chiunque oggi riempie la sua bacheca con appelli pseudo-pacifisti che vorrebbero essere spacciati come commenti superiori ma sono alla stregua della tifoseria da stadio. Francesca Galici
"Palestina libera", "Resistere senza compromessi". Scritte choc (in italiano) sui muri di Betlemme. Le incitazioni alla guerriglia portano la firma del movimento anarchico nostrano. Le Ong locali: "Qui gli adolescenti sognano di diventare combattenti di Hamas". Fausto Biloslavo il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.
Il bambino che non avrà più di dieci anni sventola la bandiera palestinese e indossa una maglietta bianca che va di moda con stampato un mitra sulla schiena. Il corteo di protesta per gli ultimi morti in combattimento con gli israeliani sfila ad Abu Dis, un passo dal muro di separazione con Gerusalemme presidiato dai soldati con la stella di Davide. «In un sondaggio nelle scuole, fra gli adolescenti, abbiamo scoperto che la stragrande maggioranza vuole diventare un leone, un combattente della resistenza palestinese e soprattutto un ingegnere dei razzi di Hamas», rivela la responsabile di una ong locale, che per sicurezza ci prega di non scrivere il suo nome.
I territori palestinesi in Cisgiordania vivono in un clima di alta tensione dopo l'attacco a Gaza. E attorno al campo a Betlemme, oramai diventato quartiere, campeggiano una serie di scritte con lo spray in italiano a cominciare da «Palestina libera» per poi continuare con slogan firmati dalla A dell'anarchia.
L'ingresso del campo Aida, sorto nel 1951, è sovrastato da un'enorme chiave delle serrature di una volta, che simboleggia la volontà di tornare a casa nei territori considerati occupati da Israele. Un manifesto in italiano, che attira l'attenzione, raffigura un miliziano palestinese accovacciato con l'arma in pugno. E sopra c'è scritto: «Resistenza senza compromesso fino al ritorno». All'esterno, con lo spray rosso, il primo slogan è «Palestina libera». La firma è una stella a cinque punte e «Napoli». Il capoluogo partenopeo è una delle roccaforti delle proteste filo-palestinesi in Italia. Ieri un gruppo studenti ha occupato l'università Orientale esponendo dal balcone uno striscione a sostegno della Palestina «fino alla vittoria».
La lunga sequenza di scritte continua, ma con lo spray nero. «No al sionismo, libertà a tutti i prigionieri» si riferisce sicuramente ai detenuti palestinesi in Israele, ma probabilmente anche agli antagonisti sotto processo o dietro le sbarre in Italia.
Il simbolo anarchico firma altri slogan come «qui ed ora è un qualsiasi luogo, in un qualsiasi momento, solidarietà con chi si ribella». E spuntano pure quattro nomi, Claudio, Nicco, Mattia e Chiara che saranno venuti dall'Italia a portare solidarietà ai palestinesi. E ancora gli anarchici nostrani scrivono sul muro vicino al campo-quartiere: «Le vostre prigioni non fermeranno la solidarietà internazionale».
Oltre ai filo-palestinesi di Napoli devono avere visitato questi territorio i militanti torinesi del centro sociale Askatasuna. Nel capoluogo piemontese sono sfilati dal 14 ottobre alcuni cortei anti-israeliani per chiedere un cessate il fuoco a Gaza.
La scritta più grande è la famosa «Restiamo umani», il moto di Vittorio Arrigoni l'attivista italiano con la pipa che viveva a Gaza per aiutare la causa palestinese. Purtroppo nel 2011 è stato rapito e ucciso da una cellula jihadista nella striscia.
Nei campi trasformati in quartieri dei palestinesi campeggia anche la foto di Hugo Chavez il defunto caudillo di sinistra venezuelano. A Betlemme sono forti le fazioni della sinistra palestinese, alcune nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. I responsabili, con i capelli bianchi e parecchi anni di carcere sulle spalle, confermano «Gli ottimi rapporti con l'Italia e alcune organizzazioni che sposano la nostra causa. Abbiamo visto le manifestazioni nelle grandi città del vostro paese contro il governo che è dalla parte degli occupanti», ovvero Israele.
Le radici del caos. Russia, Iran, Hamas e le conseguenze della politica estera di Obama. Christian Rocca su L'Inkiesta il 6 Novembre 2023
Sono trascorsi quindici anni dalla storica elezione del 44esimo presidente degli Stati Uniti. Ancora oggi, è uno dei pochi che preferisce ragionare anziché parlare per slogan, ma la sua formidabile e irresistibile epopea non deve far dimenticare che la scelta strategica di fare da amministratore del declino americano è alla base della situazione che stiamo vivendo adesso
In quel simulacro di dibattito pubblico che sono le sequenze di tweet e di post e di storie sui social network, ieri è stato molto apprezzato l’intervento di Barack Obama su ciò che sta succedendo in Israele e nella società occidentale. L’ex presidente americano, con quel suo ormai desueto ma irresistibile argomentare problematico, ha detto parole di buon senso sulle responsabilità di entrambi i protagonisti del conflitto mediorientale, sulle nostre complicità e sull’inutilità, per non dire di peggio, della militanza social imperniata sul farisaico virtue signaling per cui ci si sente in dovere di segnalare pubblicamente la propria posizione sull’argomento in tendenza sui social.
Ascoltare la profondità e la complessità del pensiero di Obama è balsamo per cervelli ormai ridotti a ragionare per meme e cori da stadio, ma quindici anni esatti dopo la favolosa elezione del primo presidente nero degli Stati Uniti va detta qualcosina in più sul suo operato, in particolare sulla sua politica estera, perché gran parte del caos che stiamo vivendo adesso è il prodotto di scelte compiute durante i suoi due mandati alla Casa Bianca.
Premesso che se fossi stato un cittadino statunitense avrei votato Obama sia contro l’eroe americano John McCain nel 2008 sia contro uno statista sottovalutato come Mitt Romney nel 2012, il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti è stato uno dei peggiori leader del mondo libero della nostra epoca. Lo status di peggiore ovviamente nessuno potrà mai toglierlo a Donald Trump, il primo presidente anti americano della storia degli Stati Uniti, ma al di là dei modi da ciarlatano e da un’ambigua e non ancora spiegata complicità con Mosca, la politica estera di Trump per molti versi è stata in continuità con quella di Obama (l’eccezione è il Medioriente, ma ci torniamo).
Se Trump è stato isolazionista, nazionalista e impegnato a far saltare il reticolo di alleanze e istituzioni internazionali su cui si è basata la leadership americana dell’Occidente, Obama ha governato da elegante amministratore del declino americano, che non è una condizione oggettiva dettata dagli Dei all’America, ma una precisa scelta politica volta a rinunciare al ruolo di guida del mondo libero, rendendosi al massimo disponibile a guidarlo dal sedile posteriore («leading from behind»).
L’Amministrazione Obama è entrata in funzione dopo la débâcle politica, più che militare, irachena orchestrata da George W. Bush e da una maggioranza bipartisan dopo le stragi islamiste dell’11 settembre 2001. Per allontanarsi da quello schema, Obama si è fatto guidare dall’idea del disimpegno americano, non solo da quel preciso quadrante geopolitico, ma anche da quello più tradizionale europeo e mediorientale.
Obama ha scelto di fare perno sull’Asia («pivot to East Asia») per motivi geopolitici ed economici, ma anche per le ragioni anagrafiche e culturali di una nuova generazione di leader americani, democratici e repubblicani, cresciuta senza quel legame familiare e storico con il vecchio continente europeo forgiato nelle battaglie contro i totalitarismi del Novecento. Il mondo dei cold war warriors sembrava finito ai tempi di Obama, da archiviare, e si credeva illusoriamente che non ci fosse più bisogno di un poliziotto del mondo.
Così Obama ha ridotto il numero dei soldati nelle basi americane in Europa, ha fermato il progetto di scudo missilistico europeo in Polonia e Repubblica Ceca che avrebbe tenuto a bada l’Iran e la Russia, ha abbandonato la Georgia alle grinfie di Mosca non accorgendosi del progetto imperialista di Putin, non ha mosso un dito quando la Russia ha invaso anche la Crimea e il Donbas, ha sottovalutato la nascita e la penetrazione dell’Isis nelle aree abbandonate dal ritiro dell’esercito americano, ha guidato dal sedile posteriore l’intervento militare in Libia e, non intervenendo nemmeno di fronte alle stragi con le armi chimiche, ha consegnato la Siria alla Russia non curandosi delle atrocità commesse da Assad e da Putin, del dramma delle migrazioni in Europa e delle conseguenze populiste e autoritarie che si sarebbero create nei paesi democratici suoi alleati.
Obama, anzi, ha promosso l’idea di un «reset» con la Russia, condonando la strategia imperialista putiniana e di diffusione del caos in Occidente, e soprattutto facendo credere al dittatore di Mosca che le democrazie liberali, deboli e divise al loro interno, non avrebbero mai più avuto la forza morale, civile e militare di affrontare altri conflitti.
La gestione a Washington del declino americano è stata interpretata a Mosca come una resa americana. Tanto più che la Casa Bianca, malgrado ne fosse pienamente al corrente, non ha fatto niente, ma proprio niente, per fermare l’ingerenza russa sul processo democratico americano, lasciandola inquinare fino a far eleggere Trump.
Obama, infine, ha spostato l’asse geopolitico mediorientale dall’Arabia Saudita sunnita all’Iran degli Ayatollah sciiti, con la conseguenza che il regime islamico di Teheran ha ripreso a respirare economicamente, a lavorare alla costruzione di un arsenale atomico, a opprimere la popolazione civile e a riannodare il filo della campagna islamica per la distruzione di Israele (ieri, a proposito, la Guida Suprema della teocrazia iraniana ha ricevuto a Teheran il gran capo di Hamas, e chissà che bell’incontro tra due anziani reazionari, misogini e assassini che vogliono estendere il loro regno delle tenebre ovunque nel mondo).
Fidandosi degli Ayatollah, Obama non solo ha offerto una carota ai nemici dell’Occidente e di Israele, ma ha anche bastonato gli alleati israeliani, i quali per reazione, e per timore di non essere più protetti da Washington, si sono radicalizzati come mai nella storia dello Stato ebraico, con i risultati visti in questi anni. (Trump, invece, nel 2017 ha rimesso nell’angolo l’Iran, consegnando la politica mediorientale ai sauditi chissà per quali interessi personali e lasciando via libera totale agli estremisti israeliani già radicalizzati da Obama).
Quindici anni dopo, le parole di John McCain sulla Georgia, sull’Isis e sull’Afganistan, e poi quelle di Mitt Romney sulla Russia «senza dubbio il nostro nemico geopolitico principale», ridicolizzate come retaggi della Guerra Fredda da Obama e dai suoi giovani consiglieri, risuonano come un’analisi geopolitica più accurata del mondo in cui vivevamo allora e oggi.
La storia ovviamente non si fa col senno di poi, ma non si può nemmeno sorvolare sul fatto che qualcuno che queste cose le ha puntualmente previste, avvertendo Obama e i suoi che il rischio sarebbe stato esattamente quello che stiamo vivendo oggi, sia ai confini orientali sia ai confini meridionali dell’Europa.
Jihadisti che sbagliano. Hamas non è solo una banda armata, definirli terroristi fa il gioco dei minimizzatori. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 6 Novembre 2023
L’immane tragedia di Gaza non può lasciare nessuno indifferente, e infatti non c’è piazza, giornale o talk show in cui qualcuno non chieda di fermare i bombardamenti. L’immane tragedia del 7 ottobre, invece, ha lasciato indifferenti quasi tutti
L’immane tragedia di Gaza non può lasciare nessuno indifferente, e infatti non c’è piazza, social network, giornale o talk show in cui qualcuno non chieda di fermare i bombardamenti israeliani e consentire almeno una tregua umanitaria. L’immane tragedia del 7 ottobre, invece, ha lasciato indifferenti quasi tutti: nel dibattito su quel che sta accadendo a Gaza questo aspetto, che poi ne sarebbe la causa scatenante, è da molti serenamente ignorato, già dimenticato, come se non fosse mai avvenuto, o peggio, considerato del tutto irrilevante.
Joe Biden, paragonando il 7 ottobre 2023 all’11 settembre 2001, ha invitato gli israeliani a non fare gli stessi errori degli americani, a non farsi cioè dominare dalla rabbia. Saggio consiglio, coerente con quel ruolo di moderazione e gestione politica del conflitto che gli Stati Uniti, in mezzo a tanti opposti fanatismi, stanno lodevolmente sforzandosi di svolgere.
Va anche detto che gli atroci massacri compiuti da Hamas in Israele sono forse l’11 settembre meno compianto e più rapidamente dimenticato della storia. Tante persone certo non avare di commenti sull’attualità, perlomeno sui social network, se ne sono occupate esclusivamente per puntualizzare il fatto che bambini e neonati israeliani fossero stati solo sgozzati e non decapitati, o ammazzati a colpi di mitra e dopo bruciati anziché arsi vivi, o addirittura per sostenere che la povera ragazza portata via su un pick up con le gambe spezzate da miliziani che le sputavano addosso e la esibivano come un trofeo, in realtà, fosse diretta al più vicino pronto soccorso.
Fior di intellettuali, giornalisti e fumettisti di sinistra trovano perfettamente ragionevole paragonare il bombardamento di Gaza da parte di Israele all’aggressione russa dell’Ucraina. La differenza, ovviamente, è che l’Ucraina non ha attaccato la Russia con tremila uomini che hanno ammazzato, torturato, stuprato e rapito donne, vecchi e bambini. Ma questa differenza, così ovvia, sono in tanti a non vederla, perché l’11 settembre israeliano, per un pezzo rilevante dell’opinione pubblica, è semplicemente invisibile. A questo è arrivato purtroppo il livello di desensibilizzazione per tutto ciò che colpisce Israele e gli israeliani, prodotto anche da una propaganda tossica, per usare un termine di moda, a cominciare dall’uso del tutto improprio del termine «genocidio», che fa il paio con tutte le accuse di «nazismo» rivolte agli israeliani, dietro le quali dovrebbe risultare evidente il sadico spirito di rivalsa rispetto alla tragedia dell’Olocausto.
Mi domando tuttavia se la diffusa tendenza alla rimozione o alla minimizzazione dei massacri del 7 ottobre non sia stata facilitata anche, paradossalmente, dall’insistenza con cui dal fronte opposto si sono voluti qualificare gli uomini di Hamas, e dunque anche i loro attacchi, come «terroristi». Facilitando così l’equiparazione di un atto di guerra effettuato per terra, per aria e per mare, con tremila uomini, con barche e parapendii a motore, con migliaia di missili, a un semplice attentato, all’opera di un qualunque gruppuscolo eversivo o di una qualsiasi banda criminale.
Temo che anche in questo modo si sia aperta la strada all’infinita serie di argomentazioni capziose e lezioncine ipocrite sul fatto che il terrorismo non si sconfigge così, che alle stragi mafiose mica abbiamo mai risposto bombardando Palermo, che con la violenza non si risolve nulla. Dove il sottinteso è che Israele, all’indomani di un attacco di quelle proporzioni, con un esercito asserragliato ai suoi confini dichiaratamente deciso a rifarlo ogni volta che gli sarà possibile, avrebbe dovuto rispondere inviando un avviso di garanzia al capo di Hamas, in attesa dell’attacco successivo.
Quei crimini di guerra e le accuse a senso unico. Storia di Roberto Fabbri su Il Giornale sabato 4 novembre 2023.
Che lo scontro (ormai chiaramente finale) tra Hamas e Israele si sarebbe manifestato come qualcosa di diverso dai ricorrenti conflitti attorno alla Striscia lo si era capito già nelle prime ore dello scorso 7 ottobre. Quel giorno Hamas non aveva condotto una «normale» azione militare, peraltro pianificata da tempo con i suoi mandanti iraniani, ma un vero e proprio pogrom su larga scala, un eccidio di civili scannati e abusati in ogni modo perversamente immaginabile solo in quanto ebrei.
Era inevitabile e certamente messo in conto dai suoi perpetratori che tale scatenamento di brutalità avrebbe avuto come conseguenza una reazione durissima da parte di Israele, messo di fronte a una sfida alla propria stessa sopravvivenza. E quando i conflitti assumono questo significato escatologico, questo «o noi o loro», sono i civili specialmente se usati come scudi umani - a pagare il più ingiusto prezzo. Discende da qui la minacciata ricaduta legale cui stiamo assistendo in queste ore. Accuse reciproche di crimini di guerra, chiamate in causa della Corte Penale Internazionale. Da parte israeliana l'hanno fatto rivolgendosi a un celebre avvocato francese diverse famiglie di vittime dell'attacco di Hamas: chiedono che nei confronti dei capi dell'organizzazione fondamentalista islamica sia spiccato un mandato di arresto internazionale per chiamarli a rispondere in tribunale «dell'esecuzione di un dichiarato progetto di genocidio», da loro stessi «mai smentito e anzi ampiamente diffuso e documentato».
Dall'altra parte, si sono esposti il presidente turco Erdogan (quello che aveva difeso come «liberatori della Palestina» i macellai di Hamas) e il ministro degli Esteri giordano Safadi, accusando Israele di commettere a Gaza crimini di guerra, bombardando e assediando civili. «Preoccupazioni» simili erano arrivate mercoledì scorso anche dall'ufficio dell'Onu per i diritti umani (Ohchr), e considerato che dall'altro ieri il Forum sociale del Consiglio dell'Onu per i diritti umani è presieduto da un iraniano, sorgono i peggiori pensieri sull'obiettività e utilità di certe istituzioni.
Mendelsohn: «Il doppio standard della sinistra globale che si rifiuta di condannare i crimini di Hamas». Storia di Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.
Daniel Mendelsohn ha scritto uno dei libri più belli sulle generazioni perdute dell’Olocausto, quel «Gli scomparsi» (Einaudi) in cui ricostruisce i frammenti di una storia familiare che è la Storia della più grande tragedia del Novecento, è un classicista, traduttore di Omero, professore al Bard college di New York, e qualche giorno fa ha firmato (assieme a intellettuali, scrittori e storici come Michael Walzer, David Grossman, Simon Sebag-Montefiore) «A call for Empathy», un appello diretto a quella grossa fetta della sinistra globale che si è mostrata incapace di solidarietà nei confronti degli israeliani per l’attacco del 7 ottobre. «Raramente partecipo a iniziative simili — ci dice collegandosi su Zoom —, ma l’azione di Hamas è stata tremenda, penso sia stata concepita apposta per evocare ricordi dell’Olocausto e dei pogrom. Quelle storie di torture sono simili alle storie che ho ascoltato durante la mia infanzia».
Daniel Mendelsohn Perché così poca empatia? «C’è questo doppio standard che trovo scioccante: ci viene sempre ricordato che i palestinesi non sono Hamas. E ovviamente non lo sono. Eppure, quando gli innocenti israeliani vengono stuprati, uccisi, decapitati, la reazione è: be’, certo, cosa vi aspettavate? Come se queste persone fossero in qualche modo uguali al loro governo, che, come sappiamo, da anni agisce in modo molto provocatorio nei confronti del problema palestinese. Mi sconvolge, in particolare tra l’intellighènzia e gli accademici, il rifiuto di riconoscere che ciò che è stato fatto il 7 ottobre è un atto selvaggio, bestiale e criminale contro la popolazione civile, contro persone che non sono responsabili delle azioni del loro governo più di quanto lo fossi io per Trump. È un rifiuto che tradisce antisemitismo. Voglio essere chiaro: non ho alcun problema con le persone che protestano contro la risposta del governo israeliano al 7 ottobre, che sta causando la morte di migliaia di palestinesi. Ma se la protesta prende la forma di attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo, attacchi contro le proprietà degli ebrei, allora non è che antisemitismo».
Il vostro appello era diretto in particolare alla «sinistra globale». «Sì perché la sinistra intellettuale, da molti anni a questa parte, affidandosi a Marx, ma anche a Foucault, inquadra tutto in termini di potere. Quindi Israele non può che essere cattivo perché è più potente, e i palestinesi non possono che essere buoni perché non hanno potere. Una grande intellettuale come Judith Butler è arrivata a descrivere Hamas come un movimento progressista. È completamente folle: lottano contro il potere, e quindi sono progressisti. E anche gli studenti vengono spesso «addestrati» a questi schemi, invece di essere spinti al pensiero critico. Israele è una potenza militare, ma per una ragione storica: è circondati da popoli che vogliono eliminare lo Stato ebraico».
Nei campus si accusa Israele di essere una forza imperialista-colonialista... «Sì, gli studenti ripetono che Israele è una potenza colonizzatrice, eppure le persone che sono state massacrate il 7 ottobre vivevano dentro i confini del 1948, stabiliti dall’Onu, non erano coloni della Cisgiordania, e Israele non è a Gaza da 18 anni. C’è tanta ignoranza, grandi proclami fatti senza conoscere la storia: se Israele è una potenza coloniale, allora tutti lo sono. Il modello del colonialismo è applicato ormai indiscriminatamente: Israele è una potenza coloniale come l’impero britannico era una potenza coloniale? Ovviamente no. Lo dico da persona di sinistra, è frustrante l’uso da parte dell’intellighenzia di sinistra di uno strumento così spuntato per quella che è forse la situazione più complessa e delicata della storia moderna».
Crede che i social, la velocità, la semplificazione che si portano dietro, impediscano qualunque possibilità di comprensione? «Purtroppo sì, siamo tutti in una echo chamber, tendiamo ad ascoltare solo chi la pensa come noi. Ci rapportiamo alle cose in modo infantile: mi piace, non mi piace, ignorando la complessità. Il risultato è che il discorso si è molto indurito, si è irrigidito, le persone prendono delle posizioni insensate. Non ho memoria di alcun evento che abbia innescato un dibattito così problematico e diffuso. Sento che tutti gli elementi sui quali abbiamo riflettuto a lungo — i difetti dei social media e dei media tradizionali — si stanno mettendo insieme nel modo peggiore possibile, e proprio su quella che già di suo è la più incendiaria situazione politica del presente. Una tempesta perfetta. E questo, per tornare alla sua domanda iniziale, è il motivo per cui ho pensato di voler firmare questa lettera. Vorrei un po’ di equilibrio, anzi neanche di equilibrio, ma di elasticità di pensiero: si possono avere due idee in testa allo stesso tempo».
Edith Bruck: «Sui migranti ho cambiato idea, non possiamo accogliere anche chi odia gli ebrei». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2023.
La scrittrice: «Certa sinistra per troppi anni è stata cieca. Devo ringraziare Meloni e Salvini per come difendono Israele»
Edith Bruck, scrittrice, poetessa e regista, 92 anni, sopravvissuta ad Auschwitz: lei ha cambiato idea sull’immigrazione, le sue dichiarazioni stanno aprendo un dibattito…
«Sì, è vero, ho cambiato idea dopo il massacro dei bambini a Kfar Aza. Per anni, in Italia, abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stessa dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso».
Perché, Bruck?
«Perché l’antisemitismo sta attraversando la Palestina e l’intero mondo arabo. Sono totalmente avvelenati non solo contro Israele ma contro tutti gli ebrei. Hanno imparato e copiato dal nazismo le espressioni più atroci. Dicono: stermineremo tutti gli ebrei, li annienteremo fino all’ultimo. Sono le stesse frasi, esprimono la stessa volontà. Quindi stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti».
Quindi secondo lei bisognerebbe fermare l’immigrazione? Però lei è stata sempre a favore dell’accoglienza.
«Lo so bene. Io non avevo alcun pregiudizio, ho sempre difeso i più deboli, chi fuggiva dalla fame e dalla guerra. Mi sono sempre schierata dalla loro parte. Però ora tutto è cambiato. Io stessa sono cambiata. Sì, sono cambiata. Quelle atroci immagini delle teste di bambini decapitati usate per giocare a calcio sono le stesse di Auschwitz. E ora, in mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo».
Perciò lei ha cambiato idea anche sulle posizioni della presidente Meloni e del ministro Salvini.
«Non avrei mai voluto dovermi augurare che Salvini sostenesse così le posizioni di Israele, parlando di modello di democrazia, l’unico in quell’area. E così fa Meloni. Dobbiamo ringraziarli per come difendono Israele: il mondo si è capovolto. Noi prima ce l’avevamo con loro due per come la pensavano sull’immigrazione. Oggi per me non è più così. Una certa sinistra per troppi anni è stata cieca, ha difeso le posizioni palestinesi come se fossero tutti santi. E quale è il risultato? Ci ritroviamo in casa veri e propri fascisti, neonazisti. Ma lo vedono cosa è accaduto ad Azzate, vicino Varese? Nel nome di Hamas c’è chi parla di svastica, di fascio littorio, di odio per gli ebrei e per Israele. L’ondata di antisemitismo sta attraversando l’Italia, anche l’Europa, si registra in tante parti del mondo. E poi la disumanità di Hamas mi ha riportato alla mente un’altra cosa…».
Quale?
«Dopo la Shoah si disse che occorreva cambiare il vocabolario per descrivere l’orrore. Oggi penso ci sia la stesso problema, dopo la strage dei bambini massacrati nel kibbutz. Nemmeno i barbari furono capaci di questo. Quali parole si possono usare?».
Alcuni intellettuali ebrei cominciano a pensare che, un domani, possano addirittura ripetersi le condizioni per una nuova Shoah. Lo ha detto per esempio la scrittrice Lia Levi a La Repubblica .
«No. Io non credo sia possibile. Per un fatto evidente a tutti. C’è Israele. C’è uno Stato libero e democratico molto forte. Quando nacque, gli ebrei erano pacifici, non erano pronti alla guerra. Ma sono stati costretti a diventarlo. Qualcuno disse che gli ebrei si lasciarono deportare dai nazisti come pecore. Oggi non sono pecore. L’ebreo è pronto a difendere Israele a tutti i costi: è pronto a farsi ammazzare e, se necessario, ad ammazzare. Questa è la grande novità per cui penso sia impossibile un’altra Shoah».
Lei per anni ha raccontato la sua tragica testimonianza di sopravvissuta ad Auschwitz nelle scuole. Pensa di aver aiutato i ragazzi a capire i pericoli dell’antisemitismo?
«Sono sicura di sì. Basta rileggere le lettere che mi mandavano dopo ogni mia visita. Oggi non posso più muovermi, purtroppo. Ma quelle lettere sono lì».
(Adnkronossabato 4 novembre 2023) - Cortei per la Palestina oggi a Roma e a Milano, con slogan che sono rimbalzati da una manifestazione all'altra. Nel capoluogo lombardo sono comparsi anche cartelli pro Hamas. A tenerli in mano, tre persone italiane. Sui manifesti, la scritta chiara:
"Con Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam e il popolo palestinese". Sotto, una firma: "Partito Marxista-Leninista italiano". Avvicinati da Adnkronos, i manifestanti hanno giustificato il loro sostegno al gruppo responsabile del sanguinoso attacco del 7 ottobre contro Israele: "Hamas rappresenta l'unica vera resistenza per la Palestina e anti-imperialista. Ecco perché siamo con loro
"Israele tirannia" in uno dei cori al corteo che ha sfilato per le strade meneghine ed è stato organizzato da 'Milano antifascista antirazzista meticcia e solidale'. Un nutrito gruppo di poliziotti e carabinieri, in tenuta antisommossa, ha seguito la manifestazione che si è conclusa senza momenti di tensione. Il corteo - a cui secondo la questura hanno partecipato oltre 4mila persone - è partito verso le 15.30 da Porta Venezia, in direzione centro città, fino a giungere alle 17.15 circa alla destinazione finale in piazza Missori.
Nel suo percorso a un certo punto si è fermato per un momento in via San Damiano. "Siamo vicini alla Prefettura di Milano", ha detto al microfono una manifestante. "E' qui che dobbiamo gridare ancora più forte Palestina libera. Il governo e lo stato sono complici di questo genocidio", ha ripetuto la ragazza. A interrompere i cori, i discorsi di alcuni organizzatori, ospitati all'interno di un furgone alla testa della sfilata. "Il colonialismo fa schifo. Anche la Nato e l'Italia sono colpevoli di quello che sta avvenendo", ha gridato al microfono un esponente.
"Il governo Meloni è complice di un genocidio", ha urlato una ragazza al microfono al corteo di Milano. "Dobbiamo bloccare l'esportazione delle armi, questo significa mobilitarsi per la pace", continua. "Ci diranno che siamo terroristi e contro l'Occidente, ma non abbiamo paura. Abbiamo un solo maestro: la Resistenza", ha concluso la giovane.
Il corteo di Roma
Anche nella Capitale ha sfilato un corteo pro-Palestina e anti militarista nella giornata in cui si celebra la festa delle Forze armate. Sul camion in testa alla manifestazione lo striscione 'organizziamo il boicottaggio di Israele'. Il corteo si è aperto con lo slogan 'Fuori l'Italia dalle guerre con la Palestina fino alla vittoria', firmato dal comitato Angelo Baracca e numerose bandiere della Palestina.
Alla manifestazione promossa da Potere al Popolo hanno partecipato sinistra radicale, movimenti studenteschi e comunità palestinese, Usb e movimenti di lotta per la casa. Circa 5mila, a quanto si apprende, i manifestanti nella Capitale. Il corteo è partito da piazza Vittorio per arrivare a Piazza San Giovanni, sfilando lento sotto la pioggia.
Tra i tanti striscioni in evidenza spicca quello con i volti del premier italiano Giorgia Meloni, del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, del presidente Israeliano Benjamin Netanyahu, del segretario generale della Nato Jens Stoltemberg e del presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen con la richiesta di "una nuova Norimberga per i crimini dell'Occidente in Palestina".
"Eroica risposta". Al corteo di Milano si inneggia al 7 ottobre di Hamas. IlGiornale.it è entrato in possesso di un volantino distribuito ai manifestanti durante il corteo per la Palestina del 4 novembre in cui si inneggia ad Hamas. Francesca Galici il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.
I sostenitori della causa palestinese che chiedono a gran voce il cessate il fuoco di Israele non condannano Hamas. Durante le prime fasi della nuova escalation armata tra Israele e Palestina in tanti si sono affaticati a scindere Hamas dai palestinesi. Oggi, invece, nelle piazze si esalta l'organizzazione terroristica che governa nella striscia di Gaza secondo la legge della Sharia. Ci siamo infiltrati nella piazza di Milano durante l'ennesima manifestazione e il pensiero comune era uno, espresso da una giovanissima ragazza musulmana: "Quelli di Hamas non sono terroristi, è la resistenza".
E ancora, al megafono, ecco che il concetto viene ribadito: "Ci chiedete di condannare Hamas ma voi che ne sapete?". E ancora, in chiusura di corteo: "Terrorista non è Hamas, sono gli israeliani. Sono assassini e terroristi, Hamas è per la Palestina". Questo il tenore del corteo di Milano, tra cartelli inneggianti Hamas e invocanti la distruzione di Israele, con l'immagine simbolo della stella di David buttata nel cestino comparsa anche nella manifestazione milanese. Confondendoci tra i manifestanti di Milano siamo anche riusciti a farci consegnare un volantino in doppia lingua, arabo e italiano, redatto dall'organizzazione comunista internazionalista, che sotto la falce e il martello appoggia "senza se e senza ma" la lotta di resistenza del popolo palestinese. O, meglio, appoggia l'azione del 7 ottobre di Hamas: "Con l'eroica e sacrosanta risposta messa in campo contro la politica di aggressione e di strisciante sterminio condotta da Israele in loco, il popolo palestinese è ancora una volta di esempio e incoraggiamento per le masse sfruttate di tutto il mondo".
Gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre durante la tregua tra Israele e Palestina vengono definiti "eroica e sacrosanta risposta", negando qualunque lettura terroristica dell'attacco. E ancora, gioiscono per quanto accaduto: "Dimostra che non esiste al mondo Stato oppressore che possa ritenersi al sicuro dalla reazione dei popoli oppressi".
Questo è il tenore dei manifestanti nella piazza di Milano, che solo gli ingenui possono ritenere pacifisti che chiedono solo una tregua umanitaria. La Palestina, la pace, non la vuole, spiegano i più. I comunisti usano questa situazione per la propria lotta e non sono un interlocutore attendibile in questo scenario. Ma il volantino che ci è stato consegnato è la cartina al tornasole degli umori di queste manifestazioni, tra inni per Hamas e invocazioni alla distruzione di Israele. "Milano è palestinese", hanno urlato oggi al megafono tra i cori in italiano e in arabo, in un clima che preoccupa e fa sorgere numerosi interrogativi.
Cartelli pro-Hamas, la vergogna al corteo di Milano. E Salvini: "Ultimi Fascisti". Centro blindato a Milano per la doppia manifestazione di oggi: da una parte il corteo pro-Palestina, dall'altra il presidio della Lega a favore di Israele. Francesca Galici il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.
Cartelli pro Hamas al corteo di Milano. A tenerli in mano, un gruppo di tre persone italiane. Sui manifesti si legge chiaramente "Con Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam e il popolo palestinese". Sotto, una firma: "Partito Marxista-Leninista italiano". Avvicinati da Adnkronos, i manifestanti hanno così giustificato il loro sostegno al gruppo: "Hamas rappresenta l'unica vera resistenza per la Palestina e anti-imperialista. Ecco perché siamo con loro". Durante il corteo partito da Porta Venezia, insieme ai fumogeni che sono stati accesi durante il corteo, sono stati intonati cori choc. "Hamas è resistenza, non sono terroristi”, ha urlato una manifestante. Numerose le bandiere palestinesi e cori come "Palestina libera" o "Israele fascista, Stato terrorista". Alla manifestazione anche bandiere come quella di Sinistra Italiana, Unione Popolare e 'No Cpr'. Tra gli striscioni più vistosi, ce n'è uno che raffigura una grossa bandiera della Palestina con la scritta "restiamo umani". In apertura del corteo, invece, "Niente da festeggiare, stop war racism. Cease fire now".
Cori al corteo pro Palestina: "Meloni assassina"
"Milano non può ospitare i fascisti. Bloccare il criminale in piazza Cairoli", hanno urlato prima della partenza al megafono le organizzazioni dietro la protesta, riferendosi a Matteo Salvini e alla Lega in presidio. Non sono mancati i soliti insulti contro Indro Montanelli, nel momento del passaggio davanti al parco a lui intitolato.Il vicepremier è stato definito anche "criminale" dagli stessi. Immancabile il cartello con la stella di David nel cestino, simbolo di odio nei confronti di Israele. La maggior parte dei presenti in piazza è araba o di origine. Molte sono donne, le più agguerrite, che urlano slogan contro Israele. "Ci chiedete di condannare Hamas ma voi che ne sapete", dicono al megafono, urlando i soliti slogan contro Israele in italiano e in arabo. "A morte i sionisti", si sente dire nel mezzo della manifestazione. Sventolano le bandiere comuniste, antifasciste, oltre a quelle della Palestina. "Meloni assassina", è l'urlo che si alza davanti alla prefettura di Milano. Sventolano le bandiere con la falce e il martello insieme a quelle della Palestina. "Israele fascista, Stato terrorista", scandiscono in piazza, mentre da un'altra parte si inneggia alla "vittoria per Gaza" e quindi per Hamas. Non ci sono condanne per il gruppo terroristico, si grida, anzi, all'auto determinazione dello Stato. "Israele non esiste", ci dice una manifestante di origine araba tra uno slogan e un altro. Ci sono anche i bambini a inneggiare alla vittoria di Gaza, Gridano il loro odio per Israele fomentati dai genitori. Sono tanti i giovanissimi, quelli che la sinistra chiama italiani di seconda generazione, ma che di italiano non hanno nulla, come dimostrano in piazza. Promettono "guerra ai giornalisti", li sfidano a scrivere contro di loro. Si sentono onnipotenti con le loro kefieh che, spesso, ne travisano completamente l'aspetto. "I giornalisti sono tutti fascisti, vinceremo noi", dice una ragazza con uno spiccato alito alcolico.
Sfila il corteo dell'odio e spunta il cartello pro Hamas. Manifestazione nel centro della città con 4mila persone e nelle retrovie si esaltano le "Brigate Al Qassam". Cristina Bassi il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.
È la coda del corteo milanese pro Palestina la parte più estremista. Ed è qui che sfila il cartello che inneggia ai terroristi di Hamas. La scritta: «Con Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam e il popolo palestinese per la liberazione della Palestina». Il manifesto è del partito marxista-leninista italiano, i cui militanti sono scesi in piazza ieri pomeriggio in sostegno a Gaza accanto ai rappresentanti della comunità palestinese cittadina e ai centri sociali. «Sono idioti, ci dissociamo da quel cartello. Lo facciamo noi, Milano antifascista e tutte le sigle, anche palestinesi, che hanno partecipato al corteo», ha poi commentato con l'Adnkronos Valter Boscarello, portavoce di «Milano antifascista, antirazzista, meticcia e solidale» e organizzatore della giornata.
I manifestanti erano circa 4mila, secondo le stime della Questura. Il corteo, sempre scortato da un massiccio dispositivo di forze dell'ordine e controllato dalla Digos, si è svolto senza particolari tensioni. Nessuna forzatura del percorso prestabilito, da Porta Venezia a piazza Missori, e nessun contatto con l'altra manifestazione (statica) di ieri, quella in contemporanea dei leghisti per l'Occidente e per Israele, che comunque si svolgeva a debita distanza, in largo Cairoli. Naturalmente però dagli altoparlanti della testa del corteo «contro razzismo e colonialismo» si mandano messaggi al «fascista Salvini» e si chiede di nuovo di cambiare nome ai Giardini intitolati a Indro Montanelli, odiato dagli antagonisti perché considerato simbolo di «imperialismo». Sfilano bandiere palestinesi, della pace e dei comunisti. Gli slogan scanditi invocano «Palestina libera», chiedono di «fermare l'olocausto del popolo palestinese», condannano «Israele criminale» e «Stato terrorista», accusano di «genocidio» Tel Aviv e il governo italiano. Sempre in mezzo al gruppo più fanatico c'è chi espone un cartello che accosta il simbolo di Israele con quello dei nazisti.
"Non si può inneggiare alla violenza. L'apologia di terrorismo è un reato". L'avvocato presidente di "Italia Stato di diritto" mette in guardia: "Ci sono limiti precisi, l'hate speech è grave e può essere punito". Alberto Giannoni il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.
Libertà non vuol dire impunità. Anche in piazza. «Ci sono limiti e paletti ben precisi» spiega Guido Camera, avvocato penalista e presidente di «Italia Stato di diritto», associazione di giuristi che si batte per i diritti umani e civili.
Avvocato, neanche in democrazia, quindi, si può dire tutto quello che si vuole.
«Assolutamente no, e lo ha detto chiaramente la Corte costituzionale nel 2021, spiegando che discorsi d'odio, discriminatori e fake news sono un fatto grave, non inammissibile. Partiamo da una premessa necessaria».
Quale?
«Cosa è terrorismo? Anche Biden l'ha spiegato bene. Hamas è di sicuro un'organizzazione terroristica, che si è resa responsabile di atti gravissimi capaci di destabilizzare l'ordine mondiale attentando alla stabilità di uno Stato sovrano, Israele. Ci sono sentenze sul Daesh, e sull'Isis. Dunque, tutte le esternazioni volte a rafforzare Hamas sono apologia di terrorismo, reato previsto dal codice penale. Esiste poi un profilo di pericolosità sociale, per cui restrizioni alla libertà possono essere previste a prescindere dai reati in presenza di certi elementi di pericolosità sociale».
E chi dichiara che Hamas è «resistenza»?
«Per me è una scempiaggine dal punto di vista morale. Sotto il profilo giuridico potrebbe configurare questo reato se c'è un'esternazione che punta a sostenere l'adesione a un'organizzazione terroristica. Pensiamo al tema foreign fighters. Poi si possono fare i processi o no».
Nel senso che ci sono valutazioni di opportunità? L'azione penale non è obbligatoria nel nostro Paese?
«Certo, intendo dire che un conto è una precisa attività di propaganda individuale, un conto è la partecipazione a una manifestazione collettiva, in cui è più molto difficile stabilire se chi partecipa aderisce in concorso, e fino a che punto, a ciò che viene manifestato. Anche per questo è molto importante fare informazione, vale sotto il profilo storico e anche sotto il profilo giuridico».
Bisogna stare attenti insomma a ciò che si dice.
«Sì e non credo che tutti comprendano i rischi che si corrono, anche perché dietro certe iniziative possono nascondersi individui spregiudicati e pericolosi. Altro discorso ovviamente è manifestare solidarietà alla popolazione palestinese, che è comprensibile come lo è la solidarietà allo Stato ebraico».
Scandire uno slogan antisemita nel corso di una manifestazione non è solo un abominio, è anche un illecito dal punto di vista penale.
«Non ci sono dubbi su questo. Antisemitismo e discriminazione sono un reato grave. In questi casi si devono aprire dei fascicoli. Ma credo che su questo ci sia la dovuta attenzione, in un momento così delicato».
Nasrallah (e l'Iran) abbandonano Hamas. "L'azione è solo loro". Gian Micalessin il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.
Il Partito di Dio libanese si tiene fuori dal conflitto. Celebra i martiri, ma niente fronte unico islamico
«Bravi, ma ora arrangiatevi». Il tanto atteso messaggio del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ai «fratelli» palestinesi di Hamas è tutto qua. Un profluvio di slogan, minacce e retorica che copre la paura di venir fatti a pezzi dalla forza congiunta di Israele e Stati Uniti. Un autentico colpo basso alle aspettative di chi a Gaza, e nel mondo islamista, attendeva la discesa in campo del Partito di Dio a fianco dei «fratelli» di Hamas.
Aspettative alimentate dal fatto che il discorso, pronunciato da località e nascondiglio sconosciuti, celebrava i «martiri caduti sulla via di Gerusalemme», ovvero la sessantina di combattenti di Hezbollah caduti dall'8 ottobre a oggi negli scontri al confine tra Libano e Israele. E a rendere più cocente la delusione contribuiscono la paura e l'insicurezza celate in alcuni passaggi del discorso. A cominciare da quello in cui si parla del «diluvio di Al Aqsa», il massacro di israeliani messo a segno da Hamas il 7 ottobre. «La sua decisione e attuazione è solo palestinese... e il fatto che nessuno ne fosse a conoscenza, dimostra che questa battaglia è interamente palestinese» afferma Nasrallah sottolineando che si è trattato di un'«operazione tutta palestinese, segreta e di successo». Ma l'apparente omaggio ad Hamas è un autentico autogol.
L'insistenza con cui Nasrallah ripete che «nessuno sapeva» suona come una presa di distanze dall'operato dei militanti di Hamas e un tentativo di smentire chi attribuisce alla sua milizia il merito di averli addestrati e preparati.
La presa di distanze finisce con il vanificare la credibilità di un discorso in cui, subito dopo, si rilanciano le consuete invettive contro Israele e Stati Uniti: «Non temiamo le vostre flotte... Siamo preparati anche per loro» ripete Nasrallah rivolto a Washington prima di aggiungere che «Israele commetterebbe il più grosso atto di stupidità e follia se attaccasse Hezbollah».
Ma la paura, l'indecisione e l'insicurezza celate tra le righe del discorso non scaturiscono soltanto dalla testa e dalla pancia di un capo di Hezbollah che già nel 2006 si disse pentito di aver dichiarato guerra ad Israele. Nasrallah è da sempre il ventriloquo di calcoli e decisioni prese a Teheran. I primi a rinunciare, tramite lui, al feticcio del «wihdet al-sahat» - il «fronte unico» - sono dunque quegli stessi iraniani che a parole punterebbero sull'alleanza tra Hamas, Hezbollah e le milizie sciite di Irak, Siria e Yemen per stringere Israele in un'insostenibile morsa bellica.
Dietro la rinuncia vi è ragionamento molto semplice. Attaccare Israele tramite gli alleati libanesi significherebbe vedersela non solo con Israele, ma anche con le due squadre navali, guidate dalla portaerei Ford e Eisenhower, mandate da Joe Biden nel Mediterraneo. E questo significherebbe rischiare di perdere per sempre l'avamposto libanese. Un avamposto cruciale per l'Iran che proprio usandolo per minacciare Israele si garantisce il consenso di quanti all'interno delle opinioni pubbliche mediorientali continuano a sognare la distruzione dello stato ebraico.
E proprio quel consenso e la conseguente capacità di destabilizzare i propri vicini regalano a all'Iran il ruolo di potenza regionale. Un ruolo troppo prezioso per comprometterlo nel nome di Hamas.
Gli altri islamofascisti Hezbollah non aprirà un nuovo fronte di guerra a nord di Israele (per ora). Carlo Panella su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
Il discorso di Hassan Nasrallah ha portato buone notizie per lo Stato ebraico, dal momento che non c’è stata, come si temeva, la proclamazione di una Jihad. Sulla decisione hanno pesato le difficili condizioni economiche e sociali del Libano
Buone notizie dal Libano per Israele – pare – nel discorso tenuto ieri dal leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Molti, gli Stati Uniti in testa, temevano che avrebbe aperto un fronte di guerra a nord di Israele incitando all’attacco della «entità sionista» le sue milizie – centomila armati, un esercito, decine di migliaia di missili – costringendo così Gerusalemme combattere su due fronti contemporaneamente con uno sforzo bellico enorme. Ma così non è stato.
Nasrallah, infatti, ha infarcito il suo discorso della abituale retorica antisionista e antiamericana, ha salutato i propri martiri – sessanta suoi miliziani sono caduti dall’ottobre ottobre a oggi – così come quelli di Hamas, ma non ha pronunciato una sola frase che potesse evocare, neanche indirettamente, la proclamazione di una Jihad contro Israele.
È apparso così chiaro che ha parlato più come leader libanese che come strumento – quale è, anche – della politica iraniana. Ha insomma grandemente pesato sulla sua posizione la convinzione che il Libano oggi non può sopportare l’apertura di una guerra con Gerusalemme, con probabile invasione via terra da parte di colonne di carri armati e soprattutto con incessanti e martellanti bombardamenti aerei. Il tutto con la potente flotta americana al largo delle coste del Libano pronta a dare manforte, nel caso, all’alleato israeliano.
Ha pesato insomma sulla sua posizione di fatto moderata, la condizione di un Libano che è di suo allo stremo delle forze con la popolazione letteralmente a terra. L’inflazione è all’ottantacinque per cento, le riserve auree della banca centrale sono praticamente esaurite, l’elettricità viene distribuita solo un’ora al giorno, gli strati popolari, tra questi gli sciiti, base popolare di Nasrallah, sono sull’orlo della fame. Persino i pochi che hanno depositi in banca, in lira libanese o in dollari, non possono ritirarli per pagarsi i normali beni di consumo. E di questa situazione fallimentare sempre più libanesi addossano giustamente la responsabilità maggiore proprio ad Hezbollah.
Non solo, i cristiani e i sunniti, timorosi di un colpo di testa bellico di Hezbollah, stanno riarmando le loro milizie che avevano disarmato decenni fa.
Certo, Nasrallah non ha dato nessun segno di volere dismettere la guerra d’attrito a bassa intensità che ha iniziato ai confini nord di Israele dopo il 7 ottobre. Quindi, vi saranno altri lanci di missili contro le truppe israeliane e i kibbutz e questo impegnerà Idf, le forze di difesa israeliane, a un massiccio presidio del territorio – distogliendo reparti che potrebbero essere impiegati a Gaza – e a continuare i raid aerei contro le postazioni di partenza dei missili. Ma, lo ripetiamo, a meno di sorprese clamorose, Israele non dovrà affrontare, per il momento un fronte nord di guerra guerreggiata.
Al di là dell’abituale retorica e dell’esaltazione del pogrom di Hamas del 7 ottobre, che a suo dire ha mostrato la debolezza di Israele e ha posto la questione palestinese al centro degli interessi del mondo, Nasrallah ha tenuto a precisare che Hezbollah non vi ha minimamente partecipato nella fase di preparazione e tantomeno di esecuzione. Ha attribuito il merito della sconcia impresa solo e unicamente ad Hamas, «che ha agito da solo». Un modo obliquo per scaricare anche le responsabilità dell’Iran al cui comando Hezbollah anche formalmente risponde.
Nessuna Jihad. Hezbollah prende le distanze da Hamas. Nasrallah: “Attacco 100% palestinese”. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 03 Novembre 2023
Si temeva dal discorso del leader dei miliziani che stanno in Libano un invito alla guerra santa dei musulmani contro gli ebrei e l'entrata di Hezbollah nel conflitto contro Israele. Invece c'è stata una sorta di passo indietro Hezbollah non morde. Il tanto temuto discorso pubblico di Hassan Nasrallah, storico leader del «partito di Dio» libanese, non modifica lo status quo della crisi israelo-palestinese e non contribuisce a gettare benzina sul fuoco, nell’incendio che sta comunque divampando in Medio Oriente. Il temuto annuncio di una partecipazione diretta delle agguerrite milizie che rispondono al gruppo armato che controlla il Sud del Libano, non c’è stato. E dunque, in estrema sintesi, Hezbollah si dice sì solidale con Hamas, ma non è né intende essere coinvolto direttamente nella guerra che la leadership di Gaza ha scatenato contro Israele lo scorso 7 ottobre. Se pure Nasrallah definisce l’attacco di Hamas un’azione «saggia, giusta e coraggiosa», si guarda bene dal dipingere questa guerra come una causa comune da combattere, e ci tiene a puntualizzare che le responsabilità sono confinate alla leadership della Striscia di Gaza: «L’operazione di Hamas in Israele è il risultato di una decisione palestinese al 100%» afferma il leader, prendendo le distanze da un contesto già pericoloso ed evitando il duplice rischio di mandare al massacro i suoi uomini, e di perdere il sostegno della popolazione libanese con l’apertura di un pericoloso secondo fronte. Hassan Nasrallah, religioso sciita alla guida di Hezbollah dal 1992, ha svolto un ruolo chiave nel trasformare il «partito di Dio» in una forza politica, oltre che militare. Ha stretti legami con l'Iran e il suo leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, che risalgono ai primi anni Ottanta, quando il primo leader supremo dell’Iran, l'ayatollah Ruhollah Khomeini, lo nominò suo rappresentante personale in Libano. Ma, per quanto venerato da Hezbollah e seppur ancora ben presente nella vita politica del Libano (tiene discorsi televisivi quasi ogni settimana), Nasrallah non controlla il governo di Beirut né può parlare a nome di un popolo intero. Il leader di Hezbollah, e più in generale la leadership del partito estremista libanese, sono ben consapevoli sia della soverchiante forza militare di Israele – che non ha peraltro escluso di riversare la propria furia vendicativa anche contro il confine a nord, in risposta agli attacchi dimostrativi che nei giorni scorsi hanno visto Hezbollah protagonista di lanci di razzi contro lo Stato israeliano – sia dell’inopportunità del momento storico.
Il Libano, infatti, versa in una crisi economica spaventosa ed Hezbollah non solo è uscito politicamente ridimensionato dalle ultime elezioni, ma la sua ala militare è stata pesantemente indebolita a seguito della lunga guerra civile siriana (dove era parte in causa a fianco di Damasco), e dopo gli innumerevoli attacchi mirati da parte israeliana che, nell’ottica della deterrenza, da anni hanno progressivamente dimezzato l’arsenale bellico dei paramilitari libanesi. «Mi rivolgo a tutti i leader dei paesi petroliferi arabi: non date più petrolio a Israele. Non vi chiediamo di mandare i soldati, ma di avere il minimo di onore e di cessare di inviare petrolio a Israele». La sintesi della debolezza attuale di Hezbollah è tutta in questa frase, pronunciata dal leader nel discorso pubblico odierno. Come noto, Regno Unito e Stati Uniti considerano l’intero gruppo un’organizzazione terroristica, mentre l’Unione europea ha inserito soltanto il braccio armato di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, ma non il partito politico. Così vale per i Paesi arabi del Golfo e per la stessa Lega Araba. Un’ambiguità che permette ancora al «partito di Dio» di mantenere un potere negoziale e una credibilità nel contesto internazionale, e segnatamente nel Mediterraneo allargato, che in particolare l’Iran ha sfruttato e continua a sfruttare in funzione antiisraeliana.
Intanto, dietro il paravento della diplomazia, Hezbollah alimenta lucrosi traffici di armi, droga e di influenze in tutto il Medio Oriente e non solo, grazie al doppio canale della corruzione e dell’assistenzialismo sociale nelle aree più depresse del Paese dei Cedri. Nelle roccaforti del Libano meridionale, il gruppo mantiene infatti migliaia di combattenti e un enorme arsenale missilistico: si stima che Hezbollah disponga di almeno 50 mila miliziani e oltre 100 mila razzi per colpire i suoi nemici. Grazie anche a questa minaccia, Hezbollah continua a mantenere alta la tensione e a opporsi alla presenza di Israele nelle aree di confine contese: nel 2006, quando scoppiò una vera e propria guerra tra Hezbollah e Israele, questa fu innescata proprio da Hezbollah, che effettuò un mortale raid transfrontaliero in seguito al quale le truppe israeliane invasero il Libano meridionale per ricacciare la minaccia oltreconfine. Tuttavia, Hezbollah non ha desistito ed è sopravvissuto alla risposta israeliana, continuando a reclutare nuovi combattenti e dotandosi di armi nuove e migliori, grazie all’aiuto di Teheran. Del resto, il gruppo è stato istituito all’inizio degli anni Ottanta dalla potenza sciita più dominante della regione, l'Iran, proprio per opporsi a Israele. All’epoca, le forze israeliane avevano occupato il Libano meridionale, durante la guerra civile del Paese. Da allora, la presenza di Hezbollah nel multiconfessionale Libano si configura come la sola organizzazione musulmana sciita politicamente influente grazie al fatto di essere la forza armata più potente del Libano. «Non è quello che ti aspetteresti da un’organizzazione politica, ma è esattamente quello che ti aspetteresti da un’organizzazione terroristica». È con queste parole che l’intelligence americana riassume il ruolo ambiguo che Hezbollah gioca da sempre nella regione mediorientale. Da quando, nel 1992, ha partecipato per la prima volta alle elezioni nazionali, il «partito di Dio» è diventato anche una presenza politica centrale e il suo braccio armato un vero e proprio esercito di confine, che si è distinto per aver effettuato attacchi mortali non solo contro le forze israeliane, ma anche statunitensi. Quando Israele si è ritirata dal Libano nel 2000, Hezbollah si è preso il merito di averlo cacciato e da allora ha sfruttato questo fatto come un suo successo personale, grazie al quale ha potuto continuare a fare proselitismo. Così si arriva sino a oggi, quando ormai è chiaro che Hezbollah si è fatto strumento delle politiche iraniane nella regione. Il che, allargando il contesto, può essere letto come un segnale «positivo»: Hamas non ha alleati disposti a morire per la causa palestinese, la sua «chiamata alle armi» contro Israele è caduta nel vuoto ed è dunque internazionalmente isolata. L’assalto del 7 ottobre è stata una mossa suicida da parte della leadership palestinese, che ha fallito nel calcolare la risposta dei Paesi arabi, indignati come il resto del mondo dalla ferocia con cui un attacco che doveva essere di stampo militare si è invece configurato come un barbaro atto terroristico in stile Isis. La lunga esperienza di Hassan Nasrallah lo ha di conseguenza portato a mitigare il messaggio con cui oggi ha descritto la linea del partito: Hezbollah è certamente schierato contro Israele, ma guarda anzitutto alla propria sopravvivenza. «Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo per assestare il colpo di grazia al nemico» detto in chiusura il leader sciita, riconoscendo la propria debolezza. «È un duello che non si vince con un knock out, ma ai punti». Il che, se non è una notizia positiva, rimanda a data da destinarsi una guerra che coinvolga anche il Libano.
Il Sudamerica contro il genocidio di Gaza: Bolivia, Colombia e Cile rompono con Israele. Stefano Baudino su l'Indipendente venerdì 3 novembre 2023
In questa fase di intenso conflitto in Medio Oriente, un’ampia fetta di Sudamerica si schiera contro Israele. La Bolivia ha infatti dichiarato di aver rotto i rapporti diplomatici con Israele a causa dei suoi attacchi alla Striscia di Gaza, mentre i vicini Colombia e Cile hanno richiamato i loro ambasciatori nel paese mediorientale per consultazioni. Le tre nazioni sudamericane hanno criticato duramente gli attacchi israeliani a Gaza e le violazioni commesse da Tel Aviv, che hanno finora causato la morte di oltre 9mila palestinesi. La Bolivia «ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con lo Stato israeliano nel ripudio e nella condanna dell’offensiva militare israeliana aggressiva e sproporzionata che ha luogo nella Striscia di Gaza», ha detto il vice ministro degli Esteri, Freddy Mamani, in una conferenza stampa. Da molti anni i rapporti tra molti dei Paesi sudamericani e lo Stato di Israele sono molto tesi: la carneficina in atto a Gaza in queste settimane non ha fatto altro che esacerbarli.
Il segretario generale della Presidenza della Bolivia, Maria Nela Prada, ha annunciato l’invio di aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, chiedendo «la fine degli attacchi» che «finora hanno causato migliaia di morti tra i civili e lo sfollamento forzato dei palestinesi». La medesima e linea è stata sostenuta anche dall’ambasciatore boliviano all’Onu Diego Pary, che di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni unite ha invitato a non confondere gli aggressori con le vittime: «La potenza occupante, l’aggressore, il genocida è Israele», ha detto. A reagire con forza alle bombe israeliane sono state anche Colombia e Cile (dove peraltro risiedono circa 500.000 palestinesi, quasi il 3% della popolazione cilena), che hanno deciso di richiamare nei loro Paesi i loro ambasciatori a Tel Aviv. Un passo che, nelle logiche diplomatiche, rappresenta il prodromo di una rottura ufficiale delle relazioni. Il presidente della Colombia Gustavo Petro ha apertamente attaccato lo Stato ebraico, parlando di un intollerabile «massacro» di palestinesi. «Il Cile condanna fermamente e nota con grande preoccupazione che queste operazioni militari – che in questa fase del loro sviluppo comportano una punizione collettiva della popolazione civile palestinese a Gaza – non rispettano le norme fondamentali del diritto internazionale», ha dichiarato in una nota il governo. Il presidente cileno Boric ha chiesto «la fine immediata delle ostilità per mettere in pratica un piano di soccorso umanitario per le vittime e i profughi civili di questi attacchi», accusando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di «violare apertamente il diritto internazionale».
A mantenere una certa equidistanza nella cornice del conflitto sono invece i due paesi più grandi della regione, Brasile e Argentina, che hanno comunque chiesto tregua umanitaria per i civili di Gaza. Una settimana fa, il presidente brasiliano Lula aveva spiegato che – pur condannando aspramente la sua azione – allineandosi al parere delle Nazioni Unite il Brasile non riconosce Hamas come organizzazione terroristica, denunciando al contempo il «folle» proposito di Netanyahu di «distruggere Gaza dimenticando che lì non ci sono solo soldati di Hamas, ma donne e bambini». Il Venezuela, nel frattempo, ha condannato l’attacco israeliano al campo profughi di Jabaliya, chiedendo un immediato cessate il fuoco.
La Bolivia, a dire il vero, aveva interrotto già nel 2009 le relazioni diplomatiche con Tel Aviv quando a guidarla era il presidente Evo Morales, che aveva apertamente protestato contro le offensive israeliane a Gaza. Un Esecutivo provvisorio di destra aveva poi ristabilito i rapporti diplomatici nel 2019. Ma nel 2020 le elezioni furono vinte da Luis Arce, candidato di Morales, che ha inaugurato un netto cambio di marcia sulla questione. Anche i casi di Cile e Colombia non rappresentano un’eccezione. Lo scorso anno, infatti, il presidente cileno Boric – in protesta con le violenze perpetrate da Israele a Gaza e in Cisgiordania – si era rifiutato di ricevere l’ambasciatore di Israele Gil Artzyeli, per poi fare marcia indietro. Subito dopo lo scoppio del conflitto di inizio ottobre, il presidente colombiano Petro aveva minacciato l’interruzione delle relazioni diplomatiche, mettendo sullo stesso piano «l’immensa ingiustizia che il popolo palestinese ha subito dal 1948» e «l’immensa ingiustizia che il popolo ebraico ha subito dai nazisti in Europa dal 1933», affermando che il suo Paese non sarebbe stato complice del «genocidio» messo in atto da Tel Aviv. [di Stefano Baudino]
L'Onu agli amici di Hamas. Consiglio di sicurezza alla Cina e il forum dei diritti all'Iran. Storia di Roberto Fabbri su Il Giornale l'1 novembre 2023.
L'Iran alla presidenza del Forum Onu per i diritti dell'uomo. La Cina a quella del Consiglio di Sicurezza. Una giornata della vergogna per le Nazioni Unite e forse è il caso di ricordare di cosa stiamo parlando.
La Repubblica islamica dell'Iran è l'opposto del concetto stesso di rispetto dei diritti umani: è il Paese in cui i diritti delle donne sono conculcati, in nome di un'applicazione fanatica dei principi religiosi, fino al punto da far picchiare a morte in strada dalla «polizia della morale» (ecco di cosa dovrebbe occuparsi il Forum Onu dei diritti dell'uomo se fosse un organismo rispettabile) le ragazze che si rifiutano di indossare il velo islamico o anche solo lo portano in modo «sconveniente». Un anno fa è morta per questo Mahsa Amini, che aveva 22 anni, e poche settimane fa è toccato addirittura a una sedicenne, Armita Geravand, massacrata di botte nella metropolitana di Teheran. Entrambe sono decedute in ospedale dopo giorni di agonia, e ai familiari è stato imposto di sottoscrivere la falsa versione di morti causate da cali di pressione improvvisi e balle del genere, pena l'arresto. L'Iran è il Paese dove centinaia di giovani manifestanti, ragazzi e ragazze, sono stati ammazzati (per strada o in carcere dopo processi farsa) solo nell'ultimo anno; il Paese in cui i cecchini mandati dai «custodi della morale islamica» sparano mirando agli occhi delle ragazze che protestano togliendosi il velo in strada (le nostre sensibili femministe non se ne sono accorte); il Paese che arma e finanzia gli assassini di Hamas, della Jihad islamica e di Hezbollah; il vero istigatore della guerra che pretende di cancellare Israele, un Paese membro della stessa Onu che ha indicato l'ambasciatore iraniano Bahreini alla presidenza del Forum sui diritti umani, dalla faccia della Terra, cominciando dal massacro bestiale dei civili solo in quanto ebrei. Come si sia potuti arrivare a questa designazione è la vergogna nella vergogna: il meccanismo prevede che gruppi di Paesi determinati per aree geografiche possano esprimere candidati, ma solo quello asiatico si è scomodato a farlo, scegliendo questo signore. C'è dunque una grave responsabilità anche nostra, fatta di ignavia e indifferenza imperdonabili.
La Cina che da oggi presiederà il Consiglio di Sicurezza è il perfetto esempio di dittatura che non si capisce quale sicurezza possa garantire. Certamente non quella di Israele (è alleata dell'Iran e vicina di fatto a Hamas); non quella della quota non misurabile (in Cina si vota sulla lista unica comunista) dei suoi stessi cittadini non allineati con il partito al potere assoluto dal 1949, per i quali non troppo diversamente dall'Iran c'è pronta una brutale polizia addestrata a reprimere il dissenso; non quella dei tibetani o dei musulmani del Xinjiang reclusi in massa in campi di concentramento; non quella dei cittadini di Hong Kong che si sono visti abolire le libertà democratiche (qualcuno si ricorda di Joshua Wong o di Jimmy Lai sbattuti in galera?); e meno che mai quella dei taiwanesi, fieramente liberi, che Xi Jinping pretende di annettere «senza pietà» a una «madrepatria» che non riconoscono. Ecco la sicurezza che può garantire al mondo la Cina.
Manca solo la Russia, impegnata nell'aggressione criminale all'Ucraina, a presiedere un Forum Onu sul diritto all'integrità territoriale. Ma ci arriveremo, vedrete. E qualcuno, anche in Italia, senza vergogna applaudirà.
Guerra a Gaza, appello di 4000 docenti universitari: «Basta collaborazioni con gli atenei israeliani». Orsola Riva su Il Corriere della Sera venerdì 10 novembre 2023.
Nella petizione oltre a chiedere l’immediato cessate il fuoco e il ripristino del diritto umanitario internazionale si condannano «75 anni di oppressione storica, disumana e coloniale» del popolo palestinese da parte di Israele
Il mondo accademico si divide sulla guerra in Israele e Palestina. La settimana scorsa era toccato all’Università di Bologna con un appello unilaterale in favore di «Gaza in primis» firmato da quasi 150 docenti e respinto dal rettore Giovanni Molari in nome del pluralismo delle idee: «Non spetta a noi prendere questa o quella posizione». Adesso la spaccatura si è fatta nazionale. Quasi quattromila professori e ricercatori universitari di vari atenei di tutto il Paese (su un totale di circa 100 mila docenti fra assunti, precari, collaboratori e assegnisti di ricerca) hanno sottoscritto un nuovo appello per il cessate il fuoco immediato che condanna i «crimini di guerra» e il «genocidio» in corso nella Striscia a seguito delle «brutali azioni» di Hamas (così viene definito il massacro di giovani, donne e bambini del 7 ottobre scorso). Di fatto si tratta di una sconfessione della posizione presa dalla Conferenza dei rettori tre settimane fa con la condanna equidistante «di ogni forma di guerra» e la richiesta agli atenei di esporre una bandiera della pace a lutto sui propri siti.
Mentre la Crui aveva espresso la sua solidarietà a tutte le comunità universitarie coinvolte nelle aree di crisi, i docenti firmatari di questa petizione chiedono ai singoli atenei da un lato di garantire il diritto degli studenti a momenti di dibattito in nome della «libertà di parola», dall’altro di interrompere immediatamente la collaborazione con le università e i centri di ricerca israeliani «fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario». L’appello si rivolge al ministro degli Esteri Antonio Tajani perché si mobiliti per chiedere insieme alla fine immediata delle operazioni militari anche la fornitura di aiuti e la protezione delle Nazioni Unite per l’intera popolazione palestinese. I firmatari però non condannano solo i bombardamenti indiscriminati dell’esercito israeliano che avevano fatto, quando è stato steso l’appello, 9.000 morti civili di cui 3.760 bambini: «una punizione collettiva contro una popolazione inerme e imprigionata». Ma, facendo riferimento a vari report dell’Onu e di diverse organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch, ricostruiscono anche le cause «determinanti e antecedenti» di questa nuova ondata di violenza riconducendole all’«oppressione storica, disumana e coloniale che i palestinesi stanno vivendo da 75 anni». Sotto accusa non è solo la politica di occupazione illegale dei territori palestinesi accelerata da Israele negli ultimi vent’anni ma l’intera storia dello Stato ebraico.
Di tutt’altra natura e tutt’altro tono era stata la mozione per la pace approvata all’unanimità dal Senato accademico dell’Università di Padova all’inizio della settimana. In essa si condannano fermamente «le atrocità commesse da parte dell’organizzazione terroristica Hamas» e insieme si esprime «preoccupazione e sconcerto per il drammatico evolversi della situazione nella striscia di Gaza dove l’intervento dell’esercito israeliano, colpendo anche obiettivi non militari, sta imponendo alla popolazione palestinese perdite umane e disagi inaccettabili». L’ateneo patavino - si legge nella mozione - «è profondamente convinto che solo attraverso l’immediata sospensione delle operazioni militari sia possibile affrontare la complessità del conflitto in atto e favorire soluzioni pacifiche basate sui diritti umani internazionalmente riconosciuti». Esprime «vicinanza e solidarietà a tutte le popolazioni colpite e ai propri studenti israeliani e palestinesi» e e si impegna a collaborare ad iniziative di «accoglienza e sostegno delle comunità accademiche provenienti dalle zone colpite».
I disonorevoli. I prof che boicottano le università israeliane non sanno quello che fanno. Marco Pierini su L'Inkiesta il 13 Novembre 2023
L’appello di quattromila docenti universitari per interrompere le collaborazioni con le istituzioni universitarie israeliane è riprovevole e in spregio alla vocazione al pluralismo delle idee che dovrebbe accomunare chi sceglie di formare le nuove generazioni. Non sanno quello che fanno
A Beit Hanina, zona palestinese di Gerusalemme Est, il professore ci conduce nel community center del quartiere, finanziato dalla municipalità di Gerusalemme per erogare servizi e fare investimenti. Ci porta a parlare con uno dei leader della comunità, un cittadino arabo d’Israele, che da decenni lavora per il quartiere e la sua gente. Parliamo con lui, gli chiediamo tutto su Israele, la minoranza araba, il rapporto coi palestinesi, l’occupazione vissuta dai residenti palestinesi di Gerusalemme Est che non hanno accettato l’unificazione della città dopo la Guerra dei Sei Giorni. Parliamo per più di un’ora, liberi di discutere e di conoscere il punto di vista di chi tutti i giorni si confronta con le tante realtà di Israele.
A Nebi Samuel, nei Territori palestinesi, visitiamo la moschea e la tomba del profeta Samuele, che sono una sopra l’altra. Siamo in territorio che la comunità internazionale considera occupato, oltre la linea verde che segna l’armistizio del 1949. La moschea è custodita da un palestinese, ma l’edificio accoglie un luogo di culto ebraico al piano inferiore, in corrispondenza della tomba del profeta. Sul tetto dell’edificio, il professore ci mostra i villaggi palestinesi e gli insediamenti israeliani. Senza filtri, ci esprime la sua opinione di oppositore degli insediamenti e di sostenitore del dialogo coi palestinesi. Alla fine della visita, ci porta dal custode, che conosce da anni e con cui si intrattiene. Parlano arabo entrambi, uno ebreo israeliano, docente universitario ed ex funzionario del governo, l’altro arabo palestinese.
Al termine di una delle ultime lezioni, mentre ci prepariamo a simulare un negoziato su Gerusalemme nella cornice dei due Stati per due popoli, il professore non manca di raccontarci che un suo studente ha assunto una posizione di rilievo in Giordania che lo rende voce critica nei confronti di Israele. Lo dice con soddisfazione non perché ne condivide le posizioni, ma perché sa di aver accompagnato nella crescita una voce libera.
Poi si alza in fretta per andare all’aeroporto di Tel Aviv: va a manifestare contro la riforma della giustizia voluta dal governo di Benjamin Netanyahu, in una delle tante manifestazioni che hanno visto – tra le centinaia di migliaia di partecipanti – la presenza di tantissimo personale delle università.
Queste scene del mio soggiorno-studio all’Università ebraica di Gerusalemme, lo scorso luglio, mi tornano in mente mentre leggo l’appello che poco meno di quattromila docenti universitari, ricercatori e dottorandi hanno firmato per chiedere, tra le altre cose, «l’interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane». Pur nella consapevolezza che alla fine la colpa è mia e delle mie aspettative, e pur sapendo che si tratta di una minoranza, non riesco a non pensare a questa richiesta come a uno dei punti più bassi in questo mese di assurdo dibattito pubblico sulla guerra in Medio Oriente.
È sconcertante che una richiesta del genere esca dalle università, che dovrebbero ispirarsi non soltanto al rigore dello studio e della ricerca, ma anche al pluralismo che di essi è al contempo premessa e sbocco naturale. È sconcertante che i firmatari chiedano il boicottaggio di una delle realtà più straordinarie dello Stato ebraico, quel mondo della ricerca in cui l’autorità è contestata, le leadership di domani sono formate, il dibattito è nutrito incessantemente. Quei luoghi in cui studenti israeliani, palestinesi, e chi più ne ha più ne metta, condividono gli spazi di studio, come avviene all’Università ebraica di Gerusalemme, in un ambiente in cui le idee circolano, in un contesto in cui le idee contano.
È impossibile abituarsi a questo rifiuto per le idee, tanto riprovevole quanto banale, sostenuto in spregio a ogni senso della storia e a quella vocazione al pluralismo delle idee che dovrebbe accomunare tutti coloro che scelgono di fare ricerca e di formare le nuove generazioni.
La richiesta di boicottare le università israeliane è disonorevole e rappresenta una pagina avvilente del dibattito sul Medio Oriente. Che sia fatta apparentemente ispirandosi a principi progressisti è solo segno delle tante distorsioni logiche con cui viene affrontato il conflitto israelo-palestinese da parti minoritarie del dibattito pubblico. L’appello sembra più che altro un tentativo esplicito di affermare una visione parziale in nome di precisi obiettivi politici. Non può essere altrimenti di fronte a un testo che si professa contro una «illegale occupazione che Israele impone alla popolazione palestinese da oltre settantacinque anni», affermando di fatto l’illegittimità dello Stato di Israele anche nei confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.
La domanda sorge spontanea: a quando risale questo «oltre»? Alla grande rivolta degli arabi del 1936-1939? Alla fondazione dell’Università ebraica nel 1918? Alla fondazione di Tel Aviv nel 1909? Alla fondazione di Rehovot nel 1890? Alla fondazione del quartiere gerosolimitano di Mishkenot Sha’ananim nel 1860? C’è una data prima della quale la presenza di un collettivo nazionale ebraico in Medio Oriente non è considerata illegittima dai censori del tempio del diritto internazionale che si dimenticano il 1947 e il 1948, anni in cui gli ebrei di quella terra accettano la partizione voluta dall’ONU e si trovano a difendersi in una guerra iniziata per cacciarli in mare?
Non è tuttavia necessario soffermarsi su questi errori presenti nel testo. Non c’è bisogno di evidenziare gli stiramenti concettuali adoperati per svuotare di senso le categorie e renderle a misura di narrazione politica. È sufficiente guardare dall’altra parte, nello specchio, per misurare il vuoto che esprime la richiesta di boicottaggio. La libera circolazione delle idee, la libertà di ricerca, la vocazione al pluralismo, all’apprezzamento delle sfumature sono valori che permeano il mondo universitario di Israele e c’è solo da augurarsi che tale contaminazione tocchi sempre di più i nostri ambienti della cultura, in contrapposizione al manicheismo e all’unilateralismo delle narrazioni ideologiche della storia e dei fenomeni politici.
Sono quei valori di libera circolazione delle idee quelli con cui il mio professore e moltissimi altri suoi colleghi educano gli studenti. Così facendo non soltanto sono un esempio per la formazione dei più giovani, ma producono anche molti più benefici per quella terra martoriata (e i suoi abitanti, tutti) di qualsiasi boicottaggio, che appare, al fondo, l’ennesima criminalizzazione di un intero collettivo nazionale fatta passare per attivismo degli intellettuali.
Atenei, la dittatura della minoranza. Francesco Giubilei il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.
Contro lo Stato ebraico hanno firmato 4mila prof su 60mila. E spunta la contro-petizione
Negli ultimi decenni il mondo della scuola e dell'università italiana è stato monopolizzato da minoranze rumorose che, con metodi spesso prevaricatori, hanno imposto le proprie idee a maggioranze silenziose costrette a subire occupazioni, manifestazioni spesso violente, slogan irripetibili. Una vera e propria dittatura delle minoranze che si sta verificando anche dal 7 ottobre nel caso delle posizioni sulla guerra tra Israele e Hamas.
Le università e le scuole sono infatti ostaggio di piccoli ma agguerriti gruppi di studenti, collettivi e anche professori smaccatamente filo palestinesi che, dietro la richiesta di un «cessate il fuoco», portano avanti posizioni anti-israeliane.
Fa discutere in questi giorni l'appello firmato da circa 4mila docenti universitari inviato al ministro degli Esteri Tajani, al ministro dell'Università Bernini e alla Conferenza dei rettori delle università in cui si chiede di fermare la «collaborazione con gli atenei israeliani». La proposta a tutti gli effetti illiberale, come se le università israeliane dovessero rispondere delle decisioni del governo Netanyahu anche se all'apparenza può sembrare sottoscritta da un ampio numero di docenti, in realtà si tratta di una minoranza poiché i professori universitari in Italia sono circa 60mila.
Intanto in rete è partita una contro-petizione. «Per scongiurare il rischio di un crescente antisemitismo anche all'interno delle nostre università, e per segnalare allarmanti episodi di regressione culturale e democratica».
Ieri intanto è terminata dopo vari giorni l'occupazione all'Orientale di Napoli dove un gruppo di una trentina di «studenti» pro Palestina ha tenuto per una settimana in scacco l'ateneo addirittura ospitando in videoconferenza la ex terrorista palestinese Leila Khaled. «Da martedì (oggi, ndr) riprendono le attività didattiche e istituzionali. L'Ateneo è un luogo di confronto pacifico e aperto al dialogo» ha affermato il rettore Tottoli. Altre occupazioni sono avvenute alla Cà Foscari a Venezia, all'ateneo di Padova e alla Sapienza di Roma ma è nei licei che la situazione sembra essere più incandescente. All'indomani dell'attacco di Hamas del 7 ottobre nei licei Setti Carraro e Manzoni di Milano alcuni studenti della Kurva Manzoni Antifa avevano pubblicato una foto di palestinesi esultanti scrivendo su Instagram: «Quant'è bello quando brucia Tel Aviv».A Roma sono stati occupati nelle ultime ore tre licei, Pilo Albertelli, Visconti, Enzo Rossi e a Napoli il liceo Vico. Tra le motivazioni, oltre alla «solidarietà alla Palestina», c'è la mobilitazione contro il governo Meloni: «Siamo complici e solidali con gli studenti del Visconti che oggi hanno deciso di occupare la loro scuola. Dopo l'Albertelli, che già aveva risposto all'appello di Scienze politiche occupata per la Palestina, continua la mobilitazione degli studenti» ha scritto il movimento studentesco Osa.
«Gli studenti contestano anche le politiche belliciste sconsiderate, su diktat della Nato, l'aumento delle spese militari, per fomentare i conflitti bellici nel mondo, come accade con l'indegna accettazione e legittimazione del genocidio in corso in Palestina in questi giorni».
Intanto il 17 novembre gli appartenenti all'Unione degli Studenti scenderanno in piazza per promuovere il manifesto nazionale «i diritti non si meritano» e con l'occasione manifesteranno per «le istanze a favore del popolo palestinese».
Appelli pro-Palestina nelle università, la prof si ribella: “È propaganda, non firmo”. Storia di Francesca Galici su Il Giornale venerdì 10 novembre 2023.
Le scuole e le università, un tempo templi della conoscenza, della libertà e del confronto, sono diventate luoghi di coltivazione del pensiero unico. Gli studenti e i docenti vanno verso una sola direzione e chi si distacca da questa corrente perde ogni diritto di parola. In questo preciso momento storico si stanno toccando livelli preoccupanti con il quasi totale schieramento di corpo docente e studenti al fianco della Palestina, senza condanne ad Hamas, se non quelle di facciata, obbligate. Nelle università si moltiplicano le raccolte di firme ideologiche, che vorrebbero dimostrare che la presunta intellighenzia italiana sia tutta dalla parte della Palestina. Ma non è così e fortunatamente c'è ancora chi ha il coraggio di andare controcorrente e fa sentire la sua voce, come la professoressa Daniela Santus dell'università di Torino, che con una lunga lettera, articolata e argomentata, spiega perché non ha intenzione di firmare il manifesto pro-Palestina dei suoi colleghi. "Richiesta di un'urgente azione per un cessate il fuoco immediato e il rispetto del diritto umanitario internazionale", si legge nell'appello che ha come firmatari numerosi esponenti degli atenei italiani.
Avrebbe firmato se fosse stato inserita, in quella lettera, la richiesta di di un trattato di pace tra Israele e Palestina, e non un "cessate il fuoco" univoco per porre le basi per una soluzione "due popoli, due Stati" e se fosse stata richiesta l'immediata liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas. Invece, come ormai consuetudine, gli appelli sono a senso unico. Nella sua lunga motivazione, la professoressa ricorda cosa è successo il 7 ottobre, come Hamas abbia massacrato barbaramente donne, bambini e uomini di ogni età in quello che è stato a tutti gli effetti un pogrom. Ha spiegato e argomentato il percorso che Israele stava compiendo nei confronti di Gaza e come le aperture dello Stato ebraico siano state usate da Hamas per fare irruzione e trucidare i civili. È una lettera che va letta dall'inizio alla fine per avere un punto di vista e di narrazione diverso rispetto a chi ripete "è colpa dell'occupazione di Israele" e nega che la colpa sia di Hamas e del suo piano di distruzione dello Stato ebraico.
La professoressa Santus lo scrive a chiare lettere nella sua missiva il perché non ha intenzione di firmare l'appello dei colleghi: "Non firmo perché è chiaro che si tratta di propaganda. Definite Israele come Stato in cui vige l’apartheid e forse non a tutti/e è chiaro il significato del termine". E dimostrando coi numeri che non esiste un regime di apartheid contro gli arabi in Israele prosegue: "L'apartheid, come si può evincere dai dati, esiste soltanto nella propaganda di chi vorrebbe la cancellazione dello Stato ebraico". E prosegue nel ricordare le cariche ricoperte dagli esponenti dei partiti arabi in Israele, i ruoli e i traguardi raggiunti dagli arabi al pari degli ebrei. I risultati ottenuti dalle donne arabe in Israele, che sarebbero stati irraggiungibili per loro con un governo musulmano.
"Come mai non ricordate le proposte di pace rifiutate dai leader palestinesi? Pensate almeno alle proposte rifiutate nel 2000 e nel 2008, le ultime in ordine di tempo", scrive ancora la docente, che prosegue nell'elencare i motivi per i quali non firma "perché parlate di Convenzione di Ginevra, ma nulla dite sull’utilizzo da parte di Hamas delle strutture mediche nella striscia di Gaza per scopi terroristici o del fatto che terroristi armati di Hamas aprano il fuoco dalle finestre dell’ospedale Sheikh Hamad". Spiega l'orrore dell'assalto alle ambulanze israeliane che, quelli sì, trasportavano medici e feriti, ma soprattutto sottolinea: "Non firmo perché non soltanto non voglio la cancellazione del popolo palestinese, ma non voglio neppure la cancellazione del popolo d’Israele. Vorrei la fine del regime di Hamas e un futuro sicuro e di pace per palestinesi e israeliani". E, in conclusione di lettera, si rivolge proprio ai colleghi che sembrano, invece, desiderare l'opposto: "Peccato non poter condividere questa speranza con Voi".
Palestina: a Venezia e Padova università occupate contro la guerra. L'Indipendente il 3 Novembre 2023
Gli universitari di Venezia e Padova hanno occupato ieri rispettivamente il rettorato centrale dell’università Ca’ Foscari e della facoltà di Scienze politiche, con l’intenzione di inviare un chiaro messaggio alle istituzioni di opposizione al conflitto in Palestina. Gli studenti hanno agito in risposta all’appello della Birzeit University di Ramallah, che ha spronato alle istituzioni accademiche internazionali a prendere una posizione per fermare la guerra in atto. Gli studenti chiedono che le università si schierino contro il massacro indiscriminato dei civili in corso nella Striscia di Gaza, contro l’occupazione illegale israeliana e contro il fondamentalismo islamico di Hamas.
(ANSA lunedì 6 novembre 2023) La sede dell'Università l'Orientale di Napoli è stata occupata da un gruppo di studenti che hanno esposto uno striscione a sostegno della Palestina "fino alla vittoria" c'è scritto sul drappo appeso al balcone centrale di Palazzo Giusso. Nelle scorse settimane altri studenti avevano esposto una bandiera palestinese sulla facciata dell'Ateneo ed in altri luoghi della città. In un lungo comunicato gli studenti annunciano una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sede dell'Ateneo per spiegare i motivi dell'occupazione.
Dopo una serie di considerazioni generali sullo scenario della guerra, gli studenti vogliono "denunciare anche dai luoghi del sapere la complicità ed il silenzio delle nostre istituzioni e del governo. Il nostro è un atto che ha la finalità di riaprire il dibattito anche all'interno dell'università e far prendere posizione questa istituzione.
Sappiamo che il nostro ateneo, come altri nel resto del paese, intrattengono rapporti di partnerariato e scambio di ricerche con le università israeliane e l'apparato militare-industriale italiano. Non vogliamo studiare in un'università che si rende complice di ciò che sta facendo un governo coloniale e criminale come quello israeliano ".
"Pretendiamo - aggiungono - che l'università, nella figura del rettore Tottoli, si esponga pubblicamente a sostegno del popolo palestinese e per un cessate il fuoco immediato; che l'università riconosca pubblicamente il genocidio della popolazione palestinese di cui è responsabile il governo israeliano.
E ancora, che l'università condanni pubblicamente le gravi violazioni dei diritti umani ed i crimini di guerra commessi dal governo di Israele: dall'uso del fosforo bianco, all'uccisione indiscriminata di civili, il bombardamento di scuole, ospedali e dei corridoi umanitari e l'assedio totale a cui è sottoposta in queste ore Gaza; che cessino gli accordi tra L'Orientale e le università israeliane, in quanto complici del regime di oppressione coloniale di insediamento e di apartheid, di gravi violazioni di diritti umani, compreso lo sviluppo di armamenti e di dottrine militari".
Kamikaze ecologisti e pro-Hamas: quell'inquietante filo rosso in Italia. Lorenzo Mottola su L'Ibero Quotidiano l'08 novembre 2023
È quando un conflitto ormai è perso che compaiono i kamikaze. È questo lo stadio cui è arrivato il movimento giovanile in Europa: il momento dell’autolesionismo molesto, dell’odio a casaccio verso l’Occidente. Ed è questo il filo che lega le proteste ultra - ambientaliste di Londra a quelle pro-Hamas in Italia.
A Napoli è stato organizzato un blitz per dare un seguito alle manifestazioni antisioniste delle scorse settimane: un gruppetto di militanti legati ai centri sociali della città ha occupato l’Università Orientale, facendosi prendere di mira sia dal rettore che dai passanti.
Un’azione rivendicata con un comunicato a dir poco preoccupante - circa una notizia falsa per riga che culmina in un appello a sottoscrivere la petizione “Don’t stay silent” lanciata dall’università palestinese Birzeit di Ramallah, Cisgiordania. Ora, c’è da scommettere, se non da sperare, che nessuno dei giovani che si sbracciavano dal balcone di Napoli abbia provato a informarsi sulla scuola palestinese.
I responsabili dell’ateneo, oltre a essersi guardati bene dall’esprimere solidarietà verso le famiglie degli israeliani trucidati un mese fa, sono arrivati a organizzare tornei di basket in onore di Marwan Barghouti, leader della prima e della seconda Intifada, uno dei più famosi terroristi della Cisgiordania considerato responsabile di una serie sterminata di attacchi a civili in Israele. Parliamo di un uomo che ha fatto ammazzare perfino un monaco greco-ortodosso. Nonostante queste imprese, la sua faccia compare sulle magliette delle vincitrici del torneo femminile di pallacanestro, tutte rigorosamente velate secondo gli apertissimi costumi locali, che siamo sicuri anche al centro sociale “Je so pazzo” di Napoli saranno graditissimi.
Il clima è questo a Gaza e in Cisgiordania. Sempre alla Barzeit studiava legge Ahed Tamimi, ragazza diventata famosa per aver preso a sberle un soldato israeliano. E anche Ahed è stata arrestata la notte scorsa, per aver scritto sui social, usando un falso profilo, messaggi agghiaccianti contro gli israeliani: «Berremo il sangue dei coloni». Minaccia che potrebbe suonare ridicola, se non venisse dallo stesso movimento che ha prodotto gli orrori del 7 ottobre, tra donne incinte sventrate e bambini uccisi nelle loro camerette.
Mentre a Napoli si inseguono queste follie, a Londra l’escalation ultra-ambientalista ha rotto ogni argine. Una coppia di attivisti verdi ha preso d’assalto la “Venere Rokeby” di Diego Velázquez, opera del 1651 esposta alla National Gallery.
E per esser certi di essere molesti fino in fondo, questa volta i militanti non hanno semplicemente spruzzato vernice spray sul vetro che copre il quadro, secondo il copione degli ultimi blitz ambientalisti, ma hanno preso a martellate il cristallo (l’entità dei danni verrà definita in seguito). Lui, di carnagione ultra-nordica, tanto per identificarsi subito come un genio, ha scelto di indossare un cappellino degli NWA, acronimo di “Niggaz Wit Attitudes” (tradotto: neri con delle qualità... per evitare di indispettire l’ordine dei giornalisti abbiamo fatto saltare una “g” dalla parola neri. Sono i ragazzi di colore dei ghetti di Los Angeles, che si divertono a definirsi così). Si tratta di un gruppo di musicisti, fondatore del movimento dei gangsta rap. Uno dei loro brani più noti si chiama «Vaff... alla polizia». A quanto pare, i rivoluzionari verdi apprezzano. Alle martellate è ovviamente seguito un micro comizio, che si può sintetizzare in «basta petrolio» urlato a squarciagola. Ma al di là del contenuto della protesta, è lo strumento scelto per questa campagna che francamente lascia interdetti. Dai quadri rovinati alle autostrade bloccate. È un po’ come se qualcuno cercasse di convincervi delle sue ragioni picchiando vostra madre. È il momento dei kamikaze.
Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” - Estratti giovedì 2 novembre 2023.
Le manifestazioni degli studenti ribelli forse non sorprendono più di tanto. Ma dai docenti, e per lo più delle università, ci si sarebbe aspettata una presa di posizione netta su quell’atto terroristico di Hamas che il 7 ottobre ha travolto Israele e sconvolto l’Occidente. Sta succedendo il contrario.
All’Università Federico II di Napoli il professor Luigi Caramiello non aveva contemplato quelle reazioni, anche scomposte, dei suoi colleghi: «Ho presentato un documento netto di condanna della vile aggressione di Hamas nei confronti dello Stato di Israele», spiega. E dice che davvero ci sperava che nel suo dipartimento di Sociologia quel documento sarebbe stato approvato dai colleghi, seppure non all’unanimità.
(...)
Non è andata meglio all’Alma Mater di Bologna. Anzi.
Qui una petizione firmata da quasi centocinquanta tra professori e ricercatori chiede all’ateneo di prendere una posizione decisa sul conflitto medio orientale. Chiedono « un immediato cessato il fuoco a Gaza», ma poi non soltanto non prendono le distanze dall’attentato terroristico di Hamas, ma praticamente quasi lo giustificano, definendolo «una rappresaglia impensabile ma anche annunciata».
(...) Il fermento universitario trova tuttavia un punto fermo nella più grande università d’Europa, «la Sapienza» di Roma. Qui c’è un documento ufficiale che senza se e senza ma «condanna il brutale attacco contro Israele che ha coinvolto centinaia di civili inermi». È una mozione che arriva dal Senato accademico e dal Consiglio di amministrazione dell’ateneo. Ad oggi sembra rimanere un documento isolato nel panorama delle università italiane.
Dagospia giovedì 2 novembre 2023. Lettera di Gaetano Pesce inviata al direttore de "la Repubblica" e mai pubblicata
Egregio Direttore,
ho insegnato per 25 anni in varie università del mondo. Fino a ora pensavo che chi frequentava questi luoghi lo faceva per aumentare la propria conoscenza.
In questi giorni il mondo ha assistito all’assalto non avvertito di una banda paramilitare contro uno dei paesi appartenenti alle cerchia democratica (anche se alcuni non sono d’accordo con questa definizione).
L’opinione pubblica è stata informata dell’orribile e bestiale assalto dei combattenti di Hamas contro civili presi nel sonno, uccisi violentemente assieme ai loro neonati, sgozzati come neanche i più bestiali nazisti avrebbero fatto.
Il mondo civile è sotto shock per questi ingiustificati massacri, eccetto certi studenti di alcune università del mondo, tra cui alcune italiane.
Essendo italiano, mi sento offeso da questo ottuso, incomprensibile e provinciale comportamento, tipico dei vecchi combattenti. I giovani studiano per allargare la loro cultura e conoscenza. I vecchi combattenti si sentono legati a un pensiero, o ideologia, che non ha saputo riconoscere il tempo che passa ed evolvere dall’unione con i suoi seguaci lontana più di un secolo fa e che, da quel tempo, non si è saputa rinnovare, ripetendo le sue espressioni rischiando la noia e vivendo l’obsolescenza.
Cosa succede all'espressione di certi giovani e alla loro cultura per condividere il comportamento di chi uccide per ferocia e mostruosa irrazionalità? Questi giovani non sanno che dimostrano sostegno a chi della democrazia e del codice internazionale se ne infischia come qualsiasi malvivente che opera fuori della legge?
Non solo, ma questi giovani non sanno che chi finanzia questi “miliziani" sono dei regimi medioevali che uccidono le giovani donne che non coprono le loro teste e imprigionano altri perché chiedono libertà di parola? O altri simili a loro, i Talebani, che emettono una legge che impedisce alle donne di andare a scuola. Come mai chi studia si trova a condividere i valori di chi vive nella profonda ignoranza e che difende il coronamento di questa con vergognosa violenza contro indifesi civili e i loro figli?
Hamas, a sinistra quanti avvocati per i tagliagole islamici. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 02 novembre 2023
Un virus che non è il Covid deve aver colpito il nostro Paese. Da quando è esploso il conflitto in Medio Oriente – o meglio da quando Hamas ha lanciato 5000 razzi su Israele il 7 ottobre – la malattia dell’ambiguità ha contagiato pesantemente alcuni personaggi più o meno illustri e tanto provocatori. Potremmo definirli i nuovi mostri: sono quelli che, quando va bene, mettono lo Stato ebraico a livello di una banda di terroristi come Hamas; e che sottovalutano incredibilmente il pericolo rappresentato dalla minaccia fondamentalista che pare far proseliti nel nome dell’Islam. Da Luigi De Magistris a Moni Ovadia, da Alessandro Orsini e Luca Bottura fino addirittura ai pierini di Ultima generazione, i dispacci d’agenzia portano nelle redazioni affermazioni di una gravità sconcertante per chiunque sia dotato di buonsenso.
Prendete l’ex sindaco di Napoli. De Magistris se ne va tranquillamente in tv a sostenere di non avere elementi per definire Hamas organizzazione terroristica. Anzi, di più: «Se Hamas è un’organizzazione terroristica mi interessa poco. A me interessa la causa palestinese che è giusta, nei confronti della quale mi sono sempre battuto, sono cittadino palestinese. Quindi per me esiste la causa palestinese. Non sono una persona titolata a dire se Hamas in quanto tale é tutta un’organizzazione terroristica». Nessuno gli ha chiesto a quando risale la sua ultima visita neurologica.
Da professionista della recitazione l’uscita di Moni Ovadia. Qualche giorno fa si era dimesso, contro Israele..., da direttore generale del Teatro comunale di Ferrara. Poi, siccome, la sua decisione non ha provocato il cessate il fuoco ci ha ripensato, ha bussato ed è rientrato prontamente nell’incarico lasciato troppo frettolosamente. «Il mio ruolo al Teatro Abbado, anche sotto il profilo formale - dice Moni Ovadia - è quello di prestatore d’opera, in relazione alle funzioni di direttore. Quanto ho dichiarato è una manifestazione del pensiero, a titolo del tutto personale e fuori da tali funzioni. Se per qualche tempo ho pensato a un passo indietro era solo per non trascinare il teatro nelle polemiche, anche e soprattutto a tutela dei lavoratori.
Per questa ragione avevo momentaneamente annunciato le dimissioni, riservandomi eventualmente di formalizzarle più avanti. Oggi tutto è stato chiarito e, preso atto che il Cda non richiede le mie dimissioni, sussiste ancora il clima di fiducia che ci consente di proseguire con serenità nel lavoro svolto». Insomma, nella migliore tradizione meroliana, “sta casa aspetta a te...”. Il coro “nun ce lassà” ha fatto centro.
Straordinaria la performance del redivivo professor Orsini. Il docente della Luiss ieri non ha trovato meglio da fare che invocare un mandato di cattura internazionale per Bibi Netanyahu, premier israeliano. Preghiamo per lui, il professore... Sulla scia di Nanni Moretti il comico Luca Bottura. Mi si nota di più se vado o se non vado? La seconda, evidentemente, ed è stata questa l’opzione stabilita per disertare, anche lui, l’edizione di Luccacomics, sulla scia inaugurata da Zerocalcare. Ammirevole la motivazione, che ha esposto su X di Elon Musk: «Su spunto delle mie figlie, cancellata prenotazione a Lucca Comics dove andavo da tre lustri. Ci torno quando fanno via Sandro Pertini e non ci sono neofascisti in Giunta. A presto!». Originale come motivazione, con la straordinaria dimenticanza della delibera di destra che – in quei tre lustri - fu la sinistra a bocciare in materia di toponomastica.
Bottura, sconvolto dalla guerra in Palestina, ha fatto confusione sulle strade di Lucca. Eppure non ci sono quei tunnel che vediamo tutte le sere in tv. Si riprenderà dalla sbronza. Infine, immancabili, protagonisti, eroici, ecco arrivare pure quelli di Ultima generazione. Hanno scoperto che qualche giorno fa la Meloni si è recata a trovare Netanyahu, come hanno fatto altri uomini di Stato, e lo ha addirittura abbracciato. Una colpa gravissima che si aggiunge a quell’astensione – non certo solitaria – dell’Italia all’Onu su una proposta di “cessate il fuoco” che però non diceva neppure una parolina all’indirizzo di Hamas. E quindi non poteva mancare la banda di quelli che fermano virilmente le automobili di chi lavora, ma non i razzi dei terroristi: «Ultima Generazione non può che condannare fermamente le azioni portate avanti dallo Stato di Israele nella Striscia di Gaza, in totale violazione della Convenzione di Ginevra». A Tel Aviv hanno altri motivi per tremare, diciamo... Speriamo in qualche giornata migliore. Per l’Italia.
Perché la sinistra che odia Israele va contro la sua storia. CLAUDIO CERASA per ilfoglio.it mercoledì 1 novembre 2023.
I progressisti rinnegano tutto ciò per cui dovrebbero lottare: democrazia, diritti, libertà. Istantanee su un mondo al contrario
Janet Daley è una famosa opinionista inglese. È una conservatrice, scrive per il Sunday Telegraph e la scorsa settimana ha centrato un tema importante legato al conflitto in medio oriente. Un tema su cui, suggerisce Daley, dovrebbero riflettere tutte le sinistre del mondo. La questione è insieme semplice e dirompente. Quando cerca un modo per delegittimare gli avversari, buona parte della sinistra mondiale tende a trasformare i propri nemici in allievi del pensiero fascista o, peggio ancora, nazista. E grazie a questa logica, ergersi a difensori degli ebrei, fino a qualche tempo fa, significava drizzare le antenne di fronte alla recrudescenza dei movimenti di estrema destra. La logica, in teoria, dovrebbe essere ferrea: giocare con l’antisemitismo significa essere di estrema destra. E la sinistra, difendendo gli ebrei, in teoria dovrebbe difendere il proprio paese dall’avanzata delle destre.
Uno scherzo usato magari con dirigenti di FdI troppo insistenti e con banali scocciatori. Per non parlare di quando, sempre la premier, si divertiva dal palco di Atreju, la festa di Fratelli d'Italia, a farsi beffa dei big della politica: da Berlusconi a Veltroni, fino a Fini (anche se non si trattavano di scherzi telefonici). Comunque tutto molto innocuo e divertente. Al contrario di quanto messo in piedi dal finto presidente della Commissione dell'Unione Africana ai danni della credibilità del nostro paese. Pronto, chi è? C'è poco da scherzare.
"Su Israele la sinistra sta sbagliando come con le Brigate Rosse". Parla Furio Colombo. NICOLA MIRENZI per ilfoglio.it il 19 ottobre 2023.
L'ex direttore dell'Unità: "L’antisemitismo, che in Italia era stato una prerogativa fascista, della destra, è penetrato a sinistra, come l’umidità che si diffonde da una parete all’altra della casa"
"Su Israele la sinistra sta commettendo lo stesso tragico errore che commise con le Brigate Rosse. Lascia circolare nel suo discorso la propaganda di Hamas, come fosse la limpida voce del popolo palestinese, anziché quella di un’organizzazione terroristica feroce, contro la quale è necessario schierarsi e denunciare, come fece l’operaio comunista Guido Rossa con le Br”. Ex parlamentare dell’Ulivo, direttore dell’Unità, una lunga storia politica e culturale a sinistra, Furio Colombo ascolta le parole di Nicola Fratoianni sulla strage dell’ospedale di Gaza e viene inghiottito dalla “tristezza” e dallo “sconforto”.
“L’esercito israeliano ha bombardato un ospedale pieno di personale sanitario, feriti e sfollati”, scrive il segretario nazionale di Sinistra Italiana, un’ora dopo la notizia dell’esplosione, attribuendo a Israele un “crimine di guerra”, quando ancora le responsabilità non sono chiare. Dice, invece, Colombo: “Fratoianni si è prestato a rilanciare in rete il volantino della propaganda di Hamas, che dà subito la colpa a Israele, facendosi portavoce della loro versione dei fatti”. La tristezza di Colombo aumenta quando cito un articolo di commento del massacro del 7 ottobre di Patria Indipendente, l’organo ufficiale dell’Anpi, che, dopo aver condannato l’attentato, aggiunge: “Impossibile però ignorare l’occupazione militare illegittima israeliana di parte del territorio palestinese, causa dell’azione armata di Hamas”. Dice: “Non ci posso credere. Ora sarebbe stato Israele ad armare la mano di Hamas? E’ desolante vedere ciò che rimane della Resistenza italiana prestarsi alla grande distribuzione di propaganda islamista”.
Da tempo, Furio Colombo conduce una battaglia a favore di Israele all’interno della sinistra italiana, via via sempre più solitaria, convinto però che “la sinistra dovrebbe naturalmente stare dalla parte di Israele”. Ha spiegato il perché in due libri oggi introvabili: “Per Israele”, pubblicato nel 1991; e “La fine di Israele”, del 2007. Nei quali ricorda che l’idea di uno stato israeliano nasce all’interno dei movimenti socialisti, tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento; che socialista è l’idea dell’esperimento comunitario del kibbutz; e che da quella tradizione viene tutta la classe dirigente che ha governato Israele fino al 1977. Un dato su cui fece leva anche l’iniziale protesta palestinese, la quale si schierò ufficialmente contro l’afflusso di ebrei stranieri, osservando che molti erano “del tipo rivoluzionario bolscevico”. E oggi? “L’antisemitismo, che in Italia era stato una prerogativa fascista, della destra, è penetrato a sinistra, come l’umidità che si diffonde da una parete all’altra della casa”.
Nelle piazze filopalestinesi del fine settimana si è infiltrato sotto la maschera dell’“antisionismo”. “Perché dirsi antisionisti oggi è un modo per nascondere il proprio odio per gli ebrei, della cui violenza si prova vergogna”. Non che Colombo stia politicamente dalla parte di Netanyahu. “Sto dalla parte di chi è sceso in piazza a contestarlo”. Né è contro l’idea di uno stato palestinese. “Io sono contro Hamas. Non contro la Palestina”. Però sfugge a chi è sceso in piazza che non ci sono più due popoli e due stati: ce ne sono tre. Gli israeliani, i palestinesi della Cisgiordania e Hamas. “Che fa vivere nel terrore gli abitanti della Striscia di Gaza sotto il suo potere”. Da Israele, infatti, arrivano voci di intellettuali contro le scelte del governo. “Da Gaza, invece, solo conferme della linea politica di Hamas”.
Neanche un abitante della Striscia ha avuto da ridire per la situazione in cui Hamas li ha precipitati? “Tutto lì è sottoposto a un controllo totalitario. E dispiace che una parte della sinistra italiana distribuisca o lasci distribuire i volantini della propaganda. Anziché denunciare come Guido Rossa i terroristi”. Che non sono compagni che sbagliano. Sono nemici. “Non solo di Israele. Ma anche della Palestina”.
L'odio della sinistra per Israele nacque all'ombra del Muro di Berlino. REDAZIONE per ilfoglio.it il 6 novembre 2016.
Il nuovo formidabile libro di Jeffrey Herf: “Undeclared Wars with Israel. East Germany and the West German Far Left, 1967–1989”, svela le campagne ideologiche e terroristiche che la Ddr orchestrò contro “i sionisti”, scrive il Weekly Standard.
La missione di un'autrice tra Israele e Berlino contro il terrore
"Il nuovo, profondo, libro dello storico Jeffrey Herf, dimostra come il terrorismo della sinistra tedesca contro Israele non era una tattica, ma piuttosto era parte della strategia di una guerra a lungo termine per distruggere lo stato ebraico”. L’analisi accademica e dei media sullo stato comunista della Germania dell’est ormai defunto, e sui gruppi estremisti della Germania dell’ovest, finora non erano riusciti a capire in profondità la loro guerra continua contro Israele (e si potrebbe dire contro gli Stati Uniti). Adesso arriva lo studio monumentale di Herf: “Undeclared Wars with Israel. East Germany and the West German Far Left, 1967–1989” (Cambridge University Press). Per capire la Ddr si deve conoscere la sua opposizione alla filosofia su cui si basa la fondazione dello stato ebraico, vale a dire, il sionismo.
Herf scrive: “La dittatura della Germania dell’est era un tipo diverso di dittatura rispetto a quella nazista che l’aveva preceduta, ma, sia pure per ragioni diverse, è diventata una seconda dittatura che ha considerato il sionismo come un nemico”. Herf analizza ripetutamente con grande ironia la vuota retorica antifascista della Ddr e dei tedeschi occidentali estremisti. “I leader del regime, molti dei quali avevano combattuto il nazismo, avevano interiorizzato il mortale antisemitismo di Hitler, e questo li ha inesorabilmente spinti a volere la distruzione di Israele. La Ddr ricorda la famosa frase di Bertolt Brecht : ‘Il ventre da cui nacque (quel mostro) è ancora fecondo’”. Herf fornisce la prova esaustiva di forniture militari segrete della Ddr ai nemici di Israele in medio oriente, tra cui il regime di Hafez al Assad in Siria, un partner strategico per la Germania orientale. Prendiamo per esempio il periodo 1970-1974, in cui “la Germania dell’est ha consegnato circa 580 mila armamenti, kalashnikov e mitragliatrici, alle forze armate d’Egitto e Siria, curato la manutenzione e riparazione circa 125 dei loro aerei da combattimento Mig e consegnato milioni di proiettili, molte migliaia di lancia-razzi, granate anticarro e mine, e milioni di cartucce”. Herf ha scavato con grande accuratezza negli archivi tedeschi per ottenere informazioni sul terrorismo di stato della Ddr.
Nella sua analisi sul Generale Heinz Hoffmann, potente Ministro della Difesa della Ddr, si coglie perfettamente l’alleanza di stile stalinista tra la Germania socialista e i dittatori del medio oriente nei primi anni Settanta. Hoffmann aveva parlato ai suoi interlocutori iracheni di “punti in comune della nostra lotta contro l’imperialismo e il sionismo”. Uno dei tanti nuovi contributi di Herf nello scandagliare il terrorismo di stato della Ddr è quella che lui chiama “la definizione eurocentrica del controterrorismo della Germania dell’est”. Un elemento di questa definizione è stata la politica equivoca riguardo alle organizzazioni terroristiche palestinesi. La Ddr aveva fornito armi e addestramento sofisticati ai palestinesi in cambio della loro astensione dal compiere attacchi terroristici in Europa occidentale. “In altre parole, la Ddr in gran parte subappaltava la sua guerra contro gli ebrei agli arabi del medio oriente”.
Tuttavia, i tedeschi dell’est, intenzionalmente o inconsapevolmente, nel 1986 hanno permesso ai libici di distruggere a colpi di bombe La Belle, una discoteca a Berlino ovest, uccidendo tre persone, di cui due soldati americani, e ferendone altre 229, tra cui 79 addetti militari degli Stati Uniti. Sulla base del materiale d’archivio non è possibile stabilire un collegamento concreto tra il gruppo palestinese Settembre Nero, l’uccisione di undici atleti israeliani e il servizio di polizia tedesca alle Olimpiadi di Monaco nel 1972. Tuttavia, quando il muro di Berlino è crollato nel 1989, i funzionari della Stasi e altro personale della Ddr avevano provveduto a distruggere una enorme quantità di documenti. Ulrike Meinhof, la militante di estrema sinistra della Germania occidentale, forse la più famosa terrorista tedesca al tempo del gruppo terrorista Baader Meinhof, era euforica per la strage degli israeliani. Il suo saggio che celebra gli assassini degli atleti israeliani, è stato definito da Herf come “uno dei documenti più importanti della storia dell’antisemitismo in Europa dopo la Shoah”.
La Meinhof aveva definito l’attacco di Settembre Nero “antimperialista, antifascista e internazionalista”. L’attacco di Monaco era diretto contro il “nazifascismo di Israele”. Herf mostra anche acutamente la frattura evidente tra la retorica della Germania ovest e l’azione, scrivendo: “La posizione neutrale della Germania ovest ... fu pari a una scelta di parte a favore degli stati arabi”. Il libro è denso di nuove analisi sulla letale politica estera antisemita della Ddr e sulla mortale socio-psicologia degli estremisti della Germania occidentale. L’ossessione in molti settori delle élite tedesche per lo sterminio degli ebrei durante la Shoah e l’odio per Israele nacque allora. Nacque allora anche la violenza ideologica della sinistra verso il piccolo stato ebraico.
Purtroppo, il libro di Herf non ha scalfito la sinistra tedesca. Il Partito della Sinistra, successore del Partito Socialista Unificato della Ddr, è oggi il più grande partito di opposizione nel Bundestag e continua la tradizione di aggressione nei confronti di Israele. Il Partito Socialdemocratico, partner di coalizione della Cancelliera Angela Merkel, ha formato una “partnership strategica” con l’organizzazione palestinese Fatah che inneggia all’uccisione di israeliani. Questo libro indispensabile va letto e diffuso, introduce una più profonda comprensione della guerra della sinistra contro Israele. Il libro di Herf dovrà per questo trovare al più presto un editore tedesco disposto a tradurlo e pubblicarlo.
Il Financial Times bastona la sinistra che odia Israele. GIULIO MEOTTI per ilfoglio.it il 25 febbraio 2016.
Un articolo da ritagliare e spedire a tutti quegli intellettuali, quei giornalisti, quegli scrittori, quegli accademici che da anni, ogni giorno, in Italia e all’estero, demonizzano lo stato ebraico. La brava e bella gente di sinistra che ritiene naturale, persino giusto, che Israele incassi le offese al proprio territorio e alla propria gente.
Sul Financial Times, il grande storico Simon Schama, un liberal d’establishment, mica ha scherzato. Scrive che “il problema della sinistra con gli ebrei ha una storia lunga e infelice” e che “la critica delle politiche del governo israeliano si è trasformato in un rifiuto del diritto di Israele a esistere”. Si chiede Schama: “Perché è molto più facile odiare gli ebrei? L’antisemitismo non è stato causato dal sionismo; è esattamente il contrario”.
Un articolo da ritagliare e spedire a tutti quegli intellettuali, quei giornalisti, quegli scrittori, quegli accademici che da anni, ogni giorno, in Italia e all’estero, demonizzano lo stato ebraico. La brava e bella gente di sinistra che ritiene naturale, persino giusto, che Israele incassi le offese al proprio territorio e alla propria gente. Mettono su persino liste di proscrizione degli accademici israeliani. Un appello di professori italiani è arrivato a 328 firme. Per usare la definizione che August Babel diede dell’antisemitismo, appoggiare i nemici di Israele a tutti i costi è il nuovo “socialismo degli idioti”.
Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.
Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.
Pure la Zanzara ha l’elmetto. Il programma radiofonico più assurdo dell’etere – volgare, eccessivo, immorale, estraneo a ogni forma di buon senso – si accomoda nelle file, già in overbooking, dei soldati mediatici d’Israele.
Giuseppe Cruciani, inventore e prima voce della popolarissima creatura di Radio 24 (canale di Confindustria), si considera un sostenitore della libertà d’espressione e un nemico giurato del pensiero unico.
Sulla base di questo fragile assunto, regala attenzioni e pubblicità a uno zoo di personaggi improbabili: nostalgici fascisti, ex criminali, teorici del complotto, ufologi, sessuomani e casi psichiatrici. Ma sulla Palestina, persino questo giullaresco anticonformista ha riscoperto la bellezza di far parte del gregge.
Si è presentato in trasmissione un giorno avvolto nella bandiera di Israele e l’altro indossando la divisa dell’esercito di Netanyahu. Così Cruciani ha tradito la natura stessa della sua creatura, che funziona solo grazie alla contrapposizione teatrale tra la sua voce – provocatore di destra – e quella di David Parenzo – benpensante “di sinistra”.
Divisi sempre e su tutto, dalla politica ai vaccini, per la prima volta parlano la stessa lingua: tifano entrambi Israele. Il grado di violenza verbale della trasmissione è raddoppiato da un giorno all’altro.
[...] Il mite Parenzo, in genere concavo e sensibile al richiamo del potere e delle istituzioni, ha scoperto un’aggressività insospettabile. Tra i nemici c’è Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, colpevole di una constatazione: “Gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”.
Alla Zanzara un Parenzo inferocito si lancia in paralleli audaci: “È come dire che Aldo Moro è stato rapito dalle Brigate Rosse, sì, ma in fondo c’era un contesto... doveva trionfare la giustizia proletaria”. Poi suggerisce il “mail bombing” del politico portoghese: “L’indirizzo di posta elettronica di Guterres è questo, prenla dete nota. Lancio un appello agli ascoltatori”. Si aggiunge Cruciani: “Scrivete sulla mail dell’onu che vi ha dato Parenzo, Guterres vaffanculoooo!”.
[...] Ogni opinione difforme dal puro e semplice diritto di Israele di spianare Gaza, e senza la minima angoscia per i costi umani dell’operazione, viene sbertucciata in diretta. Il 25 ottobre Cruciani fa ascoltare l’intervento di Jacopo Fo in un talk show [...]. Tra risatine e ironie, si tira in ballo Dario Fo, che di Jacopo era il padre. Cruciani: “Ricordo che nei Paesi occidentali esiste la corruzione perché i corrotti spesso vengono presi, nei paesi arabi invece sono pieni di quattrini e restano al governo, non li tocca nessuno”.
Parenzo: “Ah, certo. Fo è un Vannacci di sinistra, è il mondo al contrario!”. Cruciani: “Una volta si diceva né con lo Stato né con le Br. Ecco qua, Jacopo Fo. Io credo che nemmeno il padre...”. La frase la completa Ruggeri: “Sì, il padre una cazzata del genere l’avrebbe detta, eccome”. Grasse risate. Dario Fo è stato premio Nobel per la letteratura; Cruciani, Parenzo e Ruggeri sono Cruciani, Parenzo e Ruggeri.
[...] Un ascoltatore chiede un parere sulle migliaia di morti civili a Gaza? Parenzo: “Sono per sostenere la libertà e la democrazia”. Cruciani: “Numeri tutti da verificare”. Ancora Parenzo: “Israele non vuole uccidere civili e bambini, quelli sono drammatici effetti collaterali di una guerra scatenata da Hamas”. [...] Sempre Parenzo, con un altro paragone illuminante: “Anche il bombardamento americano di San Lorenzo, a Roma, ha fatto vittime. Ma erano bombe alleate, bombe di libertà”.
I manifestanti pro Palestina che paragonano Netanyahu a Hitler? Parenzo: “Vanno identificati, vanno portati in tribunale, bisogna chiedersi se è corretto averli fatti manifestare”. Cruciani: “Per la sinistra è istigazione all’odio solo quando conviene”. [...] Cruciani alla regia: “Mi date un attimo quella stronza che cantava in piazza ‘fuori i sionisti da Roma, fuori i sionisti dalla Palestina’? Quella stronza dice in sostanza fuori gli ebrei da Roma”.
[...] Il 26 ottobre Cruciani ospita – per deriderlo – il vecchio inviato di guerra Fulvio Grimaldi, che ha posizioni filo Palestina. Quando Grimaldi se ne va, torna Parenzo: “C’è ancora odore di vomito, non si può dare la parola a un imbecille così”.
L’ex ambasciatore d’israele in Italia, Dror Eydar, sostiene in tv che lo scopo di Israele è “distruggere Gaza, male assoluto”. E Parenzo? Lo difende: “Poi si è spiegato, ha spiegato perfettamente che intendeva Hamas, non la popolazione civile. Nella traduzione italiana è stato detto quello, ma lui non voleva”. Ma persino Cruciani gli fa ascoltare l’audio originale: Eydar non è stato tradotto, ha parlato in italiano. Parenzo non cede: “Gli è uscito male!”. Quando nel circo suona la fanfara del pensiero unico, ballano tutti, soprattutto i clown.
Soros, il gran nemico dell'Occidente. Aiuta organizzazioni pro Palestina e Ong per i rifugiati: da sempre schierato dalla parte sbagliata. Lodovica Bulian il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
C'è anche il miliardario e filantropo George Soros nella lista dei donatori che negli anni hanno sostenuto con un fiume di denaro la galassia che sotto il velo umanitario oggi giustifica l'attacco di Hamas del 7 ottobre. George Soros, di origine ungherese, fuggito alle deportazioni naziste, avrebbe donato 15 milioni di dollari dal 2016 a gruppi che sponsorizzano alcune delle no profit che veicolano l'ideologia anti Israele. Un paradosso, visto che Soros è spesso bersaglio di attacchi antisemiti, ma la sua fondazione, la Open Society Foundation, non si è mai distinta nel sostegno a Tel Aviv. Anzi.
Come spiega il New York Post, ha donato nel tempo 13,7 milioni a Tides Centers, un gruppo di sinistra noto per finanziare a sua volta organizzazioni politicizzate sui temi sociali, dell'immigrazione, della causa palestinese in chiave anti israeliana. E basta scavare nella rete di Tides per capire fino a che punto. Tides sostiene tra le altre anche la ong «Samidoun», nota come «Palestinian Prisoner Solidarity Network», che si oppone alla detenzione di attivisti filo-palestinesi da parte dello Stato di Israele, e si batte per gli quelli arrestati nei paesi occidentali per il loro presunto coinvolgimento in attività terroristiche. Samidoun è sponsorizzata dall'Alleanza per la Giustizia Globale, una rete di sinistra che sostiene fino a 140 progetti pro-Palestina, ma anche per le frontiere aperte sull'immigrazione. Media Research Center, un think tank conservatore americano nei giorni scorsi ha scritto una lettera a Soros per chiedere di interrompere i finanziamenti, incompatibili con la linea degli Stati Uniti: «Ma sembra determinato a sostenere le organizzazioni antisemite contrarie alla civiltà occidentale», ha detto il presidente Dan Schneider.
Tra i beneficiari di Tides, finanziata da Soros, c'è l'Adalah Justice Project, con sede nell'Illinois, che il giorno del massacro ha pubblicato sui social una foto di un bulldozer che abbatteva parte della recinzione di confine israeliana: «I colonizzatori israeliani credevano di poter intrappolare per un tempo indefinito due milioni di persone». Nel 2020, ha donato 34 milioni per progetti in Medio Oriente e in Nord Africa. Ha sostenuto anche ong - come Al Haq e Al Mezan - che Israele aveva inserito in una black list, allertando i finanziatori internazionali, perché ritenute vicine a organizzazioni terroristiche come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
E ci sono poi le donazioni a ong che si occupano dei diritti dei migranti e dei rifugiati. Per questo spesso Soros era finito nel mirino dei governi europei contrari all'immigrazione. Uno scontro nel 2018 c'era stato con l'allora ministro dell'Interno Salvini, che aveva accusato Soros di volere «riempire l'Italia e l'Europa di migranti». La fondazione aveva reagito parlando di «affermazioni false», ricordando di essere la seconda filantropia più grande al mondo che «sovvenziona gruppi coinvolti in questioni sociali, inclusa la migrazione. I nostri finanziamenti aiutano le organizzazioni in Italia che lavorano sulle sfide poste dalla migrazione. Non forniamo - aveva precisato - sostegno alle Ong nel Mediterraneo, anche se elogiamo questi sforzi umanitari». Lodovica Bulian
Gea Scancarello di Otto e mezzo, gli israeliani massacrati al rave "carichi di droga". Libero Quotidiano il
31 ottobre 2023
Se la sono andata a cercare. Quelli che nelle prime ore del mattino dello scorso 7 ottobre stavano facendo festa (un rave?) a pochi chilometri dal confine con la Striscia di gaza. Ragazzi e ragazze israeliani, tutti ventenni. Morti ammazzati a dozzine, chi con un colpo di pistola, chi sgozzato come un animale. Se la sono cercata. Perché quello fai, se partecipi a una festa «a 4km dall’inferno di Gaza».
Parola di Gea Scancarello, 43enne giornalista di La7 e di Otto e mezzo. Che ieri, su X (l'ex Twitter) ha postato il seguente messaggio: «E niente, dico un'altra cosa che non piacerà a molti: sta dicitura del rave “di pace e amore” quando stava a 4km dall'inferno di Gaza, ecco, un po’ andrebbe rivista. Che poi carichi di MDMA (metanfetamine, ndr) si sia tutti un po’ in pace e un po’ in amore è un altro conto».
Tradotto: stronzi (perché fanno festa a pochi chilometri dall’«inferno») e tossici, quelli finiti trucidati come bestie. Ora, la Scancanello è una incallita sostenitrice della “causa” palestinese. Ma quel post deve essere sembrato un po’ troppo persino per lei. Fatto sta che la giornalista lo ha cancellato, spiegando che «molti non lo hanno capito e hanno strumentalizzato in ogni modo. Succede, ma significa che l’ho scritto male: quindi l’ho cancellato. Non cambia la mia opinione sulla questione, ma non ho alcuna voglia di alzare un casino mostruoso». Tranquilla, l’hai già alzato.
Roma, lo studente israeliano finisce nella traccia del compito: scoppia il caso. Valentina Conti su Il Tempo il 31 ottobre 2023
Scattano i provvedimenti sul «caso», riportato dal Corriere della Sera, che ha investito il Liceo scientifico Augusto Righi di Roma, dove un docente ha chiesto ai ragazzi un tema sulle posizioni del compagno di classe israeliano. A far scoppiare la bufera, a quanto si è appreso, è stato, per l'appunto, un elaborato scritto, «Le ragioni di Israele», dal punto di vista dello studente, citato per nome e cognome e indicatore come «cittadino italo- israeliano». «È stata avviata una verifica e un'indagine interna ed è stato investito della questione l'Ufficio scolastico Regionale», ha reso noto ieri il dirigente scolastico dell'istituto di Via Campania, Cinzia Giacomobono.
L'episodio è stato segnalato anche al Ministro dell'Istruzione e del Merito. «Sto seguendo la vicenda con attenzione - ha aggiunto la preside - il mio compito è quello di vigilare affinché nessuna coscienza venga turbata, che si offrano strumenti critici al di là delle parti politiche, sociali, culturali, che si presentino solo strumenti di lettura della realtà». Se l'Usr Lazio accerterà responsabilità a carico dell'insegnante, che dovrà dimostrare di non aver violato il codice disciplinare della scuola, potrebbero partire sanzioni. Preoccupa sempre più la crescita, a livello globale, di episodi di antisemitismo dall'inizio del conflitto in Medioriente del 7 ottobre. L'allarme arriva per bocca di Stefano Gatti, ricercatore dell'Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). Sono episodi con sfumature diverse. A casa nostra, l'antisemitismo circola soprattutto sul web.
Ma nel mese di ottobre si è registrato un cambiamento, «con circostanze legate principalmente al mondo reale», spiega l'esperto. «Forme di violenza, magari verbale - prosegue sono segnalate nelle università e nelle scuole. È un dato significativo». Oltre alle «manifestazioni, nelle quali sono stati lanciati slogan a favore di Hamas e terroristici». «In Italia - osserva ancora Gatti - le forze dell'ordine sono comunque sempre state molto efficienti ed efficaci nel contrastare l'antisemitismo. Periodicamente, i giornali e le televisioni danno conto di azioni contro estremisti islamici o contro forze neonaziste che possono essere autori di episodi di violenza antisemitica».
«Da sempre, l'antisemitismo aumenta nei momenti in cui gli ebrei sono al centro dell'attenzione, durante i conflitti in Israele, o nel Giorno della Memoria, ad esempio», aggiunge la sociologa Betti Guetta, responsabile dell'Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec , confermando ad ottobre 2023 l'incremento significativo nello Stivale di fatti di antisemitismo offline. Ed è solo la punta dell'iceberg. «Le segnalazioni che raccogliamo da Nord a Sud, sia attraverso l'Antenna antisemitismo sia con altri strumenti, sono soltanto alcune. Per paura, ma anche per la grande preoccupazione ai rischi del conflitto nella Striscia di Gaza - conclude Guetta - numerosi episodi antisemiti non vengo.
Estratto dell’articolo di Uski Audino per “la Stampa” lunedì 30 ottobre 2023.
«Mi auguro che un giorno si arrivi alla soluzione dei due Stati e forse questa sarà la volta buona» spiega Moshe Kahn, pluripremiato traduttore dall'italiano al tedesco, raggiunto al telefono nella sua casa di Berlino. Ebreo tedesco emigrato in Svizzera durante la II guerra mondiale e grande conoscitore della letteratura italiana e dell'Italia - dove ha vissuto 30 anni - Kahn ha tradotto Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Calasso, Andrea Camilleri, Luigi Malerba e molti altri.
[…] «[…] Un cessate il fuoco è necessario per due motivi, perché ci sono ancora tanti ostaggi nelle mani di Hamas e quindi è essenziale che le trattative proseguano, anche se la loro liberazione sarà difficile da ottenere. E perchè il dramma dei palestinesi innocenti coinvolti è una tragedia tremenda […] colpire Hamas ma non la popolazione civile, vittima di quell'organizzazione. […]».
Qual è il suo giudizio del governo Netanjahu dopo l'attacco di Hamas?
«Ho visto filmati sulla Bbc di quello che ha fatto Hamas perfino ai bambini, ai neonati. Ha tagliato braccia, teste. Ma come si può giustificare una cosa di questo genere? Non trovo nessuna spiegazione convincente. Quindi l'attacco era dovuto e Israele doveva assolutamente mettere fine a tutto questo».
Crede che la soluzione dei due Stati possa essere ancora praticabile?
«Potrebbe essere la volta buona che i politici israeliani capiscano che l'occupazione che dura da quasi 60 anni, dalla Guerra dei 6 giorni del 1967, è insostenibile. […] Nel dopo-guerra si dovranno iniziare trattative per una civile convivenza. […] Soltanto in una convivenza, l'odio si trasformerà con il passare del tempo in ragione. Sarà un processo lento, una decina d'anni almeno. Ma ci vuole giustizia e ragione per arrivare alla pace.
Intendo giustizia per i palestinesi, che devono riavere le terre rubate dai coloni».
Che cosa pensa del governo attuale di Israele?
«Ho sempre sostenuto che il pericolo per Israele, dalla prima Intifada in poi, viene dall'interno del Paese, non da fuori. Il pericolo non viene dagli Stati vicini, ma dai primi ministri di destra israeliani che non hanno a cuore il destino del Paese ma se stessi. Sono egocentrici, narcisisti come quest'ultimo, Benjamin Netanyahu. È da 30 anni in politica e non ha ottenuto niente, ha solo prodotto un odio maggiore. Il problema dei politici israeliani di destra è che non hanno fatto alcun passo avanti per facilitare la convivenza tra i due popoli, ma pensano solo a ingrandire Israele, favorendo l'estensione degli insediamenti con la giustificazione che 3000 anni fa Dio ha promesso loro quelle terre».
Qual è il problema di questo tipo di argomento?
«Intanto da allora è trascorsa una bella fetta di storia e non possiamo fare finta di non saperlo. Ma poi c'è anche la mancata conoscenza di un libro molto importante del Vecchio Testamento, il Libro dei Giudici (il cui episodio più noto è Sansone e Dalila) che racconta la storia tra gli ebrei e filistei, i palestinesi di allora. È un libro che nessuno conosce e che spiega l'antico disaccordo. Ecco, se si mette in campo la promessa di Dio di 3000 anni fa e si omette il Libro dei Giudici, allora è una visione della storia molto unilaterale».
E la sinistra israeliana che ruolo ha giocato?
«I governi laburisti hanno cercato in vari modi di arrivare ad un accordo con i palestinesi. […] i governi di destra israeliani sono votati in gran parte -e lo dico con amarezza - da immigrati russi e dai coloni americani che si comportano negli insediamenti come fossero nel Far West». […]
[…] sostenuti specie dalle organizzazioni ebraiche americane, i coloni continuarono a crescere proprio in quelle terre che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese. Nel 2005 Ariel Sharon ritirò i 15.000 coloni di Gaza lasciando capire che la Cisgiordania era tutta loro. I governi di Netanyahu li hanno sostenuti con ogni mezzo: oggi sembrano una presenza irreversibile. Secondo il censimento Onu del marzo 2023 sono circa 700.000 (di cui 230.000 a Gerusalemme Est) e le colonie in Cisgiordania sono 279 […]
Guerra in Israele. "Ebrei colonizzatori e palestinesi vittime. Così il pensiero woke stravolge la realtà". Il principale intellettuale conservatore inglese: "Israele odiata perché difende i suoi confini. In Occidente esiste un problema generale di opinione pubblica". Francesco Giubilei il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Douglas Murray è il principale pensatore conservatore inglese vivente, autore di numerosi saggi tradotti anche in Italia tra cui La strana morte dell'Europa e La pazzia delle folle. Gender, razza e identità, lo abbiamo intervistato in merito alla sua posizione sulla guerra tra Israele e Hamas e le manifestazioni pro Palestina in Europa di questi giorni.
Nelle città europee sono sempre più frequenti cortei in sostegno della Palestina che sfociano in posizioni radicali con slogan per la jihad e giustificazionisti di Hamas, come si è arrivati a questa situazione?
«Per decenni l'Europa è stata leggera sull'immigrazione, abbiamo fatto arrivare molte persone dall'Africa e dal Medio Oriente e così la politica estera è diventata politica interna e i problemi esterni sono diventati interni. Oggi Israele ha i suoi problemi ma li abbiamo anche noi in Europa, non riusciamo a controllare più le nostre città».
Le università in cui si diffonde la cultura woke e la cancel culture, sono diventate un luogo in cui si giustificano le azioni di Hamas, come è stato possibile?
«Le ragioni sono varie, senza dubbio c'è una pressione da parte dei musulmani ma le università sono ridotte molto male. C'è la volontà di imporre in tutto il mondo i temi americani, la questione delle minoranze nere americane, la critical race theory è ormai diffusa ovunque. Molti giovani nelle università credono che Israele sia uno stato colonialista e si è diffusa questa falsa dicotomia degli ebrei colonizzatori e dei palestinesi vittime. Parlano di aggressione di Israele ma non dicono nulla contro le azioni di Hamas».
Cosa ne pensa del supporto di una parte della comunità LGBT alla Palestina?
«È un suicidio, devi essere criminalmente stupido per parlare di Queer per la Palestina, è un po' come dire Neri per il Ku Klux Klan o Polli per KFC o Tacchini per il Natale. Chiunque conosce la situazione in Palestina sa che non c'è spazio per gli omosessuali. Se i gay pensano di essere oppressi in Europa (e grazie a Dio non lo sono), è nulla rispetto a quanto farebbe loro Hamas».
Nel mancato supporto a Israele di una parte dell'opinione pubblica non crede ci sia un simbolo dell'odio verso i valori occidentali?
«Penso che sia così, c'è un problema generale nell'opinione pubblica che ha perso fiducia nell'Occidente. Odiano che Israele sia una nazione che difende se stessa, i propri confini e il proprio Stato. Anche l'Italia dovrebbe fare come Israele e difendere i propri confini, invece chi lo ha fatto come Matteo Salvini viene mandato a processo. Lo stesso è accaduto in Danimarca con l'ex ministro per l'immigrazione Inger Stoejberg che è stata condannata. Il problema, ancora una volta, è nostro, Israele fa quello che dovremmo fare noi europei: difendere la propria nazione».
In Italia abbiamo un grave problema con l'immigrazione, se dovesse consigliare a Giorgia Meloni come intervenire cosa direbbe per fermare gli arrivi nel Mediterraneo?
«Meloni ha chiesto che l'Unione europea faccia di più sull'immigrazione ma negli anni l'Ue non ha fatto nulla, si sono alternati numerosi governi ma niente è cambiato. In Italia avete un governo di destra che è stato eletto sostenendo che avrebbe fermato l'immigrazione e lo deve fare. Nulla è più importante del difendere i confini della propria nazione, se scompaiono i confini scompare la nazione. Bisogna fermare le navi con i migranti irregolari, non farle arrivare. Credo che il modello australiano promosso dall'ex primo ministro Tony Abbott sia quello giusto per fermare l'immigrazione illegale. Se la legge non funziona cambiala o fai in modo di romperla, nessuno di noi vuole vedere Roma conquistata».
Caccia agli ebrei. L'assalto ai passeggeri appena scesi dal volo in Daghestan è solo l'ultimo della serie. E le piazze occidentali ribollono di slogan antisemiti. Come nei Paesi islamici. Fiamma Nirenstein il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Due sono le sorprese che ha portato con sé il 7 ottobre: la vulnerabilità degli ebrei nello Stato d'Israele a fronte dell'odio islamista, che a sua volta ha mostrato un volto sanguinario; e l'eco abnorme nelle ore successive alla carneficina, proveniente da tutto il mondo. L'eco dell'odio antisemita, che subito gridava «morte agli ebrei», che li nazificava come responsabili. Veniva innanzitutto dalle moschee di tutto il mondo, dalle case dei due miliardi di musulmani che popolano gli stati islamici o sono nostri ospiti nei Paesi occidentali, ma anche dalle raffinate università americane, dalle piazze europee di Londra, Parigi, Milano. Il branco che ha inseguito gli ebrei per l'aeroporto di Machackala nel Daghestan, una masnada di bruti nelle sale d'attesa, dietro l'autobus in fuga, urlava «siamo qui per gli ebrei, per ucciderli, Allah akbar»: come gli assassini nei kibbutz della strage.
Dopo il 7 ottobre è stata un'epidemia. Difficile scegliere gli esempi, ce ne sono centinaia. In tutti i Paesi islamici, in Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Grecia, da noi, negli Usa il numero degli incidenti antisemiti è aumentato del 200, il 400, il 600 per cento. A Milano con le bandiere palestinesi, i manifestanti gridavano «Aprite i confini, uccidiamo gli ebrei»; a Bologna su un cartello «Hitler vi incontrerà di nuovo all'inferno». «Gas the Jews» è di moda. La paura delle comunità ebraiche ne cambia la vita, chi ha la Mezusà, la benedizione sulla porta, può temere che la si distrugga, come a Parigi. Città per città, Paese per Paese, vili prese di posizioni di università come la Columbia, Yale, Berkeley, il raccapriccio per ciò che Hamas ha fatto si è trasformato in un antisemitismo mimetico, genocida. Non è vergogna per le folle invocare Hitler e il genocidio, inneggiare ai tagliagole. È una novità infettiva. L'antisemitismo israelofobico dell'Occidente, oggi mischiato a quello del sempre crescente numero dei musulmani, si era già negli anni trasformato in odio militante. Il rovesciamento era già evidente, lo scopo da tempo non era «due stati per due popoli», ma l'eliminazione di Israele e degli ebrei.
Durante la seconda Intifada, quando i terroristi suicidi uccidevano 1.500 civili, ci fu un'altra ondata mondiale di odio anti ebraico e anti israeliano. Durante tutte le guerre in cui Israele è stato aggredito, anche dopo il rifiuto di qualsiasi accordo, è sempre cresciuto l'odio. La novità è che sulla scia di Hamas, dell'Isis, di Al Qaida, il messianismo musulmano si è esplicitato con tracotanza in tutto il mondo, secondo il dettato che per vincere si deve terrorizzare, piegare, sfigurare. L'attacco del 7 ottobre ha avuto una forza propagandistica che si è allargata minacciando per esempio Biden o chiunque si associ alla difesa di Israele.
È una svolta politica dell'antisemitismo ideologico: è la forte, potente divisione in due mondi che si vuole disegnare nelle menti e nei cuori. Puoi stare con lo schieramento vincente dei palestinesi, con gli Hezbollah, con la Siria di Assad, l'Irak e lo Yemen sciiti, l'Iran, la Russia e la Turchia e agire nel nome del tuo antisemitismo, non solo a proclamarlo. Potrai finalmente distruggere Israele e gli ebrei. Ma perché gli studenti di Berkley e parte dei giovani italiani si associano? Perché il «palestinismo è riuscito a essere la religione occidentale progressista, ignorante dell'origine di Israele, una macchina di odio che ne ha fatto uno stato «coloniale, razzista, imperialista» che pratica un «odio umanitario» (come lo chiama Shmuel Trigano) in nome dei diritti umani. Non ha nessun peso che Hamas e l'Iran ammazzino gli Lgbtq, ma lo ha per esempio l'idea, negativa, che gli ebrei abbiano voluto costruire una nazione. «Nazione»! Come autodifesa o identità, è un concetto contrario al multiculturalismo, alle teorie di genere, alla cancel culture. Gli ebrei spinti fuori dalla modernità, anche se è vero tutto il contrario, sono rappresentati come «nazisti che vogliono sterminare i palestinesi», una «piaga mortale» come sostengono gli ayatollah e purtroppo anche le piazze di Londra. Il razzo della Jihad Islamica che ha colpito il 17 l'ospedale a Gaza, ancora viene definito israeliano da certi media internazionali e dalle manifestazioni. L'incontro dell'antisemitismo dei diritti umani con quello musulmano esplode e insegue gli ebrei per ucciderli.
Daghestan, la polizia russa arresta 60 persone per l’assalto antisemita contro l’aereo proveniente da Israele. Sembra che le azioni siano state ispirate da una serie di post sulla piattaforma Telegram, in cui veniva detto ai follower che quella sera sarebbe arrivato un volo da Tel Aviv. Il Dubbio il 30 ottobre 2023
Sessanta persone sono state arrestate a seguito degli scontri avvenuti ieri all’aeroporto di Makhachkala, in Russia, quando una folla nella regione a maggioranza musulmana del Daghestan ha preso d’assalto lo scalo alla ricerca di passeggeri ebrei in arrivo da Israele. Lo riferisce l’agenzia di stampa russa Ria, aggiungendo al momento che 150 manifestanti sono stati identificati. Le autorità sanitarie locali hanno inoltre riferito che 20 persone sono rimaste ferite, di cui due in condizioni critiche.
La Ria ha aggiunto che nove agenti di polizia sono rimasti feriti nell’incidente, due dei quali ricoverati in ospedale. Un video pubblicato sui social media ha mostrato centinaia di giovani, alcuni dei quali con bandiere palestinesi o cartelli di denuncia contro Israele, irrompere sulla pista dell’aeroporto internazionale di Makhachkala e cercare di salire su diversi aerei, tentando di sfondare i finestrini. I dipendenti dell’aeroporto hanno provato a riportare i passeggeri all’interno degli aerei mentre la folla si avvicinava all’aereo. La Russia ha chiuso l’aeroporto di Makhachkala ieri sera.
Sembra che le azioni siano state ispirate da una serie di post sulla piattaforma Telegram, in cui veniva detto ai follower che quella sera sarebbe arrivato un volo da Tel Aviv con profughi provenienti da Israele. Su alcuni cartelli tenuti dai rivoltosi si leggeva: “Siamo contro i rifugiati ebrei”. La polizia è rimasta a guardare mentre centinaia di manifestanti irrompevano nel terminal principale dell’aeroporto, entrando nelle aree riservate e chiedendo ai funzionari doganali di indirizzarli verso i passeggeri in arrivo, come riporta The Guardian.
Daghestan, assalto all’aeroporto: folla sulla pista dopo l’arrivo di un volo da Israele. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera domenica 29 ottobre 2023.
Forze dell'ordine impotenti davanti al muro di persone che imbraccia bastoni e bandiere della Palestina. L’ambasciatore israeliano in Russia Alexander Ben Zvi smentisce la notizia riferita dalla «Tass» secondo cui 20 oltre persone sarebbero rimaste ferite
Si vede la folla che irrompe nell’aeroporto. Che corre verso la pista. Molti gridano "Allahu Akbar" e vanno dritti verso un aereo che è appena atterrato da Israele e dal quale stanno scendendo passeggeri che tornano precipitosamente a bordo. Nell’assalto, viene riportato dalle agenzie di stampa, più di 20 persone, tra civili e poliziotti, sono rimaste ferite. Dieci sono ricoverate in ospedale: due sono in condizioni critiche. Nella notte la smentita: nessuna vittima. Lo riferisce il quotidiano «The Times of Israel» riportando le parole del governo israeliano. Il ministro degli Esteri ha precisato che quanto accaduto è stato seguito dall’ambasciatore israeliano in Russia Alexander Ben Zvi, con altri diplomatici, funzionari del National Security Council e altri funzionari di sicurezza.
La folla cerca gli ebrei. Sono sconvolgenti le immagini che arrivano dal Daghestan, repubblica della Federazione russa. Aeroporto di Makhachkalà. Girano all’inizio sui canali telegram russi, poi si allargano agli altri social, X (ex Twitter) soprattutto. E nel giro di pochi minuti fanno il giro del mondo.
Fra i tanti filmati pubblicati ce ne sono alcuni in cui si vedono le forze dell’ordine impotenti di fronte al muro di gente che spinge per entrare nell’aeroporto.
Alcuni sono armati di bastoni. Altri video mostrano auto della polizia prese d’assalto e gli uffici aeroportuali «controllati» alla ricerca di cittadini israeliani. Ancora un video pubblicato su Telegram: un uomo circondato dalla folla minacciosa che mostra il passaporto per dimostrare di non essere cittadino israeliano. «Sono uzbeko» ripete. «Sono uzbeko».
Secondo l'agenzia aeronautica russa, la quale ha precisato via Telegram che lo scalo resterà chiuso fino al 6 novembre, le forze dell'ordine hanno «liberato» l'aeroporto dalla folla: «Alle 22.20 ora locale l'aeroporto è stato liberato dall'infiltrazione di cittadini non autorizzati». All’aeroporto erano arrivati molti mezzi della Guardia nazionale russa: gli agenti avrebbero cercato di convincere la folla ad allontanarsi. La Direzione principale del ministero dell'Interno russo per il Distretto federale del Caucaso settentrionale ha successivamente comunicato di avere identificato oltre 150 rivoltosi, di cui 60 di sono stati arrestati.
Le autorità di Tel Aviv hanno fatto sapere di essere al lavoro per la ripartenza dell'aereo per Mosca, con tutti i cittadini israeliani già portati al sicuro in una zona dell'aeroporto. Israele ha detto di aspettarsi «che le autorità di polizia russa proteggano la sicurezza di tutti i cittadini israeliani ed ebrei ovunque essi si trovino e agiscano in maniera risoluta contro i manifestanti e contro la selvaggia istigazione diretta contro gli ebrei e gli israeliani».
Il Mufti supremo del Daghestan, Sheikh Akhmad Afandi aveva lanciato un appello video via telegram per richiamare tutti alla calma e per far cessare i disordini in aeroporto: «Vi sbagliate. Questo problema non può essere risolto in questo modo. Lo risolveremo in modo diverso»
Ventimila per la Palestina: immagini e racconti dal grande corteo di Roma. domenica 29 ottobre 2023.
Ieri, 28 ottobre, in molte città del mondo si sono tenute partecipatissime manifestazioni a sostegno del popolo palestinese e contro il violento massacro che Israele sta commettendo nella Striscia di Gaza in queste settimane. Nonostante alcuni Stati europei hanno votato contro o si sono astenuti, come l’Italia, nei confronti della risoluzione ONU che proponeva un cessate il fuoco, centinaia di migliaia di cittadini hanno scelto da che parte stare. Ad Istanbul, Londra, Berlino, Parigi, New York, e anche a Roma, i manifestanti hanno invaso le strade con le bandiere palestinesi per chiedere a gran voce la fine del sistema israeliano di apartheid e la liberazione del popolo palestinese, oppresso da 75 anni.
Le immagini aeree da Istanbul sono impressionanti: centinaia di migliaia di partecipanti, così come l’imponente corteo che ha attraversato le strade di Londra. A New York, invece, sono state arrestate alla Grand Central Station circa 300 persone, per la maggioranza ebree, che stavano svolgendo un sit-in per chiedere la pace e l’immediato cessate il fuoco. Mentre a Parigi migliaia di persone sono scese in strada in solidarietà con la Palestina nonostante i divieti della Prefettura.
Anche a Roma, dalle ore 15:00, migliaia di manifestanti si sono radunati a Porta San Paolo, davanti alla Stazione Ostiense e alla Piramide Cestio, in risposta alla chiamata lanciata dalle varie associazioni palestinesi del territorio, come Giovani Palestinesi d’Italia, Movimento Studenti Palestinesi d’Italia, Comunità Palestinese e Unione Democratica Arabo Palestinese.
Già nelle ore precedenti al corteo la tensione per una grande giornata di mobilitazione nazionale era palpabile nell’aria e sui muri. In giro per Roma spuntano scritte, manifesti e bandiere a fianco del popolo palestinese mentre nella metro, direzione Piramide, si vedono le prime kefieh ed i primi cartelloni. Arrivati alla fermata, i vagoni si svuotano, sono tutti lì per la manifestazione: arabi di diverse nazionalità, famiglie, anziani, studenti medi e universitari.
Manifestante indossa la Kefiah
Splende il sole sul Piazzale antistante la Stazione Piramide/Ostiense, dove in poco tempo il concentramento diventa imponente, con migliaia di persone provenienti da tutta Italia che si schierano dietro lo striscione principale che recita “Stop al genocidio, fine dell’occupazione. Palestina libera!”
Striscione in testa al corteo
Il corteo parte in ritardo, ed il motivo viene annunciato dagli organizzatori dal furgone: 7 autobus provenienti da Napoli sono stati bloccati e perquisiti dalla Polizia per circa 2 ore all’altezza dello svincolo Roma Sud. La Rete Napoletana per la Palestina fa poi sapere, attraverso una nota pubblicata sui loro canali social, che il controllo è stato assurdo e con lo scopo di “censura preventiva”. Infatti, ad essere sequestrati, sono stati solamente alcuni cartelli che recitavano “Netanyahu assassino” oppure “i popoli in rivolta scrivono la storia”, oltre a 4 caschi, che gli attivisti spiegano essere stati utilizzati semplicemente per arrivare in motorino all’appuntamento con i bus. Per questo motivo, Polizia e Digos, hanno ritenuto indispensabile tenere fermi in mezzo all’autostrada per 2 ore anche bambini ed anziani, senza nessun servizio e sotto il sole.
Arrivati gli ultimi manifestanti, intorno alle 16:00, il corteo inizia a muoversi. Oltre allo striscione principale, in testa al corteo, è presente una grande chiave che simboleggia la voglia dei palestinesi di poter tornare nelle loro case e nella loro terra, occupata illegalmente da Israele o bombardata come sta avvenendo a Gaza.
Decine di migliaia di persone (più di 20mila) sfilano verso Piazza San Giovanni, passando per il Colosseo tra fumogeni verdi e rossi, bandiere palestinesi e della pace e cori contro Netanyahu.
L’unico momento di tensione si è registrato davanti alla FAO, in Via Aventina, davanti al Circo Massimo, dove un manifestante si è arrampicato sulla recinzione per strappare via la bandiera israeliana, riuscendo a sfuggire all’ultimo dalle mani della digos.
Il corteo ha poi continuato a sfilare per le strade del centro al grido di “Palestina libera” e “Netanyahu assassino”, mentre nei cartelli e negli striscioni si legge “Free Gaza”, “No justice no peace”, “chi tace è complice” e “from the river to the sea Palestina will be free”.
Il momento più commovente e di vicinanza alla causa palestinese si è presentato durante l’inno della resistenza popolare, dove i manifestanti hanno alzato le due dita al cielo formando una “V”, simbolo molto forte del movimento di liberazione palestinese, che chiede, per prima cosa appunto, verità e giustizia. In quel momento alcune persone si sono strette in un abbraccio, tra le lacrime di dolore avvolte dalla bandiera palestinese.
Le dita a “V”. Il gesto della resistenza palestinese
Roma, l’Italia e molti Paesi del mondo, stanno dimostrando che i popoli, nonostante l’indifferenza dei governi, stanno dalla parte degli ultimi e degli oppressi, e di chi, in 75 anni, ha visto negati i più elementari diritti, tra cui quello alla vita. [di Gioele Falsini]
Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” domenica 29 ottobre 2023.
«Vogliamo dire ai fascisti e ai sionisti che si trovano in questo corteo che devono andare via subito altrimenti li prendiamo a calci. E alla polizia che non abbiamo bisogno di protezione: sappiamo cavarcela da soli». Uno dei giovani leader dei movimenti italo-palestinesi lo grida al microfono dal camion in testa alla manifestazione.
Le sue parole risuonano lungo viale della Piramide Cestia affollata da migliaia di ragazzi con le kefiah e le bandiere della Palestina, che sventolano accanto a quelle comuniste, dei Cobas, dei No Tav, della Ddr (l’ex Germania Est). Ci sono anche alcuni Tricolori che vengono fatti abbassare.
Come quello di «Italia Libera», il movimento di Giuliano Castellino, ex leader romano di Forza nuova, sotto processo per l’assalto alla sede Cgil del 9 ottobre 2021, assente perché sottoposto a misura preventiva da parte della Questura. «Da sempre con la Palestina, oggi più di ieri», ha comunque commentato Castellino.
La destra di «Italia Libera» accanto a centri sociali, movimenti studenteschi e dei lavoratori. La galassia anti-Israele che si è radunata in piazza ieri pomeriggio a Roma è composita. E numerosa.
C’erano anche i rappresentanti dei gruppi no vax. E del «Fronte del dissenso» che fino a poche ore prima aveva organizzato in un hotel all’Esquilino la Conferenza internazionale di pace, pubblicizzata con la partecipazione — alcuni relatori erano in streaming, altri hanno poi preso parte al corteo — del deputato libanese di Hezbollah Alì Fayyad e dell’ex viceministro della Repubblica popolare di Lugansk Andrej Kochetov e di John Shipton, padre di Julian Assange […]
«Un fiume palestinese per le vie di Roma per fermare l’aggressione dello Stato israeliano contro Gaza e il suo popolo. La Palestina va liberata e si deve porre fine ai crimini di guerra e contro l’umanità che sta compiendo il governo israeliano. Da cittadino onorario palestinese mi schiero per la verità, la giustizia e la pace», ha spiegato l’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, leader di Unione popolare, presente alla manifestazione.
In piazza anche l’ex deputato Alessandro Di Battista (non ha voluto rilasciare dichiarazioni), con moglie e figli, insieme con altri volti noti. C’era l’attore Moni Ovadia. Nutrita la presenza anche di personaggi famosi sul web, come Giorgia Soleri, influencer ed ex fidanzata di Damiano David, frontman dei Maneskin, che ha postato su Instagram foto sulla manifestazione.
Ma anche la cantante rap romana Raiah e l’influencer e creator Tasnim Ali, anche lei della Capitale, figlia di egiziani, 23 anni, diventata famosa nella primavera scorsa per aver scritto il libro «VeLo spiego».
Le due facce, ed i due gesti, di una guerra senza Pace. Andrea Soglio su Panorama il 29 Ottobre 2023
Le due facce, ed i due gesti, di una guerra senza Pace A Roma strappata la bandiera di Israele; a Milano sui muri appese le foto degli ostaggi nelle mani di Hamas: la differenza tra un gesto di odio ed uno di aiuto Ci sono due fatti accaduti in Italia nelle ultime ore che meritano una riessione. il primo ci porta a Roma dove uno dei partecipanti alla manifestazione per la Pace ha strappato la bandiera di Israele che sventolava assieme a quelle degli altri paesi del mondo all’esterno della sede della Fao. Il secondo invece arriva da Milano dove nella notte alcuni sconosciuti hanno compiuto un blitz del tutto particolare: muri, scalinate della metropolitane, torrette della corrente elettrica, pali della luce sono stati coperti dalle foto di alcuni degli oltre 200 israeliani rapiti dai terroristi di Hamas nell’assalto dello scorso 7 ottobre. I due fatti sono legati strettamente tra loro dato che riguardano un confitto ormai diventato un incendio quasi indomabile. Due gesti per le due parti in causa: Gaza da una parte, Israele dall’altra. Ma la differenza è abissale; non perché ci sia una parte che abbia ragione ed una che è nel torto ma nei gesti in se. Il primo è un gesto di guerra, di rabbia ed odio, un’aggressione assurda per di più nel bel mezzo di una manifestazione per la Pace ma che di pacico, vista la reazione festante degli altri presenti, alla ne aveva davvero poco. Strappare una bandiera era il massimo dell’onta possibile, è l’espressione dell’avversione totale verso un nemico arrivata al punto da voler sfregiare quello che è il simbolo visivo e non solo di una nazione. Il secondo è un gesto che invece di violento non ha nulla. Non parla di odio, non chiede vendetta ma guarda dritto alla memoria, alla testa ed alla coscienza di ciascuno di noi per aiutarci a ricordare. Dal 7 ottobre infatti, giorno dopo giorno, l’attenzione ed il favore dell’opinione pubblica da Israele è scivolata sempre più come su di un piano inclinato verso Hamas. Ci siamo dimenticati di quell’assalto, dei bambini decapitati ed uccisi davanti ai genitori, dei ragazzi colpiti mentre ballavano ad una festa della musica e soprattutto di questi 200 esseri umani tra cui molti bambini che sono nelle mani dei miliziani usati come merce di scambio (229 per 7 mila palestinesi, la proposta di oggi da Gaza) ed anche come scudi umani a protezione delle postazioni di lancio dei missili lanciati contro Israele o nei rifugi dei guerriglieri. Strappare una bandiera allontana dalla Pace. Ricordarci il male ed il dolore invece ci avvicina semplicemente per non doverlo provare più.
"Riportiamoli a casa": Milano resiste all'odio. Città tappezzata di volantini con i volti degli ostaggi israeliani. Subito vandalizzati dai filo-Hamas. Gianluca Lo Nostro il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
C'è la Milano furiosa che scende in piazza a fianco del popolo palestinese, scandendo slogan come «Israele assassino» oppure inneggiando allo sterminio degli ebrei. E poi c'è la Milano sempre solidale, ma che porta avanti battaglie di civiltà senza sentire il bisogno di manifestare quell'odio cieco che sta esplodendo nei cortei che hanno invaso l'Italia da quando è iniziata la guerra tra lo Stato ebraico e Hamas.
A rappresentarla è un gruppo di israeliani ed ebrei italiani tra i venti e i trent'anni del capoluogo lombardo che ieri all'alba hanno appeso i volantini con le foto degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas. Il blitz è scattato in centro città, con le cabine telefoniche e i mezzanini delle metropolitane Cairoli, Duomo e Cordusio tappezzate dai volti dei civili sequestrati dai terroristi islamici. I fogli riportano le facce dei bambini, dei ragazzini e degli anziani in ostaggio a Gaza, sotto alla scritta «rapiti» su sfondo rosso e in fondo il messaggio «per favore, aiutateci a riportarli a casa vivi». Un'immagine carica del dolore e dell'apprensione che stanno provando in questo momento le famiglie sostenute da un popolo intero.
L'autrice di questa iniziativa è una ragazza ventunenne nata e cresciuta a Milano, ma da qualche anno residente in Israele, da dove è rientrata una settimana e mezzo fa. Intercettata dall'Ansa, la giovane ha motivato l'azione dimostrativa del gruppo spiegando che la città era rimasta silenziosa di fronte alle atrocità commesse dal movimento islamista, a differenza di altre metropoli europee. Precisando, poi, che la ragione per la quale lei e gli altri attivisti si sono mossi alle prime ore del mattino andrebbe ricercata nel «clima di odio» e «antisemitismo» che si vive nel nostro Paese. «C'è un livello di odio che la gente deve conoscere», ha aggiunto.
Un gesto, a cui comunque ne seguiranno altri, che ha suscitato reazioni toccanti sui social. «Queste foto degli ostaggi di Hamas, tenuti prigionieri a Gaza, pubblicate all'alba oggi a Milano, significano molto per me», ha commentato lo scrittore israeliano Anshel Pfeffer, firma di Haaretz e dell'Economist. «Milano ha scritto è dove mia nonna trovò rifugio quando fuggì dalla Germania nazista e mio nonno la incontrò e ricostruì la sua vita dopo essere sopravvissuto ai campi. La storia si ripete».
I soliti violenti, però, non si sono smentiti. Dopo qualche ora, i manifesti a piazza Castello sono stati strappati. In alcuni casi perfino calpestati con l'impronta ben visibile delle scarpe sulla carta bianca. Episodi di intolleranza purtroppo già visti e raccontati anche fuori dai confini tricolori. Si tratta infatti di una campagna internazionale ideata da due artisti di strada israeliani, Nitzan Mintz e Dede Bandaid, i quali, stampando 2mila volantini a New York, hanno ispirato operazioni identiche in tutto il mondo. A Milano come nella Grande Mela, teatro di altrettanti raduni, l'accanimento dei filopalestinesi ha però offuscato le buone e sacrosante intenzioni di chi invoca il rilascio degli oltre duecento innocenti rapiti quel maledetto 7 ottobre.
Se il conflitto in Medio Oriente prosegue ad alta intensità, anche l'onda pro-Palestina cresce e preoccupa per le implicazioni che potrebbe avere in un futuro non troppo lontano. La rabbia inaudita delle migliaia di dimostranti che strumentalizzano i loro vuoti appelli per la pace e la protesta contro l'escalation militare (ma solo se è Israele ad attaccare) rischia di tradursi in atti estremi. È una bomba che si sta via via innescando soprattutto nel capoluogo meneghino. Le piazze milanesi a ottobre hanno sdoganato l'antisemitismo in tutta la sua potenza, svelando la natura bifronte di una città segnata da fratture ideologiche anacronistiche. Ma che vanta ancora un presidio di resistenza, quella vera, dei suoi cittadini silenziosi che non fanno ricorso a principi primitivi come l'odio e la violenza.
Medioriente, Zerocalcare contro il Foglio: “Fermare bombardamenti e apartheid non significa appoggiare formazioni islamiste o antisemite”. Estratto da lastampa.it Gioele Falsini su L'Indipendente domenica 29 ottobre 2023.
Michele Rech, alias Zerocalcare, risponde a Maurizio Crippa, vicedirettore del Foglio, che ha accostato in un post su X la scelta di non andare a Lucca per il patrocinio dell'ambasciata di Israele e la morte di Armita Geravand, la 16enne picchiata in Iran perché senza velo.
«Sono stato più volte in Siria quando c'era l'Isis per supportare i curdi e chi combatte sul campo il jihadismo. Lo faccio ancora tutti i giorni come posso. Amiche e amici miei più coraggiosi di me ai jihadisti gli sono andati a sparare direttamente. Tu esattamente che c... fai?», ha scritto il fumettista rivolgendosi a Crippa.
«Rispondo solo a uno scemo a campione [...] ma vale per tutti quelli che fanno finta di confondere la richiesta di finire bombardamenti e apartheid con l'appoggio a formazioni islamiste o antisemite».
Zerocalcare guida la rivolta al Lucca Comics. "C'è il patrocinio di Israele, non ci andiamo". Il disegnatore diserta il festival del fumetto. Pure Amnesty si sfila. Fedez pro-Gaza. Francesco Giubilei il 29 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Mancava solo Zerocalcare ad essere arruolato nelle brigate pro Palestina e nella guerra culturale dell'intellighenzia italiana contro Israele. Se mai vi fossero stati dubbi sull'opinione del fumettista romano in merito al conflitto tra Israele e Hamas, ci ha pensato lui stesso a sgombrare il campo da ogni incertezza con una storia su Instagram in cui ha annunciato che non parteciperà al Lucca Comics. Il motivo è il patrocinio dell'Ambasciata di Israele alla manifestazione: «per me rappresenta un problema - ha scritto Zerocalcare - in questo momento in cui a Gaza sono incastrate due milioni di persone... Venire a festeggiare lì dentro rappresenta un cortocircuito che non riesco a gestire».
«Sono stato a Gaza diversi anni fa - ha continuato il fumettista nel suo post - conosco persone che ancora ci vivono. Quando mi chiedono com'è possibile che una manifestazione culturale di questa importanza non si interroghi sull'opportunità di collaborare con la rappresentanza di un governo che sta perpetrando crimini di guerra in spregio del diritto internazionale, io non riesco a fornire una spiegazione».
Il motivo del patrocinio è dovuto alla mostra e alla copertina della manifestazione realizzata dagli artisti israeliani Asaf e Tomer Hanuka che si sono sempre spesi a favore dei valori della pace e della tolleranza.
Nel lungo post con cui ha motivato la decisione di non partecipare al Lucca Comics, Zerocalcare è riuscito a ricordare chi realizza «progetti di solidarietà, di sport, di hip hop e di writing» ma non ha speso una singola parola sui crimini di Hamas né di condanna per l'uccisione da parte dei terroristi dei civili israeliani. Peraltro Zerocalcare si è sempre definito un sostenitore della causa dei Curdi i cui nemici (Iran, Turchia) sono gli stessi di Israele, specie dopo il 7 ottobre.
Gli organizzatori della manifestazione, pur sottolineando che «Lucca Comics & Games è da sempre un luogo sicuro per le differenze», hanno affermato che confermeranno il patrocinio «abbiamo ritenuto che sarebbe un atto poco responsabile nei confronti non solo delle istituzioni e delle realtà appartenenti al nostro ecosistema, ma anche per tutti i partecipanti».
La decisione di Zerocalcare ha inevitabilmente fatto discutere e non si sono fatte attendere le reazioni politiche con il vicepremier Matteo Salvini che ha scritto: «Spiace che per qualcuno il sostegno dell'ambasciata di Israele ad un bellissimo evento culturale sia un problema, a tal punto da annullare la presenza. Io la penso esattamente al contrario, e farò il possibile per essere al Lucca Comics. Evviva l'arte, evviva la libertà». Non si è fatto attendere anche il soccorso rosso capitanato da Vauro che ha espresso «massimo apprezzamento per Zerocalcare, avrei fatto la stessa cosa». Come se non bastassero le parole di Zerocalcare, anche Fedez ha voluto dire la sua sul conflitto in corso con una storia su Instagram schierandosi con i palestinesi: «A Gaza se non muoiono sotto le bombe, muoiono per la mancanza di acqua, cibo, elettricità». Anche Amnesty Italia si è sfilata dall'evento a causa del patrocinio israliano, e pure la tiktoker «La Biblioteca di Daphne», molto nota tra i giovani appassionati di lettura, annuncia che boicotterà il Lucca Comics. Sempre in prima linea per accusare e attaccare Israele, non pervenuti quando si tratta di prendere le distanze da Hamas.
Estratto dell’articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” domenica 29 ottobre 2023.
Alla fine ce ne faremo una ragione: Zerocalcare non sarà quest’anno a Lucca Comics perché il patrocinio dell’ambasciata israeliana “rappresenta un problema”. D’altra parte, annullare un tour fa ben più rumore che confermarlo. Tra le affermazioni più banali e scontate si possano sentire oggi a riguardo, la peggiore è proprio “ognuno è libero di pensarla come vuole”. Fino a un certo punto, direi piuttosto, e non in un caso come questo.
A inquietare non è certo il lungo, prevedibile, post pubblicato sul profilo ufficiale facebook del fumettaro romano, ma i circa 62mila commenti rilasciati in meno di 24 ore dalla mandria di invasati fan, che esaltano il coraggio del disegnatore promosso a intellettuale, adulandolo come un punto di riferimento […].
In pochi hanno tentato di spiegargli la differenza tra il governo d’Israele […] e l’ambasciata di un Paese che rappresenta l’intera comunità, ma il distinguo è troppo sofisticato […]. Oppure lo sa e fa finta di niente, lui capo di quella mandria di smandrappati che ha in odio preconcetto l’unico avamposto di democrazia e civiltà presente in Medio Oriente: a casa mia questo sentimento ha un solo nome, antisemitismo.
[…] Negli anni ’70, quando l’Italia era stretta nella morsa del terrorismo, pesarono molti i “cattivi maestri” anche senza che si fossero macchiati di crimini. La storia rischia di ripetersi, soprattutto quando a parlare è un quarantenne ricco e famoso a ventenni che ancora non sanno bene perché stanno al mondo e, acriticamente, si sentono meglio in branco piuttosto che seduti in poltrona e leggersi un grande autore israeliano, certo più complesso delle storie disegnate del reuccio di Rebibbia.
Altrove avrei ironizzato, mi sarei divertito ancora una volta a prenderne di mira il look da Peter Pan degli sciattoni in bermuda e peli esposti anche in città, che ha passato la conradiana linea d’ombra ma continua ad atteggiarsi come se fosse in Erasmus. Avrei ribadito la mia assoluta distanza dal modello di maschio sfigato, perdente, indeciso, solidale, equosolidale, femminista solo perché non gliela danno mai e in verità arrapato come una bestia.
Avrei puntualizzato quel fastidio che provo ogni volta che mi trovo di fronte a un artista -sì, questo gli va riconosciuto, il suo mestiere lo sa fare […] - eletto a maitre à penser del popolo alternativo che non ha neppure la forza di inventarsi i propri eroi e li deve rintracciare nel marketing editoriale.
Avrei infine osservato come Zerocalcare sia una moneta falsa, niente di autentico e purtroppo tanta gente gli crede, in particolare i ragazzi disposti a spendere la paghetta per i fortunati albi dalla Profezia dell’armadillo in poi, ma se gli chiedi di comprarsi un romanzo dicono che non hanno soldi.
Avrei detto queste cose, i fan si sarebbero incazzati […] ma insomma l’avremmo buttata in caciara. Solo che stavolta non si può, la questione è troppo seria, mi fa sospettare uno strisciante antisemitismo che si sta diffondendo a sinistra. Il primo punto è attaccare Israele, altro non serve precisare. Allora, se permettete, la voglia di ridere mi passa.
[…] le affermazioni di Zerocalcare […] possono incitare all’odio razziale e per contro non sento intorno prendere le dovute distanze. Un mio caro amico ebreo mi ha rassicurato, ma in fondo chi è sto Zerocalcare, non so nemmeno se devo ridere quando lo leggo. Spero proprio abbia ragione lui.
L'accordo col fidanzato
«Abbiamo una regola - ha confessato la 24enne -: una vagina è per il lavoro e l'altra per lui». Annie ha incontrato il suo partner a febbraio e dice che le è stato «incredibilmente di supporto» perché ha accettato il suo lavoro su OnlyFans. […] «Inizialmente era sotto choc, ma poi mi ha fatto un sacco di domande ed era super curioso. Poi mi ha detto 'Voglio rivendicarne uno (di utero, ndr), ne voglio uno per me e poi puoi usare l'altro per lavoro'. Ed è così che ci siamo accordati!».
La condizione di Annie Charlotte
La ragazza ha scoperto di avere due vagine quando, all'età di 16 anni, andò per la prima volta dalla sua ginecologa per applicare un anticontraccettivo. Lì, la scoperta la lasciò senza parole. […]
(…)
Dal “Corriere della Sera” martedì 7 novembre 2023.
Caro Aldo, Zerocalcare, a volte mi chiedo chi glielo faccia fare. Avere un’idea, un punto di vista, fare una scelta, giuste o sbagliate che siano, porta sempre, in questo Paese, a dover subire un tale mare di dissensi, discussioni, che alla fine viene da pensare che sarebbe meglio vivere isolati in montagna. Ma naturalmente sarebbe un errore, quindi complimenti a chi ha il coraggio di esporsi. Samuele Marchetti
Mi piace il modo in cui è rappresentata la «crisi» che sempre comporta una scelta/un bivio. Ciò detto (è nel totale rispetto della sua posizione) continuo a non ritenerla una buona idea: Lucca Comics è uno di quei luoghi dove l’affermazione del principio della convivenza trova splendida applicazione. Elena Maria L. Bramardi
Risposta di Aldo Cazzullo
Cari lettori, molti di voi hanno commentato — con una maggioranza di favorevoli ma anche qualche contrario — la scelta di Zerocalcare di disertare Lucca Comics in polemica con l’ambasciata israeliana, che è tra i patrocinatori. Ovviamente ogni scelta è libera. […] Non dobbiamo avere paura delle discussioni […] C’è però un punto su cui è difficile dare torto a Francesco Merlo, quando scrive: «Siamo in parte responsabili della promozione a pensatori (di sinistra) di tanti tipi buffi d’Italia».
L’egemonia culturale della sinistra non esiste più da tempo, almeno dall’avvento delle tv commerciali. Da tempo pure l’Einaudi, la casa editrice di Pavese, Calvino, Natalia Ginzburg, è della famiglia Berlusconi. […] La sinistra non soltanto non ha più i Bobbio e i Galante Garrone (morto vent’anni fa in questi stessi giorni). Non ha più neppure gli Umberto Eco. Non ha più i maestri del pensiero, e neppure la loro versione giocosa, post-moderna, post-ideologica. L’ultima scrittrice che ha dato voce alla sinistra, almeno quella dei diritti civili, è stata Michela Murgia […]
I fumetti sono una parte importante dell’industria culturale. Lo stesso Eco ne andava pazzo. Siamo tutti cresciuti con Topolino, Asterix, Tex. Zerocalcare è interessante, «Kobane Calling» è una bella idea, però insomma attribuirgli un ruolo più grande di lui non significa fargli un favore. Uno dei più grandi registi del Novecento, Mario Monicelli, mi ha detto testualmente: «Il cinema è un’arte minore. Non può essere accostato alla pittura e alla scultura che esistono da millenni». Figurarsi i fumetti. Quando i maroniti alleati degli israeliani fecero strage di profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila, sulla Stampa a criticare Israele fu un uomo della statura morale di Primo Levi. […]
Il fumettista non è nuovo a scelte del genere. Lucca Comics, Zerocalcare diserta e “ci rimette solo lui. Sarà un successo”. Osho: “Troppo schierato”. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2023
Pensiamo che se ZeroCalcare non parteciperà al Lucca Comics chi ci rimetterà sarà solamente lui, non certo una manifestazione che richiama migliaia di persone da ogni dove”, “rinunciare a presenziare ad un evento così importante perché Israele patrocina l’iniziativa è una decisione che si commenta da sola”, ma “non si preoccupi perché la manifestazione avrà ugualmente il successo che si merita nonostante la sua assenza“. Lo affermano in una nota i leghisti Elisa Montemagni e Massimiliano Baldini, rispettivamente deputata e consigliere regionale in Toscana per il Carroccio.
Lucca Crea in risposta a Zarocalcare in un comunicata ha dichiarato “Rispettiamo le scelte personali, rispettiamo le opinioni di tutti e da sempre abbiamo l’ambizione di essere il luogo dove è possibile stare insieme nelle differenze”. “Abbiamo riflettuto molto sulla possibilità di rinunciare al patrocinio, – concludono da Lucca Crea – ma abbiamo ritenuto che sarebbe un atto poco responsabile nei confronti non solo delle istituzioni e delle realtà appartenenti al nostro ecosistema, ma anche per tutti i partecipanti. Lucca Comics & Games mette da sempre al centro solo ed esclusivamente l’opera intellettuale e creativa, le persone”.
“Zerocalcare ha assecondato la sua sensibilità e va rispettato.” – Zerocalcare è un artista molto schierato e capisco che abbia imbarazzo a partecipare in questo momento ad una manifestazione che mostra quel patrocinio sul poster. Una buona parte del suo pubblico è molto ideologizzata. E avrebbe potuto criticarlo per questo”. Federico Palmaroli, in arte Osho, commenta così con l’Adnkronos la decisione di Zerocalcare.
“Ma Zerocalcare non è nuovo a scelte del genere. Ricordo quella, che non coindivisi, di cancellare la presentazione del suo libro al Salone del Libro di Torino per la presenza dell’editore Altaforte. Che poi rientrò quando fu estromesso l’editore. Una scelta troppo ideologizzata. Ma in questo caso si parla di bambini e civili indifesi che muoiono da una parte e dall’altra. Non ho la verità in tasca e infatti evito di dare lezioni sui social”, conclude.
La risposta della Lucca Comics & Games – “Da sempre un luogo sicuro per le differenze”: così Lucca Crea, la società organizzatrice del festival, sul dibattito nato intorno al patrocinio, gratuito, dato dall”Ambasciata israeliana a Roma, motivo per il quale il fumettista Zerocalcare ha annunciato la sua assenza dalla fiera in programma dal 1 al 5 novembre. “Fin dall’inizio stiamo seguendo il dibattito in atto sul patrocinio ricevuto in primavera dall’Ufficio Culturale dell’Ambasciata Israeliana in Italia – afferma Lucca Crea in una nota – Questo patrocinio, non oneroso, è stato ricevuto per riconoscere il valore del nostro programma culturale.
Questa attribuzione istituzionale deriva da un lavoro durato quasi un anno, un progetto che ha coinvolto due artisti noti e apprezzati in Italia e nel mondo, come Asaf e Tomer Hanuka, ai quali Lucca ha dedicato una mostra e ha affidato l’immagine di un’edizione imperniata sul tema Together, all’insegna della condivisione di quei valori che da sempre ci guidano: rispetto, comunità, inclusione e partecipazione”.
La polemica – sul logo dell’ambasciata israeliana a Roma sul manifesto del Lucca Comics & Games 2023, ideato da due artisti israeliani, i fratelli Asaf e Tomer Hanuka. A segnalare la grafica ritenuta “ingombrante” erano stati anche quelli di Rifondazione Comunista ma adesso il fumettista Zerocalcare, assiduo frequentatore della fiera, ha manifestato disagio e annunciato la sua assenza dalla grande manifestazione, che ha già staccato in prevendita 275.000 biglietti e che si svolgerà dall’1 al 5 novembre.
“Il patrocinio dell’ambasciata israeliana per me è un problema – ha scritto sui social Zerocalcare – Venire a festeggiare lì dentro rappresenta un cortocircuito che non riesco a gestire”. Immediato l’appoggio della sua casa editrice, Bao Publishing che ha commentato: “Tutta Bao gli è solidale, comprende perfettamente le sue ragioni, le accetta e se ne sobbarca serenamente le conseguenze. Se qualche giorno fa l’organizzazione si fosse espressa pubblicamente per chiarire i dubbi e le perplessità, forse i toni della polemica sarebbero stati più gestibili. Da un grande evento popolare derivano grandi responsabilità”.
Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano - Estratti domenica 5 novembre 2023.
Avendo sempre attaccato tutto il meglio e leccato tutto il peggio d’Italia, Francesco Merlo fa l’effetto opposto di Cetto La Qualunque: se ti profuma, ti sputa. Infatti, insultando Zerocalcare, non poteva tributargli encomio più solenne.
Purtroppo mezza redazione di Rep ha preteso un articolo riparatorio. E, quel che è peggio, l’ha affidato a Chiara (si fa per dire) Valerio. Che sarebbe anche una brava scrittrice, se solo si capisse quello che scrive. La sua difesa di Zerocalcare che diserta Lucca Comics per il patrocinio israeliano inizia così: “Bruno De Finetti, grande matematico italiano, nel suo saggio Sul probabilismo (1933) scrive non è importante perché il FATTO che IO prevedo accadrà, ma perché IO prevedo che il FATTO accadrà. Bisogna stare attenti alla posizione del ‘perché’ e dell’‘io’”.
E qui almeno si capisce da chi ha imparato a scrivere: dal grande Bruno De Finetti, che “stabilisce una cosa formidabile e ciò che ciascuno di noi coincide con l’errore di valutazione che compie”. E non una volta per tutte: “volta per volta”. Quindi, come diceva il grande De Finetti, ma pure il mio tabaccaio, bisogna “cercare di non commettere errori gravi”.
Sì, ma Zerocalcare? Aspetterà. “Molti di noi siamo (sic, ndr) diventati il luogo e il modo non della discussione ma della posizione”. Ah ecco. E qui si arriva al punto: “‘Pro e contro Zerocalcare?’ è forse una domanda sufficiente? Io penso non lo sia”. E vabbè. “Noi non discutiamo più”: “giochiamo a ruba bandiera”. Noi chi? Boh.
(...)
Poi, proprio sul finale, appare Zerocalcare: “Si può decidere di portare il corpo o decidere di non portare il corpo”, sempre -beninteso- “volta per volta”: “‘Pro e contro portare il corpo?’ è ancora una domanda non sufficiente. Si risponde sì o no e si frantumano le problematicità che l’altro porta, a sé e a noi”. Ok, ma la Valerio con chi sta? “Con chi ha portato il corpo e chi ha sottratto il corpo” a Lucca, perché o “stanno lì, o non ci stanno”. Ma va? Però allora ditelo che ce l’avete con Zerocalcare.
Il caso del fumettista. La gogna di Repubblica contro Zerocalcare frutto della passione per la guerra di Merlo e co. Oggi in Italia la stampa indipendente è questa: quella che sobriamente dà del disertore a chi sta fuori-linea. Poi c’è anche la stampa reazionaria…Piero Sansonetti su L'Unità il 3 Novembre 2023
Prendi l’autore satirico, dagli del disertore e sbattilo in prima pagina su un grande giornale borghese. Non era mai successo, credo, da quando cadde il fascismo. Comunque non succedeva da molti anni. Eppure c’è stato un periodo nel quale gli autori satirici imperversavano sui giornali, e le loro staffilate facevano male, influenzavano la politica, facevano infuriare la gente di potere.
Non credo che Craxi e Spadolini amassero Forattini, né che Natta amasse Staino, e immagino che Berlusconi non andasse d’accordo con quasi nessuno della banda della satira. Però prendere un autore di fumetti e inchiodarlo alla gogna in prima pagina su Repubblica, con un titolo molto chiaro nel quale lo si definisce disertore, è qualcosa di nuovo. E che, francamente, lascia un po’ sconvolti noi vecchi cronisti abituati anche a furibonde battaglie ideologiche ma non a queste volgarità.
Non so dove Francesco Merlo abbia ritrovato, nel suo archivio di parole, il termine allucinante di disertore. Che apre uno squarcio su certi settori del giornalismo che ormai, da un paio d’anni, hanno indossato l’elmetto e non ne vogliono sapere di toglierselo dalla testa. Non so nemmeno il perché Francesco Merlo ce l’abbia così ferocemente con Zerocalcare, fumettista sicuramente di grande talento e che non ha mai nascosto le sue idee politiche e le sue passioni. Forse è il gran successo che ha avuto Zerocalcare ad aver fatto scattare un irrefrenabile processo di invidia?
Ammettiamo che sia così. Ma perché a Repubblica si sono prestati a mettere in prima pagina un articolo che contiene solo livore e che arriva a definire Zerocalcare (e alcune persone che sono d’accordo con lui) come sciacalletti del marketing? Qual è il movente. Forse è solo la passione irrefrenabile per la guerra e il militarismo che ormai ha squassato l’anima di tutti i grandi giornali italiani.
Cosa è successo, immagino che lo sappiate tutti. C’è a Lucca questa mostra di fumetti alla quale Zerocalcare avrebbe dovuto partecipare. Poi, dopo che lui aveva annunciato la sua partecipazione, sono avvenuti alcuni fatti che lo hanno spinto a cambiare idea, e che Merlo considera fatti abbastanza irrilevanti e non sufficienti ad influenzare la decisione se partecipare o no a una mostra. Il primo fatto è che si è saputo che la mostra era sponsorizzata dall’ambasciata israeliana. Il secondo fatto è che si è saputo che il governo israeliano, nel frattempo, aveva ucciso circa 4000 (quattromila) bambini e ne aveva feriti seriamente circa 10.000.
Zerocalcare, che non ha mai negato di essere una persona piuttosto attenta ai diritti umani, ha deciso di declinare l’invito e di non partecipare alla mostra. Per questa ragione alcuni polemisti ben organizzati, e tra questi con particolare veemenza il nostro Merlo, hanno deciso di sostenere che Zerocalcare era assimilabile ai terroristi di Hamas. Nel suo articolo Merlo in più occasioni accosta gli autori satirici alle gesta dei terroristi.
Ora dovete sapere che questo Zerocalcare – che io peraltro non conosco e non ho mai incontrato in vita mia – non è un signore tranquillo che se la spassa sul divano di casa. È un ragazzo attivo. In passato è stato persino a Kobane, credo, a sostenere i combattenti Curdi, che sono quelli che l’Isis lo hanno affrontato e sconfitto davvero, sul campo (e che ora sono stati venduti dalla Nato ad Erdogan).
Magari nella lotta contro il terrorismo, se volesse, Zerocalcare potrebbe mettersi anche qualche medaglietta in più di quelle che spettano a Francesco Merlo. Eviti di farlo, per favore. Prenda atto semplicemente di come stanno le cose. Oggi in Italia la stampa indipendente è questa: quella che sobriamente dà del disertore a chi sta fuori-linea. Poi c’è anche la stampa reazionaria… Piero Sansonetti 3 Novembre 2023
Francesco Merlo per “la Repubblica” - Estratti giovedì 2 novembre 2023.
Aveva pensato, Zerocalcare, che non andare a Lucca sarebbe stato come andarci due volte. Solo negandosi, infatti, poteva riuscire a superare sé stesso nel mercatone dove i fumetti si vendono e si comprano, prodotti industriali come le bottiglie del Vinitaly di Verona. La Mostra di Lucca è il supermercato del fumetto, come Eataly lo è del cibo. Ci sono i banconi di Paperopoli e dei Manga.
C’è il porno misto per accogliere Salvini che è cresciuto con Lando lo sciupafemmine . E c’è anche la “gourmanderie” ideologica dove, fumante di collera, Zerocalcare neppure si rende conto di somigliare ad Hamas e gli pare una gran figata buttare i suoi razzi di fumo-fumetto su Israele, così si decora la coscienza e si sente come le pantere nere alle Olimpiadi del 1968.
Ma poiché esiste ormai una storia, una geografia, una retorica e un’aneddotica del negarsi per meglio offrirsi è cominciata la cerimonia delle smanie e si sono negati in tanti, Fumettibrutti, Giancane, Stefano Disegni, Davide Toffolo, e via con la lista dei minori che vogliono essere all’altezza, tutti, nel loro piccolo, abusando dei palestinesi come ne abusa Hamas, e tutti ben sapendo che la grandezza di un festival è fatta di contro-festival, di uno sprezzante controcanto che si nutre del canto e anche della sua putrefazione, come il Festival e Il Controfestival di Sanremo.
A Milano c’è il Salone del mobile, ma forse il suo “contro”, il Fuori Salone di via Tortona, è ormai più importante.
È dunque normale che gli sciacalletti del marketing vadano a caccia di scandaletti.
Negli anni scorsi sbucavano per le strade di Lucca quattro broccoloni vestiti da nazisti e subito il Comune, che qui è sempre in controtendenza rispetto alla Toscana laica e di sinistra, e dunque è cattolico e di destra, si dissociava, allontanava, tuonava: “noi non permetteremo”.
Quest’anno, gli artisti “impegnati” hanno ignorato l’assessora Angela Mia Pisano che aveva nascosto i suoi vecchi post fascistissimi, e in silenzio hanno ingoiato anche il rifiuto di intitolare una strada a Sandro Pertini. Si sono invece buttati su Israele, fiutando l’aria di piazza, il conformismo, i centri sociali, il pubblico peggiore di Zerocalcare, il nocciolo duro del suo estremismo: «noi non siamo certo antisemiti, ma…», «io non ce l’ho con Israele, ce l’ho con il suo governo», e dunque con Netanyahu, di cui ovviamente non sanno nulla.
E va bene che di Fiorello ce n’è uno solo e la sincerità non è purtroppo contagiosa, ma quella sua frase «io personalmente non ho nemmeno quel retaggio culturale per esprimermi su una cosa così grande» potrebbe e dovrebbe accompagnare anche la Mostra mercato di Lucca, non come fuga dall’impegno, ma come ricchezza e come rispetto dell’impegno e di tutte le sue mille matite.
Di sicuro qui accade il contrario di quel che avvenne quando, subito dopo l’aggressione russa all’Ucraina, l’università Bicocca minacciò di bloccare le lezioni su Dostoevskij di Paolo Nori e tutti giustamente si ribellarono. E così elogiare i russi, il pacifismo di Tolstoj, il tormento di Solzenicyn e ovviamente Anna Achmàtova, rileggerli, o fingere di averli letti, divenne una moda, una postura di guerra o, meglio, un segno di distinzione, in senso letterale, tra il gran popolo russo e il piccolo macellaio Putin: «sì agli artisti russi perché non sono Putin».
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E bisogna ammettere che, tra quelli che contro Israele non vanno a Lucca, solo l’artista maledetta Fumettibrutti, che è il nome d’arte di Josephine Yole Signorelli, esprime con il botto del petardo il mistero di un odio verso Israele che ormai non necessita più di argomenti: «non farò compromessi perché non mi fa dormire la notte». Ecco, nel ricco linguaggio, le sue idee: «Dicono che in quanto transgender e persona queer LGBTQIA+ non dovrei parlare di Gaza o della causa palestinese…», ma «voglio comunque scrivere una parola di cui parlava sempre anche Murgia, che è “intersezionalità”. Significa preoccuparsi per tutte le lotte contro l’oppressione, dei corpi e dei popoli, non solo di quelle che ci fanno comodo».
Ecco: intersezionalità e Michela Murgia. In tempi normali basterebbe questa lunga spiegazione per liberarci con un sorriso dall’imbarazzante sospetto che possa trattarsi di una cosa seria. Ma, con il Medioriente in fiamme, le pietre di inciampo bruciate nelle strade di Roma, le stelle gialle disegnate a Parigi sui muri delle case, la caccia all’ebreo in aeroporto, il massacro del 7 ottobre e la testa decapitata della giovane Shani Louk, ostaggio israeliano-tedesca, oggi dobbiamo confessare che un po’ di colpa della stringente logica aristotelica di Fumettibrutti e di Zerocalcare ce l’abbiamo noi che abbiamo stretto con questo “pensiero” un legame di complicità, un legame intellettuale, fatto di ideologia e di politica, che adesso ci preme sulla coscienza come un peso misterioso.
È un legame ambientale, di un tempo storico arredato di confusione, animato da generosità e dallo stesso gusto della vita di Zerocalcare, il fumettista delle periferie che Renzo Piano ci ha insegnato ad amare, il romanesco come ritorno al dialetto e dunque al campanile della piccola patria, ma con il cognome alloctono, Rech, proprio come quello di Bombolo era Lechner.
Siamo in parte responsabili della promozione a pensatori (di sinistra) di tanti tipi buffi d’Italia, come quelli raccontati da Gianni Celati in Parlamenti buffi (Feltrinelli 1989). In Italia il comico fa i comizi, il regista fa i girotondi, il cantante l’intervista logico- filosofica…
E quest’anno tocca al fumettista impegnato il fuori misura sottoculturale che però, con il ritorno dell’antisemitismo, rattrista, anche se il fumettista non spaventa nessuno: «Com’è possibile — si chiede Zerocalcare parodiando l’intellettuale organico — che una manifestazione culturale di questa importanza non si interroghi sull’opportunità di collaborare con la rappresentanza di un governo che sta perpetrando crimini di guerra? ». È una violenta seriosità che i veri maestri del fumetto (che non sono i vignettisti) non hanno mai avuto, né Altan né Staino e neppure i martiri come Wolinski.
E così Sergio Bonelli, Luciano Secchi (Max Bunker), Roberto Raviola (Magnus), il Silver di Lupo Alberto, Giorgio Cavazzano, re di Topolino, e andando indietro si arriva a Jacovitti e a Hugo Pratt. Sempre il fumettista è stato underground, anticonformista e pure strano, ma mai buffo e goffo, sempre ai margini, ma senza mai scappare e sottrarsi al confronto, soprattutto perché questa Mostra di Lucca non è come la Biennale o la Triennale, non è un’esposizione che è l’arte dell’esporre, del disporre e del sovraesporre sino al significato musicale della parola esposizione che è fuga, “via, via, vieni via di qui”;
e non è neppure un convegno oxfordiano o la piazza dello scontro politico, ma è il grande mercato del fumetto, il più importante mercato d’Italia, come “Artissima”, che domani si apre a Torino, lo è per l’arte contemporanea, e come lo sono i vari “Saloni del libro” d’Europa. La “Lucca Comics” è il luogo della mescolanza, dell’insieme appunto, che avvicina e non contamina, il mercato che è sempre stato la “comfort zone” di tutte le minoranze del mondo. Ma non più degli ebrei, secondo Zerocalcare.
Estratto da corriere.it venerdì 3 novembre 2023
«La denuncia o la critica della politica e dei crimini dello stato israeliano, quello di oggi e dei decenni passati, non può essere buttata strumentalmente nel tritacarne dell’antisemitismo». Si intitola “Corto circuito - Appunti e cronistoria della vicenda Lucca Comics” l’ultima striscia di Zerocalcare con cui il disegnatore replica su Internazionale a tutte le accuse che gli sono piovute addosso dopo la decisione di ritirare la sua partecipazione alla manifestazione toscana.
«Lo so che parlare ancora di Lucca mentre a Gaza continua incessante il massacro è grottesco ma al centomillesimo articolo pieno di menzogne che mi mette in mezzo personalmente io o faccio un fumetto o vado in cronaca» la premessa.
Zerocalcare ripercorre tutto il caso che lo ha coinvolto. Dalla striscia con cui prendeva le distanze dopo aver appreso del patrocinio di Israele a tutte le accuse, sui giornali come via social, che lo hanno raggiunto, da destra come da sinistra (come quelle durissime dell’editorialista di Repubblica Francesco Merlo ). Il fumettista riposta tutto, con disegni e copia e incolla di messaggi. Il suo resoconto è completo. A tutti risponde colpo su colpo, sottolineando la distanza tra le sue posizioni e quelle che gli vengono attribuite.
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Zerocalcare sottolinea: «L’odio per ogni forma di antisemitismo e di razzismo non dovrebbe significare chiudere gli occhi di fronte ai bombardamenti che stanno martellando Gaza, come pretende chi sta cercando di schiacciare e blindare il dibattito. Per me è l’esatto contrario». E ancora: «Per me la coerenza non è dire: siccome sono contro il fondamentalismo allora Israele ha il diritto di ammazzare migliaia di palestinesi per vendetta».
La conclusione è netta: «Finché non cambiamo la prospettiva da cui guardare il mondo, finché continueremo a fare il tifo per uno Stato contro l’altro, continueremo a scegliere quale massacro giustificare e quale condannare, magari sulla base di interessi commerciali o militari, che spesso hanno poco a che fare con gli ideali».
Paolo Bracalini per “il Giornale” - Estratti venerdì 3 novembre 2023
La guerra Israele-Hamas fa scoppiare una mini-faida anche dentro Repubblica, divisa sul tema come il Pd. Colpa di un articolo firmato dall'editorialista Francesco Merlo, dietro al quale una parte della redazione vede la mano del direttore filo-Israele Maurizio Molinari.
Merlo scrive nelle pagine di cultura che il fumettista Zerocalcare, ritiratosi dal festival Lucca Comics per via del patrocinio dell'ambasciata israeliana, «fumante di collera somiglia ad Hamas» e «butta i suoi razzi di fumo-fumetto su Israele», lui come gli altri artisti «impegnati», tra virgolette, gli altri «sciacalletti del marketing a caccia di scandaletti».
Parole taglienti, evidentemente condivise da una parte del giornale visto il titolo dato al pezzo («I disertori»), ma non condivise dall'altra parte della redazione. Che ha manifestato il dissenso sui social. «Lavoro a Repubblica dal 2012 e voglio bene al giornale. Proprio per questo sento l'esigenza, a titolo personale, di prendere pubblicamente le distanze da argomentazioni che offendono Zerocalcare e non solo, deformandone e irridendone idee e valori» scrive il cronista politico Matteo Pucciarelli.
Il suo tweet viene condiviso da altri colleghi di Repubblica, mentre una componente del Cdr, Zita Dazzi, si dissocia da Repubblica, «giornale su cui scrivo dal 1989 per l'articolo di Merlo «in cui non mi riconosco». Concita De Gregorio non attacca direttamente Merlo ma condivide un articolo in cui scriveva l'esatto contrario, cioè: «Non trovo, nel testo di Zerocalcare, nessun riferimento ad Hamas. Nessuna ambiguità né indulgenza verso i terroristi».
Una spaccatura che si è estesa anche ai collaboratori, in prima linea Tomaso Montanari («Di tutto abbiamo bisogno ora tranne che di questa gratuita violenza» scrive lo storico dell'arte»)
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Restando dentro il giornale fondato da Scalfari, la questione divide la redazione e arriva alla direzione. Poltrona occupata da «Molinari l'atlantista» (definizione, secondo leggenda, dell'avvocato Agnelli ai tempi della Stampa), ex corrispondente da Gerusalemme, di famiglia ebraica come la moglie, Micol Braha. Molto filo-Israele. Forse troppo, per i colleghi di Repubblica.
Maurizio Molinari, quando confessava l'odio della sinistra per gli ebrei. Andrea Valle su Libero Quotidiano il 03 novembre 2023
Fa sorridere (e riflettere) il cortocircuito progressista su temi come l’antisemitismo, soprattutto se scoppia in “casa” dei benpensanti, quella Repubblica dove la fronda dei giornalisti anti-Israele si scontra nientemeno che contro il vissuto e l’operato del direttore, Maurizio Molinari. Il quale, ne La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993), edito da Corbaccio nel 1995, inquadrava l’antisemitismo nella storia d’Italia: fotografia del passato che riflette ciò che oggi sta avvenendo nella sua redazione.
NAZISTI=CIA=EBREI
Scriveva Molinari (pp. 42-43): «Subito dopo la fine della guerra dei Sei Giorni le posizioni della sinistra che non seguiva il Pci sulla via di Mosca trovarono eco nella stampa italiana con gli appelli “per la sopravvivenza di Israele ” (firmati anche da Italo Calvino, Alberto Lattuada, Federico Fellini, Alessandro Galante Garrone, Nicola Adelfi, Alberto Ronchey, Noberto Bobbio, Elena Croce) e con numerosi interventi scritti, da Giovanni Spadolini, a Ferruccio Parri a Altiero Spinelli, a Carlo Casalegno fino a Pier Paolo Pasolini che prese posizione su Nuovi Argomenti con toni fortemente polemici nei confronti della scelta di campo de L’Unità. “In questi giorni leggendo l’Unità ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese”, scriveva Pasolini chiedendosi “perché” il Pci aveva condotto una vera e propria battaglia “per creare” un’opinione di massa antisraeliana, mentre invece “l’unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi” era “aiutarli a capire la follia politica di Nasser”.
«Diverso fu invece l’atteggiamento di Eugenio Scalfari, allora direttore de L’Espresso che, attestandosi su posizioni filoarabe, diede vita ad un duro scontro con Arrigo Benedetti, editorialista e fondatore della rivista, che portò alle clamorose dimissioni di quest’ultimo. Ingiustamente accusato di “razzismo antiarabo” solo per aver osato criticare la dittatura di Nasser, Arrigo Benedetti si venne così a trovare al fianco di Pier Paolo Pasolini. Fu Mario Pannunzio a commentare lucidamente il “caso Benedetti”: “L’Espresso risente di uno schieramento non ancora ben delineato a cui partecipano, con fatale ambiguità, i comunisti, gli aderenti al Psiup ed una frangia cattolica”. Era la prima fotografia politica del nascente schieramento cattocomunista che cementava la sua unità nel segno dell’antisionismo.
BUTTIAMOLI A MARE
Il clima di quei momenti era bollente. Riporta Molinari (pp. 70-71) che «fra il 1972 e il 1973 si erano moltiplicati i casi di aggressione contro studenti ebrei nei licei e nelle Università da parte di gruppi di sinistra al grido di “morte al nazista sionista”: dal caso del liceo Parini di Roma, dove il giovane Carlo Momigliano era stato picchiato dagli attivisti del Movimento studentesco, a quello dello studente Joseph Israeli, cui toccò la stessa sorte in un’aula dell’Università Statale di Milano perché accusato di essere un “agente del Mossad”. La Federazione giovani ebrei italiani (Fgei) definiva queste aggressioni “linciaggi di sinistra affatto diversi dal fascismo di destra” ma le denunce avevano scarsi effetti e così, di fronte alla Sinagoga di Roma, venne ritrovata una scritta eloquente: “Il manifesto comunista: Nazisti=Cia=Ebrei”.
«In questo clima nessuno si stupì quando il Quotidiano dei Lavoratori - voce di quella sinistra extraparlamentare ansiosa di superare in tutto le tendenze del Pci- con la penna di Giuseppe Vita si scagliò contro uno sceneggiato tv in nome dell’antisionismo. Si trattava di “Mosè, la legge del deserto”: un kolossal a più puntate della Rai con attori del calibro di Anthony Quinn e Burt Lancaster, che raccontava la storia di Mosè in Egitto, le dieci piaghe, il passaggio nel Nar Rosso e in quarantennale attraversamento del deserto del Sinai durante il quale il popolo ebraico ricevette le Tavole della Legge. Ma nella sceneggiatura televisiva- peraltro di grande successo - della storia dell’Esodo il Quotidiano dei Lavoratori non vide altro che “la conferma della supremazia del popolo ebraico” e la “legittimazione dell’aggressione sionista contro gli arabi”. «Le violenze, fisiche o verbali, di questo tipo furono tali e tante da destare non solo la preoccupazione della comunità e delle forze dell’ordine, ma da dicentare oggetto di indagine nel tessuto della società italiana. Fu così che, verso la fine del 1973, la Doxa pubblicò un’indagine da cui emergeva quanto lo “slittamento” fra antisemitisimo ed antisionismo si era realizzato nella sinistra ed in particolare fra i comunisti. I dati raccolti testimoniavano che il 15% del totale degli italiani era favorevole a “buttare gli ebrei a mare e distruggere Israele in cambio del petrolio arabo per l’Italia”, mentre la stessa percentuale fra gli elettori comunisti saliva vertiginosamente fino a sfiorare il 40%».
ENTEBBE COLPA LORO
Un altro passaggio racconta qualcosa che assomiglia molto al ribaltamento della realtà in corso proprio oggi sul conflitto Israele-Hamas, con gli ebrei accusati di essere i colpevoli: «L’estate seguente, all’indomani della liberazione da parte di un commando di parà israeliani dei passeggeri ebrei di un volo dell’Air France tenuti in ostaggio a Entebbe (Uganda) da un gruppo di terroristi tedeschi e palestinesi, la reazione del Pci fu ancora più dura: “È stato un cinico atto di aggressione fuorilegge, il vero crimine lo ha commesso Israele contro l’Uganda”, scrisse l’Unità il 3 luglio 1976. «Mentre gli ebrei gioivano nelle loro case per la salvezza dei correligionari, giunti sani e salvi a Tel viv al termine di una delle più brillanti operazioni antiterrorismo, la condanna del Pci diede tutta la dimensione dell’abisso che divideva ebrei e comunisti. Non sorprende dunque il giudizio che un marxista israeliano come Arie Yaari, rappresentante del Mapam per l’Europa, diede del Pci di Berlinguer e di Pajetta: “Il Partito comunista più antisemita di Occidente”».
Porro, bomba Zerocalcare a Repubblica: "Merlo ha combinato un casino". Libero Quotidiano il 03 novembre 2023
"Repubblica va nel caos per colpa di Francesco Merlo. Il nostro beniamino ha commesso un casino": Nicola Porro ne ha parlato nella sua rassegna stampa di questa mattina. "Il pezzo di Merlo attacca in maniera forte Zerocalcare per aver disertato Lucca Comics", ha spiegato il giornalista, riferendosi all'articolo comparso ieri sul quotidiano diretto da Maurizio Molinari. Porro, attaccando la nota firma di Repubblica, ha poi aggiunto: "Abituato a randellare quelli di destra, gli è scivolata la frizione sull’intoccabile Zerocalcare e sono guai".
Il conduttore di Quarta Repubblica, inoltre, ha definito Merlo uno "straordinario manganellatore della sinistra chic". A innervosire la redazione di Repubblica, secondo Porro, è stato il fatto che questa volta nel mirino dell'articolo non ci fosse qualcuno di destra, ma uno dei fumettisti idoli della sinistra. "Il punto fondamentale - ha sottolineato il giornalista nel video della rassegna stampa, la cosiddetta "Zuppa di Porro" - è che finché Merlo 'picchia' noi va tutto bene, avendo attaccato Zerocalcare è successo un casino pazzesco".
"Merlo ha associato Zerocalcare ai terroristi di Hamas, una roba micidiale e forse anche esagerata - ha proseguito Porro -. Alcuni giornalisti hanno preso le distanze". Il riferimento è ad alcune firme del quotidiano, come Matteo Pucciarelli, Zita Dazzi e Tomaso Montanari, che scrive sul Venerdì di Repubblica. Questa mattina - come ha fatto notare il conduttore di Rete 4 - il tentativo di correre ai ripari: "Oggi Chiara Valerio in difesa di Zerocalcare".
Chiara Valerio per “la Repubblica” - Estratti venerdì 3 novembre 2023
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Quando ieri ho letto la pagina di Francesco Merlo riguardo le vicende che hanno coinvolto Zerocalcare, Fumettibrutti, e altri artisti che hanno deciso di non partecipare a Lucca Comics, financo Michela Murgia che non può più rispondere, mi sono chiesta perché le fiere, i festival, i giornali stessi, questo giornale sul quale scrivo, e molti di noi, siano diventati il luogo e il modo non della discussione ma della posizione.
Non la posizione culturale che è giusto prendere laddove uno voglia e senta di avere gli strumenti, ma una posizione sondaggistica. “Pro e contro Zerocalcare?” è forse una domanda sufficiente? Io penso non lo sia. O lo sia in una cornice politica che tende a creare il nemico. Non l’avversario, il nemico.
Noi non discutiamo più, rispondiamo a sondaggi e a incitamenti di una curva, il cui principio e fine è la riduzione a macchietta dell’altro e della sua posizione che si suppone parimenti basata su sondaggio e tifo. Il post di Zerocalcare su Lucca Comics era un post gentile, pieno di domande e incertezze, non arrogante. Come è piena di domande e incertezze l’opera di Zerocalcare.
Si può scrivere che «Zerocalcare neppure si rende conto di somigliare ad Hamas» quando i suoi libri sono una opposizione strenua e radicale a ogni terrorismo? Si può scriverlo avendo la memoria recente — ma anche senza, basta andare in libreria — di Zerocalcare in Siria, col suo corpo esposto? Si può parlare di marketing e vendite come se andassero a detrimento del valore e della qualità di un’opera, senza considerare che Lucca Comics, come il Salone del Libro a Torino, come Più Libri Più Liberi a Roma, come Testo a Firenze (per citarne tre tra le più importanti) sono fiere? Il che significa che gli editori comprano uno spazio, espongono, vendono, presentano i loro libri e i loro autori. Si possono mettere virgolette a dichiarazioni che non sono mai state pronunciate?
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Dunque, non stare contro, stare con. Sto con Zerocalcare e sto con Sio, sto con Fumettibrutti e sto con Licia Troisi. Con chi ha portato e chi ha sottratto il corpo, perché tutti insieme, e ciascuno, stanno smantellando il noioso e vergognoso ruba bandiera, stanno complicando e non semplificando. Sanno che nessuna delle loro parole dette o taciute ferma un solo proiettile. Eppure stanno lì, o non ci stanno, e creano l’alternativa al sondaggio, ricordano che esiste l’altro da sé.
Not in your name. La sinistra filopalestinese e il dilemma di Zerocalcare. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 3 Novembre 2023
Il disegnatore (e non solo lui) è davanti a un bivio: può approfittare degli attacchi più sguaiati per uscirne alla grande, tra gli applausi dei fan, oppure può allargare il discorso, prendendo perlomeno in considerazione alcuni dei fatti avvenuti dopo la sua scelta di boicottare la fiera del fumetto per via del patrocinio israeliano
Dai massacri del 7 ottobre in poi, cioè da prima ancora che Israele avesse reagito in alcun modo, abbiamo assistito a una preoccupante radicalizzazione nel linguaggio, negli slogan e negli atti di un certo mondo progressista tradizionalmente schierato a favore della causa palestinese, in forme che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili. Se inizialmente a colpirmi era stata soprattutto la totale assenza di empatia e solidarietà umana dinanzi ad alcuni dei crimini più efferati e ripugnanti della storia recente, con il passare dei giorni mi sono convinto non sia più questione di sensibilità per quanto accaduto, ma di preoccupazione e senso di responsabilità per quanto sta accadendo.
Un pezzo rilevante di quella sinistra che si è sempre legittimamente battuta a favore della causa palestinese si trova oggi, secondo me, dinanzi a un’alternativa non più eludibile. Lo definirei il dilemma di Zerocalcare.
A me pare infatti che Zerocalcare, al momento, abbia due strade davanti a sé. La prima è approfittare di tutti gli attacchi più stupidi e più sguaiati che gli sono stati rivolti per uscirne alla grande, tra gli applausi di chi già pensava avesse fatto benissimo a boicottare una fiera del fumetto perché sponsorizzata dall’ambasciata di Israele e ancor di più lo penserà alla fine di questa polemica (se mai finirà).
La seconda strada è cogliere l’occasione per allargare un po’ il discorso, senza necessariamente fare autocritica o rimangiarsi alcunché, ma prendendo perlomeno in considerazione alcuni dei fatti avvenuti dopo la sua scelta, che in parte ne sono la diretta conseguenza e in parte no.
Alcuni di quei fatti erano prevedibili, come l’eco che la sua decisione avrebbe avuto. Ma forse non era scontato che l’impatto fosse tale da spingere anche altri artisti a non partecipare alla fiera, compresi gli artisti israeliani che ne avevano disegnato il manifesto, e che a quel punto, visto il clima, hanno preferito restarsene in Israele.
Non so il resto, ma scommetterei che almeno quest’ultima conseguenza Zerocalcare non l’avesse immaginata e non credo proprio che gli abbia fatto piacere, tanto meno nel momento in cui in tutto il mondo si moltiplicano gli atti di antisemitismo più orrendi: dai neonazisti che hanno dato fuoco al cimitero ebraico di Vienna ai ragazzi (apparentemente di tutt’altra collocazione ideologica) che a New York strappano i manifesti con le foto degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas (si può immaginare un gesto più vile e disumano?), fino alle (diverse) pietre d’inciampo, poste in ricordo delle vittime dell’Olocausto, che sono state vandalizzate a Roma.
Molti di questi fatti Zerocalcare non li poteva prevedere, dunque potrebbe legittimamente prenderne spunto per provare ad abbozzare una riflessione un po’ più articolata e meno manichea sulla sua scelta e su tutto quello che ne è seguito, prima di venire accomunato ai tanti che oggi, non solo nei paesi arabi, ma anche in Europa e in America, sembrano essersi convinti che le responsabilità di Israele nel conflitto con i palestinesi giustifichino qualunque atrocità nei confronti dei loro cittadini e degli ebrei in generale.
Accusare Zerocalcare di essere un sostenitore di Hamas non ha senso, anche se la sua risposta («Sono stato più volte in Siria quando c’era l’Isis per supportare i curdi e chi combatte sul campo il jihadismo. Lo faccio ancora tutti i giorni come posso. Amiche e amici miei più coraggiosi di me ai jihadisti gli sono andati a sparare direttamente») fa pensare che se avesse avuto più amici tra gli israeliani presi in ostaggio magari ci avrebbe pensato due volte prima di innescare tutto questo casino. Anche perché, e questo doveva saperlo pure prima, la bandiera di uno stato e la sua ambasciata non rappresentano il governo, ma l’intero paese. Infatti, quelli che in piazza bruciano le bandiere di Israele o ne assaltano le ambasciate non hanno mai pensato di lanciare un messaggio a favore dell’opposizione né di chiedere un cambio di governo. Hanno sempre avuto chiarissimo il loro obiettivo, che era e resta la cancellazione dell’intero stato di Israele («from the river to the sea», come si canta nelle piazze). Una procedura che non prevede molte soluzioni alternative per i nove milioni di persone che lo abitano attualmente.
Anche su questo scommetterei che Zerocalcare non sia affatto d’accordo, come non lo sono di certo tante di quelle brave persone di sinistra che intonano ingenuamente nelle piazze simili slogan (un codice che sta semplicemente per «morte agli ebrei»).
Metterlo subito in chiaro, anche in quelle piazze e in quei movimenti, così come nei partiti, nei centri sociali e nelle scuole, sarebbe dunque anzitutto nel loro interesse, com’è nell’interesse di chiunque voglia continuare a sostenere la causa palestinese, a contestare l’assedio di Gaza e ogni altra scelta del governo israeliano, a denunciare gli abusi del suo esercito e le violenze dei coloni in Cisgiordania, senza confondersi con chi inneggia ai massacratori in parapendio e senza alimentare, nemmeno indirettamente, la terribile ondata di antisemitismo che è già tornata a sommergerci. E che è dovere di tutti arginare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie possibilità.
Luccanomics. Nel duello tra Zerocalcare e Francesco Merlo, ha perso il pil italiano. Guia Soncini su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
Mentre la gente trova scuse per prendere a ditate i telefonini in orario d’ufficio, va in scena il delirio intorno a una fiera del fumetto, alimentato da Brocco81 e dai giornalisti di Repubblica che nel 2023 scoprono che il quotidiano di Scalfari e Citati è un foglio snob
Balzac non aveva le notifiche con cui Brocco81 potesse dirgli che père Goriot non gli somigliava per niente. Fruttero&Lucentini non credo si siano mai occupati di polemiche istituzionali innescate da fumettisti con nomi d’arte particolarmente fessi.
E invece io, che anche oggi il Nobel per la letteratura non lo vinco, sono qui a occuparmi dell’ennesima puttanata su cui si esercitano le migliori menti della pubblicistica contemporanea. A ognuno il secolo che si merita, e io ne meritavo uno in cui, risolti i problemi seri, rimanessero solo le puttanate.
Le puntate precedenti dovreste conoscerle. Una settimana fa Zerocalcare, il fumettista vivente italiano di maggior successo, annuncia che non andrà a Luccacomics, la fiera che da sola tiene praticamente su l’economia di settore. Non ci andrà per ragioni legate a Israele, e lo annuncia con un post social che nessuno (neppure io) coglie l’occasione di usare come materia di studio del secolo in cui viviamo.
A un certo punto di questo post c’è scritto: «Sono stato a Gaza diversi anni fa, conosco persone che ancora ci vivono e persone che ci sono andate per costruire progetti di solidarietà, di sport, di hip hop e di writing». Writing sta per: usare le bombolette spray per sentirsi Keith Haring e non uno che insozza i muri.
Quando leggo questo post, penso che siamo talmente abituati a non avere problemi veri che persino quando parliamo dei luoghi che ne hanno, persino quando a farlo è uno con qualche contezza in più rispetto a quelle che su Instagram sono passate in un giorno da prendere i cuoricini coi post sull’iva sugli assorbenti a quelli su Israele e Palestina, persino allora non riusciamo a non pensare al mondo come lo conosciamo: più proloco di Santa Monica che emergenza umanitaria. In effetti a Gaza, da quando c’è l’hip hop, stanno, si direbbe a Roma, una crema.
Poi però mi distraggo dal concentrarmi su quello che alla prima lettura mi era sembrato il punto più tragicomico del post di Zerocalcare; giacché, come abbondantemente prevedibile, scoppia il delirio. Delirio che culmina, l’altroieri, con un articolo di Francesco Merlo su Repubblica: il tema di cui dibatte una popolazione disposta a perdere tempo proprio in qualunque modo pur di non lavorare non è più «ragioni e torti di Zerocalcare» ma «prendere le distanze da Merlo».
Negli ultimi anni io ho cambiato idea su moltissime cose, e il posizionamento intellettuale di cui più mi pento e mi dolgo è indubbiamente la convinzione che la sinistra dovesse avere più familiarità con Carolina Invernizio e Costantino Vitagliano.
Ma al secondo posto dei miei ripensamenti c’è l’idea, che ho nutrito fino a non moltissimo tempo fa, che se tutti parlavano della cosa che avevi scritto – per scandalizzarsene e criticarla e contestarla – tu avessi vinto.
Non ha vinto Zerocalcare e non ha vinto Francesco Merlo: ha perso il pil. La gente si sveglia la mattina e vuole una scusa per stare a prendere a ditate i social in orario d’ufficio. Non ce ne frega niente delle fiere dei fumetti e di chi ha tanti amici palestinesi, della fumettista pastorella di Fatima attraverso la quale si esprime Michela Murgia e di chi ha tanti amici ebrei, delle guerre che si consumano in posti adeguatamente lontani e dell’etica pubblica degli intellettuali, del dibattito culturale e di secoli di questione mediorientale: vogliamo una scusa per perdere tempo, possibilmente col bonus «dire la cosa giusta per quella che è la moda di quel momento nel nostro giro, e posizionarci in modo che piaccia ai nostri amici».
(Nel nuovo romanzo di Zadie Smith, “L’impostore”, ambientato duecento anni fa, a un certo punto un personaggio s’interroga su una petizione dicendosi che firmarle porta comunque guai: se firmi la tal petizione perdi la metà degli amici, se non la firmi perdi l’altra metà. Leggevo e pensavo che almeno in una cosa il mondo negli ultimi duecento anni è peggiorato: adesso nessuno di noi ha metà amici che la pensino diversamente da lui su qualche questione, ci frequentiamo solo tra omologhi, e l’altra metà la insultiamo sui social in orario d’ufficio).
Certo che Israele e Palestina sono faccende d’un qualche rilievo (non sarò io a dire: troppo importanti per lasciarle ai fumettisti, agli editorialisti, ai Brocco81, e specialmente ai governi di questo secolo cialtrone), ma siamo gente che in estate si è scannata per Alain Elkann che leggeva Proust in treno con lo stesso vigore con cui ora si scanna per la questione mediorientale: il furore ideologico, ad abusarne, si deprezza.
Tutti i redattori o collaboratori o sarcazzo di Repubblica che l’altroieri hanno ritenuto di pubblicare il loro bravo penzierino social prendendo le distanze da Merlo non sono solo espressione della bislacca convinzione che esistano giornali dei quali uno condivide ogni idea, articolo, editoriale; sono anche tali e quali a un cdr che aveva ritenuto di prendere vibrantemente le distanze da, santiddio, Alain Elkann in treno.
A Gaza mancava solo di essere considerata un tema da trattare come la prima classe per Benevento. Al cdr di Repubblica, parlandone da vivo, mancava solo di svegliarsi nel 2023 accorgendosi che il giornale di Scalfari, di Citati, di Pericoli&Pirella è un giornale snob. Ohibò.
Comunque. Ieri Zerocalcare ha fatto quel che fa chi non è Brocco81: invece di scrivere «a’ stronzo, puntesclamativo» sotto ai tweet di Merlo, ha disegnato delle tavole spiegando la faccenda. Anche qui: ho idee che non condivido.
Da una parte: cosa sei a fare uno che trae un (corposo) reddito dall’esprimersi, se non metti nella tua opera quel che hai da dire al mondo, invece di arricchire Musk e Zuckerberg trafficando in cuoricini. Dall’altra: Ricky Gervais.
Anni fa Netflix distribuì un monologo di Gervais in cui una parte che percepii durare ore (probabilmente erano meno di dieci minuti) era dedicata al fatto che Vongola75 gli scriveva le cose brutte su Twitter. Sei Ricky Gervais. Sei miliardario per talento e non per eredità. Puoi comprare l’appartamento di Vongola75 e farne la tua lavanderia. Ma veramente t’interessa cosa dice?
Lo so che anch’io mi balocco spesso facendo girare sulla ruota Vongola75 e altri criceti, lo so che raccontare Vongola75 che ritiene di notificarti la sua antipatia è un modo per raccontare il mondo, però guardando Gervais avevo avuto la percezione delle classi sociali: dovrebbe esserci un punto di successo oltre il quale Vongola neppure la vedi, e quel punto dovrebbe collocarsi molto prima di Gervais, e anche molto prima di Zerocalcare (col quale quelli che gli si rivolgono sui social usano il vocativo «Zero», come uno fosse il nome e l’altro il cognome).
E invece Zerocalcare, nelle tavole pubblicate ieri su Internazionale, descrive i giorni del suo travaglio prima e dopo la decisione di quello che i sussidiari del futuro chiameranno il gran rifiuto lucchese; e – sebbene precisi che non l’ha fatto per assecondarli, anzi: «a lègge quella roba me veniva voglia de trasferirmi in un kibbutz» – riporta i suoi bravi screenshot dei Brocco81 assortiti che gli dicono la cosa che più piace dire all’umanità incapace di argomentare, cioè a quasi tutta l’umanità: ma non ti vergogni.
Ma non ti vergogni di andare a Lucca, ma non ti vergogni di dividere la locandina con Israele, ma non ti vergogni con la gente che muore, ma non ti vergogni tu col tuo impegno politico, ma non ti vergogni con tutto quello che abbiamo speso per arricchirti, ma non ti vergogni con gli assassini, ma non ti vergogni coi bambini palestinesi sulla coscienza, ma non ti.
La questione, temo, è che il successo ha sempre portato con sé pressioni faticose, e in questo secolo in cui il tizio che una volta avrebbe dovuto fare la fatica di comprare una busta e un francobollo (o di aspettarti armato sotto casa) e magari soprassedeva, in questo secolo in cui quel porocristo lì può sfogare la sua disperazione rompendoti i coglioni dal telefono che ha in tasca, e quelli che hanno vite disperatissime e possono decidere di usarti per attutire le loro frustrazioni sono milioni, in questo secolo avere successo è una gigantesca scocciatura, e non tutti hanno la sovrumana tenuta psicologica necessaria per reggerla.
Non Gervais, non Zerocalcare, non tutti anzi nessuno che mi venga in mente al momento. Io, che pure vorrei molto essere multimilionaria, ringrazio ogni giorno di non essere famosa (che è l’unico modo di diventare multimilionaria se non erediti) perché non reggerei neanche cinque secondi. E quindi tutto sommato (uva acerba) meno male che neanche oggi vinco il Nobel per la letteratura. Ma neppure il Telegatto.
Not in your name. La sinistra filopalestinese e il dilemma di Zerocalcare. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 3 Novembre 2023
Il disegnatore (e non solo lui) è davanti a un bivio: può approfittare degli attacchi più sguaiati per uscirne alla grande, tra gli applausi dei fan, oppure può allargare il discorso, prendendo perlomeno in considerazione alcuni dei fatti avvenuti dopo la sua scelta di boicottare la fiera del fumetto per via del patrocinio israeliano
Dai massacri del 7 ottobre in poi, cioè da prima ancora che Israele avesse reagito in alcun modo, abbiamo assistito a una preoccupante radicalizzazione nel linguaggio, negli slogan e negli atti di un certo mondo progressista tradizionalmente schierato a favore della causa palestinese, in forme che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili. Se inizialmente a colpirmi era stata soprattutto la totale assenza di empatia e solidarietà umana dinanzi ad alcuni dei crimini più efferati e ripugnanti della storia recente, con il passare dei giorni mi sono convinto non sia più questione di sensibilità per quanto accaduto, ma di preoccupazione e senso di responsabilità per quanto sta accadendo.
Un pezzo rilevante di quella sinistra che si è sempre legittimamente battuta a favore della causa palestinese si trova oggi, secondo me, dinanzi a un’alternativa non più eludibile. Lo definirei il dilemma di Zerocalcare.
A me pare infatti che Zerocalcare, al momento, abbia due strade davanti a sé. La prima è approfittare di tutti gli attacchi più stupidi e più sguaiati che gli sono stati rivolti per uscirne alla grande, tra gli applausi di chi già pensava avesse fatto benissimo a boicottare una fiera del fumetto perché sponsorizzata dall’ambasciata di Israele e ancor di più lo penserà alla fine di questa polemica (se mai finirà).
La seconda strada è cogliere l’occasione per allargare un po’ il discorso, senza necessariamente fare autocritica o rimangiarsi alcunché, ma prendendo perlomeno in considerazione alcuni dei fatti avvenuti dopo la sua scelta, che in parte ne sono la diretta conseguenza e in parte no.
Alcuni di quei fatti erano prevedibili, come l’eco che la sua decisione avrebbe avuto. Ma forse non era scontato che l’impatto fosse tale da spingere anche altri artisti a non partecipare alla fiera, compresi gli artisti israeliani che ne avevano disegnato il manifesto, e che a quel punto, visto il clima, hanno preferito restarsene in Israele.
Non so il resto, ma scommetterei che almeno quest’ultima conseguenza Zerocalcare non l’avesse immaginata e non credo proprio che gli abbia fatto piacere, tanto meno nel momento in cui in tutto il mondo si moltiplicano gli atti di antisemitismo più orrendi: dai neonazisti che hanno dato fuoco al cimitero ebraico di Vienna ai ragazzi (apparentemente di tutt’altra collocazione ideologica) che a New York strappano i manifesti con le foto degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas (si può immaginare un gesto più vile e disumano?), fino alle (diverse) pietre d’inciampo, poste in ricordo delle vittime dell’Olocausto, che sono state vandalizzate a Roma.
Molti di questi fatti Zerocalcare non li poteva prevedere, dunque potrebbe legittimamente prenderne spunto per provare ad abbozzare una riflessione un po’ più articolata e meno manichea sulla sua scelta e su tutto quello che ne è seguito, prima di venire accomunato ai tanti che oggi, non solo nei paesi arabi, ma anche in Europa e in America, sembrano essersi convinti che le responsabilità di Israele nel conflitto con i palestinesi giustifichino qualunque atrocità nei confronti dei loro cittadini e degli ebrei in generale.
Accusare Zerocalcare di essere un sostenitore di Hamas non ha senso, anche se la sua risposta («Sono stato più volte in Siria quando c’era l’Isis per supportare i curdi e chi combatte sul campo il jihadismo. Lo faccio ancora tutti i giorni come posso. Amiche e amici miei più coraggiosi di me ai jihadisti gli sono andati a sparare direttamente») fa pensare che se avesse avuto più amici tra gli israeliani presi in ostaggio magari ci avrebbe pensato due volte prima di innescare tutto questo casino. Anche perché, e questo doveva saperlo pure prima, la bandiera di uno stato e la sua ambasciata non rappresentano il governo, ma l’intero paese. Infatti, quelli che in piazza bruciano le bandiere di Israele o ne assaltano le ambasciate non hanno mai pensato di lanciare un messaggio a favore dell’opposizione né di chiedere un cambio di governo. Hanno sempre avuto chiarissimo il loro obiettivo, che era e resta la cancellazione dell’intero stato di Israele («from the river to the sea», come si canta nelle piazze). Una procedura che non prevede molte soluzioni alternative per i nove milioni di persone che lo abitano attualmente.
Anche su questo scommetterei che Zerocalcare non sia affatto d’accordo, come non lo sono di certo tante di quelle brave persone di sinistra che intonano ingenuamente nelle piazze simili slogan (un codice che sta semplicemente per «morte agli ebrei»).
Metterlo subito in chiaro, anche in quelle piazze e in quei movimenti, così come nei partiti, nei centri sociali e nelle scuole, sarebbe dunque anzitutto nel loro interesse, com’è nell’interesse di chiunque voglia continuare a sostenere la causa palestinese, a contestare l’assedio di Gaza e ogni altra scelta del governo israeliano, a denunciare gli abusi del suo esercito e le violenze dei coloni in Cisgiordania, senza confondersi con chi inneggia ai massacratori in parapendio e senza alimentare, nemmeno indirettamente, la terribile ondata di antisemitismo che è già tornata a sommergerci. E che è dovere di tutti arginare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie possibilità.
Lucca Comics, il solito Vauro difende Zerocalcare e attacca Israele su Gaza. Il Tempo il 28 ottobre 2023
La sinistra italiana non perde occasioni per dare addosso ad Israele dopo lo scoppio della guerra dovuto all’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre. A parlare è stavolta Vauro, che commenta così la decisione di Zerocalcare di boicottare il ‘Lucca Comics and Games’, dove il fumettista era attesissimo ospite, a causa del patrocinio alla manifestazione da parte dell’ambasciata di Israele: “Sono completamente d’accordo con la decisione di Zerocalcare. Voglio specificare che non l’ho mai conosciuto di persona, conosco il suo lavoro, lo apprezzo molto e apprezzo anche molto questa sua posizione”.
“Abbiamo sentito in una trasmissione televisiva l’ex ambasciatore israeliano che parlava di ‘distruggere Gaza’, non Hamas, Gaza. E l’ambasciata israeliana - sottolinea il vignettista - sponsorizza il Lucca Comics. In questa terrificante logica che ormai ci accompagna da anni, secondo la quale ’o sei con noi o sei contro di noi, a partire da ’vax-no vax’, ‘filo Putin’, ‘filo Hamas’, e così via, Zerocalcare è stato strumentalmente attaccato per non aver citato gli orrori compiuti da Hamas il 7 ottobre. Ma quello che sta accadendo a Gaza è orribile come sono orribili gli attacchi del 7 ottobre”.
Vauro argomenta ancora la propria posizione: “Non bisogna entrare - l’intervento all’Adnkronos - in una logica dove c’è una gara a chi compie più orrori e che ci porta a schierarci da una parte o dall’altra. No, dobbiamo capire le ragioni e condannare chiunque perpetra questi orrori. Incluso quello di Hamas, certamente. Dunque ribadisco, massimo apprezzamento per il gesto di Zerocalcare. Io col fumetto non c’entro niente, ma se fossi stato invitato al Lucca Comics avrei fatto la medesima cosa”.
Il corteo pro-Palestina a Roma: Di Battista, de Magistris, fan di Assange e influencer. Nella galassia con la kefiah anche ex di Forza Nuova. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2023
In piazza nella Capitale nel nome di Gaza sia la sinistra radicale sia movimenti di diverso colore politico. Bandiere dell'ex Germania Est, magliette del Celtic Glasgow. Studenti, Cobas, No Tav ma anche no vax e filo russi
«Vogliamo dire ai fascisti e ai sionisti che si trovano in questo corteo che devono andare via subito altrimenti li prendiamo a calci. E alla polizia che non abbiamo bisogno di protezione: sappiamo cavarcela da soli».
Uno dei giovani leader dei movimenti italo-palestinesi lo grida al microfono dal camion in testa alla manifestazione. Le sue parole risuonano lungo viale della Piramide Cestia affollata da migliaia di ragazzi con le kefiah e le bandiere della Palestina, che sventolano accanto a quelle comuniste, dei Cobas, dei No Tav, della Ddr (l’ex Germania Est).
Ci sono anche alcuni Tricolori che vengono fatti abbassare. Come quello di «Italia Libera», il movimento di Giuliano Castellino, ex leader romano di Forza Nuova, sotto processo per l’assalto alla sede Cgil del 9 ottobre 2021, assente perché sottoposto a misura preventiva da parte della Questura. «Da sempre con la Palestina, oggi più di ieri», ha comunque commentato Castellino.
La destra di «Italia Libera» accanto a centri sociali, movimenti studenteschi e dei lavoratori. La galassia anti-Israele che si è radunata in piazza ieri pomeriggio a Roma è composita. E numerosa. C’erano anche i rappresentanti dei gruppi no vax. E del «Fronte del dissenso» che fino a poche ore prima aveva organizzato in un hotel all’Esquilino la Conferenza internazionale di pace, pubblicizzata con la partecipazione — alcuni relatori erano in streaming, altri hanno poi preso parte al corteo — del deputato libanese di Hezbollah Alì Fayyad e dell’ex viceministro della Repubblica popolare di Lugansk Andrej Kochetov e di John Shipton, padre di Julian Assange, giornalista ideatore di WikiLeaks e detenuto in Inghilterra (uno striscione al corteo recitava «Assange libero», accanto alle scritte «No Nato»).
«Un fiume palestinese per le vie di Roma per fermare l’aggressione dello Stato israeliano contro Gaza e il suo popolo. La Palestina va liberata e si deve porre fine ai crimini di guerra e contro l’umanità che sta compiendo il governo israeliano. Da cittadino onorario palestinese mi schiero per la verità, la giustizia e la pace», ha spiegato l’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, leader di Unione popolare, presente alla manifestazione. In piazza anche l’ex deputato Alessandro Di Battista (non ha voluto rilasciare dichiarazioni), con moglie e figli, insieme con altri volti noti. C’era l’attore Moni Ovadia. E pure Giorgia Soleri, influencer ed ex fidanzata di Damiano David, frontman dei Maneskin, che ha postato su Instagram foto sulla manifestazione di Roma. Nutrita la presenza anche di personaggi famosi sul web, come la cantante rap romana Raiah e l’influencer e creator, anche lei della Capitale, figlia di egiziani, Tasnim Ali, 23 anni, diventata famosa nella primavera scorsa per aver scritto il libro «VeLo spiego».
Roma, folle sfilata pro Hamas: “Israele fascista e terrorista”. Giuseppe China su Il Tempo il 29 ottobre 2023
Dalle università alle piazze. Per la terza volta, dal 7 ottobre scorso, gli studenti e non solo tornano a manifestare. Ventimila persone - tutte schierate a favore della Palestina - hanno attraversato le vie di Roma: partenza da Porta San Paolo, destinazione finale piazza San Giovanni in Laterano. In due occasioni parole e fatti si sono mischiati trasmettendo agli spettatori il pensiero politico di chi ha organizzato l’evento. Dopo più di un’ora dal suo inizio, il corteo raggiunge via delle Terme di Caracalla dove si trova la sede della Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura). Al suo ingresso, sopra una ringhiera, ci sono tutti gli stendardi dei Paesi che aderiscono all’Onu. Uno tra i manifestanti riesce a eludere tutti i controlli della sicurezza e a strappare dall’asta la bandiera di Israele. Poi scappa con il «trofeo di guerra». In un video virale sui social si sente una ragazza ripetere più volte: «Quella bandiera di merda». Seguono esultanze e applausi per il giovane che è riuscito a sottrarre il vessillo. Il corteo riprende lentamente a marciare. Giunge in piazza dell’Anfiteatro Flavio, qui gli organizzatori vedendo sfilare un lungo serpentone umano esultano: «Questa volta ci siamo presi anche il Colosseo». Chi è sul palco infiamma gli animi della folla lanciando i cori: «Israele criminale, Palestina immortale». Nel repertorio non possono mancare «Israele fascista, Stato terrorista» e «free, free Palestine».
L’eccitazione è più che evidente: soprattutto per coloro che stanno a ridosso del tir che trasporta le casse amplificatrici. A questo punto chi ha in mano il microfono ha gioco facile nel domandare retoricamente: «Chi sono i criminali? Chi sono i terroristi?». Migliaia di persone rispondono: «Israele». Le premesse per una manifestazione dai toni accesi sono state evidenti fin dall’inizio. Appena giunti sul luogo di ritrovo, i presenti sono stati accolti da una gigantesca chiave. «Simboleggia la liberazione della terra palestinese, occupata dalla Naqba (catastrofe, ndr) del 1948», spiega ai cronisti una giovane donna. E proprio due giovani donne, entrambe palestinesi, sono l’anima della manifestazione. Protette dalle loro kefiah catechizzano la folla. «Vi chiediamo la cortesia di abbassare le bandiere di partito, in alto solo quelle palestinesi». Le bandiere rosse, con falce e martello, scivolano via ai piedi della fiumana umana. Una è vestita all’occidentale con uno stretto jeans nero e maglietta bianca; l’altra indossa un lungo abito tradizionale verde. Chiedono che vengano ringraziati i politici presenti, quelli non «indifferenti» alla questione palestinese: Michele Santoro, Stefania Ascari (M5s), Luigi De Magistris. Più che gli applausi si sentono i fischi. Stessa sorte per Alessandro Di Battista (non presente) che viene menzionato a parte. Al contrario non viene citato Giorgio Cremaschi (Potere al popolo), anch’esso alla manifestazione. L’incipit del volantino del Partito comunista dei lavoratori è tranchant: «Non c’è soluzione della questione palestinese senza la distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista».
Iniziano di nuovo canzoni e cori, ma in arabo. Innumerevoli gli striscioni, tra questi uno recita: «Con la resistenza del popolo palestinese». In un altro il volto del primo ministro Benjamin Netanyahu si trasforma in quello di Adolf Hitler. Piazza San Giovanni in Laterano è sempre più vicina. Prende la parola un ragazzo: «Noi che siamo qui abbiamo il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: genocidio». Ma c’è di più: «Non ci sarà pace fino a quando ci sarà l’occupazione. Noi palestinesi siamo già liberi, perché non vogliamo vivere da schiavi». Nessuno si sfila dalla marcia che prosegue al ritmo di «intifada, intifada».
"Traditi su Gaza, nel 2024 non lo votiamo": la minoranza islamica in rivolta contro Biden. Storia di Alberto Bellotto su Il Giornale il 29 ottobre 2023.
La guerra in Israele e l’escalation di Tel Aviv a Gaza può costare la Casa Bianca a Biden? Forse. E no, non si tratta di una provocazione. Il caos esploso il 7 ottobre con il violento blitz di Hamas rischia di avere effetti anche negli Stati Uniti. Un impatto che non ha tanto a che fare con l’emergenza in sé e con l’offensiva di Israele su Gaza. O meglio ha a che fare con gli effetti che queste suscitano nelle comunità americane.
Nelle ultime due settimane si è consumata una grossa lacerazione tra l’amministrazione Biden e le minoranze musulmane e arabe che da sempre costituiscono un bacino elettorale per il partito democratico. Non a caso lo staff del presidente ha avuto una settimana molto impegnativa fatta di colloqui con gli esponenti di queste comunità. Ma non solo. Qualche malumore è arrivato dagli stessi membri dell’amministrazione. Come ha scritto il Washington Post, che ha sentito diversi rappresentati delle minoranze e dello staff presidenziale, i malumori non mancano. Una fonte anonima ha ammesso: “Il tema è delicato, molti chiedono una risposta a una domanda chiave: abbiamo a che fare con dei guerrafondai, o con degli operatori di pace?”.
"Biden ha perso il nostro sostegno"
La domanda nei fatti va a pungolare Biden nel suo appoggio a Israele. Il momento più difficile per arabi e musulmani americani è arrivato quando Joe Biden ha detto apertamente di non potersi fidare dei numeri sulle vittime palestinesi del conflitto. Per molti americani di origine araba e palestinese la posizione del presidente è stata vissuta come uno schiaffo, come se il mondo arabo fosse di base bugiardo. La Casa Bianca, e i membri dello staff preposti a dialogare con queste comunità, hanno ribadito che il presidente è impegnato nel dialogo con tutti.
Un po’ poco sostengono i critici più forti. E infatti diversi esponenti del mondo arabo-islamico americano hanno risposto in modo infuriato alla posizione di Biden. Sui social in molti sono intervenuti con una minaccia non tanto velata: il presidente ha perso il nostro sostegno, valutiamo seriamente la possibilità di boicottare il voto democratico alle elezioni del 2024. Non a caso in molti hanno chiesto di far saltare questi colloqui, ma alla fine un primo incontro è avvenuto al 1600 di Pennsylvania Avenue. La stampa americana ha scritto che comunque lo strappo non si è ricucito e le divisioni sono rimaste. Diversi esponenti sentiti dal Post hanno descritto l’incontro e la posizione della Casa Bianca come un fattore destabilizzante.
La parola più usata è stata “isolamento”, inteso come un'incapacità di stare in un partito che non li rappresenta più. Per loro, dicono in molti, i dem erano stato il luogo in cui rifugiarsi dal radicalismo di Trump. Maya Berry, direttrice del think tank Arab American Institute, non ha usato mezze misure: “Il calcolo politico secondo cui nel 2024 questi elettori si saranno dimenticati di tutto è sbagliato. Queste comunità hanno lavorato per la pace nella regione, non dimenticheranno quello che ha fatto la Casa Bianca”.
La decisione di procedere a colloqui mirati è tutto fuorché un esercizio di semplice cortesia istituzionale. Ad esempio si è tenuta una maxi riunione interna - c’è chi parla di 70 persone - che ha coinvolto decine di funzionari dei vari dipartimenti del governo, inclusi membri delle agenzie di intelligence. In questi colloqui molti funzionari di origine musulmana e araba, hanno raccontato di aver subito pressioni perché si dimettessero.
In generale, hanno notato in molti, il modo in cui la Casa Bianca ha gestito i colloqui è stato un mezzo fallimento. Tra gli esponenti scelti per gli incontri c’era un solo palestinese e moltissimi attivisti hanno chiesto di boicottare tutto. Il 20 ottobre Biden ha tentato di mettere una pezza tenendo un discorso dallo Studio Ovale e denunciando islamofobia e crimini d’odio crescenti in America, e ricordando anche la morte di una bimba di sei anni, Wadea Al-Fayoume, uccisa a coltellate in Illinois. Il presidente ha detto di avere “il cuore spezzato” per le perdite umane in Palestina, e che “non si possono ignorare quei palestinesi che vogliono solo vivere in pace e avere opportunità”. Un appello che però non ha convinto molti.
Lo scenario da incubo in Michigan
Ma al di là delle sgrammaticature istituzionali e di una gestione non impeccabile del dossier, quanto può pesare questa spaccatura tra dem e mondo musulmano americano? Non poco in realtà. Per capirlo bisogna spostarsi da Washington e fare tappa in Michigan. “Guardando quello che succede a Gaza e ascoltando le parole di Biden, come posso dire a qualcuno di votare per lui?”, a parlare è Sam Baydoun, un commissario di origine libanese eletto tra i democratici a Dearborn, cittadina da 100 mila abitanti non lontano da Detroit.
Dearborn fa parte della contea di Wayne che ospita una delle comunità musulmane più numerose d’America. Lì, tra vetrine e insegne arabe, diversi sono anche stati eletti in posizioni importanti. La stessa Dearborn è guidata da Abdullah Hammoud, sindaco dem musulmano.
Secondo Nada Al-Hanooti, un'organizzatrice di campagne elettorali a Dearborn, nel 2020 in tutto il Michigan c’erano almeno 200mila elettori musulmani. Un blocco elettorale interessante se si tiene conto che gli aventi diritto nello Stato sono circa 8 milioni. “Alle presidenziali del 2020 la comunità musulmana è stata determinante per mandare Biden alla Casa Bianca”, ha detto Al-Hanooti che oggi lavora per un’organizzazione denominata Emgage che si occupa di rafforzare il potere politico dei musulmani.
Bastano un po’ di conti per capire bene quanto questa situazione sia delicata per i democratici. Nella sfida contro Donald Trump nel 2020 Biden si è imposto in Michigan con circa 155mila voti, un margine buono ma non incolmabile se si pensa che solo quattro anni prima, nel 2016, The Donald si era preso il Great Lakes State con uno scarto di 10mila voti su Hillary Clinton. Sempre nel 2020 gli elettori musulmani hanno partecipato attivamente e secondo una valutazione di Emgage almeno 145mila di loro hanno votato. Stando a un sondaggio commissionato dal Council on American-Islamic Relation, circa il 69% degli elettori di fede islamica nel 2020 ha scelto Biden. Se proiettiamo questa percentuale solo sul Michigan viene fuori che si tratta di circa 100mila voti. Un bottino di tutto rispetto che può fungere da ago della bilancia.
Durante la presidenza Trump i musulmani americani e gli elettori di origine araba si sono spostati sempre più verso il partito democratico. La retorica incendiaria del tycoon, il muslim ban e il riferimento all’islam radicale hanno convinto molti di loro ad andare alle urne, non tanto per sostenere Biden quanto per sfrattare Trump dalla Casa Bianca. Insomma, il voto di questa minoranza fu uno dei tanti piccoli referendum su Trump piuttosto che un’espressione di sostegno diretto all’ex vice di Barack Obama.
Il problema ora, dicono molti musulmani del Michigan, è che l’aperto supporto della Casa Bianca a Israele viene vissuto come una svolta islamofobica dell’amministrazione. “Molti di noi”, dice Al-Hanooti, “non si sentono sicuri”. “Ho fatto campagna per Biden, ero convinto che fosse il candidato giusto, compassionevole e umano. Adesso non lo distinguo da Trump”. A parlare è Abusalah, 22 anni, attivista di sinistra e oggi funzionario del governo locale in Michigan. Abusalah racconta che la sua comunità è preoccupata, spaesata e soprattutto non si riconosce più in Biden.
Questa delusione e questa rivolta contro la posizione della Casa Bianca, che ha appoggiato senza se e senza ma Tel Aviv, che esiti potrà avere sul piano elettorale? Il voto di protesta. In molti, infatti, si dicono pronti a votare scheda bianca. Osama Siblani, editore della rivista The Arab Amercian News, ha raccontato al New York Times che in molti si preparano a “lasciar vincere Trump”.
Una veglia per Gaza
Lo stesso giorno in cui la Casa Bianca tentava di correre ai ripari incontrando esponenti delle comunità arabe e musulmane, nella sede della University of Michigan di Dearborn si è tenuta una veglia per Gaza. Studenti hanno acceso candele e sfilato contro i raid di Israele. Hani J. Bawardi, docente di Storia e Identità arabo-americana, ha tenuto un breve discorso e ha arringato gli studenti: “Sono qui per non farvi sentire soli”.
Parlando con la stampa Bawardi ha detto che moltissimi dei suoi studenti non hanno mai votato alle presidenziali e in molti chiedono a lui chi votare. “Credo che alla fine molti di loro verranno attirati da un terzo partito", spiega, "arriveremo a una situazione simile a quella di Ralph Nader nel 2000”. Il riferimento è al candidato di sinistra che raccolse poco più di un milione di voti con il “Green Party”.
Sempre più americani immaginano una politica post-Trump e post-Biden. E ora anche le minoranze iniziano a chiedere qualcosa di diverso. La guerra in Israele ha aperto spaccature profonde nella società americana, tra le varie minoranze e tra queste minoranze e la Casa Bianca. Per ora si tratta di malumori e manifestazioni. E a un anno dal voto è presto per trarre conclusioni drastiche, ma un aspetto diventa sempre più certo: la grande coalizione di elettori che regalò a Biden la Casa Bianca perde un pezzo ogni giorno che passa.
Estratto dell’articolo di Greta Cristini per “il Messaggero” venerdì 27 ottobre 2023.
C'è un «lampante doppio standard» nell'attuale catastrofe umanitaria fra palestinesi ed ebrei. È perentoria la regina di Giordania Rania che, in un'intervista alla Cnn, accusa Israele di apartheid e denuncia come «la gente di tutto il Medio Oriente, compresa la Giordania, è scioccata e delusa dalla reazione del mondo occidentale» alla guerra in corso fra Hamas e Israele. «Il 7 ottobre il mondo si è immediatamente e inequivocabilmente schierato al fianco di Israele, del suo diritto di difendersi e ha condannato l'attacco.
Ma nelle ultime due settimane stiamo assistendo al suo silenzio» accusa la regina di Giordania. «Ci state dicendo che è sbagliato uccidere un'intera famiglia sotto la minaccia di una pistola, ma che va bene bombardarla a morte? Perché non c'è la stessa condanna per quanto sta accadendo ora?».
Di discendenza palestinese, Rania insieme al marito, il re Abdullah II, governa un Paese che secondo le Nazioni Unite ospita il 40% del totale dei rifugiati palestinesi registrati in Medio Oriente, per un totale di circa 2 milioni di persone e 10 campi profughi. Ne va da sé che qualsiasi scintilla nel conflitto israelo-palestinese inneschi inevitabilmente un effetto domino nell'opinione pubblica del Paese che la sua leadership deve ascoltare, rappresentare e gestire.
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Del resto, il Paese arabo non può prescindere dagli ingenti aiuti economici che Washington gli invia ogni anno: nel 2022, i due Paesi hanno firmato un accordo di aiuti annuali pari a 1,45 miliardi di dollari per una durata record di sette anni. I malumori giordani complicano però la posizione degli Stati Uniti nel Paese e aumentano il rischio che la conflittualità interna li metta spalle al muro.
Secondo il Pentagono, tra le basi militari Usa attaccate ripetutamente negli ultimi giorni da Hezbollah e Jihad islamica palestinese, movimenti armati sciiti filo-iraniani, c'è anche quella di Al Tan, al confine fra Siria e Giordania. Il tradizionale equilibrismo della Giordania, necessario a dialogare sia con l'Occidente sia col mondo arabo, è messo in crisi dalla sensibilità della pancia del Paese. Rania lo ha capito.
Rania di Giordania contro Israele. E il web insorge: "Vivi nel lusso e rifiuti i palestinesi". Storia di Francesca Rossi su Il Giornale domenica 29 ottobre 2023.
Lo scorso 25 ottobre è stata diffusa l’intervista rilasciata dalla regina Rania di Giordania alla Cnn in merito alla tragica situazione in Medio Oriente. Un rarissimo intervento a carattere politico della sovrana, che ha usato parole molto dure anche nei confronti dell’Occidente. La reazione del Web non si è fatta attendere: molti utenti non hanno affatto gradito le affermazioni di Rania e non le hanno risparmiato aspre critiche.
“Nelle ultime due settimane abbiamo visto un evidente doppio standard nel mondo”, ha dichiarato la regina Rania a Christiane Amanpour della Cnn, sostenendo che l’Occidente tratterebbe la questione del conflitto tra israeliani e palestinesi usando due pesi e due misure. Sua Maestà ha criticato il “silenzio” di Europa e Stati Uniti di fronte agli attacchi israeliani a Gaza. “Ci è stato detto che è sbagliato uccidere una famiglia, un’intera famiglia con le armi, ma va bene bombardarli a morte?...Il silenzio è assordante e per molti nella nostra regione rende il mondo occidentale complice attraverso il supporto e la copertura che dà a Israele”.
La sovrana ha anche espresso un commento molto forte sulla condizione dei palestinesi nella Striscia di Gaza: “È una vecchia storia di 75 anni fa. Una storia di morte angosciante e di migrazione per il popolo palestinese. È una storia di occupazione sotto un regime di apartheid”. Infine, pur condannando i terroristi di Hamas, Rania di Giordania ha esternato i suoi dubbi sulle notizie riguardanti i bambini israeliani decapitati lo scorso 7 ottobre, sottolineando la mancanza di prove a sostegno di queste terribili morti.
Il Forum delle famiglie degli ostaggi israeliani, dopo queste affermazioni, avrebbe deciso di inviare alla Regina un link a un sito crittografato dove ci sarebbero le immagini dei corpi decapitati e bruciati. Neppure il web è rimasto in silenzio, contestando la Regina di Giordania e riservandole commenti pieni di disappunto e di biasimo.
Critiche contro la Regina
A raccogliere le dure critiche contro la regina Rania è stato il Daily Mail, che ha anche scritto: “L’intervista inusualmente franca ha colto molti di sorpresa e…fatto infuriare gli americani, che hanno criticato la sua ipocrisia, dal momento che la Giordania rifiuta di accogliere i rifugiati palestinesi”.
I commenti di utenti e giornalisti sono persino più diretti. Alyssa Farah Griffin, contributor proprio della Cnn, ha twittato in maniera ironica: “Straordinaria intervista con la regina Rania. Tenta di creare ambiguità, da un punto di vista morale, tra gli attacchi di rappresaglia israeliani e il terrorismo di Hamas. Risparmiami la tua indignazione, visto che vivi nel lusso e rifiuti di accogliere i palestinesi rifugiati”.
Katie Pavlich, della Fox, ha dichiarato: “Un’esposizione davvero vergognosa dalla regina Rania di Giordania, nella quale lei, che può usufruire delle libertà garantite alle donne occidentali mentre vive nel lusso, governando un Paese arabo, fa un sermone privo di fatti e pieno di calunnie. La Regina chiama Israele uno stato di apartheid, ignorando opportunamente che gli arabi-israeliani hanno pieni diritti come cittadini, incluso quello di voto, negando che i loro bambini siano stati massacrati e dicendo che [queste morti] non sono state ‘verificate in modo indipendente’. Lo sono state”…Lei e suo marito, il Re, rifiutano ancora di accogliere i rifugiati (a cui lei dice di tenere molto) nel loro Paese. Grottesco”.
L’attivista israeliano Yoseph Haddad si è spinto oltre, dichiarando: “Hai un nuovo titolo: regina di Giordania e Regina che supporta il terrorismo!” e ha poi sottolineato che, riguardo al massacro di bambini, “tutto è [stato] documentato e fotografato”. Christiane Amanpour, ha riportato ancora il Daily Mail, ha parlato dell’intervista di Rania durante una diretta della Cnn, spiegando che la Regina avrebbe espresso un’opinione “con cui la maggior parte del mondo concorda”, ovvero il “doppio standard” che l’Occidente userebbe nei confronti di israeliani e palestinesi.
Estratto dell’articolo di Alessandra Muglia per corriere.it venerdì 27 ottobre 2023.
Si tira fuori Emmanuel Macron, che dal Cairo ha replicato che «la Francia non pratica il doppio standard, il diritto internazionale si applica a tutti e la Francia difende i valori universali dell’umanesimo» ha detto il presidente francese durante una conferenza stampa in Egitto, dove ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi. Per la Francia, ha aggiunto, «tutte le vite si equivalgono, tutte le vittime meritano la nostra compassione, il nostro impegno durevole per una pace giusta e durevole nel Medio Oriente».
Anche il presidente del Consiglio Ue Charles Michel poco prima dell’inizio del vertice europeo ha risposto a distanza a Rania: «L’Unione europea non ha doppi standard»nella guerra fra Hamas e Israele, ha detto.
Tuttavia dalla bozza di conclusioni del Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles è sparito il riferimento al «cessate il fuoco» chiesto dal segretario generale dell’Onu Guterres rimpiazzato dall’espressione «pause umanitarie» per consentire la consegna degli aiuti. «Noi crediamo in un sistema basato sui valori e il rispetto delle regole e sia io che i miei colleghi continuiamo a spiegarlo ai nostri partner del Sud Globale».
L'odio verso Israele e l'Occidente delle femministe di Non una di meno. Israele deve cessare il fuoco e liberare le sue carceri dai palestinesi: questo chiedono da Non una di meno. Richiesta sovrapponibile a quella di Hamas. Francesca Galici il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.
A sinistra stanno in qualche modo provando a non lasciarsi prendere troppo la mano nelle esternazioni sul conflitto israelo-palestinese, anche se in pochissime occasioni da quelle parti si sono sentite parole di condanna nei confronti di Hamas. Le veterofemministe di Non una di meno, invece, nemmeno ci provano a nascondere la loro natura e con un comunicato dai tratti folli, espongono il loro manifesto in cui non mezza parola viene spesa per definire ciò che è Hamas: terroristi. L'estremismo di questo gruppo è cosa nota e non da oggi, ma la posizione assunta in questo conflitto sta assumendo contorni inquietanti.
Al netto della violenza perpetrata alla lingua italiana, come sempre accade quando da queste parti si emettono comunicati forzando la mano su un inesistente genere neutro, la posizione delle femministe è chiara: Israele ha torto. Se si fermassero a questo, la loro sarebbe una posizione democraticamente difendibile, condivisibile o meno. Ma i toni utilizzati nel loro comunicato sono violenti e propagandistici, infarciti di odio contro lo Stato ebraico e contro l'Occidente. Israele viene definito come "uno Stato fascista, imperialista, razzista e colonizzatore" e l'Occidente come un ente censore che supporta la propaganda israeliana e "l’opposizione interna". Ma dovevano essere distratte le femministe quando le piazze italiane sono state concesse alle manifestazioni pro-Palestina in cui sono stati scanditi slogan antisemiti. O quando, nelle ultime settimane, tutti i media hanno riportato le immagini provenienti dalle piazze europee in cui è stato piantato il seme dell'odio ebraico. Strano, perché c'erano anche loro.
Nella lettura di Non una di meno, Israele non sta reagendo a un barbaro attacco terrorista che ha portato la morte di bambini, donne, anziani e uomini, spesso giovani. E quello di Hamas non è stato un atto terroristico. Nel loro manifesto scrivono: "Lo Stato coloniale e fascista d’Israele sta approfittando dell’attacco portato avanti dalle forze di Hamas per eliminare completamente la popolazione di Gaza e questo non possiamo permetterlo". Quello del 7 ottobre, è stato un attacco delle "forze di Hamas" in questa lettura revisionista e giustificazionista.
Ma si va avanti, perché la loro richiesta ha dei tratti ancora più assurdi: "Siamo per la fine immediata dell’attacco israeliano e la liberazione degli ostaggi e prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane e con tutte le donne, le persone LGBTQIAK+ e i soggetti che quotidianamente combattono e si organizzano contro la violenza patriarcale e nazionalista. Siamo per il boicottaggio delle merci di provenienza israeliana". L'analisi di questa frase è la chiave del pensiero di Non una di meno: Israele deve cessare il fuoco e liberare le sue carceri dai prigionieri palestinesi.
Si tratta della stessa richiesta avanzata da Hamas, che per raggiungere questo obiettivo ha effettuato il ratto degli israeliani nei kibbutz e durante il rave party il 7 ottobre, portando via bambini in fasce. Queste persone, da oltre 20 giorni nelle mani di macellai criminali, non hanno diritto di vita, secondo Non una di meno. Nel manifesto, per altro, si sostiene che "sarà il popolo palestinese a decidere sul proprio futuro e scegliere da chi difendersi e come autodeterminarsi, in una Palestina libera che tutti ci auguriamo di vedere presto". Via libera ad Hamas quindi, che ha vinto le elezioni a Gaza anni e anni fa anche se è un'associazione fondamentalista islamica e via libera agli attacchi verso Israele, se è questo che desiderano.
Difendono Mariam Abou Daqqa, arrivata a Marsiglia da Gaza e arrestata dai francesi in quanto considerata una minaccia alla sicurezza nazionale perché ritenuta parte "dell'ufficio politico del PFLP a Gaza", inserita dall'Unione europea tra le organizzazioni terroristiche. Ma è donna, è palestinese, quindi per Non una di meno merita di essere automaticamente difesa. E non c'è un accenno di condanna agli attentati subiti dall'Europa nel loro manifesto, ma sono odio verso un Occidente "complice dei massacri perpetrati e di tutte le successive occupazioni, espulsioni ed espropri dei territori palestinesi". L'odio che permea questo documento di Non una di meno ha tratti preoccupanti. Ma ciò che preoccupa maggiormente è che queste posizioni così estreme sono diffuse anche in Occidente, aumentando il rischio per la sicurezza internazionale.
Greta schierata contro Israele spacca i verdi tedeschi. Bufera a Berlino dopo le dichiarazioni della Thunberg. E gli attivisti di Friday for future si dissociano dalla pasionaria. Francesco De Felice il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.
I razzi lanciati da Hamas contro Israele hanno colpito anche «Fridays for Future», aprendo una spaccatura tra l'Internazionale per il clima e la sua sezione in Germania. Nel Paese dove i Verdi sono al governo con la SPD e la FDP e dove il sostegno a Israele è «ragion di Stato» per il cancelliere Olaf Scholz, il messaggio su X con cui Greta Thunberg (nella foto) solidarizza esclusivamente con la causa palestinese ha provocato indignazione generale. Altrettanto criticato è stato il comunicato con cui gli ecoattivisti accusano Israele di colonialismo e di genocidio dei palestinesi. La risposta del presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (ZdJ), Josef Schuster, è stata perentoria: Fridays for Future Deutschland deve dissociarsi «veramente», cambiare nome, «rompere ogni contatto» con Thunberg e Fridays for Future International. Per il presidente dello ZdJ, il movimento di Thunberg è responsabile di «una grossolana distorsione della storia», della «demonizzazione di Israele» ed è imbevuto della «ideologia del complotto» ebraico. Contro Greta e i suoi si sono scatenate le critiche al Bundestag, dall'intero emiciclo. Deputata della SPD, Katja Mast ha dichiarato che, non per la prima volta, Fridays for Future International «richiama l'attenzione con dichiarazioni anti-israeliane». Ora, «devono esserci conseguenze chiare in Germania e nessuna alzata di spalle», con «una presa di distanze e un rimprovero inequivocabile» da parte di Fridays For Future Deutschland. A sua volta, il vicecapogruppo della FDP Lukas Köhler ha affermato che gli ecoattivisti tedeschi devono «prendere completamente le distanze» da Greta e i suoi. Critiche anche dal deputato dei Verdi Marcel Emmerich. Secondo l'esponente degli ecologisti, Fridays for Future Deutschland ha «ripetutamente condannato l'antisemitismo» e si è distanziato dal movimento internazionale anche nelle sue dichiarazioni di solidarietà unilaterale alla causa palestinese. Tuttavia, Fridays for Future International diffonde «le peggiori teorie del complotto antisemita». Dall'opposizione, la vicecapogruppo dei nazionalconservatori di AfD Beatrix von Storch ha dichiarato che, fin quando Fridays for Future Deutschland «non romperà apertamente e definitivamente con Greta Thunberg e la sezione internazionale», la sua presa di distanze dall'antisemitismo «non è credibile». Guidati da Luisa Neubauer, gli attivisti per il clima tedeschi si sono ufficialmente dissociati da Fridays for Future International.
Gli arabi sbagliano a fidarsi di "Dibba". Sono contento per Alessandro Di Battista il quale, come il suo ex collega di partito, Luigi Di Maio, ha più successo in Medio Oriente che in casa. Vittorio Feltri il 27 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Illustre Direttore Feltri,
sembra che Alessandro Di Battista sia diventato un personaggio amatissimo nei Paesi arabi, addirittura l'idolo degli estremisti islamici sparsi per il mondo, per via della difesa che egli ha fatto in tv della Palestina e quindi anche di Hamas, che ha aggredito Israele il 7 ottobre mettendo a segno una carneficina, un massacro di civili. Non ci facciamo una bella figura. Le pare possibile che un cittadino italiano si faccia promotore della causa dei terroristi antisemiti come se fosse un qualunque imam radicalizzato e dedito al proselitismo contro l'Occidente?
Mi vergogno per lui. Renato Bianchi
Caro Renato,
sono contento per Alessandro Di Battista il quale, come il suo ex collega di partito, Luigi Di Maio, ha più successo in Medio Oriente che in casa. Sai come si dice...: «Nemo propheta in patria». Certo, lo avremmo preferito falegname, o animatore nei villaggi turistici, attività che svolgeva prima di essere eletto alla Camera dei deputati nel 2013, o avventuriero con lo zaino sulle spalle a zonzo per il mondo e impegnato a farci le prediche da ogni latitudine, attività che ha svolto una volta conclusosi il suo mandato, invece Alessandro Di Battista, due braccia strappate all'artigianato o alle segherie italiane afflitte dalla carenza di personale, è diventato idolo di massa nei Paesi islamici per il suo sostegno ad Hamas e alla Palestina, tanto che i suoi dibattiti e le sue disamine audio-video vengono trasmessi con sottotitoli in arabo. E saremmo curiosi di sapere come egli venga presentato, cioè introdotto, dal momento che in patria è il Signor Nessuno.
Del resto, il cinquestelle cadente, anzi no, scadente, anni fa arrivò a dichiarare che «l'Isis va compreso», insomma i terroristi islamici sono cattivi ragazzi ma hanno, dopotutto, le loro buone ragioni che noi ragionevoli cristiani non conosciamo. E che dire del suo appoggio ai gilet gialli nel momento in cui mettevano a ferro e fuoco Parigi e la Francia tutta? Alessandro è così: ha la capacità straordinaria di stare sempre dalla parte sbagliata, ossia di chi adopera la violenza come ordinario strumento di pressione e di potere. Nel marzo del 2022, ospite nel programma Di Martedì, spiegò che, se diamo le armi all'Ucraina per difendersi da Putin, anzi dai «missili supersonici russi» (sic!, anziché ipersonici), allora sarebbe giusto fornirle anche ai palestinesi «senza Stato per colpa dell'ipocrita comunità internazionale». Il rivoluzionario (con il sedere degli altri) Dibba, uno che per intenderci è convinto che la nostra Costituzione sia stata «approvata a suffragio universale nel 1948» e che ritiene che «Mario Draghi non capisce nulla di politica e nemmeno di economia», se la prende se osi parlargli sopra in uno degli show televisivi in cui è troppo spesso ospite replicando con un congiuntivo maccheronico alla Gigi Di Maio: «Lei non mi interrompi». Ci sfugge il motivo per il quale il Dibba seguiti ad intervenire nel dibattito pubblico dispensando troppo generosamente le sue perle (o supposte) di saggezza. A che titolo blatera? Non è un politico. Al massimo, lo fu, per qualche annetto. Non è un esperto. Non lo è mai stato e mai lo sarà, sebbene a tale si sia atteggiato. Non è un intellettuale. Non è un giornalista. Non è un politologo. È un rompipalle conclamato e pluridecorato, sì, ma questo non ci sembra faccia curriculum. Che l'ex grillino sia stato promosso difensore della causa dei terroristi antisemiti di Hamas non dovrebbe tuttavia stupirci, ove consideriamo che Dibba è uno che in aula ha confuso Austerlitz con Auschwitz, salvo scusarsi poi su Facebook. «Macron piace a tutti quanti voi come se fosse Napoleone, ma almeno quello combatteva sui campi ad Auschwitz e non nei cda delle banche d'affari», affermò Di Battista nel 2017.
Io lo terrei in auge soltanto perché ci fa divertire. E, in fondo in fondo, noi commettiamo lo stesso errore di chi ora nei Paesi arabi lo applaude: lo prendiamo troppo ma davvero troppo sul serio. E questo è un vizio che persino Dibba coltiva nei confronti di se stesso.
Stasera Italia, scontro tra Jasmine Cristallo e Dror Eydar: "Hanno decapitato un feto". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2023
L'ex ambasciatore di Israele Dror Eydar non usa giri di parole e definisce bene a Stasera Italia, il talk show di Rete 4 condotto da Nicola Porro, la barbarie dei tagliagole di Hamas. Eydar afferma: "I terroristi di Hamas hanno dato il via a una degenerazione morale senza precedenti. Questi criminali hanno ucciso una donna israeliana incinta, le hanno aperto la pancia mentre era ancora in vita e hanno decapitato il feto". A queste parole c'è poco da aggiungere e questa guerra terribile che va avanti ormai da settimane non fa altro che alzare il velo sull'orrore di cui si coprono i tagliagole che hanno messo le radici a Gaza.
E così l'ex ambasciatore sottolinea la definizione di "animali" che è stata data dal governo israeliano ai terroristi di Hamas. Ma la dem Jasmine Cristallo tira acqua al mulino della Palestina e così afferma: "Lì non ci sono animali, ci sono persone. Ci siamo dimenticati il principio di proporzionalità? Lei ha detto che devono morire tutti". Insomma per la Cristallo Israele dovrebbe usare il guanto di velluto dopo aver raccolto migliaia di morti uccisi in modo indicibile da Hamas. Il diritto di Israele di difendersi di fatto viene sempre messo in discussione e sembrano già dimenticate le dichiarazioni di stupore per i fatti del 7 ottobre scorso anche da parte della sinistra.
La risposta di Israele, come ha sottolineato l'ex ambasciatore, deve essere dura perché qui si mette in discussione la tenuta e l'esistenza dello Stato ebraico che ancora una volta, l'ennesima, si trova a dover difendersi su più fronti da attacchi alle spalle con un obiettivo chiaro: cancellare lo Stato d'Israele dalle mappe geografiche.
Da fanpage.it - Estratti venerdì 27 ottobre 2023.
"Ogni persona che minaccia un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire. L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto". A leggere queste parole si potrebbe pensare siano i deliri di un esaltato islamofobo. Invece a pronunciarle due sere fa è stato Dror Eydar, ex ambasciatore di Israele in Italia dal 2019 al 2022.
L'ex diplomatico è intervenuto come ospite della trasmissione di Rete 4 Stasera Italia, condotta da Nicola Porro, e quando gli è stato chiesto di commentare le dichiarazioni del segretario generale dell'ONU Antonio Guterres ha invocato, senza mezzi termini, nientemeno che la distruzione totale della Striscia di Gaza. Un dettaglio però deve essergli sfuggito: che in quel luogo, in più densamente abitato del pianeta, vivono 2,3 milioni di persone che in larghissima parte non hanno nulla a che fare con Hamas.
Mentre le bombe di Israele stavano facendo strage di civili, e mentre da tutto il mondo arrivavano gli accorati appelli per un "cessate il fuoco" o quantomeno una "pausa umanitaria", l'ex ambasciatore non ha neppure tentato di apparire moderato e diplomatico. Al contrario, ha invocato la devastazione totale della Striscia di Gaza. Commentando il discorso pronunciato da Antonio Guterres a New York Dror Eydar ha detto: "Le sue parole appartengono al passato.
Fanno parte delle degenerazioni del mondo libero. Cercare di trovare una spiegazione dietro a ciò che è accaduto è come chiedersi perché gli ebrei sono stati uccisi nelle camere a gas". E Poi: "Noi non siamo interessati a discorsi razionali. Ogni persona che minaccia un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire. L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto".
Stasera Italia, il delirio di Jasmine Cristallo: "Lei ha detto che devono morire tutti". Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2023
Chi gioca a confondere gli abitanti di Gaza con i terroristi di Hamas? I filo-palestinesi di casa nostra accusano di farlo il governo di Israele, ma ascoltando Jasmine Cristallo viene il forte dubbio che sia l’esatto opposto. L’ex sardina, oggi passata al Pd armi e bagagli come il suo ex compagno di piazze Mattia Santori, è ospite di Nicola Porro a Stasera Italia su Rete 4 e se la deve vedere con l’ex ambasciatore di Israele Dror Eydar.
Il confronto, in termini di lucidità di analisi, è impietoso. «I terroristi di Hamas hanno dato il via a una degenerazione morale senza precedenti - sottolinea il diplomatico -. Questi criminali hanno ucciso una donna israeliana incinta, le hanno aperto la pancia mentre era ancora in vita e hanno decapitato il feto». Il rischio è che gli orrori delle vittime civili di Gaza, le migliaia di foto e video che inondano i social, possano far dimenticare gli eccidi nel chiuso dei kibbutz, di cui sono state mostrate pochissime immagini.
«Quelli di Hamas sono animali», è la sentenza cruda e lapidaria di Eydar. Ma la Cristallo protesta: «A Gaza - lo rintuzza - non ci sono animali, ci sono persone. Ci siamo dimenticati il principio di proporzionalità? Lei ha detto che devono morire tutti». Per la cronaca: l’ex ambasciatore (né tantomeno il governo di Netanyahu) ha detto di voler uccidere i civili della Striscia, e gli unici a non aver voluto l’evacuazione richiesta da Tel Aviv sono stati proprio i terroristi islamici, che avrebbero così perso i loro scudi umani. Tuttavia, è la tesi di Eydar, la risposta di Israele deve essere dura, perché «è stata messa in discussione la tenuta e l’esistenza dello Stato ebraico». Un punto che pacifisti e sardine d’acqua italiana proprio non afferrano.
Estratto dell'articolo di Massimo Ferraro per open.online giovedì 26 ottobre 2023.
I colori rosso, nero, bianco verde, hanno dominato le tribune del Celtic Park nella terza partita del girone dei gironi Champions League, la sfida tra Celtic e Atletico Madrid. Le bandiere della Palestina sono state distribuite all’esterno dello stadio ai tifosi, […]
Ma non solo, alcune centinaia di supporter si sono coordinati e hanno indossato dei copri-pioggia colorati a formare una grande bandiera palestinese umana[…] . Come ulteriore gesto a sostegno della popolazione della Striscia di Gaza, i tifosi scozzesi hanno intonato il loro inno You’ll Never Walk Alone in una versione rivisitata e dedicata esplicitamente alla Palestina.
Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per lastampa.it giovedì 26 ottobre 2023.
Gli episodi e gli incidenti di antisemitismo hanno raggiunto negli Stati Uniti il picco nel 2022 da quando la Anti-Defamation League (ADL) ne tiene la contabilità. Era il 1979. Aggressioni, assalti, insulti e atti vandalici sono aumentati di ben un terzo fra il 2021 e il 2022. In totale sono stati 3700 casi. È in questo clima che la ADL ha diffuso un altro report denunciando che dall’azione terroristica di Hamas contro Israele negli Stati Uniti gli episodi di antisemitismo sono schizzati in alto del 400%.
«Quando c’è un conflitto in Israele – ha commentato il capo dell’Adl Jonathan Greenblatt alla Reuters – subito ci sono episodi antisemiti». Striscioni minacciosi posti lungo le autostrade, camioncini “decorati” con vignette e disegni contro gli ebrei e sin manifestazioni nei campus universitari dove il dissenso nei confronti della politica di Israele è degenerato in prese di posizioni contro gli ebrei.
Se il 2023 quindi è destinato ad andare in archivio con un prevedibile aumento degli episodi antisemiti, è da evidenziare che il trend rialzisti si registra ormai dal 2013. In sei anni poi (dati 2022 su 2014) questi episodi si sono moltiplicati per sei. […] Circa due ebrei americani su tre infatti hanno avuto esperienza diretta o hanno assistito a episodi di antisemitismo sui social e in genere sulla Rete.
(…)
Erdogan: "Hamas liberatori". Patto del male siglato a Beirut. Il Sultano rompe il fronte Nato: "L'Occidente ha sensi di colpa con Israele". In Libano vertice con Hezbollah e Jihad islamica. Francesco De Remigis il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Mentre l'Occidente prova ad allentare le tensioni mediorientali tappa dopo tappa, da oriente fioccano dichiarazioni incendiarie. In Libano si è riunito l'asse del terrore, e lo ha voluto mostrare: quei tre leader che per Israele ostacolano invece le evacuazioni da Gaza usando la popolazione come scudo. E ieri è arrivata pure la presa di posizione pro Hamas del presidente turco Erdogan: «È un gruppo di liberazione che combatte per proteggere i cittadini», ha detto in Parlamento, assolvendo la sigla palestinese per gli orrori commessi il 7 ottobre e cancellando il viaggio nello Stato ebraico.
Standing ovation. Il Sultano turco si è astutamente preoccupato di mettersi al riparo da accuse di antisemitismo. Col consueto equilibrismo, in un discutibile excursus storico, ha ricordato l'impero ottomano parlando di coesistenza tra popoli. Ma poi ha tirato in ballo le vittime civili a Gaza («atrocità e brutalità premeditata»), schierandosi coi terroristi che vogliono cancellare Israele. Hamas? Miliziani liberatori. Le brigate armate? Uomini che lottano per la loro terra. Parole incendiarie, con cui Erdogan fa sapere, tanto all'Ue quanto agli Usa (da cui attende i caccia F-16 dopo il Sì alla Svezia nell'Alleanza atlantica), da che parte sta l'esercito turco membro Nato, che coi leader di Hamas vanta cordialità e comune ispirazione all'islam politico dei Fratelli musulmani. Il mix di propaganda e legittimazione non arriva più soltanto da stati «canaglia», ma da ieri pure da quelli militarmente alleati dell'Occidente come la Turchia, proprio mentre il presidente francese Macron lavora a una coalizione regionale per combattere il terrorismo parificando l'azione di Hamas a quella dell'Isis: «È un pericolo per tutta la regione, anche per i palestinesi, è un gruppo terrorista». Invece? Ecco il Sultano mettere le cose in chiaro. «Patrioti», altro che terroristi. Poco conta se hanno orchestrato e messo a segno una caccia all'ebreo che sta registrando allarmi anche in Europa, anzitutto in Francia.
Altro che fargli la guerra. Erdogan li considera eroi. E non solo lui. Ieri, a stretto giro, pure l'Oman si è schierato attribuendo a Hamas il titolo di «movimento di resistenza», scartando paragoni con Daesh e invitando a una soluzione «politica» a due Stati: per una situazione, chiarisce il ministro degli Esteri al-Busaidi, cominciata 70 anni fa e «non il 7 ottobre». Il ritornello omaggia chi tiene Gaza in ostaggio. E i nuovi proclami fanno il pari col risveglio dell'Iran; finora piuttosto defilato dal conflitto sul campo, avrebbe facilitato, se non patrocinato, la riunione faccia a faccia (con tanto di foto) dei vertici delle frange armate anti-Israele. Per capire «cosa deve fare l'Asse della Resistenza per sconfiggere il comune nemico sionista», martedì si sono visti Hezbollah (col leader storico Nasrallah, che ieri a mezzo stampa ha magnificato i combattenti morti in Israele), Hamas (con il vice capo dell'ufficio politico Saleh Al-Arouri) e la Jihad islamica (con Ziad Nahleh). Alle spalle, i ritratti dei leader iraniani di ieri e oggi: Khamenei e Khomeini. Dalle divisioni al fronte comune, una nuova tenaglia. Dicono: «Valutare le posizioni assunte a livello internazionale e regionale», mentre in Cisgiordania donne e ragazzini bruciano l'effige di Macron e i ribelli Houthi dallo Yemen puntano i missili verso Israele. Tra proselitismo e guerra apparecchiata, i tre coordinano le azioni con fazioni palestinesi, siriane, irachene.
Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” domenica 29 ottobre 2023.
Quelli di Hamas, dice Erdogan, non sono terroristi ma «combattenti» per «il proprio popolo e la propria terra». E i curdi che difesero Kobane e gli armeni espulsi dagli azeri? Certo, definire quale sia il confine esatto tra la «violenza legittima» e la ferocia barbarica di chi si rivolta è forse impossibile.
[…] sconcerta lo sprezzo con cui il presidente turco si sente in diritto di distribuire le patenti di «combattenti patrioti» a quanti si sono spinti a sgozzare dei neonati e negarla non solo agli israeliani stravolti dall’aggressione ma ai militanti curdi bollati sempre come «terroristi» anche se marciavano per le strade in aiuto della curda Kobane assediata in Siria dai tagliagole dell’Isis.
O dei militanti armeni dell’enclave del Nagorno-Karabakh, un territorio cristiano e armeno per un paio di migliaia di anni, conteso in una guerra sanguinosa agli azeri sciiti dopo la fine della «grande madre» sovietica e svuotato poche settimane fa dalla biblica cacciata di almeno centomila profughi armeni.
Erdogan sceglie Hamas. È la spina nel fianco della Nato? L’equilibrismo del sultano si rompe: “Non sono terroristi ma liberatori”. Gli effetti sull’Alleanza. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 26 Ottobre 2023
Sono passati pochissimi giorni dall’incontro tra Xi Jinping e Vladimir Putin, durante l’ultimo vertice della Via della Seta, dove i leader delle due superpotenze hanno incontrato anche il presidente dell’Ungheria, Viktor Orban. Uno scenario che ha posto un membro dell’Unione Europea direttamente nella bocca dell’avversario geopolitico d’eccellenza. Un segnale di scontro ai vertici di Bruxelles, dove quest’ultima – al momento dello scoppio della guerra in Ucraina – aveva nei fatti ‘tradito’ Budapest, tagliando le forniture di gas e petrolio russo. Una politica che ha messo letteralmente in ginocchio il Paese di Orban, che al momento dell’inizio del conflitto dipendeva per oltre l’80 per cento dalle forniture di Mosca
Erdogan si schiera con Hamas
Ebbene, se l’Ungheria ad oggi è per definizione il cigno nero del Vecchio Continente; la Turchia lo è per la Nato. Sono di ieri le dichiarazioni di Erdogan contro Israele in cui il Sultano arriva addirittura ad osannare i membri di Hamas, definiti “liberatori” e non “terroristi”. Ma il leader di Ankara ha proseguito nell’attacco a Tel Aviv, accusandola di compiere crimini contro l’umanità a Gaza. Il presidente turco ha poi annunciato che cancellerà la visita pianificata in Israele.
Una posizione fuori dal coro nello scacchiere occidentale, che però ha già trovato i suoi primi dubbi all’interno dell’Unione Europea. Non è un caso che, pochi giorni fa, centinaia di funzionari Ue inviavano una lettera alla presidente della Commissione, Ursula von Der Leyen, chiedendo un ribaltamento della posizione filo-israeliana assunta dal principale potere comunitario. Il tutto affiancato dalle tensioni con l’Alto Rappresentante, Josep Borrell, che sin dall’inizio dell’invasione ha criticato Israele sulle modalità di risposta all’invasione di Hamas del 7 ottobre.
Gli effetti sul mondo Nato
Insomma, il fronte occidentale appare spaccato. Anzi, la polarizzazione sembra essere ancor più ampia rispetto a quella creatasi dopo l’inizio della guerra in Ucraina. In questo caso, Erdogan assunse una posizione nettamente contraria all’invasione della Russia, ampliando la sorveglianza nel Mar Nero e bloccando i rifornimenti russi. L’ultima notizia di cronaca è arrivata lo scorso agosto, dove le tensioni con Mosca sono sfociate addirittura in alcuni spari russi su un mercantile turco, dopo la fumata nera sull’accordo del grano.
La guerra in Israele ha però riaperto conflitti mai totalmente sopiti tra Turchia e gli altri membri dell’Alleanza Atlantica. Prima con il blocco posto per l’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato, poi con la decisone di Erdogan di impegnarsi in Siria contro l’Ypg (legata al Pkk curdo, in Siria) proprio quando gli Usa decisero di farne un alleato contro l’Isis. Ora, la causa di Tel Aviv divide ancora Ankara e Washington, la quale invece ha promesso un sostegno incondizionato al governo di Bibi Netanyahu.
A ciò, si aggiungono i risultati degli ultimi sondaggi, secondo cui il 72 per cento dei turchi vede negli Stati Uniti “una minaccia”. Un dato schiacciante, che presuppone implicitamente come il dominio Nato (e mondiale) a bandiera americana debba essere ridimensionato. Insomma, il domani di Ankara non è chiaro. Anzi, ad oggi, le spinte anti-occidentali trionfano su quelle filo-atlantiche. E poche ore fa, Erdogan ne ha dato una chiarissima dimostrazione. L’ennesima. Matteo Milanesi, 25 ottobre 2023
Cancellata la visita in Israele. Erdogan difende Hamas: “Non sono terroristi ma liberatori, è Israele che uccide bambini. Netanyahu si è approfittato di noi”. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2023
I militati di Hamas non sono “terroristi” ma dei “liberatori” che combattono per la loro terra. Parole di Recep Tayyip Erdogan che si schiera apertamente nella guerra in corso nella Striscia di Gaza e cancella la sua visita, già pianificata, in Israele. “Avevamo intenzione di andare in Israele, ma l’idea è stata cancellata. Non andremo”, ha dichiarato in un discorso al suo gruppo parlamentare Akp, che un mese fa ha incontrato per la prima volta il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a New York. “Ho stretto la mano a quest’uomo, avevamo buone intenzioni ma lui si è approfittato di noi” ha proseguito il presidente turco, aggiungendo che “i rapporti avrebbero potuto essere diversi ma purtroppo ciò non accadrà più”.
Per il presidente turno “è Israele che si comporta come una organizzazione terroristica” perché “circa la metà di coloro che sono stati uccisi negli attacchi israeliani su Gaza sono bambini, persino questo dato dimostra che l’obiettivo è un’atrocità, per commettere crimini contro l’umanità premeditati”. Parole durissime quelle del leader turco nel corso di un discorso al gruppo parlamentare del suo partito Akp. “Non abbiamo problemi con lo Stato di Israele ma non abbiamo mai approvato le atrocità commesse da Israele e il suo modo di agire, simile a un’organizzazione più che uno Stato” perché “non troverete nessun altro Stato il cui esercito si comporta con tale disumanità”. Nel corso del suo discorso chiama in causa anche l’Occidente: “Si fanno tante riunioni e tutto l’Occidente è d’accordo nel definire Hamas un’organizzazione terroristica. Tuttavia, per le azioni che pone in essere, Israele stesso potrebbe essere un’organizzazione, ma questo non si dice. Il motivo è che l’Occidente si sente in debito verso Israele per quanto avvenuto in passato, ma la Turchia non ha nessun debito“.
Infine Erdogan ha chiesto che venga dichiarato immediatamente un cessate il fuoco a Gaza e che tutte le parti nella guerra tra Israele e Palestina smettano di utilizzare le armi. “Il valico di Rafah (tra Egitto e Gaza) dovrebbe essere tenuto aperto per motivi umanitari”, ha detto Erdogan in un discorso al suo gruppo parlamentare Akp. Il leader turco ha proposto un “meccanismo di garanzia per la risoluzione del problema” dove Ankara vuole essere uno dei Paesi garanti.
Il ruolo di Erdogan
Il sostegno alla causa palestinese e i legami raffreddati con Hamas: Erdogan tra due fuochi. Il presidente turco tiene molto a un suo ruolo di mediazione nel conflitto tra Israele e Hamas: è abilissimo nello sfruttare a suo vantaggio ogni crisi che esplode nel vicinato e cerca di trarne il massimo beneficio per accrescere il suo consenso interno e nella regione.
Le reazioni alle parole del presidente turco
“Hamas sta cercando in tutti i modi possibili di tirare dentro questo scontro, preparato da mesi o anni, tutte le cosiddette piazze arabe. Perché Hamas sa che se rimane da sola non può perseguire il suo obiettivo ideologico di distruggere Israele e cancellarla dalla faccia della Terra. La preoccupazione più grande sono gli ostaggi e l’entrata direttamente di Hezbollah e quindi di Libano e per traino Iran, nel conflitto”. Lo ha detto la leader di +Europa, Emma Bonino, a ‘L’Aria che Tira’ su La7. “E penso – ha aggiunto – che le parole di oggi di Erdogan debbano essere lette come un avvertimento: siamo pronti a entrare, state attenti. E’ un obiettivo ideologico, cioè cancellare Israele dalla faccia della terra. Penso che come ha detto Biden, Israele non debba cadere nella trappola commettendo gli stessi errori di Usa in Afghanistan o Iraq, ma questo pone Israele nella trappola di reagire, ma senza sapere come”, ha concluso Bonino.
Per il vicepremier Matteo Salvini le parole del presidente turco su Hamas “sono gravi e disgustose e non aiutano la de-escalation. Proporrò al collega Tajani di inviare protesta formale e di convocare l’ambasciatore della Turchia”.
(ANSA martedì 24 ottobre 2023) L'attrice arabo-israeliana Maisa Abd Elhadi, nota in Israele per diversi show e serie, è stata arrestata dalla polizia per aver espresso sostegno all'attacco di Hamas del 7 ottobre. Lo rende noto Times of Israele, aggiungendo che la polizia ha confermato l'arresto di "un'attrice e influencer, residente a Nazareth, con il sospetto di espressioni di elogio (del terrorismo) e incitamento all'odio", ma senza nominarla.
Abd Elhadi ha postato sui social l'immagine di una donna anziana presa in ostaggio da Hamas, accompagnata da emoji che ridono, e un'altra in cui si vedono i terroristi che rompono la barriera di sicurezza israeliana con la scritta in inglese 'Let's go, Berlin style'. I suoi post sono stati criticati dal suo co-protagonista in 'Temporarily Dead', Ofer Shechter: "Mi vergono di te. Vivi a Nazareth, fai l'attrice nei nostri show, e poi ci pugnali alle spalle", ha scritto l'attore. Abd Elhadi è apparsa anche nel film di Hollywood 'World War Z' e più recentemente nella serie britannica 'Baghdad Central'.
Usa, sondaggio choc: quanti musulmani giustificano Hamas. Pietro De Leo su Il Tempo il 24 ottobre 2023
C’è un dato da non sottovalutare, nelle riflessioni intorno alla potenziale minaccia proveniente dalle comunità musulmane nei Paesi occidentali. Ed emerge da un sondaggio realizzato negli Stati Uniti dall’istituto Cygnal, che negli scorsi giorni ha posto a un campione di duemila persone (seguaci di diversi culti religiosi) alcune domande circa la crisi mediorientale e la genesi di questa fase acuta, l’attacco di Hamas ad Israele lo scorso 7 ottobre. Ebbene, il 57,5% dei musulmani appartenenti al campione analizzato ritiene che “Hamas era giustificato ad attaccare Israele” nell’ambito della sua “lotta per uno Stato palestinese”.
Un altro aspetto preoccupante emerge sul livello di consapevolezza su quanto accaduto nella mattanza di quasi tre settimane fa. Se il 10,8% degli ebrei appartenenti al campione statistico “non era a conoscenza” delle decapitazioni di bambini praticate da Hamas nel giorno dell’aggressione, la percentuale sale di oltre tre volte, raggiungendo il 34,1%, nel caso dei musulmani. Questi numeri tratteggiano un quadro preoccupante circa le prospettive di consenso che Hamas può radicare all’interno delle comunità musulmane occidentali. Che si basa su quella mistificazione di fondo alimentata dal gruppo terroristico islamico, cioè la lotta per rivendicare la costituzione di uno Stato palestinese. In realtà si tratta di ben altro: distruzione dello stato di Israele e creazione di un effetto-detonatore per il jihadismo in tutto il mondo.
I numeri del sondaggio americano, dunque, rafforzano la necessità che l’Islam moderato fornisca prova della propria esistenza, isolando gli estremisti e contribuendo a riportare il confronto nell’alveo di una convivenza civile. L’appoggio dei musulmani (ovunque essi siano) ai crimini di Hamas, che vuole distruggere Israele, ha una subordinata facilmente individuabile: l’ostilità verso i valori occidentali e il sistema democratico nel suo complesso.
C’è un grosso problema tra Israele e l’Onu. L’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, rincara la dose dopo le parole di ieri del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, del quale ha chiesto le dimissioni, e senza troppi patemi ha fatto sapere che Israele non concederà visti ai funzionari delle Nazioni Unite: «A causa delle sue dichiarazioni negheremo il rilascio di visti ai rappresentanti Onu. Abbiamo già negato il visto al sottosegretario generale per gli Affari umanitari, Martin Griffiths». «È giunto il momento di dare loro una lezione», ha incalzato nelle dichiarazioni alla radio militare israeliana.
Dopo il terribile attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre e le operazioni israeliane nella Striscia di Gaza, controllata dal gruppo terroristico, Guterres ha detto ieri che quella strage è avvenuta dopo che «i palestinesi sono stati sottoposti a 56 anni di soffocante occupazione» e ha poi sottolineato che le rivendicazioni dei palestinesi «non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas, così come questi spaventosi attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese». Le affermazioni di Guterres sono sembrate a Israele quasi una giustificazione degli attacchi di Hamas, con Erdan che ha chiesto le dimissioni di Guterres e il ministro israeliano degli Esteri, Eli Cohen, si è rifiutato di incontrarlo.
Onu, Guterres choc: "L'attacco di Hamas non nasce dal nulla". Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale il 25 ottobre 2023.
Il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, mentre si discute sempre più intensamente del destino degli ostaggi e degli aiuti umanitari, ha dato la sua risposta alla domanda che tutto il mondo si fa: l'esercito di Israele sta per entrare «stivali sul terreno» a Gaza? È pronto a combattere strada a strada, vicolo a vicolo, porta a porta, alla ricerca dei capi di Hamas, fino alla distruzione dell'organizzazione terrorista? Quali sono le intenzioni dell'esercito a fronte della pressione internazionale, al suo caleidoscopio di opinioni di cautela, di pacifismo, a volte di distacco rispetto alla tragedia del 7 ottobre? Su uno sfondo di ragazzi in divisa sul confine, «siamo pronti», ha detto Herzi Halevi con la sua faccia grave e composta. Un annuncio significativo: vuol dire che l'esercito in 17 giorni ha portato a termine una quantità di preparativi logistici e tecnici; il terreno su cui si dovrà marciare è stato esaminato; la speranza di minimizzare le perdite è forte; si ritiene soddisfacente al momento il numero di comandanti di Hamas colpiti con gli aerei; quanto ai rapiti, si pensa di poter agire per la loro liberazione. Una dozzina sono state le eliminazioni, molti edifici, nidi di missili, depositi di armi distrutti. Si potrebbe continuare dall'aria, ma Halevi senza discutere questa possibilità ha detto: «Ora possiamo entrare». L'ordine però è sospeso, si sa solo che il triumvirato Netanyahu-Gallant-Halevi ripete di essere sulla stessa linea, ma mentre c'è la concordia sulla decisione di distruggere Hamas occorre anche la solidarietà internazionale.
Ieri però il ministro degli esteri Eli Cohen, ha dovuto ascoltare una stupefacente relazione del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, che dopo una frettolosa dichiarazione di solidarietà ha perfino giustificato la mostruosità del 7 ottobre dicendo che «non è venuta dal nulla», con una sua versione della storia in cui anche Gaza soffrirebbe di un'occupazione, finita invece nel 2006. Il ministro Eli Cohen ha cancellato un incontro con Guterres, ribadito che quelli per cui Guterres mostra compassione «sono i nuovi nazisti». Benny Gantz ha definito «buio» il tempo in cui si sostiene così il terrorismo. Indignate anche le famiglie dei dispersi e dei rapiti, che definiscono «vergognose» le parole di Guterres, mentre l'ambasciatore israeliano all'Onu, Gilad Erdan, ne ha chiesto le dimissioni. Sulla posizione choc di Guterres è intervenuto anche il portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby, che ha detto chiaro: «La responsabilità del 7 ottobre è di Hamas, solo di Hamas. Non di Israele né dei civili innocenti».
Il segretario di Stato Blinken è intervenuto per sostenere la guerra di Israele, anche se Biden insiste per l'ingresso di medicinali, cibo, acqua, e aiuti in denaro. La confusione fra intervento umanitario e cessate il fuoco è dell'Onu e dell'Ue. Gli Usa, semmai, come ha raccontato il New York Times frenano l'attacco di terra, il Segretario alla Difesa Austin, suggerisce di stare cauti, pena una nuova Falluja: deve esservi chiaro l'esito finale, dice il Nyt. Tuttavia gli americani ripetono che spetta a Israele ogni scelta.
Tortuosa e ambigua è invece la proposta europea di una «tregua umanitaria» che somiglia a un cessate il fuoco: è quella di Josep Borrell, che ha detto che occorre una pausa perché «ora la cosa più importante è che l'aiuto umanitario entri a Gaza». Francia, Spagna, Olanda, Irlanda, Slovenia l'hanno sostenuto, mentre la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha risposto che occorre aiutare, ma «il terrorismo va fermato». Borrell vuole un documento al summit Ue in settimana, ma la consapevolezza degli orrori sta crescendo: da Sunak a Macron, da Scholz a Giorgia Meloni, tutti portano solidarietà, fanno obiezioni umanitarie, danno consigli. Alla fine, le decisioni di Israele saranno solo sue, come ha detto oggi Halevi.
Assist per Hamas. Le parole di Guterres spalancano la strada all’ambiguità di sinistra su Israele. Mario Lavia su L'Inkista il 26 Ottobre 2023
Giuseppe Conte sciacalleggja sulle parole del segretario generale dell’Onu, dando forza alla linea “né né”. Il Pd rischia di farsi coinvolgere per timore di lasciare a scena all’avvocato in cerca di voti
Adesso che c’è anche la copertura dell’Onu al “neneismo”, né con Hamas né con Israele, si spalancano le praterie per chi dopo l’emozione del dopo 7 ottobre è tornato a mettere Israele nel mirino. L’aria è cambiata e Antonio Guterres deve essersene accorto, così è diventato il leader mondiale dell’incertezza dopo aver pronunciato quelle parole (ieri ha cercato di correggerle) che hanno fatto indignare Israele e non sono piaciute agli americani. Parole che sono parse comprensive o comunque tese a evidenziare che il 7 ottobre «non è nato dal nulla». E su questa scia scattano i “pacifisti” che domani tornano nelle piazze in molte città, e anche a Roma – dove nei giorni scorsi sono sfilati piccoli cortei nei quali si sono sentiti slogan allucinanti contro Israele.
Si chiederà, in queste manifestazioni di tutta la galassia arcobaleno (per esempio Amnesty International, Arci, Acli, Cgil) che dovrebbero essere silenziose, un “cessate il fuoco” che più che umanitario sembra voler auspicare un indebolimento politico di Gerusalemme e rilanciare la famosa “questione palestinese” di cui in questa fase drammatica non si afferra bene il senso.
La giornata “guterresiana” sta mettendo in ambasce il Partito democratico che come si sa ha due linee, quella ufficiale – che sinora Elly Schlein ha saputo tenere con nettezza a fianco del Paese barbaramente colpito da Hamas – e quella incline a comprendere le ragioni dei palestinesi pur nella condanna dei tagliagole (e vorremmo pure vedere che non fosse così), ma smarrendo la distinzione tra aggressore e aggredito, come se il massacro del 7 ottobre fosse già ridimensionato nel senso che «non nasce dal nulla»: come se il nazismo dovesse sempre essere spiegato col trattato di Versailles e la crisi di Weimar. O giù di lì.
Da parte sua, come al solito, Giuseppe Conte sciacalleggia trincerandosi dietro la demagogia disarmista e una coerente ma ignominiosa “coerenza” con le ambiguità mostrate sull’Ucraina, così che l’uomo di Foggia riesce ad apparire l’unico politico davvero amico del “pacifismo”, è tutto fieno da mettere in cascina: tra sette mesi si vota, giusto?
Guterres, politico di professione del socialismo iberico piuttosto incline all’antiamericanismo, ha reso più facile la vita ai filo-arabi di tutto il mondo – attivissimi a tutti i livelli – e dunque anche italiani, come dimostra l’avvocato che si è buttato senza esitazione in una manifestazione chiaramente ispirata da sentimenti anti israeliani.
Sentite qua: «Per noi è fondamentale ribadire la condanna di ogni forma di violenza e di terrorismo, ma contestualmente dobbiamo avere il coraggio e la responsabilità di guardare in faccia la realtà per affrontare le cause che hanno determinato questa nuova ondata di odio e di violenza. A tal fine esprimiamo tutta la nostra solidarietà e il nostro sostegno al Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, al centro di attacchi pretestuosi solo per aver richiamato le parti al fondamentale dovere di essere costruttori di Pace», ha sottolineato Sergio Bassoli, di “Rete Pace Disarmo”.
Nella piattaforma poi si fa addirittura riferimento a un precedente documento del 10 ottobre, sempre della stessa “Rete Pace Disarmo”, nel quale si richiamava la formula “due popoli due Stati” «come condizione che porrebbe fine all’occupazione israeliana e alla resistenza armata Palestinese». Toni e contenuti della manifestazione, al momento, sono questi: inaccettabili per chi vuole la fine del terrorismo come premessa per intraprendere un discorso politico nuovo.
Sembra escluso che Elly Schlein e la parte più vicina a Israele vadano in piazza mentre è probabile che sfilino dirigenti “sciolti”, non una delegazione formale. Lo schema della manifestazione del Foglio tre giorni dopo il pogrom. Non si ha il coraggio di opporsi al “pacifismo” né si vuole lasciare la scena all’avvocato in cerca di voti. Ma forse queste furberie sono una toppa peggio del buco.
I prof dell'Onu a Gaza: "Ebrei a morte". Domenico Ferrara il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale. I post dei docenti dell'agenzia Unrwa nella Striscia: "Hamas ci ricompensa delle ingiustizie"
La bufera sul segretario Onu Antonio Guterres non si placa. E la tensione con Israele resta altissima e travalica i confini arrivando anche in Europa. Nel capitolo relativo al Medio Oriente, contenuto nell'ultima bozza del vertice Ue in programma oggi e domani, scompare dal testo il «sostegno all'appello del segretario generale per una pausa umanitaria». Colpo di spugna su Guterres, insomma, meglio evitare ogni riferimento. Anche se il premier spagnolo, Pedro Sánchez, lo difende: «Dà voce della maggioranza che chiede una pausa umanitaria».
Lo stesso segretario ieri è stato artefice del proprio destino rincarando la dose con un messaggio ambiguo. «Le recriminazioni del popolo palestinese non possono giustificare i terribili attacchi di Hamas. Questi orrendi attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese», ha scritto su X Guterres. Prevedibile la reazione furibonda di Tel Aviv. «Viste le sue parole, negheremo il rilascio dei visti ai rappresentanti dell'Onu. È arrivato il tempo di dare loro una lezione», ha tuonato l'ambasciatore israeliano all'Onu, Gilad Erdan. Dalla parte del segretario del Palazzo di Vetro si sono schierati Germania e Spagna, che hanno etichettato come inopportuna la richiesta di dimissioni rivolta dagli israeliani. Ognuno resta però nelle sue ferme posizioni. Guterres ha provato a metterci un'altra pezzo affermando che «è falso sostenere che abbia giustificato gli atti di terrorismo di Hamas, ho detto chiaramente che niente può giustificare l'uccisione, il ferimento e il rapimento civili». Ma l'ambasciatore israeliano all'Onu ha ribadito: «È una vergogna che non si sia scusato o abbia ritirato le sue parole, un segretario generale che non capisce che l'uccisione di innocenti non può essere giustificata non può essere segretario generale». Nessun segno di cedimento dunque.
Intanto ad aggiungere benzina sul fuoco delle Nazioni Unite è un report della Ong Un Watch, che ha il compito di monitorare quello che accade all'interno del Palazzo di Vetro. Un report che racconta come, mentre i terroristi di Hamas uccidevano bambini e civili in Israele nel famigerato attacco del 7 ottobre, molti insegnanti e presidi dell'agenzia Onu che gestisce l'istruzione e i servizi sociali per i palestinesi festeggiavano pubblicamente il massacro ringraziando Allah e i terroristi. Ci sono post sui social in cui invitano regolarmente ad uccidere gli ebrei. Sono docenti facenti parte dell'UNRWA, l'Agenzia Onu per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi e pagati anche dal nostro Paese, che nel 2018 chiese pure di aumentare i fondi a suo sostegno. Sono docenti che creano materiale didattico che glorifica il terrorismo, che incoraggiano il martirio, che demonizzano gli israeliani e che incitano all'antisemitismo. C'è l'insegnante che si felicita dell'uccisione di bambini da parte di Hamas considerandola una «ricompensa delle ingiustizie»; c'è chi difende il massacro di Hamas perché «quello che facciamo è resistere, riconquistare i nostri diritti...»; c'è chi elogia il terrorista Jamal Abu Samhadana definendolo una «leggenda della resistenza»; c'è il consulente scolastico dell'UNRWA che nel giorno del massacro pregò per gli assassini: «O Allah, abbi pietà dei nostri martiri, rendi saldi i nostri mujaheddin, concedi loro la vittoria sui miscredenti».
C'è anche spazio per le ironie della sorte. Amer Yaser Nazmi Sada, uno dei terroristi di Hamas, è stato addestrato alla «lavorazione dei metalli» proprio dall'agenzia dell'Onu. Al paradosso non c'è mai fine.
Metà dei giovani americani non condanna le azioni di Hamas. VALERIA COSTA su Il Domani il 24 ottobre 2023
Un sondaggio di Harvard dice che il 51 per cento degli americani fra 18 e 24 anni pensa che la strage del 7 ottobre sia giustificata Il clima nei campus Usa e la retorica decolonialista
Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “la Stampa” mercoledì 8 novembre 2023.
[…] Nel piazzale al centro del campus di Harvard fra la facoltà di filosofia e la biblioteca, la bacheca dei manifesti è piena di pubblicità per ogni iniziativa: la difesa dell'aborto, un dibattito sulla salute della democrazia e sull'eredità di Li Keqiang, defunto premier cinese. Uno sopra l'altro, ci sono anche i volantini di chi respinge il cessate il fuoco e di chi chiede soldi per i bambini di Gaza. Un QR-code rivela che le donazioni sono ancora lontane dall'obiettivo, ma è solo uno il gruppo coinvolto.
Harvard è stato il primo campus americano a sollevarsi dopo la carneficina del 7 ottobre e le prime bombe israeliane sulla Striscia di Gaza. Altri college l'hanno seguita. Come Columbia University, Stanford, Penn a Philadelphia magari superandola sulla scala delle tensioni. Alla Cornell un ragazzo di 21 anni è stato arrestato per minacce assai circostanziate contro gli ebrei del campus. Venerdì scorso in oltre cento campus ci sono state piccole manifestazioni, classi sospese e sit-in con gli attivisti filopalestinesi sdraiati a terra a simboleggiare la morte dei civili della Striscia.
Oltre 30 gruppi studenteschi di Harvard hanno diffuso una lettera in cui addossavano la responsabilità dell'accaduto «all'occupazione israeliana delle terre dei palestinesi». Il Board dell'università è rimasto tiepido, non ha condannato il gesto e si è limitato, tre settimane dopo l'accaduto, a costituire un gruppo di monitoraggio sui rischi e l'antisemitismo. Così Bill Ackman, ex alumno di Harvard, fondatore della società di investimenti Pershing Square Capital Management, ha reiterato la proposta che devono esserci conseguenze per chi ha firmato l'appello pro-Gaza. Ovvero ostruzione nell'ingresso al mercato del lavoro.
I ragazzi del collettivo pro-Palestina sono circa 200. Condividono un gruppo WhatsApp, «ma quando facciamo eventi la partecipazione aumenta», spiega a La Stampa un portavoce del Comitato di solidarietà palestinese di Harvard. «Siamo consapevoli che il nostro attivismo potrà nuocere alla carriera professionale almeno a breve termine. Eppure – dice il rappresentante – questa è una questione morale per la nostra generazione e siamo convinti che la storia vendicherà coloro che si schierati per i diritti della Palestina così come successe per coloro che protestarono per la guerra in Vietnam nonostante allora fossero impopolari».
[…] Se i dati diffusi della Anti Defamation League (ADL) riferiscono di un aumento del 400% di azioni contro gli ebrei dal 7 ottobre e documentano 110 manifestazioni anti-Israeliane di cui 27 a forti tinte di «sostegno al terrorismo», pure gli episodi di islamofobia sono in crescita: nelle due settimane post 7 ottobre sono stati segnalati 774 casi con un aumento del 182%.
«Abbiamo ricevuto – spiega il portavoce del CPS – insulti, minacce di morte e cose simili. Le nostre foto sono state stampate e incollate su un camion che ha fatto una parata nelle strade del campus etichettandoci come antisemiti, uno dei rabbini di Harvard ci ha definiti animali». Le intimidazioni in questo ultimo mese sono aumentate, ma «minacce ce ne sono sempre state», raccontano alcuni ragazzi che preferiscono non dire il loro nome, il fatto è «che le voci pro-palestinesi sono messe nella lista nera in America e oscurate anche sul Web
Stiamo tornando a una sorta di tradizione Maccartista». Ad Harvard […] confessano di aver paura, gli amici non indossano più la kippah; una giovane araba ha rinunciato al velo per non attirare l'attenzione. […]
«Scisma» nella sinistra Usa su Israele e Hamas: i ricchi donatori (traditi dalle università d'élite) se ne vanno. Federico Rampini su Il Corriere delle Sera il 23 ottobre 2023
Da Soros, Lauder e Bloomberg, la comunità ebraica, ben rappresentata tra i generosi finanziatori delle università americane, si sente tradita dopo aver sostenuto le battaglie delle altre minoranze
L’ultima tragedia del Medio Oriente sta provocando un divorzio tra due componenti storiche della sinistra americana: la comunità Jewish progressista, e l’ala radicale pro-Hamas che domina nei campus universitari oltre che in altre fazioni radicali come il movimento dell’estremismo antirazzista Black Lives Matter.
Una manifestazione di questo scisma coinvolge i grandi donatori, essenziali per il buon funzionamento delle università di élite. Tra i mecenati che finanziano generosamente l’accademia americana, è ben rappresentata la comunità ebrea. Questa, almeno in alcuni suoi esponenti di punta, ora prende le distanze o boicotta apertamente gli atenei che hanno ospitato e avallato manifestazioni pro-Hamas nonché episodi di aperto anti-semitismo.
La spaccatura oppone alcune delle constituency storiche della sinistra democratica Usa. Il caso dei ricchi mecenati è solo un aspetto. Anche nel mondo della cultura e dello spettacolo la spaccatura è evidente, per esempio con le spietate critiche lanciate da un re della satira televisiva come Bill Maher agli studenti privilegiati che tifano per Hamas e non hanno speso una parola di cordoglio per i bambini israeliani uccisi. Il newyorchese Maher incarna un concentrato di constituency della sinistra storica: di padre cattolico irlandese, e madre ebrea ungherese, nel suo album di famiglie confluiscono due comunità che sono dei pilastri dell’elettorato democratico sulla East Coast. Vista la sua verve comica e la sua popolarità, ha avuto particolare risonanza la requisitoria di Maher contro l’ignoranza di studenti le cui famiglie pagano 70.000 dollari l’anno per ricevere una istruzione molto meno “qualificata” di quanto si creda.
Tra i filantropi un caso visibile è quello di Ron Lauder, esponente di una famiglia ebrea illustre, erede della dinastia che fondò la multinazionale dei cosmetici Estée Lauder. La famiglia Lauder si è sempre distinta per il suo mecenatismo: dalle grandi università al mondo dell’arte (a New York ha creato la Neue Galerie e una sua collezione occupa un’intera ala del Metropolitan Museum). Ron Lauder ha annunciato un “riesame” del sostegno finanziario che la multinazionale offre da anni alla University of Pennsylvania. Questo ateneo è uno dei tanti in cui le autorità accademiche hanno tollerato manifestazioni di aperto sostegno al terrorismo, e atti di ostilità verso gli studenti ebrei.
A Harvard, il miliardario israeliano Idan Ofer e il fondatore di Victoria’s Secret Leslie Wesner hanno tagliato i rapporti con l’ateneo, dopo che 34 associazioni studentesche hanno addebitato a Israele il massacro di civili israeliani da parte di Hamas (anche lì, senza incontrare opposizione da parte delle autorità accademiche).
La comunità Jewish negli Stati Uniti annovera alcuni campioni di cause progressiste, tra i più ricchi e i più noti ci sono George Soros e Michael Bloomberg. Soros finanzia movimenti per i diritti umani e le libertà nel mondo intero; negli Stati Uniti ha sostenuto alcune delle frange più radicali, per esempio ha donato alle campagne elettorali di magistrati dell’ultrasinistra, quelli che sistematicamente scagionano e mettono in libertà i colpevoli di reati se appartengono a minoranze di colore. L’ex sindaco di New York Bloomberg nasce repubblicano, ma ha finito per candidarsi come democratico alla nomination per la Casa Bianca; finanzia molte campagne ambientaliste. Ambedue figurano tra i mecenati più generosi per le università. Ora una parte di questa comunità di Jewish-American scopre di essersi coltivata una serpe in seno. L’antisemitismo dilagante nei campus ha colto di sorpresa molti donatori illustri. Come si spiega questo fenomeno? Forse non avevano prestato attenzione a quel che stava accadendo nel corpo docente, nella burocrazia accademica, nei programmi d’insegnamento.
Ecco il sottotitolo di un corso offerto agli studenti di Harvard sul tema “Etnìe, Migrazioni, Diritti”: “Rivolta globale: razza, solidarietà, de-colonizzazione: come ribellarsi contro la supremazia bianca”. Le letture assegnate agli studenti sono un concentrato di quel vetero-marxismo-leninismo dominante nei campus, con punte di terzomondismo anti-occidentale, appelli alla lotta contro l’Occidente e contro il nemico sionista che non sfigurerebbero in un volantino di Hamas. Berkeley, Stanford, Yale e Princeton hanno corsi simili. È obbligatorio in quel mondo descrivere Gaza come una prigione a cielo aperto o un campo di concentramento dove avviene un genocidio ad opera di Israele, ignorando il fatto che dal 2007 l’unica autorità nella Striscia è Hamas.
Un altro dogma nei campus americani identifica Israele con il capitalismo occidentale – feroce, oppressivo, predatorio – mentre Gaza è il simbolo del proletariato marxianamente sfruttato.
La relativa prosperità dello Stato d’Israele viene vista da molti studenti americani come la conseguenza dello sfruttamento abietto dei poveri palestinesi. In realtà lo Stato d’Israele alla sua nascita, e per diversi decenni, fu povero e laburista-socialista. L’esperimento dei kibbuz era l’equivalente delle “comuni”. Il miracolo economico israeliano ha inizio solo negli anni Ottanta con una serie di riforme di mercato, che hanno consentito ai talenti imprenditoriali di manifestarsi. Oggi il reddito pro capite israeliano è il decuplo rispetto agli abitanti di Gaza, ma non per effetto dello sfruttamento di questi ultimi (che vengono impoveriti da Hamas). Dall’inizio del millennio altre riforme fiscali e bancarie hanno favorito il boom del venture capital, fino a creare la nuova metafora d’Israele come “Start-up Nation”.
Già agli albori del millennio Israele annoverava nella sua forza lavoro 140 scienziati ogni diecimila occupati, più degli Stati Uniti e della Germania in proporzione alla popolazione. Il miracolo economico, scientifico e tecnologico di cui Israele è stato protagonista – che non ha nulla a che vedere con la condizione del popolo palestinese – si è avvalso anche di un flusso di talenti in arrivo, per esempio neolaureati, ricercatori e scienziati ebrei in fuga dalla Russia. Questo miracolo ha attirato l’attenzione di alcune classi dirigenti arabe, da Dubai a Riad. Emiratini e sauditi hanno cominciato a vedere Israele non più come un nemico bensì come un modello da emulare. È questa una delle spiegazioni dietro gli accordi di Abramo a cui doveva seguire il riconoscimento d’Israele da parte dell’Arabia saudita.
Nei campus americani, soprattutto delle università di élite, diverse indagini demoscopiche hanno rivelato che la maggioranza degli studenti considera il socialismo un sistema molto superiore al capitalismo. Per non subire i disagi della “dissonanza cognitiva” – che si verifica quando le informazioni dal mondo reale divergono dai nostri preconcetti – questi studenti con l’aiuto dei docenti devono trasformare Israele in un mostro, i cui successi sono esclusivamente il frutto di atrocità. Che questo generi anche rigurgiti di antisemitismo, ha colto impreparati i Bloomberg, Soros, Lauder eccetera.
Non è la prima volta che la comunità ebrea americana si sente “tradita” dai suoi compagni di strada. La componente più progressista dei Jewish-American da tempo ha sostenuto le battaglie degli afroamericani, incluse le frange estremiste come Black Lives Matter.
Per gli ebrei di sinistra, che sono la maggioranza della loro comunità in una metropoli come New York (con leader politici quali il senatore Chuck Schumer) è obbligatorio proteggere le altre minoranze etniche, in memoria di quella che fu alle origini la condizione disagiata e discriminata della prima migrazione ebrea negli Stati Uniti. Questa solidarietà non è stata ricambiata dalla militanza più radicale dei movimenti anti-razzisti, dove è d’obbligo identificarsi con tutte le forme di lotta dei palestinesi, anche le più violente.
I recenti rigurgiti di antisemitismo, comprese alcune aggressioni contro ebrei americani, hanno spesso avuto come protagonisti dei Black. Lo scisma avrà ripercussioni anche sul comportamento elettorale e gli equilibri politici? È presto per dirlo ma ho segnalato la candidatura alle presidenziali come indipendente di Cornel West, intellettuale dell’estrema sinistra Black pro-palestinese che potrebbe sottrarre consensi giovanili al partito democratico.
Estratto dell’articolo di Mariarosa Mancuso per “il Foglio” martedì 24 ottobre 2023.
Il primo è stato Quentin Tarantino, fotografato con i soldati in una base militare nel sud di Israele – lui a volto scoperto, i soldati delle Israel Defence Forces con le facce pixelate (è guerra, non una parata militare). Da un paio d’anni, il regista vive a Tel Aviv con la moglie israeliana Daniella Pick e i loro due figli: “Mi piace il posto, mi piacciono le persone, somiglia a una piccola Los Angeles”. […]
Intanto a Hollywood si discute di antisemitismo. Ma come, non sono tutti ebrei? – così sostiene la propaganda che vuole la gente del cinema pronta a corrompere la sana gioventù americana. Certo che no. Tant’è che la Writers Guild of America (Wga) – l’associazione degli sceneggiatori che ha appena trovato un accordo dopo 150 giorni di sciopero – non si è unita all’associazione dei registi e a quella degli attori per condannare Hamas e l’attacco del 7 ottobre.
Lo scorso venerdì, 75 soci sceneggiatori si sono riuniti per mettere giù una bozza che esprimesse il loro disappunto. Marc Guggenheim, showrummer di “Legends of Tomorrow” (c’era anche Howard Gordon di “Homeland”, format Made in Israel), non nasconde la delusione: “Abbiamo marciato solidali con i colleghi della Wga, e ora loro non sono con noi”. Silenzio. Neanche motivato. Scrive l’Hollywood Reporter che molti soci non hanno voluto rispondere ai giornalisti, come se il massacro richiedesse una più accurata riflessione.
Nessuna riflessione invece quando si è trattato di offrire solidarietà a Black Lives Matters e al #MeToo. Allora gli 11.500 membri erano compattamente schierati a fianco del Bene. Oggi il Simon Wiesenthal Center ha ringraziato i 200 – tra cui Sacha Baron Cohen, Jerry Seinfeld, Matt Weiner – che hanno condannato il silenzio sugli ebrei uccisi e rapiti dai kibbutz.
[…]
Nel suo ultimo film “The Fabelmans”, Steven Spielberg racconta che da piccolo era abituato alla sua casa senza luci e renne per Natale. Sperimenta l’antisemitismo quando va a Los Angeles per studiare cinema, ragazzo prodigio che con il Super8 aveva già fatto un bell’apprendistato. Variety ha da pochi giorni online una sezione intitolata “Antisemitism & Hollywood”, aperta con parole della rabbina Sarah Hronsky – è pur sempre California.
Attori, comici, studiosi (nel 2022, le aggressioni contro gli ebrei negli Stati Uniti sono cresciute del 36 per cento rispetto all’anno prima, e il 20 per cento degli americani coltiva sei o più pregiudizi contro gli ebrei), esponenti della Shoah Foundation, creatori di videogiochi educativi – così non vedremo più Anna Frank con la kefiah, come è successo a Torino in una manifestazione pro Palestina – raccontano le loro esperienze.
Mayim Bialik racconta il suo naso, al centro di uno sketch del “Saturday Night Live”, e poi discute il naso finto di Bradley Cooper per impersonare Leonard Bernstein (gli sta benissimo, e ora leviamo tutte le protesi, anche a Pierfrancesco Favino/Craxi).
Hollywood l’hanno inventata Schmuel Gelbfisz; Lazar Meir; Hirsz Mojzesz Wonsal. Tirava una brutta aria per gli ebrei fuggiti dall’Europa, e i nomi sono diventati Samuel Goldwyn.
Estratto dell’articolo di Anna Lombardi per repubblica.it venerdì 3 novembre 2023
Lo scontro fra pro-Israele e pro-Palestina ad ogni costo, divide ormai anche quella Hollywood che pure, con l’eccezione di pochi conservatori, era invece percepita come una bolla compatta, progressista e antirazzista, sempre più pronta a sposare cause democratiche ed egualitarie dai più importanti palcoscenici globali. […]
L’ultimo caso riguarda la comica newyorchese Amy Schumer, 42 anni, che – con molta pacatezza - da giorni su Instagram pubblica post dove difende l’esistenza dello Stato di Israele e sostiene la richiesta della liberazione di tutti gli ostaggi trattenuti da Hamas.
[…] Una posizione che lo scorso 31 ottobre ha voluto rinforzare postando il video di un comizio di Martin Luther King datato 1967, dove il leader dei diritti civili per gli afroamericani afferma il “diritto ad esistere dello stato di Israele, una delle più grandi democrazie del mondo”. E grida il suo fermo “no ad ogni forma di antisemitismo, ingiusto e diabolico”.
Una posizione che però ieri Bernice King, l’avvocatessa 60enne figlia minore del pastore pacifista, ha voluto chiarire, rispondendo all’attrice con un messaggio diretto, questa volta via X, l’ex Twitter: “Amy. Certamente mio padre era contro l’antisemitismo, come lo sono io. Credeva però anche che il militarismo (insieme al razzismo e alla povertà) fosse uno di tre grandi Mali interconnessi. Sono certa che oggi chiederebbe dunque la fine dei bombardamenti israeliani sui palestinesi, il rilascio degli ostaggi e un maggior lavoro per la vera pace, che include la giustizia per tutti”.
Concludendo il lungo thread con le parole del padre: “MLK ha detto: 'La giustizia nella sua forma migliore è l'amore che corregge tutto ciò che si oppone all'amore'. Ecco, noi oggi abbiamo molto da correggere". Postando pure un diverso video, dove lui parla contro la guerra del Vietnam. "Piango con tutti coloro che sono in lutto", scrive ancora Bernice. "So che non possiamo permetterci di sminuirci e disumanizzarci a vicenda ma dobbiamo impegnarci a liberare l'umanità dai Triplici Mali e dall'oppressione”.
Una risposta forse non compresa da tanti. Visto che la comica è stata comunque travolta dai messaggi negativi, costretta a sua volta a chiarire: “Un paio di cose. Quello che voglio è il ritorno di tutti gli ostaggi, ma anche libertà da Hamas per tutti, palestinesi e israeliani. E salvezza per tutti, ebrei e musulmani. Come voi, voglio solo la pace. Non mi avete mai sentito augurare il male a qualcuno. Dire che sono islamofoba e giustifico un genocidio è follia”.
[…]
Intanto Maha Dakhil, manager di star – fra gli altri Tom Cruise, Madonna e Natalie Portman – affiliate alla potente Creative Artists Agency di Hollywood, è stata attaccata pubblicamente per aver scritto “stiamo imparando chi sostiene davvero i genocidi” a proposito dei bombardamenti su Gaza. Si è poi scusata, annunciando le sue dimissioni. Uno dei suoi eminenti clienti, lo sceneggiatore Aaron Sorkin (The Social Network, Steve Jobs) ha deciso di lasciare comunque l’agenzia: “Maha non è antisemita, ha solo torto” ha detto.
Le divisioni vanno però ben oltre: per dire, attori famosi come Paul Rudd e Ben Stiller, hanno di recente voluto esprimere in una lettera aperta la loro gratitudine al presidente Joe Biden per i suoi sforzi diplomatici. Un altro gruppo più numeroso, fra cui spiccano Ben Affleck, Cate Blanchett, Joaquin Phoenix e America Ferrera, hanno scritto una diversa lettera dove esortano il solito Biden a chiedere il cessate il fuoco immediato: “La metà dei due milioni di residenti di Gaza sono bambini, e più di due terzi sono rifugiati e i loro discendenti costretti a fuggire dalle proprie case”.
Angelina Jolie, sostenitrice di varie cause umanitarie, ha dichiarato che Gaza sta diventando una "fossa comune" e ha accusato i leader mondiali di complicità per non aver agito per imporre un cessate il fuoco: "Questo è il bombardamento deliberato di una popolazione intrappolata che non può fuggire da nessuna parte. Gaza è stata una prigione a cielo aperto per quasi due decenni e sta rapidamente diventando una fossa comune", afferma la attrice in un messaggio su Instagram.
Da video.repubblica.it - Estratti lunedì 6 novembre 2023.
In un video pubblicato su Instagram, John Voight, 84 anni, ha espresso forti critiche nei confronti di sua figlia Angelina. L'attore ha dichiarato: "Sono molto deluso dal fatto che mia figlia, come tanti altri, non abbia alcuna comprensione dell'onore di Dio, delle verità di Dio." Angelina Jolie, ex inviata speciale dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, aveva accusato Israele di bombardare deliberatamente bambini, donne, famiglie e privarli di cibo, medicine e aiuti umanitari in violazione del diritto internazionale. In risposta, John Voight ha manifestato il suo disappunto per il fatto che sua figlia non riconosca l'obiettivo di Hamas di annientare la terra degli ebrei e la necessità di difendersi.
I rapporti tra padre e figlia sono stati complessi nel corso degli anni, con episodi come la sua assenza al matrimonio di Angelina con Brad Pitt nel 2014 e un precedente scambio di opinioni contrastanti su Twitter riguardo al supporto di John Voight a Trump.
"Frasi antisemite". Susan Sarandon cacciata dalla sua agenzia di Hollywood. L’attrice premio Oscar è finita nella bufera per aver paragonato gli israeliani affermato che ora gli ebrei americani "stanno avendo un assaggio di cosa si provi a essere un musulmano in questo Paese". Massimo Balsamo il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.
Tra le principali protagoniste delle manifestazioni pro-Palestina di New York sin dal 7 ottobre, giorno del brutale attacco di Hamas contro Israele, Susan Sarandon è finita nella bufera per alcune affermazioni considerate antisemite. Nel corso di una manifestazione organizzata lo scorso venerdì, l’attrice premio Oscar ha detto che gli israeliani spaventati dopo il già citato massacro del 7 ottobre "stanno avendo un assaggio di cosa si prova a essere musulmani in America". Travolta dalle polemiche, la 77enne è stata cacciata dall'agenzia di star di Hollywood Uta (United Talent Agency). La notizia è stata confermata da Page Six.
Premiata con l’Oscar per "Dead Man Walking" e interprete del film "Thelma & Louise", Susan Sarandon ha anche intonato il coro "dal fiume al mare" con cui i manifestanti invocano l'eliminazione dello Stato di Israele e la creazione di uno Stato palestinese che si estenda, appunto, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Si tratta inoltre di un grido di battaglia utilizzato da Hamas, per questo viene visto da molti come un vero e proprio appello antisemita alla distruzione dello Stato ebraico.
La Sarandon era seguita dall'agenzia da quasi dieci anni. La Uta cura gli interessi di altre star del calibro di Johnny Depp, Harrison Ford, Charlize Theron e registi come i fratelli Coen, M. Night Shyamalan e Wes Anderson. La notizia era nell’aria, considerando la grande attività social dell’interprete statunitense. Sul web, infatti, ha espresso più volte posizioni fortemente critiche nei confronti della guerra condotta da Israele, postando accuse di genocidio, atrocità e crimini di guerra. In più di un’occasione ha sposato le tesi di Roger Waters, sovente accusato di antisemitismo.
Le affermazioni della Sarandon hanno sollevato un putiferio in rete. La giornalista musulmana Asra Nomani ha stigmatizzato senza mezzi termini la posizione dell’attrice, ponendo l’accento sull’alto tenore di vita condotto da lei e dalla sua famiglia di migranti negli States. “Lascia che ti dica cosa significa essere musulmano in America”, ha esordito l’ex cronista del Wall Street Journal, che ha elencato le tante libertà di cui lei e i suoi genitori godono. Ha spiegato come suo padre, professore, sia riuscito a ottenere una cattedra, mentre sua madre ha avuto la possibilità di non indossare il velo e di aprire un'attività a Morgantown, West Virginia: “Per piacere, non diffamare l’America per la vita – e le libertà – che offre ai musulmani”. Per il momento la Sarandon non ha rilasciato dichiarazioni sul licenziamento.
«Questo è terrorismo». L’appello delle star di Hollywood per fermare i crimini umanitari di Hamas. L'Inkista il 25 Ottobre 2023
Gal Gadot, Jerry Seinfeld, Cate Blanchett, Susan Sarandon e altri duemila grandi attori americani hanno inviato una lettera al presidente Joe Biden per «chiedere e facilitare un cessate il fuoco senza indugio, la fine dei bombardamenti su Gaza e il rilascio sicuro degli ostaggi»
Pubblichiamo la lettera aperta pubblicata dall’organizzazione no-profit Creative Community for Peace in cui si esorta la comunità dello spettacolo a condannare le azioni di Hamas e a sostenere Israele, chiedendo inoltre a tutti di astenersi dal condividere informazioni errate sulla guerra e di fare tutto ciò che è in loro potere per sollecitare i terroristi palestinesi a restituire gli ostaggi alle loro famiglie. La lettera è stata firmata da oltre duemila grandi star di Hollywood tra cui Gal Gadot, Jamie Lee Curtis, Michael Douglas, Jerry Seinfeld, Cate Blanchett, Helen Mirren, Debra Messing e Chris Pine.
L’incubo che gli israeliani hanno temuto per decenni è diventato realtà quando i terroristi di Hamas si sono infiltrati nelle città e nei paesi israeliani. Sotto la copertura di migliaia di razzi sparati indiscriminatamente sulle popolazioni civili, Hamas ha ucciso e rapito uomini, donne e bambini innocenti. Hanno rapito e ucciso neonati e anziani. Hanno violentato le donne e mutilato i loro corpi. Hanno fatto sfilare i loro corpi per le strade e sui social media e hanno vigliaccamente attaccato il Supernova Music Festival, portando morte e distruzione in un evento che celebrava l’amicizia e l’amore.
Questo è terrorismo. Questo è il male. Non ci sono giustificazioni o razionalizzazioni per le azioni di Hamas. Sono atti di terrorismo barbaro che devono essere denunciati da tutti. Si tratta di un’organizzazione terroristica i cui leader invocano l’uccisione degli ebrei ovunque.
La CCFP invita i nostri amici e colleghi del mondo dello spettacolo a parlare con forza contro Hamas e a fare tutto ciò che è in loro potere per sollecitare l’organizzazione terroristica a restituire gli ostaggi innocenti alle loro famiglie.
Mentre Israele compie i passi necessari per difendere i propri cittadini nei prossimi giorni e settimane, i social media saranno invasi da una campagna di disinformazione orchestrata dall’Iran. Esortiamo tutti a ricordare le immagini orribili che sono state diffuse da Israele e a non amplificare o cadere nella loro propaganda.
I nostri pensieri sono rivolti a tutti coloro che stanno vivendo livelli insondabili di paura e violenza, e speriamo nel giorno in cui israeliani e palestinesi potranno vivere fianco a fianco in pace
L’elenco dei principali firmatari
Adam & Jackie Sandler
Amy Schumer
Aaron Sorkin
Andy Cohen
Amy Sherman Palladino
Alex Edelman
Aubrey Plaza
Barry Diller
Behati Prinsloo
Bella Thorne
Ben Stiller
Bob Odenkirk
Bobbi Brown
Bradley Cooper
Brett Gelman
Barry Levinson
Billy Crystal
Brad Falchuk
Brian Grazer
Bridget Everett
Brooke Shields
Chris Rock
Constance Wu
Courteney Cox
Chelsea Handler
Chloe Fineman
Chris Jericho
Colleen Camp
David Alan Grier
David Chang
David Geffen
David Gilmore
David Oyelowo
Diane Von Furstenberg
David Schwimmer
Dawn Porter
Dean Cain
Debra Messing
Eli Roth
Emma Seligman
Eric Andre
Ewan McGregor
Elisabeth Shue
Erin Foster
Eugene Levy
Gal Gadot
Gwyneth Paltrow
Gene Stupinski
Gina Gershon
Guy Oseary
Henry Winkler
Holland Taylor
Harvey Keitel
Isla Fisher
Justin Timberlake
Jack Black
James Brolin
Jason Blum
Jason Sudeikis
Jeff Goldblum
Jesse Plemons
Jessica Biel
Jessica Seinfeld
Joey King
John Slattery
Jon Hamm
Jordan Peele
Josh Brolin
Judd Apatow
Judge Judy Sheindlin
Julia Garner
Julianna Margulies
Julie Rudd
Justin Theroux
James Corden
Jason Reitman
Jessica Elbaum
Jimmy Carr
Jonathan Ross
Josh Charles
Juliette Lewis
Karlie Kloss
Katy Perry
Kirsten Dunst
Kristen Schaal
Kristin Chenoweth
Lana Del Rey
Laura Dern
Lea Michele
Liev Schreiber
Madonna
Martin Short
Michelle Williams
Mila Kunis
Mark Foster
Mary Elizabeth Winstead
Matthew Weiner
Michael Rappaport
Molly Shannon
Nicola Peltz
Noa Tishby
Noah Schnapp
Olivia Wilde
Orlando Bloom
Paul & Julie Rudd
Patti LuPone
Richard Jenkins
Rita Ora
Ross Duffer
Regina Spektor
Sacha Baron Cohen
Sam Levinson
Sarah Paulson
Sean Combs
Shira Haas
Sting & Trudie Styler
Sara Foster
Sarah Cooper
Scott Braun
Seth Meyers
Sharon Stone
Taika Waititi
Thomas Kail
Tiffany Haddish
Tyler Perry
Will Ferrell
Zack Snyder
Zoey Deutch
Zosia Mamet
Zoe Saldana
La grottesca apologia del terrore. L’internazionale antioccidentale incolpa noialtri dei crimini di Putin e Hamas. Massimiliano Coccia su L'Inkiesta il 25 Ottobre 2023
Il 27 e 28 ottobre a Roma si incontreranno personaggi di vario genere che confondono le tesi putiniane col marxismo convinti che il vero aggressore non sia il macellaio del Cremlino e il gruppo terrorista palestinese, ma il blocco Stati Uniti-Nato-Ue
Alcune piazze a favore della Palestina di queste settimane si sono tinte di antisemitismo e antisionismo, regalandoci in tutta Europa lo spettacolo disgustoso dell’equiparazione tra ebrei e nazisti, cori che inneggiavano ai terroristi di Hamas e cartelli in cui Anna Frank era avvolta in una kefiah. I protagonisti di questo piccolo teatro degli orrori in Italia hanno nomi noti: Maya Issa, pasionaria portavoce dei palestinesi della città Eterna che si è lanciata in un «fuori i sionisti da Roma», Mohammed Hannoun, leader di Hamas in Italia, Davide Piccardo, direttore editoriale de “La Luce” che discetta su canali più o meno mainstream su quanto sia ingiusto l’Occidente e su quanto il terrorismo sia l’estrema ratio necessaria, coltivando disinformazione sui missili tirati dalla jihad che cadono nei parcheggi degli ospedali.
Il fronte delle ragioni di Hamas ha trovato gli stessi alleati e interlocutori che abbiamo incontrato nel dibattito pubblico italiano in ogni fase dell’aggressione russa all’Ucraina; una saldatura ideale che il 27 e 28 ottobre, a Roma, all’Hotel Universo, troverà il suo compimento all’International Peace Conference, un raduno internazionale dove spiccano le presenze di Carlo Rovelli, dello stesso Mohammed Hannoun, di Diego Fusaro, del deputato libanese di Hezbollah Ali Fayyad, del generale Fabio Mini, di Franco Cardini, della deputata e capogruppo del Movimento 5 stelle in Commissione Antimafia, Stefania Ascari, dell’ex ambasciatore italiano in Cina Alberto Bradanini, dell’ex ambasciatrice Elena Basile, il tutto condito da un mix raggelante di sigle dalle organizzazioni terroriste palestinesi come l’FLP, protagonista di una stagione di attentati negli anni Settanta e Ottanta anche nel nostro Paese, del Fronte Democratico della Liberazione della Palestina che ha rivendicato la presenza della sua ala armata nelle azioni nei kibbutz di Kfar Aza, Be’eri e Kissufim e il Fronte Popolare di lotta per la Palestina che controlla militarmente Gaza Nord tramite le Brigate Palestinesi della Jihad. Insieme a loro putinisti, no Vax, sigle della sinistra insurrezionalista e dell’estremismo nero bosniaco.
Tutti insieme per sostenere come si legge nel documento dell’iniziativa che «il vero aggressore è in realtà il blocco Stati Uniti-Nato-Ue, che ha approfittato del dissolvimento dell’Unione Sovietica per sottomettere economicamente e politicamente tutta l’Europa orientale nella prospettiva di accerchiare e sconfiggere la Russia. L’ultimo passo di questa strategia sarebbe la definitiva annessione dell’Ucraina alla Nato e alla Unione europea quindi un cambio di regime a Mosca».
Tesi note che aggiungono anche la chiamata all’azione per «sventare la terza guerra mondiale (…) costruendo una grande alleanza internazionale per la pace e la fratellanza tra i popoli che metta in movimento le diverse anime che combattono contro il militarismo e l’imperialismo in ogni loro forma». Dopo la chiusura dei lavori tutti si uniranno al corteo di solidarietà «per la Resistenza Palestinese» che partirà da Porta San Paolo il 28 ottobre alle 15:00.
Questa internazionale che confonde e fonde la pace con la lotta armata, le tesi putiniane col marxismo d’antan, la dittatura sanitaria con quella della Nato è nei fatti la rappresentazione plastica di quanto l’apologia del terrore, l’annientamento dell’idea di democrazia liberale siano un riflesso non secondario di un magma che si muove tra l’alta rappresentazione televisiva di fisici, ex ambasciatori e generali e un retroterra di personaggi noti alle intelligence di mezzo mondo ma che nel nostro Paese trovano palchi, piazze e conferenze consci che in fin dei conti ad alcuni tutto è concesso.
L’ha detto Haaretz! La débâcle morale dei giornali italiani sulla strage islamista di Gaza. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 25 Ottobre 2023
I giornalisti democratici si sono parati dietro gli articoli del quotidiano israeliano, ma solo quando ha dato per vera la fake news diffusa da Hamas. Poi quando ha ricostruito per bene i fatti, e ristabilito la verità, allora è tornato a essere un media inattendibile perché dotato di tastiera adunca e di tablet circonciso
Non voglio parlare del New York Times, delle scuse che ha rivolto ai lettori per aver inizialmente fatto informazione imprecisa sul botto dell’altro giorno all’ospedale di Gaza, né del comportamento della stampa italiana mentre si diffondeva l’imprecisione del giornale statunitense e dopo, quando interveniva la precisazione: non voglio parlarne prima di aver parlato di un altro giornale, Haaretz, e del modo con cui la stampa italiana vi si affida abbondantemente quando serve ma non quando, mortacci sua, la dice inconsonante. Dice: ma che c’entra? C’entra.
Haaretz è un buon giornale israeliano, parecchio de sinistra. L’uso che se ne fa da parte del Porcaio Unico Televisivo, così come da parte della stampa che ha tanti amici di colore e altrettanti amici ebrei, è pressoché il seguente: «Premesso che tutte le violenze vanno condannate, si sospetta che il kibbutz inadeguatamente assaltato da Hamas non pagasse l’Imu: l’ha detto anche Haaretz»; «Premesso che ci vogliono due popoli e due Stati e che anche l’Anpi e l’Atac sono d’accordo, resta che Hamas ha comprensibilmente agito in una situazione di eccezionalità e di urgenza: ce sta scritto pur anco su Haaretz»; «Premesso che l’azzioni terroristiche so’ sbajate, resta che Hamas gli ostaggi li tratta benone: lo riconosce perfino Haaretz, caro mio». E via così.
E che ti fa l’altro giorno, Haaretz? Ti picchia giù senza tante storie che un raid israeliano ha fatto centinaia di morti in un ospedale di Gaza. Daje. Roba buona per la stampa democratica fondata sull’antifascismo della repubblica democratica fondata sulla resistenza, secondo cui Israele ha buttato sull’ospedale cinque o sei bombe atomiche che hanno fatto centomila morti perché Haaretz non l’ha detto ma se fosse stato meglio informato l’avrebbe detto.
Ma Haaretz è pur sempre fatto da giornalisti che hanno la tastiera adunca e il tablet circonciso, ed è gioco forza che, messi alle strette, si arrendano alla forza dell’entità sionista. Di modo che dopo, se emerge che forse, magari, per ipotesi, non si trattava di un missile israeliano ma di un razzo dei combattenti per la libertà che doveva fare strage di ebrei in Israele e invece è piombato sull’ospedale, e Haaretz ne dà conto, e ne chiede conto a TeleSgozza e a RadioDachau, ecco che Haaretz diventa platealmente inaffidabile e non è davvero più il caso di citarlo, vedi mai che ti storta il talk sui Protocolli dei Savi di Sion e ti scombina l’editoriale su Netanyahu non come Hitler ma molto peggio di Hitler.
E il New York Times? Ah, giusto, il New York Times. Qui la faccenda, se possibile, è anche più ingarbugliata. Perché quello, il NYT, sulle prime di quella sera del 17 ottobre fa meno, molto meno, e meno peggio, molto meno peggio di certuni: e, ciò nonostante, dopo, si scusa. Immediatamente, infatti, il giornale spiega che il raid aereo e le centinaia di morti rappresentano una vociferazione palestinese («Palestinians say…»), e che le autorità israeliane stano investigando («Israel urges caution as it investigates»): ma siccome la copertura generale della notizia fa troppo affidamento sulla versione di Hamas e dà per certe circostanze invece tutte da accertare (vedi il riferimento ai cinquecento morti), ecco che appunto il giornale trova la forza di scusarsi.
Il lettore interessato (è semplice) potrebbe fare il paragone, a proposito della copertura iniziale della notizia, con un certo numero di giornali italiani del 18 ottobre, ma anche del 19, del 20, del 21… E poi potrebbe dare un’occhiata a come quegli stessi giornali rendevano ieri notizia (ma anche oggi) delle scuse del New York Times: non ci troverebbe nulla, in quei giornali. Erano occupati a trovare su Haaretz lo scoop che gli ebrei sono avari.
Stare dalla parte di terroristi e dittatori che uccidono i bambini nel segno dell'ideologia.
Quando la linea editoriale si nasconde dietro la libertà d'opinione e il pluralismo.
Perché Prado non collabora più con l’Unità: la libertà d’opinione e il pluralismo. Il pluralismo è una merce molto poco apprezzata in questi tempi… Piero Sansonetti su L'Unità il 24 Ottobre 2023
Iuri Maria Prado ha annunciato – con un tweet e con un whatsapp – che non collaborerà più all’Unità. Mi dispiace e lo ringrazio per il contributo che ci ha dato in questi anni. Prado mi ha detto che il motivo della rottura è un articolo di Mario Capanna, uscito sull’edizione di domenica dell’Unità, aspramente critico verso il governo israeliano. Naturalmente Mario Capanna collabora con questo giornale in piena libertà. Come tutti.
Non mi permetterei mai di censurarlo o di chiedergli di cambiare qualcosa nei suoi articoli. Come mai, in questi cinque anni, ho fatto con Prado, che ha potuto scrivere tutto ciò che voleva, senza il minimo condizionamento, e che avrebbe potuto continuare a scrivere quel che voleva in futuro. Ha avuto piena pienissima libertà. Naturalmente non la libertà di scegliere lui gli altri collaboratori del giornale, perché quello è un compito che – dove c’è libertà di stampa – spetta solo al direttore. Che cerca di esercitare questo compito garantendo il pluralismo. (Ma il pluralismo è una merce molto poco apprezzata in questi tempi…) Piero Sansonetti 24 Ottobre 2023
Il delirio di Israele e dell’Occidente. Con i palestinesi di Gaza, Israele “gioca” come il gatto con il topo. Loro non possono fuggire da nessuna parte, mentre si stringe, a proprio piacimento, la morsa di uno degli eserciti più potenti. Mario Capanna su L'Unità il 22 Ottobre 2023
Possano almeno le nostre menti resistere ai deliri. (E. Morin)
Oggi Israele, gli Usa, l’Occidente sono la realtà più odiata al mondo. Imponenti manifestazioni di condanna si susseguono ovunque, da Washington alle città europee, all’Indonesia. La reazione di Israele, dopo la carneficina perpetrata da Hamas, va ben al di là del biblico “occhio per occhio, dente per dente”. È un crimine di Stato contro civili, imprigionati dentro un fazzoletto di terra, e ridotti allo stremo, con i bombardamenti praticamente a tappeto, e dopo il taglio di acqua, cibo, elettricità, medicine. Con i palestinesi di Gaza, Israele “gioca” come il gatto con il topo. Loro non possono fuggire da nessuna parte, mentre si stringe, a proprio piacimento, la morsa di uno degli eserciti più potenti.
La visita di Biden a Netanyahu è stata penosa, e complice. Ha, di fatto, incoraggiato il massacro di palestinesi – non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania – e ha vittoriosamente… ottenuto l’ingresso, attraverso il valico egiziano di Rafah, di ben… 20 camion di generi di prima necessità per gli assediati. Venti camion, per milioni di persone ridotte a pezzi! Esilarante, se la cosa non fosse tragica. In cambio, uno stratosferico finanziamento a Israele. Il padrone è generoso con il suo cane da guardia contro i popoli e gli Stati arabi. La controprova è data dal veto americano, che all’Onu ha bocciato ogni risoluzione per il cessate il fuoco. A Washington, come a Gerusalemme, si vuole il massacro.
Senza uno Stato palestinese, che coesista in pace con quello di Israele, la guerra in Medioriente è destinata a continuare all’infinito. Dare vita allo Stato palestinese, con Gerusalemme Est come capitale, significa, a questo punto, smantellare le centinaia di illegali colonie israeliane nei territori occupati, il che richiede una volontà di ferro, superiore a quella che ebbero Arafat e Rabin negli accordi di Oslo. Questa volontà non esiste, come non c’è stata negli ultimi decenni.
Eppure tutti sappiamo che quella è l’unica strada di giustizia, anche perché la storia, fortunatamente, ha dimostrato che nessuno dei due popoli è in grado di eliminare l’altro, quali che siano le atrocità che vengono perpetrate. Nella tragica miopia della prepotenza occidentale, non si vuole che quella strada sia per davvero aperta. Non lo vuole Biden, non lo vuole il corrotto Netanyahu, non lo vuole l’Europa con i suoi miserabili balbettii a rimorchio degli Usa.
Questo giornale, l’altro giorno, titolava in prima pagina: “Riuscirà Biden a fermare i falchi di Netanyahu?” Domanda retorica: non intende minimamente farlo. Altrimenti imporrebbe un cessate il fuoco immediato. Tutti sanno che, se gli Usa interrompessero di colpo il loro sostegno economico, finanziario, militare ecc., Israele non reggerebbe più di sei mesi. Il problema, dunque, non è il popolo palestinese, nonostante Hamas. E’ il delirio di Israele e dell’Occidente, che ha generato e genera mostri. Mario Capanna 22 Ottobre 2023
Israeliani e palestinesi, giornalismo italiano a senso unico: come sempre la prima vittima della guerra è la verità. Cari colleghi, non lo capite che rappresentate una esigua minoranza? Mario Capanna su L'Unità il 15 Ottobre 2023
La professione del giornalista dovrebbe consistere nel dire alle persone ciò che devono sapere, non ciò che vogliono sapere. (W. Cronkite)
È proprio vero: la prima vittima della guerra è la verità. In questo, per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, l’italico giornalismo è all’avanguardia. Prendiamo, per esempio, i talk show televisivi: ormai sono i giornalisti che intervistano altri giornalisti. Nessuno di loro, al contrario di me, ha mai messo piede a Gaza o in Cisgiordania. Il risultato è uno stucchevole chiacchiericcio, per lo più a favore di Israele.
Ci sono, poi, autentici casi di faziosità. Enrico Mentana, nel Tg della 7, dando notizia del massacro di Hamas nei kibbutz, ha parlato di bambini decapitati, aggiungendo: non mostriamo le immagini perché sono scioccanti. Frase atta a rafforzare l’orrore. In realtà le foto non le aveva, ma la faccia tosta sì. Paolo Mieli ha scritto sul Corriere della Sera contro “cantanti o rettori d’università” (chiara allusione a Tomaso Montanari), che difendono i legittimi diritti dei palestinesi. Il suo “mielitarismo” è indefesso.
Nicola Porro, su Rete 4, è apparso inviperito mostrando immagini di studenti che in una università sventolavano la bandiera palestinese. Sarebbe stramazzato al suolo, immagino, se avesse notato il video della imponente manifestazione pro Palestina, svoltasi a Chicago (Chicago, dico, che notoriamente non è una città araba…). Sono ben due giornaloni a scagliarsi contro l’ex ambasciatrice Elena Basile, rea di mostrare, con argomenti condivisibili o meno che siano, le responsabilità sioniste. Stefano Cappellini, su Repubblica, dopo avere additato al ludibrio “la famigerata (?) ex ambasciatrice”, la bersaglia di nuovo, il 13 ottobre, con un’intera pagina.
Non è da meno Massimo Gramellini che, in prima pagina sul Corriere della Sera, anche lui il 13 ottobre (ma che: i due si sono passati parola?) titola: “Ostaggi di Basile”. E che dire di Massimo Giannini che, in prima pagina su Repubblica, ha scritto: “Siamo tutti israeliani”. Incapace di fare un passo in più e scrivere “siamo tutti israeliani e palestinesi”. Non avete, cari colleghi “embedded” (“incistati” con l’elmetto nell’esercito di occupazione) nemmeno un briciolo della serietà e del coraggio dei giornalisti israeliani. Haaretz, ad esempio, usa parole di fuoco contro il corrotto Netanyahu e l’involuzione autoritaria-fascista del governo di Israele.
Quasi nessuno dei grandi media dà conto delle mille manifestazioni pro Palestina, che si svolgono in Italia e nel mondo. Cari colleghi, non lo capite che rappresentate una esigua minoranza? E che la grande maggioranza delle opinioni pubbliche è d’accordo con me – a difesa dei diritti palestinesi e, dunque, di quelli israeliani – e non con voi? La presidente Meloni proietta la bandiera israeliana su Palazzo Chigi, schierando l’Italia istituzionale con uno dei belligeranti. Bene: insieme a certi italici scribi, corre il rischio – lei, unitamente al governo – di incappare nel reato di tentato omicidio colposo plurimo: per aver fatto quasi morire dal ridere mezzo mondo. Mario Capanna 15 Ottobre 2023
Gli ineffabili Mieli e Galli della Loggia. La conseguenza di tutto questo è che Israele, nella sua presunta onnipotenza, non è mai stato così debole, e diviso al suo interno. Netanyauh è, politicamente, un morto che cammina, e lo Stato ebraico, insieme all’Occidente, non è mai stato così isolato nell’opinione dei popoli. Mario Capanna su L'Unità il 29 Ottobre 2023
Se non avessimo impugnato le armi, a noi palestinesi avrebbero fatto fare la fine degli indiani d’America. (Y. Arafat)
L’articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera del 23 ottobre (“L’Europa e il tabù delle armi”), costituisce una pietra miliare contro tutti noi che consideriamo nostri fratelli sia gli israeliani sia i palestinesi. Il rigore del suo “ragionamento” ci fa tremare le vene e i polsi. In primo luogo presume di assassinarci con una domanda, secondo lui, senza scampo. A chi critica Israele per l’eccesso di vendetta contro Gaza dopo la carneficina del 7 ottobre, chiede perentorio: “Quale avrebbe dovuto essere la risposta giusta” e “quale era l’alternativa per lo Stato ebraico?” Circonfuso di autoincensamento si risponde che “nessuno dei suddetti critici si è mai sentito in dovere di dircelo”.
Evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. La risposta è semplice: dopo l’attacco di Hamas, Israele ha sperimentato, sulla pelle della sua gente, che non potrà mai – mai! – avere sicurezza senza la sicurezza dei palestinesi e, dunque, senza la creazione dello Stato palestinese, realmente autonomo e indipendente. Dice questo l’Onu e lo dice la grande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale. Ovviamente non sarà una passeggiata. Si tratta di ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e di smantellare tutte le colonie illegali. Esattamente ciò che non vogliono né Israele né gli Usa né l’Europa, che si illudono di mantenere sine die in Medioriente la prepotenza del cane da guardia contro i popoli e gli Stati arabi.
Il 7 ottobre è emerso in modo lampante che questa prolungata prevaricazione non può avere futuro, e danneggia gravemente sì i palestinesi, ma pure gli israeliani. Ma Galli della Loggia non si dà per vinto e si scaglia contro l’Europa, non già perché è prona ai diktat di Washington, bensì perché ha “il tabù della guerra”, ovvero “non riesce più a immaginare (…) un ricorso alle armi vero, quello per cui si combatte per la vita o per la morte”. Eh? Magari l’Europa considerasse la guerra come tabù! A parte il fatto che l’Europa la guerra la fa eccome, essendo cobelligerante insieme a Usa e Nato in Ucraina contro la Russia, qui la nostalgia bellicista emerge senza freni.
Il Nostro sembra rimpiangere la Guerra dei cent’anni (1337- 1453), quella dei trent’anni (1618-1643), e forse pure le due guerre mondiali, tutte scaturite dal ventre profondo dell’Europa. Chiaramente per lui il grande Kant, con la sua balzana idea della “pace perpetua”, era un pivello… Ma come si fa…E costui insegna pure all’università (poveri studenti). Rivolgo un appello pressante a Urbano Cairo e Luciano Fontana (padrone e direttore del Corriere): mi raccomando, non licenziate un così raffinato pensatore; come maestro negativo è prezioso, sebbene non… impareggiabile.
E’ infatti seguito a ruota da Paolo Mieli. Il quale, nel suo articolo di fondo sempre sul Corriere della Sera (25 ottobre) si spertica in un peana ultrafiloisrareliano. Fin dal titolo: “Il mondo alla rovescia”, uno squillo di tromba che richiama l’elevato libro del generale Vannacci Il mondo al contrario. Indignandosi contro il segretario dell’Onu Antonio Guterres, scrive che egli “dopo le parole di condanna all’attacco del 7 ottobre che potevano apparire insincere, ha ricondotto la responsabilità dell’accaduto a ‘cinquantasei anni di soffocante occupazione israeliana’. Un’enormità” (corsivi miei). Poi, come per controbilanciare, aggiunge: “Anche se, per eccesso di precipitosità, ha sbagliato il delegato israeliano a chiedere le dimissioni del segretario delle Nazioni Unite”.
Eccolo qui, in tutto il suo fulgore, il principe del cerchiobottismo: una perenne botta al cerchio e una alla botte che, però, non riesce mai a occultare il sapore di aceto del suo vino avariato. Letto l’articolo di Mieli è noto che Guterres si è profuso in una autoflagellante autocritica, e io so per certo che ha pensato persino di dimettersi in modo clamoroso. Non l’ha fatto solo per puntiglio: non arrendersi al “mielitarismo”. Cari Mieli e Galli della Loggia: siete mai stati nella Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele? Io sì, più volte, e parlo per aver toccato con mano la realtà, mentre voi parlate per sentito dire. Mettetevi nei panni di un palestinese, che abbia 15 anni o 40-50: da quando è nato non ha visto altro che violenze assassine – non c’è famiglia che non abbia almeno un morto ammazzato o un arrestato – insediamenti illegali sulla propria terra, rapine di raccolti e di terreni, case fatte saltare in aria per indurre alla fuga, divieto persino di sventolare la propria bandiera ecc.
Tutto questo si chiama apartheid, perché tale è. Voi, invece, strillate: antisemitismo! Eccolo qui l’asino volante con cui si cerca di coprire i misfatti sionisti. “Antisemita”: parola pericolosa. Perché, a ben vedere, è “antisemita” anche Israele, dato che pure i palestinesi sono semiti… Non lo capite dove può portare la vostra cecità? Quello che si sta perpetrando a Gaza è un genocidio di civili, compiuto da chi ha subito l’olocausto . Pensate: i soldati che entrano a Gaza, oltre alle loro armi ultrasofisticate, devono portare pure le maschere antigas…, per proteggersi dalla puzza dei palestinesi sopravvissuti, che non si possono lavare da settimane… per il taglio dell’acqua.
Come sapete, a Gaza non ci sono giornalisti stranieri. Siate coraggiosi: perché non ci andate voi due? Così potreste vedere dal vivo chi sono, realmente, i terroristi. Altra parola da maneggiare con cura. Chiunque si opponga attivamente, in una situazione di oppressione, è definito “terrorista” dall’occupante. Non a caso anche le SS chiamavano “terroristi” i partigiani. E lo Stato occupante, che detiene il record mondiale di violazione delle risoluzioni dell’Onu ed è l’unico al mondo a non avere fissato i propri confini (!), non è il primo – e principale – terrorista? Per ogni israeliano trucidato il 7 ottobre, sono più di dieci i palestinesi massacrati. Peggio della decimazione nazista (e la percentuale è destinata ad aumentare).
La conseguenza di tutto questo è che Israele, nella sua presunta onnipotenza, non è mai stato così debole, e diviso al suo interno. Netanyauh è, politicamente, un morto che cammina, e lo Stato ebraico, insieme all’Occidente, non è mai stato così isolato nell’opinione dei popoli. Infatti: l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato la mozione del gruppo arabo – che chiede “una tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata” a Gaza – con 120 voti a favore, 45 astenuti (fra cui i Paesi dell’Ue, compresa l’Italia!), e 15 contro. A sostegno di Israele e Usa si sono schierate… poderose potenze… come la Micronesia, Tonga, Nauru, Isole Fiji, Vanuatu e Papua Nuova Guinea…
Voi due – e il giornalone su cui scrivete – parlate al vento, a quella minoranza abbiente che non si rassegna alla fine di un mondo: quello unipolare, dove gli Usa erano i padroni del globo. Oggi, pur fra contraddizioni, i popoli tendono al multipolarismo. E il rischio è che l’ex padrone, non rassegnandosi alla perdita di ruolo, trascini il mondo alla guerra (vedi gli attacchi anticinesi), a partire dal Medioriente, oltre l’Ucraina. Valgano le parole di Gramsci: “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Ma i pasdaran della menzogna, i bucanieri delle bugie non riusciranno a soffocare la ricerca di pace e di convivenza fra i popoli. Mario Capanna 29 Ottobre 2023
La bufala dei bambini decapitati e gli indicibili Mentana e Sechi. Quanti sono gli episodi dell’italica “informazione” che occultano la verità su quanto avviene in Palestina, e non solo? La “disinformatia” dei nostri giornalisti aziendali fa apparire i russi dilettanti… Mario Capanna su L'Unità il 12 Novembre 2023
Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini.
Enrico Mentana, all’indomani delle uccisioni di Hamas nei kibbutz, nel Tg della 7 parlò di “bambini decapitati”, aggiungendo: “Non vi mostriamo le immagini perché sono scioccanti”. La frase, in tutta evidenza, era volta a ingigantire l’orrore antipalestinese. Ora: che quello del 7 ottobre sia stato un massacro, e che l’uccisione anche di un solo bambino è una barbarie, è fuori di discussione. Ed è vero che in guerra possono accadere le nefandezze più atroci, ma la “notizia” di “bambini decapitati” appariva pressoché unica.
Il caso volle che Mentana ed io ci incontrassimo, diversi giorni dopo, alla prima del bellissimo film “Io, noi e Gaber” alla Festa del cinema a Roma. Dato che Mentana è una mia vecchia conoscenza (in gioventù presumeva di scavalcarmi a sinistra, essendo anarchico… com’è vindice la storia…), gli domandai delle foto, che erano per me introvabili.
“Te le mostro subito”, rispose, e aprendo il cellulare si mise a schiacciare freneticamente… “Qui non ci sono… mannaggia… vediamo di là”… ecc. Niente. Mi chiese la mia mail, garantendo che me le avrebbe inviate. Da allora c’è stato, fra noi, un intenso carteggio telematico. Accampando scuse e pretesti, il nostro le foto non me l’ha mai mandate. Nell’ultima mail scrive: “Quando sarà necessario mostrerò tutto quello che c’è da mostrare”. Oh!, bella. E “quando sarà necessario”? Alle calende greche, a guerra finita? A memoria scomparsa? Campa cavallo…
La mia convinzione è che quelle foto Mentana non le ha mai avute, per il semplice fatto che non esistono. Se ci fossero, gli israeliani per primi le avrebbero mostrate con dovizia. La stessa giornalista della Cnn, Sara Sidner, che ha diffuso per prima urbi et orbi la bufala dei “bambini decapitati”, si è scusata per l’affermazione, “assunta dall’ufficio del primo ministro israeliano”, e non da lei verificata.
Mentana, dunque, ha diffuso una notizia tendenziosamente antipalestinese e antiaraba, e sarebbe corretto che si scusasse. Naturalmente se, per pura ipotesi, le foto esistessero e “mitraglietta” fosse in grado di dimostrare che le aveva al momento in cui diede la notizia, io sarò ben lieto di scusarmi con Enrico. Il quale fa innumerevoli cose, forse troppe e quindi non bene come dovrebbe. Mario Sechi, quando era direttore dell’agenzia Agi, ebbe con me un rapporto normale: mi intervistava su vari argomenti. Poi deve essere successo qualcosa, giudicate voi.
È accaduto, di recente, che io abbia partecipato alla trasmissione su Rai1 “Il rosso e il nero”, condotta da Vladimir Luxuria e Francesco Storace. Si parlava di Palestina. Il mio intervento, pacato e documentato (come possono testimoniare i radioascoltatori), si svolse fra continue interruzioni e provocazioni di Storace, che è arrivato a dirmi :”Mario, non sapevo che eri diventato il portavoce di Hamas”.
Eh?! Ecco un caso dove le parole sono più veloci del pensiero. Al punto che Luxuria si sentì in dovere di rimbrottare in diretta l’incauto co-conduttore. Non replicai alla bassezza. A trasmissione finita, telefono a Storace, facendo le mie rimostranze e, in seguito a sue parole ingiuriose, gli dico “Fascista di merda”. Per me la cosa era finita lì.
Senonché l’indomani leggo su “Libero” (diretto da Sechi) un corposo articolo di Storace che, in preda a evidente autolesionismo, cercava di ribaltare la frittata con affermazioni false, e il giornale, in un occhiello addirittura in prima pagina, scriveva rivolto a me :”Va in radio e perde la testa”. E poi, nell’articolo del nostro “eroe”: “Capanna, ospite a Radio 1, insulta”.
Allucinante, nel suo piccolo. Anche perché Storace, amando prendersi a schiaffi da solo, rendeva pubblico l’epiteto che gli avevo rivolto in privato. Allora mando una urbana lettera a Sechi, ristabilendo la verità dei fatti. Passano i giorni, niente pubblicazione. Contatto la segretaria del direttore (impossibile parlare con Sechi, sempre in riunione…) per sapere della mia missiva.
Dopo altri giorni di attesa e di solleciti, finalmente la risposta: “Il direttore non è interessato”. Invio allora un’altra lettera, ai sensi della legge sulla stampa. Questa volta pubblicazione prontissima, l’indomani. Senonché appare nella rubrica delle lettere, fra le ultime pagine del foglietto, con una replichina peregrina di Storace. Così facendo, Sechi ha violato lo spirito e la lettera della predetta legge, che all’art. 8 norma la questione con assoluta chiarezza.
Recita: “Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono”. Come si vede, Sechi aveva l’obbligo di pubblicare la mia prima lettera (senza aspettare la seconda di formale rettifica), nella stessa pagina dell’articolo in questione e senza permettere replichette dozzinali. La scorrettezza deontologica balza agli occhi.
E costui è stato, nientemeno, anche portavoce del governo. Una meteora velocissima, durata tre mesi, il tempo fisiologico necessario perché la premier optasse per altri. Immagino direte, cari lettori, che, di fronte al marasma della guerra, si tratta di piccole cose. Sì e no. Perché, spesso, sono le piccole cose a determinare le grandi. E a comprometterle. Quanti sono gli episodi dell’italica “informazione” che occultano la verità su quanto avviene in Palestina, e non solo? La “disinformatia” dei nostri giornalisti aziendali fa apparire i russi dilettanti…
Esempio: se succede un episodio di becero antisemitismo, lo si enfatizza oltre misura. Della serie: non si vede la trave che è nel nostro occhio.
Mi accingo a scrivere una cosa pesante (spesso la verità è pesante). Avendolo già affermato su questo giornale, i lettori sanno qual è la mia posizione: “Considero israeliani e palestinesi miei fratelli, ma quando un fratello opprime l’altro, è dalla parte della vittima che bisogna stare”. Credo, dunque, di avere le credenziali in regola.
Sicché dico: oggi Israele (insieme al padrone americano) è la più indefessa fabbrica di antisemitismo che esista al mondo. Per la sua politica di sanguinosa apartheid contro i palestinesi, che va avanti fin da prima del 1948, quando le organizzazioni terroristiche ebraiche – Irgùn e Haganà – mettevano le bombe nei mercati.
Vedendo la carneficina di Gaza, solo una mente salda può non cadere nell’antisemitismo. Sì che c’è da meravigliarsi per i pochi atti – esecrabili – di antisemitismo, e non per i molti che malauguratamente potrebbero esserci. Senza dimenticare che Israele per primo pratica l’antisemitismo contro i palestinesi, che sono anch’essi semiti.
L’idea di distruggere Hamas tramite il barbaro genocidio di civili è pura e tragica illusione. Rinascerà in forme nuove e più virulente. Per la semplice ragione (piaccia o meno) che si è dimostrata l’organizzazione capace di tenere alta la bandiera palestinese, in presenza della fantasmatica e impotente Anp.
Sicché l’alternativa è netta: o la pace, con i due Stati, o la guerra permanente, con gravi rischi non solo per il Medioriente, ma anche per il mondo. Ecco perché Israele va salvato da se stesso. I proclami dei colleghi italiani “embedded” sono, similmente a quelli dell’Ue, uno sputo nel deserto: non se ne curano nemmeno gli scorpioni.
Fanno danni alla verità, certo, ma oggi l’opinione pubblica (da noi e nel mondo) si informa, e si forma, sui grandi media internazionali: per questo gli ebrei democratici invadono Washington (e vengono arrestati: il padrone non può consentire…), e tutte le capitali del mondo sono percorse da manifestazioni filopalestinesi, Biden corre il rischio di non essere rieletto, e Israele ha raggiunto il livello di isolamento più alto dalla sua fondazione.
Ma tutto questo non resusciterà gli ammazzati del 7 ottobre né quelli del pogrom di Gaza. Speriamo che, almeno, contribuisca a resuscitare la verità. Nutro fiducia che i mercenari delle menzogne non prevarranno. Mario Capanna 12 Novembre 2023
Enrico Mentana durissimo contro Capanna: "Il megafono di Hamas". Libero Quotidiano il 14 novembre 2023
Enrico Mentana non le manda a dire. Destinatario L'Unità. Nell'editoriale a firma di Marco Capanna, il quotidiano attacca: "I bambini decapitati da Hamas? Sono bufale". Parole che non passano inosservate al direttore del TgLa7, che sbotta sui social arrivando a definirlo il "megafono di Hamas". Da una parte, infatti, c'è il giornale diretto da Piero Sansonetti che prosegue la battaglia per il cessate il fuoco generale, dall'altra la posizione di Mentana che condanna senza se e senza ma quanto fatto per mano del gruppo terroristico il 7 ottobre ai danni di Israele.
Ma Mentana non è l'unico giornalista a essere preso di mira da Capanna. Con lui anche Mario Sechi, direttore responsabile di Libero. "Enrico Mentana – scrive Capanna – all’indomani delle uccisioni di Hamas nei kibbutz, nel Tg della 7 parlò di ‘bambini decapitati’, aggiungendo ‘ Non vi mostriamo le immagini perché sono scioccanti’. La frase, in tutta evidenza, era volta a ingigantire l’orrore antipalestinese". E ancora: "La mia convinzione è che quelle foto Mentana non le ha mai avute, per il semplice fatto che non esistono. Mentana, dunque – questa la conclusione di Capanna - ha diffuso una notizia tendenziosamente antipalestinese e antiaraba, e sarebbe corretto che si scusasse".
E a stretto giro, ecco arrivare la replica del diretto interessato: "La storia purtroppo si ripete in farsa anche al cospetto degli eventi più tragici. Così oggi tocca vedere un giornale omonimo di quello fondato da Antonio Gramsci, che fu l’organo del Partito Comunista italiano, trasformarsi nel megafono ufficiale dei negazionisti del pogrom di Hamas". Il motivo? "Una consonanza di sensibilità tra gli aguzzini di quella mattanza e l’autore dell’editoriale".
Stasera Italia, Battista e Sansonetti si insultano. Cosa dicono in tv. Il Tempo il 29 ottobre 2023
Nel corso della puntata di Stasera Italia in onda il 29 ottobre su Rete4 si è parlato anche delle proteste di piazza in favore della Palestina. Ospiti della trasmissione condotta da Augusto Minzolini erano anche Pietro Sansonetti e Pierluigi Battista che se le sono date di santa ragione. Il primo a prendere la parola è stato Pierluigi Battista che voleva fare una distinzione tra chi difende la Palestina e chi, invece, scende in piazza per difendere Hamas. "Queste sono piazze pro-Palestina e non pro-Hamas - ha detto Battista - In tutta questa vicenda non c'entra niente la questione palestinese".
A quel punto, però, è insorto Pietro Sansonetti che ha interrotto il collega per contestarne la posizione. "Allora per te sono tutti pagliacci - l'ha incalzato Pietro Sansonetti - anche il Papa che dice di mobilitarsi per la Palestina". Gli animi si surriscaldano e gli interlocutori perdono le staffe. "Non fare il pagliaccio". E Sansonetti replica subito: "Il pagliaccio sei te. Ma vai a quel paese". Poi Pierluigi Battista prova a completare il suo pensiero: "Basta che non mi interrompe quel pagliaccio - conclude - Nelle manifestazioni che si sono viste in Turchia c'è stato anche l'assalto a due sinagoghe. Cosa c'entra l'assalto alle sinagoghe con la questione palestinese?.
Lettera a Sansonetti. Su Israele non è questione di libertà d’opinione, ma di giornali che non dicono la verità. Iuri Maria Prado su L'Inkista il 26 Ottobre 2023
Iuri Maria Prado ha scritto al direttore dell’Unità per spiegare perché non se la sente più di scrivere per il suo quotidiano
Caro Piero Sansonetti,
L’altro giorno ti ho inviato una lettera. Siccome hai ritenuto di non pubblicarla, te la invio nuovamente da qui.
Ho letto ciò che hai scritto a proposito della mia collaborazione con l’Unità e a proposito dei presunti motivi che mi avrebbero indotto a comunicare prima a te, e poi pubblicamente, che non riuscivo a proseguirla.
Ho sentito di non poter più scrivere per l’Unità – che ringrazio molto, moltissimo, come ringrazio te, moltissimo, per avermi fatto scrivere ciò che volevo – per motivi ben diversi rispetto a quelli che hai riferito: e tu hai riferito – in un articolino intitolato “Prado, Capanna, e la libertà d’opinione” – che io avrei provato disappunto per un pezzo “critico” con Israele, e che avrei la pretesa di “scegliere” i collaboratori.
Ora, con Israele sono stato duramente critico anche io, come sai, proprio su l’Unità: ma se pure non fosse stato così non mi sarei permesso di pronunciare nemmeno una sillaba sulle critiche che altri avesse mosso a Israele (e diciamo che qualche volta è capitato di leggere qualche critica a Israele, su l’Unità). Quanto poi alla mia ambizione di mettere becco nella scelta delle collaborazioni, diciamo invece questo: che sono scemo, d’accordo, ma fino a questo punto proprio no.
Ho sentito di non poter più scrivere sul giornale che dirigi perché il giornale che dirigi ha pubblicato notizie false o non verificate, reiteratamente, senza riconoscere di averlo fatto e anzi insistendo nell’accreditare le notizie non verificate e censurando le altre, ogni giorno più gravemente: il tutto, in relazione a fatti che, comprenderai, hanno una portata così epocale, così densa di tragedia, così implicante, da rendere a mio giudizio necessaria non già l’opinione uniformata, per carità, ma il rispetto minimo ed elementare della verità.
Il giorno successivo al pogrom del 7 ottobre, l’Unità esce con il pogrom affogato in divagazioni sulla terribilità della guerra. E va bene: è un’impostazione a mio parere discutibile, ma finisce lì. Né mai io mi sono sognato di dirne nulla, né avrei avuto alcun titolo per farlo.
Si salta al 10 ottobre (il 9, lunedì, l’Unità non esce), e l’Unità spara in prima pagina che “l’antiterrorismo”, cioè la reazione israeliana, è praticamente uguale al terrorismo (cioè quello del pogrom del 7 ottobre, su cui non era necessario indugiare troppo). E va bene un’altra volta: è un’opinione, perfettamente legittima. È perfettamente legittimo, cioè, ritenere e scrivere che la distruzione di una base terroristica in un’azione militare che fa vittime civili – non volute, sia pur messe nel conto – sia la stessa cosa che scannare i bambini ebrei nelle culle, violentare le ragazze ebree prima di assassinarle, o giocare a hockey con la testa di un ebreo con un palo di ferro infilato negli occhi, la banderilla della libertà del popolo oppresso che perlustra il cervello del padre fucilato davanti ai suoi figli, poi bruciati vivi.
Va benissimo anche questo (si fa per dire): sono opinioni, che i tuoi lettori possono condividere oppure no.
Proseguiamo. Nel frattempo, dalla memoria dei lettori de l’Unità inopinatamente veniva il ricordo del pogrom del 7 ottobre, salvo che per gli articoli di un collaboratore (sono io) cui tu, con grande tuo coraggio e mia infinita riconoscenza, consentivi di scriverne, per quanto in collocazione diversa rispetto a quella eminente che concedevi a quel collaboratore se trattava di altri argomenti. Ancora benissimo.
Ma poi arriva il botto all’ospedale di Gaza, e l’Unità esce con questo titolo: “Israele rade al suolo un ospedale: centinaia di morti”. Il titolo guarnisce una fotografia di non si sa che cosa (edifici distrutti, scena diurna). Il fatto, come tutti sanno, era della sera prima, poco dopo le 19.30 (buio pesto). Le agenzie del terrorismo denunciavano, a pochi minuti dall’esplosione, opportunamente ripresa da una telecamera casualmente nei pressi, che si era trattato di un raid aereo israeliano e che c’erano cinquecento morti (contati uno per uno nel giro di circa quattro minuti e mezzo, evidentemente).
Quel titolo era confezionato a sua volta in quello stretto minutaggio, ma non ripeteva, come invece tu mi dicevi, quelli di “tutti” gli altri giornali del mondo, giacché molti (New York Times, Le Monde, Financial Times, Washington Post, Welt, Jerusalem Post, solo per prenderne alcuni) si occupavano bensì della notizia: ma presentandola ben diversamente, e cioè sottolineando che erano le fonti palestinesi, anzi proprio Hamas, a dire che si era trattato di un missile israeliano e che c’erano cinquecento morti. Né poi aveva senso giustificare quel titolo – come tu hai fatto rispondendo al commento di un lettore, Yasha Reibman – richiamando il post su X (già Twitter) con cui «un portavoce dell’esercito israeliano» diceva che era stato Israele a lanciare il missile: se non per altro, perché non era per nulla un portavoce dell’esercito israeliano ma un semplice influencer.
Nel maturare degli eventi, e mentre la “notizia” del raid israeliano e dei certificatissimi cinquecento morti causava l’assalto alle ambasciate e ai consolati israeliani e un certo numero di attentati antioccidentali e antisemiti, si insinuava la propaganda dell’entità sionista secondo cui si sarebbe invece trattato di un ordigno palestinese che, per intenzione di chi lo ha lanciato o per malfunzionamento, era piombato sull’ospedale. Naturalmente questa maliziosa rappresentazione, diversamente rispetto a quella di “Radio Hamas”, non era abbastanza affidabile per essere considerata da l’Unità.
Il giorno dopo, e cioè il 19 ottobre, l’Unità esce con quest’altro titolo: “Israele o Hamas: chi ha tirato il missile? Di sicuro c’è solo che sono morti 500 palestinesi”. Dunque tu il giorno prima scrivi che “Israele rade al suolo un ospedale” e il giorno dopo ti siedi su quel titolo, senza riconoscerne la colpevole avventatezza e dicendo che non si sa chi ha tirato il missile. E perché, il giorno prima si sapeva? Lo sapeva l’Unità, evidentemente. E pace se il giorno dopo l’Unità viene a sapere, ma non lo scrive, che il giorno prima non si sapeva manco per niente. Pace se «di sicuro» non ci sono nemmeno quei cinquecento morti. Pace se associare il titolo sul missile che non si sa di chi sia all’intervista al generale che dice che è sicuramente di Israele rivela – come dire? – un certo orientamento pregiudiziale. Tu pensa che perfino il New York Times si è scusato per essere stato frettoloso e inadeguato: il New York Times – attenzione – che si è reso responsabile di ben più tenue frettolosità e inadeguatezza, visto che nel dare la notizia e nel titolarla già sottolineava, subito, che il raid israeliano e le centinaia di morti non stavano nella realtà accertata, ma nella tesi dei palestinesi («Palestinians say…»).
È finita? Non è finita. Mentre montano le notizie e gli indizi, se non le prove, che non si trattava di un raid israeliano né di cinquecento morti, l’Unità continua a scrivere che «non si sa» (ma come non si sa? Non aveva scritto che Israele aveva raso al suolo l’ospedale?), aggiungendo tuttavia che credere agli israeliani è quanto meno azzardato: soprattutto alla luce di una dichiarazione proveniente da fonte non trascurabile (Hezbollah…), secondo cui l’ospedale sarebbe stato distrutto da una bomba termobarica, il che spiega perché non c’è un grande cratere. La bomba termobarica! La bomba termobarica di Israele! Perché lo dice Hezbollah!
Basta? No che non basta. Perché il 21 ottobre l’Unità titola così: “Israele attacca chiesa ortodossa: è carneficina”. Che è a metà tra un altro falso bello e buono e una sonora contraffazione: perché è vero che c’è stata una carneficina, ma Israele non ha attaccato quella chiesa (integra, by the way). Ha bombardato un sito lì vicino: sbagliando gravemente, a mio giudizio, e appunto facendo colpevolmente tante vittime innocenti. Ma ritengo che si possa – anzi si debba – condannare un bombardamento, pur senza appello, senza tuttavia attribuirlo alla deliberazione israeliana, inventata di sana pianta, di incenerire una chiesa.
E sai perché, Piero? Perché se Israele bombarda deliberatamente le chiese (cosa non vera) poi c’è qualcuno che attacca le sinagoghe, cosa che succede senza che la notizia sia meritevole di prima pagina e neppure di trafiletto. Se Israele è uno Stato terrorista, poi c’è caso che nella tua città, Roma, a pochi passi e a pochi giorni dall’insopportabile retorica sul rastrellamento nel Ghetto, una graziosa fanciulla, tra ali di “pacifisti” che chiedono l’apertura di Gaza per uccidere gli ebrei, strilli «Fuori i sionisti da Roma»: ancora una volta senza che la notizia meriti neppure un francobollo di attenzione.
Questi sono i motivi per cui, con un dispiacere enorme, ho sentito e ti ho comunicato di non riuscire più a scrivere per l’Unità. Un articolo, di Capanna o di chiunque altro, che definisce Israele «il cane da guardia» che gli americani usano «contro i popoli e gli Stati arabi» non mi fa né caldo né freddo e non c’entra proprio nulla. C’entra il fatto che la somma di pubblicazioni inveritiere de l’Unità, che ho messo in parziale rassegna (proprio parziale, ti assicuro), e quegli espedienti di sistematica sfigurazione della realtà, non hanno niente a che fare con le “opinioni” e rappresentano un pericolo: producono danno e, certo oltre l’intenzione, anzi contro l’intenzione, producono violenza. Producono morte. Producono morti.
Infine, e per intendersi (faccio un esempio eccessivo, appunto per capirsi bene): mi va benissimo, si fa sempre per dire, l’opinione secondo cui era giusto sterminare gli ebrei; non mi va bene la propaganda neonazista secondo cui la Shoah è un’invenzione degli ebrei. Ti ringrazio per l’attenzione, se vorrai averne, e in ogni caso ti saluto con stima e amicizia. Iuri Maria Prado
Ci sarebbe tanto da dire. L’ipocrisia di chi giustifica l’odio per gli ebrei e l’occasione persa per criticare gli errori di Israele. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Novembre 2023
È vero che il governo di Netanyahu ha le sue colpe, ma quella verità è coperta dalle menzogne di chi vede dei paragoni improbabili con il Terzo Reich e arriva a legittimare il pogrom del 7 ottobre
C’erano tante cose vere da dire sul conto delle scelte israeliane prima e dopo il pogrom del 7 ottobre: ora quelle cose vere sono tutte coperte dalle cose false dette su quel conto, la somma di errori anche gravissimi commessi da una democrazia trasfigurata e rubricata in un puro elenco di nefandezze criminali.
C’era molta verità da dire sulle iniziative di governo che hanno affaticato la democrazia israeliana, producendo in quel Paese una grave, per quanto vigilata, situazione di disorientamento civile e slabbramento sociale: ora quella verità è completamente coperta dalla coltre di menzogne sulla genuinità nazista di Israele e sulla indiscutibile portata usurpatrice dell’impronta ebraica su quelle terre.
C’era molta materia di indagine e critica sulle corresponsabilità israeliane, anche per calcolo di potere di alcuni, nel lasciare in ebollizione incontrollata, giusto a un passo dai propri confini e anche dentro, una situazione di pericolo evidente a molti: ora tutta quella materia di possibile e anzi dovuto scrutinio è rimossa dalle oscenità che non tra le povere macerie di un campo profughi, ma dalle redazioni democratiche e dalle manifestazioni imbandierate di pace sono propalate a spiegare che lo sgozzamento dei bambini è la risposta eccezionale a una situazione eccezionale.
E ora ci sarebbe tanto, tantissimo da dire sui bombardamenti a Gaza, tanto da dire sulla tragedia immane e certamente ingiusta dei tanti che ne subiscono le orribili conseguenze: ma tutto quel che è doveroso e giusto dirne, a cominciare dalla scelta sbagliata, e contestata innanzitutto in Israele, di reagire proprio così al pogrom del 7 ottobre, è drammaticamente cacciato nella divagazione, nel fuorviante, nella blasfemia della presunta completezza di quadro se l’informazione è confezionata in omaggio al “pluralismo” che mette in prima pagina le verità dell’Ordine dei giornalisti di Settembre nero.
Ci si pensi bene. Con ben altre implicazioni – perché qui assistiamo a uno scempio significativamente diverso – è lo stesso procedimento per il quale la strage di Bucha era doverosamente commentata con il rinvio alle inadeguatezze democratiche del governo ucraino che chiudeva i giornali o scioglieva i partiti politici. Ed erano gli stessi, a fare questo bel lavoro comparativo, gli stessi che oggi allargano le braccia se la resistenza del popolo oppresso è “costretta” a cacare nella bocca del cadavere ebreo massacrato davanti alla sua famiglia “inevitabilmente” bruciata viva. Gli stessi che ancora allargano le braccia se per la notizia delle pietre d’inciampo bruciate e per le sinagoghe assaltate e per i bambini con la kippah bastonati proprio non c’è spazio, proprio no, perché bisogna intervistare l’ebreo («Vedi? Lo dicono anche gli ebrei!») che dice che Israele non è uguale al Terzo Reich ma un po’ peggio.
La caccia agli ebrei. I crimini di Hamas e i protocolli dei savi del mai più. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2023
Il no collettivo al genocidio e alle persecuzioni del passato è stato svuotato del suo significato e della sua forza. Eppure abbiamo assistito a episodi di violenza e di intolleranza che avrebbero dovuto scuotere queste persone dal loro torpore emotivo
Che cosa ha impedito non ai farabutti, non ai mistificatori, non ai complici e ai sadici che contestualizzavano e a volte persino negavano la verità del pogrom del 7 ottobre, ma a tante persone in perfetta buona fede, a tante persone perbene, a tante persone che pure erano ben disposte a guardare in modo candido quel che era successo, che cosa ha impedito a quest’altra buona gente di vedere ciò che stava succedendo?
Che cosa ha impedito di capire, a quelle persone benintenzionate a capire, che il «Mai più» risuonato per decenni nelle retoriche repubblicane delle Giornate della memoria, nelle celebrazioni del 25 aprile, negli affidamenti teatrali alla Costituzione fondata sulla lotta al nazifascismo, nella convegnistica sulla lotta partigiana e nell’Italia seminariale delle leggi contro l’odio, che cosa ha impedito loro di capire che quel «Mai più» era stato revocato e vilipeso non dall’azione di quei macellai ma dalla evidentissima, plateale, significativa sottovalutazione, altrove, di ciò che altrove stava succedendo immediatamente dopo quel che è successo là, e anzi ancora mentre là succedeva ciò che guardavamo?
Che cosa ha impedito a tutti loro di capire ciò che quel macello prometteva non già solo per ciò che era, non già solo per ciò che autonomamente squadernava in faccia al mondo, ma ciò che prometteva per come diffusamente e oscenamente ridondava nelle discussioni che senza suscitare scandalo, senza determinare immediata e intransigente ribellione, prendevano a indugiare sulle cause, sulla pregressa rispettività delle colpe, sulla inevitabilità del giudizio storico mentre si discuteva del discrimine fondamentale tra sgozzamento e decapitazione?
Che cosa ha impedito a quelle ottime persone, a quelle persone in genuino atteggiamento di volenterosa equanimità, di capire che ciò che montava nelle piazze delle rivendicazioni dei diritti degli oppressi non era protesta contro il presunto oppressore, ma orgasmo per la punizione che gli era stata inflitta?
L’impedimento era questo: la convinzione, ma direi meglio la sensazione, che quel «Mai più» potesse considerarsi rispettato giusto perché ancora non era stato tragicamente infranto, mentre si trattava di farne manutenzione sapendo, non dimenticando mai, mai e poi mai, che ulteriormente avrebbe potuto essere infranto.
Non c’era nessun dubbio, nessuno, che in modo radicalmente convinto le brave persone avessero mandato a memoria quel «Mai più» sulla constatazione, persino sull’acquisizione morale dello scempio che fu: ma era un errore di prospettiva, e quella loro repulsione si misurava appunto sull’orrore che fu e si scioglieva nella verifica che esso non era reiterato.
Un errore di prospettiva perché a confezionare e, soprattutto, a rendere temprato quello slogan non doveva essere la riprovazione del passato, come invece era, ma la razionale, spaventata e fattiva prospettazione, che invece non c’era, di un futuro in cui quel passato avrebbe potuto riproporsi. Erano voltate indietro, le brave persone che dicevano «Mai più» verso quel passato: e per questo non vedevano il futuro uguale che veniva loro incontro. Per questo non capivano le promesse che il presente stava facendo.
Per questo non capivano che non erano iperboliche bizzarrie quelle che immediatamente segnalavano la temperie – percepibile subito, percepibile immediatamente, percepibile a pogrom ancora in corso – che avrebbe fatto tracciare le stelle sulle case degli ebrei e che sarebbe fiorita in bocca alla stronza che strillava «Fuori i sionisti da Roma», vale a dire le minuzie sottovalutate, incasellate nell’episodicità di una fisiologia deplorevole ma niente più, e che a loro volta preparavano e promettevano gli assalti alle sinagoghe, le adunate filo-sgozzatori e la caccia agli ebrei negli aeroporti e negli alberghi, gli altri pogrom incompiuti solo per caso, non per resipiscenza degli attentatori né per l’esistenza di presidi protettivi, che finalmente inducevano le brave persone a dire: «Oddio, non avevo capito».
I farabutti. Sarebbe bello se i palestinesi non fossero sostenuti da chi non vede l’ora di attaccare gli ebrei. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2023
Si possono criticare la politica e le operazioni militari di Israele, si può stare “dalla parte” dei civili. Ma queste posizioni sono spesso accompagnate da un odio profondo e razzista verso Israele e i suoi abitanti
Sarebbe bello leggere del diritto dei palestinesi ad avere un loro Paese, ma governato dalle regole di un sistema democratico. Sarebbe bello leggere del diritto dei palestinesi di vivere in una società libera dall’oppressione, ma in cui le donne hanno i diritti dei maschi.
Sarebbe bello leggere delle sofferenze inflitte ai palestinesi da Israele, ma in requisitorie capaci di non accantonare le sofferenze inflitte ai palestinesi dalle loro stesse dirigenze.
Sarebbe bello leggere dei crimini commessi da coloni israeliani (non “dai”: “da”) nei confronti dei palestinesi, ma in denunce non scritte a giustificazione della “resistenza” che si affaccia da un balcone di Ramallah ostentando le mani piene di sangue che hanno appena investigato nelle budella di un israeliano sventrato.
Sarebbe bello leggere dei presunti, ma diciamo pure effettivi, diritti dimidiati degli arabo-israeliani, ma in un’accusa che non accantoni la fine dell’omosessuale palestinese decapitato, perché omosessuale, dal coltellaccio palestinese.
Sarebbe bello leggere spietate analisi dell’oltranzismo, perfino del razzismo, e della corruzione, e della propensione guerrafondaia di certi figuri ministeriali israeliani, ma in un’incolpazione non rivolta, come invece è rivolta, ad assolvere il macellaio che stringe al ventre di un bambino la cintura esplosiva, e poi schiaccia il pulsante dalla camera di albergo che costa dieci anni di salario del palestinese medio.
Sarebbe bello scorrere le pagine che illustrano la vita tragica dei bambini palestinesi, e la loro morte a causa della bomba israeliana, se quella scrittura contenesse una parentesi sul maestro che impartisce a quei bambini le istruzioni su come ammazzare gli ebrei, e su come cresceranno e moriranno in gloria di dio uccidendone quanti più è possibile.
Sarebbe bello se la causa palestinese fosse sostenuta da chi augura ai palestinesi un destino diverso dalla nobilitazione, in prospettiva paradisiaca, del combattente che apre la bocca del cadavere dell’ebreo massacrato e ci caca dentro.
Sarebbe bello se i palestinesi non avessero quelli che per “aiutarli”, quelli che per stare “dalla loro parte”, organizzano le prime pagine e le manifestazioni per farla finita con la “questione ebraica”, prime pagine e manifestazioni travestite – e neanche troppo bene – da “critica a Israele”. Sarebbe bello se i palestinesi avessero degli amici, anziché certi maledetti farabutti.
«Hai ragione». Manuale di conversazione per scoprire gli antisemiti democratici. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Ottobre 2023
Prima o poi ti capiterà di chiacchierare con qualcuno che non ha problemi a incolpare Israele di tutti i mali del mondo, senza mai citare Hamas. Dopo averlo fatto sfogare, chiedi cosa bisogna fare ai terroristi palestinesi che hanno sgozzato i bambini ebrei o li hanno massacrati a colpi di zappa nelle culle. Vedrai come ti risponderanno
Prendi il pacifista e ci chiacchieri e, qualunque cosa dica (imprevedibili puoi star tranquillo che non ce ne sono), tu gli dici che ha perfettamente ragione.
– Israele occupa i Territori!
– Hai ragione.
– I coloni cacciano i palestinesi dalla loro terra!
– È vero, hai ragione.
– Al governo di Israele ci sono i fascisti!
– Hai ragione, è vero.
– Israele è il cane da guardia che gli Stati Uniti usano contro i popoli arabi!
– Vero. Hai ragione.
Quando ha finito di ruttare, con calma, gli dici:
– Guarda, hai ragione su tutto, ciò che dici è tutto vero, ma volevo domandarti questo: a quelli che hanno sgozzato i bambini ebrei o li hanno massacrati a colpi di zappa nelle culle, che cosa bisogna fargli?
– Ma Israele occupa i Territori!
– Ma sì, certo, te l’ho detto che hai ragione: ma a quelli che hanno prelevato le ragazze ebree dalle case e le hanno stuprate davanti ai mariti e poi le hanno ammazzate davanti ai mariti e poi hanno ammazzato i mariti e poi hanno bruciato vivi i loro figli che tentavano di scappare, a quelli che cosa gli facciamo?
– Ma i coloni cacciano i palestinesi dalla loro terra!
– Ma sicuro. Come ti dicevo, hai ragione: ma a quello che ha incendiato la casa di quel kibbutz aspettando che uscisse la famiglia che c’era dentro, e poi l’ha sterminata, e poi ha preso il padre fucilato, lo ha trascinato in posizione comoda per lavorare bene sul cadavere, e con un palo di ferro gli ha spaccato gli occhi, prima uno, poi l’altro, e poi con quell’arnese glieli ha cacciati dentro, prima uno, poi l’altro, frullandoli nel pasticcio delle cervella, con l’amico che filmava e gli altri che ridevano, a quello che cosa gli facciamo?
– Ma al governo di Israele ci sono i fascisti!
– Eccome no?! Come ti ripeto, è vero, hai ragione: ma a quelli che dopo il trattamento dovuto trascinavano per i capelli le donne ebree con i genitali che sbrodavano sangue e le caricavano sulle camionette in nome di dio e del popolo oppresso, e altre nude e con gli arti spezzati le usavano come sedili sul cassettone del pick up, a quelli che cosa dobbiamo fargli?
– Ma Israele è il cane da guardia che gli Stati Uniti usano contro i popoli arabi!
– Ma sì, guarda, ti confermo che hai più che ragione, ti confermo che è verissimo: ma a quelli che hanno fatto il safari con le mitragliatrici sulle jeep, la caccia grossa agli adolescenti abbattuti a centinaia, con le body cam adoperate per il reportage e gli smartphone per la relazione a babbo, orgoglioso del figlio che gli faceva il conto personale dei massacrati, a quelli, se trovi un attimo per rispondere, mi dici che cosa bisognerebbe fargli?
Il pacifista rimane soprappensiero, ma riprende subito contezza di sé, dell’escalation, della complessità del mondo, del ritiro dei ghiacciai, del dramma del precariato, della Costituzione fondata sull’antifascismo e sui valori della Resistenza, e finalmente risponde come si deve:
– Sionista di mmerda!
L'amore della sinistra per la causa palestinese? Viene dalle lezioni di Arafat con Vietcong e Ceausescu. Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale lunedì 23 ottobre 2023.
Comincia più di cinquant'anni fa la storia del coinvolgimento attivo della sinistra in difesa della causa palestinese, la sua decisione del tutto arbitraria che essa sia parte della «lotta degli oppressi, dello scontro antimperialista, anticolonialista, per la pace, per l'autodeterminazione, per l'eguaglianza dei diritti», e persino un grande protagonista, il cemento di molte le battaglie «intersezionali», come si dice oggi, che portano folle di giovani, donne, neri, lgbtq, e vecchi partigiani e di sinistra in piazza a sostenere, dopo le barbarie di Hamas, la suddetta «causa» accusando Israele e prendendosela con tutti gli ebrei. Bisogna, perché si presenti nei termini attuali, tornare agli anni '60, con le visite di Yasser Arafat a Hanoi, una meta per lui familiare in quegli anni, e con la frequentazione della Romania di Ceausescu. Dal generale Vo Nguyen Giap, capo militare della resistenza antimperialista vietnamita, Arafat si abbevera: il leader dei Vietcong gli spiega che per vincere deve fare uscire la sua battaglia dallo scontro regionale, e renderlo una battaglia morale antimperialista, come quella dei vietcong, capace di incantare, mobilitare, unificare le masse antiamericane in tutto il mondo. Ceausescu gli insegna in un famoso dialogo, cosa sia il marxismo, gli fa lezione di egemonia, gli spiega come la guerra terrorista, peraltro indispensabile, deve accompagnarsi con la pretesa ripetuta fino allo sfinimento di volere una soluzione pacifica.
Negli anni '80 e '90, con la disintegrazione dell'Urss suo maggiore partner e finanziatore, e anche con la fine di Ceausescu, il suo istruttore politico, quando l'esilio di Tunisi lo umilia e lo tiene lontano dalla politica, l'offerta di Israele di tornare a Ramallah con gli accordi di Oslo, gli fornisce una magnifica occasione per usare un nuovo cavallo di troia molto popolare: la pace, cuore della propaganda a sinistra! Arafat non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele o di rinunciare al terrorismo, ma la sinistra mondiale lo segue: i palestinesi compiono l'innesto fra la causa palestinese col suo messaggio terzomondista e l'antisemitismo che fiorisce nel campo comunista sin dal tempo di Stalin.
Accantoniamo il solido odio per gli ebrei di Proudhon e Marx. Dopo un breve periodo di sostegno alla nascita di Israele data la sua ispirazione socialista, l'ideologia sovietica torna all'antisemitismo originario. Stalin dispone in Lazar Moseeivic Kaganovic di un suo Eichmann che organizza treni per la Siberia, fa fucilare uno a uno tutti gli ebrei che sono parte del gruppo dirigente; Grigorij Zinov'ev griderà la preghiera «shema Israel» mentre lo uccidono, e Stalin ride fragorosamente; l'assassinio di Lev Trotzkij è un'epitome di tutti complotti di cui gli ebrei furono accusati. Dal settembre '39 al luglio '40 passarono in mani russe 3 milioni di ebrei polacchi, bessarabici, buchovini, le scuole in yddish e del Bund furono chiuse, cominciò una mattanza di funzionari, medici, intellettuali mentre un ordine di silenzio sulla Shoah metteva a tacere Ilja Ehrenburg, Sergey Eisenstein, Vasilij Grossman. Il numero uno della cultura ebraica Solomon Mikhoels veniva giustiziato nel 48 mentre tutti i poeti e gli scrittori si accorgevano di quanto il partito fosse una condanna a morte. È famoso un dialogo con Roosevelt in cui Stalin dopo la guerra gli dice che gli ebrei sono «profittatori e parassiti». La morte di Stalin nel 53 blocca un enorme piano di deportazioni.
Dal dopoguerra si complicherà sempre di più, anche in Italia, il rapporto fra sinistra e ebrei. Gli ebrei dopo la Shoah guardano a un futuro che cerca casa nei valori liberali e di sinistra e molti sionisti sono - a partire dai capi come Ben Gurion - di sinistra: ma presto il sionismo viene criminalizzato in quanto ideologia nazionalista, separatista, e sull'onda di una spinta filoaraba opportunista lo si combatte e diffama: imperialista, colonialista, persino razzista. Si arriva così alla risoluzione Onu del '73 «sionismo uguale razzismo», una bestemmia rimasta in auge presso le folle antisemite e filopalestinesi, specie quelle jihadiste odierne. La sinistra, dato che all'Onu vince la maggioranza automatica, compatta il voto terzomondista anti-americano. È la nuova animatissima trincea della «causa palestinese», paradossale quanto efficace: tutte le organizzazioni per i diritti umani sputano a velocità supersonica risoluzioni anti-israeliane mentre ignorano l'Iran, la Cina, ecc.
La sinistra italiana non fa eccezione: la svolta si vede soprattutto dopo la guerra del 67. Nasce il tema degli insediamenti, ovvero dei territori della Giudea e della Samaria fino a quel momento occupati dalla Giordania. Secondo la sinistra Israele occupa terra palestinese e l'Olp lotta contro lo stato ebraico colonialista. Sostiene questo atteggiamento un gruppo potentissimo di leader, da Olof Palme a Willy Brandt a Bruno Kreisky: condurranno tutta la sinistra europea a fare della questione palestinese la cartina al tornasole del rapporto con Israele. Ideologia, interessi (c'è l'embargo del petrolio) pressione sovietica coprono gli attentati terroristi, la «battaglia per la pace», la pretesa israelofobica che vede Israele come invasore occidentale e nega il ritorno degli ebrei alla loro terra d'origine. Nascono allora anche molti gruppi ebraici di sinistra come Pace Adesso. L'Olp, la causa palestinese diventano una vacca sacra che impedisce di notare il rifiuto della soluzione territoriale, l'assedio armato a Israele. L'uso di formule come «stato di apartheid» segnano la delegittimazione di Israele e il tentativo di bloccarne il diritto all'autodifesa. Le folle antisemite odierne che urlano «morte agli ebrei» e dicono «dal fiume al mare la Palestina sarà libera» altro non chiedono che la distruzione di Israele. Anche in Italia, dal tempo di D'Alema, la sinistra ha devastato la verità sul rifiuto palestinese, sulla sua ferocia: Hamas usa senza remore la sua gente come scudi umani e Di Battista e Fratoianni non trovano oggi di meglio che attaccarsi alle bugie sul missile della Jihad Islamica ricaduto sulla Striscia. Il Pd più cauto, impetra la pace, e che altro? Intanto per le strade anche da noi si sventolano bandiere palestinesi, e si canta Bella ciao, insieme. E la sinistra, zitta.
La nazificazione di Israele e degli ebrei è un virus, anche in Italia. La pericolosa ombra lunga dell’antisemitismo in Europa: si diffonde a macchia d’olio nel Paesi d’occidente. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 24 Ottobre 2023
Robert Redeker, filosofo francese che gli islamisti hanno pensato bene di condannare a morte dopo il suo commento alla lectio magistralis che Papa Benedetto XVI tenne a Ratisbona nel 2006, dichiarava alcuni anni fa che l’antisemitismo è la distruzione dell’Occidente e che l’antisemitismo islamico, sempre più spesso fuso con il terzomondismo della sinistra radicale, avrebbe incrinato in maniera irreversibile il modo stesso di stare al mondo di noi occidentali. Facile profeta, verrebbe da dire, considerando che nel 2019, un altro filosofo francese, di origini ebraiche, Alain Finkielkraut venne, letteralmente, accerchiato per strada da un nugolo di gilet gialli, esagitati islamisti da banlieue e apostrofato con epiteti antisemiti. L’anno prima, secondo fonti del Ministero dell’interno, la Francia aveva subito un drastico aumento di episodi antisemiti, ben 541, il 74% in più dell’anno precedente. Non può quindi stupire, con questo retroterra inquietante, l’onda lunga e putrida del nuovo antisemitismo islamo-gauchista, a volte mascherato timidamente dietro l’etichetta di antisionismo, in altri casi antisemitismo in purezza, che ha fatto seguito al massacro perpetrato da Hamas in Israele e alla reazione israeliana.
Le manifestazioni di piazza, gli slogan truci, le porte delle abitazioni di ebrei marchiate o addirittura incendiate, come avvenuto a Parigi; ad oggi si sono registrati, secondo il quotidiano Figaro, un centinaio di casi in pochi giorni. E i numeri vanno crescendo, per citare il Ministro Darmanin. La Francia sembra rappresentare un laboratorio incandescente di fusione tra l’antisemitismo islamista e quello dell’estrema sinistra. La rendita di posizione anticoloniale e marxista di una vasta parte del ceto intellettuale francese ha portato per lungo tempo a una sottovalutazione sbilenca del fenomeno antisemita sviluppato a sinistra, focalizzandosi quasi esclusivamente su quello praticato dai gruppi di estrema destra. Eppure a sinistra arde un fuoco antisemita che va sposandosi in uno slancio pericoloso alle parole d’ordine degli islamisti che dalle periferie dimenticate iniziano a passare dalle parole e dai motti all’azione violenta. Per quanto possa essere difficile da accettare per la sinistra, va sempre ricordato come sia stata la Francia ad aver ospitato le prime tesi negazioniste dell’Olocausto, con case editrici di estrema sinistra, come la Vieille Taupe, e autori, da Rassinier a Garaudy, che dalla sinistra venivano organicamente. E queste parole d’ordine, riadattate e rimodulate, ai fini di una qualche presentabilità, si sono trasformate da negazione della Shoah in negazione del diritto di esistere di Israele, con una ‘nazificazione’ retorica dello Stato di Israele a cui assistiamo in questi giorni.
Ma se la Francia presenta questi tratti oggettivamente preoccupanti, in quanto culturalmente e storicamente risalenti e in certa misura perverso nutrimento di quella ‘sottomissione’ che Houellebecq aveva denunciato, un antisemitismo virulento, caotico, magmatico, va diffondendosi a macchia d’olio in tutti gli altri Paesi d’occidente, dall’Europa agli Stati Uniti. L’osceno spettacolo di attivisti liberal che strappano dai lampioni e dai pali i ritratti degli israeliani rapiti da Hamas, spesso neonati o ragazzine giovanissime, di feroci canti di guerra intonati sulle scalinate di Stanford e di Harvard, dove gli studenti si indebitano fino al collo per essere indottrinati come nemmeno in una madrasa coranica, di oceaniche masse pro-Hamas di Londra e del Canada dove sventolano addirittura le bandiere dei Talebani e si invoca la distruzione di Israele, ci accompagna ormai su base giornaliera. In Svezia gli ebrei vengono presi di mira da giovani islamisti da ben prima dell’assalto di Hamas. ‘La Svezia ha un problema con gli ebrei’, titolava Il Foglio nell’ormai lontano 2017 e il Centro Wiesenthal già a maggio 2010 pubblicava un avviso ai turisti di origini ebraiche sulle zone del Paese scandinavo ritenute a rischio. D’altronde a maggio scorso in Svezia si è tenuto un forum pubblico pro-palestinese cui hanno preso parte esponenti di Hamas. In Polonia una giovane studentessa di medicina di origini norvegesi ha esibito un cartello che invitava a gettare Israele nel cestino della spazzatura della storia. In Germania la polizia ha dovuto addirittura proteggere i monumenti in ricordo della Shoah.
Non meglio va in Italia, dove tra Roma, Bologna e Milano è andato in scena il carnevale dell’odio antisemita, tra cori, slogan e cartelli che invitavano a ‘uccidere gli ebrei’, a ‘distruggere Israele’, dando piena legittimazione alle atroci azioni di Hamas; si urlava ‘fuori i sionisti da Roma’, laddove verrebbe da chiedere cosa si intenda per ‘sionisti’ perché assai spesso è solo un ipocrita mascheramento per ‘ebrei’ tout court. A Bologna una ragazza velata di nero ha pensato bene di esporre un cartello con su scritto ‘Rivedrete Hitler all’inferno’. E anche in Italia, come in Francia, la ‘nazificazione’ di Israele e degli ebrei, degli ebrei non di un generico ‘sionismo’, è un virus diffuso e che trova spesso cittadinanza nel ceto intellettuale, tra musicisti, letterati, attori e tra una certa parte politica che fino ad oggi è stata assai prodiga di puntuali attacchi a Israele, tacendo miserabilmente sui crimini di Hamas. Il punto è esattamente questo: per anni un frainteso senso di tolleranza ha permesso a questo antisemitismo che germinava a sinistra, e nei settori di una certa immigrazione, di diventare sempre più spavaldo e di fare un brutale salto di qualità.
È tragica realtà il fatto che sempre più comunità ebraiche, in Francia e in Italia, debbano consigliare prudenza e di non rendersi visibili ai loro correligionari. Scompaiono i simboli, le kippah, perché si ha paura, mentre là fuori scorrono fiumi di odio. Ma è un odio che non vincerà, perché come ha scritto Etty Hillesum, ‘si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere’. Andrea Venanzoni
Fondi italiani ai terroristi palestinesi. Francesco Curridori il 24 Ottobre 2023 su Il Giornale.
La Cooperazione ha destinato 23 milioni alle Ong, alcune legate al Fronte di liberazione
I fondi destinati alla cooperazione internazionale finiscono per finanziare indirettamente i terroristi palestinesi. È questa l'amara scoperta che si apprende leggendo un dossier riservato della Ngo Monitor che Il Giornale ha potuto visionare in esclusiva.
Secondo questo documento, l'Agenzia italiana cooperazione e sviluppo (Aics) avrebbe destinato 23 milioni e 200mila euro a varie ong filopalestinesi. Alcune di queste sarebbero addirittura collegate con il Fronte popolare di liberazione per la Palestina (Fplp), una storica organizzazione terroristica designata dall'Ue. Per la precisione, tra il 2019 e il 2020 il governo italiano avrebbe finanziato direttamente progetti relativi alla cooperazione in Palestina in cui erano coinvolte anche tre organizzazioni palestinesi famose per la loro opera di delegittimazione dello Stato di Israele: Al Haq; Defence for Children International-Palestine (Dcip) e Union of Agricultural Workers Committees (Uawc). Al Haq, nel 2018, ha ricevuto 1,8 milioni di euro per un progetto da sviluppare nell'arco di tre anni insieme alla Ong italiana «Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti» (Cospe). Il suo direttore generale, Shawan Jabarin, è stato condannato per aver organizzato corsi di formazione per membri del Fplp nel 1985 ed è stato arrestato più volte tra il 1992 e il 1994. Sembrerebbe, inoltre, che non abbia mai tagliato totalmente i legami con i terroristi del Fplp. Anche i membri di Defence for Children International-Palestine (Dcip) hanno sempre mantenuto stretti legami con il Fplp. Per quanto riguarda l'Union of Agricultural Workers Committees è importante segnalare un finanziamento dell'Aics di 35.600 euro del 2020. L'UAWC, chiamato anche il «braccio agricolo» del Fplp, nell'ottobre 2021 è stata designata come organizzazione terroristica dallo Stato di Israele.
Tra le Ong italiane coinvolte ci sono «Culture is Freedom» e Sardegna Palestina. La prima è un'organizzazione che si occupa della promozione della cultura palestinese in Italia, mentre la seconda è un'associazione «culturale» che promuove campagne pro-Palestina all'interno della comunità sarda e che nel 2018 ha ricevuto 35mila euro dal Consiglio regionale della Sardegna. Ma non è tutto. Ad autorizzare le operazioni è stato Guglielmo Giordano, direttore della sede di Gerusalemme dell'Aics che si occupa della Palestina e che è stato nominato per la prima volta il 15 maggio 2019 da Luca Maestripietri, a sua volta nominato Direttore generale Aics durante il primo governo Conte, mentre Luigi Di Maio era ministro degli Esteri e la pentastellata Emanuela Del Re era viceministro degli Esteri con delega proprio alla cooperazione. Giordano, il 14 aprile scorso, durante un'intervista rilasciata a «Radio Radicale» non ha nascosto la sua avversione nei confronti dello Stato di Israele che sarebbe responsabile dell'attuale «regime di occupazione in Palestina». Il governo italiano, più precisamente il viceministro Edmondo Cirielli che ha la delega alla cooperazione internazionale, si è attivato già 8 mesi fa per sospendere i nuovi progetti verso la Palestina, ponendo la sua attenzione proprio sui progetti più sospetti.
Estratto dell’articolo di Paolo Salom per corriere.it domenica 22 ottobre 2023.
No, Anna Frank oggi non sarebbe una «profuga» come pretendono alcuni sostenitori della Palestina, scesi in piazza a Milano esibendo un’immagine della ragazza ebrea morta nei lager nazisti. […]
La capacità mimetica […] spaventa, […]. I ragazzi che hanno sfilato per le strade di Milano urlando oscenità contro lo Stato ebraico hanno - inconsapevolmente? - operato uno scambio tra carnefici e vittime che rasenta la capacità di comprensione. […] non è in discussione il diritto degli arabi palestinesi a decidere del proprio destino, né intendiamo sminuire gli errori e la miopia del governo israeliano.
Ma quanto accaduto il 7 ottobre va oltre tutto questo. Nessuna causa nazionalista può giustificare la crudeltà, l’orrore, l’inumanità della caccia all’ebreo condotta da un manipolo di belve che hanno messo in atto un pogrom che non ha uguali se non nelle pratiche, appunto, dei nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale.
Primo Levi aveva un incubo ricorrente: tornare a casa e osservare l’incredulità, lo scetticismo sui volti di chi ascoltava il suo racconto sui campi di sterminio. A Milano è andato in scena, se possibile, qualcosa di peggiore: la trasformazione delle vittime in carnefici. Una trasformazione in cui tutti gli ebrei sono «colpevoli», per il solo fatto di esistere; e in cui la presunta «barbarie sionista» giustifica l’orrore del 7 ottobre, compresa la mattanza dei neonati. […]Anna Frank oggi non sarebbe una profuga palestinese. Anna Frank, al contrario, oggi è stata uccisa di nuovo nei Kibbutz e nelle città di Israele: dagli sgherri di Hamas.
"Uccidiamo gli ebrei". Il corteo choc contro Israele a Milano - Il video esclusivo. Alberto Giannoni il 22 Ottobre 2023 su Il Giornale.
In centro, fra via Vitruvio e piazzale Loreto, è partito più volte da un gruppo, probabilmente formato in prevalenza da egiziani, un coro agghiacciante in arabo
Slogan anti-ebraici a un passo dal cartello con la povera Anna Frank ritratta con la kefiah palestinese. Nel secondo sabato dell'odio, un nuovo rabbioso corteo anti-Israele ha attraversato Milano con circa 4mila manifestanti.
In strada - a due settimane esatte dai massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre, e dopo la dura reazione militare dell'esercito israeliano a Gaza - sono tornati in gran numero giovani palestinesi e musulmani, con estrema sinistra, centri sociali e collettivi, insieme in uno confuso mix ideologico, dalla stazione Centrale a via Padova, scandendo slogan per la «resistenza» e contro lo Stato ebraico.
Un'altra giornata dell'ira, un copione simile alla precedente (sabato scorso) ma più furente ancora. Al ritrovo in piazza Duca D'Aosta, a dare il «là» è stato Mohammad Hannoun, presidente dell'Associazione dei palestinesi in Italia, con una sorta di invettiva concentrata sul caso dell'ospedale «Al Ahli Hospital» di Gaza City: probabilmente è stato colpito probabilmente da un razzo della «jihad» palestinese, ma Hamas aveva subito gridato subito alla «bomba israeliana» che avrebbe provocato 500 morti). Nessun dubbio quindi per Hannoun e i suoi: «Il missile sull'ospedale è un missile israeliano made in Usa» ha detto. «Hanno raccontato una bugia - ha aggiunto - riportando una frottola del governo criminale».
Cori e discorsi hanno ripetuto ossessivamente il racconto dello Stato fascista e terrorista che «uccide i bambini», mentre nessun cenno è stato fatto a sequestri e omicidi, ai danni anche di piccoli, giovani e giovanissimi, nei kibbutz e al concerto nel sud di Israele.
Il pogrom anti-ebraico è stato archiviato come reazione legittima, se non esaltato come nei deliranti volantini dell'estrema sinistra visti sabato scorso, e in precedenza il sit-in in via Mercanti, dove l'attacco era stato dipinto come una «pagina gloriosa» e una «eroica e sacrosanta risposta contro la politica di aggressione e sterminio». «Avete armato i coloni - si è sentito ieri - e poi detto che erano civili». Nessun dubbio, un'ossessione: «La verità è una sola: Israele è Stato criminale» ha urlato Hannoun.
Nel mirino, oltre a Israele, e agli Stati Uniti, anche l'Europa, e il governo italiano. «Queste 5mila persone le avete uccise voi». Una giovanissima, con tono esaltato e cadenza da dj o da influencer, dal furgone in testa al corteo, con tanto di megafono, ha spiegato che «in questo Paese siamo vittime di un razzismo istituzionalizzato che mette in pericolo le nostre vite tutti i giorni». E sul banco degli imputati, per il corteo della rabbia, devono stare tutti i media italiani. «Mentre Israele bombarda con le bombe, politici e giornalisti bombardano con le bugie».
In testa al corteo, le componenti palestinesi più politicizzate, spesso giovani immigrati di seconda generazione. Più dietro, lo spezzone con bandiere rosse e formazioni comuniste, probabilmente meno ingenti e organizzate rispetto alla settimana scorsa.
Infine, nelle retrovie, i gruppi più esagitati con un enorme striscione, in un ribollire di urla e slogan disordinati e farneticanti, alternati al grido «allah u akbar». A un metro dai giovani scatenati che insultano lo Stato ebraico, una ragazza portava un cartello che ritrae Anna Frank con la «kefiah», a stabilire l'oscena equazione, purtroppo in voga, fra sionismo e nazismo. E fra via Vitruvio e Loreto è stato «intonato» un coro agghiacciante in arabo. Tradotto, suona così: «Apri le frontiere e ci mangiamo i sionisti, apri le frontiere e ci mangiamo gli ebrei». Un macabro remake dei cori antisemiti che nel 2017 a Milano risuonarono in piazza Cavour in un sit-in analogo.
Una vergogna senza fine. Il corteo pro Palestina a Milano era uno spietato raduno anti-Israele. Cori choc: “Mangiamo gli ebrei”. Massimo Balsamo su Nicolaporro.it il 22 Ottobre 2023
Alla vergogna non c’è mai fine. C’è chi in nome del pacifismo è disposto a giustificare le brutalità dei terroristi contro Israele, ma anche chi – senza ritegno – appoggia Hamas nella sua guerra contro Israele. Ieri, a Milano, migliaia di persone in corteo per testimoniare sostegno alla Palestina. Presenti associazioni e movimenti politici (ma anche l’ex terrorista Francesco Emilio Giordano, condannato per l’omicidio di Walter Tobagi), tanti cori contro Tel Aviv e i media, rei di “sostenere la causa sionistica”. “Israele terrorista” e “Israele criminale”, alcuni degli slogan dei pro Gaza, che hanno inoltre denunciato la presunta “pulizia etnica” in atto. Ma il peggio deve ancora venire.
Tra i vari striscioni mostrati durante la passeggiata per le vie di Milano, i manifestanti hanno tirato fuori un fotomontaggio in cui Anna Frank indossava una kefiah, ossia la sciarpa-copricapo simbolo del patriottismo palestinese. “Oggi lei sarebbe una profuga come noi”, la spiegazione di una dimostrante. No, non è uno scherzo: qualche solone ha ritoccato l’immagine della giovane ebrea tedesca morta per mano dei nazisti per attaccare Israele e sostenere la causa palestinese. Eppure non è la cosa peggiore accaduta ieri a Milano.
L’ossessione anti-Israele ha spinto qualche manifestante a insultare pesantemente lo Stato ebraico. Altro che pacifismo, il corteo pro Palestina a Milano si è trasformato in uno spietato raduno anti-Israele. Oltre a gridare “Allah Akbar”, un gruppetto – probabilmente formato in prevalenza da egiziani secondo Il Giornale – ha intonato un coro agghiacciante in arabo: “Apri le frontiere e ci mangiamo i sionisti, apri le frontiere e ci mangiamo gli ebrei”. In altri termini: “Uccidiamo gli ebrei”. Difficile trovare un aggettivo per definire l’accaduto, ma si tratta di un episodio emblematico del sentimento antisemita serpeggiante.
Quasi tutte le principali piazze d’Europa hanno ospitato manifestazioni pro Palestina, ma quella di Milano è stata una delle più indegne. Irrispettosa nei confronti delle vittime e soprattutto della storia. La presenza di una bandiera russa passa persino in secondo piano di fronte a tutto ciò, ma c’è un errore che non va assolutamente commesso: sottovalutare questo vento.Estratto dell’articolo di Antonio Noto per “la Repubblica” mercoledì 18 ottobre 2023.
Quando l’opinione pubblica non piace ce la si prende con il sondaggio. Solitamente è uno sport riservato ai politici, ma l’ultimo studio condotto dall’Istituto demoscopico Noto Sondaggi per Repubblica , sulle reazioni degli italiani all’indomani dell’attentato di sabato 7 ottobre in Israele, ha sollevato alcune polemiche da parte di opinion leader.
Ciò che lascia perplessi è che invece di soffermarsi sul contenuto e sui motivi per cui parte della popolazione italiana (anche se in maniera minoritaria) giustifica da un punto di vista politico Hamas, si è etichettato il sondaggio come banale.
Il risultato evidenziava che il 18% degli italiani si dichiara solidale con le posizioni politiche di Hamas, una netta minoranza rispetto al 63% che si sente vicino allo Stato di Israele, ma comunque un dato rilevante. Tra l’altro successivamente al nostro sondaggio ne sono stati divulgati altri in cui addirittura le percentuali di giustificazione di Hamas aumentano di molto.
Per esempio, secondo SWG per La7 un italiano su due ritiene che l’attacco di Hamas agli israeliani sia stata una reazione comprensibile dopo anni di repressione da parte della autorità israeliane. Anche l’analisi di Euromedia Research per “In Onda (La7)” racconta che solo un italiano su due attribuisce tutta la responsabilità dell’attacco ad Hamas e al fronte anti Israele, fra cui Iran, e addirittura il 15,2% ritiene che Israele non abbia il diritto di reagire perché in parte corresponsabile dell’attacco di Hamas.
Last but not least Quorum/You Trend per Sky da cui si evince che è il 35% a ritenere che gli abusi compiuti da Israele ai danni dei palestinesi spiegano la violenza dell’attacco di Hamas.
[…] , il concetto fondamentale è che quattro sondaggi raccontano la stessa cosa, cioè che non si deve dare per scontato che Hamas non goda di alcuna giustificazione nella popolazione italiana. Questa percezione da parte dell’opinione pubblica non può essere banalizzata o ridicolizzata. D’altronde il ruolo delle rilevazioni statistiche è proprio questo.
Un sondaggio è un termometro dell’opinione pubblica e quando segna febbre alta non dovrebbe mai essere ignorato, soprattutto su un argomento così delicato come i rapporti tra palestinesi e israeliani. I dati possono essere interpretati, ma non derubricati. Stupisce, ma forse non dovrebbe, che alcuni opinion leader invece di interrogarsi sull’evidenza di un fenomeno sociale in atto possano ridicolizzare il dato marchiando come banale uno studio che per primo in Italia ha dato un “alert” su quanto sta accadendo.
Non a caso altri 3 sondaggi usciti successivamente addirittura delineano il fenomeno in maniera ancora più marcata. Che si guardi la luna e non il dito che la indica, altrimenti diventiamo tutti più poveri culturalmente e rischiamo di trascurare un pericolo che potrebbe avere conseguenze impensabili a livello internazionale.
La corsa della sinistra salita sul carro di Hamas. "Colpa di Netanyahu". Alberto Giannoni il 19 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Da Di Battista a Fratoianni, strage attribuita senza tentennamenti a Israele e rilanciate le tesi estremiste. Le ambiguità di Conte e Schlein
Quanta fretta di condannare quella «strage». E quanta voglia di crederci. A giudicare dalle reazioni «a caldo», la sinistra italiana non vedeva l'ora di risintonizzarsi su quello che da decenni è il suo mood: dare la colpa a Israele.
Dev'essere stato faticoso in questi giorni tenere un certo equilibrio dopo i massacri, e così quando martedì sera - verso le 19 e 20 - è arrivata la sparata di Hamas sui 500 morti in un «attacco» a un ospedale, a molti non è parso vero. Ed è subito piovuta una raffica di dichiarazioni stentoree e tweet roboanti che da tempo non si vedevano.
Poteva lasciarsi scappare un'occasione simile Alessandro Di Battista? Probabilmente la gara di velocità e sicumera l'ha vinta lui. «L'esercito israeliano ha appena bombardato l'ospedale battista al centro di Gaza - ha scritto - L'esercito israeliano sta decimando la popolazione palestinese». E in tv ha rincarato. Alle 20 e 30 il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, seguito da Giuseppe Provenzano del Pd e Carmela Auriemma dei 5 Stelle, già chiedeva un'informativa del ministro degli Esteri. Subito dopo si è lanciato il capo politico dei 5 Stelle, Giuseppe Conte. Lo stesso Conte che dopo gli attacchi del 7 ottobre delicatamente si diceva «preoccupatissimo» invocando il «dialogo». «La strage dell'ospedale di Gaza lascia senza parole - ha affermato poco dopo le 21 e 30 - Centinaia di morti e feriti. Distruzione e orrore. Bisogna fermare immediatamente questo scempio. Giù le mani dai bambini, dai civili, dagli ospedali».
Altro che «senza parole». Hanno ritrovato voce politici che sul conflitto in atto stavano balbettando, o tacevano non sapendo che pesci pigliare. L'esercito israeliano aveva già annunciato che erano in corso «verifiche» sull'accaduto, spiegando che avrebbe fornito «informazioni e dettagli» appena possibile, eppure parlavano tutti. Mezza Italia faceva il copia-incolla degli annunci di Hamas. Ancora più rapido e assertivo di Conte, come detto, Fratoianni. «L'esercito israeliano - ha twittato - ha bombardato un ospedale pieno di personale sanitario, feriti e sfollati. È un crimine di guerra, senza giustificazione alcuna». E non erano ancora le 21 e 30 e Laura Boldrini, ex presidente della Camera ed ex portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati, parlava di «barbarie».
Capitolo a parte meriterebbero «firme» e volti tv. Per esempio Tiziana Ferrario che ha postato le immagini dall'ospedale «bombardato secondo le autorità palestinesi da un attacco israeliano». Le autorità. E Rula Jebreal vedeva tweet auto-accusatori, postati e cancellati, di un «portavoce digitale» del premier Netanyahu.
Israele aveva già affermato che era stato un razzo della Jihad islamica a colpire l'ospedale, ma Elly Schlein, nota per non avere una linea su niente e per non aver twittato nulla per una settimana, in tv spiegava che «stasera è successa una cosa drammatica. Non è possibile né accettabile vedere un ospedale bombardato - diceva - con i corpi straziati di bambini». E l'ineffabile Aboubakar Soumahoro ancora ieri mattina ha preso la parola alla Camera. «È un crimine contro l'umanità che va condannato senza se e senza ma» - ha detto il deputato rossoverde - «come abbiamo condannato giorni fa l'attentato di Hamas in Israele».
Stasera Italia, Senaldi tuona contro media e sinistra: “Ideologia razzista e antisemita”. Il Tempo il 18 ottobre 2023
Pietro Senaldi è un fiume in piena su come la stampa italiana e gli esponenti della sinistra abbiano preso posizione subito dopo l’attacco all’ospedale di Gaza, sul quale c’è stato un rimpallo di responsabilità tra Israele e Hamas, con lo Stato ebraico che ha puntato il dito sulla Jihad islamica della Palestina. Il condirettore di Libero, ospite della puntata del 18 ottobre di Stasera Italia, programma tv di Rete4 condotto da Nicola Porro, è durissimo nel suo commento a riguardo: "Le reazioni che hanno avuto ieri molti media italiani, nel dubbio sono stati contro Israele e a favore dei terroristi, io credo che queste siano tutte testimonianze di antisemitismo e di odio razziale nei confronti di Israele e del popolo ebraico. Perché non si spiega altrimenti che nel dubbio io sto con i terroristi. Per me questo è antisemitismo, c’è una recrudescenza antisemita impressionante in Italia e anche nei media, nei giornali italiani, nella sinistra italiana. Le frasi di Nicola Fratoianni e Laura Boldrini sono inaccettabili, che – attacca Senaldi - tradiscono un’ideologia razzista e antisemita".
Stasera Italia, Porro umilia la sinistra pro-Hamas sull'ospedale di Gaza. Il Tempo il 18 ottobre 2023
“Strage dell’ospedale di Gaza, chi crede solo ad Hamas”. E’ questa la grafica che Nicola Porro usa nel corso del suo consueto editoriale nella puntata del 18 ottobre di Stasera Italia, talk show di Rete4. Il giornalista si concentra sulle prese di posizione della sinistra italiana dopo il razzo che ha colpito la struttura ospedaliera nella Striscia, il punto più buio dopo che è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas lo scorso 7 ottobre. “L’esercito israeliano ha bombardato un ospedale pieno di personale sanitario, feriti e sfollati. I palestinesi dicono che sono morte 500 persone. È un crimine di guerra, senza giustificazione alcuna”, le parole di Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana ricordate da Porro, che poi mostra un altro messaggio su Twitter, quello di Laura Boldrini: “Giunge in queste ore la notizia che l'ospedale Al-Ahli Arabi, gestito dalla Chiesa battista americana a Gaza City, sia stato bombardato. Sembrerebbe che ci siano almeno 500 morti. Oggi anche due campi profughi di Gaza sono stati colpiti con decine di morti e feriti. Condanniamo la punizione collettiva di un intero popolo, questa è barbarie. È una modalità che non può essere mai usata da uno Stato di diritto”.
Il padrone di casa cita poi le frasi di un’altra esponente del Pd, la segretaria Elly Schlein, intervenuta così sulla vicenda dell’ospedale: “Con la stessa nettezza con cui il Pd ha condannato gli attacchi di Hamas abbiamo chiesto a Israele il rispetto del diritto umanitario. Le vite dei palestinesi non valgono di meno”. Porro passa quindi all’attacco della sinistra: “L’ex presidente della Camera dovrebbe avere una certa esperienza di politica estera e di rapporti. Ha già preso la posizione di Hamas. E’ veramente incredibile come si sia presa posizione, come quel giocatore che cerca il fallo in area di rigore. ‘Gli israeliani devono aver fatto questa cosa’. Noi sospendiamo il giudizio, ma ci chiediamo se le prove portate oggi dagli israeliani varranno qualcosa, varranno anche il beneficio del dubbio prima di fare queste dichiarazioni? Valeva anche ieri sera un po’ di freddezza. Le piazze di oggi in Medio Oriente sarebbero state in un’altra situazione, ci sono notizie incredibili di assalti alle ambasciate”.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) Rien ne va plus nella sinistra francese. Il Partito socialista (Ps) ha sospeso nella notte la sua partecipazione alla coalizione Nupes (Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale), a causa delle profonde divergenze emerse con La France Insoumise (Lfi) di Jean-Luc Mélenchon rispetto al conflitto tra Israele e Hamas.
a decisione dei socialisti segue, in particolare, il rifiuto di Mélenchon e di altri esponenti di Lfi di ritenere Hamas un movimento "terrorista", dopo l'attacco contro Israele del 7 ottobre. Sempre parlando di Hamas, la deputata Insoumise, Danièle Obono, ha detto ieri che si tratta di un "gruppo politico islamico" che "resiste ad una occupazione" per la "liberazione della Palestina".
Dinanzi a queste divergenze, il consiglio nazionale del Partito socialista ha adottato ieri sera una "moratoria" sulla sua adesione alla Nupes. Nata nel 2022, dopo la riconferma di Emmanuel Macron all'Eliseo, la coalizione della sinistra francese vedeva inizialmente la partecipazione di France Insoumise, Partito socialista, comunisti e verdi. Già ieri, prima del voto dei socialisti, Mélenchon ha anticipato la spaccatura, ufficializzando la fine della coalizione ed imputando la responsabilità del ''divorzio'' ai socialisti. Domenica, il Partito comunista (Pcf) aveva già compiuto un passo verso l'uscita dalla Nupes, adottando una risoluzione che riconosce "l'impasse" della gauche e invoca un "nuovo tipo di unione" a sinistra.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) Il Nizza ha annunciato di aver sospeso "fino a nuovo ordine" il suo difensore Youcef Atal, preso di mira da un'indagine preliminare per "apologia di terrorismo" dopo un post legato al conflitto tra Israele e il movimento palestinese Hamas. Anche se il nazionale algerino ha cancellato subito la pubblicazione e si è scusato, il club ha spiegato in un comunicato di aver scelto di "adottare immediatamente" le sanzioni, "prima" di quelle che potrebbero essere adottate dalle autorità sportive o giudiziarie, "data la natura delle sanzioni il post condiviso e la sua gravità".
In ritiro con la selezione algerina dal 9 ottobre, Atal è stato convocato al suo ritorno a Nizza dai dirigenti del club. "Vorremmo sottolineare che la reputazione del Nizza deriva dal comportamento di tutti i suoi dipendenti, che devono essere conformi ai valori difesi dall'istituzione", ha spiegato il club della prima divisione francese, ribadendo "il suo fermo impegno a garantire che la pace prevalga su tutte le altre considerazioni". Da sabato si sono moltiplicate le reazioni per denunciare la condivisione, sull'account Instagram del calciatore, di un video di un predicatore che, secondo chi lo accusa, pronuncia frasi antisemite che incitano alla violenza.
Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per "La Stampa" mercoledì 25 ottobre 2023.
[…] Nel conflitto riesploso tra Israele e Palestina il calcio ha provato a restare neutro e non ci è riuscito. […] Se Benzema posta sostegno agli arabi diventa un propagatore di terrorismo, qualunque cosa dica. Il suo nome si lega a mille storie e i suoi comportamenti si prestano a tante interpretazioni. Se lo stadio di Wembley non accende l'arco con i colori di Israele durante il minuto di silenzio, allora significa che prende posizione, pure se tenta di fare il contrario.
Il primo nome importante a dire la sua è stato Benzema, senza filtri. […] la sua frase «Tutte le nostre preghiere per gli abitanti di Gaza, ancora una volta vittime di questi ingiusti bombardamenti» diventa militanza. Il ministro degli Interni francese chiede che gli venga tolta la cittadinanza e il Pallone d'oro e lui stesso prova a levargli per direttissima l'affidabilità: «Sappiamo bene che è vicino ai Fratelli musulmani». Non lo sappiamo.
Mohamed Salah non ha avuto problemi istituzionali, ma ha perso un milione di follower dopo aver pubblicato un video per la pace, […] È ovvio che giochi nella squadra palestinese e altrettanto chiaro che non si schieri contro. Invoca la tregua, senza rivendicazioni. […]
Solo che Salah ha una faccia notissima e proietta quelle parole da un palco riconoscibile da ogni dove. Impossibile evitare accenti. Il Liverpool non ha detto nulla mentre il Bayern Monaco ha chiesto a Noussair Mazraoui un «incontro per avere chiarimenti» e il Nizza ha sospeso Youcef Atal così come ha fatto il Mainz 05 con Anwar El-Ghazi […] Tutti i calciatori citati hanno postato sostegno alle famiglie dei morti, chiesto la fine degli orrori, aggiunto i colori palestinesi. Parole per placare una guerra usate poi come carburante estremista.
La strada che porta alla casa del Mainz si chiama Eugen-Salomon, è il nome del fondatore: primo presidente, a 17 anni. Nel 1933 i nazisti gli hanno tolto la carica, lui è espatriato e comunque è stato deportato ad Auschwitz dove è morto nel 1942. Il presidente più longevo del Bayern si chiama Kurt Landauer, imprigionato a Dachau dove è sopravvissuto ed è tornato a capo della società bavarese altre tre volte. Mazraoui si allena quotidianamente con il portiere Daniel Peretz, arrivato quest'anno dal Maccabi Tel Aviv.
Le connessioni continuano a creare frizioni e pure se tenute in sottofondo, disinnescate dal rispetto reciproco, alimentano fastidi. I turbamenti partono da lontano: da un Mondiale manifesto lasciato libero di proiettare l'istanza palestinese sugli spalti. Sulle vittorie del Marocco, sulle feste della Tunisia. Oggi le federazioni proibiscono le bandiere di entrambi i fronti, […] Il problema non è il diritto al sostegno, la manifestazione di appartenenza, è il conflitto: lo scorso novembre la fierezza degli arabi al primo mondiale ospitato ha sposato una causa e quel mese di dirette globali l'ha legata al calcio.
Ora si mettono regole che, a posteriori, vengono interpretate. Vissute come limiti messi a una parte e i tifosi vicini agli arabi protestano, mentre quelli legati a Israele srotolano striscioni indignati. […]
Da lastampa.it giovedì 19 ottobre 2023
L'attaccante del Liverpool, Mohamed Salah - che in passato è stato più volte al centro di polemiche per sospetti di antisemitismo (rifiutò di stirngere la mano a giocatori di origine ebraica, chiese alla sua società di non acquistare un giocatore di fede ebraica) - ha chiesto alla comunità internazionale di inviare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. In un video pubblicato sui social, l'attaccante egiziano ha affermato che "gli aiuti umanitari a Gaza devono essere consentiti immediatamente. Le persone lì vivono in condizioni terribili. Le scene all'ospedale sono state terrificanti. La popolazione di Gaza ha bisogno urgentemente di cibo, acqua e forniture mediche. Chiedo ai leader mondiali di riunirsi. Per prevenire l'ulteriore massacro di anime innocenti. L'umanità deve prevalere".
Benzema attaccato dal ministro dell’Interno francese Darmanin: “È legato ai Fratelli Musulmani”. Accuse pesanti contro il Pallone d’oro, che gioca in Arabia Saudita, dopo il sostegno a Gaza espresso su X. la Repubblica il 18 ottobre 2023
Dura accusa del ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, all'ex attaccante del Real Madrid e Pallone d'Oro in carica Karim Benzema. "Il signor Karim Benzema ha legami noti con i Fratelli Musulmani", ha detto il ministro a CNews, riferendosi all'organizzazione islamica transnazionale e considerata terroristica in Francia. Parole che arrivano dopo le dichiarazioni del giocatore francese, musulmano praticante e che attualmente gioca nel campionato saudita nell'Al Ittihad a sostegno degli abitanti di Gaza su X. "Tutte le nostre preghiere per gli abitanti di Gaza che ancora una volta sono vittime di questi ingiusti bombardamenti che non perdonano né le donne né i bambini", ha scritto Benzema nei giorni scorsi.
Nei giorni scorsi Benzema, per il suo messaggio, è stato bersaglio anche dell’ex portiere della nazionale israeliana, David Dudu Aouate, che l’ha attaccato con parole poco eleganti: ““Figlio di p***a”, scritto in ebraico, francese, inglese, arabo e spagnolo, accompagnando il testo con la bandiera israeliana e quella statunitense.
Estratto dell’articolo di Alessio Morra per fanpage.it 17 ottobre 2023
Da più di una settimana il mondo sta seguendo quello che sta accadendo a Gaza, dove è in corso il conflitto tra Israele e Hamas. Da giorni con trepidazione e sgomento si succedono immagini che si vedono rattristano il cuore, con molti innocenti che sono coinvolti. La politica internazionale segue tutto minuto per minuto, nella speranza che non parta una escalation.
Una vicenda questa che, naturalmente, sui social in decine di migliaia di utenti commentano gli eventi. Tra loro pure Karim Benzema, che ha scritto un tweet che ha generato discussioni, polemiche e ha prodotto una furente reazione dell'ex portiere della nazionale israelana.
Il Pallone d'Oro 2022, che da qualche mese ha lasciato il Real Madrid ed è andato a giocare in Arabia Saudita – è passato all'Al Ittihad, poche ore fa su X (l'ex Twitter) ha scritto un post in cui ha espresso la sua solidarietà agli abitanti di Gaza, queste le sue parole: "Tutte le nostre preghiere per gli abitanti di Gaza, ancora una volta vittime di questi ingiusti bombardamenti che non risparmiano né donne né bambini". […]
Tra i tanti messaggi critici c'è anche quello dell'ex portiere della nazionale d'Israele Dudu Aouate, che ha militato a lungo nella Liga (ha giocato anche con Maiorca e Deportivo La Coruna). Aouate sempre su X ha quotato il post di Benzema e ha risposto in modo inequivocabile. In cinque lingue diverse (ebraico, francese, inglese, arabo e spagnolo): "Tu sei un gran figlio di ….". Il tweet si chiude con le emoji delle bandiere degli Stati Uniti e di Israele.
Estratto dell'articolo di Mara Gergolet per corriere.it 17 ottobre 2023
Le polemiche sull’antisemitismo arrivano anche al Bayern Monaco. Nei giorni scorsi, in ritiro con la propria nazionale, il difensore marocchino Noussair Mazraoui ha condiviso su Instagram un breve video in cui una voce esterna recita: «Dio, aiuta i nostri fratelli oppressi in Palestina, affinché ottengano la vittoria. Possa Dio concedere la grazia ai morti, possa Dio guarire i feriti».
Un post […] che ha scatenato notevoli polemiche. Nel Bayern gioca, compagno di spogliatoio di Mazroui, il portiere israeliano Daniel Peretz, che invece domenica mattina nelle stesse ore postava stories piene di angoscia su amici e parenti in Israele. E chiedeva a tutti i compagni di pronunciarsi contro il terrorismo.
[…] In poche ore, sono intervenuti anche i politici. Il deputato Cdu Johannes Steiniger, uno dei più giovani del parlamento tedesco ed egli stesso allenatore di calcio con tanto di patentino, ha chiesto al Bayern di allontare Mazraoui. «Il club di Kurt Landauer, che fu chiamato “club ebreo” dai nazisti, non può lasciar passare questa situazione così. Caro Bayern Monaco, per favore cacciatelo subito. Inoltre, dovrebbero essere sfruttate tutte le possibilità a livello statale per espellerlo dalla Germania».
Il Bayern, ieri sera, ha preso le distanze ribadendo la piena solidarietà a Israele. Lo stesso calciatore ha fatto una parziale marcia indietro con un nuovo post. «Il punto è che io cerco la pace e la giustizia in questo mondo. Ciò significa che sarò sempre contrario a ogni forma di terrorismo, odio e violenza». Si è detto deluso dal fatto che fosse necessario chiarire questo punto. E poi ha proseguito. «Ogni giorno persone innocenti vengono uccise in questo terribile conflitto che è fuori controllo. Per questo, bisogna alzare la voce, poiché la situazione è semplicemente disumana. Voglio sottolineare che non è mai stata mia intenzione offendere o ferire consapevolmente o inconsciamente qualcuno».
[…]
Dai capi di Stato alla Schlein. Chi dimentica gli ostaggi. Storia di Alessandro Sallusti su Il Giornale lunedì 16 ottobre 2023.
Ogni mattina sui giornali è un florilegio di appelli a Israele perché contenga la sua reazione agli attentati subiti entro limiti accettabili. Non ho ben capito quali siano questi limiti e chi possa o debba stabilirli ma va bene, a nessuno piace assistere a un crescendo di morte. Dai capi di Stato di mezzo mondo ai vescovi, passando per i leader delle tante sinistre fino all'internazionale islamica è tutto un appellarsi al buon senso di Israele e un pregare per la pace. Perfetto, ma mi chiedo perché mai a nessuno di questi potenti signori viene in mente di fare l'unico appello che avrebbe, quello sì, un senso logico e probabilmente anche pratico. Il seguente: io Elly Schlein, io musulmano moderato chiedo ad Hamas di liberare subito e senza condizioni gli oltre cento ostaggi tra donne, ragazzi e bambini che avete sequestrato violando ogni diritto umano e internazionale, ve lo chiediamo per mettere fine alla loro sofferenza e perché questo sarebbe l'unico modo possibile per attenuare la furia di Israele nei vostri confronti. E ancora: ve lo chiediamo perché ogni civile, donna e bambino di Gaza che morirà sotto i colpi dei soldati di Israele morirà perché voi non volete restituire a Israele esseri umani che appartengono alle loro famiglie e al loro Stato, in altre parole morirete per colpa vostra e di nessun altro e noi non potremo farci nulla perché non possiamo stare dalla parte di volgari sequestratori di persone né pregare per la loro sorte. Niente, di tutto questo nel dibattito di queste ore non c'è traccia, non un rigo, non una veglia.
La sorte di quegli oltre cento disgraziati pare interessi solo agli ebrei, tutta l'attenzione mediatica e politica è concentrata sui poveri profughi di Gaza senza dire che ora sono profughi in quanto hanno rubato persone in carne ed ossa e non vogliono restituirle. Qualsiasi appello ad Israele che non parta da questo punto - la liberazione degli ostaggi - è inutile, cinico, ipocrita e rende complici dei terroristi, ai quali non viene chiesto neppure di liberarsi di quel pezzo, ancora nella loro facoltà, dell'orrore che hanno sparso. Non so se restituendo gli ostaggi Gaza si salverebbe. Certamente se non lo farà la condanna sarà eseguita e nessuna persona di buona volontà, sia in buona che in cattiva fede, avrà argomenti per impedirlo, perché non ci può essere nessuna pace con oltre cento ostaggi di mezzo.
Le piazze dell'odio che fanno paura. Islamici radicalizzati ed eversori rossi: "Rovesciare Meloni". Alberto Giannoni il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Qualcuno soffia sul fuoco dell'Intifada. Le piazze dell'odio anti-Israele si sono riempite e il clima ora si fa pesante
Qualcuno soffia sul fuoco dell'Intifada. Le piazze dell'odio anti-Israele si sono riempite e il clima ora si fa pesante.
A dieci giorni dal massacro del 7 ottobre non c'è più l'ombra di una remora nel sostenere Hamas. Nei cortei che attraversano le città italiane si saldano due fanatismi. I fedeli islamici invocano Allah contro lo Stato ebraico e i vecchi arnesi della lotta extraparlamentare vedono in quella esaltazione una scintilla rivoluzionaria capace di innescare l'«incendio». Gli islamisti descrivono i massacri come «resistenza armata» e comunisti sognano. L'obiettivo è cavalcare le tensioni fino al caos. Lo si legge in un volantino che circolavano sabato al corteo di Milano: «Fare della solidarietà internazionalista un'arma per rovesciare i complici e gli alleati dei sionisti al governo del nostro Paese». Il foglio di propaganda era firmato dai famigerati Carc, sigla inquietante che di recente ha fatto da collettore al ciarpame ideologico da anni Settanta, si è mostrata solidale coi brigatisti ed è comparsa in varie indagini sui rigurgiti di lotta armata. I Carc sono scesi in piazza anche a Firenze e Napoli. Il volantino contiene l'auspicio «che la solidarietà al popolo palestinese e le mille mobilitazioni già in atto contro il governo Meloni si leghino», a partire dalle proteste «contro le basi militari e la Nato» il 21 ottobre, «passando per le iniziative di lotta del 20 ottobre in occasione dello sciopero generale dei sindacati di base».
Altro segnale è la vistosa presenza al corteo di Milano - in mano uno striscione per il boicottaggio di Israele - dell'ex brigatista Francesco Giordano. Condannato per l'omicidio Tobagi, Giordano ha scontato la pena e ha diritto di manifestare, ma il suo aggressivo attivismo «anti-sionista» impressiona. «Assolutamente sì - ha confermato ieri anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani - toccherà poi alle forze dell'ordine individuare se c'è qualche infiltrazione: un conto è manifestare, cosa che è lecita, a favore del popolo palestinese; un conto è manifestare per Hamas e sostenere i terroristi». Per la coordinatrice di Iv Raffaella Paita quella presenza dimostra che la presenza era «accondiscendente con Hamas, visceralmente contro Israele». La preoccupazione serpeggia e le dà voce il deputato Riccardo De Corato, a lungo vicesindaco a Milano: «Con tutti questi sostenitori di Hamas, islamici ed ex terroristi brigatisti italiani, che autunno sarà per la nostra città? Farà molto caldo dal punto di vista della tensione e del pericolo?». Colpisce intanto il coro che un gruppo di studenti ha intonato a Roma davanti a un cordone di agenti: «U-cci-diamoli!».
In tutto ciò la sfilata di giovani palestinesi, in genere immigrati di seconda generazione, spesso studenti, appare un dato identitario. Eppure il timore è che questo movimentismo rappresenti l'«acqua» in cui possono cominciare a nuotare pesci piuttosto pericolosi. L'imam della grande moschea di Roma Nader Akkad ieri ha lanciato un appello a spegnere come «acqua santa ogni fuoco di rabbia, dolore, odio e violenza». E gli esperti, al momento, considerano ancora «medio-basso» il rischio.
D'altra parte sono spesso le azioni individuali quelle che hanno colpito e fatto male. A Milano è ancora vivo il ricordo dell'azione kamikaze del 2009 alla caserma Perrucchetti, dove un aspirante «martire», il libico Mohamed Game, si fece esplodere ferendo un miliare e restando menomato. Emerse poi che aveva frequentato una delle moschee più discusse della città, quella di viale Jenner, in cui aveva predicato per un decennio l'egiziano Abu Imad, imam che nel 2010 è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo. E quando sabato un 33enne egiziano ha aggredito tre persone con un Corano in mano e la veste islamica, un brivido ha attraversato la città.
Le piazze pro Hamas sono il masochismo dell'Occidente. Israele accusato di preparare una "risposta sproporzionata" contro le belve di Hamas. È solo l'ultimo cortocircuito dell'Occidente incapace di difendersi. Andrea Indini il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Perché davanti all'orrore c'è chi scende in piazza non per consolare le vittime ma per sostenere la causa dei carnefici? Perché chi avversa le vittime si batte per carnefici che non disprezzano soltanto quelli che trucidano e sgozzano ma anche quelli che li difendono? "Ci eravamo detti: 'Mai più'", ha scritto nei giorni scorsi J.K. Rowling su X riportando la lettera di una mamma in cui raccontava come la scuola della figlia abbia raccomandato agli studenti ebrei di nascondere la kippah sotto un cappellino da baseball. "Questo - commenta la madrina di Harry Potter - dovrebbe scatenare un'indignazione di massa". E invece no. L'indignazione di massa, il giusto sussulto che il mondo intero o, quanto meno, l'Occidente dovrebbero avere, non c'è stato. O quantomeno non è stato unanime. Nemmeno davanti alle fotografie e ai video dei neonati decapitati in culla o di intere famiglie fucilate mentre dormivano nei loro letti. Troppi i distinguo e le giustificazioni. E ancor più disgustose della resa, come nel liceo di Londra citato dalla Rowling, sono le schiere di progressisti che si battono, a chilometri di distanza dagli attentati, per tagliagole e terroristi.
C'è qualcosa di insolitamente masochistico, addirittura autolesionista, nell'atteggiamento dei filo palestinesi di casa nostra che in queste ore si schierano contro gli israeliani che ancora piangono i morti. Li accusano di preparare una "risposta sproporzionata" contro le belve di Hamas, una risposta che finirà per coinvolgere innocenti e fare altre vittime. Ma esiste davvero una "sproporzione" contro chi fa carne da macello dei tuoi bambini, stupra le tue donne, brucia vivi i tuoi nonni? Potrà mai esistere una formula aritmetica in grado di definire il limite entro cui la vittima può reagire davanti a tanto orrore? Ovviamente la risposta è no. Eppure c'è chi pensa di poter far valere il diritto internazionale laddove regna il male.
L'attacco di Hamas va ben oltre l'orrore della guerra, sconfina nella barbarie. Ricorda la sanguinaria mano dei fondamentalisti islamici che più volte hanno attaccato l'Occidente. Anche in quelle occasioni non erano mancati i distinguo. Chi chiedeva una risposta netta veniva accusato di colpevolizzare tutti i musulmani. E così l'odio ha avuto terreno fertile per continuare a proliferare. Non è stato estirpato dopo l'ondata di attacchi firmati da al Qaeda. E nemmeno dopo le atroci aggressioni dei terroristi dell'Isis. L'Europa ha continuato a professare accoglienza e ad aprire le porte a chiunque sbarcasse sulle nostre coste o valicasse, anche illegalmente, i nostri confini. Nemmeno la tanto sbandierata integrazione ha dato i suoi frutti. Le distanze con i figli di immigrati di seconda e terza generazione restano. Le "no go zone", i quartieri a maggioranza islamica dove nemmeno le forze dell'ordine hanno accesso, sono aumentate. E le banlieue nelle città del Nord Europa sono, ancora oggi, una polveriera pronta a esplodere e un covo di radicalismo inestirpabile.
In queste ore il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha detto chiaramente che ora è "fondamentale difendere la sicurezza del Paese" sia perché si profila "una riesplosione dell'integralismo" islamico sia perché le continue ondate migratorie potrebbero portare soggetti pericolosi. Da qui la necessità di aumentare i controlli: "Non possiamo permetterci adesso di far entrare persone che verrebbero a combatterci". In barba ai buonisti, agli ultrà dell'accoglienza e alle toghe pro migranti. Il rischio è, infatti, che l'Europa si trovi a dover combattere una nuova jihad. Le ultime le ha sempre subite. Forse perché troppo preoccupata a non eccedere in una "risposta sproporzionata".
Ora le femministe scendono in piazza per difendere i nemici dei diritti civili. Bandiere per la Palestina, dimenticando gli stupri e le discriminazioni verso i gay. Francesca Galici il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Le veterofemministe di «Non una di meno» tornano in piazza a Bologna nell'ultimo fine settimana di ottobre e sono pronte a sbandierare tutta la loro ipocrisia insieme alle bandiere per la Palestina. La guerra che si è riaccesa in Medio Oriente, infatti, sta mettendo in evidenza il cortocircuito ideologico di quella sinistra legata all'associazionismo rosso, che si batte per i diritti ma solo per quelli al momento più utili, che danno maggiore visibilità.
E così, quelle stesse associazioni finiscono per manifestare contro gli oppressori dei diritti civili per i quali dicono di battersi. Questo conflitto sta diventando la rappresentazione plastica dell'ipocrisia, con le manifestazioni pro-Palestina e contro Israele ma mai contro Hamas, promosse dai gruppi rossi, tra i quali anche Non una di meno.
«Siamo persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e non binarie, queer, intersex, asessuali e aromantiche, pansessuali, poliamorose, kinky», si legge nell'ultimo manifesto che hanno pubblicato sui loro canali social.
Ma tralasciando la rivendicazione dei praticanti di Bdsm e degli aromantici (con la n), tutte queste persone sono pronte a manifestare con le bandiere della Palestina senza spendere nemmeno una parola contro Hamas, che brucia vivi gli omosessuali. «La nostra piazza orgogliosa e resistente sarà l'occasione per far sentire forte la nostra voce, per denunciare le oppressioni quotidiane che viviamo ed essere al fianco del popolo palestinese», scrivono rivendicando la loro vicinanza solo a una delle parti civili che sono coinvolte in questo ennesimo massacro. Le immagini e gli eventi del 7 ottobre, che hanno portato alla reazione di Israele, non esistono più. I massacri di bambini, i rapimenti, le violenze nelle feste e nei kibbutz, d'altronde, non sono utili. Sennò dovrebbero esprimere solidarietà anche al popolo israeliano e condannare Hamas.
Eppure, quelle di «Non una di meno», si dicono femministe tutte d'un pezzo. Integerrime e pronte a battersi contro ogni violenza. Gli stupri e la barbarie contro le donne israeliane, però, non rientrano evidentemente nei loro interessi. Meglio manifestare solo per il popolo palestinese, in linea con quello che i «kompagni» fanno ormai da giorni. O magari è solo l'ignoranza che muove le loro azioni, la non conoscenza. Forse, non sanno che fino a pochi giorni fa i palestinesi appartenenti alla galassia Lgbtq+ cercavano di passare oltre confine, in Israele, per chiedere asilo a fronte delle persecuzioni violente da parte di Hamas. E, ancora peggio, forse non sanno che le donne, nel regime islamico di Hamas, non hanno diritti e vengono vessate in nome della legge di Allah. Magari in piazza non si schierano dalla parte dei terroristi, ma nemmeno condannano le loro atrocità.
Per questo, quelle manifestazioni con le bandiere palestinesi, diventano materiale per la propaganda islamista, per dimostrare che l'Occidente è con loro.
Quei professionisti della protesta di piazza. Dal 41 bis alla Striscia di Gaza vale tutto. Il kit da combattimento: felpa nera, casco, bandana e bastone. Ma sono sempre i soliti. Michel Dessì il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Hanno una bandiera per ogni stagione. Un coro (poco fantasioso) che cambia in base alle necessità, ai periodi storici. Il repertorio è infinito, ma la musica è sempre la stessa. Sono i professionisti della piazza, i fancazzisti del sabato e della domenica. Sono gli attivisti pro-Palestina che, in questi giorni, stanno invadendo le piazze di tutto il Paese. Gli stessi che oggi urlano «Israele merda, Palestina libera» solo qualche mese fa sventolavano la bandiera anarchica contro il 41bis in favore del terrorista Alfredo Cospito. Non solo, più volte sono scesi in piazza contro Giorgia Meloni e il suo governo (ogni scusa è buona per farlo). Manifestano contro il caro affitti e montano le tende fuori dalle università (nonostante le case in centro storico), protestano al fianco dei percettori del reddito di cittadinanza pur non essendo beneficiari.
Sono sempre gli stessi, i militanti rossi, i «compagni» del disordine. Amanti del dissenso e delle proteste. Da Milano a Roma i protagonisti delle manifestazioni non cambiano. Mai. Basta scendere in piazza per rendersene conto e riconoscerli. Cambiano gli slogan, gli striscioni ma non i volti. L'obiettivo è uno: fare casino. Casco sottobraccio, felpe nere, bandana attaccata al collo e bastoni come portabandiera sono immancabili. È questo il kit da «lavoro». Tra i più organizzati ci sono i membri di «Cambiare rotta», si definiscono come «un'organizzazione giovanile comunista» nata «contro la crisi di civiltà del capitalismo, per il riscatto di una generazione tradita». Una generazione che non perde mai occasione per scendere in strada e urlare il proprio dissenso. Venerdì, a Roma, per esempio erano loro ad inveire contro la polizia «noi odiamo le guardie, uccidiamoli». Sempre loro, prima di raggiungere piazza Vittorio e solidarizzare con il popolo palestinese, ne hanno approfittato per protestare anche contro il convegno internazionale organizzato dalla Lega con i giovani di Identità e Democrazia. Così, dopo una breve contestazione, il coro «siamo tutti antifascisti» ha lasciato spazio a quello «Palestina free». Collegati a Cambiare rotta ci sono anche i movimenti studenteschi (sempre di sinistra) Osa, Opposizione Studentesca d'Alternativa che sul loro blog assicurano: «Come studenti e studentesse non gireranno le spalle lasciandosi convincere da questa società che bisogna stare in silenzio». Così parlano. Anche di cose che non conoscono. Basta fargli qualche domanda per capirlo. L'ordine è di scendere in piazza, ed arriva direttamente sui canali Telegram. Gli stessi canali usati da InfoAuto, una pagina dove vengono rilanciate tutte le manifestazioni alle quali partecipare. Una rete virtuale fatta da collettivi e centri sociali. Azione Antifascista Roma Est è tra i più seguiti. Dai social alle piazze. Immancabile è Pasquale Valitutti, anarchico per professione ma con una pensione da invalido in tasca. A bordo della sua carrozzina elettrica «Lello» (così lo chiamano i compagni) è il capopopolo. Da anni non se ne perde una di manifestazione. Era lui a minacciare di morte qualche mese fa i membri del governo rei, a suo dire, di trattenere Alfredo Cospito in carcere. Oggi, invece, minaccia il popolo israeliano. Domani toccherà a qualcun altro. Michel Dessì
Marco Ventura per il Messaggero domenica 15 ottobre 2023.
Il silenzio urla da quarant' anni, da quel 9 ottobre 1982 in cui Stefano Gaj Taché, un bimbo di 2 anni, fu ucciso nell'attentato alla Sinagoga. Era una bella giornata di sole a Roma e le granate dei terroristi furono scambiate all'inizio per sassi. Il fratello di Stefano, Gadiel, aveva 4 anni e fu investito dalle schegge, lottò per sopravvivere. La sua foto uscito dall'ospedale, in carrozzella e con l'occhio bendato, insieme a quelle di Stefano, è in fondo alle oltre 100 pagine della sua accurata e accorata denuncia senza retorica per la Giuntina, Il silenzio che urla.
«Nel 2011, scoprii che Stefano non compariva nella lista ufficiale delle vittime italiane del terrorismo», racconta Gadiel. «Ma prima di essere un bambino ebreo, lui era un bambino italiano; per molti, invece, quella tragedia riguardava altri, la comunità ebraica... Poi, nel 2015, vidi alla tv le immagini di Charlie Hebdo e dell'attacco al supermarket kosher a Parigi, fu come rivivere la violenza che avevo rimosso. E decisi di farmi portavoce della sofferenza della mia famiglia e riguardare tutti i documenti che nel frattempo erano stati de-secretati». E che cosa ha scoperto? «All'archivio di Stato, la prima lettera che andai a cercare fu quella di Tullia Zevi che segnalava il pericolo alla Sinagoga.
Ancora oggi mi chiedo perché al Tempio non fu prevista la sorveglianza. Per quarant' anni ti raccontano una storia, che il responsabile è un certo Al Zomar per conto di Abu Nidal, e ti destabilizza imbatterti in testimonianze per cui sembra che le cose non siano andate proprio così». Al Zomar fuggì in Grecia, e non fu mai estradato.
«Nel novembre 1982 un'informativa del Sisde, i servizi interni, riportava una confidenza della fidanzata di Al Zomar per cui l'incarico sarebbe arrivato dall'Olp», spiega Gadiel. «In quei mesi c'era fermento, aggressività, di media e politica: si faceva l'equazione Israele-ebrei, una confusione frutto di pregiudizi perché una cosa è Israele, altra le comunità ebraiche. Io sono anzitutto italiano, romano de Roma, de Testaccio».
LA GUERRA La guerra in Libano fece precipitare la situazione. «Durante una manifestazione sindacale, fu scaraventata una bara davanti al Tempio, sotto la lapide che ricordava 1.022 ebrei deportati nei campi di sterminio. Perché là e non davanti all'Ambasciata? Rav Toaff scrisse a Lama, segretario Cgil, che pur deprecando l'episodio rispose che non si poteva sottacere il genocidio in Libano. Una confusione, tra ebrei e Israele, sempre molto pericolosa».
(...) L'antisemitismo è un virus che nasce dall'ignoranza: la differenza tra ebreo e israeliano a molti non è ancora chiara».
Nel libro ci sono foto di Gadiel e Stefano: «Servono a ricordare. Io oggi cammino, corro, scio, ma con dolore La mia gamba è devastata e negli ultimi mesi ho ripreso le stampelle. Il mio corpo, ai raggi X, è un cielo stellato, con tutti i puntini luminosi delle schegge nella gamba, nell'addome, nella testa A volte escono dal piede. Mia madre lo stesso».
Spera che la verità venga fuori? «Difficile che si faccia giustizia dopo quarant' anni, ma spero che la verità emerga. Nelle carte ci sono altri nomi legati ad Al Zomar». Italiani? «Bisogna indagare, a partire dalle 17 informative in cui il Sisde scriveva che ci sarebbe stato un attentato e i terroristi erano aiutati da italiani». Il prossimo 21 settembre, quando si celebrerà solennemente il ricordo dell'attentato, nessuno potrà ignorare «il silenzio che urla» della famiglia Taché.
Pierpaolo Lio per il Corriere della Sera - Estratti domenica 15 ottobre 2023.
Sabato era al corteo pro Palestina che ha sfilato per le vie di Milano. Kefiah rossa al collo, come segnala il quotidiano «il Giornale», Francesco Emilio Giordano reggeva un cartello della campagna di boicottaggio di Israele («Non finanziare l’apartheid israeliana»). Giordano fu arrestato e condannato perché accusato di aver fatto parte della Brigata XVIII marzo responsabile dell’omicidio del giornalista del Corriere Walter Tobagi. Tornato libero nel 2004, negli ultimi anni si è fatto notare per la sua partecipazione alle iniziative di sostegno al popolo palestinese e per aver partecipato più volte alle contestazioni alla Brigata ebraica durante le celebrazioni del 25 Aprile.
Le posizioni di Giordano, una volta tornato in libertà, sono state più volte estreme. Anche sui social. In passato, ad esempio, aveva pubblicato un post sul leghista Massimiliano Bastoni, allora candidato in Regione (era il 2018), mostrandolo a testa in giù e scrivendo: «Potessi dargli fuoco...». Ancora. Francesco Emilio Giordano aveva accusato il sindaco Beppe Sala di «sionismo».
(...) Uscite come le sue, contro la Brigata Ebraica, avevano portato il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib a commentare: «Io sono uno che tende a non esagerare, a non alzare i toni, ma i segnali sono tanti, e ormai forse siamo al di là dei segnali. Come abbiamo visto il 25 Aprile al corteo milanese c’è un antisemitismo legato alla polemica anti-israeliana che è un evidente mascheramento».
Estratti da ilfoglio.it il 13 ottobre 2023.
"Certo che condanno Hamas" dice Alessandro Di Battista, ex grillino, oggi attivista e giornalista, unico ex esponente del Movimento 5 stelle presente alla manifestazione pro Palestina, organizzata dagli studenti della Sapienza a Roma con lo slogan "Ora e sempre intifada".
Intercettato dal Foglio l'ex grillino parla a ruota libera. "Oggi quello che c'era scritto nella manifestazione è 'il primo giorno di pace, sarà il primo giorno senza occupazione'. Condivido pienamente".
(...)
Di Battista fa finta di niente e va avanti: "Dove eravate negli ultimi 17 anni quando Gaza era sotto assedio?", ci chiede. "Dov'era il sistema informativo quando venivano massacrate queste persone? Quindi certo che lo condanno il terrorismo e lo condanno da sempre, ma per eliminarlo si deve intervenire sulle cause, facendo stragi si aumenta il terrorismo. Oggi, coloro che per anni hanno detto la rabbia aumenterà, vengono considerati giustificazionisti, coloro che hanno ignorato i diritti violati in Cisgiordania e Gaza sono invece i democratici è veramente una roba che è diventata intollerabile" dice Dibattista.
Il riconoscimento di uno stato palestinese è per l'ex grillino l'unica soluzione per fermare questo conflitto. "Io trovo ipocrita, i politici dal Pd in sù e in giù che vanno in tv e di cavarsela dicendo: la soluzione è due stati, due popoli, non hanno mai avuto il coraggio di portare in aula una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina" continua Di Battista.
E sull'assenza in piazza di qualsiasi politico pentastellato o di sinistra, Di Battista risponde: "Non mi importa, faccia questa domanda ai politici. Io ci sto perché ci metto la faccia", conclude.
«Sì, però»: e il postillatore avanza in tv. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 15 ottobre 2023.
Sì, ma… Nel circo mediatico avanza tracotante una nuova figura, è quella del postillatore. Affronta tutte le discussioni, anche le più drammatiche, come quelle a cui assistiamo in questi giorni, con un artificio retorico fra i più subdoli: «La Russia ha invaso l’Ucraina ma la Nato...», «Siamo inorriditi di fronte alla barbarie di Hamas, però dobbiamo ricostruire storicamente il motivo per cui è nato Hamas», e così via.
Questo è lo schema mentale con cui il postillatore pensa di sbaragliare l’interlocutore usando un grimaldello per appropriarsi impunemente dello spazio del giustificazionismo, dell’alibi, della «complessità». È la tecnica usata, tra gli altri, da Michele Santoro, da Elena Basile, da Moni Ovadia, da Alessandro Orsini. È una fallacia logica conosciuta col nome di «accumulo di postille», un tipo di argomentazione per impedire una discussione corretta.
Non si possono giustificare in alcun modo il terrorismo, le mattanze e le carneficine sugli inermi. Non c’è ma che tenga. Chi ha negato le stragi ucraine, Bucha e le altre, è pronto a negare anche Kfar Aza, a colpi di postille. È giusto riflettere sullo squilibrio fra dittatura teocratica e democrazia, sulla striscia «prigione» di Gaza, senza per questo intossicare il diritto di esistere di Ucraina e di Israele con i ma, i però e tutte le altre avversative da talk show.
Da Pio XII ad Hamas: lo strappo tra Israele e Vaticano. L'ambasciata israeliana attacca la nota del patriarca di Gerusalemme sul 7 ottobre, rievocando le carte di Pacelli. Parolin costretto a correre ai ripari. Nico Spuntoni il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La reazione israeliana
Tensioni preesistenti
Il precedente
La mossa di Parolin
Nella settimana successiva agli attacchi terroristici di Hamas i rapporti israelo-vaticani hanno raggiunto livelli di tensione che da tempo non si vedevano, al punto da indurre il cardinale segretario di Stato a scendere in campo personalmente con un'intervista su L'Osservatore Romano e con una visita alla sede dell'ambasciata israeliana presso la Santa Sede. Una decisione presa dopo aver letto il durissimo comunicato che l'ambasciata ha emanato per biasimare la nota dei patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme sul sabato di sangue, giudicata troppo "deludente e frustrante" per la sua "ambiguità linguistica".
La reazione israeliana
A seguito degli attacchi dei terroristi di Hamas ai danni dei civili israeliani, anche il Patriarcato latino di Gerusalemme ha emesso un testo dal titolo "dichiarazione dell'HoC sulla pace e la giustizia in mezzo alle violenze in atto" in cui era scritto che "la nostra fede, che è fondata sugli insegnamenti di Gesù Cristo, ci obbliga a sostenere la cessazione di tutte le attività violente e militari che arrecano danno ai civili sia palestinesi che israeliani".
Troppo poco per l'ambasciata d'Israele presso la Santa Sede che a quel punto ha reagito con il comunicato già citato dove, inoltre, parlando della dichiarazione dei patriarchi si è voluto sottolineare che dalla "sua lettura non si riesce a capire cosa sia successo, chi fossero gli aggressori e chi le vittime. È particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede". Una condanna, dunque, della presa di posizione presa dal patriarca Pierbattista Pizzaballa che solamente pochi giorni prima aveva incontrato l'ambasciatore Raphael Schutz a Roma in occasione della sua prima messa Santa Maria Maggiore da cardinale. Nei giorni successivi il cardinal Pizzaballa ha chiarito che la sua condanna per le atrocità commesse dai terroristi di Hamas è "senza se e senza ma". Pur spegnendo le polemiche il patriarca non ha rinunciato a commentare la nota dell'ambasciata israeliana, giudicandola "eccessiva nei toni e nei contenuti" .
Tensioni preesistenti
Il passaggio più duro della nota dell'ambasciata israeliana, però, è quello finale e sembra più rivolto alla Santa Sede che al patriarcato latino di Gerusalemme. Parlando di un convegno sui nuovi documenti del pontificato di Pio XII organizzato all'Università Gregoriana, l'ambasciata ha chiosato: "A quanto pare, qualche decennio dopo, c'è chi non ha ancora imparato la lezione del recente passato oscuro". Di recente l'archivista Giovanni Coco, lavorando su quelle carte, ha scoperto una lettera del 14 dicembre 1942 in cui il gesuita tedesco anti-hitleriano Lothar Konig avrebbe informato il segretario di Pacelli dell'esistenza di un forno crematorio nazista a Belzec e avrebbe menzionato anche il campo di Auschwitz. Questo ritrovamento è stato presentato come la conferma dei silenzi di Pio XII sulla più grande tragedia del ventesimo secolo.
Il precedente
La nota dell'ambasciata israeliana presso la Santa Sede dopo gli attacchi di Hamas ha riportato le relazioni israelo-vaticane ad un livello di tensioni che non si vedeva da tempo. C'è un precedente rilevante e riguarda sempre la figura di Pio XII. In diverse occasioni, il cardinale José Saraiva Martins ha raccontato della contrarietà dell'ambasciata israeliana presso la Santa Sede alla causa di beatificazione di Pio XII di cui sarebbe stato testimone da prefetto della congregazione per le cause dei santi. Una contrarietà esplicitata dall'allora ambasciatore quando circolò su una rivista di cronaca ecclesiale l'indiscrezione di un imminente beatificazione dell'ultimo Papa romano. La successiva apertura degli archivi vaticani sul pontificato pacelliano e la scoperta di Coco sembrano aver aggiunto elementi in grado di rafforzare quella contrarietà.
La mossa di Parolin
La protesta formale dell'ambasciata per la nota del patriarcato latino di Gerusalemme ha convinto la Segreteria di Stato a prendere una posizione più netta su quanto sta accadendo in Terra Santa. Nell'intervista a L'Osservatore Romano, il cardinale Parolin ha voluto menzionare il gruppo terrorista responsabile delle atrocità del 7 ottobre: "L'attacco terroristico compiuto da Hamas (...) è disumano", ha detto il porporato veneto. Parolin poi ha espresso l'"ansia" della Santa Sede per gli israeliani rapiti e tenuti in ostaggio a Gaza.
La posizione ufficiale sulla questione israelo-palestinese resta quella dei"due Stati", ma Parolin riconosce la "legittima difesa" di Israele precisando però che nel suo esercizio sarebbe "giusto" che "non metta in pericolo i civili palestinesi a Gaza". Oltre all'intervista, anche la visita all'ambasciatore Raphael Schutz. Il filo diretto tra la Segreteria di Stato ed Israele era già caldo prima degli attacchi del 7 ottobre: la necessità di chiarire alcuni episodi di intolleranza ai danni di fedeli cristiani in Terra Santa per mano di pochi estremisti religiosi aveva portato ad una telefonata tra il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali.
Nella telefonata, avvenuta proprio il giorno prima degli attacchi, il ministro Cohen aveva condannato gli incidenti contro i cristiani e ribadito la volontà d'Israele di difendere la libertà di religione e la libertà di culto. Monsignor Gallagher, peraltro, è atteso in Israele proprio per il mese prossimo per una visita ufficiale che vedrà con ogni probabilità la crisi attuale al centro dell'agenda. Intanto, muovendosi in proprio ed anche in anticipo rispetto alla Santa Sede, il cardinale Sean Patrick O'Malley, arcivescovo di Boston, ha voluto rilasciare una dichiarazione di condanna delle azioni criminali di Hamas molto netta, biasimando ogni ambiguità o incertezza. "Questo atto di aggressione - ha scritto il cardinale statunitense - richiede una chiara condanna in termini umani, morali e legali. Sia lo scopo dell’attacco che i suoi metodi barbari sono privi di giustificazione morale o legale. Non c’è spazio per ambiguità morali su questo tema". Una presa di posizione apprezzata dall'ambasciata israeliana presso la Santa Sede.
Estratto dell’articolo di Federico Berni e Pierpaolo Lio per corriere.it sabato 14 ottobre 2023.
Alla manifestazione pro Palestina a Milano ha partecipato anche Davide Piccardo, ex coordinatore del Caim (Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano) e direttore del magazine La Luce. «Proporre la soluzione finale contro Gaza, definire i palestinesi non umani è una cosa da nazisti - ha spiegato -, che è quello che ha fatto il ministro della Difesa israeliano». Al termine del corteo dal palco gli organizzatori hanno criticato la scelta del Comune di esporre le due bandiere di Israele e della pace e sono partiti dei fischi da parte dei manifesti rimasti.
Un minuto di silenzio per le vittime della guerra
I manifestanti, circa 4 mila secondo le autorità, sono arrivati davanti al parco Trotter e rimangono al momento in presidio. «A Gaza stanno uccidendo bambini, stanno bruciando donne con le bombe al fosforo bianco - hanno urlato gli organizzatori al megafono -, che sono condannate a livello internazionale. La loro colpa è di essere palestinesi». Nel corso della manifestazione ci sono stati insulti per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e sono stati scanditi slogan come «Israele fascista stato terrorista». Al termine del corteo i manifestanti hanno tributato un minuto di silenzio per le vittime della guerra, seguito da un applauso.
Scritte pro Palestina sui muri di via Giacosa
Anche l'ultimo troncone del corteo sta arrivando a destinazione. Alcuni manifestanti hanno lasciato scritte pro Palestina e anti Israele su un muro di via Giacosa.
Il corteo arrivato al parco Trotter
Il corteo, che si è via via ingrossato fino a raccogliere tremila manifestanti, è arrivato al parco Trotter, destinazione finale del corteo pro Palestina.
Risuonano le note di «Bella ciao»
I partecipanti urlano slogan contro Israele e hanno sfilato anche sulle note di Bella ciao. «Gli ebrei li abbiamo accolti noi nella nostra terra quando non lo li voleva nessuno - dicono gli organizzatori - . E adesso ci dicono che siamo terroristi».
Un petardo esploso in piazzale Loreto
Un petardo è esploso in piazzale Loreto, verso la coda del corteo, la parte occupata dalla rete antifascista Movimento per la casa e dai Cobas. Non si registrano feriti.
Bandiere e cartelli tra la folla
Sono circa 2 mila i partecipanti al corteo (qui la diretta video). Scandiscono «Intifada fino alla vittoria». «Noi non siamo antisemiti, noi siamo per il rispetto del diritto internazionale - dice un organizzatore col megafono dal camioncino -, non ce l'abbiamo con gli ebrei ma con l'occupazione sionista che massacra tutti i giorni e compie un genocidio nei Territori palestinesi. Sono state sterminate famiglie e rasi al suolo territori. Gettando fosforo bianco sulle case già distrutte».
Cori e striscioni contro Israele
Urlano «free free Palestine», «Netanyahu assassino» e «Allah akbar». I manifestanti del corteo pro Palestina, in programma sabato pomeriggio a Milano, si sono riuniti all’ombra della Mela di Pistoletto di fronte alla stazione Centrale. Con i primi cori e bandiere, sono spuntati anche cartelli di condanna alle operazioni militari israeliane nella striscia di Gaza. «Antisionismo non è antisemitismo», è la scritta mostrata da un manifestante mentre nei cori Israele è descritto come «Stato criminale». Il corteo organizzato da un gruppo di associazioni di palestinesi in Italia, ma a cui hanno aderito anche alcune anime del mondo antagonista e della sinistra, sfilerà per le strade della città fino a raggiungere via Padova, dove è prevista la conclusione. Alla partenza, attorno alle 15.30, alcune centinaia di persone si sono accodate dietro lo striscione «Fermiamo il genocidio a Gaza, salviamo Gaza».
DIPARTIMENTO SCIENZE SOCIALI FEDERICO II NAPOLI PROF BOCCIANO DOCUMENTO DI CONDANNA A HAMAS. Da stylo24.it/ - Estratti sabato 14 ottobre 2023.
Tutto il mondo sta condannando, senza se e senza ma, l’attacco di Hamas alle città israeliane. Un vile attentato terroristico che ha colpito, bambini, ragazzi, civili inermi intenti a ballare, a lavorare, a vivere la loro quotidianità. L’Occidente si è schierato, senza tentennamenti al fianco di Tel Aviv e nel 99% dei casi si sono levate parole dure nei confronti dell’atto.
Eppure, proprio a Napoli, è accaduto qualcosa che ci ha lasciato sgomenti. Il sociologo, giornalista, conferenziere e professore universitario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Luigi Caramiello, più volte protagonista del dibattito cittadino, aveva presentato nei giorni scorsi al consiglio del Dipartimento Scienze Sociali della Federico II, la richiesta di votazione per una mozione che condannava duramente l’accaduto. Il contenuto della mozione
Con questo atto il dipartimento avrebbe espresso «la più ferma e risoluta condanna dell’aggressione criminale compiuta da Hamas sul territorio di Israele, massacrando civili inermi, bambini, donne, anziani, con modalità atroci, che ci riportano ai momenti più bui della storia umana».
(...) Ma proprio da chi non ti aspetti, quattro docenti universitari, arriva la «bocciatura». I professori, infatti, hanno deciso di pronunciare un discorso filo-terroristi e la direttrice del dipartimento ha, incredibilmente, rifiutato di mettere la mozione al voto.
(...) Eppure tre giorni fa il ministro dell’istruzione Valditara era stato chiaro annunciando l’invio di ispettori nei licei milanesi dove alcuni studenti avevano manifestato in favore dei terroristi. A Napoli, però, la situazione sembra ben più grave, perché, non ci si trova di fronte a qualche studente impreparato e scapigliato ma a docenti adulti che dovrebbero condannare il terrorismo a prescindere dal colore politico o dai sentimenti di partigianeria.
Divieti, arresti ed espulsioni: in Francia la repressione del dissenso è fuori controllo. Monica Cillerai su L'Indipendente martedì 24 ottobre 2023.
Su richiesta diretta del ministro degli Interni Gérald Darmanin, in Francia sono state interdette tutte le manifestazioni a sostegno della Palestina tra il 12 e il 19 ottobre. Nella direttiva di Darmanin, trasmessa all’insieme dei prefetti con un telegramma, si legge che “Le manifestazioni pro-palestinesi devono essere vietate e l’organizzazione di queste manifestazioni interdette dovrebbe comportare fermi e/o arresti”. Inoltre, aggiunge il comunicato, “gli autori stranieri [di queste infrazioni, ndt] vedranno sistematicamente ritirarsi il loro permesso di soggiorno e la loro espulsione verrà messa in atto immediatamente”. Nonostante i divieti, manifestazioni e presidi hanno avuto luogo in molte città, tra le quali Parigi, Lille, Renne, Marsiglia. Per reprimere le proteste sono fioccate multe da 135 euro, ma anche “nasse” (i blocchi degli agenti per impedire di raggiungere o lasciare un concentramento) e cariche e sono stati utilizzati lacrimogeni e idranti. Numerosi i fermi e le garde-à-vue nel Paese.
La Francia si conferma dunque apri-fila nella repressione del dissenso in Europa: non bastano le flashball, le granate, i lacrimogeni e i manganelli che sempre più spesso fanno decine di feriti nei cortei, ma si arriva anche a vietare in anticipo le manifestazioni che non sono apprezzate dal governo. Mercoledì 18 ottobre, il Consiglio di Stato ha ricordato che “spetta ai prefetti valutare, caso per caso, se il rischio di disordine pubblico giustifica un divieto”. Pur respingendo il ricorso presentato contro il testo del ministro dell’Interno, il Consiglio di Stato ha comunque sottolineato “la sua formulazione approssimativa”, affermando che “nessun divieto può essere basato solo su questo telegramma” o “sul solo fatto che la manifestazione mira a sostenere la popolazione palestinese”. Da giovedì 19 alcune manifestazioni in solidarietà alla Palestina sono state permesse, altre ancora vietate. Domenica 22 ottobre circa 15mila persone secondo la Prefettura – il doppio secondo gli organizzatori – hanno sfilato per le strade di Parigi, nel primo corteo autorizzato nella capitale dall’inizio del conflitto.
Il telegramma inviato da Gérald Darmanin equivale a un “divieto di principio e assoluto”, che costituisce “una grave violazione della libertà di espressione“, ha sostenuto uno dei due avvocati del Comité Action Palestine, che aveva presentato il ricorso al Consiglio di Stato. “Non viene menzionata alcuna limitazione in termini di data”, né in termini di luogo. “È un passo che non è mai stato fatto” quello di avere “un regime di divieto legato a un oggetto, un oggetto che non è nemmeno definito”, ha aggiunto l’avvocato. Una negazione diretta del diritto di manifestare che ancora non aveva precedenti in Francia. Era già accaduto che venissero vietate delle manifestazioni tacciate come “problematiche all’ordine pubblico”, una pratica arbitraria che sta crescendo nel corso dell’ultimo anno sul suolo francese. Ma è la prima volta che è una tematica ad essere presa di mira. Non si può dare sostegno e solidarietà alla Palestina: questo è il messaggio del governo di Macron ma anche di quasi tutti i partiti in Parlamento, che non si distanziano dall’appoggio di fatto incondizionato dichiarato dal presidente a Israele nonostante il massacro sempre più evidente della popolazione della Striscia di Gaza e il blocco totale imposto, contrario al diritto internazionale. La sola voce discordante è rappresentata da La France Insoumise, il partito di Mélenchon, che dopo aver dichiarato in un comunicato che “L’offensiva armata delle forze palestinesi guidate da Hamas si inserisce in un contesto di intensificazione della politica di occupazione israeliana a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est” (senza dunque parlare esplicitamente di “terrorismo”), si è trovata al centro di una condanna politica di discredito e di gogna mediatica. Gli attacchi ai comunicati si sono ripetuti, fino a che il ministro degli Interni Gérald Darmanin è arrivato anche ad annunciare che il partito Nouveau parti anticapitaliste (NPA) è indagato per apologia di terrorismo per aver ribadito il suo “sostegno ai palestinesi e ai mezzi di resistenza che hanno scelto”.
Le azioni del governo contro la solidarietà pro palestinese toccano anche i singoli attivisti; il 16 ottobre Mariam Abudaqa, 72enne attivista per i diritti delle donne a Gaza e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), è stata arrestata a Marsiglia e si è vista notificare un provvedimento di espulsione “d’urgenza assoluta”. Avrebbe dovuto tenere una conferenza sulle condizioni delle donne a Gaza. Per Darmanin, la partecipazione dell’attivista a eventi e manifestazioni “rischia di accendere tensioni” e “di creare gravi problemi di ordine pubblico”. Quindi, via alla sua espulsione. Venerdì 19 è stato il turno di due sindacalisti della CGT (Confédération générale du travail), che si sono trovati la polizia alla porta alle 6 del mattino. Portati in caserma, sono stati messi in stato di fermo per “apologia al terrorismo” e “incitamento all’odio e alla violenza” per un volantino che chiamava a manifestare a Lille in sostegno al popolo palestinese in lotta contro l’occupazione israeliana. Anche la manifestazione annuale per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah – comunista libanese e combattente della resistenza palestinese, in carcere in Francia dal 1984 nonostante sia liberabile dal 1999 – non ha potuto avere luogo come previsto sabato 21 al carcere di Lannemezan, a causa del divieto della prefettura.
La repressione verso chi non è in linea con la politica governativa sulla questione palestinese è in aumento, ma non è nuova. Già a febbraio dell’anno scorso due organizzazioni di solidarietà con la resistenza del popolo palestinese, il Collectif Palestine Vaincra e il Comité Action Palestine erano state minacciate di scioglimento da Darmanin per supposto “incitamento alla discriminazione, all’odio e alla violenza”. Si tratta di un salto di qualità nella strategia di repressione del dissenso politico e sociale. Individui, sindacati, partiti, associazioni, tutti rischiano di essere colpiti dalla repressione se si rifiutano di unirsi alle scelte del governo e dello stato francese. Oggi a essere repressa è la solidarietà alla Palestina; domani, potrebbe essere qualsiasi altra tematica scomoda alla politica dell’Esagono. Gli attacchi ai comunicati e la gogna mediatica, le minacce di dissoluzione, il vietare le manifestazioni per il rischio di disordini, sono tutte pratiche che si stanno verificando sempre più di frequente. Ormai non sono nemmeno più le azioni tacciate come violente ad essere strumentalizzate e condannate: bastano dichiarazioni, prese di posizione e la semplice scelta di manifestare il proprio dissenso per venire attaccati e repressi dalla Stato francese.
Elemento di particolare interesse è poi l’attacco mirato alla libertà di espressione e di manifestazione verso gli stranieri, messo nero su bianco dallo stesso ministro degli Interni. Darmanin di fatto utilizza il ricatto del permesso di soggiorno come arma per limitare la partecipazione e l’organizzazione degli “stranieri” a manifestazioni non gradite. La minaccia dell’espulsione verso chi prova a protestare è da sempre utilizzata in Francia, ma è con tutta probabilità la prima volta che si legge chiaramente su un comunicato ministeriale.
L’escalation della repressione in Francia è iniziata qualche mese fa. Prima, con l’interdizione della manifestazione contro i mega bacini idrici di Deux-Sevres (Saint-Soline) del 25 marzo e l’enorme violenza poliziesca contro i manifestanti, che ha provocato più di 200 feriti, di cui vari permanenti e due persone in coma. Poi, con la richiesta di dissoluzione del movimento ecologista Soulèvement de la Terre, colpevole di organizzare manifestazioni contro numerosi mega-progetti su tutto il territorio francese.
Poco più di due mesi dopo, anche la manifestazione contro la linea ad Alta Velocità Torino-Lione (TAV) in Maurienne era stata raggiunta da un decreto prefettizio che vietava sia il campeggio che il corteo. In quell’occasione numerosi manifestanti italiani erano stati bloccati alla frontiera e rispediti in Italia. Molti si sono ritrovati un’ “interdizione all’ingresso e al soggiorno sul territorio francese“, chi per il giorno del corteo, chi per tutta la mobilitazione. Per un altro centinaio di attivisti, una lista di nomi probabilmente passata dalla Digos italiana alle autorità francesi, l’interdizione non aveva nemmeno una data di scadenza: l’accesso in Francia gli era negato e basta. L’accusa che avrebbe giustificato questi speciali fogli di via riguarda la “possibile partecipazione alla manifestazione” e il rischio di “integrare un gruppo avente vocazione a fomentare un’azione violenta”. In pratica, bastava essere schedato dalla polizia italiana come appartenente ai centri sociali o al movimento No TAV per vedersi negare la propria libertà di manifestare e perfino di accedere al territorio d’Oltralpe.
Una dinamica rivista almeno in un’altra manifestazione ad agosto, quando è stata vietata la mobilitazione contro le frontiere denominata “Passamontagna” al confine italo francese del Monginevro. Anche in quella situazione il governo francese ha scelto di interdire sia il campeggio che la manifestazione, per il rischio di sfociare in violenze. Ormai, basta il “presupposto rischio” per negare la libertà di espressione e protesta, che implica anche la libertà della polizia di caricare e reprimere per disperdere una manifestazione “non autorizzata”.
Le forze di polizia hanno sempre più libertà, armi e potere, mentre la libertà di manifestare viene ormai messa in discussione alla sua radice. Con l’omicidio di Nahel, il giovane 17enne di origini algerine ucciso dalla polizia per non aver rispettato un fermo stradale e la violenta repressione nelle banlieu per sedare le rivolte scoppiate nei giorni successivi si chiude il cerchio. Il divieto di manifestare imposto contro le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina, le minacce di dissoluzione di associazioni e comitati, le denunce e le accuse si aggiungono all’escalation repressiva che sta raggiungendo un livello mai visto prima in Francia. [di Monica Cillerai]
La censura anti-palestinese colpisce anche sui social. Valeria Casolaro su L'Indipendente martedì 17 ottobre 2023.
A seguito dell’esplosione del conflitto israelo-palestinese, lo scorso 7 ottobre, in tutto il mondo si è sollevato un coro di voci a sostegno della Palestina, per chiedere la fine dell’aggressione israeliana a Gaza e dell’apartheid contro i palestinesi. Tali manifestazioni, tuttavia, sono spesso state criminalizzate con il pretesto che contenessero un implicito sostegno ad Hamas, un’opera di mistificazione volta a reprimere qualsiasi forma di dissenso contro Israele. Dal caso del ministro della Cultura Sangiuliano, che ha vietato di esporre bandiere palestinesi sui monumenti italiani in quanto simboli «anti-Israele», a quello del governo francese, che ha proibito qualsiasi manifestazione di piazza “pro-Palestina”, passando per le dimissioni di Moni Ovadia da direttore del Teatro di Ferrara per le sue posizioni critiche su Israele e dalla sospensione del premio letterario ad Adania Shibli, scrittrice palestinese, affinché fosse data maggiore visibilità a «voci israeliane ed ebraiche», gli esempi sono innumerevoli. La censura anti-palestinese non poteva non colpire anche i social media, dove sempre più utenti denunciano la rimozione o l’oscuramento di contenuti per il semplice fatto di riportare posizioni a sostegno della causa palestinese. Una problematica segnalata al nostro giornale anche da molti lettori de L’Indipendente, tra i quali anche Gabriele Lorenzoni, ex parlamentare del M5S.
Uno dei casi più eclatanti è probabilmente quello che ha riguardato Motaz Azaiza, giornalista palestinese residente a Gaza e collaboratore dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) che, attraverso la propria pagina Instagram, documenta giorno dopo giorno la realtà dell’aggressione israeliana all’interno della Striscia. Il suo profilo è stato oscurato diverse volte, al punto da rendere necessaria la creazione di un profilo secondario. La stessa cosa è successa all’attivista italo-palestinese Karem Rohana, che sulla propria pagina pubblicava quotidianamente aggiornamenti sulla guerra e riflessioni sulla questione palestinese. «Il mio profilo era già stato chiuso due volte in via preventiva dopo la segnalazione di un’utente, questa è la terza volta che succede – spiega a L’Indipendente Karem – In genere nel giro di un giorno fanno i controlli e lo riattivano, ora sono passati tre giorni e ancora niente. La cosa assurda è che facciano una cosa del genere in via preventiva, non credo si tratti di una procedura normale, se qualcuno segnala il profilo di Chiara Ferragni non è che di punto in bianco glielo chiudono. Peraltro le prime due volte avevano già avuto modo di verificare che non vi sono contenuti vietati all’interno della mia pagina, quindi è inspiegabile perché questa cosa continui a succedere. Prima che me lo bloccassero, tra l’altro, diversi utenti avevano segnalato di non riuscire a vedere o condividere i contenuti che pubblicavo. Io in 24 ore facevo anche 50-60 mila visualizzazioni, all’improvviso sono passate a 100, capisci che qualcosa non va». Per di più, una volta chiuso il profilo «non riuscivo a rifarlo da nessun browser, né col numero israeliano, né con quello italiano, né con nessuna mail. Ho dovuto chiedere a mio fratello, che sta in Italia, di crearne uno e mandarmi le credenziali per accedere». Le stesse problematiche sono state segnalate al nostro giornale da diversi lettori.
Gli utenti che hanno denunciato problematiche simili sono sparsi in tutto il mondo. La problematica è comune: a seguito della pubblicazione di contenuti filo-palestinesi, può capitare di essere sospesi dalle piattaforme o subire shadow banning (letteralmente: divieto ombra), processo per il quale la piattaforma limita la visibilità di un post di un utente senza notificarlo. Su Instagram, moltissimi hanno denunciato come le visualizzazioni delle proprie storie siano calate drasticamente a seguito della pubblicazione di hashtag o contenuti che avessero a che fare con la difesa della Palestina. La stessa cosa accade anche ai siti di informazione: Mondoweiss, sito di informazione dedicato alla Palestina, ha denunciato la temporanea sospensione di alcuni dei propri canali social. Nadim Nashif, direttore esecutivo e cofondatore di 7amleh, organizzazione no profit palestinese per i diritti digitali, ha dichiarato che l’organizzazione ha «ripetutamente documentato» come i contenuti palestinesi vengano eccessivamente moderati e controllati dalle principali piattaforme online. «Nel contesto più recente – ha dichiarato Nashif – abbiamo notato un doppio standard nel modo in cui Meta ha nascosto i risultati di ricerca su un hashtag arabo onnicomprensivo associato alla recente escalation, ma non ha intrapreso un’azione simile sull’hashtag parallelo in ebraico, perché era usato principalmente da attori statali che vengono trattati in modo preferenziale».
Dal canto suo, Meta (che già in passato è stata ripetutamente accusata di shadow banning e di censura) ha fatto sapere di aver istituito un “centro operativo speciale” composto da “esperti”, tra i quali “persone che parlano correntemente l’ebraico e l’arabo”, per monitorare la situazione, iniziativa presa proprio nel contesto dell’attuale conflitto per contenere la “disinformazione” al riguardo. L’azienda ha anche ammesso che alcuni contenuti riguardanti la guerra tra Israele e Palestina sono stati oscurati “per errore”. Inoltre, sia Meta (quindi Facebook e Instagram) che TikTok hanno fatto sapere di aver bandito Hamas dalle proprie piattaforme e di aver eliminato i contenuti ad esso affiliati, senza tuttavia specificare in base a quale criterio un contenuto possa essere ritenuto affiliato o meno al gruppo. Nel frattempo, l’Unione europea ha messo sotto inchiesta X (ex Twitter) proprio perché non avrebbe censurato contenuti filo-palestinesi. [di Valeria Casolaro]
In tutta Italia si stanno svolgendo manifestazioni per il popolo palestinese. Roberto Demaio su L'Indipendente sabato 14 ottobre 2023.
Proseguono in tutta Italia le manifestazioni in risposta all’appello alla solidarietà con il popolo palestinese. Dopo Napoli, Roma e Bologna, oggi tocca ad altre 10 città tra cui Torino, Milano e Firenze. Nel primo pomeriggio, a Torino si svolgerà il corteo in Piazza Crispi alle ore 15:00, mentre alle ore 15:30 si manifesterà a Milano in Piazza Duca d’Aosta ed a Vicenza presso il Piazzale De Gasperi Porta Castello. Più tardi, alle 16:00, si svolgeranno altri due cortei a Brescia in Piazza Garibaldi ed a Bari in Piazza Cesare battisti. Nel tardo pomeriggio invece, si manifesterà alle ore 17:00 a Catania in via Etnea angolo via Prefettura ed a Cagliari in Piazza Garibaldi, mentre alle 18:00 sono previsti i presidi a Firenze in Piazza S. Maria Novella e a Salerno in Piazza Ferrovia. Tutte manifestazioni con un obiettivo comune: mostrare vicinanza e solidarietà al popolo palestinese che da giorni è vittima innocente del conflitto tra Israele ed Hamas e che proprio in queste ore sta tentando l’evacuazione dopo l’ultimatum dell’esercito israeliano, che ha annunciato che il Nord della Striscia di Gaza diventerà a breve zona di operazioni militari.
«Palestina libera! Nella striscia di Gaza la gente viene massacrata, lasciata morire senza acqua, cibo ed elettricità. Un genocidio sotto gli occhi del mondo». Sono queste alcune delle frasi pronunciate dai manifestanti a Roma ieri, dove centinaia di persone si sono riunite in Piazza Vittorio per mostrare sostegno al popolo palestinese. Corteo che, quando ha provato a dirigersi verso il luogo dove era in corso un congresso delle destre giovanili europee, ha subito la carica della polizia, che è stata supportata da due blindati ed è culminata con calci e manganellate contro i manifestanti e gli studenti dei collettivi. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva dichiarato ieri che «al momento non c’è un livello particolare di allerta ma i servizi di sicurezza sono stati comunque allertati anche sul rischio emulazione».
Rimane da vedere quindi come e se l’Italia deciderà di limitare le manifestazioni e il sostegno al popolo palestinese, visto che altri paesi europei hanno già deciso a riguardo: in Francia il ministero dell’Interno francese Gèrald Darmanin ha proibito ogni genere di manifestazione contro l’assedio e i bombardamenti israeliani che hanno causato la morte di più di 1.600 persone nella striscia di Gaza di cui, secondo la rete televisiva Al Jazeera, circa la metà sono donne e bambini. A Parigi i manifestanti che hanno deciso comunque di scendere in piazza sono stati attaccati dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno usato manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni e hanno effettuato dieci fermi. Inoltre, il Ministero degli Interni ha annunciato l’apertura di un iter che porterà alla chiusura e allo scioglimento di alcune associazioni e organizzazioni accusate di apologia dell’antisemitismo o del terrorismo. Il ministro Darmanin ha dichiarato anche che il Nuovo Partito Anticapitalista – una formazione di sinistra radicale d’opposizione – è oggetto d’indagine in quanto accusato di “favoreggiamento al terrorismo” e che tutti i cittadini stranieri autori di eventuali reati legati alla propaganda filopalestinese «devono vedersi sistematicamente revocato il permesso di soggiorno ed essere espulsi». In Germania per ora sono proibiti solo i cortei affini ad Hamas, anche se mercoledì due manifestazioni a sostegno dei diritti del popolo palestinese sono state vietate per “motivi di ordine pubblico”. Il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’associazione Samidoun e che “chiunque bruci le bandiere d’Israele commette un reato e verrà punito”. In Austria la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione perché – come spiegato dal capo della polizia austriaca – lo slogan usato per pubblicizzare la protesta è affine ad Hamas. In Ungheria il primo ministro Viktor Orban ha dichiarato che «non consentirà alcune manifestazioni a sostegno delle organizzazioni terroristiche» mentre in Inghilterra il ministro dell’Interno Suella Braveman ha esortato la polizia ad essere inflessibile nei confronti di “comportamenti e slogan ritenuti inaccettabili” e a «valutare se sventolare la bandiera palestinese possa essere considerato un reato assimilabile all’esaltazione del terrorismo». [di Roberto Demaio]
Complessità addio. Gli ebrei non hanno nemmeno il diritto di piangere i propri morti. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 14 Ottobre 2023
Mentre alla Statale di Milano manifestanti inneggiano all’Intifada, l’Unione degli studenti pubblica un documento contro «l’entità sionista» in cui condanna ogni forma di solidarietà con lo Stato ebraico. Ma questi giovani sono i figli di questa Italia
I ragazzi che davanti alla Statale di Milano gridavano ieri «intifada fino alla vittoria» sventolando bandiere palestinesi potrebbero essere solo giovani e ingenui, ma chi ha scritto «l’editoriale» pubblicato sulla pagina Instagram dell’Unione degli studenti (storica associazione degli studenti medi di sinistra), ammesso e non concesso che sia ancora giovane, di sicuro non è ingenuo.
A qualificare il testo basterebbe il fatto che Israele è definita ripetutamente «l’entità sionista». Ma c’è anche di peggio. «Quello che sta succedendo negli ultimi giorni – si legge nell’articolo – è il frutto di anni di soprusi da parte dell’entità sionista che hanno portato all’inevitabile reazione e difesa da parte del popolo palestinese con tutte le sue contraddizioni (…). Non possiamo illuderci che la situazione si risolva con l’ennesima risoluzione Onu (…). Non possiamo neppure, purtroppo, non constatare come le vittime civili in questi giorni come negli anni e nei decenni, siano il più terribile frutto della violenza imperialista endemica al sistema di oppressione sionista».
Ce ne sarebbe abbastanza per chiuderla qui, ma vi perdereste il gran finale: «Ogni commento di solidarietà espresso a Israele dagli stati occidentali, ogni bandiera israeliana proiettata sui palazzi simbolo delle istituzioni equivale a dichiararsi apertamente razzisti e sionisti, a legittimare ogni pratica di violenza sistemica nei confronti del popolo palestinese (…). Tutta la nostra solidarietà va al popolo e alla lotta palestinese. Stiamo dalla parte dei popoli oppressi che si rivoltano e rispondono all’oppressore con ogni mezzo necessario. Viva la resistenza!».
Evidentemente per gli estensori del documento rapire, torturare e uccidere ragazzi, vecchi e persino bambini innocenti, come hanno fatto i miliziani di Hamas in Israele, è un «mezzo necessario», pienamente giustificato dal fine. Immagino dunque che lo stesso valga per gli attentati a cittadini ebrei di ogni parte del mondo, accoltellati o presi a mitragliate al grido di Allah Akbar. E mi domando che differenza ci sia dunque con Al Qaeda o con l’Isis: non si battono anche loro, con ogni mezzo necessario, contro gli oppressori sionisti-imperialisti?
In pratica, sulla base di una ricostruzione assai semplificata dei torti e delle ragioni di israeliani, palestinesi e Stati arabi confinanti, questione intricatissima che rimonta ad almeno settant’anni fa, si può arrivare a giustificare senza esitazione il massacro deliberato di mille e duecento civili inermi, ragazzi di vent’anni colpevoli solo di partecipare a un rave, anziani coniugi e persino neonati (che però, attenzione, non sarebbero stati decapitati, bensì solamente sgozzati: certamente anche questo un «mezzo necessario» nella lotta contro l’oppressione imperialista). E poi accusano l’occidente di «disumanizzare» le vittime palestinesi.
Naturalmente il problema non sono gli studenti. Il problema è che questi giovani sono i figli legittimi di questa Italia. Per una parte consistente del mondo dell’informazione, della politica e della cultura del nostro Paese, infatti, il conflitto israelo-palestinese – una delle vicende più intricate e controverse della storia umana – è la cosa più semplice del mondo: da una parte ci sono gli oppressori e dall’altra gli oppressi, punto e basta. Ovviamente, sono gli stessi che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, avvenuta sotto i nostri occhi e senza alcun pretesto plausibile, continuano a ripetere che le cose sono «più complesse».
In questo caso, invece, niente da fare. Non c’è argomento o dato di fatto che valga a complicare anche solo minimamente il quadro (ad esempio i modi in cui i palestinesi hanno reagito a ogni offerta di pace, ritirata parziale, cessione territoriale da parte israeliana negli ultimi trent’anni, tutti più o meno riassumibili nello slogan sopracitato: intifada fino alla vittoria). All’indomani della più efferata strage di ebrei dai tempi dell’Olocausto, anche solo mostrare un briciolo di umana solidarietà, a quanto pare, è inaccettabile: gli ebrei non hanno nemmeno il diritto di piangere i propri morti.
Soldi per il terrore. La rete europea di Hamas, le complicità italiane e le solite debolezze nostrane. Massimiliano Coccia su L'Inkiesta il 14 Ottobre 2023
Mohammed Hannoun è noto ai servizi di intelligence di mezza Europa e di Israele che ogni anno organizza conferenze con le associazioni che sostengono i terroristi. Noi però non facciamo nulla per fermarlo, al contrario di altri paesi
Quando nel dicembre del 2021 su Repubblica scrissi della rete di associazioni e organizzazioni non governative che in molti Paesi europei e in Italia utilizzavano le attività caritatevoli per inviare denaro ad Hamas nella striscia di Gaza, in pochi misero la questione al centro del dibattito politico. Nonostante ci fosse stata la chiusura di un conto corrente bancario dell’Associazione Benefica di solidarietà con il popolo palestinese – Odv, capitanata dall’architetto Mohammed Hannoun, per svariate segnalazioni dell’antiriciclaggio, tutto rimase stipato nelle discussioni per gli addetti ai lavori. Fiorirono numerose interrogazioni parlamentari bipartisan ma nessun ministro dell’Interno ha mai dato risposta alla richiesta di chiarimenti.
La reazione da parte dell’architetto filo-Hamas Hannoun fu abbastanza standard, minacciò querele (che non arrivarono mai) e poi si rimise al lavoro organizzando viaggi nei campi profughi gestiti dalla Jihad e da Hamas, che videro la partecipazione tra gli altri di Alessandro Di Battista e della capogruppo in commissione Antimafia del Movimento Cinque 5 Stefania Ascari. Tuttavia la rete di vicinanza politica di Hannoun nel corso degli anni lo ha visto intrattenere incontri e rapporti con vari personaggi da Laura Boldrini a Stefano Fassina passando per Nicola Fratoianni.
Il personaggio, noto ai servizi di intelligence di mezza Europa e di Israele, è anche l’organizzatore di una conferenza annuale che mette insieme tutta la galassia delle associazioni pro-Hamas sul suolo europeo che lo scorso anno ha avuto proprio Stefania Ascari come ospite d’onore. A luglio di quest’anno, a convalidare le ipotesi investigative tracciate dalle unità antiriciclaggio europee è arrivato anche il ministero della Difesa di Israele, che ha chiesto al nostro Paese il sequestro di cinquecentomila dollari che sono stati trasferiti da Hamas ad Hannoun, definito dal ministro Yoav Galant «leader dell’organizzazione terroristica Pcpa – Conferenza popolare per la fratellanza palestinese – affiliata ad Hamas e capo dell’associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese».
Una misura restrittiva che però al momento sembra non aver trovato riscontri nel nostro Paese. Da luglio infatti nessuna Procura, né quella Nazionale Antimafia e Antiterrorismo né quella di Genova, ha agito dando seguito alla richiesta israeliana e dalle parti della Guardia di Finanza nessuno sa nulla. Anche per questo motivo Hannoun è libero di organizzare in queste ore manifestazioni a Milano e Genova che inneggiano all’Intifada fino alla vittoria e lanciare una nuova colletta per Gaza, che già in queste ore sta raccogliendo denaro sul suolo italiano.
L’Italia ancora una volta si dimostra un ventre molle per il fondamentalismo islamico, abituati forse alla dottrina del lodo Moro, gli emissari del terrore nel nostro Paese fanno un po’ quello che vogliono. Ma non è così nel resto d’Europa. In Olanda ad esempio, la segnalazione dello Shin Bet, che ha colpito uno dei sodali di Hannoun, Amin Abu Rashed, ha portato al sequestro di centocinquantasette mila euro in contanti rivenuti in casa e in ufficio e al blocco del trasferimento di cinque milioni di euro verso Hamas. Il leader di Hamas in Olanda, condotto in carcere, ha sostenuto che quelle somme sono il frutto delle collette per gli orfani di Gaza. Abu Rashed, nonostante la campagna di mobilitazione in suo favore, è ancora detenuto, nella prima udienza lo scorso 26 settembre si è rifiutato di rispondere alle domande dei giudici e la prossima udienza è fissata per dicembre.
Da molto tempo invece la Germania ha messo in campo misure di repressione e controllo sulle Ong che intrattengono rapporti con la striscia di Gaza e qualche anno fa l’International Association for Humanitarian Aid, fu disciolta e il suo patrimonio sequestrato per aver trasferito prima alla Società Islamica di Gaza e poi alla Fondazione palestinese Salam, oltre due milioni e mezzo di euro. I legali rappresentati dell’associazione hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro il governo tedesco che il 10 ottobre ha emesso il suo verdetto confermando l’operato della magistratura tedesca, affermando che è stato debitamente accertato che l’associazione richiedente, pur continuando a presentare le proprie attività sotto l’apparenza di aiuti umanitari, ha consapevolmente sostenuto il terrorismo internazionale, direttamente o indirettamente. Per i magistrati di Strasburgo tale condotta è incompatibile con i valori fondamentali della Convenzione. Inoltre, appuntano i giudici nella sentenza, né i procedimenti nazionali né nel ricorso alla Corte, l’associazione si era dissociata dagli obiettivi e dalle azioni violente di Hamas.
Questa pluralità di situazioni e di eccezioni ci racconta come la lotta contro il terrorismo e le sue centrali operative in Europa è uno dei fronti più importanti per togliere ad Hamas e alla Fratellanza Musulmana i canali di approvvigionamento che ingrossano le fila del potere mediatico, della propaganda, del welfare nei confronti delle famiglie dei terroristi, un fronte in cui tutti siamo esposti.
I responsabili e gli altri. L’inedita convergenza tra maggioranza e opposizione su Israele taglia fuori solo i picchiatelli. Mario Lavia su L'Inkiesta il 14 Ottobre 2023
I partiti hanno trovato un terreno comune sull’unica linea che abbia un senso: condannare Hamas. Gli unici a non capire, o a fare finta di niente, sono Lega e Cinquestelle
Si è creato, sulla tragedia di Israele e i suoi delicatissimi sviluppi, un inedito asse tra governo, Italia Viva-Azione e Partito democratico sull’unica linea che abbia un senso: stare dalla parte di Israele senza se e senza ma e al tempo stesso auspicare che non si crei un disastro umanitario a Gaza, lavorando per una «risposta proporzionata» di Israele – ha detto il Ministro degli Esteri Antonio Tajani – che colpisca duramente Hamas ma evitando un massacro di innocenti. E per questo si segue la strada dei corridoi umanitari. Una strada difficilissima.
La posizione di Elly Schlein è altrettanto chiara: «Ci siamo tutti schierati al fianco di Israele, senza ambiguità nel condannare nettamente l’attacco terroristico di Hamas, di violenza efferata contro i civili israeliani. Ora è il tempo della politica e di fare ogni tentativo per evitare un’escalation del conflitto e nuove vittime innocenti. Bisogna lavorare perché il diritto di Israele a difendersi dall’aggressione e di contrastare e fermare il terrorismo di Hamas si realizzi nel rispetto del diritto internazionale e proteggendo la vita dei civili palestinesi, le cui vite non valgono di meno». E Matteo Renzi: «Israele ha il diritto di difendersi e reagire, perché Israele ha il diritto di esistere. Se qualcuno entrasse nelle vostre case e vi uccidesse i figli davanti agli occhi e vi violentasse le figlie davanti agli occhi e vi uccidesse i nipoti davanti agli occhi, voi cosa provereste? Un sentimento di generico buonismo? Porgereste l’altra guancia? Non scherziamo. Poi è ovvio che una comunità democratica deve fare di tutto per mettere al riparo i civili dalla controffensiva».
I toni possono essere diversi ma sostanzialmente l’asse regge. E per la politica italiana, a differenza del delirio sui social e nei talk show, è una prova di maturità che rende ancora più incomprensibile il fatto che l’altro giorno in Parlamento si siano più o meno tutti comportati da ragazzini così da non riuscire a votare una mozione unitaria. Si potrebbe dire che le cose dette da Tajani, di cui va apprezzato l’attivismo di queste ore, Schlein, Renzi e Carlo Calenda siano scontate. Ma non è così.
Matteo Salvini infatti in questa discussione semplicemente non esiste, è sparito (infatti più che di governo dovremmo parlare di Forza Italia e Fratelli d’Italia in asse con centristi e dem), probabilmente sempre alle prese con il plastico del Ponte di Messina.
Giuseppe Conte dice e non dice e soprattutto rilancia la parola d’ordine del no alle spese militari nel momento di massima tensione internazionale da quando è finita la Seconda guerra mondiale e litiga con il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi.
La sinistra radicale ha evidentemente a cuore esclusivamente una questione palestinese che non si capisce più bene in che cosa consista e che è l’emblema del “partito né né” adiacente ai giovani che stanno inscenando (piccole) manifestazioni anti-israeliane.
Si disegna dunque una faglia tra le forze responsabili e le altre, o distratte o ambigue. È un piano che chiaramente non va confuso con quello politico generale e tantomeno sulle questioni economiche: siamo alla vigilia dello scontro sul salario minimo e sulla legge di Bilancio, temi giustamente messi in ombra dal dramma israeliano e dalla snervante attesa per quello che potrà succedere nella Striscia di Gaza – dove la clessidra del disastro corre veloce –, ma inevitabilmente destinati a riprendere forza nelle prossime settimane.
Va da sé che il quadro politico non cambia. Ma proprio per questo è un fatto positivo che su questa spaventosa emergenza internazionale (d’altronde era stato così anche almeno in parte per l’Ucraina) si registri una convergenza tra partiti di maggioranza e di opposizione. Che taglia fuori i matti e gli ambigui.
Così veniamo bombardati da infinite "fake news". Storia di Matteo Sacchi su Il Giornale venerdì 13 ottobre 2023.
Che la guerra sia il regno delle bugie e della propaganda lo aveva stabilito già lo storico Marc Bloch in un memorabile saggetto: La guerra e le false notizie (in Italia uscito per i tipi di Donzelli) incentrato sull'esperienza dello studioso nella Prima guerra mondiale. Ma la propaganda e il conflitto mediatico a colpi di fake news hanno raggiunto un livello mai visto prima. Un livello in cui entra ormai in gioco anche l'intelligenza artificiale.
Ne abbiamo avuto una tragica avvisaglia nell'aggressione russa all'Ucraina, appoggiata anche da una robustissima disinformazione social verso l'Occidente. Ne abbiamo la conferma esponenziale ed immediata per quanto riguarda Israele aggredito dai terroristi di Hamas. NewsGuard ha lanciato ieri il Centro di monitoraggio della disinformazione. Secondo la piattaforma, con base a New York, affermazioni assolutamente false sul conflitto (poi vedremo la natura di alcune di esse) a tre giorni dall'attacco di Hamas, avevano già ottenuto un totale di 22 milioni di visualizzazioni su X (ex Twitter), TikTok e Instagram.
Tra le false notizie, per fare un esempio, una di quelle che ha avuto maggiore circolazione è che Israele abbia inscenato l'attacco per avere l'opportunità di aggredire Gaza. Vi sembra una follia? Gli analisti di NewsGuard hanno identificato 31.745 post e articoli sulla guerra tra Israele e Hamas contenenti l'espressione «false flag» (operazione sotto falsa bandiera) o simili. Hanno generato una valanga di like e di commenti. Esistono poi i contenuti che sono propriamente inneggianti ai terroristi. Una situazione che ha portato il commissario europeo Thierry Breton a mettere in guardia Meta (la società che possiede Facebook e Instagram). Ha concesso 24 ore a Mark Zuckerberg per comunicare quali misure verranno messe in atto per porvi rimedio. Il commissario nella sua lettera a Zuckerberg ha fatto riferimento agli attacchi terroristici di Hamas contro Israele dopo i quali «vengono disseminati contenuti illegali e disinformazioni nella Ue». Una comunicazione analoga è stata inviata a Elon Musk, proprietario di X (ex Twitter). Ieri poi è stato il turno anche di TikTok. Al ceo del social cinese, Shou Zi Chew, il commissario ha ribadito che «TikTok ha l'obbligo particolare di proteggere i bambini e gli adolescenti dalla propaganda terroristica».
Al momento è arrivata la risposta di Meta che ha spiegato i provvedimenti presi: «Dopo gli attacchi terroristici di Hamas contro Israele abbiamo rapidamente istituito un centro operativo dedicato composto da esperti, incluse persone che parlano la lingua ebraica e araba, per monitorare...». Intano ieri in serata i servizi della Commissione Europea hanno annunciato di aver inviato a X, già Twitter, una richiesta formale di informazioni ai sensi della legge sui servizi digitali. Essendo designata come Very Large Online Platform, X è tenuta a rispettare le disposizioni introdotte a fine agosto 2023, «inclusa la valutazione e la mitigazione dei rischi legati alla diffusione di contenuti illegali, disinformazione...».Il dato allarmante è che a differenza dei Paesi autoritari, come la Cina o la Russia o l'Iran, le democrazie occidentali vivono e decidono a partire dalla pubblica opinione, dalla volontà popolare. Ora la capacità di bombardare di falsità questa pubblica opinione è enormemente potenziata. I nostri telefoni sono un campo di battaglia, e bisogna saperlo.
Quella paura di pronunciare la parola "terrorista". Storia di Vittorio Macioce su Il Giornale giovedì 12 ottobre 2023.
La guerra è fatta anche di parole. La Bbc lo sa e sembra non schierarsi. Non ci sono allora terroristi nella storia di questi giorni, ma solo militanti. I militanti di Hamas. Non è che non ci può stare, perché a militare in effetti militano, ma magari non basta. È quello che si chiede, piuttosto irritato, Grant Shapps, il ministro della Difesa: «Non definirli terroristi è in realtà una scelta politica. È nascondere il mestiere di Hamas». La televisione di Stato britannica per consuetudine si astiene, non si schiera. È asettica, attenta ai vocaboli e mette da parte quelli scomodi, fino al punto di non dare un nome a quello che accade. I giornalisti della Bbc rivendicano la propria storia. Ci seguono per questo. Siamo imparziali, per definizione. Non tocca a noi dare una patente di terrorismo.
È così che le parole si svuotano e non sono più in grado di raccontare la realtà, come se a nasconderle facessero meno male. Il vocabolario scarnificato diventa una bugia. Non fa neppure onore alla strategia di Hamas. Questo vocabolo che fa tanta paura nasce dentro una rivoluzione. È il terrorismo di Stato teorizzato da Maximilien Robespierre il 4 febbraio 1794 davanti al Comitato di salute pubblica. È l'idea di un dispotismo giusto, troppo giusto, con la missione di domare con il terrore i nemici della libertà. Il terrorismo poi lascia lo Stato e si fa ribelle. È l'azione di chi si batte per una causa assoluta, che in buona o cattiva fede, si ritiene più giusta di qualsiasi giustizia terrena. Il buon terrorista è disposto a qualsiasi cosa per raggiungere il suo «paradiso», per giustizia e libertà, per la patria e la rivoluzione. Il terrorista punta a creare un clima di paura per vincere la sua battaglia ideale. Non scandalizzatevi, ma anche Giuseppe Mazzini era un terrorista. Lo era per l'Austria e anche per il Piemonte. Lo era per i tribunali. Non scandalizzatevi neppure su questo. Le prime tecniche di lotta terroristica si rivelano proprio a Gerusalemme. Un gruppo di «patrioti» che fa imboscate contro i romani. Sono gli zeloti e uno dei loro leader si chiama Barabba. Allora questo è il punto: qualsiasi cosa pensino alla Bbc dei militanti di Hamas non chiamarli terroristi è una grossa presa per i fondelli.
Bandiere, è guerra nei Comuni dem. Domenico Di Sanzo il 13 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Polemiche sul sindaco Gualtieri per il simbolo della pace. E Sala rimuove subito i colori di Israele. Di nuovo. La tragedia che diventa farsa. Da Roma a Milano, il dramma di Israele si trasforma in una grottesca guerra delle bandiere. Con i sindaci del centrosinistra che preferiscono il compromesso al sostegno incondizionato allo Stato Ebraico attaccato dai terroristi di Hamas. Il pannicello caldo per evitare di esporsi, stavolta, ha le sembianze della bandiera arcobaleno della Pace. Un simbolo che i sindaci Roberto Gualtieri e Beppe Sala hanno scelto di affiancare a quello di Israele. Forse uno stratagemma per non turbare certe frange di sinistra radicale che pure appoggiano i primi cittadini di Roma e Milano. E così, mentre a Palazzo Chigi e nelle maggiori città europee svetta lo stemma con la stella di David, al Campidoglio e a Palazzo Marino trionfa l'ipocrisia. Sala difende la sua scelta, anche se le due bandiere vengono rimosse poco dopo perché, secondo la legge, le bandiere di un Paese straniero si possono esporre su una sede istituzionale per più di 24 ore solo quando è in visita un capo di Stato estero. Sala dice che la decisione delle due bandiere «può scontentare qualcuno ma io credo che sia una cosa giusta». Segue dichiarazione cerchiobottista: «È chiaro che la reazione di Israele sarà probabilmente dura, per cui noi non possiamo non richiamare anche le ragioni della pace».
Tra gli scontenti per la scelta di Sala c'è sicuramente Roberto Jarach, presidente del memoriale della Shoah di Milano. Jarach, martedì pomeriggio al presidio pro-Israele organizzato da Forza Italia davanti al Memoriale, si era detto contrario all'esposizione delle due bandiere, perché «indebolisce il messaggio». Obiezione cui Sala risponde sprezzante: «Jarach è un uomo di destra e usa la situazione per fare politica». Poi il sindaco dice di sentirsi «umanamente lontano» dal presidente del Memoriale. Replica di Jarach: «Non mi sono mai esposto politicamente, questa uscita di Sala la trovo fuori luogo».
Anche a Roma il sindaco del Pd si becca la giusta reprimenda di chi tiene viva la memoria della tragedia dell'Olocausto. Roberto Gualtieri ha illuminato il Campidoglio con le bandiere di Israele e della Pace. Anche i municipi romani hanno esposto entrambe le bandiere. «Penso che in questo momento sia un segnale non positivo esporre la bandiera della pace in quel modo», dice Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma. «Noi siamo convinti che la pace sia la meta e il desiderio di tutti, ma forse in questo momento andrebbe dato un segnale più forte, magari per il rilascio degli ostaggi».
Da Roma a Firenze. Ancora il Pd. Stavolta il protagonista di un altro episodio imbarazzante è il dem Luca Milani, presidente del consiglio comunale del capoluogo toscano. Milani «trova sbagliata» la manifestazione di domenica organizzata dal console Marco Carrai, cui parteciperà anche il sindaco Dario Nardella. Il consigliere vicino a Elly Schlein fa sfoggio di equidistanza: «Trovo sbagliate le manifestazioni pro Palestina e pro Israele, non servono alla causa della pace». Insorge Italia Viva, che a Palazzo Vecchio è in maggioranza con il Pd. Il coordinatore fiorentino di Iv Francesco Grazzini chiede le dimissioni di Milani.
L'eurodeputato renziano Nicola Danti, coordinatore toscano del partito, parla di «parole gravissime» e pungola Nardella: «Siamo anche ansiosi di conoscere il pensiero del sindaco Dario Nardella e del Pd. Anche per loro è sbagliato manifestare per Israele?»
Ma i "giustificazionisti" non mollano. Da Moni Ovadia a Zaki, ecco chi spacca l'Italia. L'attore accusa Israele. Fdi: "Si dimetta dal teatro di Bologna". L'attivista fa litigare il Salone del Libro. Francesco Boezi il 13 Ottobre 2023 su Il Giornale.
C'è chi riesce a chiudere gli occhi anche dinanzi all'evidenza di un eccidio. Patrick Zaki (foto) e Moni Ovadia (foto) insistono nel sostenere un assunto: la colpa dell'attacco dei terroristi di Hamas è attribuibile a Israele. Lo ha detto al Tg1 Zaki due sere fa: «La situazione che stiamo vivendo è conseguenza delle politiche dell'attuale governo israeliano, non è sorprendente». Lo ha affermato anche Ovadia: «Israele lascia marcire le cose...questi sono i risultati». Insomma, per questi personaggi, il nemico dei palestinesi non è Hamas, bensì lo Stato ebraico. Il tutto in un quadro in cui la stessa organizzazione fondamentalista ha ammesso di prepararsi da anni all'offensiva. Due reazioni, simili per intensità, sono arrivate subito: è saltato, almeno in prima istanza, l'incontro con Zaki alla rassegna precedente al Salone del Libro di Torino; Fdi ha domandato le dimissioni di Ovadia dal Teatro comunale di Ferrara. «Le condizione sono cambiate - ha fatto sapere il Sermig, il Servizio missionario dei giovani, dove il ricercatore universitario, liberato dal governo italiano lo scorso luglio, avrebbe dovuto presentare la sua autobiografia - , non è opportuno alimentare polemiche e strumentalizzazioni». E quindi è stato «annullato l'incontro in programma per il prossimo 17 ottobre con Patrick Zaki nell'ambito di Aspettando il Salone». A criticare in prima battuta la presenza di Zaki era stata la senatrice di Fdi Paola Ambrogio. «Pensare che Patrick Zaki, dopo le parole intollerabili pronunciate su Israele, possa prendere parte a una serata collaterale del Salone del Libro di Torino lascia sinceramente sgomenti», aveva osservato. Il senatore di Fi Maurizio Gasparri non si è nascosto: «Zaki parla come Hamas. È giusto non invitare Zaki a parlare di diritti che difende quando riguardano se stesso, ma offende quando riguardano il popolo di Israele». Quello del Sermig è già il secondo episodio dopo la marcia indietro di «Che Tempo che Fa» e di Fabio Fazio. Pd e compagni, che dopo il rifiuto del volo di Stato avevano fatto di Zaki un paladino anti-Meloni, possono prenderne atto. Ma c'è stato comunque un colpo di scena. Dopo le lamentazioni della sinistra, specie da parte Luana Zanella, presidente di Verdi-Sinistra, è stata trovata un'altra location, ossia l'Hiroshima Mon Amour, sempre a Torino, sempre durante la kermesse del Salone del Libro. E di Zaki si è continuato a parlare per tutta la giornata di ieri. Lo striscione raffigurante l'ex detenuto in Egitto, per dire, è stato rimosso dall'atrio dell'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna. La Lega ha domandato se l'immagine ora provocasse qualche disagio ideologico ai dem. «Quella foto è diventata imbarazzante», ha detto il consigliere regionale del Carroccio Stefano Bargi. Il tutto «dopo le dichiarazioni di Zaki» che ha definito Netanyhau come un «killer seriale». Il Consiglio regionale ha tuttavia replicato, sostenendo che la rimozione dello striscione fosse programmata da tempo.
Per le frasi di Moni Ovadia, direttore generale del Comunale di Ferrara, ha reagito invece il senatore Adalberto Balboni, Fdi: «Le sue parole sono un insulto alle vittime provocate dai terroristi di Hamas contro inermi cittadini israeliani e anche di altre nazionalità che vivevano pacificamente nelle loro case. È Hamas a essere il principale nemico del popolo palestinese, non Israele», ha affermato il parlamentare meloniano. Balboni ha poi chiesto che Ovadia abbandonasse il suo incarico nella città dell'Ariosto. Francesco Boezi
Patrick Zaki: «Io cristiano e di sinistra con Hamas non c’entro nulla. In carcere? Botte e torture». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.
L’attivista e il libro in cui racconta la prigionia in Egitto: non dimenticherò mai le urla di un condannato a morte
Patrick Zaki, sono venuto qui per intervistarla sul suo libro, in cui lei racconta due anni trascorsi senza colpa nelle prigioni egiziane. Sono pagine che confermano la forza morale che noi italiani abbiamo visto in lei, e che ci ha indotti a impegnarci tutti insieme, destra e sinistra, per la sua liberazione. Per questo molti di noi si sono sentiti feriti dalle sue parole contro Israele, che ho trovato inaccettabili.
«Io sono contro l’attuale governo di Israele e le politiche che ha seguito negli ultimi anni. E non sono l’unico a pensarla così: le azioni di questo governo sono state criticate sia in passato sia in questi giorni da diversi Paesi, compresi gli Stati Uniti. Ho già messo in chiaro qual è la mia opinione riguardo l’attuale governo israeliano al Tg1 e nella mia ultima lettera a Repubblica».
Le ultime notizie sulla guerra tra Israele e Hamas, in diretta
La chiarisca anche ai lettori del «Corriere». Cosa le è venuto in mente di definire Netanyahu un serial-killer?
«Cosa mi è venuto in mente? Ho pensato a tutti i civili, a tutte le persone tra cui donne e bambini che sono state uccise a Gaza negli ultimi anni, alla mia cara amica Shireen Abu Akleh, la giornalista che è stata uccisa l’anno scorso da soldati israeliani mentre lavorava in Cisgiordania».
A parte il fatto che Netanyahu è lì perché con i suoi alleati ha vinto le elezioni, cosa che non possiamo dire di nessun leader arabo, non crede che qualsiasi discorso debba cominciare con la condanna del massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas?
«Io sono contro tutti i crimini di guerra. Condanno l’uccisione di civili. L’ho già ribadito più volte in diverse interviste. Sono un militante pacifico per i diritti umani e sono contro ogni forma di violenza. Credo che adesso sia il momento di pensare a come risolvere la situazione e lavorare per la pace in questa parte del mondo».
Quindi lei condanna Hamas?
«Certo. Io non ho nulla a che fare con Hamas! Sono cristiano e sono di sinistra, non sono un integralista islamico. In Egitto quelli come me vengono uccisi dagli integralisti islamici. Nel 2014 raccolsi aiuti umanitari per Gaza ma mi dissero che era meglio che non andassi a portarli, perché non sarei stato il benvenuto. Io sono per la Palestina, non per Hamas. E spero che tutti gli ostaggi siano liberati. Tutti, a cominciare dagli italiani. Non dimentico che l’Italia si è battuta per la mia libertà».
Lei fu arrestato dalla polizia egiziana proprio di ritorno dal nostro Paese, come scrive nel suo libro «Sogni e illusioni di libertà», pubblicato dalla Nave di Teseo.
«Mi aspettavano all’aeroporto del Cairo da due giorni. Mi hanno strappato il permesso per l’Italia, mi hanno rotto gli occhiali. Mi hanno insultato. E hanno iniziato a picchiarmi».
Come?
«Calci, pugni, botte sulla schiena. E minacce: “Non uscirai fuori di qui”, “non vedrai mai più la luce del sole”. Io sono rimasto concentrato. Sapevo come comportarmi: non dovevo mostrarmi debole. Se li facevo arrabbiare, meglio. Se capivano che avevo paura, era la fine».
Come sono le tecniche di interrogatorio?
«Gli interrogatori sono brevi. Ti sballottano di continuo dentro e fuori la cella; e in ogni cella c’è sempre una spia della polizia. Le domande sono sempre le stesse: davvero vuoi farci credere che eri a Bologna solo per un master? Perché parli male dell’Egitto? Poi ti mostrano le foto degli oppositori del regime: li conosci? Vogliono sfiancarti. Per questo rispondevo a monosillabi».
E loro?
«Mi hanno bendato, ammanettato, caricato su un furgone. Essere bendati, non avere il controllo del proprio corpo, è terribile. Dagli odori ho capito che mi portavano nel carcere di Mansura, la mia città. Lì c’erano il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, che mi ha fatto togliere i vestiti, dicendo: “Patrick difende i gay, dobbiamo portargli qualcuno che se lo inculi”».
L’hanno torturata?
«Mi hanno messo un adesivo sulla pancia, non capivo perché. Poi, quando mi hanno applicato gli elettrodi, ho realizzato che serviva a nascondere i segni delle scariche elettriche».
Come sono?
«Terribili. Ma quelli sono professionisti. Sono attenti a non lasciare tracce sui corpi. Sono scomparso per un giorno e mezzo, senza che i miei genitori che erano venuti a prendermi all’aeroporto sapessero nulla. C’era anche Reny, la donna che amo e ora è mia moglie, ma non conosceva ancora i miei, avrei dovuto presentarli… I poliziotti mi facevano in faccia il verso del maiale, come si usa da noi per manifestare disprezzo. Ma la cosa che mi ha fatto più male è un’altra».
Quale?
«Il ragazzo che portava i caffè mi ha dato una gran botta sulla schiena con il vassoio. Ancora mi chiedo perché lo abbia fatto. Non era un poliziotto. Non gli avevo fatto nulla di male. Se un giorno in Egitto faremo la rivoluzione, cercherò quell’uomo solo per chiedergli il perché».
E poi?
«Mi hanno chiuso in una cella con 52 persone. Tra loro c’erano due ragazzini, colpevoli solo di aver girato un video ironico su Maometto; altri ragazzi, musulmani, li avevano scoperti e denunciati. C’erano anche i parenti di un uomo che aveva picchiato la moglie, i cui familiari erano nella cella di fronte: era una rissa continua…».
Lei è stato davvero arrestato soltanto per un post su Facebook?
«Per quello e per la mia militanza nell’Eipr, Egyptian initiative for personal rights. Succede a tanti; ma di solito dopo due mesi escono. Quando però hanno visto che in Italia ci si mobilitava per me, hanno pensato: questo ragazzo per l’Italia è importante. E il mio caso è diventato un modo per fare pressione sul vostro Paese nel caso Regeni. In prigione mi chiamavano il ragazzo italiano».
Come mai?
«Mi confondevano con lui. Qualcuno mi chiamava proprio Giulio. “Io sono Patrick!” rispondevo. Ma Patrick è un nome cristiano, insolito in Egitto anche tra noi copti. Poi uscirono le mie foto sul giornale, e le guardie mi indicavano: quello è uno famoso! Quando Macron e Scarlett Johansson fecero il mio nome, mi chiedevano pure i selfie…».
Le sue condizioni sono migliorate?
«No. Mi hanno tagliato i capelli, e io non ho opposto resistenza, anche se i capelli sono una parte importante della mia identità».
Come ha fatto a resistere?
«Cominciai a dare lezioni di inglese, ma me lo impedirono. Poi mi portarono in un supercarcere, dove tutti avevano una divisa. Io avevo la divisa bianca, da detenuto in attesa di giudizio. I condannati avevano quella blu. I condannati a morte quella rossa. Una mattina alle sei vennero a portare via un prigioniero per l’esecuzione. Cominciò a urlare disperato. Non dimenticherò mai quelle grida».
Poi la trasferirono ancora e la misero in cella con un pazzo.
«Si chiamava Magdi, aveva un negozio di elettronica dove un terrorista dell’Isis aveva comprato un apparecchio che era servito per un attentato. Ma lui mica lo sapeva, era pure copto. Era innocente, e stare in carcere da innocenti può renderti folle. Un giorno mi gettò in faccia l’acqua bollente del tè. Un altro compagno di cella invece insisteva per farmi un massaggio…».
Com’era il suo rapporto con gli islamisti?
«A volte litigavamo. Quando potei vedere i miei genitori, uno mi rimproverò perché mia madre non portava il velo e io avevo bevuto da una lattina con la sinistra anziché con la destra. Mi arrabbiai: siamo in galera, non sappiamo se e quando usciremo, e tu mi rompi le scatole perché bevo con la mano sinistra?!».
E i criminali comuni?
«Ne ho visto uno appeso per i piedi a testa in giù. Ma la cosa peggiore è quando, al ritorno in cella dall’udienza, li costringono a bere un lassativo e li tengono lì, nudi, uno accanto all’altro, finché non evacuano. Lo fanno per controllare che dall’esterno non arrivi niente. E per umiliarli. Anche se poi in carcere i microcellulari entrano, io stesso me ne sono procurato uno. Poi ho avuto anche una radio».
Con cui riuscì a ricevere un messaggio da Reny e da sua sorella.
«Scrissi a Reny e a Maryse per dire che seguivo un programma alle 10 di sera. Una volta sentii: “Reny abbraccia il suo amato fidanzato, Maryse saluta suo fratello…”. È stato un momento molto importante».
Lei scrive che il primo interrogatorio vero arrivò dopo un anno e otto mesi.
«Poi ci fu l’udienza, che durò due minuti e mezzo. Eravamo 450 detenuti in due gabbie, ognuno si agitava per farsi riconoscere dal suo avvocato, invano. Sembravamo scimmie allo zoo».
C’erano gabbie anche in carcere?
«Sì, per isolare i detenuti malati. E c’era la sedia del pianto. Quella l’aveva inventata uno di noi. Se un prigioniero crolla e vuol essere lasciato tranquillo, si siede a piangere, e nessuno può disturbarlo».
Non c’è mai un momento di sollievo?
«Quando uno viene rilasciato, dalle sbarre della sua cella si grida la notizia. Quando liberarono il mio amico Mahmoud diedi io l’annuncio, e tutti i detenuti urlarono: forza Mahmoud, auguri Mahmoud!».
Il governo italiano ha lavorato per liberare lei. Dopo la condanna a tre anni, un colpo durissimo, è arrivata la grazia. Perché ha rifiutato il volo di Stato?
«Perché sono un attivista, e voglio essere libero di criticare qualsiasi governo».
Nel suo libro Giorgia Meloni non è mai citata. Perché?
«Neppure Mario Draghi; e anche il suo governo ha lavorato per la mia liberazione. Ribadisco che sono grato all’Italia per quanto ha fatto per me».
L’hanno criticata anche perché non parla la nostra lingua.
«Ma la sto imparando, grazie anche a Reny che la parla meglio (Zaki passa dall’inglese all’italiano e stringe la mano della moglie)».
E Fazio?
«Nessun problema, andrò una delle prossime domeniche».
Hamas, terroristi? No, per i giovani del Pd sono "resistenza". Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2023
Bisogna dare atto ad Elly Schlein di averci provato: «Hamas è riconosciuta come organizzazione terroristica». Così ha detto la segretaria del Pd alla Camera, due giorni fa. E allora è giusto che la leader dem sappia cosa accade nel suo partito. Tra i giovani, soprattutto. Nello specifico, la sezione Abruzzo dei Giovani democratici, l’organizzazione giovanile del Pd. Sulla pagina Facebook del gruppo fino a ieri sera compariva un post nel quale i ragazzi dem definiscono con queste parole Hamas: «Il movimento di resistenza islamica costituito dalla nuova generazione palestinese». Nato a causa dello «stato di tensione tra i due popoli». Toni caratteristici più di Potere al Popolo, che non a caso ha lanciato una mobilitazione permanente nelle piazze contro la «decennale oppressione israeliana del popolo palestinese», che al partito che si vanta di appartenere alla famiglia del riformismo italiano ed europeo.
Nell’opuscolo nel quale i Giovani democratici abruzzesi ricostruiscono quanto sta accadendo in questi giorni si trova un’altra considerazione che dovrebbe far impallidire Schlein. A proposito della «reazione israeliana», i militanti dem accusano Israele di aver mirato «non solo» ad obiettivi militari: «La vera preoccupazione di questo nuovo conflitto risiede nell’attacco alla popolazione civile palestinese». La conclusione è automatica: «Questo nuovo conflitto sembra non considerare le regole del diritto internazionale sui civili». Va da sé che oltre a riconoscere che l’attacco di Hamas del 7 ottobre «è stato il più duro mai registrato negli ultimi settant’anni», non c’è altro sui crimini commessi dal gruppo terroristico che controlla Gaza.
A imbarazzare i dem c’è anche il post su Instagram, citato dal quotidiano Il Riformista, della giovane Mia Diop, componente della direzione nazionale del Pd e della segreteria dem di Livorno, che avrebbe scritto: «Antifascismo-antisionismo, sempre dalla stessa parte». E si deduce che la parte sia quella della Palestina. Almeno Tomaso Montanari, rettore dell’università per stranieri di Siena, commentatore del Fatto Quotidiano, è attestato su una posizione di equidistanza. Intervistato dal quotidiano La Notizia, ha spiegato che per lui Israele e Hamas pari sono: «Sono due mostruosità che si fronteggiano e che costituiscono la negazione della nostra umanità e della civiltà giuridica». Quindi la confessione: «Glielo dico molto onestamente, a me fa paura la bandiera di Israele proiettata su Palazzo Chigi, così come l’antisemitismo dilagante». Peccato che poco prima Montanari avesse accusato lo Stato ebraico di praticare «un’apartheid di Stato mostruosa».
Dalla Notizia all’Unità. Qui spicca una dettagliata analisi di Mario Capanna, storico leader sessantottino. Titolo: «Tutte le colpe dell’Occidente». La stella polare è questa: Hamas «è una creatura israeliana, concepita e fatta crescere per depotenziare Al Fatah e l’Olp». Il resto è solo un attacco a Gerusalemme: «Israele ha il record mondiale delle risoluzioni dell’Onu»; «a praticare per primi il terrorismo sono stati i sionisti»; «i soldati sparano sui giovani spesso solo perché sventolano la bandiera palestinese»; «l’esercito, una volta arrestato un palestinese per presunti reati, fa saltare in aria la casa della sua famiglia».
PIAZZA PERMANENTE
Poi, mentre il leader M5S Giuseppe Conte cerca di barcamenarsi portando la solidarietà dei grillini alle «comunità ebraiche italiane» dando però un colpo anche a Gerusalemme («siamo preoccupati per la reazione di Israele»), ci sono le manifestazioni. Ieri Potere al Popolo e Unione popolare si sono radunati nella piazza del Nettuno, a Bologna, per gridare il loro appoggio alla «resistenza» palestinese «fino alla fine dell’occupazione» israeliana: «L’unica via per la pace è la fine dell’apartheid israeliano. C’è un’Italia che non crede alla propaganda di guerra». Analoga iniziativa si è svolta a Torino, in piazza Foroni, al grido di «la Palestina vive! La resistenza vive!». Oggi tocca a Venezia, sotto la sede Rai, e domani a Milano, Roma - «quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere. Tutt* (notare l’asterisco in ossequio al rispetto dell’identità di genere, ndr) in piazza in solidarietà con la resistenza palestinese»- e Napoli, sabato ancora a Milano, con il corteo da piazza San Babila, Torino, Pisa e Bari. Un elenco in via di aggiornamento tenuto costantemente d’occhio dal Viminale, che non sottovaluta possibili rischi per l’ordine pubblico.
I salotti della sinistra ora mollano Patrick Zaki perché sta con i palestinesi. Gloria Ferrari su L'Indipendente venerdì 13 ottobre 2023.
Per Patrick Zaki in Italia la musica è cambiata. Prima ricercatore osannato persino dalla politica e legittimamente innalzato a esempio di resistenza pacifica per via della lunga lotta portata avanti dal carcere contro la censura del regime egiziano del Presidente Abdel Fattah al-Sisi, ora personaggio scomodo da mettere a tacere e rinchiudere in un ripostiglio perché critico nei confronti di Israele. Così per lui gli appuntamenti saltano, uno dopo l’altro. Niente più ospitata a ‘Che tempo che fa’ e chiuse le porte pure dell’Arsenale della Pace di Torino, dove il 17 ottobre Zaki avrebbe dovuto presentare il suo libro nell’ambito dell’evento ‘Aspettando il Salone’. Ma «le condizioni sono cambiate». Non lo vuole nemmeno Brescia: la sindaca Laura Castelletti gli ha revocato l’invito per la giornata inaugurale del Festival della Pace di novembre perché il ricercatore egiziano sarebbe «divisivo». Le sue parole su Israele «non rappresentano il messaggio che la città vuol trasmettere».
Ora come allora, quando nel 2020 fu catturato dagli agenti dei servizi segreti del Cairo per alcuni post su Facebook, giudicati una minaccia alla sicurezza nazionale, Zaki è divenuto un personaggio da censurare per via di un tweet in cui definisce il Primo ministro israeliano Netanyahu un «serial killer».
Dichiarazioni che gli sono costate pure una ramanzina da parte di Repubblica, che per ‘penna’ del sociologo Luigi Manconi gli chiede «Caro Zaki, perché quel silenzio sulle vittime israeliane?». E a lui tocca pure rispondersi, giustificarsi, con un’altra lettera: «Non ho mai appoggiato un qualsiasi movimento o partito di ispirazione religiosa, e mi riferisco alla mia storia personale, dentro o fuori l’Egitto» e «sono contrario all’uccisione o all’aggressione di qualsiasi civile, israeliano o palestinese, non coinvolto nelle violenze, nelle colonie illegali o negli omicidi». Ma «molti diritti sono stati negati ai palestinesi nel corso della storia, a cominciare dal fatto che Gaza è in isolamento totale, è una prigione a cielo aperto, e finendo con il fatto che i palestinesi non hanno libertà di movimento, non possono spostarsi, non hanno opportunità di lavoro e nemmeno la fornitura di risorse di base come l’acqua e l’elettricità».
Parole che un Governo come il nostro, che ha promesso di essere al fianco di Israele in questa guerra – ma era suo alleato già da prima – non può che tentare di soffocare. Soprattutto se a pronunciarle è un attivista su cui negli ultimi tre anni il mondo intero ha tenuto gli occhi aperti, e per cui politici di destra e sinistra hanno auspicato il rispetto dei diritti. D’altronde come non zittire un ‘personaggio’ come Zaki, se la censura italiana è perfino arrivata nelle scuole? Negli scorsi giorni, infatti, il Ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha disposto l’invio di ispettori in due istituti scolastici milanesi – l’Educandato statale Setti Carraro e il liceo Manzoni di Milano -, auspicando l’arresto degli studenti – proprio come uno studente lo era anche Patrick al tempo della cattura – che stanno manifestando il loro sostegno alle azioni intraprese dalle sigle della resistenza palestinese.
Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – e uno dei pochi a spendersi in difesa dell’attivista – , l’atteggiamento italiano nei confronti di Zaki è una «campagna d’odio» del tutto ingiustificata, visto che «in questi giorni Patrick Zaki ha ripetutamente condannato le violenze contro i civili israeliani e palestinesi, come avrebbe fatto ogni persona che difende i diritti umani».
E «se ci sono punti di vista diversi, è del tutto lecito dissentire e contestarli» senza però andare oltre, come in questo caso. «Dopo aver subito una persecuzione giudiziaria per tre anni e mezzo in Egitto per aver preso la parola, ora in Italia la parola gli viene persino tolta». [di Gloria Ferrari]
Un ‘capolavoro’ di spericolatezza. La sinistra antisemita, dal ‘vivaio’ di Elly Schlein all’Intifada grillina: Hamas fa strage ma “Netanyahu è il killer”. Phil su su Il Riformista l'11 Ottobre 2023
Boia dé, come dicono a Livorno, “l’astro nascente” (definizione di Repubblica) si è fatta sentire. “Antifascismo-Anti sionismo, sempre dalla stessa parte”, cioè da quella della Palestina. Hamas? Nessun riferimento, chissà, forse per l’astro nascente è un dettaglio trascurabile. L’autrice del post Instagram è Mia Diop, componente della direzione nazionale Pd e della segreteria di Livorno come responsabile dei diritti, giovanissima enfant prodige (21 anni) del vivaio di Elly Schlein, figlia d’arte, il padre è un attivista politico impegnato per la comunità senegalese in Toscana. Quello della giovane livornese per ora resta un gesto isolato, ma segnala un rischio molto avanzato per i dem. Un allarme amplificato in queste ore dall’impossibilità di votare una risoluzione ‘bipartisan’ alla Camera, e sulla decisione finale di presentare un documento Pd-Avs-M5S.
Quanto potrà durare il sostegno ad Israele?
D’altra parte sono molti i dirigenti del Nazareno, vicini alla segretaria, da anni impegnati a diffondere la causa palestinese contro gli israeliti. Due nomi su tutti: Marta Bonafoni e Marco Furfaro. I dubbi sulla tenuta dem si moltiplicano, guardando anche al comportamento dei suoi principali sindaci Gualtieri, Nardella e Sala. A Roma, a Firenze, a Milano, i primi cittadini non hanno avuto il coraggio di esporre la bandiera con la stella di David sulle facciate dei palazzi comunali. Ne è venuta fuori una scelta pasticciata, con l’arcobaleno della Pace affiancato alla bandiera di Israele.
Nel capoluogo lombardo, si è sfiorato il paradosso con il consiglio comunale sospeso, e l’esponente dei Verdi che avrebbe voluto aggiungere anche quella della Palestina. O a Firenze, dove il presidente del consiglio comunale Luca Milani (Pd) non concede all’aula neanche un minuto di silenzio per commemorare la mattanza islamista.
Se il Pd a Roma tiene, a malapena e con l’incognita dei prossimi giorni, sinistra e M5S, sono già su un’altra sponda. Il più esplicito, Nicola Fratoianni: “La guerra in Medioriente frutto della nostra ignavia”. E con nostra intende dei paesi occidentali. Il Foglio ha ricostruito quella che ha definito ‘Intifada grillina’, mettendo insieme le sbandate, i contatti, che il M5S ha avuto con molte associazioni attigue al gruppo terroristico, attirando la replica indignata di Giuseppe Conte. Restano i fatti però a spiegare la posizione del M5S ed i balbettamenti di queste ore: impossibile dire ‘sto con Israele’ da quelle parti, meglio scagliarsi ‘contro la reazione spropositata di Netanyahu in queste ore’, come si legge in una nota diffusa dal movimento.
Poi c’è il mondo delle Tv dove i distinguo si sprecano, così come è successo con la guerra dichiarata all’Ucraina, e l’affermarsi di opinionisti come Alessandro Orsini. A partire dallo stesso Orsini, che all’Aria che tira, ha riassunto gli ultimi giorni così: “Lo sterminio di un popolo sarà sempre possibile fino a quando ci saranno persone come Netanyahu”. Il contestato presidente israeliano di fatto mandante occulto della strage terroristica di Hamas. Un posto d’onore spetta al solito Moni Ovadia, uno che ha sempre le idee chiare: “L’attacco di Hamas è il prodotto dell’arroganza di Israele”.
Seguace di Orsini, anche un altro nome noto in Italia, Patrick Zaki, l’attivista dei diritti umani imprigionato per mesi in Egitto. Sul suo account Twitter, Zaki mostra di non avere dubbi: “C’è un solo serial killer in questi giorni: Benjamin Netanyahu”. Insomma al ricercatore egiziano, non risulta alcun massacro partito da Gaza. Una linea che contagia la sinistra anche in Europa, dopo l’antisemita inglese Jeremy Corbyn, il francese Jean-Luc Mélenchon, leader di France insoumise, primo partito della gauche per numero di elettori, che con un comunicato di 135 parole, riesce a non condannare la strage e a non menzionare l’organizzazione terroristica islamista.
Un ‘capolavoro’ di spericolatezza, che in Italia eguaglia Elena Basile, ex ambasciatrice in Svezia e Belgio, peraltro già distintasi a raccontare la guerra in Ucraina sul Fatto Quotidiano, “la posizione di Kiev mette a rischio tutti” fu la sua spassionata analisi. Stessa sicumera anche sul Medioriente: “Nel conflitto israelo-palestinese l’occupazione è israeliana, la negazione del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese è israeliana, le incursioni nelle moschee e nelle chiese sono israeliane, la violazione delle risoluzioni Onu è israeliana”. Insomma i boia dé di Mia rischiano di essere molto contagiosi a sinistra.
Phil. Vive a Roma ma è cresciuto a Firenze, è un antico frequentatore di corridoi, ha la passione per Philip Roth e per le melanzane alla parmigiana, predilige il paesaggio della Versilia
Dopo Zaki, ecco la Bindi. Quelli che accusano Israele. La dem: "Lo Stato ebraico faccia esame di coscienza". Imbarazzo di Fazio, che ospiterà lo studente egiziano. Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Patrick Zaki e Rosy Bindi mandano in tilt la sinistra sul massacro compiuto dai terroristi di Hamas contro Israele. Al Nazareno è palpabile l'imbarazzo dopo le uscite «giustificazioniste» dei due «idoli» dei compagni. E anche dal fronte Cgil, nelle stesse ore in cui Maurizio Landini suggella il patto con Elly Schlein, giungono voci di «comprensione» sul bagno di sangue messo in atto sabato all'alba dalla cellula di Hamas contro i civili israeliani. Eliana Como, una dirigente nazionale Cgil, pochi minuti dopo l'attacco di Hamas, posta una foto che non lascia spazio a dubbi, dal titolo eloquente: «Palestina free». Il conflitto tra Palestina e Israele è un nervo scoperto per la sinistra italiana. Senza dimenticare il recente ricordo, nell'agosto scorso, tra Laura Boldrini, e Nicola Fratoianni con Muhammad Hannoun, un architetto palestinese segnalato all'Antiriciclaggio per aver finanziato soggetti vicini all'organizzazione terroristica palestinese.
Sulla buccia del conflitto in Medio Oriente inciampa anche l'ex ministro Rosy Bindi che su La 7 a Tagadà si lascia andare in commenti giustificazionisti nei confronti dei criminali di Hamas: «Necessario che Israele faccia un esame di coscienza sul suo recente passato» - dice la Bindi. Aggiungendo: «Il consenso attorno ai terroristi cresce perché la questione israeliana non è mai stata risolta. Dimentichiamo che due milioni di persone vivono prigioniere nella striscia di Gaza, dove i beni di prima necessità sono limitati». E poi l'invito a Israele: «Uno Stato democratico non può reagire con gli stessi mezzi dei terroristi. Le Nazioni Unite non hanno esitato a chiedere a Israele a non reagire con metodi medievali. Israele dovrebbe interrogarsi sugli strumenti usati fino ad oggi» evidenzia l'esponente dem. Il più netto di tutti nella linea anti-Israele è Patrick Zaki, il ricercatore liberato dalle prigioni egiziane dal governo italiano. Lui è un altro eroe della sinistra: accolto come una star all'ultima festa dell'Unità del Pd, Zaki coltiva il sogno di candidatura e ne frattempo dispensa lezioni di geopolitica dal suo account X. Due giorni fa ha definito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu «un serial killer». Parole che hanno scatenato il putiferio. E che ora rischiano di rovinare il ritorno in tv di Fabio Fazio su Discovery: Zaki è l'ospite della prima puntata (14 ottobre) di «Che tempo che fa». Come si comporterà Fazio? Per ora resta in silenzio. Ma l'uscita del ricercatore è un bel grattacapo per l'ex conduttore Rai. Contro Zaki ci va giù duro il centrodestra. «Zaki è un ricercatore? Fossi un Rettore mi vergognerei di avere nello staff accademico un ricercatore che afferma simili bestialità», dice il capogruppo azzurrò al Parlamento europeo, Fulvio Martusciello, per il quale «le dichiarazioni di Zaki sono offensive per le nostre Università, per i nostri studenti e per quanti studiano per diventare ricercatori». Fdi mette nel mirino il sindaco di Bologna: «Matteo Lepore ha assegnato a Zaki la cittadinanza onoraria. In che veste? Di attivista dei diritti umani? Peccato i diritti dei civili israeliani, evidentemente, per Zaki non siano importanti» attacca il parlamentare Mauro Malaguti. «Questo idolo della sinistra merita solo di essere ignorato» chiede Maurizio Gasparri. Zaki prova a correggere il tiro: «Nessuno può essere ritenuto come filo-Hamas se sostiene la Palestina. Tutti i media internazionali sono pro Israele e non parlano della grave crisi umana che c'è dall'altra parte».
Il paradosso: quegli Lgbt pro Hamas (che odia i gay). Colpiscono ma non sorprendono le manifestazioni pro Hamas organizzate in numerose città europee e americane da immigrati musulmani. Francesco Giubilei l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Colpiscono ma non sorprendono le manifestazioni pro Hamas organizzate in numerose città europee e americane da immigrati musulmani che hanno scandito cori anti Israele ed esultato davanti alle terribili immagini di morte dal Medio Oriente. Colpiscono perché gioire di fronte all'uccisione di centinaia di persone è un segno di barbarie che non avremmo voluto vedere nelle nostre città ma non sorprendono poiché il fallimento del multiculturalismo e la presenza di società parallele in Occidente è una novità solo per chi non vuole guardare in faccia la realtà. Non essere riusciti a costruire un modello di integrazione efficace è senza dubbio uno dei risvolti del declino occidentale ma lo sono ancor di più le manifestazioni del mondo liberal e pro diritti sceso in piazza a favore di Hamas.
Domenica a Barcellona, insieme ai vessilli palestinesi, c'erano anche le bandiere Lgbt mentre a New York, Londra, Chicago, gli stessi che fino a pochi giorni fa si battevano per il gender, i diritti, la cultura woke, hanno manifestato contro Israele. All'Università di Harvard 31 associazioni studentesche (tra cui Amnesty) hanno invece sottoscritto un appello «per fermare il continuo annientamento dei palestinesi». Così come gli studenti dei collettivi del liceo Manzoni giocano a fare i rivoluzionari dal centro di Milano, è piuttosto facile esporre i cartelli Free Palestine con la bandiera Lgbt da Times Square o dalla Rambla.
Vale la pena ricordare qual è la posizione palestinese sul tema dei diritti Lgbt: nell'agosto 2019 l'Anp ha annunciato il divieto di riunirsi in Cisgiordania per i gruppi Lgbt in quanto «dannosi per i valori e gli ideali superiori della società palestinese», meno moderata la posizione di Hamas che nel 2016 ha giustiziato Mahmoud Ishtiwi, uno dei principali comandanti del gruppo, con l'accusa di aver avuto un rapporto omosessuale. Nonostante ciò, l'odio per l'Occidente viene prima di tutto, lo stesso Occidente che consente a chiunque la libertà di esprimere le proprie idee, anche agli utili idioti alla causa di Hamas. Francesco Giubilei
Estratto da lastampa.it il 9 ottobre 2023.
«Se è vero che alcuni collettivi scolastici hanno inneggiato ad Hamas alla morte dei ragazzi israeliani, vanno perseguiti dalla legge. Farò partire immediatamente nostre ispezioni nelle scuole coinvolte, chiedendo alla Procura di promuovere un'azione penale per odio razziale.
L'azione di Hamas è infame, queste persone devono essere perseguite […] e spero finiscano in prigione, sono di mentalità nazista, personaggi che devono essere isolati e condannati senza se e senza ma». Così il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara, ora alla scuola ebraica di Milano dove porta solidarietà.
Due associazioni giovanili milanesi […] avrebbero appoggiato sui social gli attacchi, arrivando ad esultare per i massacri di civili. «Non è plausibile che alcuni sindacati o partiti li difendano», ha aggiunto Valditara […]
(ANSA il 9 ottobre 2023) - "Quant'è bello quando brucia Tel Aviv". È quanto hanno scritto in una storia su Instagram gli studenti della Kurva Manzoni Antifa, gruppo che sostiene la squadra di calcetto del Liceo Manzoni di Milano pubblicando una foto di palestinesi esultanti dopo l'attacco a Israele. È quindi uno degli storici licei classici milanesi, che si trova in centro città e frequentato alla fine degli anni '80 anche dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, una delle scuole finite sotto accusa dal ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara che oggi ha portato la sua solidarietà alla scuola ebraica di Milano.
Hamas, Mahmoud Al-Zahar: "A morte i cristiani, conquisteremo il mondo". 2022, il video che spiega tutto. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2023
Con l’attacco a Israele è tornato a far discutere un vecchio video. Nel filmato si vede l'alto funzionario di Hamas Mahmoud Al-Zahar dichiarare che l'organizzazione fondamentalista palestinese ha raggiunto una "fase di deterrenza" in cui può "difendere" la Palestina occupata. Ha poi aggiunto che dopo la "Battaglia della Promessa dell'Aldilà" non ci saranno più né oppressione, né sionismo, né "cristianesimo traditore".
E ancora, erano le sue parole nel lontano 12 dicembre 2022 su Al-Masirah TV : "Quando parliamo dell'Esercito di Gerusalemme e della Battaglia della Promessa dell'Aldilà, siamo non parliamo di liberare da soli la nostra terra, ma crediamo in ciò che ha detto il nostro profeta Maometto: 'Allah ha avvicinato le estremità del mondo per amor mio, e ho visto le sue estremità orientali e occidentali. Il dominio della mia nazione raggiungerebbe quelle estremità che sono state avvicinate a me.' [...]".
Da qui quella che suona come una minaccia: "Gli interi 510 milioni di chilometri quadrati del Pianeta Terra rientreranno in un sistema dove non ci sarà più ingiustizia, oppressione, tradimento, sionismo, cristianesimo traditore, e nessun omicidio e crimine, come quelli commessi contro i palestinesi, e contro gli arabi in tutti i paesi arabi: in Libano, Siria, Iraq e altri paesi". Dichiarazioni che ad oggi, con almeno 1.127 morti e 5.339 feriti, fa temere il peggio.
Pd, quelli che non condannano Hamas: chi sono, cos'hanno detto. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2023
La nuova frontiera dell'ipocrisia della sinistra è la trattativa sulle bandiere per evitare spaccature. Di fronte all’escalation in Israele, con una base (e non solo) storicamente legata alle rivendicazioni dei palestinesi e piuttosto ambigua nei confronti di Hamas, i partiti più radicali come Sinistra Italiana, Verdi e +Europa hanno posto l’accento sui diritti negati ai palestinesi e sull’oppressione israeliana, pur condannando il terrorismo di Hamas (Fratoianni: «Diritti per i palestinesi e sicurezza per gli israeliani»; Bonelli: «Liberare gli ostaggi e proseguire il percorso di pace»; Bonino: «Intollerabile colpire i civili a Gaza»). La situazione è ben diversa in casa Pd. Se il segretario Elly Schlein si è affrettato a invocare l’isolamento di Hamas (lei stessa nel 2014 da europarlamentare disse di non «essere felice» del testo sulla risoluzione sul riconoscimento dello Stato di Israele), dalla sede nazionale dev’essere arrivata più di qualche direttiva sulle posizioni “di facciata” da tenere da tutti gli altri per evitare di scivolare su qualche buccia di banana.
Nelle grandi città come Roma e Milano, dopo confronti serrati, i sindaci dem sono riusciti a tenere il piede in due scarpe mostrando come gesto di solidarietà la bandiera di Israele affiancandola però a quella della Pace come richiesto a gran voce dagli stessi colleghi di partito, ma non sono poche le realtà in cui la quadratura non si è trovata, come a Lodi, dove il sindaco di centrosinistra proponeva di illuminare il municipio di bianco e azzurro ma il segretario cittadino Pd si è opposto. Così pure il sindaco di Brescia. Diversivi per provare a non perdere del tutto la faccia di fronte a categorie elettorali fortemente pro-pal.
Basti pensare ai collettivi, quelli di fianco ai quali poche settimane addietro tutta la sinistra sfilava nelle piazze contro il “ritorno del fascismo” e che ora hanno tappezzato scuole e università di slogan a sostegno di Hamas. O ai vessilli palestinesi esposti nella piazza della Cgil sabato scorso a Roma. O ai commenti caustici che stanno ricevendo sui social esponenti dem come Laura Boldrini in risposta alla sua condanna verso Hamas.
In generale l’autocensura ha funzionato bene e di scivoloni ce ne sono stati pochi: tipo quello di Mia Diop, giovane astro nascente dei dem schleiniani, membro dell’assemblea nazionale Pd e della segreteria cittadina di Livorno. Sui social, durante gli attacchi di Hamas, ha scritto: «Sempre dalla stessa parte», con tanto di bandiera palestinese e senza nessuna parola di condanna per l’aggressione. Parole poi ritrattate e definite «strumentalizzate» dai suoi avversari interni al congresso locale.
Il fronte più numeroso è comunque quello dei “distratti”, quelli cioè che hanno scelto di togliersi dall’imbarazzo ignorando uno dei più grandi drammi degli ultimi decenni. Rachele Scarpa, parlamentare Pd, che invitava i cittadini a farsi un’opinione sul conflitto arabo-israeliano seguendo canali come “Progetto Palestina” è troppo impegnata a parlare di sagre locali. Raffaele La Regina, ex capolista Pd in Basilicata, è passato da paragonare l’esistenza di Israele a quella degli alieni a ritwittare post cerchiobottisti altrui. Le sardine, con Mattia Santori impegnato a far legalizzare la cannabis, hanno rimosso di avere tra le loro fila Nibras Asfa, moglie del sostenitore di Hamas Suleiman Hijazi, che ha accolto gli attacchi con un “lode a Dio” sui social e che a suo tempo venne addirittura invitato in Parlamento da Michele Piras, dirigente Pd in Sardegna. Uno che dal gioco del silenzio si sta sottraendo e parla di «lancio di razzi di Hamas dopo mesi di arbitrio e abusi nei luoghi sacri e nei territori occupati» da Israele.
Hamas, la profezia Fallaci e la lezione alla sinistra che giustifica gli estremisti. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2023
La lezione dimenticata di Oriana Fallaci. In giorni drammatici in cui la sinistra (non solo italiana) scende in piazza per gridare "Palestina libera", e magari pure "Israele fascista" e "Ora e sempre Intifada", sarebbe utilissimo ricordare le parole della grande giornalista fiorentina".
Quella che tra i primi, con qualche lustro di anticipo sull'orrore dell'11 settembre 2001 e lo spauracchio del terrorismo islamico (quello che la portò a scrivere il suo epitaffio-manifesto, La rabbia e l'orgoglio) aveva messo in guardia l'Occidente sul pericolo del nemico interno, il fondamentalismo musulmano, e la "Crociata alla rovescia" che si stava scatenando contro le democrazie e i nostri valori.
L'amico della Boldrini nega la strage di bimbi ed esalta gli attacchi. L'architetto delle manifestazioni anti-Stato ebraico era stato ricevuto dall'ex presidente della Camera. Marco Leardi il 12 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Alla manifestazione pro-Palestina di Milano c'era anche lui. Tra slogan contro Israele e cori che inneggiavano a una «Intifada fino alla vittoria». E c'era pure a Genova, per la stessa causa.
L'architetto Mohammad Hannoun, fondatore dell'Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, è uno dei promotori dei sit-in a sostegno di Gaza comparsi in alcune piazze italiane. Al centro di investigazioni nel passato, l'uomo aveva già fatto parlare di sé: era stato infatti accusato, senza però avere mai ripercussioni penali, di nascondere dietro al suo gruppo un sostengo economico ai gruppi di kamikaze palestinesi. E secondo lo Shin Bet, l'intelligence israeliana, i soldi che raccoglie per scopi nobili sarebbero stati invece destinati a strutture militari di Hamas, motivo per cui nei mesi scorsi le autorità di Tel Aviv avevano chiesto il sequestro di fondi da lui raccolti per circa un milione di euro, in parte depositati anche in Italia. Respingendo quelle accuse, Hannoun ha comunque continuato le sue attività pro-Palestina e nelle scorse ore è tornato a farsi sentire, anche con argomentazioni al limite del negazionismo.
Contattato dal Giornale, l'architetto si è infatti infervorato sull'attualità al punto da mettere in dubbio il massacro di donne e bambini nel kibbutz di Kfar Aza, riferito dai fonti israeliane. «È una bugia. Quando hanno ucciso quaranta bambini? Fatemi vedere un solo bambino», ha scandito l'attivista, che nel maggio 2022 aveva pubblicato sui social una foto seguita da polemiche - assieme a Laura Boldrini. «Ho solo incontrato una persona che voleva parlare della situazione umanitaria in Cisgiordania. Non ho approfondito chi fosse», ha precisato lei recentemente, forse imbarazzata per quello scatto circoscritto che ritraeva i due mentre si stringevano la mano. Poi, incalzato sulle violenze contro gli israeliani, Hannoun ha aggiunto: «Anche i partigiani italiani potrebbero aver commesso scorrettezze, in guerra può succedere di tutto. Noi siamo in guerra da 75 anni, non ci lasciano altre scelte». Impossibile non cogliere delle contraddizioni. Da una parte, infatti, l'architetto auspica il rispetto dei diritti umani da parte di tutti, dall'altra però ai microfoni Rai aveva definito l'attacco di Hamas «legittima difesa». Alle nostre domande sull'organizzazione terroristica, ha poi risposto: «Non possiamo metterci a dividere i palestinesi tra buoni e cattivi. Hamas sono palestinesi, Hamas è stata eletta dalla maggioranza del popolo palestinese». E lo slogan «Israele Stato terrorista» scandito dalla folla a Milano? «Confermo». Per il 29 ottobre prossimo Hannoun ha indetto nel capoluogo lombardo un evento dal titolo emblematico: «Gerusalemme è nostra». Il convegno, ci spiega però l'architetto, è ora in forse per motivi di pubblica sicurezza. Già lo scorso anno la medesima convention aveva destato scandalo. Contestando la presenza tra gli ospiti di Alessandro Di Battista e del senatore dei Verdi, Tino Magni, il renziano Ivan Scalfarotto aveva infatti parlato di conferenza «organizzata da referenti di Hamas in Europa».
Estratto dell'articolo di ilfattoquotidiano.it mercoledì 11 ottobre 2023.
“Mi cadono le braccia perché ricominciamo con la solita tiritera, cioè con l’applicare criteri morali a questioni che non c’entrano nulla con la morale. La morale l’avrebbe potuta fare in questi casi Gino Strada ma nessuno dei governi che si fronteggiano può fare la morale o dire ‘non ho bambini sulla coscienza’. Pensiamo solo all’operazione Piombo Fuso di Israele a Gaza o alle guerre in Libano“. Così a Otto e mezzo (La7) il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, commenta le parole di Beppe Severgnini che, in un acceso confronto con l’ex ambasciatrice Elena Basile, l’ha rimbrottata per aver messo sullo stesso piano Israele e Hamas.
Travaglio aggiunge: “Non mettiamoci su quella china perché non serve a niente. Serve solo a farci belli davanti allo specchio e a dire: “Io sono solidale, ho firmato l’appello, ora scrivo un editoriale di fuoco e li chiamo ‘bestie’, ‘maiali, ‘porci’, uso gli epiteti più terribili”. E il risultato qual è? – puntualizza – Che continuano a odiarci di anno in anno sempre di più. In Africa fanno un golpe dopo l’altro perché ci odiano. Hamas trova terreno fertile tra i ragazzini cresciuti nell’odio perché costretti a vivere in quelle condizioni e quindi fa attentati sapendo di avere alle spalle milioni di persone che prima non aveva”.
“ […] la domanda è: perché ci odiano tutti? Sono tutti cattivi loro oppure abbiamo fatto qualcosa anche noi? Ma guardate che questa domanda la fanno tutti i giornali israeliani di destra e di sinistra. Lo preciso prima che arrivi la lista degli ‘amici di Hamas”, dopo quella dei putiniani, perché non c’è limite al ridicolo e all’indecenza. E allora, invece di tifare come ultrà della curva sud o della curva nord, leggiamo quello che scrive il quotidiano israeliano Haaretz“.
Travaglio legge un passaggio del giornale israeliano (“Il disastro che si è abbattuto su Israele durante la festività della Simchat Torah è chiaramente responsabilità di una persona: Benjamin Netanyahu”) e sottolinea: “Questo lo dicono i giornali di Israele perché è una democrazia. Perché noi dovremo essere meno democratici degli israeliani e metterci a fare le scomuniche? Ma c’è davvero qualcuno che può pensare – continua – che siamo dalla parte di Hamas perché diciamo che dagli accordi di Oslo in poi la giustificazione di tenere i territori occupati nel ’67 in attesa della pace non regge più e che 30 anni di odio hanno provocato le stragi orripilanti di ieri? […]”.
Severgnini dissente e ribadisce: “Io so benissimo le cose che hai detto e posso anche condividerle, ma noi le robe di Hamas, con tutti gli errori che possiamo aver commesso, non le facciamo. Qui non è questione di fare i buoni o i cattivi perché in questo caso ci sono i buoni e i cattivi, lo vogliamo capire o no?”.
“Ci sono i cattivi – replica Travaglio – I buoni sono solo i civili che sono le vere vittime in Ucraina, come in Israele e in Palestina“.
(ANSA mercoledì 11 ottobre 2023) - Bufera su Harvard. Il prestigioso ateneo americano è stato duramente criticato dal suo ex presidente Larry Summers per non aver condannato l'attacco di Hamas in Israele. Un silenzio ufficiale dal quale è emersa solo la voce di un gruppo di studenti che hanno puntato il dito contro Israele. "Il regime israeliano è interamente responsabile di tutta la violenza che si sta scatenando", ha scritto in una lettera aperta la coalizione di studenti Harvard Palestine Solidarity Group.
La reazione di Summers, l'ex segretario al Tesoro dell'amministrazione Clinton, è stata immediata: "Nei 50 anni di mia vicinanza a Harvard non mi sono mai sentito così disilluso e alienato", ha detto Summers, secondo il quale il silenzio dell'università l'ha fatta "apparire neutrale nei confronti degli atti di terrore contro Israele". Colpita dalle dure parole, Harvard ha alla fine rotto il silenzio condannando "le atrocità commesse da Hamas" come "ripugnanti". Il dibattito su Israele e i palestinesi è uno dei più divisivi nei campus americani da tempo, e Harvard non è l'unica dove gli studenti che si sono pronunciati lo hanno fatto a sostegno dei palestinesi.
Estratto dell’articolo di Gianni Riotta per “la Repubblica” venerdì 3 novembre 2023
Tra gli alberi di autunno, la studentessa di Princeton University strappa, uno per uno, dalla bacheca del campus i volantini con i volti degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas. Quando un passante le chiede perché, si accende «Israele è regime coloniale, i palestinesi indigeni oppressi dall'imperialismo bianco. È guerra di liberazione!».
La ragazza è “pacifica” rispetto ad altri atenei Usa, a Tulane University, New Orleans, lo studente ebreo Dylan Mann è aggredito da compagni, intenti a bruciare la bandiera di Israele, colpito al volto con la frattura del naso. Solo l'intervento della giovane Natalie Mendelsohn lo salva, «Mi son trovata le mani bagnate dal sangue di un ebreo racconta Natalie - mai avrei pensato di vivere questo dolore».
A Cooper Union, New York, gli studenti ebrei sono assediati in biblioteca da dimostranti filo Hamas e minacciati per le kippah. Alla Cornell University, uno studente di 21 anni è stato arrestato per aver minacciato sui social media «Se vedi un ebreo sul campus seguilo e tagliagli la gola… porta il tuo fucile, spara ai maiali ebrei».
[…]
Yale, Princeton, Harvard, Stanford ignorano i raid di Hamas contro innocenti, ci vogliono interventi di docenti come l'ex ministro democratico Summers, o di mecenati, perché arrivano tardi, e tiepide, dichiarazioni. Domina la tesi resa popolare dall'attrice Whoopi Goldberg, la sola repressione storica è dei bianchi sui neri, gli ebrei sono bianchi dunque complici dell'imperialismo, «L'Olocausto non aveva nulla a che fare con il razzismo». Per Zareena Grewal, docente a Yale, «i coloni israeliani non sono civili» e dunque, come militari, sono obiettivi legittimi di Hamas, inclusi bambini, anziani, donne incinte.
L'antica sigla Democratic Socialists of America vede i militanti scendere in piazza per Hamas e costringe il deputato progressista Shri Thanedar alle dimissioni (la leader di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez ha ancora la tessera Dsa, ma prende le distanze da Hamas). Il movimento nasce da una malintesa lettura della “politica delle identità”, teoria diffusa nei campus, che fa dire al professore Ameil Joseph su X-Twitter «postcolonialismo non è parola da laboratorio» ma teoria per armare le masse.
Due intellettuali, Yascha Mounk, sul sito Persuasion, e Simon Sebag Montefiore, sulla rivista Atlantic, in toni disperati, ammoniscono liberal e democratici contro l'assurdità di citare i “Dannati della terra” di Frantz Fanon (Einaudi), pamphlet contro l'imperialismo francese in Algeria, per esaltare Hamas. Non basta: come per la critica a “verità, realtà e oggettività” dei postmoderni che, alimentando no vax e no green pass, ha accumulato morti di Covid, così la sacrosanta campagna per i diritti umani di popoli oppressi da Europa e Stati Uniti in Africa, Asia ed America Latina, assolve, per paradosso, Hamas.
Poiché si batte contro Israele, alleato degli Usa, diventa icona alla Che Guevara. Toni simili echeggiano nell'appello dei docenti dell'università di Bologna, nel manifesto firmato dal fisico Carlo Rovelli, al centro di una polemica accesa dal Foglio, nella galassia di estremismo e populismo che prolifera, comunisti e neofascisti fianco a fianco, online e nei talk show della disinformazione.
Che Hamas dalle elezioni, alla libertà di parola e religione, alle donne e diritti Lgbtq neghi ogni ideale nobile della sinistra non importa. […]
Harvard, scoppia il caso della mancata censura di Hamas. Storia di Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera mercoledì 11 ottobre 2023.
È tempesta nelle università americane per le contrastanti prese di posizione sull’attacco di Hamas in Israele e, soprattutto, per la quasi totale assenza di nette condanne delle stragi di civili ebrei commesse sabato, nel primo giorno del conflitto. La miccia è stata accesa ad Harvard, considerata la più autorevole accademia Usa, da una lettera aperta nella quale, subito dopo i massacri, 33 gruppi di studenti (da Amnesty International at Harvard ad Harvard Divinity School Muslim Association) hanno dichiarato di considerare «il regime di Israele totalmente responsabile di tutte le violenze» causate da «vent’anni di apartheid a Gaza».
Due giorni di silenzio del vertice dell’ateneo: poi il caso è esploso con la sortita di Larry Summers, democratico, ex ministro del Tesoro ed ex presidente di Harvard, che ha giudicato inaudito l’atteggiamento dell’università aggiungendo di non aver mai vissuto momenti così deludenti e sconcertanti in 50 anni di vicinanza all’accademia come studente, ex alunno, professore, presidente. Reazioni ancora più dure da parte di molti altri laureati celebri come il senatore repubblicano Ted Cruz. Due dichiarazioni «riparatorie» messe in rete lunedì e martedì dalla presidente di Harvard, Claudine Gay («non ci possono essere dubbi sulla mia condanna delle atrocità commesse da Hamas» e poi «le prese di posizione di gruppi di studenti, anche numerosi, non rispecchiano l’opinione dell’ateneo») non hanno placato le critiche. Condanne esterne (dichiarazioni «tardive e inadeguate», secondo Summers) e interne: molte decine di docenti, assistenti ed ex professori di Harvard hanno firmato una lettera aperta di critica alla «neutralità» della Gay. Non è un problema solo dell’accademia di Boston.
Alla Vanderbilt University il cancelliere Daniel Diermeier è stato sepolto dalle critiche per aver messo in rete un commento ancor più neutrale: «Ho il cuore spezzato dalle violenze nella regione» che lui attribuisce a «cause molto complesse». E mentre alla George Washington University della capitale americana la presidente Ellen Granberg si preoccupa solo di evitare incidenti nel campus («non saranno tollerate violenze o sopraffazioni nei confronti di ebrei, palestinesi, arabi»), si diffondo le veglie notturne a lume di candela: quella dell’università californiana di Berkley è stata a favore della Palestina, mentre quella della University of Florida, a favore di Israele, è finita nel caos: pare per il panico provocato da uno svenimento e dal rumore di una bottiglie piena d’acqua caduta al suolo che, nell’oscurità, è stata scambiata per un colpo d’arma da fuoco.
Secondo Tom Ginsburg, direttore di facoltà del Forum per la libertà d’espressione della Chicago University, il conflitto scatenato da Hamas sarà anche l’occasione per rivalutare le virtù della neutralità accademica. Una linea seguita da questa università fin dal 1967 quando, in una famosa dichiarazione, sostenne che le università devono essere luoghi nei quali si formano le diverse opinione critiche, non quelle che ne esprimono una all’esterno. Ginzburg fa notare sul che, analizzando il comportamento delle 17 maggiori università Usa, si scopre che tutte, meno due (tra queste Chicago), hanno preso posizione per l’Ucraina nel conflitto scatenato un anno e mezzo fa dalla Russia mentre nessuna ha detto nulla su quello, precedente e ancor più sanguinoso, che ha sconvolto l’Etiopia. Summers ammette che la scelta della neutralità accademica può avere una sua ragion d’essere, ma non quando «sull’università di Harvard viene issata la bandiera dell’Ucraina e ci si schiera con decisione dalla parte di Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia». E a gettare altra benzina sul fuoco è proprio l’organizzazione degli attivisti afroamericani: almeno due gruppi di Black Lives Matter, quelli di Chicago e Los Angeles, si sono schierati sui social media con i palestinesi celebrando l’attacco di Hamas come un atto di resistenza simboleggiato dall’immagine stilizzata di un assalitore paracadutista.
Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it il 10 ottobre 2023.
Tutti pro-Palestina. Evitando, quando possibile, di pronunciare la parola Hamas. Ma il concetto è quello. I partiti e i gruppi neofascisti italiani hanno già preso posizione sul conflitto scatenato dalla brutale aggressione da parte dei terroristi palestinesi calati dal cielo sul rave party dei ragazzi israeliani.
Scrive il capo di Forza Nuova, Roberto Fiore, all’indomani del raid: “Tutti siamo colpiti dalla rapida violenza della Guerra ma non c’è pace senza giustizia. I Palestinesi (maiuscolo) cercano di liberare la loro Patria (maiuscolo) e gli israeliani (minuscolo) rispondono con più insediamenti. Fa orrore – continua l’ex terrorista nero – la stampa di centrodestra che invoca stragi e chiama bestie i Palestinesi”.
La prende larga il ras forzanovista. Ma poi scalda la penna e, sempre in un pezzo pubblicato sul sito “d’area” Fahrenheit2022, si lancia in questo ragionamento: “Sappiamo perfettamente che secondo qualsiasi criterio di legge e giustizia internazionale, Israele è un’ Entità senza legittimità, non riconosciuta da quasi tutti i Paesi arabi (non era riconosciuto nemmeno dal Vaticano fino al 1989) il cui governo incoraggia la costituzione di insediamenti da parte di dei coloni, erodendo costantemente la Terra Palestinese…. “.
Poi l’affondo finale. Una difesa che corrisponde di fatto a una legittimazione del terrorismo palestinese. “Attenzione: quando si parla di distruzione di Israele, anche nelle menti più radicali quali Hezbollah e Hamas, non si intende eliminare gli ebrei e gettarli a mare, ma di creare una Palestina, in cui sia consentito a tutte le razze, etnie e religioni, di autogovernarsi in una dinamica cantonale simile a quella svizzera… Questa è l’unica possibilità di risolvere il nodo palestinese…”.
Insomma: secondo Forza Nuova i cecchini scesi coi deltaplani per trasformare una festa musicale in una carneficina e fare prigionieri non volevano “eliminare gli ebrei” ma solo “creare una Palestina simile alla Svizzera dei cantoni”.
Correva l’anno 2019 quando Forza Nuova organizzò con partenza dalla stazione Eur Palasport a Roma un corteo dal titolo “Palestina libera”. A seguire ci fu il memorial Massimo Morsello (cofondatore di FN, ex Nar).
Ispirati dal loro odio antisemita, […] i forzanovisti sancirono una linea che da anni accomuna diversi partiti di estrema destra (con profonda irritazione della sinistra radicale da sempre anch’essa vicina alle istanze degli “oppressi” palestinesi).
CasaPound Italia, ugualmente ai competitor di FN, da tempo organizza e partecipa a iniziative a favore della Palestina. A settembre 2015 all’Hotel dei Congressi a Roma andò in scena “Mediterraneo solidale”, con un parterre estremista italo-mediorientale.
Presenti rappresentanti di Hezbollah […] e, per CasaPound, Alberto Palladino detto “Zippo”, militante più volte avvistato nel Donbass nel corso del conflitto russo-ucraino e che nel luglio 2012 è stato condannato a due anni e otto mesi per avere guidato 15 camerati con casco e spranghe contro tre militanti del Pd, e Giovanni Feola, già candidato alla presidenza del VII Municipio di Roma e responsabile nella Capitale del Fronte europeo per la Siria.
[…] Oggi, oltre dieci anni dopo i presidi di CPI a Oristano contro le esercitazioni militari israeliane in Sardegna, la tartaruga nera si batte ancora per la Palestina. Sullo sfondo, e vale per tutta l’estrema destra italiana a partire dagli anni ‘70, il nemico storico: gli Stati Uniti.
Ecco il post, l’altro giorno, di Luca Castellini, vicesegretario nazionale di Forza Nuova. In un messaggio pubblica due immagini appaiate della facciata di palazzo Chigi: in una vi sono proiettati i colori giallo e blu dell’Ucraina e nell’altra la bandiera di Israele: “Corto circuito tutto fuckin’liberal occidentale quello per cui in una guerra ci dicono di stare dalla parte dei finti oppressi e in un’altra da quella dei certi oppressori. Succede quando l’etichetta di oppresso ed oppressore è meramente funzionale a chi ci tiene in catene”.
Netta anche la linea di Azione Frontale, gruppo neofascista romano dedito alle “passeggiate della legalità”, leggi ronde tra stazioni e metropolitane. Per simbolo un fascio littorio stilizzato. Il leader Ernesto Moroni non fa giri di parole: “#FreePalestine. E se i figli di Caino avessero permesso tutto questo spargimento di sangue per giustificare il radere al suolo la striscia di Gaza? Quasi ottant’anni fa con questo modus operandi si appropriarono di una terra non loro!”.
La teoria del complotto, dunque. Ovvero: gli israeliani hanno permesso ai terroristi di Hamas di fare strage al rave e imprigionare israeliani e americani strada per strada, per giustificare poi una controffensiva-mattanza e la distruzione della striscia di Gaza. Sulla stessa linea filo-palestinese sono i neonazisti di Do.ra. – sede ad Azzate, nel varesotto – da sempre nemici degli Usa e di Israele. E identica musica per le teste rasate del Veneto Fronte Skinhead. […]
DAGONEWS il 10 ottobre 2023.
Centinaia di manifestanti filo-palestinesi si sono riuniti sotto l'ambasciata israeliana a Kensington, a Londra, cantando "Israele è uno stato terrorista", "Palestina libera" e "Allahu akhbar".
“Palestine Solidarity Campaign”, uno dei gruppi dietro la manifestazione, ha dichiarato in un comunicato: «L'offensiva lanciata da Gaza può essere compresa solo nel contesto dell'occupazione militare e della colonizzazione della terra palestinese in corso da decenni e dell'imposizione di un sistema di oppressione che soddisfa la definizione legale di apartheid.
Questo è il contesto in cui scoppia il ciclo della violenza. Se vogliamo porre fine alla violenza, sia quella dell'oppressore che quella degli oppressi, allora dobbiamo tutti agire per porre fine alla causa principale: l'apartheid israeliano e l'oppressione dei palestinesi». I sostenitori della comunità israeliana non sono riusciti a raggiungere l'ambasciata.
Durante le proteste che sono sfociate nel caos, si sono registrati scontri tra manifestanti filo palestinesi e polizia: almeno tre persone sono state arrestate. Secondo le forze dell’ordine, nel corso delle proteste in città, diverse persone hanno danneggiato un edificio. La polizia sta identificando le persone coinvolte.
DAGONEWS il 10 ottobre 2023.
Lunedì sera manifestanti filo-palestinesi hanno scatenato il caos davanti all'Opera House di Sydney.
La polizia è ora sotto accusa per aver consentito lo svolgimento della manifestazione, mentre è stato chiesto agli ebrei australiani di "restare a casa" per la sicurezza.
La manifestazione, organizzata dal “Palestine Action Group Sydney”, ha attirato un gran numero di attivisti filo-palestinesi. Un gruppo di musulmani radicali ha cantato “fanculo Israele, fanculo gli ebrei” mentre altri urlavano “gas per gli ebrei”.
Secondo il “Daily Mail Australia”, un gruppo di estremisti ha tentato di dare fuoco a una bandiera israeliana con petardi prima di calpestarla e ridurla a brandelli al grido di "Allahu Akbar" e di "morte agli ebrei".
(ANSA il 10 ottobre 2023) - Momenti di tensione alla Sapienza. Con lo slogan 'Palestina libera', gli studenti di Cambiare Rotta durante il presidio al rettorato, dove si stanno riunendo Consiglio d'amministrazione e Senato accademico per discutere una mozione a favore di Israele, hanno provato a entrare all'interno del palazzo. Sono stati bloccati dalle forze dell'ordine presenti. Il corteo sta comunque procedendo attorno al rettorato all'interno dell'università: "Nessun colonialismo nessun padrone. Intifada per la rivoluzione", lo striscione esposto dai ragazzi.
"Noi a Valditara diciamo che non stiamo con i nazisti ma non stiamo con Israele. Noi siamo per la Palestina. Per i popoli che si autodeterminano", dicono gli studenti che hanno appeso all'entrata della biblioteca il manifesto "Nessun colonialismo nessun padrone. Intifada per la rivoluzione" e che ora si stanno spostando nuovamente davanti all'ingresso del palazzo dove si è riunito il Consiglio e il Senato accademico. "Non faremo un passo indietro finché Polimeni e il Senato accademico non ritireranno la mozione contro la Palestina pro Israele. Se non cambierà intifada pure qua".
Estratto dell’articolo di Christian Campigli per “Il Tempo” il 10 ottobre 2023.
Una manifestazione a favore dell'Intifada. Una lotta armata giudicata come legittima e necessaria per la Palestina, da combattere fino alla fine. Anche a costo di utilizzare i violenti strumenti del terrorismo. Per questo pomeriggio, i Giovani Palestinesi, l'Unione Democratica arabo-palestinese e l'associazione dei Palestinesi in Italia hanno organizzato a Milano un presidio, dalle cinque e mezzo del pomeriggio, sotto la sede del Comune.
L’iniziativa, denominata «Intifada fino alla Vittoria, Milano per la Palestina», è stata lanciata ieri attraverso i principali social network. “In questo momento- si può leggere su Instagram- abbiamo bisogno di esprimere massima solidarietà alla popolazione palestinese ancora una volta minacciata dalla violenza del colonialismo israeliano [….]
Nel capoluogo meneghino è scattata la massima allerta. Il governo vuole evitare che si possano verificare, anche nel nostro Paese, scontri tra manifestanti e forze dell'ordine come capitato a Berlino o indegni caroselli pro Hamas, come avvenuto a Parigi, Londra, New York e Toronto. Quattro giorni più tardi, sabato prossimo, è previsto un corteo, dalle tre e mezzo del pomeriggio, in piazza San Babila.
Che vi sia un'onda di latente antisemitismo, nascosta dietro la richiesta di una soluzione del conflitto in Medio Oriente, è piuttosto evidente navigando sui social. Basta andare sulla pagina Facebook «Palestina Libera» per averne prova.
Si va dalla raffigurazione della bandiera di Israele, che al centro della stella di David ha una svastica, a chi, invece di rispondere nel merito, sa solo gridare in modo sguaiato «Free Palestina».
Il Cpa di Firenze, il più grande centro sociale del capoluogo toscano, lo stesso che ha ospitato la terrorista Silvia Baraldini e che ha espresso più volte il «massimo sostegno» ad Alfredo Cospito, ha ben pensato di far sventolare la bandiera della Palestina, accanto a quella della ex Jugoslavia di Tito. […]
Estratto dell'articolo di Matteo Milanesi per nicolaporro.it il 10 ottobre 2023.
[...] E in queste ore, non sono mancate le frecciate anti-Tel Aviv da parte dell’estrema sinistra italiana. Al coro, per esempio, si è aggiunto pure Patrick Zaki, il giovane attivista egiziano incarcerato nel suo Paese tra il 7 febbraio 2020 e l’8 dicembre 2021, e poi rilasciato in seguito al lavoro diplomatico svolto dal governo di Giorgia Meloni.
E voi direte: l’attivista per i diritti umani avrà condannato sicuramente gli atti criminali di Hamas? La risposta, però, è negativa. E ad essere al centro dell’attacco, c’è proprio Israele ed il governo di Netanyahu, definito addirittura un “serial killer”. Ecco il commento di Zaki su X: “Oggi le forze di occupazione israeliane hanno bombardato una delle chiese più antiche del mondo nella zona di Zaytoun a Gaza.
La Chiesa di San Porphyrius ha più di 1.600 anni”. In un altro post del 7 ottobre, il ricercatore egiziano dell’università di Bologna commentava così le parole del premier israeliano, che esortava i civili ad andarsene da Gaza e dichiarava lo stato di guerra: “Quando un serial killer cerca di convincere la comunità internazionale che rispetta le convenzioni internazionali, per legalizzare l’uccisione di civili”.
Una realtà letteralmente distorta, che non tiene in considerazione l’andamento degli eventi delle ultime 72 ore, visto che a sfondare nel sud di Israele sono state le milizie di Hamas. Anzi, è stato lo stesso leader israeliano, nella giornata di ieri, ad allarmare la popolazione che potrebbero esserci ‘cellule dormienti’ all’interno del Paese, pronte ad attacchi suicidi come ci hanno dimostrato più volte l’Isis e le altre organizzazioni fondamentaliste.
Zaki dimentica pure chi c’è dietro il finanziamento economico e bellico degli estremisti di Hamas ed i libanesi di Hezbollah: l’Iran. Esatto, uno degli Stati in cui il rispetto dei diritti umani è ai minimi livelli. Quella monarchia dove, pochi mesi fa, un giovane veniva lapidato per aver dichiarato pubblicamente la propria omosessualità.
Quello Stato dove le donne non hanno alcun diritto. “Piccoli” dettagli che al nostro Zaki sfuggono, ma chissà se questa libertà di parola la avrebbe avuta in Egitto o addirittura a Gaza. In Israele, la risposta è affermativa; negli altri casi, avremmo forti dubbi.
Contro la violenza contro qualsiasi civile – Pro Palestina e non Hamas.
Nel conflitto Israele-Palestina nessuno può essere ritenuto come filo-hamas se sostiene la Palestina. Non sono con Hamas ma sembrerebbe che assumere la posizione di difendere i civili palestinesi vi metterà…
Antonio Atte per Adnkronos il 10 ottobre 2023.
Se condanno l'attacco di Hamas a Israele? "Dico che mi dispiace tanto per quanto è successo. Dispiace che a Gaza ci sia da 17 anni un embargo contro i palestinesi, che subiscono ingiustizie nel carcere più grande del mondo. Non è questione di condannare o non condannare...".
Sulaiman Hijazi, vicepresidente della Onlus Abspp (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese), risponde così all'Adnkronos quando gli viene chiesto di esprimere la sua posizione sul massacro compiuto lo scorso 7 ottobre da Hamas in Israele, al quale il governo Netanyahu ha risposto con una dura offensiva sulla Striscia di Gaza.
Hijazi è oggi al centro delle cronache dopo un articolo de 'Il Foglio' sui "rapporti dei grillini" con la Onlus, finita in passato nel mirino dell'Antiriciclaggio e dell'intelligence israeliana per presunti finanziamenti ai terroristi palestinesi: la ricostruzione giornalistica sui legami con il M5S è stata bollata dal presidente del Movimento Giuseppe Conte come un "superficiale affastellamento di bislaccherie".
Hijazi, che scattò un selfie con Conte a Milano nel 2022, tiene a precisare che la Onlus Abspp "intrattiene rapporti con tutti" e che la deputata M5S Stefania Ascari (citata nell'articolo de 'Il Foglio' dal titolo "Intifada grillina") "è solo uno degli ultimi esponenti politici" con cui l'associazione ha avuto a che fare.
"Abbiamo rapporti con persone di sinistra e ultimamente anche con la destra", spiega l'attivista palestinese. A chi gli chiede se tra le forze politiche di destra a cui fa riferimento ci siano anche Fratelli d'Italia e altri partiti dell'arco parlamentare, Hijazi risponde di sì: "Anche se è 'vietato' dirlo in giro, si sa che molti parlamentari di FDI sono pro Palestina. Chi dice di stare con i diritti del popolo palestinese viene accusato di essere contro Israele".
"Se ho avuto incontri con esponenti di FDI? Non posso dirlo", taglia corto il vicepresidente della Onlus. "So benissimo che ci sono tanti sostenitori della Palestina non solo in FDI ma anche nella Lega e in Forza Italia. Solo che ora non possono manifestare questo consenso".
Nel 2021 i conti della Onlus presieduta da Mohammad Hannoun furono bloccati dalla banca per "una serie di attività sospette". "Ma poi sono stati sbloccati. E comunque non è la prima volta che succede", sottolinea Hijazi. "Se fossero vere le accuse contro di noi avrebbero già chiuso l'associazione e avrebbero già preso provvedimenti contro tutti. Chi appoggia la questione palestinese viene sempre associato al terrorismo e all'antisemitismo, cose che non ci riguardano minimamente.
Siamo per fortuna in un paese democratico: se l'essere palestinese è una colpa, è la miglior colpa che abbiamo avuto in vita nostra", insiste l'attivista, il quale definisce "menzogne" le accuse secondo cui la Onlus Absapp sarebbe un canale di finanziamento di Hamas.
"Noi vogliamo parlare solo di Palestina - assicura - e far capire le sofferenze del popolo palestinese, aiutando i bisognosi. Tutto qua. Bisogna far capire alla gente e soprattutto ai politici che la questione palestinese non è questione di tifo da stadio, è una questione di diritti". Non sono passati inosservati alcuni post pubblicati su Facebook da Hijazi la mattina del brutale attacco sferrato da Hamas contro Israele.
In uno di questi l'attivista ha scritto "Sia lodato Dio", mentre un altro recita "Buongiorno Palestina". Hijazi smentisce qualsiasi collegamento con l'eccidio in Israele: "Ho avuto dei gemelli da poco, uno di loro non sta tanto bene. La mattina io e mia moglie ci siamo svegliati e lo abbiamo visto sorridente, in salute. Per fortuna stava bene. A questo si riferiva il mio post: vogliamo pure leggere le intenzioni delle persone? E per quanto riguarda 'Buongiorno Palestina', beh lo scrivo spesso, visto che si tratta della mia terra". Al post "Sia lodato Dio", tuttavia, un utente deve aver attribuito un altro significato, visto che sotto lo status di Hijazi ha postato l'immagine di un uomo che si lancia sulla moschea di Gerusalemme col paracadute, accompagnata dalla scritta "La vittoria sarà palestinese. Che la vostra giornata sia piena di benedizioni".
Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 10 ottobre 2023.
Missioni e iniziative parlamentari, una foto (“casuale”) con Giuseppe Conte, i post sul blog di Grillo. E poi una deputata di riferimento: Stefania Ascari. Il tutto nonostante le segnalazioni, già note, dell’Antiriciclaggio e le accuse dell’intelligence israeliana di raccogliere fondi per finanziare Hamas. E’ il caso della onlus Abspp (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) di Mohammad Hannoun e Sulaiman Hijazi.
In queste ore è stato proprio Alon Bar, ambasciatore d’Israele a Roma, a parlare di ong che, con la scusa del supporto umanitario, finanziano i terroristi. La storia di Abspp è da raccontare. Il vicepresidente Sulaiman Hijazi nella passata legislatura fu l’accompagnatore della delegazione pentastellata, composta dagli onorevoli Davide Tripiedi e Stefania Ascari, nei campi profughi palestinesi in Libano. Nel 2019 sarà ricevuto in Senato dall’allora presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama Gianluca Ferrara.
Il 30 ottobre 2022 ci sarà anche l’attuale tesoriere del M5s Claudio Cominardi ad attenderlo a Pratica di Mare con la piccola Talya, bimba di due anni bisognosa di cure. Il 19 settembre del 2022, a pochi giorni dal voto per le politiche, Hijazi pubblica sul suo profilo Facebook una foto con Giuseppe Conte.
Quel giorno l’ex premier e capo politico del M5s si trova di prima mattina a Genova e in serata a Milano […]. “Grazie presidente per il tempo che ci ha dedicato oggi”, scrive il vicepresidente dell’associazione guidata da Mohammad Hannoun, architetto palestinese trapiantato a Genova, già al centro di numerose inchieste per le attività di raccolta fondi destinate alle famiglie dei kamikaze palestinesi.
Lo scorso luglio il ministero della Difesa israeliano […] ha chiesto di sequestrare i fondi dell’associazione in questione perché legati ai terroristi. Sabato mattina su Facebook Hijazi – cioè l’uomo della foto con Conte e delle missioni con i deputati grillini […] – ha commentato così quanto stava accadendo: “Buongiorno Palestina! Sia lodato Dio!”.
L’uomo è noto anche perché è il marito di Nibras, la giovane donna musulmana che parlò nel 2019 dal palco delle Sardine in piazza San Giovanni nella manifestazione che lanciò sul palcoscenico nazionale il movimento di Mattia Santori, ora confluito nel Pd.
Contattato dal Foglio, lo staff di Conte specifica che quel giorno “non ci furono incontri con questa associazione e che al massimo si tratta di una delle tante foto che le persone si fanno con il presidente durante i tour elettorali”.
Tuttavia Hijazi come si è dimostrato citando date ed eventi da anni intrattiene ottimi rapporti di collaborazione e cooperazione con i pentastellati. E in particolare con la deputata grillina alla seconda legislatura Stefania Ascari, capogruppo in antimafia del M5s.
La quale lo scorso febbraio organizzò con Mohammad Hannoun, questa volta nelle veci di presidente di “Europeans for Al Quds” una conferenza stampa alla Camera nell’ambito del Rapporto per i diritti umani in Palestina, su spinta dall’associazione “Europei per Gerusalemme”.
Sempre lei lo scorso maggio, unica parlamentare italiana, ha partecipato al ventesimo congresso della Conferenza europea dei palestinesi, a Malmö […].
Con queste premesse il Parlamento sta cercando di approvare una mozione all’unanimità a sostegno di Israele e a totale condanna di Hamas. L’iniziativa parte dai capigruppo di maggioranza in Senato e cade di carambola su quelli della Camera.
L’obiettivo di Giorgia Meloni è di “tenere dentro tutti”. Ma tra le file della minoranza non mancano i distinguo: dai rossoverdi fino ai grillini. Ieri il M5s in una nota congiunta Camera-Senato ha condannato gli attacchi terroristici e ha riconosciuto il diritto di Israele a esercitare il suo legittimo diritto all’autodifesa.
Tuttavia, allo stesso tempo, ha espresso “profonda preoccupazione per una reazione israeliana che […] si preannuncia sproporzionata e diretta contro l'inerme popolazione civile della Striscia di Gaza”. Dalle origini la storia dei grillini racconta altro, d’altronde. Uno zibaldone di pensieri (e opere) volte a giustificare la lettura seconda la quale sui fucili palestinesi possono fiorire i garofani del progresso.
Nel 2016 Luigi Di Maio e Manlio Di Stefano si videro rifiutare da Israele il permesso di entrare a Gaza. Un gesto notoriamente tabù nella politica europea, perché equivale a un riconoscimento de facto del regime islamista […]. E poi le posizioni di Alessandro Di Battista e le sparate di Grillo: “I bambini palestinesi studiano. Studiano da terroristi e Israele è il loro miglior maestro”. […]
Massimo Franco per il “Corriere della Sera” - Estratti il 10 ottobre 2023
La possibilità che spuntassero voci dissonanti sul massacro commesso dai terroristi palestinesi di Hamas in Israele era messa nel conto. Gli ambigui distinguo del M5S, alcune sacche filopalestinesi della sinistra, la nebulosa antiebraica rispuntata tra organizzazioni estremistiche erano prevedibili.
Pochi, tuttavia, potevano immaginare che le stragi potessero aprire una crepa nei rapporti tra lo Stato ebraico e la Santa Sede. Di più: con tutti i capi delle altre fedi a Gerusalemme. E invece la tragedia rischia di rinfocolare anche un conflitto tra religioni. Non solo quello atavico tra Islam ed ebraismo, e tra musulmani sunniti finanziati dall’Arabia saudita e sciiti sostenuti dall’Iran.
(...) Una nota durissima dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ieri ha accusato di «immorale ambiguità linguistica» il testo, definito «estremamente deludente e frustrante», diramato il 7 ottobre dai «Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme». A irritare Israele è il fatto che non sia stato citato Hamas, il gruppo terroristico che ha attaccato Israele e compiuto le stragi.
«Dalla lettura del testo», si fa notare, «non si riesce a capire cosa sia successo, chi fossero gli aggressori e chi le vittime. È particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede». Tra loro c’è anche il nuovo cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca della Terra Santa, e questo spiega perché la nota dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede.
L’accusa alla chiesa cattolica di essere filo-palestinese non è nuova; e riflette una realtà storica. Diventa però potenzialmente esplosiva di fronte a una tragedia provocata dal terrorismo islamico, che spazza via qualunque tentativo di mediazione e convivenza pacifica, imponendo una logica bellica. In questi decenni gli sforzi per una riconciliazione sono stati aiutati da un confronto costante, sebbene non facile, tra la Roma papale e Gerusalemme. Quanto accade, invece, può far regredire il dialogo.
Mette in risalto la fragilità della presenza cristiana in Israele e in Medio Oriente: un declino progressivo della sua presenza e del suo peso. E sottolinea la difficoltà di trovare un linguaggio comune quando Hamas e gli altri gruppi della Jihad islamica colpiscono ebrei inermi con la ferocia dimostrata in questi giorni.
Nelle parole del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin sull’attacco «terribile e spregevole» e sulla fine di «tutte le speranze di pace», si indovina il timore di una deriva che potrebbe coinvolgere in una logica di guerra anche le fedi religiose.
Cosa sappiamo della presunta notizia dei bambini decapitati da Hamas. Enrica Perucchietti su L'Indipendente mercoledì 11 ottobre 2023.
Oggi praticamente tutti i quotidiani italiani aprono le prime pagine col massacro del kibbutz al confine con Gaza, dando per certo il fatto che al suo interno sarebbe stata compiuta una strage di bambini, alcuni dei quali addirittura decapitati. Nei titoli non c’è alcun condizionale: “I bambini, l’orrore” (Corriere della Sera), “La strage dei bambini” (La Repubblica), “La Strage degli innocenti” (La Stampa), e via dicendo. I giornali di destra si superano inventando anche ultras immaginari che sostengono i tagliagole: “Tifano per i macellai di bambini” (La Verità), “Hamas decapita i bambini ma la sinistra si divide (Libero). Con titoli del genere avranno saranno state verificate attentamente le fonti e saranno certe inattaccabili credete? Macché. Vediamo allora cosa si sa di questa presunta strage all’interno del villaggio israeliano di Kfar Aza.
Come spesso accade, la notizia è stata battuta dalle agenzie di stampa (Ansa, Adnkronos, Agi) e, in controtendenza rispetto alla maggior parte dei media esteri, che hanno provato a verificare la fondatezza della fonte e stanno ancora dibattendo su di essa, è stata ripresa a cascata da tutti gli organi di stampa nostrani, infuocando successivamente i dibattiti nei salotti televisivi.
La fonte primaria della notizia – che è bene sottolineare, è stata riportata per sentito dire ed è stata categoricamente smentita da Hamas in un comunicato, come riporta Al Jazeera – dei “bambini decapitati” è Nicole Zedeck, corrispondente del canale televisivo israeliano i24 News. Essendo una notizia riportata, i media avrebbero dovuto almeno lasciare i virgolettati nei titoli, evidenziando come non ci siano al momento prove a supporto delle dichiarazioni di Zedeck (che, come gli altri media esteri, come ha spiegato Bel Trew, non ha visto i cadaveri martoriati dei bambini), ma che si è limitata a divulgare un racconto che le sarebbe stato riferito.
I24 News ha deciso comunque di diffondere immediatamente la notizia attraverso la piattaforma social X. Il tweet è diventato virale. Come ricorda Pino Cabras, un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz curata da Josh Breiner e Nati Tucker, analizzò i legami stretti tra i24 News, “la risposta israeliana ad Al Jazeera” e l’entourage di Netanyahu, mostrando come le direttive provengano spesso direttamente dall’ufficio del Primo Ministro israeliano, “veline” ben accolte da un’emittente che dà lavoro a decine di veterani delle forze armate.
È bene precisare che anche Nic Robertson della CNN, sul posto a Kfar Aza, ha avallato la ricostruzione di Zedeck, senza però poter avanzare prove a suo supporto. A confermare la notizia della decapitazione dei bambini è stato anche l’ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar, che in una intervista a SkyTg24 ha raccontato di avere visionato le foto in arrivo dal luogo della strage. Ma la fonte è decisamente parte in causa e le foto che avrebbe visionato se le è tenute per sé. Lo stesso ha fatto direttamente alla CNN Tal Heinrich, portavoce del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha assicurato la veridicità della notizia. Anch’egli senza fornire tuttavia alcuna prova.
La deontologia giornalistica dovrebbe imporre un’analisi obiettiva di chi ha divulgato la notizia, oltre ovviamente cercare prove a supporto di essa. L’informazione, infatti, non ha trovato ulteriori conferme ufficiali da parte dell’esercito israeliano né prove fotografiche o altro a suo supporto.
Mentre la notizia rimbalzava sui media di tutto il mondo, alcuni inviati sul posto hanno precisato di non essere stati in grado di suffragare la ricostruzione di Zedeck. Come anticipato, la corrispondente dal Medio Oriente e da Nord Africa per The Independent, Bel Trew, ha precisato: «Volevo solo chiarire che non avevo twittato che 40 bambini erano stati decapitati. Ho twittato che ai media stranieri era stato detto che donne e bambini erano stati decapitati ma non ci erano stati mostrati i corpi».
Il giornalista francese Samuel Forey, corrispondente dal Medio Oriente per Le Monde, France Soir e Mediapart, che ha visitato ieri Kfar Aza non conferma la presenza di 40 decapitati e in un tweet su X spiega: «Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, tanto meno di 40 bambini decapitati. Ho contattato due servizi di emergenza (che desiderano rimanere anonimi, poiché l’argomento è delicato), che hanno raccolto diversi cadaveri. Entrambi affermano di non aver assistito a tali abusi, senza dire che non sono esistiti. […] Non sto minimizzando le atrocità commesse dai combattenti di Hamas. Li ho documentati […] Volevo chiarire che non posso verificare queste decapitazioni di bambini. Il futuro fornirà ulteriori dettagli».
Similmente, il giornalista e fotografo Oren Ziv, su X ha scritto: «Ricevo molte domande sulle notizie sui “bambini decapitati di Hamas” che sono state pubblicate dopo il tour mediatico nel villaggio. Durante il tour non abbiamo visto alcuna prova di ciò, né il portavoce dell’esercito né i comandanti hanno menzionato tali incidenti».
Nella serata di ieri, il portavoce dell’esercito israeliano ha smentito all’agenzia turca Anadolu la notizia dei corpi decapitati affermando che non ha e, quindi, non ha fornito informazioni di tali presunte decapitazioni di bambini da parte di Hamas: «Abbiamo visto la notizia, ma non abbiamo alcun dettaglio o conferma al riguardo». La smentita è stata riportata in Italia da Agi e da FanPage. Anche il sito americano Business Insider, ha specificato che «non è stato in grado di confermare in modo indipendente» la notizia.
Al momento, nessun giornalista, nemmeno gli inviati sul posto, sono in grado di attestare la veridicità della notizia e, se all’estero si sta consumando un acceso dibattito sui media e sui social, in Italia si è preferito prendere per oro colato un sentito dire e, come se non bastasse la violenza di questi giorni, sfruttare l’orrore della violenza sui bambini, per fare propaganda, disumanizzare il nemico (gli “animali umani”), infine, legittimare la reazione di Israele e l’escalation del conflitto.
Nel frattempo l’organizzazione umanitaria Save The Children ha affermato che almeno 78 bambini sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani a Gaza, e la conta è ferma a due giorni fa: di questo, però, sui giornali italiani non troverete nemmeno una riga. [di Enrica Perucchietti]
Valeria Casolaro su L'Indipendente lunedì 23 ottobre 2023.
Lo scorso week end in tutta Italia le piazze si sono riempite di decine di migliaia di persone che chiedevano la fine dell’aggressione militare di Israele contro Gaza e dell’occupazione della Palestina. Da Milano a Catania, passando per Torino, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Ancona e tantissime altre città, la popolazione ha urlato forte il proprio dissenso, chiedendo all’Italia e alla comunità internazionale di fermare il genocidio in atto nella Striscia di Gaza. Nonostante l’enorme portata del fenomeno, che dà voce a una parte di popolazione tutt’altro che marginale, gli eventi sembrano essere misteriosamente sfuggiti alla stragrande maggioranza dei quotidiani italiani.
A Torino, alle 14 di domenica 22 ottobre, oltre 3 mila persone si sono date appuntamento in piazza Crispi per dar vita a un corteo che ha marciato pacificamente per le strade della città verso il centro, portando bandiere che recavano la scritta “I popoli hanno diritto alla lotta – Palestina libera!” e “L’ultimo giorno di occupazione sarà il primo di pace”, scandendo a gran voce lo slogan “Free Free Palestine”. Nelle stesse ore, a Bologna, diverse migliaia di persone hanno percorso la città da piazza dell’Unità fino a piazza Maggiore, chiedendo lo stop immediato ai bombardamenti a Gaza e l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia, oltre alla fine dell’occupazione dei territori da parte di Israele. “È necessario continuare a mantenere viva l’attenzione sulla Palestina, anche al di là di momenti tragici come questo, e contrastare costantemente la narrativa filo-israeliana dei media maistream e di gran parte della politica che dipinge tutti i palestinesi come terroristi e li disumanizza per giustificare i crimini di guerra e contro l’umanità di Israele” ha scritto il Coordinamento della Campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni verso Israele) di Bologna, tra gli organizzatori della manifestazione. Stessa cosa a Catania, dove al corteo hanno preso parte anche il Comitato No MUOS/No Sigonella e altre realtà antimilitariste e pacifiste – come accaduto anche al corteo per la Palestina a Cagliari, svoltosi sabato. Ad Ancona i cittadini hanno sfilato per le strade per la seconda volta in pochi giorni, mentre sabato il sit-in per la Palestina organizzato in piazza Vittorio, a Roma, si è trasformato in un corteo che, marciando dietro a un enorme striscione recante la scritta “Contro l’apartheid Palestina libera”, ha raggiunto piazzale Aldo Moro. A Firenze, poi, svolgerà oggi una “fiaccolata della pace” che vedrà la partecipazione tanto della comunità musulmana quanto di quella ebraica.
Quelle elencate sono solamente alcune delle manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia (alle quali si aggiungono i cortei che si sono svolti in moltissime tra le principali città d’Europa) e che hanno visto una fortissima partecipazione anche delle comunità arabe locali, che dimostrano come un’ampia porzione della popolazione civile sia fortemente contraria tanto all’aggressione militare israeliana in corso, quanto all’occupazione dei Territori palestinesi, che si protrae da 75 anni nella connivenza della comunità internazionale. Una tale partecipazione per una questione non riguardante problematiche interne al Paese non si registrava da tantissimo tempo. D’altro canto, sono ormai quasi 5 mila i morti accertati nella Striscia di Gaza a seguito dei bombardamenti israeliani, dei quali quasi 2 mila sono bambini. È tuttavia probabile che i numeri siano fortemente sottostimati, dato l’altissimo numero di corpi che si trova ancora intrappolato sotto le macerie degli edifici bombardati.
I media italiani, stranamente, sembrano ignorare del tutto queste forme di dissenso. O, quando se ne accorgono, sembrano propendere per una lettura piegata su posizioni violente e anti-semite, distorcendo del tutto il senso della manifestazione. [di Valeria Casolaro]
Nel silenzio dei media in tutto il mondo si moltiplicano le manifestazioni per la Palestina. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 10 ottobre 2023.
In tutto il mondo si stanno svolgendo manifestazioni di solidarietà a sostegno del popolo palestinese: da New York, all’Australia, passando per Berlino, Londra, Istanbul, Milano e molte altre città del mondo. Non è che un antipasto, perché ovunque ci si sta organizzando per cortei nel fine settimana. I dimostranti hanno invitato a sostenere la resistenza e il popolo palestinese che da 75 anni subisce espropri illegali, violazioni costanti dei diritti umani e vive in un vero e proprio regime di apartheid e occupazione. Tutte queste manifestazioni hanno in comune il fatto di essere state del tutto ignorate dai principali media, i pochi che hanno coperto la notizia lo hanno fatto per stigmatizzarle accusando i partecipanti di antisemitismo e di appoggiare il terrorismo. Le esternazioni di solidarietà verso la causa palestinese sono quasi represse in buona parte dell’Occidente, compresa l’Italia dove, ad esempio, il ministro dell’Istruzione Valditara ha inviato degli ispettori in due scuole di Milano per punire degli studenti che si sono espressi a favore delle sigle della resistenza palestinese, augurandosi nientemeno che vengano arrestati per un reato di opinione che in Italia, ancora, fortunatamente non esiste.
In Australia, a Sydney, centinaia di persone hanno marciato contro l’occupazione israeliana e il Palestine Action Group Sydney ha chiesto all’Australia di tagliare i legami con lo Stato ebraico: l’attivista e accademico Fahad Ali ha invitato la folla a resistere all’occupazione israeliana della Palestina: «Abbiamo sofferto 75 anni di espropri, sono stati negati i nostri diritti alla vita e alla libertà, sotto un’occupazione sempre peggiore da parte di un regime coloniale che ha perpetrato contro di noi ogni tipo di atrocità», ha detto. Da parte sua, il primo ministro Anthony Albanese ha scoraggiato la manifestazione in segno di rispetto per la perdita di vite umane, sostenendo che le proteste non sarebbero servite a creare un clima che favorisce la pace. Dichiarandosi sostenitore della soluzione dei due Stati, ha affermato che l’attacco di Hamas non è nell’interesse né degli israeliani né dei palestinesi.
In Germania, già lo scorso 30 settembre – prima dello scoppio della guerra – la polizia tedesca ha represso una manifestazione organizzata da Samidoun, la Rete di solidarietà per i prigionieri palestinesi, e altri attivisti che si sono riuniti per parlare del caso di Kayed Fasfous e della campagna “StandWithZaid”, a sostegno di Zaid Abdulnasser, coordinatore di Samidoun in Germania, che rischia il ritiro della sua residenza a Berlino come rifugiato palestinese dalla Siria a causa delle sue attività politiche per la Palestina. La polizia ha circondato la Sonnenallee – un’importante strada di Berlino – vicino a Hermannplatz per intimidire gli attivisti e scoraggiarli dal partecipare all’evento. Nella capitale tedesca è presente la più grande comunità palestinese d’Europa.
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Negli Stati Uniti, invece, la dimostrazione di solidarietà verso la Palestina da parte dei Democratici Socialisti d’America (DSA) svoltasi l’8 ottobre a New York, ha diviso e messo in imbarazzo i rappresentanti democratici, molti dei quali hanno condannato l’evento. I partecipanti al corteo, composto da più di mille persone, hanno cantato «La resistenza è giustificata quando le persone sono occupate», ma diversi esponenti progressisti hanno condannato fortemente la manifestazione: il governatore di New York Kathy Hochul l’ha definita «abominevole e moralmente ripugnante» e alcuni importanti esponenti democratici ne hanno approfittato per tracciare una linea di demarcazione netta tra loro e i membri dell’ala sinistra del partito come Alexandria Ocasio-Cortez e Jamaal Bowman, i quali hanno condannato le azioni di Hamas chiedendo un cessate il fuoco, ma non hanno condannato l’evento. «Il NYC-DSA si sta rivelando per quello che è veramente: una macchia antisemita nell’anima della più grande città d’America», ha scritto su X il deputato del Bronx Ritchie Torres.
Nonostante il netto schieramento della politica europea e statunitense a favore di Israele, con poche e marginali eccezioni, non manca comunque il sostegno da parte della popolazione civile a alle ragioni della resistenza palestinese. I media dominanti non solo cercano di nascondere le numerose dimostrazioni di solidarietà, ma sfruttano la carta dell’“antisemitismo” come arma per demonizzare chi difende la resistenza palestinese. L’antisemitismo, infatti, non ha nulla a che fare con l’antisionismo e la difesa del diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato indipendente, tanto che diversi ebrei e rabbini ortodossi si sono opposti al sionismo e considerano inaccettabili le azioni del governo israeliano. Il rabbino Rabbi Weiss, ad esempio, portavoce del Movimento dell’organizzazione ebraica Neturei Karta, un gruppo di ebrei ortodossi la cui fondazione risale quasi a un secolo fa, sostiene l’opposizione all’ideologia sionista, e quindi anche allo stato d’Israele, in quanto la sua realizzazione contraddice, a suo dire, i principi e gli insegnamenti ebraici.
L’antisemitismo, dunque, è solo un pretesto per “blindare Israele”, impedendo qualsiasi critica e dissenso verso lo Stato ebraico. Nonostante ciò, le manifestazioni a favore della Palestina proseguiranno in tutto il mondo secondo un programma preciso pubblicato dalla rete Samidoun. [di Giorgia Audiello]
Gli incredibili cortocircuiti logici dei media per paragonare Israele all’Ucraina. Enrica Perucchietti su L'Indipendente l'11 ottobre 2023.
«Spezzeremo le ossa degli aggressori». Era il 1973 e il capo di stato maggiore David Elazar annunciava punizioni inimmaginabili ai palestinesi. Cinquanta anni fa, l’attacco che diede origine alla guerra dello Yom Kippur, nel giorno di una delle più solenni feste della religione ebraica, avvenne all’improvviso, nonostante gli avvertimenti della CIA, quando gli eserciti dell’Egitto e della Siria colsero di sorpresa la dirigenza politico-militare israeliana, mettendo in forte difficoltà le forze armate di Israele. Cinquant’anni anni dopo, un attacco, sulla carta impossibile, di Hamas colpisce il cuore di Israele.
Oggi, è Benjamin Netanyahu – accusato da Haaretz di essere il diretto responsabile del disastro – che, pronto a scatenare un’operazione di terra, dopo aver deciso di introdurre la clausola di guerra contro i palestinesi (l’articolo 40 Aleph della Legge fondamentale), annuncia punizioni terribili: «Il nemico pagherà un prezzo che non ha mai conosciuto». E, in questi giorni, la stampa mainstream non è soltanto unita nel condannare Hamas, ma ha deciso di abbracciare la causa israeliana, lanciandosi in spericolati paragoni con l’Ucraina. Riuscendo nell’impresa di capovolgere la realtà al punto di trasformare Israele nel Paese invaso e i palestinesi negli invasori. Per farlo, si chiude un occhio di fronte alla reazione di Israele e a dichiarazioni raccapriccianti, che evocano una tragedia umanitaria, sotto gli occhi socchiusi della comunità internazionale, come quelle del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha affermato di aver ordinato «un assedio completo alla Striscia di Gaza», che è bene ricordarlo, conta circa 2,2 milioni di persone. «Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza», ha affermato.
Sono proprio le numerose risoluzioni dell’ONU, inutilmente adottate e in parte ignorate o disattese, nel corso degli anni, per affrontare l’invasione e l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele, a mostrare chi sia realmente l’invasore. Dalla risoluzione 181 che sanciva la spartizione della Palestina, alla risoluzione 194 del 1948 che sul diritto di ritorno dei profughi (applicata solo in minima parte), per passare alla 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata nel 1967, subito dopo la Guerra dei sei giorni. Questa risoluzione sottolineava la necessità del ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati e il riconoscimento del diritto di tutti gli Stati della regione di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti. La lista è lunga: la risoluzione 338, adottata nel 1973 in seguito alla guerra dello Yom Kippur, richiedeva un cessate il fuoco immediato e il rispetto della risoluzione 242; la risoluzione 425 del 1978 del Consiglio di sicurezza dell’ONU ingiungeva a Israele di ritirarsi dal Libano ma gli israeliani si ritirarono solo nel 1985. E, ancora, la risoluzione 2334, adottata nel 2016, ha attirato l’attenzione internazionale per la sua chiara condanna degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. Tuttavia, Israele ha respinto questa risoluzione e ha continuato a costruire nuovi insediamenti.
Oggi, all’indomani dell’attacco a sorpresa di Hamas, i mezzi di informazione italiani sono uniti non solo nel biasimarne la violenza, ma persino nel ribaltare la realtà e abbracciare una narrazione orwelliana, in cui gli oppressori storici diventano gli oppressi indifesi da sostenere a ogni costo.
A guidare questa tendenza è Il Foglio che, per mano di Claudio Cerasa, lancia «un appello straordinario in difesa di Israele», che diventa per il quotidiano la democrazia perfetta che combatte contro i “terroristi islamisti”. Per Giuliano Ferrara, «La solidarietà con Israele non si porta più, non è più di moda. Va alla grande la delegittimazione di uno stato guarnigione, rifugio della democrazia e degli ebrei in una regione devastata dall’odio antisemita e dalla volontà di eliminare, annientare un popolo e le sue radici», mentre Secondo Micol Flammini, «La guerra contro Israele e contro l’Ucraina sono un unico fronte con Iran e Russia sempre alleate».
Similmente, per il Corriere della sera, in Israele la violenza ha lo stesso volto dell’Ucraina e del Bataclan e le «incursioni casa per casa risvegliano la memoria recente di quelle a nord di Kiev, a Izjum e Kharkiv», mentre per Huffingtonpost.it, «La guerra a Gaza è imparentata con quella in Ucraina. Meloni e Schlein solidali con Gerusalemme, ed è un bene». Non solo, perché i redattori che normalmente accusano di complottismo chiunque diverga dalla narrazione dominante, intravvedono una rete intricata dietro l’attacco di Hamas, anzi ne distinguono la matrice, non solo iraniana, ma addirittura russa: «Putin ha bisogno di un nuovo copione, ha urgenza di un evento nuovo che distolga l’attenzione dell’occidente dalle pianure dell’est. Hamas sembra essere lo strumento di un’operazione molto ambiziosa, i cui fili sono tirati altrove». Insomma, anche in questo caso, la colpa è di Putin.
Oltre la patina del cospirazionismo politicamente corretto, si coglie persino un nesso “perverso” «tra Kiev e Gerusalemme»: un paragone ridicolo, tra Ucraina e Israele che, seguendo la narrazione dominante che fa dell’Ucraina il Paese invaso, ribalta completamente la storia, rendendo Israele l’oppresso, invece dell’oppressore. Un confronto, come si diceva, orwelliano, dato che sono i palestinesi che dal 1948 aspettano di vedersi riconosciuti come Stato indipendente, che subiscono da parte di Israele una occupazione straniera, condannata, come anticipato da numerose risoluzioni ONU e giudicata discriminatoria e violenta al pari dell’apartheid dalle organizzazioni per i diritti umani. [di Enrica Perucchietti]
Israele calpesta il diritto, italiano sbattuto in cella senza accuse. Khaled El Qaisi, ricercatore con cittadinanza italiana è in prigione da 28 giorni senza alcuna motivazione formale. La denuncia alla Camera. Frank Cimini su L'Unità il 28 Settembre 2023
Khaled El Qaisi palestinese, ricercatore universitario si trova da 28 giorni in carcere in Israele senza che siano state formulate accuse a suo carico. La detenzione è già stata prorogata tre volte e la prossima udienza è fissata per il primo ottobre all’esito della quale entro 48 al massimo 72 ore dovrebbe esserci una decisione delle autorità sui motivi del “provvedimento” (finora nulla di scritto nero su bianco) del 31 agosto.
In una conferenza stampa alla Camera dei deputati il difensore Flavio Rossi Albertini, l’onorevole Laura Boldrini, Riccardo Noury di Amnesty International e Francesca Albanese ricercatrice speciale Onu hanno denunciato la violazione del diritto e delle convenzioni internazionali. Francesca Antenucci, moglie di Khaled, ha ricostruito le fasi dell’arresto al confine con la Giordania quando lei e il piccolo Kamal sono rimasti senza telefono e senza soldi. Per fortuna sono stati aiutati da alcune donne palestinesi che hanno dato loro i soldi per raggiungere in taxi l’ambasciata italiana di Amman.
Khaled in questi giorni è stato interrogato più volte senza difensore dalla polizia e dai servizi segreti. “Evidentemente non avendo elementi sui quali imbastire un’accusa formale puntano a ricavarli da questi interrogatori che in qualsiasi paese sarebbero illegali”, ha detto l’avvocato Albertini. Laura Boldrini ha ricordato la posizione espressa dal ministro degli Esteri Antonio Tajani secondo il quale “non si può interferire in una vicenda giudiziaria”. “E invece si deve in un caso del genere”, ha aggiunto la parlamentare. In Israele ci sono 967 palestinesi detenuti senza accuse formali. La reclusione è prorogabile di sei mesi in sei mesi per anni, ha spiegato ancora l’avvocato.
I giornali italiani hanno detto praticamente niente, “come se valesse da noi il divieto che c’è in Israele a riferire di vicende simili”. Alla conferenza stampa non era presente nessun telegiornale. L’unico grande quotidiano era il Corriere della Sera. Il governo se ne frega. L’onorevole Giovanni Donzelli di Fdi ha fatto sapere che Israele ha diritto di difendersi dai terroristi. Per Zaki che non era cittadino italiano si mobilitarono in tanti a sinistra e pure a destra. Per Khaled cittadino del nostro paese nulla. “Ma è italo-palestinese – conclude l’avvocato – e in Israele quello che c’è scritto prima del trattino conta zero”. Frank Cimini 28 Settembre 2023
Folla e popolo. Storia di due piazze, una populista in Francia e una democratica in Israele. Carlo Panella su L’Inkiesta il 29 Marzo 2023
La manifestazione nonviolenta contro Netanyhau ha avuto successo perché difende il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico. Mentre la violenza diffusa a Parigi per protestare contro la riforma delle pensioni è all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio
LaPresse
La piazza di Israele ha vinto, si è imposta e ha costretto Bibi Netanyhau a cedere. La piazza della Francia invece non vincerà ed Emmanuel Macron non annullerà affatto la sua riforma delle pensioni. È di importanza fondamentale mettere a fuoco le ragioni che hanno portato a risultati così divergenti su un tema cruciale: quanto la democrazia rappresentativa, il Parlamento, il governo debbano e possano oggi cedere alla piazza, alla protesta di massa.
Le ragioni della vittoria – temporanea – della piazza israeliana su Bibi Netanyhau sono complesse. La prima e determinante è che la piazza israeliana non solo è immensa – poco meno del 10 per cento della popolazione ebraica – ma che le sue ragioni e i suoi obbiettivi hanno spaccato il Palazzo, addirittura hanno convinto buona parte delle Forze Armate e di Sicurezza, alla base e ai vertici. Questo, nell’unico paese al mondo, Israele, in cui non c’è alcuna distinzione tra esercito e popolo, perché tutti – tranne gli ortodossi – le donne in prima fila, si fanno carico in prima persona della sicurezza armata della comunità nazionale.
La seconda ragione della vittoria della piazza israeliana, che è tutt’uno con la prima, è l’obbiettivo della mobilitazione: difendere il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico contro un Netanyhau che in preda alla brama di potere – e per salvarsi dalle sentenze – ha dato legittimità, voce, potere, addirittura controllo sulle forze di polizia, a una minoranza para-fascista, razzista, che intende sottomettere i laici israeliani e gli arabi tramite la contestata riforma della giustizia a un potere ebraico-religioso arrogante e totalitario.
La terza ragione è che questa immensa mobilitazione è non violenta – insignificanti gli scontri con la polizia – nel paese che più al mondo conosce la violenza di una guerra con gli arabi e di un terrorismo jihadista che si trascinano da un secolo.
Così, con questa forza, la mobilitazione attiva di metà e più del paese (molti sono i manifestanti che hanno votato Likud) ha spaccato il governo, la maggioranza, ha convinto i vertici militari, del Mossad e dello Shin Bet e addirittura il ministro della Difesa, braccio destro di Netanyhau e persino l’avvocato che difende Bibi in tribunale.
Determinante la minaccia di non presentarsi per protesta alla chiamata di addestramento di 37 sui 40 piloti della squadriglia aerea 69, il cuore dell’aviazione israeliana, determinante per la difesa e l’offesa bellica, a cui può essere affidata la missione di attaccare i reattori nucleari iraniani.
Da qui il successo della mobilitazione israeliana, anche se il prezzo che Netanyhau ha pagato alla destra estrema di governo per farle accettare la sospensione della riforma della giustizia è enorme – la formazione di una Guardia Nazionale civile agli ordini di Itamar ben Gvir – che rischia di incubare una violenza sfrenata contro la piazza stessa e contro gli arabi.
Non troviamo nessuna di queste caratteristiche invece nella infiammata piazza francese. Innanzitutto perché l’obbiettivo, la gestione e la sua stessa violenza diffusa sono all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio. Si rifiuta la riforma delle pensioni in nome di principi astratti e velleitari – incluso il rifiuto del valore positivo ed emancipatorio del lavoro – in spregio voluto e dichiarato di ogni principio di realtà.
Il sistema pensionistico francese attuale è semplicemente insostenibile dal punto di vista economico, questo è il punto centrale, ma questa viene considerata una inezia ininfluente dalla piazza, da sindacati e da Jean Luc Mélenchon. Per costoro, che difendono i 62 anni di età pensionabile non conta nulla che la Francia spenda per le pensioni il doppio della media dei paesi OCSE e che la media europea pensionabile sia di 64,4 anni. Populismo puro di sinistra, verbalismo, velleitarismo.
Non solo, pesa nella sconfitta della piazza francese la complicità implicita (da parte dei sindacati) ma anche esplicita da parte di alcuni sindacalisti, come il popolare Olivier Mateu, con una esagitata violenza di piazza volutamente eccitata da un Jean Luc Mélenchon che incita apertamente all’insurrezione e che sbraita «la République c’est moi!».
Non stupisce dunque che al rifiuto maggioritario della riforma espresso dai sondaggi, non corrisponda affatto una spaccatura del Palazzo, del governo, della Presidenza. Quando Emmanuel Macron dice con fermezza «la folla non ha alcuna legittimità» sa di avere con sé tutte le istituzioni, senza incrinature: un governo compatto, i poteri forti della Francia, le forze di sicurezza e le Forze Armate con lui, contro la piazza incendiaria. Per questo può dire «assumo la mia impopolarità», perché non una delle istituzioni della République si è incrinata a fronte della violenza di piazza. Risultato: la mobilitazione proseguirà sotto la guida dei sindacati Cfdt e Cgt e di un Jean Luc Mélenchon ebbri di velleitarismo populista, ma è destinata a esaurirsi a fronte di nessun risultato ottenuto.
Il tutto, va detto, mentre l’unica a conquistare un dividendo politico dalle follie della piazza francese è Marine Le Pen, sempre più forte per le difficoltà e l’impopolarità di Emmanuel Macron e per la reazione di buona parte dell’opinione pubblica alle follie gauchistes dei sindacati e delle migliaia di casseurs di piazza, Black Bloc, in testa.
Al contrario, in Israele, le difficoltà e la battuta d’arresto subite ora da Netanyhau incrinano la sua maggioranza parlamentare, indeboliscono il suo esecutivo, lo isolano sulla scena internazionale (ha dovuto subire umilianti richiami dall’Amministrazione Biden) e possono addirittura sfociare – si vedrà, il quadro è ancora fluido – in elezioni anticipate.
Due piazze, due paesi, ma un unico tratto comune: il populismo di sinistra e di destra. Impotente quanto violento il primo in Francia, sconfitto il secondo in Israele.
Il Paese in rivolta contro il governo. Perché gli israeliani protestano contro la riforma della giustizia di Netanyahu. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 28 Marzo 2023
Un Paese intero si è bloccato. È sceso nelle strade, ha riempito le piazze, ha “assediato”, in più di centomila, la Knesset, il parlamento dello Stato ebraico. Alla fine Ben Gvir, capo del partito di ultra destra. ‘Potenza ebraica’, ha detto di essere disponibile a rinviare la riforma della giustizia fino alla ripresa della Knesset, dopo la Pasqua ebraica, a patto che il governo esamini subito la creazione di una Guardia nazionale sotto la guida dello stesso Ben Gvir. Un Paese lacerato dall’interno, come mai era avvenuto nei suoi 75 anni di storia. È la lunga notte d’Israele. E la posta in gioco non è più il ritiro da parte del governo di una contestatissima riforma della giustizia. In gioco c’è la convivenza interna, ci sono le basi stesse dello stato di diritto di quella che, a ragione, continua a ritenersi l’unica democrazia in Medio Oriente.
È la cronaca di uno scontro che va ben al di là della vecchia divisione destra/sinistra. Perché quella che continua ininterrottamente da dodici settimane è una rivolta dal basso che coinvolge tutti i segmenti della società israeliana. Non c’è un settore d’Israele che ieri non sia stato paralizzato dalla protesta. In mattinata, il leader del sindacato dei dipendenti degli aeroporti israeliani Pinchas Idan aveva annunciato l’arresto immediato di tutti i decolli dall’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Si tratta, ha spiegato, di una protesta nei confronti della riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu e contro il licenziamento del ministro della difesa Yoav Gallant. Bloccato da uno sciopero a sorpresa anche il porto commerciale di Ashdod, nel sud di Israele. In mattinata uno sciopero improvviso è stato proclamato anche negli ospedali. Le università hanno annunciato il blocco ad oltranza delle lezioni in quanto, hanno affermato “non ci può essere vita accademica dove non c’è più democrazia”. Chiusi anche numerosi centri commerciali, ed agitazioni fra i dipendenti del ministero della giustizia.
Tra le tante categorie che si sono astenute dal lavoro ci sono anche gli infermieri che hanno deciso di fermarsi: “Chiediamo di fermare la legislazione e avviare un dialogo tra le parti. Lavoriamo tutti insieme per salvare vite umane, indipendentemente dal background di qualsiasi persona, è tempo di agire insieme per la protezione nazionale”. Anche la catena di fast food, McDonald’s, si è unita allo sciopero generale La catena ha twittato che avrebbe iniziato a chiudere i ristoranti dalle 17 ora locale di lunedì. McDonald’s gestisce 226 ristoranti kosher e non kosher in tutto il paese e ha scelto di aderire alla protesta sindacale, contro il governo, che ha coinvolto oltre 800.000 lavoratori. La Borsa di Tel Aviv resterà chiusa oggi. Lo ha annunciato la Federazione del lavoro Histadrut, il principale sindacato israeliano, spiegando che a partire da oggi la borsa di Tel Aviv sarà completamente chiusa.
A dar conto della drammaticità del momento è il capo di stato maggiore delle Idf (le Forze di difesa israeliane) che ha invitato i soldati a continuare a fare il proprio dovere e ad agire con responsabilità di fronte alle aspre divisioni sociali sui piani del governo per rivedere la magistratura. “Quest’ora è diversa da qualsiasi altra che abbiamo conosciuto prima. Non abbiamo conosciuto giorni simili di minacce esterne che si coalizzano, mentre una tempesta si sta preparando a casa”, ha avvertito il tenente generale Herzi Halevi nelle osservazioni rese pubbliche dall’ufficio stampa militare. Anche le ambasciate israeliane nel mondo, compresa quella in Italia, partecipano allo sciopero generale contro la riforma della giustizia. “Il premier può licenziare il ministro, ma non può licenziare la realtà del popolo di Israele che sta resistendo alla follia della maggioranza”, dice il leader dell’opposizione, Yair Lapid. Il riferimento è alla decisione di Netanyahu di licenziare il ministro della Difesa Yoav Galant, contrario alla riforma della giustizia. La tensione è altissima. L’estrema destra si è data appuntamento in piazza, davanti alla Knesset, in serata per manifestare a sostengo della riforma della Giustizia e contro le piazze democratiche.
“I gruppi WhatsApp e i social media di destra sono in fermento”, scrive il quotidiano israeliano Haaretz, “con alcuni attivisti che invitano i sostenitori a prendere le armi – “trattori, pistole, coltelli” – e attaccare i manifestanti anti-governo”. “Basta con lo strapotere della Corte Suprema – si legge in uno degli striscioni della destra. – Riforma subito”. E anche: ‘”Il popolo ha deciso, riforma adesso”. Altri espongono cartelli in cui affermano: “Non vogliamo essere cittadini di serie B”. Un sito ortodosso, che sostiene questa manifestazione, ha scritto: “Chi è col Signore, venga a noi. Non ci faremo rubare la Torah e la nostra sacra Terra”. Alla protesta ha aderito il gruppo “La Familia”, gli ultras della squadra di calcio del Betar Gerusalemme, legati all’estrema destra. “Non intendiamo – minaccia La Familia – farci rubare il risultato delle elezioni”. Centinaia sono vestiti di nero e con il volto coperto. Per evitare scontri e incidenti, molti dei partecipanti alla manifestazione anti-governativa hanno lasciato il piazzale. L’ultradestra corre in soccorso del suo leader, il ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben Gvir.
Il leader di Potenza ebraica, dopo ore di frenetiche trattative con Netanyahu, ha detto di essere disponibile a rinviare la riforma fino alla ripresa della Knesset, dopo la Pasqua ebraica, a patto che il governo esamini subito la creazione di una “Guardia nazionale” sotto la guida dello stesso Ben Gvir. Lo riferiscono i media secondo cui Potenza ebraica ha diffuso una lettera con l’impegno in questo senso firmata dal premier Benjamin Netanyahu al termine dell’incontro con Ben Gvir. “Ho accettato di rimuovere il mio veto – ha scritto – in cambio di questo impegno”. Un impegno che rischia di gettare altra benzina sul fuoco di uno scontro senza precedenti. Perché, per la prima volta nella storia d’Israele, un ministro avrebbe la guida di una forza paramilitare indipendente dal ministero della Difesa e fuori dal controllo dell’esercito. Una milizia armata. A tarda sera, in una Gerusalemme militarizzata, alla Knesset prende la parola Benjamin Netanyahu per rivolgere un discorso alla nazione. Teso in volto, interrotto più volte dalle proteste dell’opposizione, “Bibi” annuncia il congelamento della riforma e si appella al popolo: “Siamo tutti fratelli”, dice. Ma Israele è segnato, diviso, da quella che è la più grande protesta politica della sua storia. La lunga notte della democrazia non è finita.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Magistratura. Il modello italiano. È solo una constatazione. La scoperta, o meglio, la presa d'atto di un fenomeno planetario. Augusto Minzolini il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
È solo una constatazione. La scoperta, o meglio, la presa d'atto di un fenomeno planetario. Si tratta del meccanismo che sovrintende alle lotte di potere nelle autocrazie, che si è diffuso anche nelle democrazie: la liquidazione dell'avversario politico per via giudiziaria, o, più in generale, lo scontro tra politica e giustizia. Ciò che sta avvenendo in Israele sulla testa di Benjamin Netanyahu, per fare un esempio, sta capitando in altri angoli del pianeta secondo uno schema che ha visto il nostro Paese fare scuola, dato che da noi è servito per spazzare via una classe dirigente (Tangentopoli) o azzoppare un premier (Berlusconi).
In realtà, nei regimi operazioni di potere di questo segno ci sono sempre state. L'ultima condanna ad Aleksej Navalny, il principale oppositore di Putin, ammonta a 9 anni per reati estremamente generici: una non ben precisata «frode». In Cina, invece, si usa sempre l'espediente giudiziario per liquidare gli oppositori di Xi, anche se i processi vengono resi noti solo a condanna eseguita. Nelle democrazie, invece, l'uso sempre più frequente della giustizia come arma politica rappresenta una novità.
Lula in Brasile è stato fatto fuori con un processo e ora con il suo ritorno, ironia della sorte, il suo avversario Jair Bolsonaro rischia la stessa fine. Donald Trump, che ora maledice il «deep State», rischia di non poter correre per la Casa Bianca perché è sotto processo: tant'è che paventa il proprio arresto come arma mediatica per radunare i suoi fedeli. Paradossale è poi ciò che sta avvenendo in India. Rahul Gandhi non potrà partecipare alle prossime elezioni per una condanna per diffamazione: in una manifestazione avrebbe usato parole troppo forti contro l'attuale presidente Modi. Insomma, gli hanno dato due anni, ma soprattutto gli hanno impedito di candidarsi per fare il mestiere di oppositore.
Questo moltiplicarsi di esempi non può non preoccupare, sempreché non si pensi che la politica di mezzo mondo sia popolata da malfattori: se in un regime è normale che gli avversari siano fatti fuori per via giudiziaria, in democrazia lo stesso meccanismo rischia di trasformarsi in una grave patologia. Inoltre colpisce che l'Italia sia dai tempi del Machiavelli un laboratorio per la politica. Negli altri Paesi spesso si ripetono stagioni che noi abbiamo vissuto qualche anno prima. Da noi, per dire l'ultima, un comico (Grillo) è arrivato al potere ben prima di Zelensky in Ucraina.
E anche per l'uso dello strumento giudiziario in politica abbiamo un copyright almeno per le democrazie di cui certo non si può andare fieri. Anzi, da noi è una costante. Dopo Berlusconi ci hanno provato anche con Renzi e con Salvini. Ecco perché l'internazionalizzazione del fenomeno richiederebbe una riflessione, visto che lo scontro tra i poteri è un'eventualità non remota. E il fatto che il più delle volte sia sempre la politica, cioè il potere legittimato dal voto popolare, a perdere la partita, fa sorgere dubbi pure sull'essenza stessa della parola democrazia. In Francia, dove anche Macron è oggetto di due indagini, si sono inventati il meccanismo per cui ogni iniziativa giudiziaria che riguardi il presidente (a parte reati connessi al suo ruolo) viene congelata fino alla fine del mandato proprio per mettere a riparo il voto popolare. È un'opzione che magari non convince tutti. Ma un istituto va trovato anche da noi specie se, come vorrebbe qualcuno, si arrivasse all'elezione diretta del premier o del capo dello Stato.
Israele, quello che i giornali non dicono: cosa prevede la riforma di Bibi. L’ondata di proteste sta sconvolgendo Israele. La sinistra italiana parla di torsione autoritaria di Netanyahu. Ma la realtà è ben diversa. Matteo Milanesi su Nicola Porro il 28 Marzo 2023.
Ormai da undici settimane, Israele è travolto dalle proteste, culminate con lo sciopero dei sindacati insieme a molte sigle a tutela dei diritti degli imprenditori. Si tratta delle più grandi mobilitazioni della storia del Paese da oltre settant’anni. Si sono fermate scuole, università, ospedali e perfino gli atterraggi e i decolli dall’aeroporto Ben Gurion. Il tutto ulteriormente esploso dopo la decisione del primo ministro, Benjamin “Bibi” Netanyahu, di licenziare il ministro della Difesa in carica, Yoav Gallant, contrario alla riforma della Giustizia.
Le accuse a Israele
Ma cosa prevede esattamente questa riforma? E perché i giornali italiani festeggiano così tanto? Rispondiamo subito alla seconda domanda: i media del Bel Paese brindano perché si tratta di un governo di destra, il quarto con a capo Netanyahu. Anzi, più a destra dei tre precedenti. A ciò, si affianca un’eterna libidine per le autorità palestinesi, in una narrazione che ha visto – in particolare a sinistra – Israele come un non-Stato, usurpatore delle popolazioni arabe presenti nella regione. Da qui, sono partite le accuse di fascismo, autoritarismo, nel tentativo della destra israeliana di rovesciare il sistema democratico dello Stato, l’unica democrazia nel Medio Oriente in mezzo a regimi, dittature e oligarchie.
Ma, appunto, questa riforma della Giustizia è veramente pericolosa per il tessuto liberale di Israele? La risposta è no. E questo anche per un dato fondamentale: il governo e una larga fetta delle opposizioni sono concorde nell’applicare le nuove proposte, che andrebbero a limitare i poteri della Corte Suprema a favore di quelli esecutivi.
Corte Suprema
Le novità sono essenzialmente tre. Uno: si consentirebbe alla Knesset, il parlamento israeliano, di rovesciare le decisioni della Corte suprema con una maggioranza di 61 voti su 121 seggi. Un obiettivo raggiungibile con pochi problemi, visto che il governo può contare su 64 seggi, ma che andrebbe a rappresentare la maggioranza assoluta dei voti espressi dai rappresentanti del popolo.
Il punto della riforma si fonda sul presupposto che Israele non ha una sua Costituzione. Negli anni, infatti, sono state approvate dal parlamento tredici “leggi di base”, ispirate alle indicazioni della Dichiarazione di Indipendenza, al cui interno si concentrano i rapporti tra i vari poteri dello Stato. La Corte Suprema, fino ad oggi, può bloccare e rinviare alla Knesset una norma che contraddica queste leggi, oppure sulla base di una clausola di carattere soggettivo, definita di “ragionevolezza”. Questo, però, ha offerto una vera e propria spada di Damocle al potere giudiziario rispetto alle decisione di quello esecutivo.
Caso lampante è stato quello di Aryeh Deri, leader del partito Shas, nominato ministro da Netanyahu, nonostante avesse patteggiato una condanna per evasione fiscale, in cambio della promessa di ritirarsi dalla vita pubblica. La Corte Suprema ha deciso di applicare la “clausola di ragionevolezza”, rinviando il tutto alla Knesset.
Revisione delle leggi
Due: la riforma, priverebbe la Corte suprema del potere di revisionare le leggi fondamentali di cui sopra, che rappresentano il fondamento giuridico della democrazia israeliana. Dittatura? No, ma una misura simile a quanto codificato dai padri costituenti italiani, sancendo il divieto assoluto di modificare i primi 12 articoli della nostra Carta.
Nomina dei giudici
Tre: l’obiettivo sarebbe quello di cambiare la selezione dei giudici della Corte Suprema, oggi soggetti ad un panel indipendente. Il dato rilevante è che, a differenza di quanto esposto dai media italiani, l’obiettivo è ben lontano dal rovesciare la democrazia israeliana. Banalmente, anche negli Stati Uniti, i giudici della Corte sono scelti direttamente dal presidente in carica in quel momento, con il consenso confermativo del Senato Usa.
Una riforma che, sotto il profilo politico, può essere condivisibile o meno (che, per ora, è stata rinviata dallo stesso Netanyahu, come da lui dichiarato nella serata di ieri), ma che presenta tutto fuorché il tentativo della destra israeliana – insieme ad una parte della sinistra – di ribaltare i principi fondanti dell’unica democrazia del Medio Oriente. Ma andate a spiegarlo ai nostri “competenti” dell’informazione.
Matteo Milanesi, 28 marzo 2023
Tutti gli errori di Bibi. Insistere senza sosta sulla riforma divisiva. Il ruolo dei religiosi. Costretto a fermarsi di fronte al Paese in fiamme. La scelta di non dialogare e gli attacchi alle toghe. Ma la frattura nella società è più profonda. L'odio delle élite. Fiamma Nirenstein il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.
È stata una scelta difficile per Netanyahu decidere di annunciare quella che non è certo una vittoria. Bibi ha dovuto cedere. Ci ha messo ore prima di offrire il viso stanco alle telecamere, e la decisione di arrendersi alle manifestazioni è stata annunciata solo dopo che Ben Gvir ha accettato di non far cadere il governo con un voto contrario. L'esempio che ha portato è stato quello delle due madri che rivendicano lo stesso bimbo di fronte a re Salomone, che offre di tagliarlo in due per contentare entrambi. È una provocazione che conduce la vera madre a rinunciare al figlio per lasciarlo intero. Così Netanyahu si è rivolto alla sua parte: è il momento di scegliere l'unità del popolo, sacrifichiamoci. Una mossa che se compiuta qualche settimana fa avrebbe evitato il surriscaldamento.
E adesso che la riforma è stata fermata, anche gli scontri cesseranno? Ora che Benny Gantz e persino Yair Lapid, i capi dell'opposizione, hanno accettato di elaborare un nuovo testo con il governo, la politica e la società israeliana tireranno un respiro di sollievo? Difficile crederlo. La vittoria dell'inizio di novembre che riportò Netanyahu al potere, si è trasformata in un gomitolo di errori, accuse, fraintendimenti che oggi fanno del primo ministro di Israele un leader in lotta: i suoi nemici, che hanno annusato la possibilità di eliminarlo, parlano di un eccesso di fiducia in sé stesso. Molti sono certi, invece, che la sua incredibile «stamina», il carisma che lo ha portato a fare di Israele un Paese ricco, liberale, il quarto nella classifica mondiale della felicità, lo condurrà fuori dalla tempesta. Ma quasi mai Israele si era trovata così lacerata dall'odio scatenato nelle sue strade. Lo sciopero generale, l'aeroporto, gli ospedali chiusi, le autostrade e le università bloccate sono bombe che, innescate per esprimere un «no» furioso alla riforma, parlano di una frattura molto più profonda. Partono dalla composizione di una coalizione antropologicamente aliena a metà di Israele, all'élite storica che odia le sue componenti religiose e nazionaliste, ricambiata: in nome del no alla riforma, la parola «democratia» sui cartelli, parla dell'elite laica e emancipata di Tel Aviv. Bibi, aristocratico e laico a sua volta, non è stato perdonato per l'alleanza coi religiosi nazionalisti.
Ma i motivi della spaccatura israeliana sono anche nelle negligenze della coalizione: la riforma è rimasta nelle carte e interpretata al peggio. Unita al pregiudizio comune contro la destra e contro il premier al potere da 15 anni, è stata devastante. Bibi ha sbagliato, non ha spiegato bene neppure il primo cedimento che lo ha portato a cambiare la legge. Avrebbe forse ottenuto ascolto, perché non c'è cittadino che non concordi sulla necessaria riforma di una legge che fa dei giudici una casta intoccabile. Intorno intanto si compivano una serie di errori che svegliavano idiosincrasie e odi. Bibi ha lasciato che la riforma entrasse come un tank sulla scena politica: avrebbe dovuto apparire a capitoli lievi, sottoposta a discussione, senza sottovalutare i giudici, un'oasi di potere e consenso internazionale, la vera sinistra ideale di un Paese di cui il mondo non sopporta la guerra cui è costretto. Ha lasciato che il suo ministro Levin, tutto preso dalla sacra missione, dimenticasse di mostrare rispetto all'interlocutore. Bibi ha detto in un'intervista alla tv inglese due giorni fa: «Siamo nati democratici, siamo democratici, saremo sempre democratici». Ma non l'ha spiegato.
Quando ha emendato il testo sulla selezione di giudici, espandendo il numero degli elettori da 9 a 11, così da ottenere una maggioranza molto risicata per il governo, non ha spiegato nemmeno quello. Mentre la folla gli dava del fascista, nessuno rispondeva se non con l'offesa «anarchici», e si affiancavano sospetti di autoritarismo su una serie di sciocchezze mai diventate legge, come la proposta di proibire ai cristiani di propagare il Vangelo, i vestiti «modesti» da imporre al Muro del Pianto, certi autobus divisi per sesso, la discussione sulla riammissione di Arieh Deri al ruolo di ministro, le uscite poco professionali contro terroristi e nemici politici dei ministri di estrema destra come Ben Gvir o Smotrich, e infine il licenziamento del ministro della difesa Gallant. Adesso il bambino conteso dovrebbe essere stato salvato. Bibi sa che nel 70 dC, Gerusalemme venne distrutta perché il popolo era intento a un grande scontro interno. E corre ai ripari...
Estratto dell'articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2023.
[…] Lo sciopero generale del settore privato – inusuale per questo Paese – svuota gli uffici e smuove Israele, le aziende mettono a disposizione gli autobus per andare a Gerusalemme, un corteo che sale verso la città e la Knesset, appuntamento per mezzogiorno, pigiati contro le barriere piazzate dalla polizia.
Gli altoparlanti amplificano le parole di Benjamin Netanyahu che dieci anni fa ripeteva «senza una Corte Suprema forte e indipendente non c’è protezione dei diritti. È questa la differenza tra democrazia e dittatura». Adesso – urlano da oltre un mese i manifestanti – è il primo ministro a mettere in pericolo l’equilibrio dei poteri con un progetto che vuole sottoporre i giudici, i magistrati e l’Alta Corte – accusata di iperattivismo e di aver oltrepassato il mandato – al controllo della politica, del parlamento e soprattutto della maggioranza che esprime in quel momento. La maggioranza di destra-destra estrema in questo momento.
Yossi Beilin, il negoziatore degli accordi di pace con i palestinesi nel 1994, avverte che il piano ci «trasformerebbe nell’Ungheria».
A Gerusalemme vanno in centomila: i genitori con i figli che saltano la scuola, i professori e i presidi preoccupati dagli interventi sulle materie di studio delle frange oltranziste nella coalizione. Le donne e la comunità Lgbtq+ protestano per i tentativi di ridimensionare i diritti. Partecipano anche quelli che sono considerati elettori tradizionali del Likud di Netanyahu — i mizrahim, gli ebrei arrivati dai Paesi arabi […]
Al Muro del pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo, gli ultraortodossi — anche se i partiti religiosi sono al governo — pregano per «proteggere la democrazia». Poco lontano dalle pietre della Città Vecchia riprende il processo per corruzione contro Netanyahu.
I critici lo accusano di aver orchestrato la «riforma» per tirarsene fuori, la destra considera l’incriminazione un golpe della magistratura per rimuovere dal potere il primo ministro rimasto in carica più a lungo, oltre quindici anni totali. Bibi, com’è soprannominato, in un videomessaggio accusa l’opposizione di «portare il Paese verso l’anarchia». I suoi sembrano aprire al dialogo e offrono di incontrarsi con gli avversari politici, Yair Lapid e Benny Gantz. «Senza precondizioni» dicono e i più scettici ci leggono il vero significato: noi proseguiamo con la procedura d’urgenza per approvare le nuove leggi. […]
Lorenza Rapini per la Stampa - Estratti il 16 Novembre 2023
Il presidente dell'Ucoii (l'Unione delle comunità islamiche d'Italia) Yassine Lafram scrive a Pier Silvio Berlusconi e chiede di arginare la «deriva islamofoba» di alcune trasmissioni delle reti Mediaset, «specialmente di Rete4» e di quei programmi che «sfruttando la guerra in Medio Oriente, sono orientati a dare dell'Islam e dei musulmani una percezione distorta e negativa contribuendo così a creare un clima di discriminazione che pesa su 2,5 milioni di persone che vivono e lavorano in Italia».
Un appello accorato, che spera di ottenere risultati. I vertici della Ucoii si rivolgono al leader di Mediaset anche nel solco dei buoni rapporti che avevano col padre e predecessore, Silvio Berlusconi, «impegnato in un lungo lavoro diplomatico per costruire ponti ed evitare scontri tra civiltà e religioni» e proprio per questo salutato al funerale anche dal presidente Ucoii.
«Lei, uomo di cultura e sensibilità, sa che l'Islam e la stragrande maggioranza dei musulmani vivono in pace ed armonia nella nostra società», dice la lettera. Mentre alcuni programmi «fomentano odio verso un'intera religione ed i suoi fedeli». L'Ucoii ricorda di essere «in prima linea contro fenomeni come la violenza sulle donne, l'infibulazione e i matrimoni forzati», tanto da essere costituita parte civile, per esempio, nel processo in corso per l'omicidio di Saman Abbas.
«Siamo molto preoccupati dalla deriva islamofoba che queste trasmissioni televisive stanno perseguendo. Ci preoccupa anche il fatto che tutto ciò sia ora giunto all'attenzione delle opinioni pubbliche dei Paesi arabi e islamici in un momento così delicato. Paesi che hanno sempre guardato all'Italia come modello di convivenza civile».
(...)
«La nostra non è una polemica, non vuole essere un attacco alla libertà di espressione – dice Yassine Lafram – vogliamo soltanto dire “attenzione, questo approccio islamofobo fa male all’Italia”. Dopo il 7 ottobre abbiamo osservato l’insistenza con cui Islam e musulmani vengono associati a parole negative come fondamentalismo, integralismo, minaccia. Oggi interi programmi, intere serate parlano di Islam e musulmani associandoli alla violenza. Mi dispiace che una comunità così pacifica sia rappresentata in una maniera lontana dalla realtà».
Secondo il vertice della Ucoii questi «non sono incidenti. Riscontriamo una volontà di rappresentazione distorta da parte di alcune trasmissioni. I musulmani per queste incarnano odio e violenza. Ma questo crea risentimento in persone che si sentono appartenenti a questo Paese, portano a isolarci ed emarginarci. Purtroppo, alcuni programmi hanno sdoganato il discorso islamofobo che oggi viene legittimato anche da rappresentanti delle istituzioni, politici e pseudo esperti.
E spesso nelle trasmissioni vengono invitati musulmani ben poco rappresentativi, che magari parlano male l’italiano, e che vengono presentati invece come rappresentativi, perché si vuole portare avanti questo tipo di narrazione. Non è così: ci sono 2,5 milioni di musulmani in Italia, di cui un milione cittadini italiani, oltre ai tanti convertiti all’Islam. Non si può scegliere lo scontro di civiltà, che peraltro non c’è. La realtà è un’altra».
La replica di Mediaset
«I programmi giornalistici di Mediaset rispettano ogni punto di vista, i più diversi. In particolare su temi delicati come la questione mediorientale. Ci impegneremo ancor più, se possibile, a garantire ai telespettatori e ai rappresentanti di tutte le comunità, compresa ovviamente quella islamica, il massimo del pluralismo e la migliore informazione possibile». È quanto si sottolinea da fonti Mediaset, in risposta alla lettera inviata dall'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche d'Italia, all'Ad Pier Silvio Berlusconi per protestare contro la «deriva islamofoba» alimentata da «alcuni programmi», in particolare di Rete4.
Paolo Del Debbio: "Islamofobia su Mediaset? Ecco chi fomenta l'odio". Il Tempo il 16 novembre 2023
Le comunità musulmane scrivono a Pier Silvio Berlusconi: basta islamofobia sulle reti Mediaset. Il conduttore di Dritto e rovescio Paolo Del Debbio respinge le accuse e contrattacca. Il presidente dell’Unione Comunità Islamiche d’Italia Yassine Lafram ha scritto una lettera aperta all’amministratore delegato del Biscione per lamentare la "deriva islamofoba" di alcune trasmissioni, in particolare di quelle su Rete 4. Non lo dice direttamente, ma nel mirino dell'Ucoii ci sarebbero Fuori dal coro di Mario Giordano e Dritto e rovescio, almeno secondo l'ipotesi della Stampa. Trasmissioni che dall'attacco di Hamas a Israele "sono orientate a dare dell’Islam una percezione fortemente negativa". Lafram chiede un cambio di rotta "per evitare che islamofobia e antisemitismo dilaghino in tv".
Mediaset non risponde con un comunicato ufficiale, ma fonti interne all'azienda citatati dal quotidiano torinese contestano l'accusa di islamofobia: "I nostri programmi giornalistici rispettano ogni punto di vista, i più diversi, in particolare su temi delicati come la questione mediorientale".
Accuse rispedite al mittente dallo stesso Del Debbio: "Quelli che dicono che si fomenta l'odio vadano a controllare cosa dicono certi Imam alla Barriera di Milano a Torino, o quello che ha detto l'Imam di Pisa o un Imam di Roma, o ancora quello che viene detto fuori da certe moschee sugli ebrei o sulla questione della donna. Io sono a posto con la coscienza ma ci sono Imam che sono ignoranti allo stato puro", attacca il giornalista intervistato dal quotidiano. "Se in Italia c'è dell'odio non è certamente una trasmissione che lo alimenta. Semmai le croci sulle case, le stelle di David, quello è antisemitismo e questo c'è in Italia", afferma il conduttore.
"Ho invitato molti Imam, di alcuni sono anche amico, ma se ce ne sono alcuni che hanno detto con chiarezza che Hamas è un'organizzazione terroristica, per altri è un'organizzazione di resistenza. Molti sono vaghi su questo punto", afferma Del Debbio che, se il presidente dell'Ucoi venisse a Dritto e rovescio, gli stenderebbe "il tappeto violaceo, come quello delle moschee, però sappia che prima di tutto gli domanderei una cosa: l'azione di Hamas è un'azione terroristica di stampo islamico o no? Poi si può parlare di tutto il resto, però prima deve rispondere a questo", afferma Del Debbio.
Antonio Giangrande: Dialogo con un mussulmano in Italia.
«Perché tu sei così radicale?
Perché non abiti in Arabia Saudita???
Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?
Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.
Emigrate per la libertà …
per la giustizia …
per il benessere …
per l’assistenza sanitaria ..
per la tutela sociale …
per l’uguaglianza davanti alla legge …
per le giuste opportunità di lavoro …
per il futuro dei vostri figli …
per la libertà di espressione ..
quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..
Noi vi abbiamo dato quello che non avete …
Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».
Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.
Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.
Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!
Fuori dal Coro, Magdi Allam: "Rischiamo di essere sottomessi all'islam". Libero Quotidiano il 16 novembre 2023
"Rischiamo di essere sottomessi all'Islam". A dirlo è Magdi Allam che, nella puntata di mercoledì 15 novembre di Fuori dal Coro, sale sul pulpito e lancia un preoccupante allarme. Giornalista e saggista egiziano, Allam spiega nello studio di Rete 4 i motivi per cui l'islam potrà piegarci. Prima di tutto per "il tracollo demografico", poi perché "siamo una civiltà decaduta" e infine perché "le nostre istituzioni sono inadeguate nel fronteggiare la minaccia".
Un allarme non nuovo quello lanciato dal politico naturalizzato italiano. Già a Quarta Repubblica, Allam ha sollevato la polemica. Tutta colpa delle sue tesi sull'immigrazione, da lui definita "una strategia deliberata dalla finanza internazionale che porta a una islamizzazione". L'obiettivo? "Creare un meticciato senza identità". Inutile dire che le sue parole hanno creato non poco scompiglio in studio. Ma Allam non ha arretrato di un centimetro: "Dopo la sentenza di Catania agli immigrati conviene arrivare senza documenti in Italia. Questo è l'unico Paese al mondo dove si può entrare senza documenti".
Per Magdi Cristiano Allam "chiunque venga in Italia deve rispettare le nostre leggi e adempiere alle nostre regole". Un esempio? "Il velo che copre il corpo della donna è offensivo per la dignità, perché si fonda sulla presunzione che il corpo della donna sia peccaminoso e vada coperto. Dobbiamo rifiutare questo concetto e chiarire a chi sceglie" di vivere in Italia che "la pari dignità tra uomo e donna non può essere messa in discussione e che la libertà di scelta è un valore irrinunciabile".
Polisemia spiazzante. La diffusa confusione semantica tra islamico, islamista e musulmano. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 13 Novembre 2023
Il fraintendimento più comune e grossolano è quello di chi confonde l’etnia (e la lingua) con la fede religiosa: come accadde a Giorgia Meloni nel 2018 quando polemizzò con il direttore del Museo Egizio di Torino
Chi ha paura di Bernard Lewis? Ma nessuno, ovviamente: non solo perché il grande islamista inglese ha lasciato questa valle di lacrime ormai cinque anni fa, quando di anni stava per compierne la bellezza di centodue, ma soprattutto perché non è mai andato in giro a seminare bombe o a predicare la guerra santa.
“Islamista”, secondo i principali vocabolari della lingua italiana, è infatti in primo luogo, come sostantivo, uno “studioso di islamistica”, e soltanto secondariamente, come sostantivo e aggettivo, “che, chi sostiene, anche in forme rigide, intransigenti e insistite, i principi religiosi o politici dell’islam” (dizionario De Mauro). A questa seconda accezione, attestata dapprincipio sporadicamente nell’uso giornalistico dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e consacrata per la prima volta nell’edizione 2003 dello Zingarelli, se ne è aggiunta più di recente una terza, in realtà la sua estremizzazione, non ancora registrata e quindi – potremmo dire – ufficiosa, anche se implicitamente assodata: quella che ne fa, a diversi livelli di coinvolgimento, un militante del jihad (jihad è una parola araba maschile, non femminile). Ciò che un eminente storico dell’islam e dei rapporti tra islam e Occidente come Bernard Lewis non era: per questo, se fino a venti-trenta anni fa veniva pacificamente presentato come islamista, oggi – dopo l’11 Settembre, la nascita dell’Isis e il moltiplicarsi delle consimili organizzazioni terroristiche – a scanso di equivoci si preferisce definirlo più genericamente “orientalista” (come il tibetologo Giuseppe Tucci, l’indologo Oscar Botto, lo iamatologo Fosco Maraini…).
Probabilmente la parola “islamista” ha cominciato a circolare (tardivamente) in Italia sulla scia dell’inglese “islamist”, il cui primo uso conosciuto, come ci informa l’Online Etymology Dictionary, risale al 1850 (1840 secondo l’Oxford English Dictionary), quando fungeva da sinonimo di musulmano (“islamism” era infatti attestato fin dal 1747 per indicare “la religione dei musulmani, ossia l’islam”: un significato mantenuto dal nostro “islamismo”), per passare in seguito a designare lo studioso di islamistica e soltanto nel 1962 il “musulmano sunnita rigorosamente fondamentalista”.
Una polisemia potenzialmente spiazzante, di cui sembrava non curarsi Adriano Sofri in un articolo pubblicato sul Foglio nel maggio del 2018 in morte di Bernard Lewis, che curiosamente accostava le due accezioni nella medesima frase riferendosi alla “divergenza” dello studioso scomparso con “certi molto più giovani arabisti e islamisti che si procurarono una svelta fortuna dichiarando già negli anni ’90 priva di futuro l’ondata islamista”. Ma va detto che una certa confusione, con inevitabili riflessi lessicali, investe tutto l’insieme dei nostri punti di vista su una cultura a cui storicamente ci rapportiamo con un misto di diffidenza e superficialità.
Il fraintendimento più comune e grossolano è quello che confonde l’etnia (e la lingua) con la fede religiosa: ci è caduta nientedimeno che la patriota Giorgia Meloni, anche in questo esemplare incarnazione, se non dei pregi, almeno dei difetti del popolo italico. Era il 2018, per la precisione il 9 febbraio, e nel corso di uno squinternato sit-in di protesta a Torino davanti al Museo Egizio, “colpevole” di aver offerto per tre mesi alle coppie di lingua araba la possibilità di entrare pagando un solo biglietto, l’allora leader dell’opposizione affrontò il direttore Christian Greco accusandolo di discriminazione a vantaggio di “una specifica religione”; al che l’interessato, con soave rassegnazione didascalica, replicò informandola che in Egitto vivono anche quindici milioni di cristiani copti – per completezza, potremmo aggiungere che, come non tutti gli arabi sono musulmani, così non tutti i musulmani sono arabi, ma possono essere anche turchi, maghrebini, sub-sahariani, iranici, pakistani, indonesiani… e (accidenti!) perfino italiani.
Ma una piccola confusione esiste anche nell’uso di due termini non del tutto equivalenti come “islamico” e “musulmano”, entrambi sia sostantivo sia aggettivo, ma il primo prevalentemente utilizzato come aggettivo e il secondo come sostantivo. Quando, tre anni fa, un’intervista con Silvia Romano – la cooperante italiana rapita in Kenya nel novembre 2018 e liberata nel maggio 2020 – comparve sulla Stampa con il titolo “Ora sono islamica, è una scelta mia”, il giornale ricevette diverse critiche di cui diede conto nella rubrica del public editor, e nell’edizione online cambiò la parola “islamica” con “musulmana”. Qual era il problema?
Vediamo le origini delle due parole. “Islamico” si forma sull’arabo islàm (da pronunciarsi con l’accento sulla a, non sulla i, come si sente in genere; e, al contrario di come in genere si legge, andrebbe scritto con l’iniziale minuscola, se non altro per coerenza ortografica, visto che con la minuscola si tende ormai a scrivere cristianesimo, ebraismo, buddismo eccetera): islam ossia “sottomissione, abbandono” (sottinteso: alla volontà di Dio), riconducibile alla voce verbale aslama, “si dimise, si arrese, si sottomise”, e connesso con salam, “pace” (la radice comune è slm, che esprime la nozione di salvezza, pacificazione); Soumission si intitola infatti il romanzo-caso letterario di Michel Houellebecq uscito il 7 gennaio 2015, lo stesso giorno dell’attentato alla sede parigina di Charlie Hebdo, in cui si immagina la Francia di un prossimo futuro governata da un presidente islamico.
Anche la parola “musulmano” deriva dall’arabo, da muslimun, o più direttamente dalla variante persiana musliman, forme plurali di muslim, detto della persona che “si sottomette” (ad Allah). È il caso di Silvia Romano, che durante la prigionia si era convertita (sottomettendovisi) all’islam. Ma mentre “musulmano” ha un’implicazione essenzialmente religiosa, nel caso di “islamico” è coinvolta una più generale visione del mondo: usata come aggettivo, la parola identifica ciò che attiene all’islamismo, “inteso non solo come religione ma come sistema politico, sociale e culturale” (vocabolario Treccani) e quindi, usata come sostantivo, chi a questo complesso sistema non solo religioso si conforma.
Sfumature, si dirà. Ma a volte le sfumature possono essere importanti. Perché, se si tiene presente la distinzione, professarsi musulmano è in Italia perfettamente legittimo (“Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”, articolo 8 della Costituzione), ma dirsi e voler essere compiutamente e coerentemente islamico qualche problema lo può suscitare.
L’islamofobia, quella piaga razzista che ha conquistato il mondo occidentale. No, i musulmani non sono tutti dei fanatici ma le prime vittime del fondamentalismo. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 3 novembre 2023
Lo scorso 16 ottobre, nove giorni dopo i sanguinosi pogrom di Hamas, Wadea Al-Fayoume bambino palestinese di appena sei anni viene trucidato con 26 coltellate da uno squilibrato nella periferia di Chicago. Arrestato dalla polizia, l’uomo ha affermato di aver reperito le sue vittime per la fede musulmana e la provenienza palestinese in risposta agli attacchi dell’organizzazione islamista.
Se la nuova guerra tra Israele e Hamas, come un enorme detonatore, sta provocando una ferale ondata di antisemitismo, questo vale anche per un pregiudizio speculare e di segno opposto: l’islamofobia. Assimilare tutti gli ebrei alle politiche nazionaliste del governo Netanyahu non è in effetti molto diverso dal credere che ogni palestinese, anzi, che ogni musulmano, sia in qualche modo contiguo al terrorismo jihadista o comunque al fondamentalismo religioso. A differenza dell’antisemitismo, pregiudizio millenario e pieno di stratificazioni storiche, l’islamofobia è un fenomeno relativamente moderno e in piena espansione.
Il punto di svolta sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001; prima d’allora il termine islamofobia era stato impiegato in modo saltuario e non sistematico da qualche pubblicazione accademica di studi coloniali e appare una sola volta in Orientalism, il monumentale saggio di Edward Said che racconta la storia delle civiltà orientali attraverso lo sguardo paternalista del mondo occidentale. Nel 1997 il termine è impiegato in un rapporto del think-tank britannico Runnymede Trust che segnalava la diffidenza crescente dei cittadini inglesi nei confronti della comunità musulmana.
Ma è solo dopo l’attacco di al Qaeda a Torri gemelle e Pentagono, la successiva “guerra infinita” dell’amministrazione di George W. Bushe dei suoi rasputin neocon e la conseguente vague di attentati jihadisti dei primi anni duemila che l’islamofobia entra a titolo permanente nel corredo dei nostri pregiudizi nonché delle cronache quotidiane. Tra il 2000 e il 2001 negli Stati Uniti gli atti d’odio verso i musulmani sono aumentati del 1600% una tendenza che ha coinvolto in forme più o meno acute, più o meno discriminatorie, un po’ tutte le nazioni democratiche dove la paura o l’avversione dell’islam sono lievitate senza controllo. È la «globalizzazione dell’islamofobia» per impiegare le parole di Khaled Ali Beydun professore di diritto alla Wayne State School of Law del Michigan. Mettendo da parte la propaganda della destra identitaria e cristiana, che individua nell’immigrazione musulmana un pericolo per la nostra stessa civiltà, la deriva islamofoba dell’Occidente è avvenuta in forme subdole e mimetiche, per esempio attraverso le rappresentazioni dei media impastate con il peggior senso comune per cui ogni famiglia musulmana, sotto sotto, sarebbe un’incubatrice di integralismo violento e misogino.
Prendiamo la Francia, il paese europeo in cui i conflitti comunitari sono più accesi: nel solo 2022 si sono registrati oltre 600 atti islamofobici tra discriminazioni, incitamento all’odio, insulti, sfregio dei luoghi di culto, minacce e aggressioni fisiche. In quell’anno peraltro si sono svolte le elezioni presidenziali con una campagna elettorale in buona parte incentrata sul pericolo islamico, e l’emergenza radicalizzazione tra i giovani delle banlieues.
Non dimentichiamo che la Francia è stato anche l’obiettivo principe per la seconda ondata di terrorismo jihadista, quella legata all’insorgenza dello Stato islamico (Isis), basti pensare alle stragi dei vignettisti di Charlie Hebdo, del supermercato ebraico, del Bataclan e del lungomare di Nizza, e questo ha ingigantito le rappresentazioni distorte dell’Islam nonché la stessa risposta delle autorità. Come definire, se non attraverso l’islamofobia, il divieto di indossare il burquini sulle spiagge francesi o quello più recente di portare l’alabaya (che peraltro non è un simbolo religioso) nelle aule scolastiche? O come catalogare l’esclusione dei musulmani a dai principali centri di potere, politico, economico, culturale, pur essendo cittadini a pieno titolo. O l’uso spropositato della forza da parte della polizia verso i giovani di origine maghrebina delle periferie.
L’ultimo episodio lo scorso luglio a Nanterre, sobborgo a nord di Parigi, quando il 17enne Nahel M viene freddato con un colpo alla nuca per non essersi fermato a un posto di blocco con il suo scooter. Un omicidio che ha scatenato settimane di guerriglia urbana nelle banlieues, con migliaia di arresti e centinaia di feriti, un film che nel corso degli anni si ripete sempre uguale a se stesso. E che rischia di arricchirsi di nuovi poco edificanti capitoli.
I terroristi non arrivano con i barconi ma crescono nelle periferie europee. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 18 ottobre 2023
Dopo l’attentato di Bruxelles il governo ha aumentato i controlli alle frontiere. Ma i dati dimostrano che quasi sempre la radicalizzazione avviene in Europa
«Ho più volte cercato di accendere i riflettori sul fatto che dall’immigrazione illegale di massa possono sorgere anche gravi rischi per la sicurezza in Europa». Queste parole sono state pronunciate dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Consiglio Ue dopo la diffusione della notizia che Abdesalem Lassoued, attentatore che a Bruxelles nella notte di lunedì ha ucciso due cittadini svedesi, è arrivato a Lampedusa nel 2011.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, dalla sua missione in Qatar, ha detto che «come ha dimostrato e dimostrano i fatti del Belgio, ogni giorno arrivano migliaia di persone e tra queste migliaia di persone può esserci chiunque». Il passato del tunisino Abdeslam, che avrebbe girato l’Italia e la Francia prima di fare richiesta di asilo in Belgio nel 2019, ha fornito al governo sovranista l’alibi perfetto per una gestione migratoria securitaria e di chiusura delle frontiere.
Nella giornata di mercoledì palazzo Chigi ha annunciato la decisione di reintrodurre i controlli al confine con la Slovenia. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione», si legge nella nota pubblicata dal governo. Nel pomeriggio la presidente del Consiglio si è riunita con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, della Giustizia, Carlo Nordio, con il sottosegretario Alfredo Mantovano proprio per discutere del rischio terrorismo.
Fare la semplice correlazione tra migranti e terroristi non aiuta ad analizzare il fenomeno. E ce lo dicono anche i dati. Secondo il centro di ricerca Startinsight – che ha analizzato le aggressioni terroristiche compiute dal 2014 al 2020 – solo il 16 per cento di questi sono stati compiuti per mano di migranti irregolari (22 su 138) non specificando la provenienza. La stragrande maggioranza sono stati invece perpetrati da immigrati regolari, di seconda e terza generazione, e da cittadini europei che si sono convertiti all’islam.
Un dato significativo se consideriamo anche che alcuni dei migranti arrivati in Europa da Lampedusa, e che poi hanno compiuto attentati terroristici, hanno sposato la causa dello Stato islamico in un secondo momento. Quindi il percorso di radicalizzazione è avvenuto una volta arrivati in Europa e non prima. Basta pensare che Abdeslam Lassoued – dichiaratosi affiliato all’Isis – è arrivato a Lampedusa nel 2011, mentre Abu Bakr al Baghdadi ha fondato lo Stato islamico soltanto nell’aprile del 2013.
Stessa storia per Anis Amri, l’attentatore dei mercatini di natale di Berlino (2016), arrivato a Lampedusa nel febbraio del 2011. Altre storie citate mercoledì dal quotidiano Libero, come quelle di Sillah Ousmane, Alagie Touray, Moshin Omar Ibrahim, Adam Harun e Ali Asmi Sef Aldin raccontano invece di attentati pianificati a meno di due anni dal loro arrivo o da soggetti già radicalizzati prima ancora di approdare in Italia.
Ma tutti quanti sono stati fermati in tempo dalle nostre autorità a dimostrazione che i servizi d’intelligence e di prevenzione della sicurezza italiani sono ancora molto efficaci. Infine, un dato di rilievo: dal 2011 a oggi, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono arrivati in Italia 1.125.822 migranti irregolari. Il rapporto tra sbarchi e attentatori ufficiali passati per il nostro paese ci riporta una percentuale vicina allo zero, anche se tiene conto solo dei soggetti passati all’azione.
SI RADICALIZZANO QUI
Ciò che spinge i migranti di seconda generazione alla jihad è un insieme di fattori su cui i governi europei possono intervenire attraverso meccanismi di prevenzione. Gran parte degli analisti e degli esperti concordano sul fatto che i processi di radicalizzazione si innescano per cause diverse come: emarginazione culturale e sociale, problemi di identità, discriminazione e una situazione economica precaria o al limite dello sfruttamento.
Condizioni facilmente ritrovabili nelle periferie delle grandi città europee o in quartieri-ghetto come il tristemente noto Molenbeek di Bruxelles, da dove è nata la rete che ha organizzato gli attentati di Parigi del 2015. Fornire un’opportunità o un contesto che favorisca l’integrazione e l’interscambio culturale senza dover abdicare alla propria identità religiosa è un primo passo per abbattere l’alienazione sociale.
Un altro contesto che favorisce la radicalizzazione jihadista in Europa e in occidente in generale è il sistema carcerario. Secondo i dati dell’Ispi sugli attentati jihadisti commessi in Europa e nord America dal 2014 al 2019, quasi un terzo degli attentatori ha trascorso un periodo di detenzione in carcere, la maggior parte dei quali non per reati legati al terrorismo. Lo stesso Anis Amri avrebbe subito un processo di radicalizzazione nelle carceri italiane.
Sempre secondo Ispi, 49 su 99 aggressori in occidente (sempre dal 2014 al 2019), avevano precedenti penali per reati come furto, traffico di sostanze stupefacenti, falsificazione di documenti e terrorismo. La questione preoccupa anche le autorità italiane come si legge nel rapporto sulla sicurezza pubblica del 2023.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.
Bruxelles, è ancora caccia all'uomo. L'inquietante post del terrorista islamico. Matteo Carnieletto il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.
L'attentatore sarebbe il tunisino Abdesalem L. Avrebbe agito per vendicare le violenze contro i musulmani
Il terrore è tornato, portando con sé, ancora una volta, la morte. Si pensava che l'Isis fosse morto e sepolto sotto la sabbia del deserto siriano e di quello iracheno. E invece no. È ancora tra noi. Certo, non ha più l'ambizione, né la possibilità, di essere uno Stato ma ha ancora la forza per attaccare l'Occidente, come ci ha ricordato il tunisino Abdesalem Lassoued (la scheda: chi è) che ieri sera, a Bruxelles, ha ucciso due persone a colpi di kalashnikov. Lo ha fatto per vendicare le violenze contro i musulmani. Il terrorista ha colpito, poi si è dileguato nel nulla, nascondendosi probabilmente a Schaerbeek, a nord della capitale, dove abitavano anche i kamikaze che avevano portato morte e distruzione nell'attentato all'aeroporto del 2016 e dove si era nascosto Salah Abdeslam, uno degli attentatori del Bataclan. Secondo i media belgi, la caccia a Lassoued starebbe continuando, casa per casa.
In conferenza stampa, il primo ministro belga, Alexander De Croo, ha confermato le notizie che avevano cominicato a trapelare ieri sera, ovvero che l'attentatore "è di origine tunisina e soggiornava illegalmente in Belgio". Nella capitale, è scattato il livello 4 di allerta, che indica una minaccia terroristica "grave ed imminente".
Dopo aver ammazzato due innocenti, il terrorista si è ripreso e - in un video diffuso in rete, dove si fa chiamare Slayem Slouma - ha detto di appartenere all'Isis e ha detto di aver agito per "vendicare i musulmani". Ma non solo. Ha infatti affermato: "Viviamo e moriamo per la nostra religione". Poche ore prima di uccidere, il jihadista aveva inoltre pubblicato un post sui social affermando che se il bambino musulmano accoltellato domenica a Chicago fosse stato cristiano "lo avremmo chiamato terrorismo e non crimine brutale".
In un secondo video, l'attentatore, racconta il procuratore belga Frédéric Van Leeuw, "appare con il volto coperto da un passamontagna e dichiara che 'il libro di Allah è una linea rossa per la quale si sacrifica'". Il riferimento, molto probabilmente, è al rogo del Corano in Svezia.
Abdesalem Lassoued, il lupo solitario già noto per terrorismo (e immigrato illegale)
È la storia di Abdesalem, ma anche di tanti, troppi, jihadisti che in questi anni hanno colpito l'Occidente. Arrivato in Europa, si era visto respingere la domanda di asilo, sarebbe dovuto tornare a casa, in Tunisia, ma così non è stato. È scomparso. Ha vissuto nell'ombra. E poi ha colpito. Ha fatto sapere Nicole de Moor, segretario di Stato del Belgio per l'Asilo e la Migrazione: Lassoued "aveva presentato una domanda di asilo nel nostro Paese nel novembre 2019. Ha ricevuto una decisione negativa nell'ottobre 2020 e poco dopo è scomparso dai radar. È stato ufficialmente cancellato dal registro nazionale del comune il 12 febbraio 2021 e quindi non è stato possibile rintracciarlo per organizzare il suo ritorno. Non ha mai soggiornato in un centro di accoglienza federale. Non è mai stato presentato dalla polizia dopo un'intercettazione all'Ufficio stranieri per consentire il suo rimpatrio. Di conseguenza, l'ordine di lasciare il Paese, emesso nel marzo 2021, non è mai stato emesso".
Il terrorista, quindi, non avrebbe dovuto, ma soprattutto non avrebbe potuto, essere in Belgio. Ma così non è stato. E soprattutto: il ministro della Giustizia belga, Vincent Van Quickenborne, ha affermato che l'attentatore era sotto esame già prima dell'attacco di ieri. All'inizio di quest'anno era stato infatti denunciato da un occupante di un centro d'asilo a Campine (non lontano da Anversa) per minacce via social.
Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” mercoledì 18 ottobre 2023.
Che Abdesalem Lassoued, all’epoca trentottenne, fosse un estremista islamico potenzialmente pericoloso, le autorità del Belgio l’hanno saputo dalla polizia di prevenzione italiana sette anni fa.
Era il 2016, e agli apparati investigativi antiterrorismo erano giunte informazioni preoccupanti su questo tunisino che faceva base a Bologna: si era radicalizzato e faceva discorsi relativi alla jihad da esportare in Europa. I controlli […] avevano evidenziato contatti con altri tunisini residenti in Italia e in altri Paesi europei, tra cui Belgio e Gran Bretagna.
Di qui le segnalazioni a Bruxelles, accompagnate da richieste specifiche sui contatti locali del tunisino. Ma la risposta fu che le verifiche avevano dato esito negativo: nessun riscontro significativo o da approfondire.
In Italia Lassoued era probabilmente destinato all’espulsione preventiva prevista per i «soggetti a rischio», ma la sua domanda di protezione internazionale alla commissione territoriale bolognese bloccò tutto.
Il 26 giugno 2016 la richiesta fu dichiarata inammissibile, e il tunisino finì al Centro di identificazione ed espulsione di Caltanissetta in attesa del rimpatrio. Lui però si oppose davanti al tribunale, che il 21 ottobre 2016 comunicò al Cie siciliano la decisione presa il 14: fissazione dell’udienza al 10 gennaio 2017 dicembre per trattare il merito della causa, con automatico effetto sospensivo della decisione della commissione. Risultato: Lassoued uscì dal Cie in attesa del nuovo verdetto. Con un regolare permesso di soggiorno valido fino 24 gennaio 2017.
È da allora che in Italia non se ne hanno più tracce. E quando […] a dicembre 2016 anche il Tribunale di Bologna dichiara inammissibile la sua domanda di asilo, Lassoued […] diventa un fantasma. Nello stesso periodo in cui un altro tunisino radicalizzato e transitato dall’Italia, Anis Amri, fa strage al mercatino di Natale di Berlino, uccidendo 12 persone e ferendone oltre 50, prima di essere bloccato e ucciso a Milano, il 23 dicembre. E la storia di Lassoued ricorda molto da vicino quella del suo più giovane connazionale.
Quando arriva a Lampedusa all'inizio del 2011 (proprio come Amri) […], Lassoued è un fuggiasco delle primavere arabe. Con un passato da detenuto nel suo Paese. Il suo è un ingresso illegale e per questo viene destinato al Cie di Torino, da dove esce ad aprile con un permesso di sei mesi rilasciato «per motivi umanitari» […].
Ma la meta di Lassoued è il Nord Europa. Se ne va in Norvegia, dove viene sorpreso a novembre 2011 e rispedito in Italia, lo Stato di primo ingresso che deve farsi carico degli irregolari secondo gli accordi Dublino. Ma lui se ne va di nuovo, stavolta in Svezia, e tre anni più tardi, ad aprile 2014, si ripete la stessa procedura: viaggio di sola andata da Stoccolma a Torino.
Per i due anni successivi il tunisino è verosimilmente rimasto in Italia, passato per Terni e ricomparso a Bologna, dove la polizia lo segnala come un islamista radicalizzato al quale prestare massima attenzione. Con tanto di accertamenti richiesti alle polizie straniere: non solo Belgio e Gran Bretagna, ma pure Norvegia e Svezia. Poi si mette in moto la procedura della richiesta d’asilo bocciata, fino alla sua scomparsa dai radar dell’antiterrorismo italiano.
Nel frattempo […] è andato in Belgio, dove viene fermato nel 2019. Anche lì presenta una domanda di protezione internazionale che lo fa tornare libero […]. Ma pure stavolta gli dicono di no, con una decisione del 2020 a cui segue un tentativo delle autorità di Bruxelles di replicare ciò che hanno fatto Norvegia e Svezia: restituirlo all’Italia. Che però in questo caso rifiuta di riaccoglierlo, giacché il permesso di soggiorno rilasciatogli a suo tempo è scaduto da oltre 2 anni e «non vi sono oggettivi riscontri della sua presenza sul territorio nazionale».
Il tunisino irregolare resta dunque in Belgio dove tre anni dopo […] entra in azione […].
(ANSA-AFP domenica 22 ottobre 2023) - Il jihadista che ha ucciso due tifosi svedesi a Bruxelles lo scorso fine settimana era evaso da una prigione tunisina dove stava scontando una lunga condanna, cosa che ha spinto i funzionari tunisini a chiedere la sua estradizione dal Belgio. Lo hanno reso noto oggi autorità giudiziarie belghe. Le autorità belghe avevano ricevuto la richiesta di estradizione nell'agosto 2022 ma non è stata trattata. Il ministro della Giustizia Vincent Van Quickenborne si è dimesso venerdì per quello che ha definito un "errore monumentale". Oggi il procuratore capo della capitale, Tim De Wolf, ha offerto una spiegazione alla stampa.
"La grave carenza di personale presso la procura di Bruxelles ha avuto un ruolo, ma... questo non lo giustifica", ha detto, aggiungendo che il dossier sull'estradizione era stato ricevuto nel settembre dello scorso anno e probabilmente era stato dimenticato in uno schedario. "Nessuno dei colleghi coinvolti ricorda cosa ne è stato di questo specifico dossier un anno fa. Non c'è traccia che sia stato trattato", ha detto.
L'aggressore, Abdesalem Lassoued, 45 anni, era stato condannato "a più di 26 anni di carcere in Tunisia nel 2005, ma era evaso dal carcere nel gennaio 2011", ha detto il pubblico ministero. Le autorità tunisine hanno "segnalato" il caso il primo luglio 2022 tramite l'Interpol, ha aggiunto De Wolf. All'epoca il documento menzionava soltanto "un'evasione dal carcere", ha detto. Sei settimane dopo è seguita una "serie di allegati", ma il fascicolo è andato perduto presso la Procura. Il pubblico ministero non ha spiegato il motivo per cui il tunisino era stato incarcerato, ma i media belgi hanno riferito che avrebbe commesso diversi omicidi.
Immigrato illegale e radicalizzato, passò anche per l’Italia: così Abdesalem ha portato la morte a Bruxelles. Subito dopo l'attentato, l'uomo ha girato un video rivendicato le uccisioni in nome di Allah: "Si vive per la religione e si muore per la religione". Francesca Galici il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.
"Sono Abdeslam Jilani, mi sono vendicato per i musulmani. Ho ucciso tre svedesi ora. Si vive per la religione e si muore per la religione. Sono pronto a incontrare Dio felice e sereno". Così inizia il video dell'attentatore che attorno alle 19 di oggi ha imbracciato un kalashnikov e sparato a tre tifosi svedesi a Bruxelles, poco prima della partita tra la nazionale scandinava e il Belgio. Subito dopo l'attentato, l'uomo ha pubblicato sul web un video in cui si riprende rivendicando l'appartenenza all'Isis e dicendo di aver compiuto il gesto per "vendicare i musulmani".
Il sospetto attentatore è nato nel 1978 ed è stato identificato come Abdesalem Lassoued ed è un tunisino richiedente asilo dal 2019, la cui richiesta era stata respinta nel 2020. "È stato ufficialmente cancellato dal registro nazionale del comune il 12 febbraio 2021 e quindi non è stato possibile rintracciarlo per organizzare il suo ritorno. Non ha mai soggiornato in un centro di accoglienza Federale. Non è mai stato presentato dalla polizia dopo un'intercettazione all'Ufficio stranieri per consentire il suo rimpatrio. Di conseguenza, l'ordine di lasciare il Paese, emesso nel marzo 2021, non è mai stato applicato", ha dichiarato il segretario di Stato del Belgio per l'Asilo e la Migrazione, Nicole de Moor.
All'inizio della giornata di ieri, Slayem Slouma, come si fa chiamare nel video di rivendicazione, o Abdeslam Jilani, il nome che pronuncia nel video, aveva scritto un messaggio sul bambino musulmano accoltellato domenica a Chicago, spiegando che se fosse stato cristiano, "lo avremmo chiamato terrorismo e non un crimine brutale". Si tratterebbe di un tunisino ma non ci sono ancora conferme. Secondo alcune traduzioni dall'Arabia che circolano in questi minuti, l'uomo si è definito un "mujahidin", ovvero un combattente contro i nemici di Dio. Dopo una preghiera, ha continuato: "Tuo fratello si è vendicato dei musulmani".
Nei suoi post sul profilo Facebook, ora oscurato dalle autorità, l'uomo ha fatto riferimento anche ad Hamas e alla guerra in Medio Oriente. "Ieri l'America con aerei e missili, oggi la Gran Bretagna con tutte le sue forze a sostegno degli ebrei", si legge in uno dei suoi social. Come riferisce l'europarlamentare Marco Campomenosi, Lassoued sarebbe transitato anche da Genova, come si evince da un suo vecchio posto datato 2021.
Stando alle prime informazioni, l'uomo sarebbe residente a Schaerbeek, dove nel 2022 vennero accoltellati due poliziotti. In quello stesso quartiere era cresciuto anche uno degli attentatori suicidi che la mattina del 22 marzo 2016 si sono fatti esplodere nell'aeroporto di Bruxelles, Najim Laachraoui. Schaerbeek è a soli 16 minuti di auto da Molenbeek, il quartiere dove aveva il suo rifugio Salah Abdaslam, uno degli attentatori degli attacchi terroristici del 2015 a Parigi, e dove almeno sei dei sette attentatori di Parigi avevano collegamenti. Francesca Galici
Estratto dell’articolo di Francesco De Remigis per “Il Giornale” sabato 14 ottobre 2023.
L’hanno steso con un teaser. L’hanno arrestato. Ma aveva già colpito. Ha mirato alla carotide di un professore. E l’ha tagliata di netto. Uccidendolo. Il grido Allah Akbar viene denunciato dai testimoni del liceo di Arras. Siamo a un’ora di treno a nord di Parigi, quando alle 11 un ventenne di origine cecena con passaporto russo riaccende nell’Esagono il dramma già vissuto tre anni prima con l’esecuzione di un altro prof, Samuel Paty, sgozzato il 16 ottobre 2020.
Quasi in contemporanea, a pochi chilometri dalla capitale, a Limay, viene bloccato un altro uomo, armato di coltello, mentre esce da una moschea diretto in un altro liceo. «Attentato sventato», spiegherà Macron. Niente da fare invece ad Arras.
Ancora una volta è uno straniero a colpire la République. Ancora una volta un soggetto già schedato Fiche S (seria minaccia) e stra-attenzionato, tanto da avere il cellulare intercettato. Sotto sorveglianza fisica dal 2 ottobre, Mohamed Mogouchkov, 20 anni, era stato fermato il giorno precedente, senza seguito. Il contesto che lo circonda e il cv della famiglia lasciano però talmente pochi dubbi dopo l’attacco che nel giro di un’ora il caso Arras passa alla procura antiterrorismo. E la verità spiazza la Francia.
Mohamed è arrivato nel 2008 nell’Esagono, a 6 anni. Con tre fratelli e una sorella, mamma e papà. Nel 2013 la famiglia fa domanda d’asilo. Rigettata. Nel 2014 finiscono in un centro amministrativo, per essere espulsi. Poi tutto si blocca. C’è il socialista Hollande all’Eliseo, nella bufera per il caso di una ragazzina rom. I comunisti insorgono. E col pressing delle Ong i ce ceni tornano ad Arras.
Solo il padre verrà espulso per radicalizzazione. Il fratello maggiore finisce in carcere quest’estate con doppia accusa: associazione terroristica e apologia di terrorismo. La sorella preferisce una scuola coranica. Il fratello minore, 16 anni, è stato arrestato ieri vicino a un altro liceo, non distante dal teatro di sangue già messo in piedi da Mohamed. Un cavillo ha lasciato il terrorista su suolo francese: era entrato da piccolissimo; prima dei 13 anni, quindi «inespellibile». Ieri si è presentato con due coltelli. […]
Parlateci di La «Bibbiano svedese» dietro la strage di Bruxelles. Enrico Varrecchione l'1 Novembre 2023 su L'Inkiesta.
Il terrorista che ha ucciso due tifosi il 16 ottobre potrebbe aver agito dopo le campagne online degli islamisti sui presunti interventi dei servizi sociali nei confronti delle famiglie di origine straniera. Una fake news cavalcata da alcune frange politiche
Sembra quasi uno sciagurato destino quello dello Stadio Re Baldovino di Bruxelles, più tristemente noto nella memoria collettiva italiana come Heysel, ovvero essere associato a tragedie frutto della cieca violenza umana. Questa volta, a differenza del 1985, è stato più sicuro rimanervi dentro, almeno per i settecento tifosi svedesi che si erano recati alla partita contro i padroni di casa del Belgio, lo scorso 16 ottobre.
Questo perché prima del match, l’estremista islamico Abdesalem Lassoued ha deliberatamente scelto il suo bersaglio in due tifosi della nazionale scandinava. Almeno uno dei due uomini uccisi, di sessanta e settant’anni, indossava una maglietta giallo-blu, rendendosi riconoscibile. La notizia dell’attentato ha raggiunto lo stadio mentre si stava concludendo il primo tempo della partita e i dirigenti delle due federazioni, in accordo con i giocatori, hanno deciso di sospendere la partita.
In quel momento, con il killer ancora in circolazione e la sua stessa testimonianza sui social media in cui aveva dichiarato l’uccisione di due cittadini svedesi, è diventato necessario proteggere i supporter della squadra ospite. Alcuni sono rimasti all’interno dello stadio fino a notte fonda, per poi essere scortati fuori dalle forze dell’ordine.
L’uomo, arrivato in Italia a Lampedusa nel 2011, aveva vissuto in Svezia fra il 2013 e il 2014 nell’area di Göteborg e lì è stato arrestato per possesso di cocaina. Non è chiaro se Lassoued abbia agito in ritorsione all’espulsione subìta in seguito alla condanna, ma è molto probabile che il suo comportamento sia legato a due elementi che hanno compromesso il rapporto fra la Svezia e una parte del mondo islamico, in particolare dopo l’analisi della sua attività social da parte degli inquirenti.
Il primo, probabilmente il più noto alle cronache internazionali, è la frequenza con cui si sono verificate proteste di natura anti-islamica di fronte a moschee o ambasciate di Paesi a maggioranza musulmana, su tutti la Turchia.
Inizialmente, le dimostrazioni erano portate avanti da individui vicini all’estrema destra nordica come Rasmus Paludan (uno che, tanto per inquadrare il personaggio, avrebbe contattato minorenni in chat a sfondo sessuale), successivamente anche dall’integralista cristiano di origine irakena Momika Salwan.
Queste gesta, oltre a essere a lungo utilizzate dalla Turchia per opporsi all’ingresso di Stoccolma nella Nato, hanno causato gravi incidenti a Bagdad, dove è stata attaccata la sede diplomatica svedese.
Il secondo elemento è emerso progressivamente a ridosso della campagna elettorale dello scorso anno, portata avanti dal Partito Nyans, una formazione politica che ha ottenuto un consenso piuttosto ristretto nelle periferie delle grandi città, composte in maggioranza da persone di origine straniera.
Il suo leader, Mikail Yuksel, era stato espulso dal Partito di Centro a causa della sua appartenenza ai Lupi Grigi, l’organizzazione terroristica turca di cui era membro anche l’attentatore di Giovanni Paolo II, Ali Agca. Uno scandalo simile aveva coinvolto l’ex ministro per l’urbanistica Mehmet Kaplan, dei Verdi, nel 2016.
Si tratta di una notizia, spesso ricondivisa nei canali social di ispirazione islamista, secondo la quale i servizi sociali svedesi avrebbero come obiettivo quello di rimuovere i bambini dalla custodia di famiglie di fede musulmana, un’accusa respinta lo scorso inverno dalla neoministra per i servizi sociali, Camilla Waltersson Grönvall, del Partito Moderato
«La legge svedese non discrimina nessun genere o religione – ha detto Waltersson Grönvall –, né rapisce nessun bambino. I servizi sociali sono la massima forma di protezione, per questo ogni campagna di disinformazione è inaccettabile, come è inaccettabile che poliziotti e assistenti sociali siano soggetti a violenza, minacce e molestie a causa del proprio lavoro».
Si tratta di un caso che per risonanza è equiparabile a quanto accaduto in Italia con Bibbiano, fatta salva l’assenza di indagini o segnalazioni di abusi da parte delle autorità giudiziarie svedesi. Quanto c’è di vero in quanto sostenuto dai canali integralisti?
La ricercatrice dell’Università di Karlstad, Birgitta Persdotter, ha svolto nel 2022 un lavoro dal titolo «Come vengono riportate dai servizi sociali le testimonianze dei bambini gravemente esposti?», dal quale emerge come, in generale, le famiglie di origine non occidentale corrispondano al 9,7 percento dei casi studiati e al 14,1 percento dei casi in cui è stato ritenuto necessario l’intervento dei servizi sociali.
Questa discrepanza, peraltro minoritaria rispetto all’ambito complessivo, è stata così chiarita dalla stessa Persdotter al quotidiano Aftonbladet, nell’ambito di un precedente lavoro di ricerca svolto sul tema: «Una spiegazione che è emersa dai colloqui con gli assistenti sociali è che hanno notato una forte resistenza e una paura nei confronti dei servizi sociali e delle istituzioni. Un fattore ulteriore è legato al fatto che le famiglie di origine straniera spesso abbiano una visione diversa dei bambini e dell’utilizzo della violenza come disciplina, specialmente per quanto riguarda i giovani di sesso maschile».
Immediatamente dopo la strage di Bruxelles, il Primo Ministro svedese Ulf Kristersson si è recato sul luogo dell’attentato. «In epoca moderna, la Svezia non è mai stata sotto una minaccia così grande come oggi», ha riferito il premier. «Dobbiamo difendere la nostra società democratica e aperta. Non dobbiamo essere noi a cambiare le nostre attitudini per colpa dei terroristi».
Molto più cupo il commento del commissario tecnico della nazionale, Janne Andersson, che poche ore prima aveva attraversato il centro di Bruxelles assieme ai suoi giocatori: «Non mi mostrerò più in pubblico con la divisa della nazionale», ha esordito Andersson. «Da un lato, non indossandola, si fornisce una ragione agli assassini, ma dall’altra parte mi chiedo se bisogna rimetterci la vita per questo. Sono domande molto difficili», ha concluso l’allenatore.
L'omicida già etichettato con la "S", a rischio radicalizzazione. Terrorismo in Francia: ucciso Dominique Bernard, il professore-eroe che ha salvato i suoi studenti. Luca Sablone su Il Riformista il 14 Ottobre 2023
La «S», che nel sistema francese significa a rischio radicalizzazione. L’urlo, quell’ormai noto «Allah Akbar» gridato prima di compiere il gesto. I primi elementi emersi, che sembrano andare tutti nella medesima direzione. L’ombra del terrorismo torna ad avvolgere l’Europa. Ieri in Francia, precisamente ad Arras, un uomo armato di coltello ha ucciso un insegnante e ha ferito diverse persone, di cui due in maniera grave. Ha fatto irruzione nel plesso scolastico e senza pietà ha pugnalato a morte il professore Dominique Bernard. È seguita tempestivamente un’operazione di polizia al Gambetta-Carnot che ha portato all’arresto dell’autore dei fatti, un giovane di circa 20 anni di origine cecena che in passato avrebbe studiato proprio nel liceo teatro della tragedia.
Tra le altre cose è emerso un dettaglio che, in attesa dei doverosi riscontri, non può affatto passare in secondo piano: davvero il giorno prima era stato fermato dalla polizia, che gli aveva controllato i documenti e lo aveva lasciato andare liberamente? Inoltre il fratello è stato fermato davanti a un altro istituto e, stando alle prime indiscrezioni, non era in possesso di armi; negli anni scorsi sarebbe stato accusato di aver progettato un attentato e di apologia di terrorismo. Gli alunni sono stati confinati nelle loro rispettive classi. Sono stati momenti di grande confusione e paura. I ragazzi stavano uscendo per recarsi in mensa e la scena a cui hanno assistito è stata tremenda: un uomo con un coltello che attaccava il docente con del sangue addosso. Il prof ha provato in tutti i modi a calmare l’aggressore, si è speso per proteggere gli studenti come una sorta di scudo. L’ordine arrivato era chiaro: andate via, scappate. Poi la fuga degli alunni che, spaventati dall’epilogo dell’episodio, hanno iniziato a correre in maniera sparsa per risalire ai piani alti dell’edificio. Le autorità francesi hanno provveduto ad aprire una cellula di sostegno medico-psicologica per ricevere i ragazzi testimoni dell’assalto.
A stretto giro la Procura nazionale antiterrorismo francese ha aperto un’inchiesta: i reati contestati sono assassinio in relazione a un’associazione terroristica, tentato assassinio e associazione terroristica. L’attacco è arrivato proprio nel giorno in cui in Francia era alta l’allerta nelle scuole, anche se le autorità avevano messo in guardia in particolare quelle ebraiche su possibili rischi di attentati. Non a caso i servizi di sicurezza francese da settimane avevano espresso più di qualche preoccupazione per i possibili fenomeni di radicalizzazione dei giovani nord-caucasici. E i dettagli non sfuggono: le forze di sicurezza avevano schedato l’uomo che ha accoltellato l’insegnante con la «S», una sorta di «etichetta» attribuita a coloro che devono essere monitorati per presunti legami con l’estremismo islamico. Gabriel Attal, ministro dell’Istruzione francese, ha chiesto ai presidi di rafforzare la sicurezza nelle scuole mettendo in atto tutte le misure necessarie e segnalando all’unità di crisi ministeriale qualsiasi situazione sospetta o anomala. All’Assemblea nazionale di Parigi i lavori sono stati sospesi per solidarietà alla vittima dell’attacco e alla comunità educativa. Alla scelta si è arrivati grazie al coordinamento con i gruppi politici e il governo.
I drammatici sviluppi in Medio Oriente e i potenziali riverberi in Europa hanno fatto scattare l’allerta anche in Italia. A preoccupare è soprattutto Roma. Il prefetto Lamberto Giannini ha fatto sapere che allo stato attuale il rischio sicurezza «chiaramente è aumentato in tutta la città e c’è particolare attenzione». Occhi puntati non solo sulle zone riferibili alla comunità ebraica, ma anche sui luoghi turistici assai frequentati come ad esempio il Vaticano e il Colosseo. Il che si traduce in maggiori controlli e pattugliamenti pure in aeroporti e stazioni. Per Matteo Piantedosi ciò che è avvenuto ieri mattina in Francia «è il primo episodio riconducibile a quanto sta avvenendo». Il ministro dell’Interno ha aggiunto che l’accoltellamento al grido Allah Akbar «rievoca fantasmi non molto antichi» oltre che molte fibrillazioni «che si possano verificare ma non sempre possono essere intercettati». La riattivazione di cellule terroristiche dormienti è lo scenario che si vuole scongiurare: evitare una nuova ondata di terrorismo in Europa è l’imperativo principale. Luca Sablone
Olimpiadi di Monaco, chi erano le vittime della strage antisemita. Undici sportivi israeliani uccisi da terroristi palestinesi. Per non dimenticare. Lorenzo Cianti su nicolaporro.it il 5 Settembre 2023.
L’edizione estiva dei Giochi olimpici del 1972 fu assegnata simbolicamente a Monaco di Baviera per tentare di ricucire i rapporti tra la Germania Ovest, democrazia di impianto liberale, e la Repubblica Democratica Tedesca, sottoposta al giogo sovietico. Con 121 Nazioni aderenti e 5288 atleti da tutto il mondo, la competizione atletica risultò la più partecipata della storia fino a quel momento. Disgraziatamente, un evento drammatico segnò il corso delle Olimpiadi: l’uccisione di undici sportivi israeliani.
All’alba del 5 settembre 1972 un commando terroristico palestinese composto da otto fedayn facenti parte del gruppo settembre nero, affiliato all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, si introdusse nella palazzina dove risiedeva la squadra olimpica di Israele. I fanatici assassinarono due atleti: Moshe Weinberg (33 anni), allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano (31 anni), specializzato nel sollevamento pesi. Ne sequestrarono poi altri nove, con la richiesta di ottenere in cambio la liberazione di 234 palestinesi prigionieri in Israele. Quella sera i terroristi e gli ostaggi raggiunsero l’aeroporto a bordo di un elicottero. Raggiunti dalla polizia locale armata in assetto di guerra, uccisero tutti i prigionieri.
Morirono Yossef Gutfreund (40 anni), arbitro di lotta greco-romana; David Berger (28 anni), pesista; Mark Slavin (18 anni), lottatore; Yakov Springer (51 anni), giudice di sollevamento pesi; Ze’ev Friedman (28 anni), pesista; Amitzur Shapira (40 anni), allenatore di atletica leggera; Eliezer Halfin (24 anni), lottatore; Kehat Shorr (53 anni), allenatore di tiro a segno; André Spitzer (27 anni), allenatore di scherma. Oggi, 51 anni dopo la strage di Monaco, abbiamo il dovere di ricordare le loro vite, prematuramente strappate dall’odio antisemita.
Lorenzo Cianti, 5 settembre 2023
"Morto il quarto capo dell'Isis": ecco chi è il nuovo Califfo. Storia di Federico Giuliani giovedì 3 agosto 2023 su Il Giornale
L'Isis ha confermato la morte del suo leader, Abu Hussein al-Husseini al-Qurashi, e ha nominato Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi come suo successore alla guida del gruppo. L'annuncio è stato dato da un portavoce dell'Isis, Abu Huthaifa al-Ansari, in un messaggio registrato sui alcuni canali Telegram. "Li ha combattuti fino a quando non è morto per le ferite", ha spiegato riferendosi ad Abu Hussein, senza però specificare quando è avvenuta l'uccisione. Da quanto emerso, sappiamo l'uomo è stato ucciso in "scontri diretti" con il gruppo Hayat Tahrir al-Sham nella provincia di Idlib, nella Siria nordoccidentale.
Morto il leader dell'Isis
Al defunto quarto Califfo Abu Hussein al-Qurashi è succeduto il quinto, Abu Hafs al-Qurashi. In precedenza hanno occupato la cabina di regia il capo storico e primo leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, seguito da Abu Ibrahim Hashimi al Qurashi (entrambi rimasti uccisi in raid statunitensi nel nord-ovest della Siria) e da Abu al Hassan al Hashimi al Qurashi, ucciso lo scorso novembre. Ricordiamo che il titolo "Qurashi" si riferisce al nome della tribù di Maometto alla quale deve appartenere il successore (in arabo: khalifa", califfo) dello stesso profeta dell'Islam.
La morte del leader Isis era stata annunciata a fine aprile dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Il terrorista, secondo Ankara, era stato "neutralizzato nell'ambito di un'operazione dell'intelligence turca" nelle vicinanze di Jindires, nel nord della Siria, dove l'uomo si nascondeva in una fattoria abbandonata. Diverso, invece, il resoconto dei jihadisti, per i quali, come detto, Abu al-Hussein sarebbe rimasto ucciso in scontri nel nordovest della Siria.
Cosa succede all'Isis
Apparentemente, dunque, l'Isis ha puntato il dito contro il principale attore rivale sul fronte del terrorismo internazionale, al Qaeda, un tempo ridotta ai minimi termini di fronte alle conquiste territoriali dell'Isis in Siria e Iraq e di fronte ai tragici quanto micidiali attacchi del gruppo in Europa.
Dopo una fulminea ascesa in Iraq e Siria nel 2014 che l'ha vista conquistare vaste aree di territorio, Daesh ha visto crollare il suo autoproclamato "califfato" sotto un'ondata di offensive. Rispetto a quel periodo, l'Isis può contare su numeri molto ridotti di combattenti, che seppur temibili sono costretti a organizzarsi in cellule di 10-15 elementi per sfuggire alla costante caccia delle intelligence di tutto il mondo. Nonostante l'Isis possa ancora vantare ingenti quantità di contanti, fino a 50 milioni di dollari in Siria e Iraq, i colpi ripetuti alla leadership stanno minando la capacità di fare cassa con nuove risorse e soprattutto allontanano i reclutamenti.
L'organizzazione resta in ogni caso una minaccia, sottolineano gli esperti, grazie al largo uso di nuove tecnologie e criptovalute e per la facilità con cui riesce a fare breccia in Paesi instabili, come quelli dell'Africa subsahariana o nello stesso Afghanistan, dove sfida a viso aperto il nuovo potere talebano. Piccola curiosità: il primo Califfo del gruppo, Abu Bakr Al-Baghdadi, è stato ucciso sempre a Idlib. Come l'ultimo.
Otto condanne per le stragi di Bruxelles: 20 anni per Salah Abdeslam. La Corte d'assise speciale di Bruxelles ha condannato rispettivamente a 20 e 30 anni di reclusione Salah Abdeslam e Mohamed Abrini. Massimo Balsamo il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.
La Corte d'assise speciale di Bruxelles ha reso note le condanne definitive nei confronti dei terroristi islamici autori degli attentati del 22 marzo 2016. Come pronunciato dalla presidente Laurence Massart, i giudici hanno condannato rispettivamente a 20 e 30 anni di reclusione Salah Abdeslam e Mohamed Abrini. Per gli altri 6 imputati giudicati colpevoli lo scorso luglio, le pene sono: ergastolo per Oussama Atar in contumacia (perché morto), Osama Krayem e Bilal El Makhoukhi; 20 anni per Sofien Ayari e Ali El Haddad Asufi; 10 anni per Hervé Bayingana-Muhirwa.
Motivando la condanna nei confronti di Salah Abdeslam - già condannato all’ergastolo per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 - il collegio ha posto la vita sulla "negazione del diritto alla vita degli innocenti, l'indicibile sofferenza delle vittime. Le conseguenze quotidiane che ricordano loro costantemente gli abusi di cui sono state vittime": "Abdeslam pone i precetti dell'Isis al di sopra di quelli della nostra giustizia", le parole della presidente Massart riportate da Sud Info. La Corte d'Assise ha dunque fatto riferimento a una precedente condanna belga pronunciata nel 2018 (20 anni per una sparatoria con agenti di polizia nel marzo 2016) e non ha voluto imporre un'ulteriore pena.
Per il collegio si tratta della stessa intenzione criminale“commettere attentati ordinati dalla Siria e commessi sul suolo europeo”, da Parigi a Bruxelles. Stesso ragionamento è stato utilizzato per Sofien Ayari, condannato a Parigi e per Rue du Dries. Come anticipato, Mohamed Abrini, "l'uomo con il cappello" di Zaventem che accompagnò i jihadisti morti negli attentati suicidi all'aeroporto di Bruxelles, è stato condannato a 30 anni. La procura federale aveva inoltre chiesto la decadenza della nazionalità belga di quattro dei condannati - Mohamed Abrini, Bilal El Makhoukhi, Ali El Haddad Asufi e Hervé Bayingana - ma la corte e la giuria non hanno accolto questa richiesta.
Gli attentati di Bruxelles del 22 marzo del 2016 costarono la vita a 35 persone innocenti - 16 all'aeroporto di Bruxelles-National e 16 alla stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek - la maggior parte delle quali di nazionalità belga. 340 invece le persone ferite. Tre gli attacchi messi a segno dai terroristi islamici: due attacchi avvennero presso l'aeroporto di Bruxelles-National, nel comune di Zaventem, ed uno alla stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek, nel comune di Bruxelles. Operazioni rivendicate dopo poche ore dallo Stato islamico tramite l'agenzia di stampa Amaq.
Attentati terroristici di Bruxelles del 2016: sono sei i condannati. La Corte d'Assise ha condannato Oussama Atar, Mohamed Abrini, Osama Krayem, Salah Abdeslam, Ali El Haddad Asufi e Bilal El Makhoukhi. Federico Garau il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.
È arrivato quest'oggi, martedì 25 luglio, il verdetto relativo agli attentati suicidi che il 22 marzo del 2016 causarono a Bruxelles la morte di 35 persone (tra le quali tre terroristi) oltre che il ferimento di almeno altre 340.
Sono sei in tutto i condannati con l'accusa di "omicidi in un contesto terroristico", in quanto ritenuti dai dodici giudici della Corte d'Assise di Bruxelles responsabili di avere organizzato o attuato gli attacchi che presero di mira la stazione della metropolitana di Maalbek e l'aeroporto di Zaventem, stando a quanto riportato dal quotidiano belga Le Soir sul proprio portale online. Si tratta di Oussama Atar (si presume che sia nel frattempo deceduto in Siria), Mohamed Abrini, Osama Krayem, Salah Abdeslam, Ali El Haddad Asufi e Bilal El Makhoukhi. Tra di essi spiccano in particolar modo le figure di Salah Abdelslam, francese naturalizzato belga che partecipò anche agli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015, e Mohammed Abrini, che rivelò di essere il celebre "uomo con il cappello" immortalato dalle telecamere di sorveglianza dell'aeroporto poco prima che esplodessero le valigie riempite di Tatp, l'esplosivo in genere utilizzato dai jihadisti in Siria.
Gli altri quattro imputati Sofien Ayari, Hervé, Bayingana Muhirwa e Smail e Ibrahim Farisi sono invece stati assolti dai medesimi capi di imputazione: tra questi, tuttavia, Sofien Ayari e Hervé Bayingana Muhirwa sono stati ritenuti colpevoli del reato di partecipazione a organizzazione terroristica. I due fratelli Smail e Ibrahim Farisi sono stati assolti da entrambi i capi di imputazione.
Gli imputati hanno atteso 18 giorni la decisione dei giudici della Corte d'Assise di Bruxelles, dato che il processo, iniziato lo scorso dicembre 2022, si era concluso giovedì 6 luglio: si tratterebbe della delibera più lunga nella storia giudiziaria del Belgio. Secondo quanto riferito dal quotidiano belga, il verdetto è stato letto dalla presidente della Corte d'Assise Laurence Massart in maniera molto rapida. Laurence Massart, ha inoltre specificato che alle 32 persone che il 22 marzo 2016 persero la vita si sono aggiunte ulteriori quattro vittime, decedute qualche anno dopo gli attentati.
La presidente ha voluto sottolineare ancora una volta"l'orrore della scena" delle esplosioni all'aeroporto di Bruxelles e alla stazione metropolitana di Maelbeek, e la "sofferenza" che hanno provocato, in quella che era stata interpretata allora come una vendetta degli uomini fedeli all'Isis nei riguardi di uno dei Paesi che prese parte alla coalizione anti-Califfato in Siria e Iraq.
Stando al racconto fornito dalle forze dell'ordine, la strage di Zaventem avrebbe potuto avere un bilancio ancora più pesante: una terza bomba, la più potente, non sarebbe esplosa perché l’attentatore venne sbalzato via dalla seconda deflagrazione.
La Germania nella morsa del terrorismo islamico. Stefano Piazza su Panorama l'8 Luglio 2023
I nove arrestati dell'ultima operazione della Polizia sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS»
Sono ancora in corso le indagini che sono all’origine dell’operazione antiterrorismo che ieri ha coinvolto alle prime luci dell’alba diverse località della Renania Settentrionale-Vestfalia (NRW). Il procuratore federale ha disposto gli arresti per nove persone provenienti da Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan che sono accusate di aver fondato un'organizzazione terroristica in Germania, di aver pianificato attentati e di aver raccolto denaro per la "Provincia dello Stato islamico del Khorasan" (ISPK o Isis-K) ovvero la branca regionale dell’ISIS che opera principalmente in Afghanistan. Le persone arrestate sono cinque tagiki, un turkmeno e un kirghiso entrati in territorio tedesco nella primavera del 2022 fingendosi profughi ucraini. Il raid è avvenuto nel distretto di Ennepe-Ruhr, nel distretto di Rhein-Sieg, a Gelsenkirchen a Gladbeck, a Düsseldorf (capitale delle NRW) e nel distretto di Warendorf. Secondo il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul, gli uomini avevano tra i 20 ei 46 anni. Sono stati perquisiti in totale 15 luoghi. Un altro uomo tagiko e sua moglie kirghisa sono stati arrestati dalle autorità olandesi. Secondo la polizia olandese, la coppia è anche sospettata di aver preparato atti terroristici. Sono tre gli aspetti che devono preoccupare; in primo luogo, c’è lil fatto che l’operazione di ieri vede l’arresto di un’intera cellula terroristica e non più “lupi solitari” e lo stesso è avvenuto recentemente in Belgio, Francia, Olanda e Gran Bretagna. Altro aspetto a dir poco inquietante è che ad essere arrestata è stata una un’intera cellula dell’ISIS-K che quindi ora mira all’Europa come avevamo purtroppo previsto in precedenti approfondimenti. Infine, c’è il fatto che nessuno è in grado di sapere quanti sono i fondamentalisti arrivati nei Paesi europei dallo scoppio della guerra in Ucraina ma soprattutto quanti ne arriveranno ancora fingendosi profughi. Arrivati dopo l'inizio della guerra in Ucraina Come detto i nove sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS». Le indagini hanno accertato che il gruppo era in contatto con i membri dell’Isis-K e alcuni obbiettivi erano stati individuati e per questo i sette uomini erano alla ricerca di armi. Il ministro federale dell'Interno Nancy Faeser ha parlato di «un colpo significativo al terrorismo islamista. Oltre a possibili piani di attacco, è stato impedito anche il finanziamento del terrorismo. Stiamo continuando la nostra dura presa di posizione contro gli islamisti. I seguaci dello Stato islamico apparentemente credevano di poter svolgere qui il loro lavoro terroristico quotidiano senza essere disturbati. Ma le autorità di sicurezza hanno occhi vigili e possono vedere con precisione chi si muove e come». Il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul ha sottolineato che recentemente c'è stato un calo del numero di islamisti registrati presso l'Ufficio per la protezione della Costituzione nel Nord Reno-Westfalia una zona storicamente molto permeabile al fondamentalismo grazie all’attività e ai sermoni infuocati di molti predicatori salafiti come il convertito tedesco Pierre Vogel (Abu Hamza) Ahmad Armih alias Abul Baraa, Abul Hussain, Abu Jamal e Wisam Kouli solo per citane alcuni. Tuttavia, le continue perquisizioni e gli arresti mostrano che questo calo di numeri «non dà motivo di suonare il cessato allarme» visto che Il numero di minacce è di circa 200 all’anno. Un numero davvero enorme. «La Germania rimane un obiettivo del terrorismo islamico e la minaccia rimane acuta», ha affermato il ministro dell'Interno Nancy Faeser, rimarcando il lavoro che le autorità hanno fatto negli scorsi mesi nello sventare attacchi pianificati a Castrop-Rauxel, nell'Ovest del Paese, e ad Amburgo, nel Nord del paese.
L’odio. Il fiasco dell’assimilazione e l’inesorabile separatismo dei francesi musulmani. Carlo Panella su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023
Le tensioni in Francia sono il frutto del rapporto irrisolto tra Islam e modernità europea. Da una parte ci sono i giovani di fede islamica che non si riconoscono nei valori della società laica e si sentono emarginati, dall’altra parte c'è una polizia violenta formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto
La rivolta che ha bruciato la Francia, con scintille sino in Belgio e persino in Svizzera, ci obbliga a porci una domanda che è tanto semplice quanto esplosiva. L’Italia, indietro di decenni nello sviluppo del fenomeno immigratorio, farà la stessa fine? È inutile elencare tutte le differenze tra Italia e Francia. La lista è lunga: una immigrazione stanziale di massa iniziata decenni e decenni dopo, quindi una presenza enormemente minore di immigrati divenuti cittadini italiani e quindi di seconda o terza generazione (in Francia secondo l’istituto di statistica nazionale Insee questi e gli immigrati superano largamente i dieci milioni) una immigrazione non proveniente, se non del tutto marginalmente, da ex colonie, soprattutto non influenzata dal ricordo storico di feroci guerre coloniali come in Algeria e Marocco; una presenza quasi maggioritaria in Italia di immigrati europei, il 30 per cento addirittura comunitari; una polizia e dei carabinieri ben integrati nel tessuto sociale e molto impegnati nelle politiche di prossimità e integrazione, per lo più alieni da comportamenti violenti. Infine, ma non per ultimo, l’assenza del fenomeno delle banlieues.
In Francia, nel 1962, André Malraux varò una legge che investì nel risanamento dei centri storici, diventati così scelta preferenziale della media e alta borghesia, mentre gli immigrati, grazie anche a successive e precise scelte urbanistiche, vennero ammassati nelle periferie e nelle città satelliti, le banlieues. In Italia, al contrario, nessuna, assolutamente nessuna, politica urbanistica a fronte dell’arrivo in quindici anni di cinque milioni di immigrati regolari, col risultato di una loro caotica e casuale concentrazione determinata solo dal mercato degli affitti privati, vuoi nei centri storici, vuoi nelle periferie.
Questo non toglie che in Italia vi siano a macchia di leopardo, nelle città e nelle periferie, concentrazioni di immigrati che superano il venti-trenta per cento , con forti tensioni sociali e politiche. Un caso per tutti, ma ce ne sono molti simili: Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, ha visto nel 2017 la sconfitta della sinistra dopo sessant’anni di governo locale e dopo una campagna elettorale nella quale ha avuto un ruolo centrale la polemica sulla costruzione di una nuova, grande moschea. Così pure al Lagaccio, il quartiere dei portuali di Genova.
Molti in Italia i casi di rivolta dei residenti contro la concentrazione di immigrati irregolari. Molti i casi a livello individuale, non politico o di grande rilevanza sociale, di separatismo (vedremo più avanti l’esplosiva realtà in Francia di questo termine) di famiglie di immigrati musulmani che impongono la sharia su mogli e figlie in spregio delle leggi italiane.
Non pochi i casi di violenze shariatiche gravi, sempre su donne, inclusi alcuni assassinii con motivazioni shariatiche come quelli di Hina Saleem e Saman Abbas. Il ventisette per cento dei femminicidi compiuti in Italia nel 2021 vedono come responsabile un immigrato. E non mancano i tentati stupri di gruppo da parte di giovani immigrati islamici come quello del capodanno 2022 in piazza Duomo a Milano.
A uno sguardo d’insieme – non esistono ancora analisi serie in Italia – siamo ancora nella fase in cui la mancata integrazione delle prime, ma soprattutto delle seconde generazioni si esprime in comportamenti criminali, non ancora di corale rivolta politico sociale. Deviazioni criminali molto preoccupanti che in genere si esprimono non tanto individualmente ma per bande. Ancora più inquietanti i dati dei minori immigrati tra i quattordici e i diciassette anni che sono il nove per cento di tutta la popolazione, ma compiono il sessantacinque per cento degli scippi, il 50,2 per cento dei furti, il 48,1 per cento delle rapine, il 47,7 per cento delle violenze sessuali e il 40,4 per cento delle percosse.
Dunque, fenomeni carsici indiscutibili, ma che ancora sono ben lontani dal livello d’allarme e dall’intensità eversiva delle rivolte delle banlieues francesi. Ma un domani? Tra tre, cinque, dieci anni, quando maturerà una situazione dell’immigrazione regolare uguale a quella francese, è escluso che in Italia si possano replicare? Non credo. Troppi sono i segnali di mancata integrazione degli immigrati regolari, specie musulmani.
Con buona pace dei buonisti che in Italia pensano che concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati abbia un effetto di salvifica integrazione, la rivolta francese dimostra che questa è una cosmica falsità. L’ennesima di una visione irenistica dell’uomo e della cittadinanza di una sinistra crepuscolare. Sono infatti cittadini francesi da una, due, tre generazioni le decine di migliaia di giovani che in questi giorni hanno incendiato e saccheggiato non solo le periferie, ma anche i centri città di tutta la Francia, duecentoventi i comuni con incidenti gravi, muniti di eccellenti app che indicavano dove era in corso il saccheggio del più vicino grande magazzino o negozio di Nike.
Il trenta per cento dei più di tremila arrestati era minorenne, che semplicemente si sentono “altri” e soprattutto contro, di fatto non si sentono parte di una comunità nazionale, di un patto sociale. Sono cittadini francesi ma non si sentono francesi. Odiano la Francia e non solo saccheggiano, ma anche distruggono scuole e edifici pubblici. Sono il prodotto di una decomposizione identitaria e di una deriva comunitaria in atto da decenni in Francia evidenziata già nel 2003 dal poderoso lavoro di inchiesta sociale e sociologica sulla base di migliaia di interviste e analisi sviluppata dalla Commissione Stasi voluta da Jacques Chirac, che tra l’altro sottolineò tra le sue caratteristiche un diffuso antisemitismo di matrice islamica. Un antisemitismo che ha prodotto, soprattutto dopo gli attentati del 2015, una fuga verso Israele di migliaia di ebrei francesi. La rivolta delle banlieues del 2005 confermò in pieno quella analisi.
Questa stessa deriva comunitaria e decomposizione identitaria ha inoltre incubato quel «separatismo» di matrice islamica denunciato da Emmanuel Macron nel suo famoso discorso di Mureaux nell’ottobre del 2020. I cui punti salienti sono:
– L’integrazione e soprattutto l’assimilazione degli immigrati musulmani e dei musulmani con cittadinanza francese è fallita in componenti non marginali a causa del «separatismo islamico» che mira «a costruire una contro società». Infatti, come evidenzia una inchiesta Ifop del 2020, il cinquantasette per cento dei giovani musulmani in Francia «considera la sharia più importante delle leggi della Repubblica».
– Questo fallimento deriva essenzialmente da una crisi dell’Islam da cui è emersa una corrente politica che pretende di sostituire le leggi della Repubblica con quelle della Sharia. I Fratelli Musulmani, i salafiti e i wahabiti hanno promosso e innervato questa corrente con un progetto politico e una ideologia strutturata.
– Per contrastare questo fenomeno che, letteralmente, «incancrenisce la Repubblica» e mette in pericolo il patto sociale e nazionale, vanno attuati nuovi e rigidi strumenti legislativi e amministrativi.
Dunque, in Francia deflagra oggi una miscela esplosiva composta da più componenti: una emarginazione sociale dei giovani immigrati di seconda, terza generazione, un rifiuto di massa di sentirsi parte della comunità nazionale francese, la chiusura in contesti comunitari omogenei, con un proprio linguaggio e propri valori antagonisti al patto sociale e anche, per molti, il riferimento a una legge “altra”, la sharia, che è quella dei padri, delle proprie radici, che deve regolare i rapporti sociali, familiari e con le donne in senso opposto a quello dei francesi, della Repubblica.
Un separatismo che conferma la previsione del cardinale Giacomo Biffi che fece scandalo nel 2000 nel pronunciare queste parole che si sono rivelate profetiche: «Gli islamici – nella stragrande maggioranza, con qualche eccezione- vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità” individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più preziosa, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare sostanzialmente come loro. Hanno (…) un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (sino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli Stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo riguardo».
Dunque, non la sostituzione etnica è il vero problema, non il Grand rémplacement, che più del sessanta per cento dei francesi è convinto sia in atto, ma il rapporto irrisolto tra Islam e modernità e quello ancora più confuso e incerto tra gli Stati europei e il radicarsi dell’Islam sui loro territori e nelle loro comunità.
Peraltro, va detto che l’innesco che fa esplodere questa miscela sociale, identitaria e culturale, in Francia nel 2005 come oggi, non a caso è la violenza della polizia: il poliziotto, il gendarme incarna il volto dello Stato, più vicino, più presente. Ed è una polizia, quella francese, con un patrimonio storico di violenza e di durezza che non ha pari in Europa. L’opposto della polizia di prossimità, attrezzata e formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto. Una polizia peraltro apprezzata nel suo ruolo violento da una massiccia minoranza silenziosa di francesi che si sentono minacciati. Non è un caso che la sottoscrizione a favore del poliziotto che ha ucciso a freddo e senza alcuna giustificazione il giovane Nahel, immigrato di terza generazione, abbia ricevuto otto volte più fondi della raccolta fondi a favore della madre di Nahel, più di un milione e mezzo di euro.
Questo il rebus francese oggi. La crisi di un paese che esplode nella violenza provocata da un fallimento totale dell’integrazione o della assimilazione dei suoi milioni e milioni di immigrati e dei loro figli. Una crisi apparentemente insolubile. Da destra come da sinistra, da Chirac, da Nicolas Sarkozy, come da François Hollande e oggi da Emmanuel Macron.
L'Isis è tornato a comandare. Stefano Piazza su Panorama il 5 Luglio 2023
Afghanistan, Iraq, Siria, mentre il mondo è distratto dalla guerra in Ucraina il Califfato sta riprendendo forza e pericolosità
Come ha scritto la BBC lo scorso 2 luglio i Talebani hanno ordinato ai parrucchieri e ai saloni di bellezza in Afghanistan di chiudere le loro attività. Un portavoce del Ministero del vizio e della virtù ha detto che le aziende hanno tempo un mese dal 2 luglio scorso per obbedire alla direttiva. I Talebani hanno anche decretato che le donne debbano essere vestite in modo da mostrare solo i loro occhi e devono essere accompagnate da un parente maschio se viaggiano per più di 72 km. La chiusura dei saloni di bellezza faceva parte di una vasta gamma di misure imposte dai Talebani quando erano al potere tra il 1996 e il 2001 ma hanno poi riaperto negli anni successivi all'invasione dell'Afghanistan guidata dagli Stati Uniti nel 2001e la nuova chiusura non è che l’ennesimo colpo inferto alla libertà delle donne, dopo che i vertici talebani hanno disposto l’allontanamento delle ragazze e delle donne adolescenti dalle aule scolastiche, dalle palestre e dai parchi, oltre ad avergli vietato persino di lavorare per le Nazioni Unite. Il governo talebano non ha spiegato cosa ha spinto il divieto, o quali eventuali alternative sarebbero disponibili per le donne una volta chiusi i saloni, ma appare evidente che i Talebani totalmente isolati a livello politico internazionale e che vengono attaccati ogni giorni dai rivali dell’Isis-Khorasan (Isis-K) non abbiano alcun piano politico se non quello di concentrarsi ossesivamente sui corpi delle donne, visto che stanno cercando di eliminarle a ogni livello della vita pubblica. A proposito dello scontro tra al-Qaeda, i Talebani e la rete Haqqani che hanno la stessa visione del mondo, gli stessi obiettivi e lo stesso approccio, alcune testate lo scorso 9 giugno hanno raccontato che il leader dell’Isis-K Sanaullah Ghafari, noto anche come Shahabul Muhajir e Shahab al- Muhajir, sarebbe stato eliminato in un'operazione condotta dalle forze speciali del regime ad interim afghano. Vero o falso? Anche il comando centrale degli Stati Uniti, che sovrintende alle operazioni militari statunitensi in Medio Oriente e nell'Asia meridionale, ha dichiarato di non essere in grado di confermare la morte di Ghafari: «CENTCOM è a conoscenza di rapporti secondo cui un leader dell'IsisK è stato ucciso in Afghanistan all'inizio di questa settimana», aveva dichiarato a Voice of America (VOA) il maggiore John Moore che in una e-mail ha scritto: «Non abbiamo altro da fornire in questo momento». I funzionari dell'intelligence pakistana hanno confermato a VOA l'eliminazione del capo dell'Isis-K in Afghanistan in quelle che hanno descritto come «circostanze misteriose» salutando la circostanza come un «come un grande successo contro i gruppi terroristici che minacciano i due paesi». A quasi un mese dalla presunta morte dell’emiro dell’Isis-K Sanaullah Ghafari, gli Stati Uniti mantengono intatta la taglia da 10 milioni dollari sulla sua testa come si legge sul sito Rewards for Justice: «Rewards for Justice offre una ricompensa fino a 10 milioni di dollari per informazioni sul leader dell'Isis-K Shahab al-Muhajir. Nel giugno 2020, la leadership centrale dell'Isis ha nominato al-Muhajir, noto anche come Sanaullah Ghafari, a capo dell'Isis-K, un'organizzazione terroristica straniera designata dagli Stati Uniti. Un comunicato dell'Isis che annunciava la sua nomina descriveva al-Muhajir come un leader militare esperto e uno dei «leoni urbani» dell'Isis-K a Kabul, coinvolto in operazioni di guerriglia e nella pianificazione di attacchi suicidi e complessi. Nato nel 1994 in Afghanistan, è responsabile dell'approvazione di tutte le operazioni dell'Isis-K in tutto l'Afghanistan e dell'organizzazione dei finanziamenti per condurre le operazioni». Un chiaro segnale che per gli americani Ghafari è ancora vivo e vegeto. A proposito dei Talebani: non passa giorno che un membro del regime di Kabul affermi. «Non ci sono gruppi terroristici in Afghanistan. Non possono operare nel paese e noi non permettiamo loro di operare in Afghanistan», ma come visto con la morte del capo di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, ucciso da un drone della Cia il 31 luglio 2022 sul terrazzo dell’appartamento di Kabul dove viveva da qualche tempo con la famiglia, i Talebani mentono. In realtà nel rapporto pubblicato agli inizi del giugno scorso dal gruppo di monitoraggio del supporto analitico e delle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si legge: «Con il patrocinio dei Talebani, i membri di al-Qaeda hanno ricevuto nomine e ruoli consultivi nelle strutture amministrative e di sicurezza talebane. Le relazioni tra i Talebani e al-Qaida restano forti e simbiotiche e circa 400 combattenti di al-Qaida sono in Afghanistan e si rilevano segnali che il gruppo terroristico sta ricostruendo la sua capacità operativa». I Talebani hanno respinto il rapporto, definendolo «di parte e lontano dalla realtà» ma non hanno spiegato perché Qari Baryal che per più di 15 anni è stato in una lista speciale dei leader Talebani e di al-Qaeda dei più ricercati da Washington in Afghanistan perchè accusato di aver effettuato attentati dinamitardi e attacchi suicidi in tutto il paese nel novembre 2021, quindi due mesi dopo il ritiro delle forze USA e NATO dall'Afghanistan, è stato nominato governatore della provincia di Kabul. Mentre nel marzo 2022 è diventato governatore provinciale della provincia di Kapisa, a nord-est di Kabul. Ma non è il solo perchè nel rapporto si leggono i nomi del governatore del Nuristan Hafiz Muhammad Agha Hakeem e Tajmir Jawad, vicedirettore dell'intelligence dei Talebani entrambi affiliati ad al- Qaeda. Inoltre altri qaedisti hanno posizioni di livello nei ministeri afghani, uno su tutti è Sirajuddin Haqqani, ministro dell'Interno dell'emirato islamico afghano, capo dell'omonimo gruppo che fa parte dei Talebani e contemporaneamente, secondo l'ONU, l'intelligence americana e quella britannica, un membro di lunga data di alQaeda. Nonostante le prove con una dichiarazione pubblicata su Twitter dal portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid, il gruppo insiste «sui suoi impegni e assicura che non vi è alcuna minaccia dal territorio dell'Afghanistan alla regione, ai vicini e ai paesi del mondo e non consente a nessuno di utilizzare il proprio territorio contro gli altri». Ma ormai a credere alle loro giustificazioni non resta più nessuno. Bill Roggio, un membro anziano della Foundation for Defense of Democracies, ha dichiarato a VOA che nominando leader con «doppio cappello», quindi di al-Qaida e Talebani tra cui Baryal, (che ha ucciso le truppe americane) i Talebani stanno apertamente beffandosi del cosiddetto accordo di pace. Queste nomine dimostrano che i Talebani non sono preoccupati per la percezione della comunità internazionale», ha detto Roggio aggiungendo che «i Talebani hanno sempre mentito sui loro legami con al-Qaida e altri gruppi terroristici e le loro dichiarazioni sono prive di fondamento».
Secondo Bull Roggio e altri analisti della regione l'Afghanistan potrebbe tornare ad essere un centro di addestramento per il gruppo terroristico visto che qui hanno un rifugio sicuro e il sostegno dei Talebani. Sami Yousafzai, un giornalista che si occupa di Afghanistan da molti anni, ha detto a VOA che crede che i membri di al-Qaeda ora in Afghanistan siano principalmente arabi, con solo pochi membri Talebani afghani che si sono uniti per necessità. Altri esperti regionali ritengono che il lungo conflitto militare della regione tra i Talebani e le forze guidate dagli Stati Uniti abbiano creato alleanze tra i gruppi di milizie regionali difficilmente incasellabili. L'ex portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale dell'Afghanistan Rahmatullah Andar non ha dubbi: «I gruppi Talebani nei distretti ospitano membri di al- Qaida da più di 20 anni. Pertanto, è difficile separarli. Non solo con al-Qaida, ma anche con i Talebani pakistani».
L'"infermiere" Abdalmasih e l'asilo concesso dall'Italia. Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Francesco De Remigis il 9 Giugno 2023 su Il Giornale.
Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Perché il 31enne siriano che ieri ha assalito il gruppo di bambini ad Annecy, con un coltello in mano e una kefiah in testa, stava studiando per diventarlo. Fino all'anno scorso, faceva un corso insieme alla moglie in Svezia, lasciata però nel Paese dove ha vissuto con lei per anni. E dove ha ricevuto il suo primo documento di rifugiato politico, nel 2013. «Aveva seguìto tutte le procedure lì», spiega la portavoce del ministero dell'Interno francese, rimbalzando su Stoccolma il passato (e il profilo) dell'uomo, e ribadendo che le leggi Ue non prevedono un bis della domanda. Se già accolta da uno dei Paesi membri, Schengen è in sostanza casa sua.
Non avrebbe senso cumulare le stesse richieste di asilo. Ma lui lo ha fatto. E la Francia gliel'ha bocciata giusto domenica scorsa, il 4 giugno. Nel dossier, presentato il 28 novembre, si era dichiarato ancora una volta «cristiano siriano». Come in Svezia, dov'era arrivato una decina d'anni fa e aveva messo su famiglia: moglie, una figlia nata lì che oggi ha tre anni. La piccola è rimasta con la madre. Lui è diventato un fantasma: otto mesi fa, quando si sono separati. «Non gli piaceva la Svezia», rivela lei. Ha quindi apparentemente intrapreso una sorta di road trip. Svizzera, Italia. Paesi che per BfmTv avevano già accettato le sue domande di asilo (inutili).
Infine è arrivato in Francia, puntando forse alla cittadinanza. La prefettura francese ha fatto il suo lavoro, spiegano Oltralpe, non prendendo in considerazione la richiesta d'asilo perché già in tasca. La moglie, da 4 mesi, non aveva più sue notizie. Abdalmasih Hanoun è quindi ancora un enigma: originario di Hassaké, la città del Kurdistan siriano strappata poi all'Isis. Folle, posseduto, feroce e spietato assassino o solo un persona in crisi d'identità con un passato traumatico? Difficile stabilire la premeditazione, secondo gli analisti. La pista psicologica viene tenuta in alta considerazione per carpire i segreti dietro questo rifugiato che prima di azionare la furia contro i passeggini aveva fatto il giro di mezza Europa. Era senza fissa dimora, ad Annecy, si appoggiava in una chiesa per dormire. Nel commissariato, in arresto, ieri gridava: «Uccidetemi, uccidetemi». Ai poliziotti non ha detto granché. Niente precedenti psichiatrici, né schedato per reati. Sconosciuto agli 007. Dopo l'arresto - che durerà al massimo 48 ore se non ci saranno sviluppi nell'inchiesta - si rotolava per terra. Tatuaggi sulle gambe, i bermuda con cui era andato nel parco. Deliri mistici o cosa? Per alcuni testimoni, da almeno tre giorni si vedeva in zona. Era entrato legalmente in Francia. In tasca un documento. Per ora ha avuto il «merito» di mettere in evidenza certe apparenti lacune Ue: e procedure di rilascio di «doppioni» talvolta troppo automatiche.
Per la ex moglie, «non era capace di colpire, era una brava persona». In Francia non conosceva nessuno, non aveva contatti, insiste ignara di tutto. Ma in quattro mesi di buco tra i due può essere cambiato qualcosa. Deluso dal «No» francese? Ieri aveva con sé uno zaino e un coltello e un paio di occhiali da sole indosso; sufficienti per seminare il terrore e far ripiombare la Francia nell'incubo attentati. L'ex moglie ricorda che abitavano insieme a Trollhättan nella Svezia occidentale, e che si erano incontrati 5 anni fa in Turchia. La Svezia è il Paese Ue che riceve più cristiani d'oriente. Dà titoli di soggiorno permanenti. Era «gentile», dice lei. «Si occupava molto di sua figlia». Ma tutto è ancora da decifrare. Fatti, dichiarazioni, e perfino le testimonianze.
"Stupri, aggressioni e accoltellamenti: ecco i crimini degli immigrati in Francia". Matteo Carnieletto l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.
Il caso del siriano che ha accoltellato i bambini in Alta Savoia torna a far puntare i riflettori sul fallimento del modello francese sull'immigrazione
Laurent Obertone traccia pennellate ampie e fosche per descrivere ciò che sta accadendo in Francia. Lo ha fatto nei primi due volumi di Guerriglia (Signs publishing) - Il giorno in cui tutto si incendiò e Il tempo dei barbari - e pure nel terzo volume che uscirà a dicembre. Lo scenario è semplice e drammatico allo stesso tempo (e soprattutto inquietante perché basato su alcuni report dei servizi segreti francesi): in un giorno come tanti altri, una serie di azioni provoca la ribellione degli immigrati presenti sul suolo di Francia. È l'inizio della rivolta. Della guerriglia, appunto. Della violenza senza freni. Degli omicidi impuniti. Dei furti liberi. Dello stupro come arma. Obertone conosce bene la Francia. E conosce bene ciò che un'immigrazione incontrollata sta provocando ai francesi. Dopo l'aggressione di un siriano contro alcuni bambini ad Annecy, in alta Savoia, abbiamo deciso di intervistarlo.
In Francia c'è stato un altro reato commesso da un immigrato. Quello che aveva predetto nei suoi libri si è avverato?
Sfortunatamente, questo accade ogni giorno da anni. Ma è di cattivo gusto parlarne, come se il problema fosse un solo caso, come se le nostre parole - quando invece si tratta di azioni criminali commesse da immigrati - sconfiggessero la "convivenza", questa fantasia delirante delle nostre élite, a cui dobbiamo il crollo del nostro modo di vivere e del nostro capitale sociale.
Si dice che l'uomo che ha aggredito i bambini sia un siriano venuto in Europa affermando di essere cristiano. Secondo lei è possibile o era una scusa per avere più facilmente il diritto d'asilo?
Non ne ho idea, so solo che è un "rifugiato", che ha accoltellato bambini nei passeggini, che non ha affari sul nostro suolo, che nel 2022 sono state presentate più di 137mila prime domande di asilo, che quest'anno abbiamo battuto il record di permessi di soggiorno rilasciati (oltre 320mila), senza contare 1,7 milioni di visti. E sto parlando solo dell'immigrazione legale, che è stata imposta alla nostra gente, completamente contro la sua volontà, per decenni.
Il caso Lola sembra dimenticato. Ci sono stati altri crimini efferati che hanno scosso la Francia negli ultimi mesi?
Ce ne sono alcuni ogni giorno. Ogni giorno più di 200 donne vengono abusate o stuprate. Migliaia di cittadini vengono attaccati. Ci sono 120 colpi e coltellate al giorno. Questo sordo terrore è la norma. Ma secondo i nostri leader l'insicurezza è solo un sentimento e parlarne farebbe il gioco dell'estrema destra. Quindi è vietato farlo, pena l'accusa di “recupero”.
Quello che sta accadendo in Francia potrebbe accadere anche in Italia?
Assolutamente, ovunque, le stesse cause producono gli stessi effetti. E questo è solo l'inizio, finché le nostre élite si rifiutano di prenderne atto.
Quale futuro per l'Europa?
Per ora sembra decisa a uccidersi, a distruggere la sua coesione, ad assecondare tutti i pazzi della terra. Le mie parole sono forti, ma la passività generale, la negazione di questa realtà che da anni denuncio tende a infastidirmi, a rimanere educato. Perché oggi un profugo ha accoltellato dei bambini nei passeggini, in una piazza, e tra qualche giorno nessuno ne parlerà, né se ne ricorderà, e nulla cambierà. Fino al prossimo episodio.
Annecy ci dice che l'allarme terrorismo esiste, anche se non lo vogliamo vedere. Stefano Piazza su Panorama l'8 Giugno 2023
Distratti dalla guerra in Ucraina e dalle politiche pro accoglienza abbiamo sottovalutato o non visto le decine di attacchi di un terrorismo islamico che ha ripreso forza. Anche grazie a noi
L'errore principale che potremmo fare nel commentare il barbaro attentato contro i bambini nel parco giochi di Annecy è pensare sia il gesto isolato, di un lupo solitario. I segnali, non colti dalla massa anche perché troppo poco resi pubblici dalla stampa, arrivati negli ultimi mesi in Europa raccontano infatti una realtà ben diversa: il terrorismo islamico è più vivo che mai. Questa mattina intorno alle 9.45 un uomo armato di coltello ha ferito almeno 9 persone in un parco di Annecy, in Alta Savoia (Francia). Almeno un adulto e quattro bambini sarebbero «in assoluta emergenza» secondo un primo rapporto provvisorio. I bambini feriti, secondo fonti della prefettura, hanno circa tre anni e sarebbero alunni di una scuola materna che si trova nelle vicinanze del parco. A colpire è stato un cittadino siriano Abdalmasih H., 31 anni, che aveva presentato domanda di asilo all'Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (Ofpra) il 28 novembre 2022 e che nel frattempo aveva ottenuto lo status di rifugiato in Svezia (sempre generosa in questi casi) con provvedimento del 26 aprile 2023. L’uomo fino ad oggi era sconosciuto dalla polizia e all’intelligence francese. Gli agenti hanno sparato all’uomo e lo hanno colpito a più riprese, soprattutto alle gambe, ha detto un testimone all’emittente Bfmtv. Il premier francese Elizabeth Borne e il ministro dell’Interno Gérald Darmanin sono arrivati sul posto, mentre il presidente francese Emmamnuel Macron in un tweet ha espresso il suo sdegno: «È un attacco di una vigliaccheria assoluta. Dei bambini e un adulto sono tra la vita e la morte. La nazione è sotto shock». Secondo alcuni testimoni oculari «l’aggressore è saltato, si è messo a urlare, si è avvicinato ai passeggini e ha iniziato a pugnalare ripetutamente i piccoli». Poi quando ha visto che era circondato dalla polizia è andato da una coppia e ha accoltellato l'anziano. È andato dritto da un nonno che era con sua moglie e l'ha accoltellato. Si tratta dell’ennesimo attacco compiuto da un richiedente asilo nei confronti di civili ed in tal senso la memoria va ad Anis Amri, l'autore dell'attacco terroristico del 19 dicembre 2016 (12 morti 56 feriti) a Berlino, poi neutralizzato a Sesto San Giovanni il 23 dello stesso mese; a Muhammad Usman e Osama Krayem che erano nel commando delle stragi del 13 novembre 2015 che hanno provocato 137 vittime (7 attentatori); oppure a Rakhmat Akilov, 39 anni, un richiedente asilo uzbeko che il 7 aprile 2017 alla guida di un cammion travolse la folla a Stoccolma ( 5 morti e 15 feriti). Infinita la serie di attacchi con arma bianca compiuti da rifugiati, ad esempio quello del 18 agosto 2017 a Turku, città del sudovest della Finlandia, dove diverse persone vennero accoltellate nella Piazza del Mercato da un assalitore successivamente identificato come un giovane richiedente asilo. Dopo aver accoltellato dieci persone, attaccando delle donne e ferendo due uomini accorsi a prestare aiuto, l'attentatore fu colpito alle gambe dalla polizia e arrestato. Stessa dinamica ha usato il 25 settembre 2020 Ali H., giovane pakistano, arrivato nel 2017 nella capitale francese come minore non accompagnato, che ha ferito a colpi di mannaia due collaboratori dell'agenzia di stampa Premieres Lignes, la stessa che il 7 gennaio 2015 mostrò le immagini dei fratelli Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly prima del loro ingresso nella redazione di Charlie Hebdo, dove uccisero 12 persone. Altro attacco quello del 27 giugno 2021 Wurzburg, in Baviera (Germania) dove un un uomo di nazionalità somala ha accoltellato a morte tre persone ferendone almeno alte dieci per poi essere fermato dalla polizia. Sempre in Germania, il 7 novembre 2021, un 27enne siriano armato di coltello aveva attaccato i passeggeri del treno ad alta velocità che collega Ratisbona a Norimberga, ferendo in maniera grave tre persone prima di essere fermato. Sul treno al momento dell'attacco c'erano 300 passeggeri che sono vennero fatti scendere a Seubersdorf (distretto di Neumarkt). In precedenza il 13 ottobre 2021 il 37enne Espen Andersen Brathen, convertito all'islam nel 2017, uccise cinque persone e ne ferì altre due a Kongsberg, una piccola città vicino a Oslo (Norvegia), due giorni dopo a Londra a cadere sotto i colpi di Ali Harbi Ali, un 25enne britannico di origine somala nel Regno Unito dal '90, era stato il parlamentare britannico Sir David Amess, 69 anni, deputato conservatore di Southend West, assassinato con 17 coltellate mentre incontrava i suoi gli elettori in una chiesa nell'Essex. Episodi che hanno convinto le intelligence e le strutture anti terrorismo di tutta Europa che l'Isis si è riorganizzato, che il terrorismo islamico ha sfruttato la distrazione dell'occidente da più di un anno con gli occhi rivolti solo all'Ucraina; tutto questo in un momento politico che predilige l'accoglienza indiscriminata alla sicurezza. Per questo la certezza è che dopo Annecy ci saranno altro attacchi, altri terroristi, altri morti in Europa con tutti i rischi che corriamo ogni giorno. Anche portando i nostri figli e nipoti al parco.
Lo stato di Al Qaeda 22 anni dopo l’11 settembre. Lorenzo Vita il 10 Settembre 2023 su Inside Over.
Ventidue anni dopo quel fatidico 11 settembre 2001, di Al Qaeda, la creatura di Osama bin Laden, sembra essere rimasto solo un lontano ricordo. Rispetto all’incubo che per anni ha imperversato nel mondo, diventando anche oggetto di una vera e propria guerra, oggi l’organizzazione terroristica di matrice islamica è rimasta solo come nome, cambiando radicalmente pelle. Morto il suo vertice e con l’ascesa e la caduta del grande rivale dello Stato islamico del califfo Abu Bakr al Baghdadi, al Qaeda è sembrata condannata alla scomparsa, o quantomeno al totale ridimensionamento. Nessun desiderio di ottenere, tramite il sangue degli innocenti, il cambiamento della politica internazionale o della società, ma solo una rete criminale che si è modellata sulla realtà geopolitica in grande mutamento.
In realtà, le cronache anche delle ultime settimane, ma in generale degli ultimi anni dimostrano due dati. Da una parte, è certamente vero che la morte di Osama bin Laden e la fine del periodo dei grandi attentati terroristici dei primi Anni Duemila è andata di pari passo con una sostanziale riduzione del raggio d’azione della rete terroristica che appariva così granitica. Ed è altrettanto vero che l’ascesa di Daesh, o del sedicente Stato islamico (nato da una costola proprio di Al Qaeda) ha sancito un inevitabile declino anche mediatico dell’organizzazione che ha terrorizzato l’Occidente e non solo. Tuttavia, Al Qaeda in questi anni ha anche saputo modificare in modo radicale i propri obiettivi e le proprie modalità di azione, sopravvivendo al corso degli eventi e anche ai suoi numerosi fallimenti e colpi inferti dalle forze avversarie. E in questo, ha certamente influito anche il passaggio ideologico dalla leadership di bin Laden a quella di Al Zawahiri, che, come ha spiegato l’analista Claudio Bertolotti in un’intervista ad Huffington Post, rispetto al potente predecessore “è stato più pragmatico, avendo come obiettivo una somma di vittorie quotidiane, concrete, che ogni generazione vivente può contribuire a realizzare e vedere realizzate.”.
Questo non significa che al Qaeda sia egualmente potente rispetto a venti anni fa. La guerra fratricida con lo Stato islamico, che si è combattuta in diversi campi di battaglia ha mostrato tutti i limiti dell’organizzazione islamista e anche la sua perdita di consenso rispetto a un enorme bacino di possibili affiliati. È però vero che rispetto a Daesh, di fatto relegato a pochissimi e piccoli santuari tra Siria e Iraq, il modello qaedista ancora resiste in conflitti locali in grado di spargere sangue ovunque. I migliori alleati di Al Qaeda, i Talebani, governano con difficoltà l’Afghanistan dopo che il potere di Kabul gli è stato consegnato dagli stessi Stati Uniti una volta conclusa l’infinita guerra scatenata proprio dopo l’11 settembre 2001. In Siria, Iraq e Yemen ancora persistono delle sacche di resistenza. E in Africa, dalla regione orientale fino a quella occidentale includendo gran parte del Sahel, una serie di organizzazioni affiliate ad Al Qaeda e presuntamente legate a essa continuano a macchiarsi di crimini, compiere attentati terroristici o essere coinvolti in conflitti locali profondamente violenti e capaci di portare destabilizzazione in tutti i teatri bellici. A questo proposito, è utile ricordare l’ultima tragica notizia giunta dal Mali, dove proprio un gruppo affiliato ad Al Qaeda ha rivendicato due attentati in cui hanno perso la vita 49 civili e 15 soldati, colpendo un’imbarcazione sul fiume Niger, la “barca di Timbuctu”, e una base dell’esercito maliano a Bamba, nella regione settentrionale di Gao. A preoccupare gli esperti è soprattutto il Gruppo di difesa dell’Islam e dei musulmani (Jnim).
D’altro canto, va anche rivelato che i problemi di Al Qaeda non sono pochi e, dopo venti anni di terrore, l’assenza di una leadership definita dopo l‘uccisione di Ayman al-Zawahiri può essere l’esempio più chiaro delle sue difficoltà. Per il Dipartimento di Stato americano, il nuovo vertice della rete è Saif al Adel, ex membro delle guardie di sicurezza egiziane, che secondo molti analisti è nascosto in Iran. Ma l’assenza di un riconoscimento globale può essere un deficit per la sua organizzazione. Inoltre, come ricordato da Foreign Policy, in questo momento alcuni segmenti di Al Qaeda, in particolare africani, sarebbero in grado di colpire anche in Occidente. Ma la violenza sembra sfogarsi principalmente in conflitti regionali anche tra sigle jihadiste che non solo continuano a mietere vittime innocenti, ma che distraggono l’organizzazione terroristica da propositi più ampi. LORENZO VITA
Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11/9. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 17 Aprile 2023
Veterano della resistenza dei mujāhid all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Laureato in ingegneria. Ossessionato dai dirottamenti aerei. Scrivere degli attentati dell’11 settembre 2001 equivale a fare il suo nome. Eppure no, non stiamo parlando di Osama bin Laden, anche se la descrizione gli calza a pennello. Stiamo parlando di Khalid Sheikh Mohammed, la mente profonda dell’11/9.
Genesi di un terrorista
Khalid Sheikh Mohammed, popolarmente noto come lo Sceicco, è stato uno dei terroristi islamisti più importanti dell’epoca d’oro del jihadismo. La data e il luogo di nascita di Mohammed non sono mai stati accertati definitivamente – potrebbe essere nato in Pakistan o in Kuwait, nel 1964 o nel 1965 –; quel che è certo è che suo padre fosse un predicatore della scuola deobandi, che suo nipote sia Ramzi Yousef, uno dei protagonisti dell’attentato al World Trade Center del 1993, e che la Commissione Nazionale sugli Attacchi terroristici contro gli Stati Uniti lo abbia definito “l’architetto principale degli attacchi dell’11/9”.
Dopo aver trascorso l’infanzia e la prima parte dell’adolescenza in Pakistan, dove impara l’urdu e il balochi, viene iniziato nei Fratelli Musulmani e viene allevato al culto del padre – l’Islam deobandi –, Mohammed si trasferisce negli Stati Uniti nel 1983, all’indomani del conseguimento del diploma, per studiare all’università. L’esperienza sarà breve, tre anni, ma sufficiente a sviluppare i primi sentimenti di astio verso gli Stati Uniti.
Abdullah Azzam, il mentore di Osama bin Laden
Sayyid Qutb, il padre dell’Islam politico
Nel 1987, forte di una laurea in ingegneria meccanica ottenuta in un’università americana, Mohammed fa ritorno in Pakistan. È poco più che ventenne, ha tanti sogni, ma il richiamo del Jihād avrà il sopravvento: insieme ai fratelli parte alla volta dell’Afghanistan come mujāhid, un’esperienza destinata a cambiare la traiettoria della sua vita.
Di ritorno dall’Afghanistan, dove è rimasto stregato dalla figura di ʿAbd Allāh Yūsuf al-ʿAzzām, Mohammed è un uomo profondamente cambiato. Vuole dedicare la vita all’esportazione globale dell’Islam praticato dall’allora emergente Al Qaida. Un ideale che lo avrebbe portato nelle Filippine in guerra contro il separatismo islamista di Abu Sayyaf.
Il terrore in volo
1993-95, il triennio più misterioso di Mohammed. Triennio caratterizzato da un attentato semiriuscito a New York, nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center, e da una super-cospirazione passata alla storia come il progetto Bojinka. Due trame terroristiche avvenute in luoghi tra loro distanti, ma legate da un filo conduttore: Mohammed.
Il progetto Bojinka, pianificato nelle Filippine da Al Qaida e al-Jamāʿah al-Islāmiyyah, avrebbe dovuto consacrare l’ingresso di Osama bin Laden nell’Olimpo dei jihadisti. Trattavasi, invero, di uno dei più grandi complotti terroristici studiati da una realtà jihadista: undici voli da dirottare e/o da far esplodere, l’assassinio di Giovanni Paolo II, la distruzione del quartier generale della Central Intelligence Agency.
L’intera galassia jihadista sarebbe stata mobilitata per reperire i fondi necessari alla costruzione delle bombe artigianali, manifatturate da Mohammed in persona. Decine di soldati sarebbero stati inviati in lungo e in largo le Filippine per testare i prodotti di Mohammed e la fattibilità del piano terroristico. Tra gli esperimenti più eclatanti, il piazzamento di una bomba sul PAL434, l’11 dicembre 1994, atterrato nonostante l’esplosione avvenuta in volo.
Abu Musab al-Zarqawi, il (vero) padre del Daesh
Bojinka avrebbe dovuto inaugurare in grande stile la campagna di Jihād globale di Al Qaida. Qualcosa, però, andò storto a causa della più imprevedibile delle variabili: il caso. Un rogo in uno degli appartamenti utilizzati dalla cellula di Mohammed per produrre le bombe artigianali, avvenuta alla vigilia dell’approdo a Manila del Papa in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 1995, avrebbe condotto le autorità, fino ad allora ignare dell’esistenza di Bojinka, a sgominare l’intera operazione.
Mohammed, onde evitare l’estradizione negli Stati Uniti, avrebbe abbandonato le Filippine per i porti più sicuri del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana. Ma l’idea del dirottamento in serie con cui fare il “grande botto”, Bojinka, non sarebbe finita nel dimenticatoio. L’idea, al contrario, sarebbe sopravvissuta, in quanto ossessivamente presente nei discorsi fra Mohammed e bin Laden, e portata avanti in quel di Amburgo. E l’11 settembre 2001, a sei anni dalla débâcle di Manila, avrebbe preso forma.
Il tramonto sullo Sceicco
2002. L’equivalente americano e su larghissima scala dell’operazione Ira di Dio, la Guerra al Terrore pianificata dagli strateghi neoconservatori di George Bush Jr, è ufficialmente iniziata. I talebani stanno combattendo l’esercito degli Stati Uniti. La Casa Bianca sta mettendo in piedi la coalizione dei volenterosi che a breve dovrà intervenire in Iraq. La guerra dei droni è cominciata, sembra in Yemen, con l’uccisione di alcuni qaedisti.
2002. Mentre gli Stati Uniti conducono la loro Guerra al Terrore, la Russia conduce la sua in Cecenia e dintorni, e la Cina è impegnata nella propria nello Xinjiang. Il filo conduttore delle tre guerre al terrore è Al Qaida, l’organizzazione che ha risvegliato sentimenti di separatismo religioso in tutta l’Eurafrasia, dal Daghestan alle Filippine, che produce emuli, che si unisce in matrimoni di convenienza con altre realtà dell’Internazionale jihadista e che esporta, oltre che idee, armi e combattenti.
Nel 2002, mentre Al Qaida è in piena fase ascendente, per Mohammed è l’inizio della fine. A sancire la caduta del primo pezzo della Trinità del Jihād globale sarà l’omicidio in mondovisione di un giornalista statunitense, Daniel Pearl, sequestrato a Karachi da un commando agli ordini di Mohammed e poi da questi decapitato davanti alle telecamere. È febbraio.
La guerra (infinita) al terrore
Mohammed Atta, il volto dell’11/9
Dopo la pubblicazione del video dell’uccisione di Pearl, costretto a sconfessare l’America attraverso una serie di frasi pronunciate sotto minaccia, parte la caccia all’uomo. Le indiscrezioni vogliono che l’esecuzione sia avvenuta su mandato di Mohammed, sebbene le prove inconfutabili del suo coinvolgimento arriveranno (molti) anni più tardi, ed è così che sulle sue tracce si mettono la Central Intelligence Agency e l’ISI pakistana.
La prima operazione ha luogo nel primo anniversario dell’11/9, a Karachi. Operativi dell’ISI, supportati da intelligence della Cia, entrano in un alloggio nel quale si troverebbe lo Sceicco. Lui non c’è, ma il blitz è tutto fuorché un fiasco: uno degli identificati (e degli arrestati) è Ramzi bin al-Shibḥ, membro della cellula di Amburgo e colui che avrebbe dovuto essere il “ventesimo attentatore” l’11 settembre 2001.
Il secondo tentativo, il primo marzo 2003, è quello giusto. Una squadra mista, composta da agenti ISI e operativi SAC – divisione specializzata in operazioni coperte della CIA –, cattura lo Sceicco a Rawalpindi, la “sorella di Islamabad”. L’inizio di una detenzione infinita, con capolinea Guantanamo, e particolarmente violenta, a causa del frequente ricorso alle tecniche di interrogatorio potenziato su Mohammed – dall’annegamento simulato alla reidratazione rettale –, che non mancherà di suscitare le proteste dell’internazionale dei diritti umani.
Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 10 aprile 2023.
Domenico sui social ha un soprannome: Mohammed al Itali. La foto del suo profilo è un talebano che sventola una bandiera con uno slogan arabo. E per l’immagine di copertina ha scelto una mappa delle storiche conquiste islamiche in Europa e in Africa. Il primo post è dedicato a una notizia: «L’Isis pubblica la foto di Luigi Di Maio con Antony Blinken e minaccia: Conquisteremo Roma». Adil, suo amico social, commenta: «Purtroppo hanno ragione. Roma verrà conquistata». […]
Domenico Mohammed si è convertito nel 2016: «È stata la mia rinascita», scrive, «ho capito che tutti gli uomini nascono musulmani e se vogliono raggiungere il paradiso devono tornare alla Vera Fede». Per lui «la donna del Paradiso» è totalmente coperta di nero. E ritiene il Covid «una punizione di Allah». Posta video sul giorno del giudizio e proclama: «L’Italia è il mio Paese e l’Islam è la mia anima». […]
Finché, andando indietro alla fine del 2021, si trova qualcosa di inquietante: «Aspetto la chiamata per difendere la legge di Dio dai miscredenti. Solo la sharia e niente altro». Un concetto che sembra un punto di comunione per una buona fetta della comunità islamista in Italia.
Gli esperti di intelligence ma anche della materia religiosa stimano in oltre 4.000 i profili social di chi propaganda Maometto in chiave estrema, ma di certo sono molti di più.
Molti di questi profili sono connessi direttamente. O tramite un altro profilo. E spesso sfuggono ai monitoraggi ufficiali.
Domenico per esempio è in relazione con tale Sajida, un magrebino che vive in Italia e usa una tigre ruggente come foto del profilo. E tra gli amici di Sajida è possibile trovare Ahmad, triestino con un profilo particolarmente anonimo ma che un’agenzia d’intelligence israeliana che collabora con il Mossad ha inserito in un dossier sulla propaganda del Califfato in Italia.
Nella ragnatela italiana è uno snodo importante Ahmad. È in relazione con tale Jibril, che vive a Lecce. La sua posizione la si intuisce già dal primo post: «La crisi del mondo moderno e forme di idolatria contemporanee in pochi fotogrammi». E da un pulpito, in abito tradizionale, il venerdì dispensa sermoni ai suoi seguaci.
[…]
Da Nord a Sud l’Italia sembra ormai piena di megafoni della propaganda estremista, soprattutto di quella salafita.
Said vive a Ferrara: la sua foto di copertina è una mano con l’indice alzato verso il cielo, un simbolo usato da molti estremisti perché indica l’unicità di Dio. Scrive: «In testa a tutto c’è l’Islam, il suo pilastro è la preghiera, la sua sommità è il Jihad».
[…] Altro profilo particolarmente interessante è quello di Boussaha, un algerino che scrive in italiano e che appare come molto legato alle teorie salafite. Fa riferimento alla «spada di Allah» e sulla questione femminile si presenta come un estremista, condannando chi vuole «che la donna musulmana sia come la donna occidentale». Anche Alfredo dalla Puglia ha ingaggiato la sua battaglia sulla donna musulmana, alla quale ha dedicato decine di post di questo tenore: «Le donne musulmane hanno diritto ad avere un uomo che le soddisfi sessualmente».
[…] Sumaya, invece, sulla foto del profilo ha impresso «io scelgo Pd». Parla ai suoi contatti della finanza islamica e su una foto dell’operazione antiterrorismo dopo la strage di Charlie Hebdo indica come terrorista il poliziotto francese e come musulmano il terrorista a terra. Sull’immagine, a scanso di equivoci, campeggia uno slogan di matrice islamista: «Nel caso ti sentissi confuso».
Dall'attentato al Bataclan alla strage di Nizza, gli italiani vittime del terrorismo nel mondo. Storia di Redazione Tgcom24 l’8 aprile 2023.
L'attentato a Tel Aviv, dove è rimasto vittima il 35enne romano Alessandro Parini, è solo l'ultimo in ordine cronologico degli attacchi terroristici in cui hanno perso la vita cittadini italiani. Da Dacca al Bataclan, da Sharm el Sheik a Nizza, la lista è lunga. Ecco i principali episodi.
11 dicembre 2018 A Strasburgo, Cherif Chekatt apre il fuoco in rue Orfevres e colpisce alla testa il giornalista italiano Antonio Megalizzi, che muore tre giorni dopo. Cinque le vittime in totale.
17 agosto 2017 A Barcellona, Younes Abouyaaqoub, alla guida di un camioncino, piomba sulla zona pedonale de La Rambla, uccidendo 16 persone, tra cui i due italiani Luca Russo e Bruno Gullotta, e l'italo-argentina Carmen Lopardo.
19 dicembre 2016 Un camion, guidato dal tunisino Anis Amri, travolge la folla in un mercatino di Natale a Berlino. Dodici i morti tra cui la trentunenne abruzzese Fabrizia Di Lorenzo.
14 luglio 2016 Ancora un camion, questa volta a Nizza, sulla Promenade des Anglais. Si tratta di uno degli attentati più brutali degli ultimi anni: 86 morti, tra cui sei italiani.
1 luglio 2016 A Dacca, in Bangladesh, un commando irrompe e spara nel ristorante Holey Artisan Bakery. Nove italiani uccisi.
22 marzo 2016 In una serie di attacchi a Bruxelles muoiono 32 persone, tra cui - alla stazione della metro di Maelbeek dove un kamikaze si è fatto esplodere - l'italiana Patricia Rizzo.
13 novembre 2015 l tragico attacco multiplo dell'Isis a Parigi fa 130 vittime. Tra queste l'italiana Valeria Solesin che si trovava al Bataclan per un concerto.
18 marzo 2015 A Tunisi quattro italiani rimangono uccisi nell' attentato al museo del Bardo. In totale i morti sono 22.
13 febbraio 2010 Nadia Macerini, 37 anni, muore a Pune, in India, nell'esplosione di una bomba piazzata in un ristorante.
23 luglio 2005 A Sharm el Sheik 6 italiani muoiono negli attentati terroristici che uccidono 60 persone.
7 luglio 2005 Il terrorismo islamico colpisce nel cuore dell'Inghilterra, sulla metro di Londra. La 32 enne romana Benedetta Ciaccia è tra le 52 vittime.
7 ottobre 2004 Jessica e Sabrina Rinaudo, di 20 e 22 anni, muoiono nell'attentato all'Hotel Hilton di Taba, in Egitto.
16 maggio 2003 In una serie di attentati a Casablanca, in Marocco, il tecnico Luciano Tadiotto è tra i 41 morti.
«Ho difeso il killer del Bataclan. Anche lui ha diritto a un giusto processo». Parla Olivia Ronen, l’avvocata francese che ha difeso Salah Abdeslam nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015: «Il verdetto di ergastolo è stato emesso a dispetto dei principi cardine del diritto, come la presunzione di innocenza e l’onere della prova». Guido Stampanoni Bassi, direttore di “Giurisprudenza penale”, su Il Dubbio il 28 aprile 2023
Abbiamo intervistato Olivia Ronen, l’avvocata francese che ha difeso Salah Abdeslam nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Tanti i temi toccati durante il colloquio, molti dei quali attuali anche in Italia: dal diritto di difesa al processo mediatico; dal ruolo del difensore all’ergastolo ostativo. Il processo sugli attentati del 2015 è stato recentemente raccontato da Emmanuel Carrére nel libro V13 pubblicato da Adelphi.
Cosa ha rappresentato, dal punto di vista umano e professionale, come avvocata poco più che trentenne, difendere Salah Abdeslam, il principale imputato nel processo?
Gli attentati del 13 novembre 2015 hanno fatto molte vittime e lo choc provocato in Francia è stato grandissimo. Salah Abdeslam, unico membro del commando rimasto in vita, è rapidamente diventato per l’opinione pubblica l’incarnazione stessa degli attentati. È quindi evidente che difendere quello che alcuni già chiamavano “il nemico pubblico numero 1” rappresentava una vera sfida. Mi sono naturalmente posta parecchie domande. “Ho abbastanza esperienza? Ho le spalle abbastanza forti per un processo del genere?”. Anche se avevo già accumulato una decina di processi e una ventina di pratiche in materia di terrorismo, avevo meno di 5 anni di tribunale quando sono stata formalmente nominata dall’imputato, alla fine del 2020 (10 mesi prima dell’inizio del processo). Ma ben presto ho dovuto accantonare queste domande, non c’era tempo da perdere. Dovevo organizzarmi, calarmi e assimilare quel dossier tentacolare di un milione di pagine e, soprattutto, trovare il modo di capire colui che dovevo assistere. Mi ha anche molto aiutato una riflessione del mio collega e amico di Università Martin Vettes, al quale avevo chiesto di affiancarmi in questo caso: mi ha fatto notare che nessuno, nemmeno un principe del foro con 30 anni di esperienza, aveva mai affrontato un tale processo, così lungo (10 mesi) e con migliaia di parti civili. Così, la nostra giovane età, che inizialmente mi sembrava un difetto, si è rivelata al contrario un vantaggio: ci assicurava la tenacia, l’energia, la voglia e forse anche quella dose di incoscienza necessaria per lanciarci in questa esperienza. E queste considerazioni hanno fatto venir meno le esitazioni.
Com'è stato il suo rapporto con Salah Abdeslam? Ha mai avuto dubbi prima di accettare l'incarico?
Quando incontro le persone che mi domandano di assisterle metto da parte i reati che gli sono contestati per cercare di vedere chi sono, di che pasta sono fatti. Tutto quello che mi interessa è sapere se riesco a far nascere tra noi un dialogo costruttivo. È stato così anche con Salah Abdeslam. Non sarei mai entrata in solo per il brivido di esserci. Dovevo essere in grado di capirmi con lui. E ho sentito, incontrandolo, che riuscivamo a parlarci. Ho allora intravisto la possibilità di costruire una difesa assieme a lui, nel rispetto della sua dignità e della mia indipendenza in quanto avvocata.
Come è avvertito in Francia – e come è stato avvertito in questo processo – il tema del diritto di difesa dei così detti imputati "indifendibili" accusati di crimini efferati? Lei e gli altri avvocati che hanno difeso gli imputati avete subito pressioni o minacce? In Italia è stato recentemente arrestato uno storico “boss mafioso”, Matteo Messina Denaro, e si è discusso anche di questo aspetto.
Io credo che di fronte all’opinione pubblica sia sempre utile ricordare alcune cose, quali il diritto di ognuno di essere difeso e ancora, in generale, il concetto di giusto processo. Durante questi 10 mesi è stato talvolta necessario fare opera di pedagogia, per far capire a tutti che le regole della nostra procedura penale trovano la loro ragion d’essere proprio nelle situazioni in cui avremmo più voglia di liberarcene. Mi aspettavo che avremmo subito un’ondata di odio o che saremmo stati oggetto di minacce. Invece, niente di tutto questo. Ho ricevuto numerose lettere d’incoraggiamento ed anche di ringraziamenti da persone le più diverse, sensibili alla difesa che stavamo conducendo. È stato inaspettato e molto gratificante. Durante le udienze siamo anche stati piacevolmente sorpresi dalla benevolenza delle parti civili nei nostri confronti. Molte di loro, in occasione della loro deposizione, hanno chiarito che capivano il nostro lavoro e ci hanno incoraggiato a fare del nostro meglio. È molto commovente vedere che persone toccate nella loro carne o nella loro anima avevano l’apertura di spirito necessaria per accettare e addirittura incoraggiare la difesa degli imputati.
Sempre a proposito del diritto di difesa, è presente anche in Francia la pratica distorta di confondere l'avvocato con il suo cliente e di confondere la funzione difensiva con la difesa del reato? Le istituzioni forensi sono dovute intervenire in questo senso con prese di posizione?
Mi ricordo di una volta, una sola volta durante un’udienza quando una parte civile si è rivolta a me, in modo aggressivo, dicendomi che “a scegliere male i miei clienti finivo per assomigliargli”. Mentre il mio collega Martin Vettes si è alzato per sostenermi, il Presidente della Corte non ha trovato niente da ridire e l’incidente è finito lì. Mi ricordo di aver trovato molto grave che nessun magistrato avesse preso la parola per ricordare il ruolo essenziale della difesa in un processo penale. Se posso certamente capire che una parte lesa non apprezzi il mio ruolo, non capisco però come l’autorità giudiziaria non senta il dovere di ricordare cosa è un processo in democrazia. Questo comunque resta un episodio aneddotico, che non riflette assolutamente la grande dignità trasmessa dalla stragrande maggioranza delle parti civili nelle udienze.
Che influenza ha in Francia – e che peso ha avuto in questo specifico caso – la straordinaria attenzione mediatica riservata al processo? Ha influito? In particolare, ritiene che la magistratura giudicante sia stata in qualche modo influenzata?
Si, ne sono convinta. Per la buona e semplice ragione che il verdetto che è stato emesso dalla Corte d’Assise speciale (composta, in materia di antiterrorismo, unicamente da magistrati professionali e non da una giuria popolare come avviene normalmente nei processi penali) è una decisione simbolica e non giuridica. Infatti, il verdetto è stato emesso a dispetto di numerosi principi cardine della procedura penale, come la presunzione di innocenza, l’onere della prova o ancora l’interpretazione stretta della legge. Questo lo abbiamo spiegato, assieme ad alcuni avvocati della difesa, in un dibattito uscito sul quotidiano Le Monde nel luglio 2022. Un tale disprezzo del diritto è difficile da spiegare se non con la volontà che la Corte ha avuto di conformarsi a quello che il pubblico poteva attendersi da questo caso.
Che strumenti hanno, in Francia, gli avvocati per tutelare i propri assistiti dalle conseguenze della giustizia mediatica?
Purtroppo, tutti incontriamo le stesse difficoltà di fronte al “tribunale mediatico”. Vediamo spuntare trasmissioni televisive composte da pseudo esperti che commentano i casi senza conoscere la realtà dei fatti, spesso senza nemmeno avere competenza di diritto. I social permettono poi il meglio come il peggio e le manifestazioni di odio sono molto facili. Da parte nostra, ci siamo sempre fatti un punto d’onore nel non stare a questo gioco. Le nostre argomentazioni erano riservate alla Corte, perché era in quell’aula che il processo si svolgeva, e non sui media. Nei 10 mesi di udienze siamo intervenuti in televisione solo 3 volte, il mio collega ed io, e solo quando ci sembrava che certi argomenti essenziali per la nostra difesa non passassero i muri della Corte. Anche se bisognava talvolta amplificare l’eco di qualche nostro messaggio o se si doveva rettificare alcune idee mal comprese all’esterno dell’aula d’udienza, abbiamo sempre mantenuto l’obiettivo di dare la precedenza nelle nostre azioni e reazioni alla magistratura.
Come è stato il rapporto con il Presidente della Corte e con i Pubblici Ministeri? Ci sono stati problemi legati al rispetto dei diritti degli imputati? Il Ministro Dupond-Moretti aveva dichiarato in un’intervista che «la sfida era rendere giustizia in conformità con le nostre regole, perché ciò che fa la differenza tra una civiltà e la barbarie sono le regole del diritto». È stato così?
Il nostro rapporto con i membri della Corte talvolta può essere stato teso, ma come può esserlo in un qualsiasi processo. Quello che mi ha invece sorpreso è il modo con cui il Presidente non ha vigilato sul rispetto delle regole d’udienza, credo per timore d’essere impopolare. Avveniva sistematicamente che non reagisse sia a fronte di domande parziali di membri della Corte sia a fronte di applausi del pubblico o ancora a fronte del comportamento di certi avvocati delle parti civili che ignoravano platealmente le più elementari regole del codice di procedura penale. È successo anche che il nostro microfono non fosse attivato quando domandavamo la parola per la difesa (dovevamo utilizzare il microfono per essere uditi dal pubblico, dalle altre sale nelle quali il processo era ritrasmesso e anche dalle parti civili che ascoltavano l’udienza da casa loro). Se pure ciò non ci ha impedito di formulare le nostre considerazioni o incomprensioni né di farle giungere alla Corte e agli altri attori di questo processo, pur tuttavia ha rappresentato una difficoltà. Un processo penale è un qualcosa di vivo nel corso del quale ciascuno deve poter essere ascoltato quando lo ritiene necessario, e non solo quando il Presidente lo concede. Io non penso che questo processo sia una vittoria dello Stato di diritto o della democrazia sulla barbarie. Uno Stato di diritto, per definizione, non mette da parte i suoi principi essenziali per giudicare, ma è quello che è successo in questo processo. Per quanto abbiamo denunciato queste deviazioni per tutta la durata del processo, non siamo stati ascoltati e ce ne dispiaciamo amaramente.
Salah Abdeslam è stato condannato alla pena più dura prevista dalla legge francese: un ergastolo con possibilità di libertà condizionale solo dopo 30 anni di detenzione. Che cosa pensa di questa pena? È un tema di cui si è discusso in Francia? In Italia è un tema ancora oggi molto discusso.
Salah Abdeslam è stato condannato al così detto “ergastolo incomprimibile”, il che significa che la sua pena è doppiamente blindata da una misura di sicurezza che impedisce ogni domanda di modifica. Così, potrebbe non essere mai in grado di chiedere di essere rimesso in libertà. Questo non è altro che una condanna ad una morte lenta. È interessante notare che quando in Francia abbiamo abolito la pena di morte nel 1981, è stato formalmente escluso che si introducesse una perennità “reale” che non prevedesse una vera possibilità di uscita. Badinter, il Guardasigilli di allora, aveva spiegato così la cosa: “non si sostituisce un supplizio con un altro supplizio”. Questa pena dell’ergastolo perpetuo però è stata introdotta nel codice penale francese nel 1994, in contrasto con questa idea essenziale. Come si può considerare giusta una pena che porta a creare dei “murati vivi”? Si può, dopo aver abolito la morte fisica, mantenere la morte morale? È un tema molto poco discusso in Francia, ma penso invece che un dibattito dovrebbe essere aperto.
Quali sono le condizioni di detenzione di chi, come Salah Abdeslam, è sottoposto a questo regime?
É necessario interrogarci sulle condizioni di detenzione eccezionali che abbiamo inflitto a questo detenuto. Abbiamo accettato di tenere Salah Abdeslam in isolamento completo per 6 anni, quando anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato come disumano e indegno un isolamento penitenziario che superi i 4 anni. L’interessato ha trascorso molte giornate senza dire una parola – malgrado le raccomandazioni del Comité de Prevention de la Torture (CPT) che prevede almeno due ore di contatti umani al giorno – senza accesso ad un luogo di moto e senza alcuna attività. Inoltre, in modo totalmente inedito (e in partenza illegale poiché tale possibilità non era prevista dal diritto) Salah Abdeslam è stato filmato all’interno della sua cella da due telecamere per 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana. Eminenti esperti psichiatri invitati a deporre presso la Corte d’Assise hanno parlato di condizioni di detenzione “delirogene”. In altre parole, lo Stato ha imposto una quotidianità che rende folli. So che non è mai semplice parlare delle condizioni di vita all’interno di un carcere e che c’è chi potrebbe essere tentato di dire che se lo è meritato. Ma è veramente questa la vittoria della democrazia sulla barbarie? Possiamo noi accettare che i nostri Stati creino delle condizioni di detenzione qualificabili come “tortura bianca”? Non lo credo. Io penso invece che i nostri regimi debbano battersi per non cedere a questa inclinazione naturale che privilegia l’idea di vendetta sulla dignità che si deve garantire ad ogni essere umano.
"Neutralizzato il capo dell'Isis": l'annuncio di Erdogan. Il presidente turco, in piena campagna elettorale, ha annunciato che Abou Hussein al-Qourachi sarebbe morto nel corso di un'operazione dei servizi segreti turchi. Alberto Bellotto su Il Giornale il 30 Aprile 2023
In clima di intensa campagna elettorale Recep Tayyip Erdogan prova a guadagnare terreno con una rivelazione notevole. Il "presunto capo" dello Stato Islamico sarebbe stato "neutralizzato" nella notte del 29 aprile in Siria. Nel corso di un'intervista il presidente turco ha fornito qualche dettaglio: "Il presunto capo di Daesh, nome in codice Abou Hussein al-Qourachi, è stato neutralizzato nel corso di un'operazione compiuta dal Mit (i servizi segreti turchi) in Siria". "Noi", ha aggiunto Erdogan, "continueremo la nostra lotta contro le organizzazioni terroristiche senza esclusione di colpi".
Per l'organizzazione si tratterebbe della seconda morte del leader in pochi mesi. Il 30 novembre scorso il gruppo aveva annunciato che l'allora capo Abou Al-Hassan Al-Hachimi Al-Qourachi era morto combattendo "i nemici di Dio". In particolare Al-Qourachi, il predecessore, era rimasto ucciso nel Sud della Siria combattendo i ribelli siriani.
Secondo un corrispondente dell’Agence France-Presse l'operazione che ha ucciso l'ultimo leader dell'Isis ha avuto luogo nel Nord della Siria. In particolare gli uomini dell'intelligence turca, in collaborazione con la polizia miliare locale, sostenuta sempre da Ankara, sarebbero entrati in azione nei pressi della località di Jindires, nel cantone curdo di Afrin.
Secondo diversi testimoni, riporta sempre Afp, l'operazione si sarebbe svolta nei pressi di un palazzo abbandonato che in passato era stato la sede di una scuola islamica. Levent Kemal, giornalista di Middle East Eye ha scritto di aver avuto conferma dai residenti di Jindires che gli scontri avrebbero coinvolto miliziani jiadisti e che il capo si sarebbe fatto saltare in aria al termine dello scontro.
Per quello che resta dello Stato Islamico si tratta di un secondo duro colpo in meno di un mese. Il 4 aprile il Comando centrale Usa, Centcom aveva annunciato di aver eliminato Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, uno dei leader storici della formazione, la mente dietro gli attacchi dell'Isis che hanno insanguinato l'Europa negli anni di massima espansione del Califfato.
Al-Jabouri prima e Al-Qourachi poi sono entrambi morti in quel lembo di Siria ancora fuori dal controllo di Damasco. Il primo nel "qaedistan" presente nel governatorato di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli nel Nord Overs del Paese, il secondo in quel cantone di Afrin, prima sotto il controllo delle forze curde e poi strappato dalla Turchia con l'Operazione Ramoscello d'Ulivo nel 2018. Ad oggi la Turchia formalmente controlla quello spicchio di Siria grazie a proxy locali.
Come ha sottolineato Le Monde, oggi lo Stato Islamico è fortemente indebolito, ma nonostante questo continua a colpire i civili, soprattutto in Siria. Solo il 16 aprile 41 persone, tra le quali 24 civili, sono morte in due attacchi attribuiti proprio a miliziani di Daesh. Nonostante la sconfitta in Siria e Iraq tra 2018 e 2018, l'organizzazione delle bandiere nere continua ad essere una minaccia.
Nel luglio scorso un dossier dell'Onu stimava che nei territori dell'ex Califfato ci sarebbero tra i 6mila e 10mila jihadisti, molti dei quali impegnati in operazioni di guerriglia e attacchi terroristici. Nonostante le operazioni chirurgiche contro la testa dell'organizzazione, l'Isis è ancora presente in molte parti del mondo. Secondo le Nazioni Unite le "province" più pericolose sono quelle attive in Somalia, nel Sahel, nel bacino del lago Ciad e soprattutto in Afghanistan.
(ANSA-AFP il 4 aprile 2023) - Un leader dell'Isis responsabile di attacchi in Europa è stato ucciso in un raid statunitense in Siria: lo ha reso noto oggi il Comando centrale Usa (Centcom). Si tratta di Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, ha affermato il Comando, commentando che l'uomo era tra l'altro il "responsabile della pianificazione di attacchi dell'Isis in Europa" e la sua morte priverà "temporaneamente" l'Isis della "capacità di organizzare attacchi all'estero".
L’incubo che ritorna. Quelle uccisioni che rivelano dove sta rinascendo l’Isis. Matteo Carnieletto il 4 Aprile 2023 su Inside Over.
Sono le tracce di un passato che non passa. Sulle mappe sono semplici chiazze nere affacciate tra il governatorato di Homs e quello di Deir Ez-Zor. Asettiche, come se si trattasse di un videogioco. Nere, come se fossero dei buchi dei quali si sa poco o nulla. Eppure rappresentano l’Isis, quello che, fino a non troppi anni fa, era lo Stato islamico che, dopo aver abbattuto i confini nati al termine della Prima guerra mondiale con gli accordi di Sykes-Picot, si estendeva tra Siria e Iraq, con filiali in Libia e nell’Africa più profonda. Oltre a lupi solitari pronti ad agire per conto proprio, oppure sotto il comando di Raqqa o di Mosul. Una rivoluzione geopolitica. Un sogno diventato realtà per migliaia di musulmani. Un incubo per l’Occidente, più volte colpito nelle sue capitali, soprattutto tra il 2015 e il 2017, in quello che è stato l’apogeo dello Stato islamico. Ora restano solo piccole tracce del Califfato. Attacchi e perdite eccellenti che, però, ci ricordano che i suoi uomini – tra i cinque e i settemila, secondo recenti stime – esistono ancora.
Oggi il Comando centrale Usa, Centcom ha annunciato di aver eliminato Khaled Aydd Ahmad al-Jabouri, considerato il “responsabile della pianificazione di attacchi dell’Isis in Europa”. Per gli americani, si priverà “temporaneamente” l’Isis della “capacità di organizzare attacchi all’estero”. Ciò che colpisce di questo omicidio mirato è che non è stato compiuto là dove, sulle mappe, è presente l’Isis ma nel governatorato di Idlib, la roccaforte ribelle nel nord ovest della Siria. Come nota Abc News, “l’attacco è stato l’ultimo di una serie compiuta negli ultimi anni contro militanti legati ad al-Qaeda e alti membri dello Stato islamico nella Siria nord-occidentale. La maggior parte delle persone uccise dagli attacchi statunitensi nella provincia di Idlib, controllata dai ribelli negli ultimi anni, erano membri di al-Qaeda, del ramo di Horas al-Din, che in arabo significa ‘Guardiani della religione’. Il gruppo include membri irriducibili di al-Qaeda che si sono staccati da Hayat Tahrir al-Sham, il più forte gruppo di ribelli nella provincia di Idlib”.
Solamente nel mese di febbraio, un drone aveva eliminato altri due membri di spicco dei ‘Guardiani della religione. Un doppio significato. Il primo: nella provincia di Idlib sono diversi gli elementi giudicati pericolosi dagli Stati Uniti, tanto che vengono eliminati con determinazione e costanza. Il secondo: è lì che i gruppi terroristi, Al Qaeda e Isis in primis, si stanno rifugiando e riorganizzando. Con buona pace di una certa narrazione che vedrebbe nella provincia di Idlib il centro dell’opposizione democratica che si oppone a Bashar al Assad. Non è così. E basta vedere dove sono stati ammazzati i più importanti leader dell’Isis, a cominciare dal primo califfo: Abu Bakr al Baghdadi. Era il 27 ottobre del 2019 quando il leader dello Stato islamico venne ammazzato, in un’operazione militare Usa (anche se alcune fonti dicono che si sia fatto saltare in aria), nel villaggio di Barisha, mille anime in tutto, a soli cinque chilometri dal confine turco. Al suo posto viene nominato Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. Tre anni alla guida dell’organizzazione terroristica e poi anche lui viene eliminato, sempre nella provincia di Idlib, in un’operazione delle forze speciali americane il 3 febbraio del 2022. Sorte diversa per Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi, morto nel dicembre dello stesso anno mentre, probabilmente, durante una battaglia contro l’Esercito siriano libero. Ora la guida dell’organizzazione terroristica è affidata a Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, di cui sappiamo poco o nulla.
Pensare che l’Isis sia sconfitto è un’illusione. Cambierà nome. Cambierà obiettivi. Ma forse, più che cercare i suoi seguaci (e soprattutto i suoi leader) nei deserti nell’est della Siria, sarebbe meglio guardare a Idlib. Il nuovo santuario del jihad internazionale.
Estratto dell'articolo da rainews.it il 16 febbraio 2023
Saif Al-Adel, un egiziano con base in Iran, è diventato il capo di al-Qaeda dopo la morte di Ayman al-Zawahiri, avvenuta nel luglio 2022, lo afferma il Dipartimento di Stato Usa.
"La nostra valutazione è in linea con quella delle Nazioni Unite: il nuovo leader de facto di al-Qaeda, Saif al-Adel, ha sede in Iran", ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato […]rappresentando per ora la continuità".
Ma il gruppo non l'ha formalmente dichiarato "emiro" a causa della sensibilità alle preoccupazioni delle autorità talebane in Afghanistan, che non hanno voluto riconoscere che Zawahiri è stato ucciso da un razzo statunitense in una casa a Kabul l'anno scorso. Inoltre, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, l'islamista sunnita al-Qaeda è sensibile al fatto che Adel risieda nell'Iran, un Paese a maggioranza sciita.
"La sua posizione solleva questioni che hanno a che fare con le ambizioni di al-Qaeda di affermare la leadership di un movimento globale di fronte alle sfide dell'ISIL", si legge nel rapporto dell'Onu […]
Estratto dell'articolo di Guido Olimpio per corriere.it il 16 febbraio 2023
Seif al Adel è la Guida di al Qaeda. Lo ha indicato un rapporto Onu, lo hanno ribadito gli Usa confermando un quadro emerso da tempo. È l’ex parà egiziano ad avere ereditato la leadership dopo l’uccisione di al Zawahiri a Kabul, fatto fuori da un drone americano. Manca solo il sigillo dell’ufficialità. La promozione è una scelta obbligata, quasi scontata […]
Partiamo dalla sua scheda: il suo vero nome è Mohammed Zeidan, nato a Shibin al Kawm negli anni ’60. Dopo un periodo nell’esercito, si è unito alla carovana jihadista partecipando alle “campagne” più importanti. Tra i primi ad andare in Afghanistan, quando Osama era ancora nell’ombra, poi Sudan, Somalia, Yemen e molte missioni con un ruolo attivo. […]
È nel cerchio di dirigenti al fianco di bin Laden, conquista un peso militare sul campo, come dimostrano le tante ferite e l’expertise di combattente enfatizzato dal suo nome di guerra, “Spada della Giustizia”. Seif, però, è anche “stratega” e chi lo conosce sottolinea la determinazione, i toni caustici, la devozione alla causa.
Dopo l’11 settembre si rifugia con altri quadri e alcuni familiari di Osama in Iran, paese nemico. I pasdaran giocano con gli ospiti, li mettono in residenza sorvegliata, ne scambiano alcuni, pensano di usarli per baratti e pressioni. In seguito il terrorista – come ha ricostruito in lungo profilo l’ex agente Fbi Alì Soufan – ottiene libertà d’azione in cambio del rilascio di 4 diplomatici rapiti in Yemen.
In questi anni, pur da lontano e sotto controllo, avrebbe coordinato attacchi e compiuto un viaggio nel Waziristan. Seif incarna il passato, ha il peso del veterano e le spalle robuste per provare a garantire il futuro di un’organizzazione scavalcata dallo Stato Islamico.
Gli esperti sostengono che la casa madre non ha comunicato l’investitura, che deve poi essere accompagnata dal giuramento di fedeltà (Bayat) dei gruppi affiliati nei vari paesi, per diverse ragioni. Motivi di sicurezza: preferisce agire nell’ombra, di lui si conoscono solo vecchie foto. Necessità di non creare imbarazzo ai talebani e allo stesso Iran. Forse non tutti i mujaheddin sono d’accordo, anche se il militante può sempre rivendicare la sua storia.
L’interrogativo più grande però riguarda proprio il suo soggiorno in terra iraniana, un rifugio che rappresenta un limite. Almeno sulla carta. I pasdaran e gli apparati gli permetteranno di impartire disposizioni ad una formazione ideologicamente avversaria? Quali saranno i margini di manovra? Oppure dovrà trovare un nuovo nascondiglio? […]
Ora al Adel ha tre compiti. Primo. Restare in vita, cosa non facile, tenuto conto anche che sulla sua testa c’è una taglia da 10 milioni di dollari. Secondo. Ispirare un movimento oggi ripiegato per necessità e interesse sulle agende regionali come Somalia e Sahel. […] Terzo. Tenere viva l’eredità del fondatore. Un messaggio affievolitosi con il “pallido” e noioso Zawahiri rispetto al dinamismo e all’agilità – più fatti e meno dottrina - del Califfato. […]
Il nuovo capo di Al Qaeda è Seif al Adel, egiziano: sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.
L’ex militare, veterano della Jihad, vivrebbe in Iran. Secondo il rapporto Onu ha ereditato la leadership dell’organizzazione terrorista fondata da Osama bin Laden
Seif al Adel è la Guida di Al Qaeda. Lo ha indicato un rapporto Onu, lo hanno ribadito gli Usa confermando un quadro emerso da tempo. È l’ex parà egiziano ad avere ereditato la leadership dopo l’uccisione di al Zawahiri a Kabul, fatto fuori da un drone americano. Manca solo il sigillo dell’ufficialità.
La promozione è una scelta obbligata, quasi scontata anche se di scontato non c’è mai nulla in movimenti “fluidi”, con gerarchie orizzontali. Partiamo dalla sua scheda: il suo vero nome è Mohammed Zeidan, nato a Shibin al Kawm negli anni ’60. Dopo un periodo nell’esercito, si è unito alla carovana jihadista partecipando alle “campagne” più importanti. Tra i primi ad andare in Afghanistan, quando Osama era ancora nell’ombra, poi Sudan, Somalia, Yemen e molte missioni con un ruolo attivo. Farà parte della rete che pianta i semi qaedisti in Africa, una componente letale protagonista della doppia strage di Nairobi e Dar es Salaam nell’estate del 1998. È nel cerchio di dirigenti al fianco di bin Laden, conquista un peso militare sul campo, come dimostrano le tante ferite e l’expertise di combattente enfatizzato dal suo nome di guerra, “Spada della Giustizia”. Seif, però, è anche “stratega” e chi lo conosce sottolinea la determinazione, i toni caustici, la devozione alla causa. Dopo l’11 settembre si rifugia con altri quadri e alcuni familiari di Osama in Iran, paese nemico. I pasdaran giocano con gli ospiti, li mettono in residenza sorvegliata, ne scambiano alcuni, pensano di usarli per baratti e pressioni. In seguito iI terrorista – come ha ricostruito in lungo profilo l’ex agente Fbi Alì Soufan – ottiene libertà d’azione in cambio del rilascio di 4 diplomatici rapiti in Yemen.
In questi anni, pur da lontano e sotto controllo, avrebbe coordinato attacchi e compiuto un viaggio nel Waziristan. Seif incarna il passato, ha il peso del veterano e le spalle robuste per provare a garantire il futuro di un’organizzazione scavalcata dallo Stato Islamico.
Gli esperti sostengono che la casa madre non ha comunicato l’investitura, che deve poi essere accompagnata dal giuramento di fedeltà (Bayat) dei gruppi affiliati nei vari paesi, per diverse ragioni. Motivi di sicurezza: preferisce agire nell’ombra, di lui si conoscono solo vecchie foto. Necessità di non creare imbarazzo ai talebani e allo stesso Iran. Forse non tutti i mujaheddin sono d’accordo, anche se il militante può sempre rivendicare la sua storia. L’interrogativo più grande però riguarda proprio il suo soggiorno in terra iraniana, un rifugio che rappresenta un limite. Almeno sulla carta. I pasdaran e gli apparati gli permetteranno di impartire disposizioni ad una formazione ideologicamente avversaria? Quali saranno i margini di manovra? Oppure dovrà trovare un nuovo nascondiglio? Si era anche ipotizzato che Seif fosse andato, con alcuni esponenti di livello, in Siria, dove sono stati in gran parte “liquidati” dai droni statunitensi. Neppure Teheran è troppo sicura. Un altro “colonnello” della fazione, sempre egiziano, Abdullah Abdullah, è stato assassinato nelle strade della capitale, un agguato organizzato dal Mossad in coppia con la Cia.
Ora al Adel ha tre compiti. Primo. Restare in vita, cosa non facile, tenuto conto anche che sulla sua testa c’è una taglia da 10 milioni di dollari. Secondo. Ispirare un movimento oggi ripiegato per necessità e interesse sulle agende regionali come Somalia e Sahel. Scelta per conquistare consensi e sfruttare realtà locali rispetto a programmi globali troppo ambiziosi e irrealizzabili. Terzo. Tenere viva l’eredità del fondatore. Un messaggio affievolitosi con il “pallido” e noioso Zawahiri rispetto al dinamismo e all’agilità – più fatti e meno dottrina - del Califfato. Seif è considerato capace di tutto, giudizio scritto tenendo conto della sua carriera. Lunghissima, profonda, estesa. È “immerso”, muove protetto dal “buio”. Per questo è temuto. Se davvero “la spada della Giustizia” porterà ad un cambiamento lo diranno però le azioni e non le previsioni di una realtà sempre difficile da interpretare.
Estratto dell'articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” il 17 febbraio 2023.
Ci sono voluti quasi sette mesi, ma alla fine il nuovo capo di Al-Qaeda è stato individuato. […] Al-Zawahiri è stato eliminato a Kabul, nel luogo dove l'organizzazione aveva raggiunto il culmine e dove era iniziata la sua fine. Ma il nuovo leader ha un rifugio molto diverso, anzi all'opposto.
E cioè l'Iran. Lo ha rivelato ieri il dipartimento di Stato americano, nel comunicare il suo nome: Said al-Adel, 62 anni, egiziano pure lui, ex colonnello dell'esercito del Cairo, braccio destro operativo di Al-Zawahiri, uno degli organizzatori degli attentati alle ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya, e soprattutto uno degli addestratori dei terroristi dell'11 settembre. Al-Adel debutta negli anni Ottanta nella Jihad islamica egiziana, il gruppo che aveva assassinato il presidente Sadat.
Una "carriera" lineare, negli standard dei qaedisti, ma con una sua singolarità. I buoni rapporti, fin dagli anni Novanta, con gruppi estremisti sciiti come l'Hezbollah libanese. Relazioni che gli avrebbero permesso un lungo soggiorno nella Repubblica islamica, fino a oggi. L'Intelligence americana è convinta che da quel rifugio Al-Adel guidi l'organizzazione, nonostante non ci sia stata una comunicazione ufficiale sulla sua nomina. […]
[…] Come quasi tutti i suoi compagni, dopo la fase egiziana, si è formato nelle valli afghane, al tempo della guerriglia contro i sovietici. Ma dopo l'11 settembre e la caduta del regime talebano del mullah Omar, nel dicembre del 2011, il suo nuovo orizzonte è stato l'Iran. In quei mesi Bin Laden era riuscito a far fuggire tre dei suoi figli e molti combattenti in territorio iraniano. Fra loro anche Al-Adel, che negli anni precedenti aveva compiuto più di un viaggio a Teheran, preso contatti con i Pasdaran e seguito "corsi" sulla fabbricazione di ordigni.
[…] Con l'invasione americana dell'Iraq nel 2003 e il deflagrare della lotta settaria tra sunniti e sciiti le cose cambiano. L'Al-Qaeda irachena, sotto la guida del sanguinario Abu Musab al-Zarqawi, massacra gli sciiti. Le autorità iraniane mettono allora agli arresti Hamza bin Laden, Al-Adel e gli altri qaedisti di spicco. Poi li usano come merce di scambio quando i jihadisti sunniti rapiscono diplomatici iraniani in Pakistan e nello Yemen. È allora, nel 2015, che Al-Adel torna libero. Ma resta in Iran.
[…] Il futuro leader di Al-Qaeda, però, ha una visione che risale ai primi anni Novanta, quando il teorico jihadista sudanese Hassan al-Tourabi teorizzava un'alleanza fra gruppi combattenti sunniti e sciiti contro l'Occidente. Una teoria che correva parallela all'idea di Khomeini per una santa alleanza fra tutti i musulmani, naturalmente sotto la sua leadership, con lo scopo di sfidare il Grande satana americano.
[…] Nel mondo del post-invasione dell'Ucraina, quello scenario è tornato di attualità. L'Iran appoggia la Russia come non mai e ha smorzato i toni contro gli estremisti sunniti, dialoga persino con l'Arabia Saudita. E che il capo di Al-Qaeda, la grande massacratrice di sciiti, abbia la propria base nella Repubblica islamica sciita, suona meno strano, quasi credibile.
Estratto dell'articolo di Antonio Giustozzi per “la Repubblica” il 17 febbraio 2023.
[…] Che la sua nomina non sia stata ufficializzata è una conferma, se una era necessaria, che Saif si trova in Iran. Per Al Qaeda è troppo imbarazzante nominare un leader che è sotto il controllo dell’Iran, che nei ranghi del gruppo non è mai stato popolare, anzi.
[…] In quello che rimane della lobby della “guerra al terrore” si specula che sotto di lui Al Qaeda potrebbe rilanciare le sue operazioni in Occidente, tanto più che il regime iraniano, più che mai sotto assedio, potrebbe ben voler incoraggiare un ritorno a questo tipo di attacchi.
Prima della recente crisi in Iran, causata dall’ondata di dimostrazioni contro il regime, e dell’attacco dei droni israeliani di gennaio, il regime di Teheran era più interessato a ottenere l’aiuto di Al Qaeda contro Daesh, ma è certamente possibile che le priorità siano ora cambiate. A Teheran si pensa che gli americani abbiano aiutato gli israeliani ad organizzare il raid con i droni e, sebbene il regime abbia deciso di evitare una ritorsione immediata, sicuramente c’è il desiderio di colpire bersagli americani, non fosse altro per dimostrare che l’Iran non è in ginocchio.
Al Qaeda, tuttavia, sembra avere capacità molto limitate di compiere operazioni in Europa e ancora di più in America, per non parlare di Israele. Sembra improbabile che Saif possa resuscitare una campagna terroristica di Al Qaeda in Occidente in tempi brevi.
Per Saif al Adel il vero problema è che finché rimane in Iran sarà difficile per lui e per Al Qaeda raccogliere fondi nel mondo arabo, e soprattutto nelle monarchie del Golfo. La dipendenza di Saif dall’Iran rischia di accentuarsi, mentre la scarsità di fondi rende difficile sostenere le poche filiali di Al Qaeda che ancora hanno un certo peso.
[…] Il rapporto con l’Iran è più controverso che mai dopo che l’esistenza stessa del regime viene oramai messa in dubbio da molti osservatori. In Afghanistan, Al Qaeda ha subito importanti defezioni, con circa 60 dei suoi membri (su un totale di poche centinaia) che sono recentemente passati dalla parte di Daesh, probabilmente irritati e preoccupati dai segnali che indicano come i talebani stiano cooperando con l’intelligence americana.
Inevitabilmente, tutto questo accresce la pressione su di Said al Adel, che però può probabilmente fare ben poco. Spostarsi altrove sarebbe l’unica soluzione, ma l’Iran evidentemente ha ben poco interesse a lasciar uscire Saif dall’Iran, sia per controllare lui e Al Qaeda che perché potrebbe aver bisogno di loro nel futuro. Saif e Al Qaeda sembrano pertanto intrappolati nella situazione attuale [...]
Raid Usa in Somalia: ucciso uno dei leader dell'Isis. Storia di Alberto Bellotto su Il Giornale il 26 gennaio 2023.
Un'operazione rapida, chirurgica, con pochi uomini delle forze speciali e un elicottero. È stato ucciso così Bilal al-Sudani, uno dei leader dello Stato Islamico che operava in Somalia. La notizia è stata confermata dal New York Times e dallo stesso United States Africa Command in un comunicato.
L'operazione, avvenuta in un'area montuosa nel Nord del Paese africano, è stata condotta giovedì dalle forze statunitensi. Sempre stando al comunicato delle autorità americane nessun civile sarebbe rimasto coinvolto nell'attacco, così come nessun soldato americano sarebbe rimasto ucciso o ferito. Il segretario della Difesa Lloyd Austin ha spiegato che al Sudani è stato ucciso nel corso dell'operazione e con lui sono morte altre 10 persone legate all'organizzazione terroristica. Austin ha anche aggiunto che il raid ha ricevuto il via libera da Joe Biden all'inizio della settimana e che la Casa Bianca ha seguito tutte le fasi dell'attacco.
Il ruolo di al-Sudani
Lo stesso Austin ha spiegato che al-Sudani era una delle figure chiave dell'Isis, in particolare per il suo ruolo di facilitatore. Secondo i funzionari americani l'uomo era una figura chiave che lavorava per espandere la presenza dell'Isis in Africa, collaborando nella raccolta fondi a livello globale, comprese le operazioni in Afghanistan. In passato Al-Sudani era finito nel mirino del dipartimento del Tesoro americano perché dal 2012 era attivo come reclutatore di combattenti stranieri da inviare nei centri di addestramento jiadista in Somalia.
Come ha notato la Cnn è insolito che gli Stati Uniti colpiscano lo Stato Islamico in Somalia. Nel Corno d'Africa solitamente le operazioni si concentrano contro i combattenti di al-Shabaab, il gruppo terroristico dominante nel Paese e affilato direttamente ad Al Qaeda. L'operazione contro al-Sudani è il secondo attacco delle forze americane contro l'Isis in breve tempo. Verso la fine del 2022, infatti, un raid aveva ucciso due leader dell'Isis in Siria.
Le operazioni anti Isis dopo il ritiro dall'Afghanistan
Questi raid rappresentano la continuazione della strategia dell'amministrazione Biden per contenere le minacce terroristiche attraverso le cosiddette "operazioni over-the-horizon", campagne con mezzi aerei o forze speciali che partono dall'esterno del Paese in cui si trovano i bersagli. Una tattica varata dopo il ritiro completo delle forze americane dall'Afghanistan nell'estate del 2021.
Da diversi anni l'attenzione del Pentagono è fissa nel continente africano dove si è spostata una parte consistente dell'attività jihadista. Brian Nelson, sottosegretario al Tesoro americano, ha spiegato a Usa Today come l'attenzione delle autorità si stia concentrando sempre di più sui flussi di denaro che convergono verso alcune aree del continente africano.
"L'Isis sta cercando di espandere la sua influenza in Africa con operazione i su larga scala in aree in cui il controllo del governo locale è limitato", ha spiegato Nelson. "Le filiali dell'Isis in quelle regioni fanno affidamento su schemi di raccolta fondi locali come rapine, estorsioni alla popolazione locale e rapimenti, oltre ovviamente al sostengo finanziario della gerarchia centrale dello Stato Islamico".
Il blitz in Germania. Terrorismo, arrestati un iraniano e il suo complice: “Pianificavano attentato con armi chimiche”. Redazione su Il Riformista l’8 Gennaio 2023
Il blitz delle forze speciali Sek e degli agenti antiterrorismo è scattato intorno alla mezzanotte in un appartamento di Castrop-Rauxel, in Nordreno-Westfalia, nel nord ovest della Germania. Un cittadino iraniano di 32 anni è stato arrestato, insieme al fratello, con l’accusa di preparare attentati terroristici di matrice islamica usando anche tossine letali come cianuro e ricina che però non sono state rinvenute nella sua abitazione, secondo quanto ho riferito un portavoce della procura di Dusseldorf. Secondo la Procura l’uomo “stava pianificando un attacco molto serio” di matrice islamista.
La soffiata è arrivata da servizi segreti di un Paese “amico” che avrebbero messo in guardia la procura generale tedesca dal rischio di una bomba biologica. E così gli agenti hanno fatto irruzione nell’appartamento con le tute protettive e le armi spianate. La procura indagava da giorni ma non è chiaro dove dovesse avvenire l’attacco, né quando. Ora sono in corso indagini per trovare veleni e altre prove. La ricina è un agente molto tossico, classificato dal Robert Koch Institute come “arma biologica”, che viene estratta dai semi della pianta di ricina. Può diventare un veleno mortale, come il cianuro.
Già nel 2018 questo tipo di veleno era stato trovato in mano a una coppia di tunisini che stava organizzando un attentato con la ricina per conto dell’Isis. A casa della coppia gli investigatori avevano trovato 84,3 mg di ricina e 3.300 semi di ricino usati per fabbricare il veleno. La Germania è stata presa di mira negli ultimi anni da numerosi attacchi islamisti, tra cui un attacco con un camion ariete a un mercatino di Natale nel dicembre 2016 che ha causato 13 morti.
Silenzio papale. A differenza di Ratzinger, Bergoglio non ha mai denunciato la follia del terrorismo islamico. Carlo Panella su L’Inkiesta il 5 Gennaio 2023.
Benedetto XVI ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziare il jihadismo insito nel dettato coranico, mentre Papa Francesco cerca una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere l’aggressività in tanta parte dottrinale dell’Islam
Incredibilmente nel 2015 Papa Francesco ha giustificato l’attentato terrorista islamico a Charlie Hebdo che aveva mietuto 12 morti e 11 feriti. Papa Benedetto XVI con la prolusione di Ratisbona ha denunciato il dramma dell’Islam contemporaneo: la sua pratica del jihad violento e il divorzio tra fede e ragione che lo caratterizza.
Stranamente, in morte del papa emerito pochi hanno rimarcato questa enorme dissonanza tra i due pontificati.
Giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, nonostante fosse ben noto il pesante bilancio di morte, così Papa Bergoglio ha risposto a un giornalista di La Croix che gli aveva chiesto la sua posizione sulle conseguenze tragiche della pubblicazione delle vignette su Maometto: «Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasparri che è un amico dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».
Altrettanto sconcertante, come hanno rilevato molti, è il prolungato silenzio degli ultimi tre mesi di Papa Francesco di fronte alle crudeli e inumane condanne a morte di giovani manifestanti in Iran e alla uccisione nelle piazze di almeno cinquecento di loro.
Di nuovo sconcertante il suo giudizio del 2019 sulla persecuzione in atto dei cristiani: «La persecuzione dei cristiani è sempre la stessa: le persone che non vogliono il cristianesimo si sentono minacciate e così portano alla morte i cristiani».
Ancora un travisamento totale e radicale della realtà. I musulmani uccidono i cristiani – 16 al giorno, ogni giorno! – non perché si sentono minacciati da questa esigua minoranza pacifica che non ha alcun mezzo per far loro del male, ma in applicazione rigida della sharia. La sharia wahabita giudica infatti i cristiani idolatri, apostati, blasfemi, i più gravi peccati per l’Islam. Da qui le uccisioni.
Di fatto, tutto l’attuale pontificato si distingue per un atteggiamento di accettazione passiva della violenza che proviene dal mondo islamico perché accetta la falsa e non reale versione che vuole che questa violenza islamica sia reattiva alla violenza dell’Occidente, non insita nel dettato coranico e nella sharia.
Di conseguenza Papa Francesco si impegna nella ricerca di una irenistica convivenza che evita accuratamente di cogliere la aggressività insita in tanta parte dottrinale dell’Islam.
Opposta la posizione di Papa Ratzinger, che non si è limitato a denunciare il jihadismo insito nel dettato coranico, ma ha indicato con lucida intelligenza il cammino per depotenziarlo.
Il suo appello di Ratisbona a esaltare la convivenza tra fede e ragione ha indicato lo stesso, identico, nodo teologico individuato dai poco ascoltati e perseguitati riformatori islamici. Riformatori che non a caso sono tra i pochissimi nel mondo musulmano a rifarsi al razionalismo aristotelico di Averroè, tanto influente nella cristianità quanto rigettato dal mondo musulmano.
Tra questi, esemplare è stato il sudanese Mohammed Taha che appunto ha applicato la ragione per storicizzare il dettato coranico, per esercitare la esegesi, per interpretarlo, ritenendo contingenti, determinate dalla cronaca storica e quindi da superare le Sure che esaltano il Jihad contro gli ebrei, gli apostati, i cristiani e gli infedeli dettate da Maometto nel corso delle sue battaglie alla Medina.
Al contrario, Mohammed Taha ha invitato a fare tesoro delle Sure precedentemente dettate da Maometto alla Mecca – non a caso amichevoli e intrise di ecumenismo nei confronti di cristiani ed ebrei – che contengono i capisaldi della pura fede dell’Islam. Da questa esegesi derivava per Mohammed Taha il rifiuto del Jihad, della posizione subordinata della donna e quindi dell’obbligo del velo e anche una sorta di teologia della liberazione a favore degli oppressi.
Di fatto, come Mohammed Taha, i – pochi – riformatori dell’Islam intendono ripercorrere il cammino del cristianesimo e dell’ebraismo che da secoli non seguono la lettera formale del Libro, del Verbo, ma la interpretano, la attualizzano, la spogliano dello specifico contesto storico.
Ma Mohammed Taha è stato impiccato a Khartoum nel 1980 come apostata sulla base – questo è fondamentale – di una fatwa di condanna emessa da al Azhar, stranamente considerata da molti in Vaticano come la più alta autorità morale sunnita (in realtà il suo prestigio si limita all’Egitto e al Sudan e i suoi Grandi Imam sono nominati e controllati ieri da Nasser e Mubarak e oggi da al Sisi).
Dunque, la coesistenza, la compenetrazione tra fede e ragione, è una fase ancora chiusa in un Islam nel quale impera il dogma del Corano Increato, parola eterna e inscalfibile di Dio, precedente e successiva all’umanità, non interpretabile, da non sottoporre assolutamente a esegesi, da applicare alla lettera.
Con questo Islam il gesuita latinoamericano Papa Francesco intende solo convivere in pace, come dimostra il “Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune” firmato assieme al Grande Imam di Al Azhar Ahmad al Tayyeb nel 2019 ad Abu Dhabi.
L’europeo e agostiniano Papa Benedetto XVI, dopo decenni d’inconcludente dialogo inter religioso, ha voluto stimolare l’Islam ad affrontare finalmente la modernità con le armi di una teologia alta e coraggiosa.
Ma l’Islam gli ha risposto offeso e irato. E continua nella sua immobilità di pensiero e nella sua aggressività.
Lo Stato Islamico sta continuando ad avanzare in Africa. Enrico Phelipon su L'Indipendente Sera il 22 dicembre 2022.
Lo Stato Islamico (ISIS) negli ultimi anni è riuscito a conquistarsi un pezzo di Africa e continua ad avanzare. Se qualcuno lo pensava morto dopo la sconfitta patita in Siria, grazie in buona parte alla lotta delle Unità di Protezione Popolare curde (YPG), sbagliava. Il gruppo islamista è stato in grado di riorganizzarsi e mutare strategia, ottenendo un’avanzata favorita anche dall’instabilità crescente di cui soffre il continente, di cui la situazione libica e l’insurrezione islamista in Mali sono due degli esempi più lampanti. L’Isis si è così aperto la strada verso la penetrazione nel Sahel, una fascia di terreno a sud del deserto del Sahara che dal Senegal all’Eritrea arriva a toccare una decina di stati. In queste aeree negli anni ha guadagnato sempre più terreno lo Stato Islamico del Gran Sahara (IS-GS, EIGS).
L’espansione dello Stato Islamico in Africa non si ferma solo alla zona sub-sahariana del continente, esistono infatti diverse cellule attive anche in altre aree, come lo Stato Islamico nell’Africa Occidentale (ISWAP) e lo Stato Islamico dell’Africa Centrale (ISCAP). Oltre la metà delle provincie che il gruppo terrorista rivendica nel mondo, si trovano in Africa, rendendo di fatto il continente una zona strategica per il gruppo fondamentalista. Qui infatti sono attive alcune delle cellule con il più alto numero di miliziani, oltre al fatto che i paesi in cui il gruppo terrorista è presente sono spesso ricchi di risorse naturali da poter sfruttare.
Molti stati dell’Africa oltre ad avere delle strutture di governo deboli, ossia non in grado di controllare il territorio né di fornire alla popolazione i servizi più basilari, devono fare i conti anche con tutta una serie di problematiche interne e esterne che ne indeboliscono ulteriormente l’operato. Dal punto di vista interno questi paesi si trovano in molti casi a dover affrontare tensioni politiche, etniche, religiose e sociali. Fattori che spesso hanno favorito il reclutamento da parte dei gruppi fondamentalisti. Bisogna inoltre considerare le condizioni economiche, un ampia fetta della popolazione africana vive in condizioni di estrema povertà, altro fattore che sicuramente ha inciso nello spingere migliaia di giovani africani ad unirsi ai vari gruppi terroristi attivi nel continente, incluso l’ISIS.
Oltre ai fattori interni, anche quelli esterni giocano un ruolo cruciale nel creare instabilità. Le multinazionali, i gruppi terroristi e i cartelli criminali, sono attori non statali anch’essi interessati ad allargare la loro influenza su un continente ricco di materie prime e di canali “sicuri” per i traffici di armi, droga o esseri umani. Organizzazioni criminali che sono state capaci negli ultimi anni, ed anche durante il periodo pandemico, di allargare la propria influenza in diverse aree del continente. L’Africa subisce, secondo le stime, una perdita annuale di 88,6 miliardi di dollari in flussi finanziari illeciti legati ad attività criminali, ossia circa il 3,7% del PIL (Prodotto Interno Lordo) dell’intero continente.
Altro fattore esterno che incide nel creare instabilità sono i vari stati in lotta per l’influenza. Stati Uniti, Francia, Europa, Cina, monarchie del Golfo e Russia sono tra i principali attori coinvolti in questa lotta. In una moderna forma di colonialismo, che vede questi attori internazionali combattersi a colpi di interventi militari, aiuti economici, umanitari o “semplice” supporto politico ai vari regimi che si trovano alla guida dei paese. Scarsi risultati sono stati ottenuti dalle varie missioni militari sul continente, come l’operazione antiterrorismo Barkhane della Francia. Presente in Mali per quasi dieci anni e terminata negli scorsi mesi, l’operazione militare di Parigi ha probabilmente fatto più danni di quanti intendeva risolverne, dato che attentati terroristici e insicurezza sono notevolmente aumentati. In alcuni paesi invece i militari francesi sono stati sostituiti dai mercenari del gruppo Wagner, legati al Cremlino. Sfruttando l’instabilità, anche la Russia sta tentando di accrescere la propria influenza sul continente, ai danni di Francia e Stati Uniti. Uno scarso impatto, nel ripristinare una parvenza d’ordine, l’hanno avuto anche le Missioni di mantenimento della Pace a guida delle Nazioni Unite (UN). Negli scorsi mesi in Repubblica Democratica del Congo (RDC) ci sono state numerose proteste contro MONUSCO, la missione a guida UN presente nel paese dal 2010. Operazione che per la popolazione locale si è dimostrata totalmente incapace di contrastare le attività dei gruppi ribelli e terroristi presenti nelle regioni orientali della RDC. Anche l’operato dei militari nel continente è stato un fattore che in parte ha favorito il reclutamento dei gruppi fondamentalisti, i numerosi abusi subiti dalle popolazioni locali hanno influito nello spingere le persone ad unirsi ai vari gruppi.
Purtroppo il futuro per il continente africano non appare roseo, dato che le condizioni che hanno creato e mantenuto l’instabilità sono probabilmente destinate a durare, alla luce anche della crisi energetica e della conseguente inflazione. La lotta tra le potenze mondiali, acuitasi con la guerra in Ucraina, è un altro fattore che sicuramente avrà ripercussioni su un continente a cui servirebbe più di ogni altra cosa indipendenza, pace e stabilità. [di Enrico Phelipon]
Abu Musab al-Zarqawi, il (vero) padre del Daesh. Emanuel Pietrobon il 28 Dicembre 2022 su Inside Over.
Negli stessi anni in cui l’amministrazione Bush Jr lanciava la Guerra al Terrore, in risposta agli attentati dell’11 settembre 2001, un uomo che non era Osama bin Laden e che non apparteneva ad Al-Qāʿida stava spargendo sangue in Medio Oriente e minacciando gli interessi e le vite degli Stati Uniti.
Lo chiamavano lo sceicco dei macellatori. Era tra i fondatori di un gruppo terroristico noto come Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād, che nel 2006 sarebbe stato ribattezzato Stato Islamico. Il suo nome era Abū Mus‘ab al-Zarqāwī e questa è la sua storia.
Da Amman a Kabul
Abū Mus‘ab al-Zarqāwī, al secolo Aḥmad Fāḍil al-Nazāl al-Khalāʾil, nacque nella periferia di al-Zarqā, Giordania, il 30 ottobre 1966. Cresciuto in una famiglia numerosa – nove fratelli –, Zarqāwī aveva origini beduine. Perse il padre durante l’infanzia, un lutto che lo incoraggiò ad abbandonare la scuola in favore del crimine.
La ricerca di denaro facile lo avrebbe portato prima nel mondo dei combattimenti clandestini e poi nei traffici illeciti, incluso lo sfruttamento della prostituzione. Stanco del vagabondaggio e della violenza, sul finire degli anni Ottanta, Zarqāwī avrebbe colto l’opportunità presentatagli da alcuni contatti di recarsi in Afghanistan per combattere i sovietici.
Abdullah Azzam, il mentore di Osama bin Laden
Le fonti sul periodo afgano di Zarqāwī discordano: per alcune avrebbe combattuto, partecipando a degli scontri a Khowst e Gardez, per altre non avrebbe fatto in tempo, causa la ritirata delle truppe sovietiche, limitandosi a fare il giornalista per il bollettino islamista Al-Bonian al-Marsous.
Nel 1990, a guerra finita, Zarqāwī si sposta nel vicino Pakistan, il cuore pulsante dell’emergente e vigorosa internazionale jihadista, dove sarebbe avvenuto l’incontro della vita, destinato a cambiarlo per sempre, con l’ideologo salafita Abū Muḥammad al-Maqdisī. Zarqāwī, un criminale alla ricerca di uno scopo esistenziale, trovò negli insegnamenti di al-Maqdisī, un seguace di Sayyid Qutb, l’illuminazione.
Da Kabul al Jihad globale
Nel 1992, rientrato nella natìa Giordania, Zarqāwī viene arrestato per il ritrovamento di armi ed esplosivi nella propria dimora. Rivedrà la luce della libertà soltanto sette anni dopo, nel 1999, grazie ad un’amnistia generale concessa da re Abdullah.
L’uomo uscito di prigione è un soggetto pericoloso, una mina vagante, che ha completato il processo di radicalizzazione religiosa iniziato in Pakistan ed è pronto ad entrare in azione. Sgominato un piano terroristico che avrebbe dovuto colpire il Radisson hotel di Amman la sera di capodanno, e che lo vede coinvolto, Zarqāwī fugge in Pakistan. Dal Pakistan raggiunge l’Afghanistan, dove incontra Osama bin Laden. È ancora il 1999.
Tra Zarqāwī e bin Laden non è idillio, perché hanno idee diverse sulla conduzione del Jihād globale – il primo vorrebbe un’insorgenza inizialmente circoscritta al Medio Oriente, il secondo vorrebbe una guerra, da subito, mondiale –, ma trovano un modus vivendi e cominciano a collaborare. Con la benedizione del capo di Al-Qāʿida, fondamentale per operare nel paese, Zarqāwī stabilisce un campo di addestramento a Herat dedicato ai combattenti giordani, alla produzione di armi chimiche e alla crescita di un gruppo da lui fondato: Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād.
Dopo un periodo trascorso in Iran, per ragioni mai chiarite, Zarqāwī fa ritorno in Afghanistan con l’inizio dell’invasione americana. Guida i suoi combattenti nella resistenza all’occupazione, mettendosi e mettendoli a disposizione di Al-Qāʿida e Talebani. Ferito in un combattimento, viene trasportato in Iran per ricevere cure mediche tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002.
Sayyid Qutb, il padre dell’Islam politico
28 ottobre 2002. Zarqāwī è un fantasma che viene visto ovunque, dalla Siria all’Iraq, e al cui passaggio seguono spargimenti di sangue. Quel giorno, ad esempio, un commando agente per conto del terrorista assassinerà il diplomatico americano Laurence Foley ad Amman. Il salto di qualità di Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād.
2003: i terroristi di Zarqāwī estendono il raggio d’azione di quella che è destinata a divenire la principale rivale di Al-Qāʿida, assumendo ufficialmente le sembianze dello Stato Islamico tre anni più tardi. A Casablanca, negli attentati del 16 maggio, vengono uccise più di trenta persone e ferite oltre cento. A Istanbul, tra il 15 e il 20 novembre, di concerto con Al-Qāʿida, vengono lasciati a terra più di cinquanta morti e oltre settecentocinquanta feriti.
2004. Zarqāwī è in procinto di rubare la scena al fuggitivo dei fuggitivi, bin Laden, perché nell’attentato al Canal Hotel di Baghdad perde la vita l’inviato speciale per l’Iraq delle Nazioni Unite, Sérgio Vieira de Mello, e perché una maxi-operazione dei servizi segreti giordani scioglie una cellula pronta a compiere un attentato al vertice NATO di Istanbul, un attacco chimico all’ambasciata statunitense di Amman e degli assalti alla sede del primo ministro e al quartier generale dell’intelligence. Nel corso del raid verranno sequestrate circa venti tonnellate di armi chimiche, esplosivi e veicoli da impiegare per gli attentati. Per la trama terroristica, tre anni dopo, Zarqāwī riceverà una condanna a morte (in contumacia) dall’Alta corte di Giordania.
È ancora il 2004, l’anno più lungo dell’epopea del precursore dello Stato Islamico, quando Zarqāwī riesce a sequestrare un imprenditore ebreo americano attivo in Iraq, Nicholas Berg, e a scioccare l’opinione pubblica occidentale attraverso la diffusione del video della sua decapitazione. Una vendetta, sentenzia Zarqāwī, per lo scandalo di Abu Ghraib. Il gesto gli costerà l’ingresso in simultanea nell’Olimpo dei jihadisti e nella kill list della Central Intelligence Agency.
La visione premorte
Iraq, 2004. Zarqāwī giura fedeltà a bin Laden, trasformando Jamāʿat al-tawḥīd wa al-jihād in Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn (Al-Qāʿida in Iraq), cominciando a pubblicare video propagandistici in linea con la visione del primo sceicco del terrore. Una sottomissione necessaria o tattica, a seconda delle letture, che consente al terrorista di mantenere il controllo della propria organizzazione e, soprattutto, di mettersi al riparo da eventuali rappresaglie ad opera di rivali e invidiosi.
Costretto a circoscrivere le proprie azioni al solo Iraq, lasciando il resto del mondo ad Al-Qāʿida, Zarqāwī avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel provocare lo sprofondamento del paese nel baratro nel dopo-Saddam. Il paese diventa il laboratorio in cui testare alcune teorie, proprie di Zarqāwī, circa la possibilità di innescare una guerra civile tra sunniti e sciiti e di utilizzarla per impantanare gli americani in un’estenuante guerra di logoramento.
La strategia di Zarqāwī provocherà più di duecento morti in attentati soltanto tra marzo e dicembre 2004. Ma sarà soltanto nel 2006, a pochi mesi dalla morte, che la visione di un Iraq devastato dalla guerra di religione sembrerà prendere forma. All’indomani dell’attentato al santuario sciita ‘Askariyya, avvenuto il 22 febbraio e causa di settanta morti tra i fedeli, il paese cadrà in una settimana di scontri interreligiosi che lasceranno a terra oltre mille persone.
Il 7 giugno 2006 è il giorno della svolta. Zarqāwī viene localizzato in una casa a nord di Baʿqūba ed eliminato in un’operazione chirurgica da due bombe guidate sganciate da due F-16 dell’Aviazione degli Stati Uniti. È la fine di un uomo che era riuscito a impensierire bin Laden creando un’organizzazione capace di rivaleggiare con Al-Qāʿida, sua genitrice inconsapevole, e a spargere sangue da Casablanca a Istanbul. È la fine di un uomo, sì, ma non della sua creatura, giacché Al-Qāʿida in Iraq darà vita allo Stato Islamico nello stesso anno, né della sua diabolica visione per il Medio Oriente – pantano degli americani e trincea di una guerra intra-islamica tra sunniti e sciiti.
Re Carlo in Kenya: “Niente scuse per le violenze coloniali”. Martina Melli su L'Identità l'1 Novembre 2023
Martedì scorso Re Carlo III, in visita in Kenya, ha fatto i conti con la difficile eredità colonialista britannica. Con il Paese che si avvicina al sessantesimo anniversario dell’indipendenza, il prossimo dicembre, il nuovo monarca ha sentito il bisogno di affrontare i “momenti più dolorosi” della lunga e intricata relazione tra madrepatria e colonia africana.
Durante un banchetto di stato tenuto in suo onore dal presidente del Kenya William Ruto, nella capitale Nairobi, Re Carlo ha dichiarato che “le malefatte del passato sono causa del più grande dolore e del più profondo rimpianto”. Ha anche riconosciuto gli “atti di violenza ripugnanti e ingiustificabili commessi contro i keniani” durante la loro lotta per raggiungere l’indipendenza, aggiungendo che “non ci possono essere scuse”.
“Per me è molto importante approfondire la mia comprensione di questi torti e incontrare alcuni di coloro le cui vite e comunità sono state così gravemente colpite”, ha continuato Charles. “Niente di tutto questo può cambiare il passato. Ma affrontando la nostra Storia con onestà e apertura possiamo, forse, dimostrare la forza della nostra amicizia oggi. E, così facendo, spero che potremo continuare a costruire un legame sempre più stretto per gli anni a venire”.
La rivolta dei Mau-Mau
Nel 1952 i combattenti per la libertà Mau Mau – originari della più grande tribù etnica Kikuyu del Paese – si ribellarono ai colonialisti britannici. Mentre l’impero lottava contro l’insurrezione in una delle sue colonie più importanti, l’amministrazione locale radunò migliaia di keniani e li sottopose a terribili torture inclusa la castrazione e la violenza sessuale. Secondo le stime della Commissione keniota per i diritti umani (Khrc) circa 100.000 persone in custodia furono torturate, mutilate o uccise nel corso di otto anni.
Ruto, pur definendo il dominio coloniale britannico “brutale e atroce” e la risposta dell’amministrazione “mostruosa nella sua crudeltà”, ha tuttavia elogiato il “coraggio esemplare e la prontezza” del Re nel riconoscere “verità tanto scomode”.
Dieci anni fa, il governo britannico pagò quasi 20 milioni di sterline a titolo di risarcimento per violazioni dei diritti umani a oltre 5.000 keniani e ammise di essere sinceramente pentito degli abusi storici, senza però assumerne la responsabilità. Questa visita è la quarta di Carlo nella nazione dell’Africa orientale e la prima in una nazione del Commonwealth dalla sua incoronazione.
Perché i leader occidentali chiedono scusa per il loro colonialismo, e quelli arabi non lo fanno? Federico Rampini su Il Corriere della Sera giovedì 2 novembre 2023.
Nelle università americane è un dogma che Israele sia una moderna potenza coloniale e i palestinesi le vittime. Re Carlo si è scusato con il Kenya per quello che hanno fatto i britannici nella storia. E le azioni di arabi e ottomani?
«Vi chiediamo scusa per il colonialismo arabo e ottomano». No, questa frase non l’ha detta nessun leader islamico in visita in Africa o in Asia. L’ultimo in ordine cronologico, a riconoscere pubblicamente le sofferenze causate dall’imperialismo ad un popolo sottomesso, è stato re Carlo d’Inghilterra durante la sua visita in Kenya ieri. Il suo gesto si è aggiunto alla lunga lista di pentimenti ufficiali che capi di Stato, capi di governo e monarchi di tutto l’Occidente hanno compiuto.
Dall’elenco di queste giuste ammissioni di responsabilità storica mancano però gli esponenti di altri colonialismi. Gli imperi arabo e ottomano sono importanti alla luce di quel che sta avvenendo in Medio Oriente, e del dibattito sulla questione palestinese che infiamma e lacera anche le nostre società. Nelle università americane, per esempio, è un dogma pressoché universale il fatto che Israele sia una moderna potenza coloniale e i palestinesi le vittime di una occupazione di tipo imperialista. Il fatto che tanti paesi occidentali abbiano solidarizzato con Israele dopo la mattanza di civili e bambini ebrei compiuta il 7 ottobre da Hamas, è stato interpretato nei campus e nelle manifestazioni di piazza come una conferma della diabolica complicità tra le potenze «bianche» colpevoli del colonialismo, e Israele.
Quella di Hamas viene difesa da tanti giovani americani come una lotta «di resistenza», perciò legittima perfino quando fa stragi di innocenti. Una panoramica sui corsi di storia insegnati in molte università americane ed europee indica che i mali del colonialismo occidentale vengono studiati e denunciati; gli altri no. Ma i palestinesi non parlavano arabo alle origini, né erano destinati necessariamente a praticare la religione islamica. Non sono di etnìa araba i marocchini e gli algerini, i tunisini o gli egiziani. Oggi tutti parlano l’arabo. Perché? Lingua e religione sono state imposte nelle loro terre da uno dei più grandi imperialismi della storia, quello arabo.
L’avanzata delle armate arabe ha portato l’Islam in molte parti dell’Africa (dal Sudan alla Nigeria) e, nella direzione opposta, si è spinta fino all’India, l’Indonesia, la Malesia. E’ una religione mondiale perché lo è diventata attraverso le armi e la conquista coloniale. Lo stesso impero arabo è stato un grande profittatore nel business degli schiavi, prima ancora che nel commercio di esseri umani entrassero le potenze bianche. All’impero arabo è poi subentrato quello ottomano, con il suo centro nell’attuale Turchia, ma sempre di religione musulmana.
L’impero ottomano ha avuto fasi di tolleranza religiosa e di rispetto per le minoranze — inclusi gli ebrei — però ha ereditato un’ampiezza quasi paragonabile alle conquiste arabe, e ha comunque imposto un dominio straniero su vaste aree del Nordafrica e del Medio Oriente fino alla prima guerra mondiale. Quindi il suo dominio intercontinentale (Europa Asia Africa) è arrivato al Novecento. La convivenza tra ebrei e palestinesi conobbe tensioni anche sotto la dominazione ottomana (e sì, gli ebrei in quella terra abitano da millenni, non sono stati «catapultati» nel 1947 da Inghilterra e Stati Uniti per risarcirli dell’Olocausto, come si narra nelle leggende dei campus universitari americani).
Ma né i monarchi sauditi né Erdogan hanno mai accennato a scusarsi con i popoli sottomessi dai loro imperi, o per il ruolo avuto nella storia dello schiavismo. A dire il vero non risulta che dei leader africani abbiano mai preteso queste scuse, mentre le esigono dai leader occidentali. È solo una questione cronologica, cioè conta solo il fatto che il colonialismo occidentale è più recente quindi fresco nella memoria? «Recente» è una definizione opinabile. La quasi totalità delle ex-colonie dell’Occidente divennero indipendenti negli anni Sessanta.
Oggi una bambina o un bambino africano nascono con tre generazioni post-coloniali alle spalle. Per molti paesi africani il periodo di sottomissione a imperi occidentali è durato «solo» ottant’anni, quello post-coloniale ormai si avvicina ai settanta. Quel «solo» tra virgolette va messo in relazione con le storie di altre parti del mondo che furono colonie dell’Occidente molto più a lungo, dall’India all’Indonesia. La vera conquista dell’Africa da parte degli europei di fatto cominciò alla fine dell’Ottocento con la conferenza internazionale di Berlino. È opinabile se gli effetti del colonialismo europeo siano stati più profondi, più durevoli, più nefasti rispetto a quelli del colonialismo arabo e ottomano.
L’idea che il colonialismo infligga danni incancellabili che compromettono le capacità di sviluppo è confutata da storie di miracoli economici asiatici che vanno da Singapore (ex colonia inglese) al Vietnam (ex colonia francese), dall’India (inglese) all’Indonesia (olandese). Negli anni Sessanta, al momento della sua indipendenza, Singapore era più povera di molti paesi africani e mandava delegazioni governative a studiare il modello virtuoso del Kenya: il paese dove re Carlo ha riconosciuto ieri le colpe del colonialismo. Se re Carlo andasse a chiedere scusa a Singapore oggi si dubiterebbe della sua salute mentale: quella città-Stato per reddito pro capite è quasi due volte più ricca del Regno Unito.
Il dibattito non riguarda solo gli storici. L’insegnamento a senso unico che viene impartito nelle università americaneha conseguenze concrete nel clima politico che in questi giorni condiziona Joe Biden. Il suo partito è lacerato sul Medio Oriente, come non lo era stato sull’Ucraina. Quando la Camera dei deputati di Washington ha votato una risoluzione di condanna della carneficina di Hamas, 15 parlamentari dell’ala sinistra del partito democratico si sono dissociati. In seguito, una vasta coalizione di movimenti che si definiscono progressisti ha pubblicato una «Dichiarazione di Gaza» che si riferisce alle elezioni presidenziali del 2024. In questa si legge che gli attivisti radicali non voteranno per Biden «se non cessa il supporto americano per Israele, la sua pulizia etnica e il genocidio in atto a Gaza».
Tornando all’atmosfera delle università, ho già raccontato la dottrina pro-Hamas che domina fra molti studenti. Continuano episodi raccapriccianti come quello di studentesse pro-Hamas che vanno in giro a strappare e distruggere i manifesti incollati ai muri con le foto degli ostaggi civili di Hamas. Concentrarsi sui giovani però rischia di essere fuorviante. I professori non sono da meno. Questa settimana una lettera aperta di cento docenti della Columbia University di New York ha definito il massacro di Hamas «la risposta militare di un popolo che ha sofferto l’oppressione e la violenza di Stato da parte di una potenza d’occupazione».
Questo clima ideologico sta già condizionando Biden. Ieri la Casa Bianca ha annunciato «il varo della prima strategia nazionale per combattere l’islamofobia». L’annuncio è apparso come una concessione all’ala sinistra del partito democratico, che denuncia un clima di aggressione, odio razziale e intimidazione unicamente diretto verso i musulmani d’America. È indubbio che la tragedia del 7 ottobre e la guerra di Gaza stiano resuscitando anche nella società americana animosità, razzismi, pulsioni aggressive, crimini di odio, un po’ come accadde dopo l’11 settembre 2001. Il caso più spaventoso è stata l’uccisione di un bambino palestinese-americano di sei anni, a Chicago. Ma secondo i dati forniti dall’Fbi non c’è proporzione tra la crescita dell’islamofobia e quella dell’antisemitismo. Gli ebrei sono solo il 2,4% della popolazione Usa ma sono il 60% delle vittime di crimini di odio.
NELLE UNIVERSITÀ AMERICANE GUAI A CHI PARLA MALE DI TRANS, NERI O GAY MA L’ANTISEMITISMO E’ AMMESSO. Estratto dell’articolo di Federico Rampini per il “Corriere della Sera” lunedì 11 dicembre 2023.
È l’audizione parlamentare più vista nella storia: in pochi giorni un miliardo di volte, e non solo in America. È l’interrogazione delle tre presidenti di università di élite — Harvard, MIT, University of Pennsylvania — sull’antisemitismo dilagante nei loro campus dopo il 7 ottobre, e la tolleranza da parte delle autorità accademiche.
Definita «un disastro di relazioni pubbliche» anche da una commentatrice favorevole alle tre leader come Michelle Goldberg del New York Times , quella sessione della Camera ha già portato alle dimissioni di una delle protagoniste: Elizabeth Magill, della University of Pennsylvania. Alla domanda se nel suo campus sia legittimo invocare il genocidio degli ebrei, ha risposto che «dipende dal contesto».
Quella e altre affermazioni dello stesso tenore sono suonate come conferme che i vertici degli atenei non hanno fatto nulla per frenare aggressioni verbali e fisiche contro gli studenti ebrei, in un clima in cui la strage di Hamas e il conflitto di Gaza hanno visto divampare l’ostilità contro gli studenti ebrei nei campus.
Ma il giorno dopo le dimissioni della Magill è partita una vasta campagna in sua difesa.
La stessa Goldberg equipara l’audizione parlamentare alle famigerate indagini del maccartismo negli anni Cinquanta, la «caccia alle streghe» che bersagliò i comunisti o presunti tali. Altri denunciano le pressioni dal mondo dei mecenati: finanzieri miliardari come Ross Stevens, Bill Ackman e Jon Huntsman, sono fra quelli che hanno minacciato di revocare donazioni di centinaia di milioni alle università che tollerano l’antisemitismo.
La contro-reazione in difesa delle tre presidenti, e di tante altre università dove si respira la stessa atmosfera, invoca il Primo Emendamento della Costituzione che tutela la libertà di espressione. Altri però osservano che le università americane hanno smesso da tempo di difendere la libertà di espressione, anzi la limitano severamente ogniqualvolta si dichiarino offese delle minoranze diverse dagli ebrei: per esempio gli afroamericani o i transgender.
La censura ha colpito sistematicamente professori accusati di non essere allineati con le frange radicali. La presidente della commissione parlamentare, Elise Stefanik, ha ricordato che la filosofa femminista Devin Buckley si vide cancellare una conferenza a Harvard (tema: il romanticismo britannico) per aver osato sfidare alcuni dogmi transgender. È andata peggio alla biologa Carole Hooven, come ricorda Bret Stephens sul New York Times : allontanata dal suo incarico a Harvard per avere sostenuto che esistono differenze biologiche tra maschio e femmina.
Il MIT ha proibito una conferenza del geofisico Dorian Abbot perché aveva criticato alcuni privilegi offerti alle minoranze protette nelle università. Yale aveva tolto dei corsi alla giurista Amy Chua, colpevole di aver appoggiato la nomina di un giudice conservatore alla Corte suprema. L’elenco delle censure e misure disciplinari si arricchisce da anni. Il Primo Emendamento è stata l’ultima delle preoccupazioni, in quei casi.
[…] La studiosa Heather Mac Donald del Manhattan Institute punta il dito sui programmi chiamati Diversity, Equity, Inclusion (Dei) e le burocrazie che li applicano. I comitati Dei sono delle potenze nel mondo accademico […] perché hanno l’appoggio di leggi e regolamenti governativi. Nel nome della diversità etnica e sessuale, e dell’inclusione di gruppi definiti come «vittime di oppressione» o marginalizzati, hanno imposto un elaborato sistema di tutele per questi gruppi, con l’esclusione di coloro che sono catalogati come privilegiati o peggio, oppressori. Tra questi ultimi ci sono i bianchi ma anche gli asiatici, presi di mira per il loro formidabile successo accademico e professionale (cinesi e indiani hanno voti e stipendi superiori alla media americana). […]
A chi giova l’antisemitismo oggi? Serve a nazionalisti e a populisti. Storia di Milena Santerini su Avvenire il 9 dicembre 2023.
A chi giova l’antisemitismo oggi? Serve a nazionalisti e a populisti© Fornito da Avvenire
Ogni tempo ha il suo antisemitismo. Segnato dall’antigiudaismo cristiano in passato, cospiratorio nei momenti di crisi, efferato nella sua forma pseudo-scientifica nel periodo del nazionalsocialismo e del fascismo. Oggi, un antisemitismo mimetico, nascosto nelle pieghe della società (come ha detto Papa Francesco) riemerge in modo particolare con il 7 ottobre, giorno della strage di Hamas in cui persone innocenti- bambini, anziani, donne –sono stati uccise in modo crudele. Molte delle vittime e degli ostaggi erano -e sono- attivisti per la pace, gente che sceglieva di vivere ai confini, dialogava e cercava di capire le ragioni del popolo palestinese.
Dopo la Shoah, dopo il “mai più” che l’Europa e il mondo hanno saputo dichiarare erigendo l’edificio dell’uguaglianza e della non discriminazione a difesa dei diritti umani, ci troviamo a fare i conti con un’avversione antica che però assume le forme del tempo in cui viviamo. Negli anni ’20 del XXI secolo l’antisemitismo è ancora tra noi, annidato negli antichi pregiudizi ma non del tutto visibile a causa delle norme anti-discriminazioni di cui l’Italia si è dotata sulla base della Costituzione, dalle leggi Scelba e Mancino in poi. Dopo il 7 ottobre, è più manifesto, riconoscibile nelle scritte sui muri, negli insulti e nella vandalizzazione dei simboli della deportazione. Divenuto “culturale” più che biologico, raramente è argomentato in modo aperto, eppure è presente e – in alcuni periodi – in crescita. Lo mostrano i picchi in occasione delle guerre, delle intifade, del Covid-19 e della Giornata della Memoria del 27 gennaio. Nulla mostra meglio l’irrazionalità di questo risentimento rabbioso degli attacchi via social a Liliana Segre, nel momento in cui ha presentato al Senato la proposta di una Commissione contro l’odio e l’intolleranza.
Tuttavia, la contraddittorietà e l’irrazionalità emotiva per cui si attribuisce agli ebrei “tutto e il contrario di tutto” non devono far dimenticare un aspetto importante, e cioè che l’antisemitismo è utile. Anche se l’ossessione contro un gruppo considerato nemico in quanto tale non ha alcun senso, il sistema di odio che lo produce serve a far percepire sicurezza, identità, unità di un simbolico noi contro il nemico esterno. Per questo lo hanno prodotto il regime nazionalsocialista e il fascismo tra il 1933 e il 1945. Per i nazisti aveva senso un “mondo senza ebrei”, era utile un progetto politico basato sul dominio, la violenza e l’esclusione. Oggi, per chi ha senso un antisemitismo “insensato”?
Anzi tutto per i sistemi nazionalisti e populisti, che da un lato appoggiano Israele ma dall’altro alimentano la polarizzazione sociale, il razzismo e la divisione tra “noi e loro”. L’idea dell’altro come invasore, il mito della sostituzione etnica per cui il pericolo per le nostre società europee arriva da fuori, sono elementi che creano discriminazione e minano l’edificio dell’uguaglianza. Anche se apparentemente oggi questa mentalità di esclusione non tocca gli ebrei, in realtà produce quelle radici di divisione che sono un pericolo per tutte le minoranze. Quando alcuni gruppi hanno appoggiato il movimento no-vax hanno, allo stesso tempo, contribuito alla distorsione della Shoah (la stella gialla o i cancelli di Auschwitz come simbolo di oppressione sanitaria) e hanno alimentato la mentalità cospiratoria che vedeva negli ebrei gli untori del virus.
L’antisemitismo serve poi al mondo islamico, come collante che tiene uniti stati arabi divisi e in conflitto sul piano politico. L’ebreo diventa il nemico storico e religioso numero uno, e l’ostilità antiebraica infiamma le masse di cultura musulmana in molte parti del mondo. Il tema dell’immigrazione islamica in Europa diventa così centrale, da un lato per il terrorismo che colpisce proprio i luoghi ebraici, oltre a quelli della “cultura occidentale”, dall’altro per il risentimento che le nuove generazioni coltivano, specie quando manca una reale integrazione sociale, economica e lavorativa. Se non interverremo presto su questo risentimento sotterraneo emergerà ben presto anche in Italia, come in Francia ed altri paesi; lo provano le manifestazioni pro-Palestina delle piazze, dove non mancavano riferimenti all’annullamento dello Stato di Israele (lo slogan “dal fiume al mare”). Anche il mondo terzomondista di sinistra ha bisogno di indicare un nemico, individuato nell’ebreo capitalista, ricco e occidentale. Accanto alla simpatia per i palestinesi come principale popolo oppresso, nelle università studenti e professori chiedono il boicottaggio delle Università israeliane. Quasi la metà degli studenti italiani crede che oggi Israele si comporti come i nazisti, dimenticando che la Shoah aveva come obiettivo lo sterminio totale degli ebrei “per la colpa di essere nati” mentre oggi assistiamo a una guerra territoriale.
Non si parla quindi, come la definizione di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) chiarisce bene, delle legittime critiche ai governi israeliani (le cui politiche hanno provocato in questi anni danni evidenti) ma del riaffiorare di un antisemitismo legato all’antisionismo, a volte inconsapevole, che diventa avversione. In questo modo, l’empatia verso le migliaia di vittime di Gaza sottrae simpatia a quelle dei ragazzi uccisi nel rave del deserto. Come non vedere in quell’attentato la stessa matrice della logica jihadista, disprezzo per la vita propria e altrui, accanimento contro le donne, crudeltà verso i civili?
Infine, l’odio di tutti i tipi serve al business dei social media. Il sistema stesso dei social network, per riprodursi, deve aumentare l’intensità delle emozioni, soprattutto rabbia, indignazione, disprezzo per incrementare la frequenza della condivisione. Solo il 15% in media delle segnalazioni di grave antisemitismo viene rimosso dalle piattaforme. E ora l’Anti Defamation League denuncia giornalmente l’ondata di odio antisemita che X di Elon Musk sta tollerando se non incoraggiando.
Non possiamo rinunciare all’idea di un mondo senza antisemitismo. La repressione caso per caso non basta, ci vuole un investimento di visione. Abbiamo vari strumenti da utilizzare per richiamare le istituzioni ad azioni incisive, a cominciare dalla Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo del Governo Draghi e le Linee guida per contrastare l’antisemitismo nella scuola pubblicate dal Ministero dell’istruzione nel 2021. Dobbiamo proseguire nella formazione degli insegnanti, delle forze dell’ordine, della magistratura, degli operatori dei media, applicare le norme anti-discriminazione, agire concretamente contro l’antisemitismo negli stadi, dialogare con il mondo studentesco. La forza debole del dialogo che le Chiese possiedono è una ricchezza da spendere in questo mondo diviso.
Milena Santerini è vice presidente del Memoriale della Shoah di Milano
L’orrore censurato. Il negazionismo antisemita non è più un argomento di nicchia di pochi impresentabili. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Novembre 2023
Dopo il 7 ottobre, il razzismo verso gli ebrei e la minimizzazione della loro secolare persecuzione non è più un fenomeno disinibito, ma accettato pubblicamente, se non addirittura favorito
Il negazionismo dello sterminio e delle persecuzioni degli ebrei – mai cessato e sempre diffuso, per quanto in modalità quiescente – ha sempre rappresentato un fenomeno da trivio, o tutt’al più materia di convegno e di produzione editoriale per pochi pervertiti. Violenti e potenzialmente pericolosi, spesso, ma in ogni caso screditati, indesiderabili, impresentabili nei luoghi decenti.
Il pogrom del 7 ottobre è insieme il frutto e la causa di un cambio di connotati di quel fenomeno: perché la disputazione sul discrimine tra sgozzamento e decapitazione, le obiezioni avvocatesche che rinfacciano il difetto probatorio circa il numero, l’età, il colore di capelli e la specchiatezza democratica delle stuprate, la liquidazione del rapimento di centinaia di civili al rango della routinaria e ineluttabile vicenda di qualunque conflitto, illustrano un’evoluzione tanto raccapricciante quanto chiarissima di un andazzo razzista non soltanto sempre più disinibito, ma che appunto ha guadagnato pubblica accettazione e condivisione, se non favore.
Ho già scritto qui del fatto che la censura di attenzione per le immagini dell’orrore perpetrato dalle belve del 7 ottobre fosse motivata molto poco dalla comprensibile riluttanza a guardare quelle atrocità, e molto più da una pulsione negatoria che destituiva di verità la vita e la morte delle vittime e scriminava nell’oblio la responsabilità dei massacratori. Ma è sempre più chiaro che qui si tratta di un meccanismo più vasto, un sistema con ingranaggi di psicologia sociale che producono e tengono in moto abitudini anche più gravi rispetto agli occhi chiusi sulle immagini di quell’orrore.
Qui si tratta – e il fatto che non si capisca è il segno di quanto sia grave e avanzato l’ammaloramento della comune fibra civile – del ripudio della verità non più a proposito delle camere a gas di quasi un secolo fa, descritte come saune disinfettanti in qualche libercolo di un povero disadattato: si tratta della plateale e pubblica legittimazione di qualsiasi sproposito menzognero e contraffattorio in omaggio al «pluralismo», al «diritto di manifestare», alla «libertà di insegnamento». E pace se queste cose, in democrazia, si tutelano mentre si cura che l’opinione pubblica sia libera, non pervasa, dalla censura e dalla menzogna. Libera di scegliere anche la menzogna, ovviamente, ma a patto che la menzogna non faccia stato sulla verità, a patto che questa non sia rimossa dalla censura.
La verità è Bucha, non «l’operazione speciale» per mettere gente perbene al posto dei drogati e degli omosessuali di Kyjiv. La verità è la mostruosità del pogrom del 7 ottobre, non «il 7 ottobre non viene dal nulla». La verità è l’orrore censurato e la verità è la malafede, la colpa, la complicità di chi lo censura.
Sono anche vere, tragicamente e inaccettabilmente vere, le vittime civili dei bombardamenti. Ma tanti, tra quelli che fanno mostra di curarsene, sono i responsabili del negazionismo di cui abbiamo detto: una cosa che contamina la verità del loro interessamento.
(ANSA mercoledì 29 novembre 2023) - Uno dei due vicedirettori associati della Cia ha pubblicato un'immagine pro-Palestina sul suo profilo Facebook due settimane dopo che Hamas ha attaccato Israele, una rara dichiarazione politica pubblica da parte di un alto ufficiale dell'intelligence Usa su una guerra che ha suscitato dissenso all'interno dell'amministrazione Biden.
Lo scrive il Financial Times, che ha deciso di non farne il nome dopo che la Cia ha espresso preoccupazione per la sua sicurezza. Il dirigente, preposto alle analisi, ha cambiato la sua foto di copertina il 21 ottobre con l'immagine di un uomo che sventola una bandiera palestinese, utilizzata spesso negli articoli che criticano Israele.
Pubblicare un'immagine apertamente politica su una piattaforma pubblica, sottolinea il Ft, è una mossa molto insolita per un alto funzionario dell'intelligence, soprattutto sullo sfondo delle crescenti tensioni all'interno dell'amministrazione per indurre Joe Biden ad esercitare maggiori pressioni su Israele allo scopo di porre fine ai combattimenti nella Striscia di Gaza.
In un post separato sempre su Facebook, lo stesso alto dirigente della Cia ha pubblicato anche un selfie con un adesivo con la scritta "Palestina libera" sovrapposto alla fotografia. Una persona a conoscenza della vicenda ha riferito che l'immagine è stata pubblicata su Facebook anni fa, molto prima dell'attuale conflitto, e ha aggiunto che l'alto funzionario aveva anche pubblicato post su Facebook in cui prendeva posizione contro l'antisemitismo.
Uomini che odiano gli ebrei. Il crescente antisemitismo in Scandinavia. Enrico Varrecchione su L'Inkiesta il 29 Novembre 2023
Dopo il pogrom del 7 ottobre ci sono stati diversi episodi antisemiti in Danimarca, Svezia e Norvegia: il rabbino capo di Copenhagen ha subito aggressioni fisiche e verbali, a Malmö si segnalano seri problemi nelle scuole, inclusi comportamenti offensivi e celebrazioni legate a Hitler
La guerra fra Israele e Hamas ha messo a dura prova non solo gli equilibri geopolitici, ma anche la pacifica convivenza nell’Europa Settentrionale. Sembrano lontani i giorni del Febbraio 2015, quando da un episodio di cieca violenza nacque un gesto spontaneo in grado di riconciliare due pezzi di umanità oggi in frantumi. Il 14 febbraio 2015 era avvenuto l’omicidio del regista danese Finn Nørgaard per mano dell’estremista islamico Omar El Hussein, un seguace della moschea Al Faruq di Copenhagen e dei sermoni dell’imam antisemita Mundhir Abdallah. Pochi minuti dopo la mezzanotte, El Hussein si era avvicinato alla Sinagoga di Krystalgade uccidendo Dan Uzan, l’addetto alla sicurezza che presidiava il luogo di culto durante lo svolgimento di un Bat Mitzvah. Fu in quel momento che, a Oslo, la giovanissima Hajrad Ashad, di soli diciassette anni, decise di creare un gruppo social dove riunire altri giovani musulmani desiderosi di mostrare solidarietà nei confronti della comunità ebraica della capitale norvegese. Nel giro di pochi giorni, venne organizzata una veglia in difesa della Sinagoga di Bergstien.
L’episodio è stato particolarmente significativo anche in virtù dei numeri che caratterizzano la comunità musulmana e quella ebraica: in tutto il Nord Europa vivono circa trentamila ebrei a fronte di 1.3 milioni di musulmani. In Svezia e in Danimarca il rapporto è più equilibrato, con un ebreo ogni quaranta musulmani, mentre in Norvegia, complici le ridotte dimensioni della comunità ebraica, il rapporto è addirittura di 1:236. Per fare un raffronto, in Italia è 1:81 mentre in Francia, il paese europeo in cui entrambe le comunità sono prevalenti, si arriva a un rapporto di uno a sei.
Con questi numeri, cambia significativamente anche l’impatto delle iniziative pubbliche: numerose le proteste a favore della Palestina, con toni che variano dalla richiesta di un cessate il fuoco all’aperta ostilità nei confronti degli ebrei, mentre quelle a sostegno di Israele o della comunità ebraica passano decisamente in secondo piano anche in termini di partecipazione.
Già nelle ore successive agli attacchi del 7 ottobre, quando neppure si conosceva con esattezza la portata del massacro operato da Hamas, nel quartiere di Rosengård, a Malmö, la terza città del paese noto per aver dato i natali a Zlatan Ibrahimovic, si sono verificati dei caroselli di auto con bandiere palestinesi al vento. Contrariamente agli eventi collegati alle imprese del campione svedese, non si trattava di celebrazioni sportive, ma dei frutti di una propaganda antisemita che ha attecchito particolarmente bene, non solo fra le persone di origine palestinese. A Oslo, una settimana dopo, poco più di cinquecento persone si sono radunate di fronte al parlamento per esprimere solidarietà a Israele mentre una manciata di facinorosi cercava di aggredirle. A Stoccolma, la settimana scorsa, la principessa ereditaria Vittoria ha visitato in forma privata la Sinagoga.
Il rabbino capo di Copenhagen, Jair Melchior, pochi giorni fa è stato accerchiato, spintonato e ha ricevuto sputi da un gruppo di persone che lo aveva notato mentre scendeva dal treno indossando la kippah. Melchior si stava recando presso gli studi televisivi di TV2 dove ha successivamente discusso l’impennata di episodi di antisemitismo. Un altro esempio è arrivato lo scorso 9 novembre. Solo a Copenhagen la partecipazione è stata considerevole: la marcia per la memoria della Kristallnacht ha visto la presenza di circa quattromila persone e della premier Mette Frederiksen.
A Oslo, invece, la marcia è diventata elemento di profonda divisione politica, tanto che la Mosaiske Trossamfunn, l’organizzazione che riunisce i circa settecentosettanta ebrei norvegesi, non ha partecipato all’annuale corteo assieme al Centro per l’Antirazzismo. La comunità ebraica ha onorato la commemorazione presso la Sinagoga, mentre il corteo ha visto la partecipazione di attivisti e simpatizzanti di partiti apertamente pro-palestinesi. A Bergen, un’ esponente del Partito Rosso, la formazione erede del Partito Comunista, ha approfittato dell’occasione per esporre, kefiah al collo, un attacco a Israele. I timori per la sicurezza, invece, hanno imposto la cancellazione dell’evento a Stoccolma.
A Malmö, la situazione nelle scuole è molto seria secondo l’assessora all’istruzione Sara Wettergren (Liberali): «Ogni conflitto fra Israele e Palestina finisce direttamente nelle classi: alcuni celebrano Hitler, fanno il saluto nazista, sostengono che la Shoah non sia mai avvenuta». Nella stessa città, la coordinatrice cittadina dei Giovani Ebrei, Mira Kelber, ha riferito di essere una delle pochissime persone a esporre simboli ebraici, come la catenina con la Stella di David che porta al collo.
Il giovane attivista ebreo Daniel Poohl ha riferito di temere la diffusione di odio religioso attraverso le piattaforme social: «Il flusso dei miei canali social è pieno di messaggi di odio antisemita e islamofobo: l’algoritmo ha capito che sono una persona interessata al conflitto e mi propone tutto il contenuto disponibile, senza nessun tipo di filtro».
Un raggio di speranza arriva da una manifestazione organizzata congiuntamente dall’ebreo Aron Tendler e il palestinese Bassem Nasr, che hanno invitato la cittadinanza ad accendere una serie di candele nella piazza principale della città per onorare la memoria delle vittime civili indipendentemente dalla loro origine.
Profezia di sventura. L’inesorabile sentimento antisemita globale dopo il pogrom del 7 ottobre. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Novembre 2023
Purtroppo solo pochi hanno avuto la freddezza di capire subito che avremmo assistito a un’incessante comunicazione pro Hamas e alle stelle di David dipinte sui muri
Non serviva nemmeno lungimiranza. Chi aveva occhi per vedere, chi aveva abbastanza intelligenza per capire, freddezza sufficiente per stare attento, senza farsi distrarre da erronee speranze contrarie, alle nove di mattina del 7 ottobre sapeva già tutto. Tutto. Sapeva delle prime pagine goebbelsiane che sarebbero state pubblicate il giorno dopo e tutti i giorni dopo. Sapeva delle sinagoghe che sarebbero state assaltate e dei cimiteri incendiati. Sapeva delle stelle e delle svastiche che sarebbero state dipinte sulle case e sui negozi. Sapeva dei cortei “per la pace” che sarebbero culminati nel grido antifascista «Fuori i sionisti da Roma”».
Sapeva degli aeroporti e degli alberghi trasformati in riserve di caccia all’ebreo. Sapeva delle pietre d’inciampo abbruciate. Sapeva del liceo romano in cui il professore avrebbe appiccicato la stella al ragazzino e sapeva della stampa che avrebbe reclamato garantismo per quel docente.
Sapeva del maiale dell’Onu secondo cui il 7 ottobre non viene dal nulla. Sapeva delle avvocatesse farlocche che avrebbero celebrato il diritto alla resistenza degli sgozzatori. Sapeva che lo slogan “dal fiume al mare”, nel giro di qualche settimana, avrebbe cessato di essere il vagheggiamento dei terroristi e si sarebbe trasformato nel legittimissimo programma accreditato dal collaborazionismo pacifista.
Sapeva della grande battaglia democratica rivolta a dimostrare che un conto è tagliare la gola a un neonato e un altro conto è decapitarlo. Sapeva che un conto sarebbe stato stracciare i volantini con le facce degli ostaggi e un altro conto sarebbe stato rimuoverli e deporli nella monnezza. Sapeva che l’orgasmo di indifferenza del pacifista per il massacro del 7 ottobre sarebbe finito nell’erezione dello sdegno per i civili uccisi, ma a patto che potesse chiamarsi genocidio, a patto che ci fossero ospedali e chiese attaccati per la deliberata intenzione di sterminare chi ci è dentro, a patto che il crimine fosse riferibile a una condotta terroristica, come quella della controparte che però è resistenza.
Sapeva che il culmine dell’infamia di oggi avrebbe domani fatto da base per un’infamia supplementare e più grande. Sapeva che sapere tutto questo non sarebbe servito a nulla, se non a sapere che tutto questo tempo, tutto il tempo delle retoriche «Mai più», come si sapeva, è passato per nulla.
Una cosa tuttavia avrebbe potuto sperare chi avesse guardato allo scempio del 7 ottobre, e a tutto ciò che prometteva, con la necessaria avvedutezza: avrebbe potuto sperare che non sarebbero stati così pochi a vedere e dunque a sapere. Perché sapeva che, se non fossero stati così pochi, le promesse del 7 ottobre, almeno le più indecenti, non sarebbero state mantenute.
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” - Estratti martedì 28 novembre 2023.
Di Dominique de Villepin si ricorda soprattutto il celebre discorso all’Onu del 14 febbraio 2003, quando da ministro degli Esteri annunciò che la Francia non avrebbe partecipato alla guerra in Iraq.
(...) Oltre vent’anni dopo, lasciata la politica e inaugurata una carriera di consulente per, tra gli altri, le monarchie del Golfo, il prestigio di Villepin è intatto ma, dopo il 7 ottobre, la sua prudenza viene meno. Dopo diversi interventi particolarmente critici nei confronti di Israele, Villepin è andato oltre e ha ripreso un grande classico dell’antisemitismo di ogni tempo, associando gli ebrei a una presunta cupola finanziario-mediatica che dominerebbe il mondo.
A proposito dell’esclusione dell’attrice messicana Melissa Barrera dal cast del film americano Scream VII, perché aveva accusato Israele di genocidio e pulizia etnica, Villepin ha condannato «il dominio finanziario sui media e il mondo dell’arte, della musica, che pesa molto, perché le persone non possono dire quello che pensano, semplicemente perché altrimenti i contratti si fermano immediatamente. È chiaro che la norma finanziaria imposta oggi negli Stati Uniti, nella vita culturale, pesa molto. Purtroppo le vediamo anche in Francia».
Dopo le polemiche ieri Villepin si è difeso dicendo che «tutte le vie portano a Roma ma non tutte le vie della critica portano all’antisemitismo», spiegando che voleva solo denunciare la violenza del pensiero unico negli Stati Uniti.
(...) Al di là delle critiche più che legittime al governo israeliano — non risparmiato certo dagli stessi israeliani, per esempio sul giornale Haaretz —, colpisce il tono ormai privo di attenzioni di alcuni leader occidentali, del passato e del presente. Dall’ex ministro e premier Villepin, ai primi ministri attuali Pedro Sánchez (Spagna) e Alexander De Croo (Belgio), che si sono conquistati il plauso della stessa Hamas per le «prese di posizioni chiare e audaci» contro le operazioni militari a Gaza, in Europa si diffonde un clima di preoccupante insofferenza senza complessi.
Capuozzo:“La sinistra dei kibbutz e la destra ex fascista a braccetto nell’odio per gli ebrei”. Domenico Pecile su L’Identità il27 Novembre 2023
Toni Capuozzo di recente ha ottenuto il Premio Valore 2023 per i Diritti umani, assieme ad altri nomi illustri, “per l’impegno profuso nella ricerca di un linguaggio attuale, a metà tra l’esperienza dei padri e l’impeto delle nuove generazioni, affinché i giovani possano esprimere un giornalismo libero, alimentato dalla curiosità e dall’umiltà”. Un riconoscimento per il suo impegno in prima linea come inviato di guerra. Una pluridecennale esperienza, quella di Toni Capuozzo, che gli conferisce tutti i titoli per spiegare le guerre, quelle passate e quelle attuali.
Partiamo da una buona notizia e cioè dalla tregua raggiunta tra Israele e Hamas.
È già qualcosa. Ogni tregua è sempre benvenuta. Purtroppo però è e resterà soltanto una tregua perché entrambe la parti stanno già affilando le armi per la seconda fase che ovviamente ha obiettivi contrapposti.
E ora quale sarà l’obiettivo di Israele?
L’obiettivo dichiarato già all’indomani del 7 ottobre è la distruzione di Hamas le cui milizie e il cui quartier generale si sono spostati necessariamente a Sud della striscia di Gaza dopo le sconfitte subite a Nord. La trincea di Hamas si trova adesso a Kan Yunis, città palestinese con annesso campo profughi.
Hamas come intende controbattere a questa fase che si preannuncia altrettanto cruenta ?
Resistere il più a lungo possibile lavorando psicologicamente sugli ostaggi. Dopo la liberazione ne rimangono 236. Hamas confida nella pressione dei parenti ma soprattutto nel mondo intero affinché fermi il gruppo dirigente israeliano. Ma sa di dover scendere a patti perché sta subendo pesantissime sconfitte anche se canterà vittoria per avere costretto Israele a negoziare.
Quale sarà l’esito di questa seconda fase?
Che Israele distruggerà Hamas. Ma dopo dovrà confrontarsi con una qualche autorità palestinese.
Quindi a quel punto Hamas sarà costretto a restare isolato dato che l’auspicato supporto dell’Iran non è arrivato?
L’Iran sa perfettamente che un suo intervento gli costerebbe troppo caro. Anche perché è costretto quotidianamente a fare i conti con le proteste intere. Sì, per Hamas arriverà la sconfitta definitiva. Anzi, rischia di scomparire.
Questa fase che dovrebbe portare alla debacle di Hamas quanto potrebbe durare?
Mah, altri due mesi. Israele aveva affermato che la guerra sarebbe stata lunga, ma alla luce dei risultati che ha conseguito a Gaza nord ora quelle previsioni saranno necessariamente riviste al ribasso anche perché, come dicevo, Hamas pare destinato all’isolamento.
Alla fine della guerra quale sarà il futuro del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu?
Credo abbia i mesi contati. Finito il conflitto va a casa. A questo punto vorrà passare alla storia come quello che ha vinto la guerra più difficile. Ma lascia la grande macchia del 7 ottobre, quando si è fatto sorprendere dai terroristi di Hamas, la contesta vicenda della riforma sulla Giustizia e alcune macchie di sue vicende personali.
La reazione militare durissima di Israele che coinvolge anche i civili ha ridato ossigeno al virus dell’antisemitismo. Israele ha valutato queste conseguenze e si deve preoccupare del clima politico mondiale?
L’ex premier israeliano e prima donna a guidare il suo Paese, Golda Meir, è passata alla storia anche per una frase che bene si addice alla guerra in corso contro Hamas. Eccola: “Preferiamo raccogliere le vostre lamentele piuttosto che le vostre condoglianze”. Era prevedibile però che la risposta militare molto dura facesse risorgere un antisemitismo dormiente. Ma Israele preferisce questo rischio piuttosto che rivivere un altro incubo come quello del 7 ottobre.
Un antisemitismo che, oltre a essere trasversale, sta accomunando settori della Sinistra e della Destra. Come lo spieghi?
Una parte della Sinistra per anni ha vissuto con favore l’esperienza socialisteggiante dei Kibbutz, mentre un’altra negli ultimi decenni è sempre stata al fianco della resistenza palestinese. La destra ex fascista o addirittura nazista ha sempre odiato gli ebrei, a prescindere. E così, in questa occasione i due estremismi vanno a braccetto.
Due popoli e due Stati, dunque?
Questa è l’unica soluzione possibile, ma adesso è irrealizzabile. Prima Hamas deve essere sconfitto del tutto e poi c’è da risolvere anche la questione dei coloni. E mentre nella striscia di Gaza si muore, ci si dimentica dell’altra mattanza: la guerra tra Ucraina e Russia. Ma quella era già finita nel dimenticatoio. È un conflitto senza sbocco perché la situazione è di stallo permanente.
Mediterraneo conteso. L’antisemitismo dilaga a causa delle bugie storiche contro gli ebrei, dice Maurizio Molinari. Linkiesta il 24 Novembre 2023
Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha inaugurato la quinta edizione de Linkiesta Festival, spiegando il ruolo strategico italiano nel Mare Nostrum e denunciando gli atti contro Israele: «La violenza contro gli ebrei cerca sempre una legittimazione e si giustifica con le bugie storiche. Quella di oggi è la sovrapposizione di Hamas con la causa palestinese»
Per anni abbiamo creduto che l’Oceano Pacifico sarebbe stato per sempre il vero mare conteso. Forse perché è il teatro di scontro delle due grandi potenze mondiali che lì si affacciano, Cina e Stati Uniti, della potenza regionale che non accetta il suo status, la Russia, e della scheggia impazzita abituata a far passare sopra il Giappone i missili nucleari, la Corea del Nord. Il Mediterraneo era considerato poco più che un grande lago; aveva mostrato i suoi fasti tra Mondo Antico e Medioevo per lasciare poi centralità all’Atlantico nell’età Moderna. Come spesso succede, la storia ha avuto più fantasia degli analisti geopolitici. L’invasione russa in Ucraina del 2021 e la strage terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023 continuano a rendere il Mediterraneo un luogo centrale nell’agenda globale. Un’area strategica anche per la Cina che cerca con tenacia di penetrare commercialmente nei porti mediterranei con la Via della Seta.
«Il carattere strategico del Mediterraneo è talmente complesso che ha bisogno di dieci mappe per essere davvero capito. L’elemento in comune di queste mappe intersecate tra loro è che l’Italia ne è quasi sempre al centro. Siamo una grande portaerei in mezzo al Mediterraneo. E le tre grandi potenze in competizione fra loro, la Russia per costruire la propria presenza nei mari del Sud, la Cina per imporre la Via della Seta e gli Stati Uniti per difendere le democrazie e l’Occidente hanno bisogno del nostro territorio, delle nostre acque. Non in maniera figurata, ma reale. Negli ultimi anni abbiamo assistito a infiltrazioni maligne di agenti russi e cinesi così frequenti nel nostro Paese perché Russia e Cina hanno bisogno del nostro spazio per costruire i loro disegni strategici», spiega Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, autore di “Mediterraneo conteso. Perché l’Occidente e i suoi rivali ne hanno bisogno” (Rizzoli), e primo ospite della quinta edizione de Linkiesta Festival “E tutto il mondo fuori”.
«Ciò che accade sotto il Mediterraneo conta forse più di ciò che avviene in superficie. I suoi fondali sono lo spazio geostrategico attraversato da tutti i cavi più importanti attraverso i quali corrono i dati del pianeta. Collegano Asia, Africa ed Europa, ma anche l’estremo oriente al Nord e Sud America. Se uno deve mandare una informazione da Pechino a Washington lo fa attraverso il Mediterraneo perché sotto il Pacifico ancora questi cavi non ci sono. E tutti i maggiori cavi toccano la Sicilia, il cuore strategico del Mediterraneo. Gli italiani non sono consapevoli abbastanza di questo ed è opportuno discuterne nel nostro paese. Il governo italiano, indipendentemente dal colore politico, deve essere consapevole di questa situazione creata a prescindere dalla nostra volontà ma chiara a tutti gli analisti, per elaborare una strategia bipartisan che tuteli l’interesse nazionale e renda l’Italia protagonista».
Secondo Molinari la Russia ha aggredito l’Ucraina per diventare una potenza del Mediterraneo. Il culmine di una strategia che ha portato Mosca a intervenire prima nella guerra in Siria, poi a creare basi in Libia e infine insediarsi nel Sahel con il gruppo dei mercenari della Wagner. E con il pogrom di Hamas del 7 ottobre, Vladimir Putin ha visto la possibilità di distogliere l’attenzione degli Stati Uniti e del mondo libero sul conflitto e i crimini umanitari commessi contro gli ucraini. Ed è per questo motivo che si è subito schierato con il gruppo terroristico palestinese. «A Putin importa solo di Putin. La sua è una strategia regionale per indebolire l’Occidente e c’è grande preoccupazione nella amministrazione americana perché la brigata Wagner ha promesso antimissili a Hezbollah. Se li ricevessero sarebbe difficile per Israele e per gli Stati Uniti operare in Libano e in Siria».
In queste ore assistiamo alla momentanea tregua per permettere il rilascio di alcuni ostaggi rapiti da Hamas. «Per la prima volta dal 7 ottobre viviamo in attimo in cui in entrambe le parti, tutti coloro che hanno subito le violenze stanno respirando. Respirano le famiglie israeliane che stanno ricevendo gli ostaggi. Respirano i civili di Gaza usati come scudi umani da Hamas. Chiunque ha vissuto i conflitti sa che questo è un momento cruciale da vivere fino in fondo perché nessuno sa quanto ancora durerà. Potrebbe finire stanotte, domattina, potrebbe durare quattro giorni o nessun giorno», spiega Molinari.
«Viviamo un paradosso: per settanta anni abbiamo parlato di guerra arabo-israeliana ma la realtà è che gli israeliani da anni non sono in guerra con i paesi arabi. Il vero nemico è l’Iran», commenta sul palco il direttore de Linkiesta, Christian Rocca, moderatore dell’evento. «Ci sono due campi in Medio Oriente: quello della pace ruota intorno agli Accordi di Abramo, siglati da Israele con diversi paesi arabi per una riconciliazione e credo ci sia ancora spazio per allargarlo all’Arabia Saudita. Una mossa che potrebbe risolvere il conflitto israelo-palestinese con la mediazione degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Dall’altro c’è il campo della guerra: l’Iran e Hamas che vogliono far fallire questo accordo», chiarisce Molinari.
Secondo il direttore di Repubblica «L’Iran sta muovendo una serie di pedine militari per assediare Israele: Hamas dalla Striscia di Gaza, Hezbollah che lancia missili dal Libano, gli Huti, i ribelli yemeniti filoiraniani sciiti che lanciano ogni notte droni e le agguerrite milizie sciite irachene che hanno tentato di sfondare il confine con la Giordania e ora sono in Siria, avvicinandosi al Golan. Sono missili per ora intercettati dagli americani ma che hanno la capacità di polverizzare gli obiettivi. Immaginate se fossero diretti verso Tel Aviv. Questo è uno strangolamento progressivo. Teheran non ha fretta, sta cercando di premere militarmente ogni confine di Israele per far sentire in pericolo i civili. Una situazione simile alla guerra del 1948 perché ogni pezzo di Israele è potenzialmente sotto attacco. Il blocco politico degli Accordi di Abramo tiene, ma solo perché i paesi mediorientali temono l’Iran. E sanno che se l’Iran vincerà questa guerra a distanza anche loro saranno in pericolo e sotto l’influenza iraniana».
Le dimostrazioni antisemite in Europa e negli Stati Uniti, in cui i manifestani equiparano gli ebrei ai nazisti, secondo Molinari sono figli di una retorica propagandistica creata per la prima volta dal Kgb, il servizio segreto russo, quando l’Unione sovietica si schierò con i paesi arabi nella guerra dei sei giorni del 1967. «Il fatto che siano stati arrestati dei russi e dei moldavi per le stelle di David disegnate nelle case degli ebrei francesi pone a tutti noi un interrogativo atroce: nella guerra ibrida di Putin contro le democrazie per dividerle dall’interno la Russia sta giocando la carta dell’antisemitismo». Un po’ come i protocolli dei Savi di Sion, creati dalla polizia segreta russa, come ricorda sul palco Christian Rocca.
«La storia ci insegna che ogni volta che l’antisemitismo dilaga lo fa attraverso una bugia popolare. Le crociate si basavano sul deicidio degli ebrei a cui tutti credevano. Quando i cosacchi dello zar facevano i pogrom durante le feste ebraiche, il giorno dopo nella chiesa del villaggio vicino allo shtetl devastato e bruciato, il Pope di turno diceva che so lo erano meritato perché avevano rubato galline o commesso stupri. E tutti credevano alla bugia che legittimava il pogrom. I nazisti incolpavano gli ebrei del disastro della Germania nella Prima guerra mondiale. La violenza contro gli ebrei cerca sempre una legittimazione e si giustifica con le bugie storiche. Quella di oggi è la sovrapposizione di Hamas con la causa palestinese. Hamas è una organizzazione terroristica che vuole la distruzione di Israele. E il popolo palestinese è rappresentato dall’Autorità nazionale palestinese figlia degli Accordi di Oslo siglati da Yasser Arafat con Rabin e Peres, che prevedono il reciproco riconoscimento. Non è un caso che Hamas voglia anche la distruzione dell’Olp. Hamas è contro il popolo palestinese. Ma tutti credono alla bugia che i terroristi rappresentano i palestinesi. Una bugia che legittima ed esalta la violenza. Bisogna smentire queste bugie con la conoscenza, generando gli anticorpi».
La caccia agli ebrei. Il nazismo non è una pagina di storia, ce l’abbiamo in casa. Di nuovo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 24 Novembre 2023
Per lungo tempo l’antisionismo è stato la maschera dietro cui si nascondeva l’antisemitismo. Ma, proprio ora che abbiamo assistito al più grande pogrom antiebraico dai tempi del ghetto di Varsavia del 1942, nelle piazze europee, nei college americani e nei talk show italiani è caduta persino questa maschera
Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 17 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia
Ormai l’antisemitismo europeo e occidentale non si nasconde più dietro l’antisionismo, come capitava trent’anni fa quando si dibatteva degli accordi di Madrid o di Oslo, delle proposte di pace, di Yasser Arafat che diceva una cosa in inglese e un’altra in arabo, di Israele che reagiva agli attacchi oppure lasciava i territori occupati.
Anche allora non si arrivava mai a una soluzione che non fosse temporanea, chi diceva per colpa dell’uno e chi diceva per colpa dell’altro, con gli opposti estremismi che arrivarono a uccidere il premier israeliano Yitzhak Rabin, esattamente come avevano sempre fatto gli arabi, vedi Anwar al Sadat, con chi dopo aver combattuto la guerra finalmente capiva che sarebbe stato meglio fare la pace. Ma, perlomeno sul terrorismo, sui pogrom, sullo sterminio degli ebrei si riusciva a mantenere un livello minimo di decenza (salvo eccezioni).
Da sempre l’antisionismo è soltanto una scusa per intendere altro, riconosciuta da chiunque avesse un poco di sale nella zucca. Mattia Feltri ha ricordato sulla Stampa Martin Luther King che diceva «quando qualcuno attacca il sionismo attacca gli ebrei, questa è la verità di Dio» e Amos Oz che ha scritto come prima dell’Olocausto gli slogan che si leggevano sui muri delle strade europee fossero “sporchi ebrei tornate in Palestina”, mentre dopo la guerra sono diventati “sporchi ebrei fuori dalla Palestina”.
Del resto è già stravagante l’idea che possa esistere un movimento globale contrario all’esistenza di uno Stato, visto che non ci sono esempi altrettanto eclatanti, e radicati nel tempo, paragonabili soltanto a quella mobilitazione permanente contro qualsiasi governo di Israele, fosse esso di destra, di sinistra, di centro, pacifista, moderato o estremista. E qual è l’unicità di Israele, rispetto a qualsiasi altro Paese del mondo, se non l’essere lo Stato degli ebrei?
Niente però è paragonabile a cosa si vede sfilare adesso nelle piazze europee, nei college americani e nei talk show italiani, con l’invito esplicito a buttare a mare «l’entità sionista» e a ripulire il mondo dagli ebrei, in nome della contestualizzazione di che cosa è accaduto il 7 ottobre 2023.
Non è che ci sia granché da contestualizzare di fronte al più grande pogrom antiebraico dai tempi del ghetto di Varsavia del 1942, in particolare in un’epoca in cui la capacità di concentrazione è ridotta al tempo di un reel su Instagram, figuriamoci allo studio della storia di tremila anni fa, di settantacinque anni fa, di vent’anni fa o di quando Hamas, dopo l’uscita di Israele da Gaza, ha fatto un colpo di Stato nella Striscia, vinto una guerra civile contro i rappresentanti dell’Autorità nazionale palestinese e istituito uno dei regimi più reazionari e violenti sulla faccia della Terra.
Quelli che sfilano e cantano slogan osceni contro Israele e contro gli ebrei non sanno che Israele da Gaza si è ritirata nel 2005, non sanno che Israele ha rimosso con forza gli israeliani dagli insediamenti che avevano costruito, non sanno che ai palestinesi sono stati lasciati palazzi, fattorie, fabbriche, strade, servizi da nazione innovativa e moderna, e non sanno che Hamas ha preferito distruggere, radere al suolo tutto e armarsi fino ai denti piuttosto che dare un futuro diverso agli abitanti di Gaza.
Venti anni fa il dibattito non era come quello di adesso, soprattutto quando è scoppiata la seconda Intifada, non quella delle pietre lanciate contro i carriarmati, ma quella con gli shahid, i martiri di Hamas, che con gli attacchi suicidi facevano strage di giovani israeliani a decine, assieme ai continui lanci di razzi dalla Siria e dal Libano, quando l’islamizzazione del mondo arabo aveva preso il sopravvento anche nei Territori palestinesi, teatro di battaglia della più larga guerra intra-islamica tra i sunniti dell’Arabia Saudita e gli sciiti dell’Iran su chi dovesse guidare il mondo musulmano.
Le stragi islamiste dell’11 settembre 2001 e la reazione americana hanno fatto conoscere al mondo occidentale l’odio assoluto che Israele era costretto ad affrontare quotidianamente e hanno spostato l’attenzione dal conflitto israelo-palestinese all’Iraq e all’Iran, dove i due Islam hanno concentrato la doppia guerra, quella interna e quella contro l’Occidente, consentendo a Israele di contenere la questione palestinese, improvvisamente non più centrale per i burattinai del mondo musulmano.
La guerra ideologica islamica, che dura da cinque secoli, negli ultimi vent’anni si è diffusa in tutto il mondo arabo, anche sotto forma di opposizione interna agli ayatollah iraniani, con stragi infinite ed esodi biblici. Lo scoperchiamento del vespaio musulmano dopo l’11 settembre 2001 ha creato instabilità ovunque, ma ha avuto anche un effetto positivo di lungo termine, potenzialmente epocale, il principale dei quali è il lento cambiamento in corso in Arabia Saudita. Il regno dei Saud si è trasformato lentamente da cosca mafiosa finanziatrice dell’estremismo islamista in Medio Oriente e in Occidente in cosca mafiosa che, come Al Pacino nel Padrino – Parte II, prova a legittimarsi e a liberarsi delle attività criminali che mettono il mondo sottosopra.
Vent’anni dopo l’11 settembre 2001, l’Iran è isolato dal mondo civile (la Russia è mondo incivile) e i sauditi hanno deciso di diversificare la propria ideologia, non solo la propria economia, aprendosi in modo controllato e autoritario al resto del mondo sull’esempio degli Emirati arabi.
Quello che è successo in Israele il 7 ottobre 2023 è la conseguenza della scelta saudita di allacciare relazioni diplomatiche con Israele e di chiudere una volta per tutte il conflitto arabo-israeliano con gli Accordi di Abramo, ma è la conseguenza anche della reazione dell’Iran e del Qatar.
Iraniani e qatarini hanno utilizzato le milizie di Hamas e di Hezbollah, pedine di un gioco ben più grande del destino di Gaza, per assicurarsi la fine del processo di pace e la continuazione della guerra. L’Iran vuole esportare la rivoluzione sciita e guidare il mondo musulmano, il Qatar vuole prendere il posto dell’Arabia Saudita come faro dell’Islam sunnita, sicché entrambi finanziano il terrore islamista e provano ad etichettare la scelta saudita come un tradimento dell’Islam.
Nei giorni successivi al massacro del 7 ottobre è circolato sui social l’estratto di un’intervista al leader di Hamas, Khaled Meshal, condotta da una giornalista di Al Arabiya che ha sottolineato tutte le contraddizioni del gruppo islamista che finge di rappresentare la causa palestinese, quando invece ha compiuto una strage di innocenti israeliani.
I giornali hanno sottolineato la bravura della giornalista, indiscutibile, ma con la solita superficialità non hanno notato che quella non è una tv libera, ma di proprietà della famiglia reale saudita che l’ha fondata per contrastare l’Al Jazeera qatarina, e che l’intervista rappresenta la posizione di Riad contraria all’escalation voluta da Iran e Qatar. Ed è un segnale molto importante, molto più delle capacità giornalistiche di una conduttrice televisiva, se si vuole davvero trovare una soluzione pacifica.
La reazione di Israele è pesante e ha già provocato numerose vittime civili, che andrebbero protette a prescindere dalla nazionalità o dalla religione, ma al fondo la differenza tra i duellanti di questa guerra è semplice e non può essere giudicata con una scrollata di spalle: Hamas, Hezbollah, Jihad Islamica, Stato islamico e alcuni Paesi musulmani non nascondono di voler uccidere gli ebrei, tutti gli ebrei né di voler cancellare il loro Stato, mentre gli israeliani per quanto si possa giudicarli prepotenti, stronzi o insensibili vogliono solo vivere in pace e in sicurezza.
Eppure questa semplice realtà non è tema di dibattito pubblico. Al contrario, studenti e adulti scendono in piazza cantando lo slogan genocida «Palestina libera dal fiume al mare», ovvero senza Israele, e non li vedi mai marciare per i diritti delle ragazze iraniane negati dai padrini di Hamas né per i diritti dei palestinesi sotto il giogo islamista, figuriamoci per la resistenza eroica degli ucraini all’imperialismo degli amici russi di Hamas.
Scendere in piazza senza denunciare la strage del 7 ottobre 2023 e inneggiando ad Hamas vuol dire solo riaprire la caccia agli ebrei. Di nuovo. Strappare le foto dei duecento ostaggi israeliani appese sui muri delle città occidentali, se possibile, è ancora più immorale. Che cosa può spingere un essere umano a strappare le foto di persone innocenti tenute prigioniere solo in quanto ebrei, se non a confermare che uno dei due contendenti di questa guerra vuole soltanto l’annientamento totale dell’altro? E se a farlo, come abbiamo visto nelle scorse settimane, sono gli studenti occidentali vuol dire che il nazismo non è una pagina di storia, ma ce l’abbiamo in casa. Di nuovo.
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L'antisemitismo è di sinistra, la conferma: per 7 compagni su dieci in Israele sono nazisti. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 21 novembre 2023
C’è un metodo infallibile per riconoscere un antisemita oggi, anno 2023. Se qualcuno sostiene che Israele agisce come agirono i nazisti, è invariabilmente un antisemita. Spesso un antisemita istruito, che ostenta i buoni sentimenti e la “r” arrotata nei salotti intellettuali, non il genere grezzo e nostalgico. Quindi un antisemita più insidioso, perché relativizza la Shoah rivoltandola contro chi la subì, e nega la chiave escogitata dalla contemporaneità per impedirne un’altra: l’autodeterminazione del popolo ebraico in uno Stato libero, forte e sicuro. Questa versione attuale dell’antisemitismo è diffusissima nel Belpaese (e in tutto l’Occidente, vedi l’indegna gazzarra pro-Hamas andata in scena nei campus americani) e si colloca in gran parte a sinistra.
Lo conferma una volta di più un dettagliato rapporto diffuso ieri dall’Istituto Cattaneo, non esattamente una sede distaccata di Libero. Sotto il titolo «Studenti universitari, ebrei e Israele prima e dopo il 7 ottobre» viene presentata una ricerca condotta in tre grandi atenei del Nord: Milano Bicocca, Bologna e Padova. Ebbene, i risultati sono sorprendenti anche per chi aveva già chiaro lo scarso afflato verso gli ebrei vivi, per stare sull’eufemismo, proprio da parte di chi una volta all’anno ostenta maggiormente retorica farlocca sugli ebrei morti. Il 59,7% degli studenti che si definisce “di sinistra” ritiene che «il governo israeliano si comporta con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei».
LE NUOVE SS?
Per focalizzare lo sfacelo culturale dietro l’apparente burocratismo del sondaggio: circa sei giovani “progressisti” su dieci che hanno un titolo di studio superiore e che stanno sostenendo esami universitari (verrebbe da dire un pezzo di futura classe dirigente, ma non ne abbiamo la forza) sostengono che Netanyahu e Hitler pari sono, che le Forze di Difesa israeliane valgono le Ss (le quali nella storia autentica, non in quella che circola nelle nostre aule, annoveravano piuttosto reparti islamici, notiamo qui di sfuggita). Attenzione: questa è la fotografia prima della mattanza del 7 ottobre. Dopo, dirà il lettore e il common sense con lui, la percentuale sarà senz’altro diminuita, dopo il vero e proprio pogrom in cui le squadracce che urlavano «Allah Akbar!» andavano a caccia di figli ebrei da sgozzare davanti ai padri ebrei, anche i compagni più filopalestinesi avranno avvertito il principio di realtà, la follia di sovrapporre la stella di Davide e la svastica. Macché. L’Istituto ha fatto in tempo ad aggiornare i dati, scoprendo che nelle ultime settimane il campione “di sinistra” che condivide l’equivalenza tra il governo di Tel Aviv e il Terzo Reich è schizzato vicinissimo al 70%. Citiamo dallo studio, perché lo straniamento ostacola la parola: «È dopo il 7 ottobre che cresce, tra gli studenti che si collocano a sinistra- e, seppur in misura inferiore, anche tra gli studenti che si collocano al centro-sinistra - la quota di chi equipara Israele alla Germania nazista».
VITTIME CONFUSE COI CARNEFICI
Ancora più interessante, e respingente: «La posizione di questo gruppo si è decisamente distanziata da quella della media degli studenti, e il momento in cui tale divaricazione inizia è collocabile non dopo la risposta israeliana alla strage, ma dopo la strage stessa, nei giorni immediatamente successivi». Cioè: questo abbaglio clamoroso che veste l’ebreo con la divisa bruna non è nemmeno frutto della martellante propaganda diffusa nell’ultimo mese e mezzo da quell’ufficio stampa unico di Hamas in cui si è tramutato il mainstream mediatico italiano, europeo e occidentale. No, è proprio mentre venivano seviziati, bruciati vivi, decapitati sovente in culla, che gli ebrei erano nazisti, secondo sette membri su dieci della peggio gioventù gauchista d’Italia. È un’inversione allucinata del senso, per cui quelli che Pasolini avrebbe chiamato “figli di papà” scorgono il nazista non nello scannatore di Hamas, ma nel civile scannato. Intendiamoci: dal rapporto emerge come circolino decisamente troppe tesi antisemite pure tra gli universitari di destra. L’equivalenza blasfema, che partiva comunque sensibilmente più bassa, quantomeno diminuisce dopo la macelleria islamica, come logica e umanità elementare vorrebbero. Ma vengono ripetute ancora inquietanti boiate da destra novecentesca in fez, ad esempio quella per cui «gli ebrei muovono la finanza mondiale a loro vantaggio», o l’altra per cui «gli ebrei controllano i mezzi di comunicazione».
DALLE STRADE AI TALK SHOW
La percentuale di chi risponde «sì», in ogni caso, arriva massimo a un terzo del campione, non acquisisce le proporzioni iper-maggioritarie di cui sopra. Ma soprattutto: questo antisemitismo, moralmente altrettanto repellente, è un trascinamento del passato, è un’eco sempre più residuale, basti vedere il posizionamento di Fratelli d’Italia e della maggioranza tutta sulla polveriera mediorientale. L’altro, l’antisemitismo radical che sproloquia di nuovo Olocausto a Gaza e paragonai ministri israeliani ai gerarchi hitleriani, imperversa nei talk di prima serata, rimbalza sugli editoriali dei giornaloni, viene coccolato da presunti filosofi e comprovati influencer. E sì, è un antisemitismo tutto di sinistra.
Shakira ha accettato un accordo con le autorità spagnole, nel primo giorno del processo che la vedeva imputata per frode fiscale, evitando così il rischio di una condanna al carcere. Shakira ha detto al magistrato, che presiede il processo a Barcellona, di aver accettato l’accordo raggiunto con i pubblici ministeri. In base a questo, la popstar riceverà una pena sospesa di tre anni e una multa di diversi milioni di euro. La cantante ha ammesso di non aver pagato al governo spagnolo 14,5 milioni di euro di tasse tra il 2012 e il 2014.
Visione del male. Le immagini del pogrom antisemita e le reazioni ripugnanti degli irresponsabili. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 22 Novembre 2023
C’è chi di fronte a foto e video del 7 ottobre distoglie lo sguardo, non per la violenza indicibile ma perché quelle scene obbligano a un dovere di condanna che non tutti hanno la voglia o la forza di assumere
Le fotografie e i resoconti audio e video del 7 ottobre sono interessanti non solo per quel che mostrano, ma per le reazioni che suscitano. Documentano infatti che ci sono due modi di reagire alle immagini dell’orrore, due motivazioni psicologiche e morali che spiegano la ripugnanza per la rappresentazione di quella violenza indicibile. C’è chi non ne tollera la visione perché vedere quel male gli fa troppo male, e perché ritiene che diffonderne l’immagine sia pornograficamente irrispettoso (oltre che possibile strumento di emulazione e soddisfazione per i fanatici). Ma non è tutta la platea.
C’è infatti anche chi distoglie lo sguardo da quelle immagini per tutt’altro motivo, e cioè perché esse lo obbligano a una responsabilità e a un dovere di condanna che non ha la voglia o la forza di assumere: la visione di quel male – ma ben diversamente rispetto a chi non sopporta di vederlo perché ne soffre troppo – lo “infastidisce”. Perché molesta il suo desiderio di vedere confuso quel male in una complessità ineffabile. Perché toglie fiato alla frase pacifista che non ha bisogno di indugiare sui dettagli del male giacché si fa carico di tutto il male del mondo. Qui e altrove ho più volte indugiato, volutamente, e ogni volta provando ribrezzo nel farlo (spiego tra poco quel senso di ribrezzo), su alcune delle immagini del 7 ottobre.
La belva che infila un palo di ferro nel cranio di un cadavere trascinato nella polvere, passando per le parti molli, due volte, prima piantandolo in un occhio, poi nell’altro; quella più vista e circolata, la ragazza che sbrodava sangue dai genitali, strattonata e caricata sulla jeep e onorata nelle interviste del giornalismo pluralista, quello che doverosamente concede voce a tutti, secondo cui non era mica una qualunque donna rapita – macché! – era un soldato: non lo sapete che in Israele fanno il servizio militare anche le donne? Questo abbiamo dovuto sentire.
Avrei potuto indugiare su tanto altro. Sul campo in cui i combattenti per la libertà del popolo oppresso prendono dei ragazzini, dei bambini, e li fanno inginocchiare, e i bambini implorano i macellai, e i macellai li uccidono, uno a uno, tutto nelle immagini che il pacifista infastidito non vuole vedere, le immagini che fanno la festa, che fanno la vittoria, che fanno la gioia di chi preconizza il futuro «dal fiume al mare» senza che il pacifista dica un cazzo di niente.
Dicevo poco sopra che mi fa ribrezzo scrivere di queste cose indugiando sui particolari di queste cose. Mi fa ribrezzo la pace a costo di queste cose. Mi fa ribrezzo la pace indipendentemente da queste cose. Mi fa ribrezzo chi vuole essere lasciato in pace da queste cose.
Democratici per il pogrom. Dal fiume al mare e altre oscenità antiebraiche in nome del progresso. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 17 Novembre 2023
Dopo poco più di un mese, gli atroci crimini di Hamas del 7 ottobre sembrano dimenticati. Ormai è diffusamente condivisa l’idea che la rivolta di un popolo oppresso possa giustificare la caccia ai sionisti non solo nel Medio Oriente ma anche in altre parti del mondo
Grave è già il semplice fatto che sia andata in cenere la retorica del «mai più»: ma spaventoso è il modo in cui si è realizzata la dissipazione di quella retorica. È stata la melma peciosa delle cose antiche a infiammarsi, le solite cose semplicemente riemerse e dunque reiterate e riproposte sulla scena del 7 ottobre e da lì in poi: la menzogna e la noncuranza impastata di negazionismo. In quella fogna, forgiata dalla perfettamente consapevole malafede dell’editorialista, del commentatore, dell’informatore al servizio della censura e della contraffazione, stava arrotolata l’ininterrotta catena di bugie che ormai da più di un mese si è sviluppata per lambire e imprigionare le verità semplici e scomode.
E cioè che discutere di resistenza perpetrata tramite lo sgozzamento degli inermi non si poteva, e invece si è potuto. Che condannare i bombardamenti senza condannare la riduzione dei civili a carne maciullata da rammostrare il giorno dopo non si poteva, e invece si è potuto. Che pretendere la protezione degli ospedali sottacendo o minimizzando il fatto che siano stati adibiti a rifugio dei terroristi oltre che dei malati non si poteva, e invece si è potuto. Che usare gli incivili spropositi di un ministro israeliano per riabilitare l’immagine dopotutto abbastanza denigrata del combattente che sfonda il cranio dei sionisti in culla non si poteva, e invece si è potuto. Infine, che opporre all’oltranzismo di una minoranza confessionalista il proclama «dal fiume al mare», e farlo diventare materia di ragionevole discussione, non si poteva: e invece si è potuto eccome.
Ed è questo il risultato più evidente e terribile, e insieme trascurato, dell’andazzo negazionista rinvigorito a far tempo dal 7 ottobre: che la sollevazione del popolo oppresso possa comprensibilmente avvenire a forza di pogrom, e che trionfi nella caccia al sionista non solo in quell’orlo di terra mediorientale ma ovunque, a Bruxelles come a Londra, a Parigi come nell’ottobrata romana che reclama una capitale finalmente Judenfrei.
Il tutto, con questo bell’effetto ulteriore: che la causa della giustizia, del diritto e delle libertà democratiche sarà sempre più irrimediabilmente accantonata dalla pretesa proprietaria e di origine divina sugli ettari disputati. Una pretesa capace di contaminare la parte dove democrazia, diritto e libertà ci sono ancora, e di impedire che ci siano mai dalla parte che non li ha mai conosciuti.
Bin Laden nuovo "ideologo" contro Israele. Alberto Bellotto il 17 Novembre 2023 su Il Giornale.
Dopo vent’anni, rispunta un proclama del capo di Al Qaeda. E gli odiatori social sposano le sue tesi
L’odio per Israele genera mostri. Anzi cortocircuiti che riabilitano persino Osama Bin Laden. Su TikTok è tornata virale una lettera che lo sceicco del terrore inviò all’America nel 2002, nel pieno della guerra al terrore scoppiata dopo l’11 settembre. L’hashtag #lettertoamerica in due giorni ha superato i 13 milioni di visualizzazioni. Tutto sarebbe iniziato da un video di Lynette Adkins, tiktoker americana che ha commentato un link del Guardian che riportava la missiva: «È necessario che tutti lascino quello che stanno facendo e che leggano la lettera. Vivo una crisi esistenziale». A ruota è arrivata Kiana Leröux, influencer di makeup: «Non guarderò più questo Paese nello stesso modo», ha detto in un video poi rimosso.
I commenti sotto i post hanno lo stesso tenore: c’è chi dice di aver aperto gli occhi; altri che delirano sulla morte del leader di Al Qaeda. Tra di loro pure un’attivista del partito democratico Usa. In quella lettera il principe del terrore si sofferma sulla questione Palestinese, quella che ha alimentato i tiktoker. «La creazione di Israele è uno dei crimini più grandi. Israele deve essere cancellato». Niente di diverso dalla retorica di Hamas. Eppure per molti queste parole rappresentano il manifesto di un’oppressione.
Nel suo delirio Bin Laden ripete i mantra dell’islamismo radicale: «Dietro i politici ci sono gli ebrei che controllano le vostre leggi, i media e l'economia». Ideologia banale e pericolosa ma che dà ai tiktoker la sensazione capire cosa succede in Medio Oriente. Il cortocircuito di una generazione che prende come vangelo le parole del responsabile del più grande attentato sul suolo americano.
Il Guardian ha rimosso la lettera per evitare che venisse strumentalizzata. Ma questo ha alimentato altre polemiche. Frederick Joseph, scrittore afroamericano ha sottolineato che la scelta è solo censura. Il dibattito si è poi autoalimentato e il deliro contro il complotto ebraico è aumentato. Adkins ha poi parlato di «TikTok come strumento per salvare una generazione» e si è lanciata in consigli per aprire la mente su Gaza consigliando il bizzarro documentario «We Demand Tomorrow», realizzato da un collettivo marxiasta che rilegge il dominio americano.
Vaneggiamenti che alimentano la macchina delle view e bollano Bin Laden come fine pensatore.
Non è che l’inizio, della fine. I giovani occidentali fanno diventare virale Bin Laden su TikTok (seguiranno guai seri). Christian Rocca su L'Inkiesta il 16 Novembre 2023
Migliaia di ragazzi stanno facendo circolare sui social la famigerata «Lettera all’America» con cui Osama nel 2002 ha rivendicato le stragi islamiste in America e denunciato l’influenza nefasta degli ebrei. Una deriva sconcertante, ma coerente con il recente entusiasmo per Hamas nelle piazze e nel dibattito pubblico
Siamo stati tra i pochissimi ad accorgerci subito che i cortei, le manifestazioni, il dibattito sulla guerra scatenata da Hamas contro Israele avevano preso una piega oscena, inaudita e lontanissima da quello che per decenni è stato il duro ma legittimo scontro ideologico tra le ragioni dello Stato di Israele e quelle altrettanto comprensibili dei palestinesi.
Mai prima del 7 ottobre 2023 le piazze europee e americane si erano schierate a favore delle ragioni dello sterminio degli ebrei, perché questo è il senso esatto della piattaforma «Palestina libera dal fiume al mare» invocata nei cortei a prescindere se i manifestanti ne siano consapevoli o no. Mai si era visto un impegno militante nelle strade occidentali a strappare con rabbia i volantini con i nomi e i volti degli oltre duecento ostaggi di Hamas, anche a cura di alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani.
Ci siamo chiesti perché lo facessero, quale stato di degrado morale potesse spingere un essere umano a stracciare la richiesta di rilasciare i prigionieri innocenti in mano ad Hamas, che cosa avesse a che fare questa palese infamia con le critiche al governo di Israele o con le rivendicazioni dei diritti dei palestinesi.
Le risposte sono state sconcertanti, una via di mezzo tra il negazionismo d’altri tempi (non c’è stato alcun raid di Hamas in Israele; non ci sono ostaggi israeliani a Gaza) e le teorie populiste del complotto (Hamas è Israele; sono stati gli israeliani a organizzare il raid) che hanno radici antiche nei Protocolli dei Savi di Sion, un’opera di disinformazione antisemita creata dalla polizia segreta russa un secolo fa, e nella più recente cospirazione secondo cui l’11 settembre 2001 sarebbe stato un «inside job» americano, di cui tutti gli ebrei erano stati avvertiti, e non opera di Osama Bin Laden e dell’islamismo radicale.
Il cerchio si è chiuso in modo scioccante su TikTok (se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere). Nei giorni scorsi, la famigerata «Lettera all’America» inviata da Osama Bin Laden ventuno anni fa, nel primo anniversario della strage delle Torri Gemelle, di Washington e della Pennsylvania che ha ucciso tremila persone, è diventata virale sul social network cinese grazie alla diffusione di migliaia di video di ragazzi occidentali apparsi sconvolti, ma anche esaltati, dall’aver scoperto che le parole di Bin Laden fossero così di buon senso, così toccanti, così vicine alla loro attuale inquietudine che li porta a cantare «Palestina libera dalla riva al mare», a strappare i manifesti degli ostaggi, e a cacciare gli ebrei.
La «Lettera all’America» di Bin Laden che i ragazzi di TikTok si scambiano voluttuosamente anche su altri social accusa l’America e gli ebrei di qualunque nefandezza del mondo, parla anche di difesa dell’ambiente, di oppressione della Palestina che necessita di essere vendicata, fino a giustificare l’assassinio degli innocenti e a proporre come unica strada di salvezza la trasformazione degli Stati Uniti in uno stato islamico.
E così, improvvisamente, per la generazione più ignorante della storia recente, non solo il progetto genocida di Hamas è molto figo, ma Bin Laden aveva ragione, aveva visto giusto, ci aveva avvertito mentre uccideva tremila persone, e noi siamo cresciuti nella menzogna e il Guardian che, preoccupato, ieri ha tolto dal sito le farneticazioni jihadiste di Osama, entrate in tendenza su Google, è la prova che l’occidente è manovrato dagli ebrei e che bisogna mobilitarsi per raddrizzare lo stato delle cose.
Benvenuti nella nuova era del grillismo diventato globale, del trumpismo in mano ai giovani, del populismo jihadista delle verità alternative. Nell’era dell’antisemitismo occidentale del XXI secolo.
Non è che l’inizio, della fine.
Lettera al mondo. L’algoritmo è scemo, ma mai quanto quelli che Bin Laden è un woke che sbaglia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Novembre 2023
Smettiamola di dare retta alla stronzata del giorno, agli umori dei giovani frignoni che lodano la guerra santa. Non è che ci possiamo aspettare che una generazione coi video da due minuti impari la storia in un posto che non sia Netflix
La vita è l’unica sceneggiatrice che non avrà mai bisogno del sussidio di disoccupazione, che non si ritroverà mai superata dalla realtà, a chiedersi perché diavolo quest’idea non sia venuta a lei.
Ne abbiamo continue conferme, e io l’ultima l’ho avuta ieri, quando le nuove puntate di “The Crown” sono arrivate su Netflix nel giorno in cui tutti, ma proprio tutti, commentavamo l’ultimo delirio della generazione che nun sape mai nu cazz’: i video su TikTok in cui ragazzi con più piglio che strumenti culturali ci spiegano che quel Bin Laden avrà pure avuto un brutto carattere, ma aveva le sue ragioni.
Se pensate che le prime puntate della stagione conclusiva dello sceneggiato sulla famiglia reale inglese, ambientate nell’estate del 1997, non c’entrino con la lettera del 2002 con cui Osama Bin Laden rivendicava gli attentati dell’11 settembre 2001, o coi giovani esseri umani che ventun anni dopo scoprono una delle molte cose che non sapevano e immediatamente si fanno un’idea della storia fin lì non studiata, significa che nel 1997 non siete stati attenti.
Non siete stati attenti quando tutti, ma proprio tutti, eravamo convinti che Diana l’avesse fatta ammazzare Elisabetta. Non poteva rischiare che la madre dell’erede al trono avesse un figlio marroncino, ci dicevamo, giacché allora avevamo più paura dei fatti che delle parole e ci azzardavamo quindi a dire che, se ti accoppiavi con un arabo, il frutto dei tuoi lombi sarebbe stato d’un impresentabile marroncino. Da qui in poi: color Bin Laden.
Eravamo gente che aveva studiato, gente che leggeva i giornali (nientemeno), i libri (addirittura), ma più di tutto: eravamo giovani. Io avevo ventiquattro piccolissimi anni, e un vantaggio di cui allora non capivo la portata: non mi si filava nessuno. Nel mio telefono non c’era una telecamera, nella società in cui abitavo non c’era uno spasmodico interesse per gente che non sapeva cosa fossero l’Irpef, la prostata, i conteggi pensionistici.
Potevo credere a tutte le teorie del complotto, bermi tutte le stronzate, essere convinta di saperla lunghissima e che i giornali non ce la raccontassero giusta: ero libera di pensare tutto, giacché le mie bislacche convinzioni non facevano notizia, nessun organo d’informazione serio riprendeva le mie chiacchiere in libertà, e nessuno era timoroso d’offendermi.
L’altra sera ho guardato un film su Prime. È un film del 2001 che probabilmente avete prima o poi visto tutti, una commedia del sottogenere «tizia che tutti credono scema giacché belloccia poi si rivela un genio», s’intitola “Legally Blonde”. In “Legally Blonde” ci sono collaboratori professionali (in inglese: associates), beni da dividersi tra ex coniugi (in inglese: assets), compiti da portare alle lezioni universitarie (in inglese: assignments).
Solo che, terrorizzati di offendere qualcuno, a Prime hanno inserito in qualche intelligenza artificiale non particolarmente intelligente l’informazione che «ass» significa «culo» e non è proprio una parola che i giovani spettatori possano vedere senza sentirsene offesi. Quindi nei sottotitoli inglesi i collaboratori diventano ***ociates, i beni ***ets, i compiti ***ignments.
La mia generazione, fatta dei peggiori genitori della storia dell’uomo, dice che i giovani d’oggi hanno ogni ragione d’essere turbati per tutt’una serie di traumi che vanno dagli attentati alle pandemie passando per l’intelligenza artificiale che li lascerà disoccupati. Guardi quei sottotitoli e pensi: ma questa intelligenza artificiale qui?
Ma anche: guardi quei sottotitoli e pensi, ma se pure ass non fosse una sillaba ma una parola, se pure un culo fosse un culo, che male farebbe? Di conseguenza, non vorrei esagerare con la mia capacità di rendermi antipatica a tutti i lettori di tutte le curve di tutte le tifoserie di tutti i dibattiti, ma: se anche questi cretinetti accendono la telecamera e dicono che in fondo Bin Laden era un bravo guaglione, importa qualcosa?
Diceva Rhett Butler – un personaggio di “Via col vento”, un film che i giovani tiktoker non hanno visto perché «Eh, ma non ero ancora nato» o perché «Orrore, non condanna lo schiavismo» – di avere un debole per le battaglie perdute, «ma solo quando sono perdute veramente». Da rhettbutleriana della primissima ora, vorrei perorare la causa di smetterla di dare retta alla stronzata del giorno, agli umori dei ventenni, ai pareri di chi accende la telecamera del telefono.
Ieri, mentre guardavo la tesi complottista di “The Crown” sulla relazione tra Dodi Al Fayed e Diana Spencer (secondo gli sceneggiatori, orchestrata da Mohammed Al Fayed, e praticamente imposta a quel giovane coglione del figlio), mi comparivano tweet (o come si chiamano ora) sui giovani fregnoni che trovano giustificazioni postume al malumore di Osama Bin Laden.
Quello che faceva più ridere era di Katie Herzog, una lesbica molto spiritosa che ha un cane e fa un podcast (quando c’erano i mestieri veri non eravamo costretti a tutti questi dettagli per contestualizzare le persone: che nostalgia del mondo prima delle telecamere nei telefoni e identità derivate).
Faceva così: «Vantaggi di Osama Bin Laden: è poliamoroso (cinque mogli); tiene alla famiglia (tra i venti e i ventisei figli); ha la barba; è alto; è di colore; è perlopiù vegetariano; ha viaggiato; ha molti interessi (poesia, cavalli, calcio, guerra santa). Svantaggi: è un boomer».
L’algoritmo non ha senso del tono, del contesto (che è d’altronde stramorto), del niente. Quindi, quando ho messo una foto di questo tweet nelle storie di Instagram, l’intelligenza poco intelligente della piattaforma mi ha avvisato che l’aveva rimossa perché promuovevo organizzazioni terroristiche, e che per la stessa ragione d’ora in poi non mi sarebbe stato permesso pubblicare contenuti sponsorizzati.
Perché io, si sa, offro sempre ai miei follower codici sconto per gli alberghi nei quali dormo a scrocco. E anche perché è una punizione congrua proibirti di, sulla stessa piazza su cui promuovi organizzazioni terroristiche, vendere barrette dietetiche.
Ora, non è che ci possiamo aspettare che una generazione coi video da due minuti impari la storia in un posto che non sia Netflix, e la cronaca in un posto che non sia il telefono. Lo so anch’io che la teoria di Tina Brown su Diana che si fa fotografare con Dodi per ingelosire il chirurgo pakistano è più interessante, ma ci aspettiamo davvero che un abitante di questo secolo legga le seicento pagine di “The Palace Papers”?
L’algoritmo è scemo, certo, ma è l’unico nutrimento culturale con cui crescono questi derelitti che già hanno vent’anni e sono quindi scemi per ragioni che la neurologia sa spiegare meglio di me; perdipiù, appunto, vivono in un contesto in cui Bin Laden è un compagno che sbaglia e «ass» è una sillaba pericolosa. Vogliamo davvero indignarci, condannarli, parlare di loro come fossero interlocutori alla pari?
Andate avanti voi. Io aspetto solo che scoprano la morte di Diana Spencer da Netflix, l’unico posto in cui guardano filmati oltre i due minuti, l’approfondimento grazie al quale scoprono le cose che non hanno letto sui giornali e che per non opprimerli ci siamo tutti – i genitori, la scuola, gli adulti in generale – astenuti dal raccontare loro.
Aspetto solo che guardino “The Crown”, vedano l’autista ubriaco e i contrattempi vari, e ci vengano a spiegare che l’ha evidentemente fatta ammazzare Elisabetta. Quella suprematista bianca che non voleva un nipotastro color Bin Laden.
Estratto dell’articolo di Mara Gergolet per corriere.it lunedì 13 novembre 2023.
Era la bambina rifugiata che aveva conquistato i tedeschi, la piccola Reem. Era palestinese, arrivata dal Libano quattro anni prima, e l’avevano scelta per parlare con la cancelliera Merkel in un incontro in una scuola. Si esprimeva in un buonissimo tedesco, aveva spiegato che il papà era senza lavoro perché non gli veniva prolungato il soggiorno dopo 4 anni. E la cancelliera aveva risposto:
«Le procedure vanno cambiate, non si può aspettare così a lungo». Ma ha anche aggiunto: «Non tutti potranno restare». E la quattordicenne Reem — di fronte all’ipotesi che la sua famiglia sarebbe potuta essere espulsa, la sua vita in Germania conclusa — è scoppiata a piangere, costringendo una sorpresa Merkel ad avvicinarsi («Ah, komm», dai suvvia) e a consolarla.
È un video che — nel 2015 — abbiamo visto tutti, è girato non solo in Germania ma è diventato globalmente virale. Tantissimi avevano simpatizzato con la piccola profuga, diventata con le sue lacrime improvvise il simbolo dei tanti che erano venuti.
Ora Reem ha 22 anni, ha ottenuto la cittadinanza tedesca, e ha appena pubblicato su Instagram un post in cui dice #freepalestine #fromtherivertothesea. Non solo, ma per essere più chiara ha aggiunto una mappa della Palestina originaria: quella che non prevede i confini di Israele.
La notizia è stata trovale del sito di notizie online Nius, uno dei nuovi media tedeschi che si definisce «la voce della maggioranza», ossia l’espressione di nuovi sentimenti e interessi più populisti e di destra, finanziato dal magnate Frank Gotthardt. Ma presto è rimbalzato un po’ ovunque, fino a pagina 3 della Bild.
Non ci può essere ingenuità su quel che Reem ha postato, perché non c’è ambiguità in Germania su cosa vuol dire #fromtherivertothesea, cioè la negazione e la cancellazione dello Stato d’Israele. Il calciatore El Ghazi, del Mainz, squadra fondata dagli ebrei, è stato cacciato, il contratto terminato, per aver pubblicato lo stesso slogan. […]
Ma più in generale, la bambina che era il volto dei profughi, rischia di trasformarsi in un simbolo della loro difficile, o per certi versi, quasi impossibile integrazione. Chi è venuto negli anni di Angela Merkel, e con la grande ondata del 2015-2016 (ma anche già prima), porta spesso con sé dal Medio Oriente una storia di pregiudizi e un’educazione profondamente antisraeliana, spesso antisemita.
Non si tratta di singoli: quasi due milioni di rifugiati neoarrivati (a cui si aggiungono 4 milioni di origine turca, più secolarizzati) hanno riprodotto in Germania le loro comunità, che ignorano la storia nazista e il vincolo profondo che lega questo Paese a Israele. Non (ri)conoscono la responsabilità — e la vergogna — che i tedeschi provano nei confronti del popolo ebraico, e spesso non hanno nessun interesse a condividere o a capire questa peculiare rielaborazione e condanna del proprio passato. […]
Il rimorso rimosso. Le colpe collettive e la responsabilità di chi non se ne fa carico. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 13 Novembre 2023
Attribuire a un popolo i misfatti commessi da alcuni è ingiusto, ma diventa comprensibile quando quel popolo non si assume la responsabilità dei crimini commessi dai loro simili
L’incolpazione collettiva è ingiusta e indebita quando pretende di addebitare ai singoli appartenenti a un gruppo politico, sociale, religioso, eccetera, e per il sol fatto di tale appartenenza, i misfatti commessi da altri appartenenti a quel medesimo gruppo. Ma l’incolpazione collettiva è giusta e dovuta quando i singoli appartenenti a quel gruppo non si fanno carico morale e civile dei crimini commessi dagli appartenenti al proprio gruppo, quando non ne sentono il rimorso “in proprio”, e attribuiscono quei crimini a una responsabilità che non li coinvolge in nessun modo, una responsabilità dalla quale si assolvono per il semplice fatto di non aver avuto nelle mani l’ascia del boia.
Imputare agli italiani in quanto tali la responsabilità delle leggi razziali è ingiusto a un patto: che gli italiani in quanto italiani sentano il peso in proprio, sulla propria coscienza di italiani, di quel crimine. Gli italiani non l’hanno mai fatto: non quelli che festeggiavano le inibitorie e le comminazioni razziste; non quelli che le lasciavano correre voltandosi dall’altra parte; non quelli – anzi tanto meno quelli – che sulla scena dei corpi appesi in Piazza Loreto hanno costruito retoriche e carriere “antifa”, con i cortei che da settant’anni denunciano il pericolo fascista e pervengono in purezza all’adunata dell’altro giorno, quella di «Questa non è una piazza fascista! Fuori i sionisti da Roma!».
Questo succede e può succedere per un solo motivo: perché lo scempio del 1938, che non era una cosa fascista, ma una cosa italiana, non grava sulla coscienza degli italiani. Per questo ne sono colpevoli tutti, per questo è giusto e doveroso incolparli tutti: non perché abbiano commesso tutti quello scempio (questo non succede mai: non ogni turco ha massacrato un armeno), ma perché non se ne fanno carico, perché non sentono che è la “propria” vergogna. E ora si confida che l’imbecille non obietti che c’era la resistenza e che c’erano i partigiani.
Imputare i crimini della soldataglia che tortura e stupra e deporta i bambini durante l’operazione speciale, e fa dei villaggi occupati altrettanti lager, e gode della copertura della propaganda che paga e corrompe per negare lo scempio, imputare tutto questo al popolo cui appartiene il gruppo di belve è indebito a una condizione: e cioè che gli appartenenti a quel popolo sentano su sé stessi, sulla propria dignità e sul proprio onore di esseri umani, la vergogna di quei crimini.
Addebitare ai fedeli di un gruppo confessionale il gesto dell’inquisitore che appiccia il trono di fascine su cui è issata la strega, o l’allestimento della buca per l’adultera da lapidare, è ingiusto nel ricorso di un presupposto: vale a dire se chi si ispira a quella tradizione sente gravare sulla propria individualità, sulla propria posizione nel mondo, sul proprio rapporto con la vita, l’atrocità di quei misfatti.
Ho fatto tre esempi, volutamente disparati, tanto per capirsi. Abbiamo il diritto di non essere incolpati dei crimini “altrui” se abbiamo il coraggio e la forza di farcene carico come crimini nostri.
È la persecuzione del singolo in quando appartenente a un gruppo, è questo che è sempre ingiusto. È questo che occorre impedire sempre ed è questo che occorre sempre condannare quando succede. Ma non è ingiusto pretendere che il gruppo dai cui lombi viene il misfatto sia rappresentato da persone che ne sentano la responsabilità e la denuncino come propria. Perché è in questo, nel denunciarla come propria, che possono essere assolti.
Londra, Parigi e Bruxelles in piazza e i leader "giustificano" l'antisemitismo. Fiamma Nirenstein il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.
Marcia di 800mila nella capitale inglese. Macron punta il dito: Israele uccide innocenti senza giustificazione. Ma chi darebbe tregua ai terroristi?
Qualcosa non torna nel modo in cui la politica si occupa della «crisi mediorientale». Si tratta di un'espressione insufficiente: da quel 7 ottobre di atrocità mai viste che possono ripetersi se Israele non ferma Hamas, il mondo soffre di un forma di cecità, di amnesia, da cui viene giustificata un'ondata antisemita di pregiudizio che invade piazze, università, distrugge memoria e civiltà in cui viviamo. Mentre enormi masse di volgari odiatori di ebrei marciano a Londra (800mila ieri), a Parigi, a Bruxelles, la politica balbetta luoghi comuni che se ubbiditi salverebbero i boia di Hamas. La legge internazionale che prevede tregue fra stati, non prevede di concederla a un'inaffidabile, feroce organizzazione terroristica.
Uno sfondo di numeri non verificati e fake news avalla le grandi marce antisemite che stanno invadendo l'Europa. Nelle ultime 48 ore Emmanuel Macron, Antony Blinken e persino Donald Trump propagandano un umanitarismo politico per cui Israele agisce, se non si ferma, contro la legge internazionale, e anzi, ha un certo gusto perverso a violarla. Il presidente francese ha detto che «de facto» Israele uccide «donne e bambini»: la storia vera de facto è quella per cui Hamas ha ucciso donne e bambini ebrei. Ma Macron ha parlato alla Bbc, la più prevenuta fra le tv, prima delle manifestazioni antisemite di ieri, kefia e urla che chiedono la distruzione di Israele «dal fiume al mare». Macron aveva, proprio a Gerusalemme, sostenuto il diritto di Israele a difendersi; e adesso ha ripetuto che «de facto» è «senza giustificazione» che Israele uccida innocenti. Sa bene che Israele fa di tutto per evitarlo nella difficile decisione di battere Hamas anche se usa i suoi come scudi umani: questo non cambia la necessità di cancellare dal confine l'insicurezza, l'invivibilità assoluta per tutti i cittadini. Anche Blinken ripete ogni giorno la richiesta Usa non di una tregua, ma di una interruzione, mentre persino Trump ha esclamato che è «orribile» quello che accade.
Ma che cosa sta accadendo? L'esercito consente per 4 ore al giorno gli spostamenti verso Sud. Per settimane con telefonate e volantini ha cercato di evacuare la popolazione: Hamas per tenersi i suoi scudi umani ha anche sparato. Il difficile obiettivo di Israele è battere su un terreno che nasconde ovunque le armi e gli uomini, un nemico che ha costruito una fortezza su 500 chilometri di gallerie, e combatte da trappole di fuoco. Tsahal ha catturato 11 nidi di missili, un tunnel era piazzato nell'ingresso di una scuola, un altro sotto i letti di due bambini in una camera, un edificio civile copriva una caserma piena di Rpg, missili, armi automatiche, bombe a mano, strumenti tecnologici. I tank sono preceduti da unità in avanscoperta, i veicoli corazzati ricevono attacchi mortali di artiglieria e di missili. Con volantini o direttamente si rivolgono alla gente chiedendo informazioni sui rapiti, pensiero dominante.
Dell'ospedale al-Shifa al centro della battaglia, tutto il mondo sa che copre il nido del ragno, Yehie Sinwar, il nazista-jihadista che ha concepito nei particolari la barbarie. Israele ha chiesto di spostare i pazienti, i medici, le attrezzature da settimane: Hamas l'ha impedito, ma adesso pare che lo sgombero sia avanzato. Si accusa Israele di violare la Convezione di Ginevra ma la protezione di strutture umanitarie è legata a che «non siano usate fuori dei loro doveri umanitari, per atti pericolosi per il nemico», cioè quando diventano strumenti di guerra. Così è stato per al-Shifa. I pazienti adesso devono raggiungere zone sicure, e essere curati: invece che applicarsi a fermare Israele, che non lo farà, le forze umanitarie potrebbero assistere i profughi.
Polemiche per la presenza dell'estrema destra e l'assenza della sinistra radicale. Marcia contro l’antisemitismo in Francia, solo a Parigi sfilano 100mila persone. Macron: “Nessuna tolleranza per l’intollerabile”. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2023
“Una Francia in cui i nostri connazionali ebrei hanno paura non è la Francia. Una Francia in cui dei francesi hanno paura a causa della propria religione o della propria origine non è la Francia. Nessuna tolleranza per l’intollerabile”. E’ quanto scrive su X il presidente francese Emmanuel Macron nel giorno della grande marcia civica contro l’antisemitismo. Presidente Macron che non ha partecipato, ma ha espresso il suo sostegno alla protesta.
L’iniziativa in programma oggi, domenica 12 novembre, dalle 15 a Parigi ma anche in altre città del Paese, da Marsiglia a Tolosa, da Strasburgo a Colmar, ha visto sfilare oltre 182.000 persone, di cui 105.000 soltanto nella capitale stando a quanto riferisce il ministero dell’Interno.Oltre 3mila gli agenti schierati solo a Parigi per la marcia partita dall’Esplanade des Invalides, vicino alla sede dell’Assemblea Nazionale, con destinazione Senato. Lo ha riferito il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, intervistato da Bfm-TV. Per il ministro, che intende partecipare al corteo, si tratta un “dispositivo di sicurezza molto importante”. Nella Francia segnata dall’allerta terrorismo, dispiegate sul posto anche unità di élite come la Bri, con l’obiettivo di “evitare qualsiasi individuo che voglia aggredire i manifestanti”, ha aggiunto Darmanin.
Alla marcia hanno preso parte anche i familiari di alcuni dei 40 cittadini francesi uccisi nell’attacco di Hamas e di quelli dispersi o tenuti in ostaggio. Patrick Klugman, avvocato e membro del comitato “Freethem” che lavora per ottenere il rilascio delle persone detenute da Hamas e altri gruppi a Gaza, ha affermato che la grande partecipazione alla marcia è significativa e simbolica per rassicurare le comunità ebraiche in Francia. “Sono molto orgoglioso del mio Paese grazie a questa mobilitazione”, ha detto Klugman. “Mi sento meno solo rispetto alle settimane e ai giorni passati”. La marcia è stata organizzata dai presidenti delle due camere Yael Braun-Pivet e Gerard Larcher dopo l’escalation di attacchi contro ebrei in tutta la Francia (oltre 1200) in seguito allo scoppio della guerra fra Israele e Hamas a Gaza
Tra i manifestanti anche la premier Elisabeth Borne presente perché “questa lotta è vitale per la coesione nazionale”. Ma nel suo post ha anche stigmatizzato chi si mette “in posa”, in aperto riferimento alla partecipazione dell’estrema destra e l’assenza della sinistra radicale. “L’assenza de La France insoumise parla da sola”, mentre “la presenza del Rassemblement National non inganna nessuno”, ha scritto Borne. La manifestazione, alla quale non è previsto nessun oratore, deve essere “un grido delle coscienze per gridare al mondo che la Francia non lascerà mai prosperare l’antisemitismo”.
Polemiche per la presenza di due leader dell’estrema destra, Marine Le Pen del Rassemblement National, e Eric Zemmour di La Reconquete, che in passato hanno espresso idee antisemite. Il leader de la France Insoumise, Jean Luc Melenchon ha citato la presenza dell’estrema destra fra i motivi per non partecipare. Ma è stato poi sommerso da critiche quando ha qualificato la marcia come un “rendez vous” per “gli amici del sostegno incondizionato al massacro” a Gaza.
Melvin Schlein, il papà di Elly, sulla guerra in Israele: «Alla soluzione dei due Stati lei ci crede, io non tanto». Redazione Politica su Il Corriere della Sera domenica 12 novembre 2023.
Il padre della segretaria del Pd, politologo in pensione di origini ebraiche, parla al «Corriere del Ticino»: «Mia figlia ha invocato con forza la tregua umanitaria. Una decina di comandanti di Hamas uccisi non valgono migliaia di vittime civili, il prezzo dell’operazione militare è sproporzionato e per Israele è un errore strategico»
«Tutti parlano della soluzione dei due Stati. Anche Elly, ma io le ho detto: ci credo poco. Implicherebbe una strutturazione delle relazioni e un riconoscimento istituzionale che una parte della società araba non può accettare». Melvin Schlein, il papà della segretaria del Pd Elly Schlein, dice la sua sul conflitto in Medio Oriente. Politologo e accademico statunitense, 84 anni, professore di Scienze politiche alla Franklin University di Lugano, ora in pensione, Melvin Schlein parla del rapporto con la figlia e anche della guerra tra Hamas e Israele dalla sua casa ad Agno, in Svizzera, con il Corriere del Ticino.
Figlio di ebrei ashkenaziti in fuga dall’Impero Austro Ungarico nel 1913, Melvin Schlein è cresciuto nel New Jersey — «Eravamo poverissimi, altro che stereotipi», ricorda — ha alle spalle 40 anni di carriera accademica da esperto di politiche internazionali, dopo una tesi di dottorato sulla riunificazione delle Due Germanie — «Ci vidi giusto, con vent’anni d’anticipo» — e un’esperienza da volontario nel kibbutz di Nahal Oz, vicino Gaza, a poca distanza dalla nascita dello Stato di Israele: «La situazione al confine con la Striscia non è mai stata semplice — dice ora il professore —. Anche negli anni ‘60 dormivamo con il mitra sotto il letto». Il massacro di Hamas del 7 ottobre lo ha vissuto con «orrore e grande preoccupazione» per i parenti e gli amici che vivono in Israele: «Non è la prima volta che assistiamo a un esacerbarsi del conflitto, spesso a seguito di fasi di distensione come quella inaugurata dagli accordi di Abramo, e devo dire che non sono molto ottimista sulle prospettive di risoluzione». Preoccupato per gli episodi di antisemitismo in Europa — «La frequenza degli episodi e i numeri che arrivano ad esempio dalla Francia fanno impressione» — il padre di Elly Schlein ricorda di quando da piccolo veniva bullizzato come «sporco ebreo» dai coetanei est-europei: «Una volta mi riempirono di lividi. Come molti ebrei ho scoperto di esserlo in questo modo: io non lo sapevo, me lo hanno insegnato gli altri».
In famiglia, racconta il professore — con la leader dem Elly e l’altra figlia Susanna, consigliera dell’ambasciata italiana ad Atene — «abbiamo sempre parlato molto di politica, forse questo spiega i percorsi seguiti dalle nostre figlie». Condivide l’orientamento del Pd sulla guerra in Israele? «Elly ha invocato con forza la tregua umanitaria. Non ci vuole un esperto per capire che una decina di comandanti di Hamas uccisi non valgono migliaia di vittime civili, il prezzo dell’operazione militare è sproporzionato e per Israele è un errore strategico». Melvin Schlein difende la figlia da chi la accusa di non aver preso le distanze da Hamas: «Non è vero. C’è stata e c’è una ferma condanna. Anche se una certa parte della sinistra purtroppo ha finito per unirsi alle file dell’antisemitismo storico, quello di destra che è sempre lì, non se n’è certo andato. È un male che ci portiamo dietro, sempre pronto a risvegliarsi e ora ha trovato nuova forza».
Il futuro, conclude il professor Shlein, è appeso a un filo: «Ci sono voci pacifiste in Israele e anche a Gaza. Oggi sono diventate una minoranza silenziosa: ma io voglio credere che quello spirito e quel dialogo, che a lungo si è costruito, non siano morti tra le urla degli opposti estremismi. Almeno lo spero». E qui, si affaccia la distanza dalla figlia, che dallo scoppio della guerra in Medio Oriente invoca la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina: «Io le ho detto: ci credo poco».
Estratto dell’articolo di Franco Zantonelli per repubblica.it domenica 12 novembre 2023.
A poco più di un mese dal sanguinoso massacro di israeliani, compiuto da Hamas, lo scorso 7 ottobre, come pure sul conseguente attacco israeliano a Gaza, si esprime Melvin Schlein, padre di Elly Schlein, la segretaria del Partito democratico. 84 anni, ebreo askenazita, professore emerito di storia e scienze politiche della Franklin University di Lugano, l’anziano docente, che abita con la moglie in una villetta a schiera ad Agno, a una decina di chilometri dalla provincia di Varese, ha rilasciato una lucida intervista, ricca di ricordi personali, al settimanale ticinese La Domenica, supplemento del Corriere del Ticino.
“La situazione al confine con la Striscia non è mai stata semplice”, spiega Melvin Schlein il quale, nei primi anni dello Stato di Israele viveva là, nel kibbutz di Nahal Oz, a pochi chilometri da Gaza, teatro di scontri il 7 ottobre scorso.
“Anche negli anni ’60 - ricorda – dormivamo con il mitra sotto il letto”. La notizia dell’attacco di Hamas ha suscitato “orrore e grande preoccupazione”, nella famiglia Schlein. Il professore dice, infatti, di avere molti amici e parenti che vivono in Israele. Per poi aggiungere che “non è la prima volta che assistiamo a un esacerbarsi del conflitto, spesso a seguito di fasi di distensione come quella inaugurata dagli accordi di Abramo, e devo dire che non sono molto ottimista sulle prospettive di risoluzione”.
Melvin Schlein, che ha avuto diversi parenti residenti a Leopoli, la città ai tempi polacca oggi ucraina, sterminati durante l’olocausto nazista, dichiara anche la sua preoccupazione di fronte all’ondata di antisemitismo, che si sta manifestando in Europa. “Anche questa purtroppo - confida con amarezza – non è una novità, ma la frequenza degli episodi e i numeri che arrivano, ad esempio, dalla Francia, fanno impressione”.
Cresciuto nel New Jersey, il padre di Elly Schlein ha sperimentato, sulla propria pelle, il germe dell’antisemitismo. “Pur appartenendo a una famiglia che non andava quasi mai in sinagoga, per gli altri un ebreo è sempre un ebreo”. E ricorda di quando, da bambino, nel quartiere in cui viveva, veniva bullizzato come “sporco ebreo”. Nonostante questo girava per le strade con una cassetta, cercando di raccogliere offerte per il movimento sionista.
[…]
Venendo ai fatti di queste settimane non è d’accordo con la durezza della rappresaglia del governo Netanyahu: “Elly ha invocato con forza la tregua umanitaria. Non ci vuole un esperto per capire che una decina di comandanti di Hamas uccisi non valgono migliaia di vittime civili, il prezzo dell’operazione militare è sproporzionato e per Israele è un errore strategico”.
Il professor Schlein non è, per niente, ottimista sul futuro. “Tutti - la sua tesi – parlano della soluzione dei due Stati, ma io ci credo poco. Implicherebbe una strutturazione delle relazioni e un riconoscimento istituzionale che una parte della società araba non può accettare”.
Estratto dell’articolo di Jacopo Iacoboni per lastampa.it giovedì 9 novembre 2023.
L’inchiesta francese sulle stelle di David – troppo simultaneamente apparse su tanti muri a Parigi – si sta allargando in maniera sempre più inquietante.
La Stampa aveva già riferito che dietro molte delle stelle stampate con gli stencil a Parigi c’erano due moldavi, che avevano confessato al magistrato di aver agito su impulso di «un individuo dalla Russia». Ora si sa di più. Due cose.
Uno, i servizi segreti francesi […] – ritengono che le due coppie (sono due, non una) responsabili di aver stampato le stelle di David sui muri fossero tutte in contatto con la stessa persona, l’uomo d’affari Anatoli Prizenko, un moldavo filo-russo, ex candidato del Partito dei Socialisti della Repubblica di Moldova, uno dei partiti della galassia euroscettica e filo-Mosca.
La prima coppia di esecutori materiali, tra l’altro, è sospettata di aver già eseguito operazioni identiche in altri Paesi europei, […] tra cui potrebbe esserci anche l’Italia.
La seconda cosa è che l’intelligence francese ritiene sia coinvolto un network con […] dentro anche i servizi russi. La rete si chiama Doppelgänger “RRN” (Reliable Recent News) e è stata già esposta come operazione russa in una dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri francese a giugno del 2023. La rete Doppelgänger ha pubblicato articoli enfatizzando l’esplosione dell’antisemitismo in Francia dopo gli attacchi di Hamas, e accusando le autorità francesi di non fare nulla per proteggere i propri cittadini.
La procura francese […] sta indagando sul possibile coinvolgimento della Russia nelle proteste antisemite in tutto il Paese. I graffiti con la stella di David sono apparsi su più di 200 edifici nella capitale e in altre città nell’ultimo mese, poi dal 28 ottobre, con un andamento coordinato, fotografie degli edifici con i simboli antisemiti hanno iniziato a essere distribuite sui social network.
L’Unione europea aveva già imposto sanzioni contro sette russi e cinque società incluse nella rete RRN, nella quale l’Europa ha incluso anche “Inforos”, una pubblicazione che è controllata, secondo funzionari europei, dall’intelligence militare russa GRU, e è anche inserita nell’elenco delle organizzazioni sanzionate.
Un’altra organizzazione che fu collocata in quel pacchetto di sanzioni, ANO “Dialogue”, ha ricevuto 9 miliardi di rubli dal bilancio russo nel 2023, con un focus particolare: spargere false informazioni sulla guerra in Ucraina, e antagonismo contro giornalisti sgraditi a Mosca.
L’inchiesta sta scandagliando i telefoni dei due moldavi arrestati a Parigi, e ne vengono fuori cose altrettanto inquietanti. La prima: i moldavi sono una bassa manovalanza a pagamento: per un piccolo cachet ricevevano istruzioni in una corrispondenza in russo in cui veniva loro affidato il compito di disegnare stelle di David dietro compenso (50 euro a stella).
La persona all’altro capo del telefono si trovava fisicamente in Russia. Allo stesso tempo, un funzionario degli apparati francesi ha rivelato al Wall Street Journal che immagini con graffiti blu hanno cominciato a essere distribuite da numerosi bot ritenuti controllati dal gruppo Wagner.
Il primo account a pubblicare le immagini su X potrebbe essere stato in Russia […] e ha fatto registrare migliaia di retweet quasi contemporanei alla prima apparizione delle immagini. «È stato totalmente artificiale», ha detto il funzionario francese. L’ambasciata russa a Parigi ha rifiutato di commentare.
Maxime Audinet, fellow dell’Irsem (Institut de recherche stratégique de l'Ecole militaire del ministère des Armées), spiega che è un classico delle «active measures» del Kgb usare l’antisemitismo per fomentare caos e disordini in Europa.
L’esempio più maestoso è del 1959-1960: «Su istigazione di Igor Agayants, direttore del Direttorato D (ex Servizio A), il Kgb […] aveva supervisionato una campagna clandestina di affissione di slogan antisemiti e svastiche nella Repubblica Federale Tedesca e in altri Paesi del blocco occidentale, in concomitanza con una vera e propria esplosione di atti antisemiti in tutto il mondo dopo la profanazione della sinagoga di Colonia nel Natale del 1959 (probabilmente ad opera di intermediari sovietici sul posto)».
Ne parla a lungo Thomas Rid nel suo libro capolavoro “Active Measures”. Lo scopo dei russi allora era screditare la Repubblica federale agli occhi dei suoi partner occidentali suggerendo una rinascita nazista, e dunque bloccare il suo eventuale riarmo. […]
Israele, il pregiudizio cristiano? Frutto di secoli di sudditanza all'islam. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 09 novembre 2023
Hamas non è una buona fonte di notizie perché sul territorio di Gaza, dove spadroneggia senza godere di una legittimazione democratica, viola ogni giorno i diritti umani.
Non rispetta la libertà religiosa, d’espressione, di movimento, di riunione, né la vita perché non concepisce un diritto, sia esso naturale o positivo, che non s’identifichi con la sharia.
Sulle pagine culturali del quotidiano Avvenire si sono accorti che «la guerra mette in crisi il pensiero» e occorre «far sì che la ragione prevalga sul rumore del panico, della paura e dell’indifferenza che troppo spesso dominano il discorso pubblico».
Per seguire quel criterio di prudenza e «affrontare la realtà nella sua pienezza e contraddizione, memori di quanto papa Francesco ha scritto nella sua enciclica Fratelli tutti: “La vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà”» non si può credere a un movimento terroristico che dà i numeri, inverificabili, sul bilancio delle vittime provocate dai bombardamenti israeliani, ma nega la propria responsabilità nello sterminio di civili, donne e bambini.
Non si possono mettere sullo stesso piano le due realtà, l’esercito dello Stato ebraico e gli jihadisti come nella testata della prima pagina del quotidiano della Cei che ancora ieri recitava: Strage su strage, spiegando poi nel sommario che un mese fa, nel «progrom» (sic!) di Hamas erano stati seviziati e uccisi 1.400 ebrei, mentre a Gaza secondo una «denuncia» sono stati «superati i 10mila morti» e l’Onu parla di «un cimitero di bimbi». Per non dire della “giusta distanza” giornalistica usata nel taglio basso di pagina 2: Cisgiordania, raid contro «cellula terroristica»: 4 morti. Se la qualifica viene messa fra virgolette, significa forse che si tratta di partigiani che combattono per la libertà, come li definisce il presidente turco Recep Tayyp Erdogan? Peraltro da lui, che ormai aspira a essere la guida politica dei Fratelli Musulmani, la galassia di cui fa parte anche Hamas, lo si può anche capire. Dai cattolici, no. Perché vi sono sensibilità diverse anche nella Chiesa. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, per esempio, ha svolto attività pastorale fra i cattolici di espressione ebraica in Israele. E il popolo di credenti che ascolta Radio Maria Italia ha potuto sentito spesso, in particolare nell’ultimo mese, padre Livio Fanzaga affermare che la Madonna non consentirà che si realizzi il piano satanico della distruzione di Israele.
L’ANTISEMITISMO ARABO
Ma il problema non si può negare, non solo in Terra Santa, dove «preoccupa il diffondersi di manifestazioni antisemite, che fermamente condanno», ha scritto Papa Francesco ieri in un messaggio non letto, ma consegnato a una delegazione della Conferenza dei rabbini europei ricevuta in udienza in Vaticano. Avvenire ha relegato quelle parole del Santo Padre in chiusura di un articolo dedicato alla telefonata fra il presidente iraniano Ebrahim Raisi e il Pontefice. Come dire: la Santa Sede ormai è una succursale di Teheran, visto che nel colloquio il capo della Repubblica islamica «avrebbe puntato il dito contro “le brutali atrocità del regime sionista”». Poco importa che si tratti di uno Stato che propugna la distruzione di Israele e ha armato e finanziato i massacratori di ebrei. Accade anche fra i maroniti del Libano, fra i copti egiziani, fra le comunità ortodosse, armene e melchite così come fra i protestanti, quindi sia dentro che fuori il perimetro dell’obbedienza al vescovo di Roma, che abbia messo radici una cultura frutto di una secolare sottomissione all’islam. Per quieto vivere, dopo aver pagato la tassa della protezione, la dhimma, e aver accettato che le donne musulmane non potessero sposare un “infedele” e rinunciato alla possibilità di evangelizzare all’interno delle società islamiche, poiché i musulmani apostati sono passibili della pena di morte, i cristiani hanno perciò stesso riconosciuto il predominio della legge coranica. Cercando così, ma invano, di non essere discriminati, ma implicitamente subordinando il loro diritto di essere rappresentati alla pretesa giuridica dei musulmani di esercitare l’autorità perfino quando non sono che una minoranza. Altro che dialogo interreligioso. Così si perde la speranza in un mondo migliore e si condanna all’estinzione il tradizionale ruolo di costruttori di pace svolto per secoli dai cristiani.
Estratto dell'articolo di corriere.it martedì 7 novembre 2023.
«Se sono qui è perché la ritengo una serata importante. Non mi sento di parlare di questo argomento perché sennò mi sembra di avere vissuto invano». Così la senatrice a vita Liliana Segre, al suo arrivo alla serata organizzata dalla comunità ebraica di Milano, nella sinagoga di via della Guastalla, per le vittime e chiedere la liberazione degli ostaggi a un mese dall'attacco di Hamas a Israele.
A chi le ha chiesto di commentare le immagini che si stanno vedendo in questi giorni, Segre, che è sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz, ha risposto che «sono di una tristezza infinita».
«Alla Memoria della Shoah si deve accompagnare la coscienza della Storia». Il giorno della liberazione di Auschwitz è la data simbolo per non dimenticare lo sterminio degli ebrei per mano di nazismo e fascismo. Ma occorre evitare la vuota ritualità e restituire complessità ai fatti. Ridestando interesse e sgomento. di Massimo Castoldi su L'Espresso il 26 gennaio 2023
Il giorno della Memoria — 27 gennaio, in ricordo del 27 gennaio 1945, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz — non è una festa nazionale come sono il 25 aprile, festa della Liberazione, e il 2 giugno, festa della Repubblica, ma un giorno di lavoro, di studio, che dovrebbe essere pretesto per cercare di comprendere le ragioni storiche di quanto è avvenuto nel nostro Paese e in Europa tra anni Venti e anni Quaranta del secolo scorso.
La legge del 2000 che lo ha istituito invita a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti [...] affinché simili eventi non possano mai più accadere». Ho sempre trovato molto velleitaria questa proposizione finale, la quale presuppone che possa crearsi una consapevolezza così diffusa di quanto avvenuto, che le aberrazioni del passato non possano ripetersi.
La storia conferma che non è così e la cronaca lo rende tragicamente tangibile. Ciò non toglie opportunità e necessità all’operazione della ricostruzione storica delle dinamiche che hanno consentito l’affermazione di quelle dittature, fascista e nazista, delle quali lo sterminio di massa organizzato è stato la più macroscopica conseguenza.
Mi chiedo, tuttavia, se e fino a qual punto questa riflessione sia stata fatta fuori dall’ambiente degli specialisti, o se invece ci siamo il più delle volte limitati a una narrazione rituale, nell’inesorabile affermarsi di “Un tempo senza storia”, come Adriano Prosperi ha intitolato un suo libro recente (Einaudi, 2021).
I dati che l’Eurispes ci fornisce sono eloquenti. Se nel 2004 il 2,7 per cento della popolazione italiana credeva che la Shoah non fosse mai esistita, nel 2020 questa percentuale è salita al 15,6. Se dovessimo estendere l’inchiesta dalla Shoah alla deportazione politica, che peraltro in Italia è fenomeno più rappresentativo (circa 24.000 deportati politici, circa 8.000 ebrei), queste percentuali di ignoranza salirebbero in modo esponenziale. L’istituzione del giorno della Memoria non ha evidentemente ottenuto gli effetti sperati. Anzi si potrebbe dedurre che alla ritualità delle commemorazioni corrisponda un incremento di atteggiamenti razzisti e neofascisti.
Occorre restituire complessità storica al fenomeno, per ridonargli interesse. Invito a vedere il film documentario del 2016 “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, che il regista girò con una telecamera fissa posta in alcuni luoghi del campo di Sachsenhausen. In una serie di lunghe sequenze passano turisti intenti compulsivamente a fotografarsi nei luoghi di tortura e di morte nella generale incoscienza della storia, che le guide meccanicamente raccontano.
È il percorso inverso rispetto a quello fatto da Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Winfried Georg Sebald (Adelphi, 2002), che attraverso una faticosa ricerca storica e memoriale prende coscienza da adulto di essere uno di quei bambini ebrei giunti a Londra in treno durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano deportati in un campo di sterminio.
Osservando il film, ho notato nella sconcertante babele turistica, in due momenti diversi, nello sguardo di due ragazze un lampo di sgomento e un istante di confusione. Due bagliori improvvisi che indicano, con Prosperi e Sebald, una strada.
*Quello di Massimo Castoldi (professore di Filologia italiana presso l’Università di Pavia) è il secondo degli interventi sul calendario civile italiano (cioè le ricorrenze fondamentali della Repubblica) affidati agli esperti dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Il primo, dedicato al 12 dicembre, strage di Piazza Fontana, è pubblicato qui sul sito de L’Espresso. I prossimi saranno su: 10 febbraio, 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.
Israele? L'odio è il sentimento dominante anche in Occidente. Roberto Formigoni su Libero Quotidiano il 05 novembre 2023
Come è noto, il 7 ottobre i terroristi di Hamas, con un’incursione nel territorio di Israele, hanno ammazzato oltre 1400 cittadini ebrei e preso in ostaggio circa 240 persone di varie nazionalità. Mentre tutti i governi occidentali hanno subito espresso una doverosa solidarietà a Israele, molto blanda è stata la reazione popolare: ricordate qualche manifestazione pubblica pro-Israele? Sì, pochissime e poco frequentate.
Al contrario, pochi giorni dopo è iniziato un movimento che si è ingrossato via-via con manifestazioni a sostegno di Hamas (i carnefici) e contro Israele. Le università americane, a partire dalle più prestigiose e costose, laddove si educa (?) la futura classe dirigente, sono state invase da cortei inneggianti ad Hamas e sono state bruciate bandiere di Israele.
A Varsavia è stata disegnata la stella di David sulle case abitate da ebrei, e lo stesso è stato fatto a Parigi e in altre città della Francia. A Lione una sinagoga è stata vandalizzata. A Roma, durante un corteo pro-Hamas, è stata strappata dalla sede della Fao la bandiera di Israele. A Milano, durante i soliti cortei, i “pacifisti” hanno chiesto di organizzare spedizioni per ammazzare gli ebrei.
A Berlino una sinagoga è stata colpita da una bomba molotov. A Sidney gli studenti hanno chiesto la riapertura delle camere a gas e a Seul si inneggia alla soluzione finale contro gli ebrei. Nella metropolitana di New York si scrive di uccidere gli ebrei. A Vienna sono comparse svastiche sui muri del cimitero ebraico, e alcune tombe sono state profanate... E l’elenco di queste gesta vergognose si ingrossa ogni giorno di più e potrebbe riempire tutta la pagina.
Perché? È semplice, è il nostro solito, vecchio, mai scomparso antisemitismo (l’Olocausto non è bastato? ), all’inizio caratteristico di certa sinistra, poi diventato sentimento diffuso. Antisemitismo, odio verso Israele e verso gli ebrei che è una manifestazione dell’odio dell’Occidente verso se stesso, pur esso diventato sentimento dominante in questi decenni.
L’Occidente odia Israele perché odia se stesso, perché si ritiene colpevole di tutti i mali del mondo, e Israele è figlio dell’Occidente, è stato voluto e votato come Stato dall’Onu nel 1948 su impulso delle nazioni europee e degli Stati Uniti. Odia Israele perché è l’unico paese democratico in un territorio in cui dominano le dittature o gli Stati teocratici, e la democrazia è invenzione occidentale e come tale da esecrare, anche se poi se ne godono i vantaggi e guai a chi ce li tocca. Israele non è esente da colpe, sia chiaro, ma l’antisemitismo vuole la sua cancellazione. Esattamente come Hitler voleva la cancellazione degli ebrei.
Qui, ottant’anni dopo. La chiarezza morale del vice cancelliere tedesco e il disonore della politica italiana. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 6 Novembre 2023
Robert Habeck ha detto tutte le cose giuste sul dovere di considerare la sicurezza di Israele come la nostra sicurezza e su ciò che sta accadendo agli ebrei in Europa. Ma la nostra classe dirigente pare non l’abbia sentito
Non c’è stato un politico italiano, nemmeno uno, non c’è stato un esponente parlamentare o governativo della Repubblica democratica fondata sull’antifascismo, nemmeno uno, che abbia sentito l’urgenza di pronunciare le parole semplici e gravi del vice cancelliere tedesco, Robert Habeck. Non le parole circa il dovere di considerare la sicurezza di Israele come la nostra sicurezza, non le parole circa il dovere di considerare il diritto di esistere di Israele come il nostro diritto di esistere. Figurarsi, sarebbe stato troppo anche per il meno inibito dei nostri politici “antifascisti”.
No, dunque, non quelle parole del vice cancelliere, quelle sul conflitto e la tragedia laggiù, ma queste sue altre, riferite a quel che succede qui, nell’Europa che fu della Shoah: «Qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle manifestazioni in cui si inneggia alla “resistenza” fatta sgozzando i bambini ebrei: quelle manifestazioni «qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle stelle disegnate sulle case degli ebrei: quei segni «qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle sinagoghe assaltate, dei memoriali transennati per evitarne la devastazione, degli ebrei costretti a nascondersi: «Qui, in Germania, ottant’anni dopo».
C’è una ragione storica, civile, morale, culturale e anche antropologica se nessun politico italiano, ma nessuno, sulle manifestazioni “Fuori i sionisti da Roma”, sulle svastiche sull’uscio della famiglia ebrea, sulla tracimazione plateale e incontenibile della fogna antisemita, sulla temperie da Kristallnacht che solo uno sprovveduto o un volgare mascalzone può non vedere, c’è una causa e c’è un’intimità tutta italiana se nessuno dice, forte e grave come quel politico tedesco: «Qui, in Italia, ottant’anni dopo».
Perché nella rappresentazione “antifascista” che governa da ottant’anni questo stramaledetto Paese, questo immorale Paese, questo incivile Paese, questo colpevole Paese, questo fallito Paese, questo Paese indebitato con la verità e inadempiente al proprio obbligo di verità, questo Paese marcio non in ciò che è disposto a condannare, ma in ciò per cui si pretende migliore, in ciò per cui “se la crede”, ciò che successe ottant’anni fa era una inopinata parentesi, il frutto inaspettato dell’inoculazione di un elemento patogeno in un corpo altrimenti perfettamente sano.
Perché mai l’Italia repubblicana e antifascista, mai, ha assunto su sé stessa la colpa di ciò che successe qui ottant’anni fa: mai. E sempre, semmai, ha imputato le leggi razziali, l’antisemitismo, i campi di concentramento che avevamo anche qui, alla violenza minoritaria e precaria di qualche manipolo che aveva preso il potere chissà perché, alla provvisoria capacità di sopraffazione di pochi, invisi a tanti, e anzi a tutti: ma invisi a tutti dal 26 aprile in poi, perché il 25 era presto, vedi mai che non fosse proprio sicuro sicuro che la testa presa a calci e riempita di sputi in Piazza Loreto fosse proprio quella del cadavere di Benito Mussolini.
Quel politico tedesco, dimostrando orrore e intransigenza non solo perché si trattava di violenza ordinariamente «inaccettabile», secondo l’eloquio del progressista medio, ma tanto più perché avveniva «qui, in Germania, ottant’anni dopo», ha onorato sé stesso. Ha onorato la Germania. Ha dato forza alla Germania. Ha dato speranza alla Germania.
La mancanza di parole analoghe in Italia disonora quelli che non le hanno pronunciate. Disonora l’Italia. Lascia senza speranza l’Italia.
Boom antisemiti: +300%. Dai cimiteri alle targhe, odiano pure la memoria. La caccia agli ebrei. A Roma vandalizzate le pietre d’inciampo, a Vienna tombe date alle fiamme e svastiche al cimitero. Episodi in crescita in tutta Europa e le comunità ebraiche hanno paura: "Mai tanta ferocia dall’Olocausto". Francesco De Palo il 2 Novembre 2023 su Il Giornale.
Ottant’anni dopo il rastrellamento del ghetto di Roma, nella capitale d’Italia, così come in mezza Europa, tornano pericolosi episodi di antisemitismo, foraggiati da una certa narrazione anti-israeliana decisa a tavolino dopo l’attacco di Hamas a Israele. Dopo che nella notte tra il 30 e il 31 ottobre due pietre d’inciampo erano state oltraggiate in via Dandolo a Trastevere, l’episodio si è ripetuto in via Mameli 47, dove altre pietre sono state spruzzate di vernice spray nera o bruciate. Le targhe d'ottone prese di mira sono quelle di Giacomo ed Eugenio Spizzichino, che si sono aggiunte a quelle per Michele Ezio Spizzichino e Aurelio Spagnoletto. Solidarietà alla Comunità ebraica di Roma è stata espressa dal consigliere di Fdi in assemblea capitolina Mariacristina Masi, secondo cui «l’impegno deve essere massimo per arginare chi per fanatismo deturpa luoghi della memoria importanti per l'intera città».
Ma Roma è solo la punta di questo tragico iceberg, che vede gli ebrei dei cinque continenti nel mirino di una delle più forti inziative antisemite dai tempi dell'Olocausto. A New York sono scattate la manette per uno studente di ingegneria della Cornell University, il 21enne Patrick Dai, dopo che aveva annunciato l’intenzione di sparare agli studenti ebrei e invocato lo stupro e la decapitazione delle studentesse. Rischia cinque annidi carcere.
A Parigi cinque dozzine di stelle di David sono apparse sui muri del 14° arrondissement a dimostrazione di una recrudescenza oggettiva: dal 7 ottobre, data del folle attacco di Hamas contro Israele, in Francia sono stati denunciati più di 850 atti di questo tipo, come confermato dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin, mentre gli arresti per atti antisemiti sono stati 400. Secondo il sindaco del 14° arrondissement, questi gesti «ricordano gli eventi degli anni ’30 che portarono allo sterminio di milioni di ebrei». Segni simili, accompagnati da iscrizioni come «dal fiume al mare, la Palestina vincerà», sono comparsi anche nella periferia parigina, tra cui Vanves, Fontenay-aux-Roses, Aubervilliers e Saint-Ouen.
Sono stati quasi 90 gli episodi antisemiti in Inghilterra solo in questo mese, quattro volte più dello stesso periodo del 2022, con Londra a recitare la parte del leone con 218, in aumento del 13%. Non va meglio in Germania con 70 episodi in appena due settimane: tra di essi spicca il tentato incendio ad un centro ebraico e alla sinagoga berlinese. In generale nel Paese si registra un più 240% degli episodi di antisemitismo. Record negativo in Austria, con più 300%. E proprio a Vienna nella notte di martedì è stato appiccato un incendio nella parte ebraica del cimitero centrale, sui muri del quale sono state disegnate delle svastiche.
Dalle capitali allo sport: il plurimedegliato olimpico Mahiedine Mekhissi ha paragonato Netanyahu a Hitler, per poi scusarsi: «Sono stato goffo e il paragone era che Hitler ha commesso un genocidio proprio come sta facendo Netanyahu, mentre le potenze mondiali possono fermare l’orrore», ma le sue accuse erano state già pesantemente stigmatizzate dalla ministra dello Sport, Amélie Oudéa-Castéra, secondo cui questi paragoni disastrosi «flirtano con tutto ciò che è più nauseante e ti allontanano così tanto dai valori universali della pace, lo sport difenderà sempre i valori dell’olimpismo che hai saputo incarnare per tanti nostri connazionali».
Ovunque le comunità ebraiche sono in allerta, come confermato pubblicamente dal rabbino Menachem Margolis, presidente della European Jewish Association: «Gli ebrei raccontano di ricevere molte più osservazioni, occhiatacce, sguardi di odio, minacce di morte e di aggressione fisica». Stessa linea del celebre pianista Igor Levit, in questi giorni impegnato in una serie di concerti a Roma, che annuncia: «Dall'Olocausto fino al 7 ottobre non c’è mai stato un massacro con un numero così alto di vittime civili. Non è un attacco contro lo Stato di Israele ma contro tutti gli ebrei. Quando una minoranza si sente sotto attacco tutta la democrazia è sotto attacco».
I razzisti antisemiti che ci hanno dato lezioni di razzismo. Andrea Soglio su Panorama il 02 Novembre 2023
I razzisti antisemiti che ci hanno dato lezioni di razzismo Mentre a Milano e Roma gli episodi di antisemitismo si susseguono va sottolineato il silenzio di quelli che ci hanno fatto la morale per anni ed oggi stanno dalla parte dei veri razzisti Non c’è niente di meglio della realtà per capire lo stato delle cose. Dal 7 ottobre a ieri in Francia gli episodi di antisemitismo sono stati 800; 20 quelli avvenuti negli Stati Uniti; in ordine di tempo ieri a Vienna è stato sfregiato il cimitero ebraico e anche in Italia ne sono successe di tutti i colori. Ieri a Roma è stato dato fuoco a due della note «pietre di inciampo» mentre sempre ieri, ma lo si è saputo solo oggi, a Milano, la civile e moderna Milano, una donna ebrea scesa in strada per buttare la spazzatura si è trovata disegnata una stella di Davide con all’interno un numero, non un cifra a caso, proprio quella del suo interno. Siamo quindi alla caccia all’ebreo nel più profondo dei dettagli: 3° piano, scala B, appartamento 6. Ora manca solo l’antisemita esaltato che compia la strage ed il cerchio è chiuso.
Abbiamo già scritto dell’antisemitismo imperante; abbiamo già scritto dei mandanti religiosi, politici, intellettuali. Centri sociali, collettivi studenteschi di licei ed università anche a Milano da settimane scendono in strada a scandire slogan anti israeliani, antisemiti. Si tratta dello stesso mondo, molto vicino alla sinistra, che ha provato a dare lezioni al mondo di anti-razzismo. Non solo. Adesso vanno oltre. Adesso, senza ammetterlo, ci dimostrano che quello contro gli ebrei non è razzismo, ma la giusta reazione agli atti (sbagliati) di Tel Aviv e della sua gente. Guai però a dire lo stesso di una persona di colore, o di un musulmano… Provate ad immaginare la scena. Invece della donna ebrea a scendere le scale del palazzo per buttare la spazzatura ecco una donna musulmana. Sul muro, al posto della stella di Davide un simbolo del Corano e all’interno il numero del suo appartamento. Immaginiamo che lo stesso giorno a Roma, invece delle pietre d’inciampo ad essere danneggiata è una moschea. Cosa sarebbe successo? Il circo mediatico (di sinistra) si sarebbe messo in moto con i soliti slogan sul «clima d’odio», sulla «destra che avanza», sulla «deriva fascista». Ci sarebbero stati appelli ed occupazioni nelle scuole, manifestazioni di sostegno agli assaliti; i soliti noti sulle tv avrebbero rialzato la voce. Oggi invece solo silenzio, che però ci dice tante cose. Ci dice che i veri razzisti alla fine sono quelli che danno del razzista agli altri. Sono quelli che oggi stanno condividendo il video del consigliere comunale di un paese vicino a Catania che ha fatto il braccio teso, gridando «Heil Hitler» (una cosa che non ha logica e giustificazione) ma su quanto accaduto contro gli ebrei lasciano correre. Sappiano queste persone che ormai la maschera è caduta: sappiamo chi e cosa siete. Quindi, in futuro, risparmiateci lezioni di ogni tipo.
L’Europa dei fantasmi e il ritorno di Juden Raus. Domenico Pecile su L'Identità il 3 Novembre 2023
Strisciante, subdolo, violento. Lo spettro dell’antisemitismo riemerge da ceneri mai spente dentro le quali si annida il fuoco della più insensata follia. È uno sfregio alla storia. Una sfida alle nostre democrazie. Gli episodi inquietanti interessano ormai tutta l’Europa, i Paesi dell’Est europeo oltre che gli Stati uniti. “L’antisemitismo purtroppo ogni tanto rispunta in Europa, Ci sono preoccupanti manifestazioni – ha affermato il vice premier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani – che vanno assolutamente condannate. Bisogna educare i giovani. Quando vediamo le stelle di David sulle case degli ebrei in Francia dobbiamo spiegare anche ai nostri figli che non ci può essere odio razziale”.
E l’ondata di antisemitismo è talmente preoccupante che anche papa Francesco, intervenendo sulla drammatica situazione venutasi a creare in Israele e nella striscia di Gaza (“Serve una soluzione saggia: due popoli, due Stati. L’accordo di Oslo: due Stati ben limitati a Gerusalemme con uno statuto speciale”) ha stigmatizzato duramente i nuovi rigurgiti. “Purtroppo – ha detto – l’antisemitismo rimane nascosto. Lo si vede, nei giovani per esempio, di qua e di là, che fanno qualche cosa. È vero che in questo caso è molto grande e non è sempre sufficiente vedere l’antisemitismo che hanno fatto nella seconda guerra mondiale, questi sei milioni uccisi, schiavizzati. Purtroppo non è passato. Non saprò spiegarlo e non ho spiegazioni, è un dato di fatto che io vedo e non mi piace”.
Intanto Roma è ancora sotto choc per i ripetuti sfregi alle due pietre d’inciampo dedicate alla memoria di Giacomo ed Eugenio Spizzichino, ebrei deportati dai nazisti a Mauthausen e Auschwitz dove poi furono assassinati. Altre due pietre sono state annerite con lo spray. Unanime la ferma condanna di tutte le forze politiche. Victor Fadlun, presidente della Comunità ebraica di Roma, si è detto molto preoccupato per quanto sta avvenendo in diverse parti del mondo. Sui gesti antisemiti verificatisi nella capitale ha comunque detto che “abbiamo piena fiducia nel governo e nelle istituzioni”. “Fanno impressione – ha aggiunto le immagini dell’assalto all’aeroporto del Daghestan e la caccia agli ebrei negli aerei, negli hotel e sui bus. Ci ricordano – ha aggiunto – un capitolo terribile della storia che sembrava superato. La comunità ebraica di Roma è ragionevolmente preoccupata. Registriamo un crescente clima di intolleranza, con accenti e slogan antisemiti che dopo tanti anni abbiamo purtroppo sentito nuovamente in questi giorni anche in alcune piazze italiane”. Fadlun si riferiva al fatto che accanto a manifestanti pacifici ce ne sono stati altri che non hanno esitato ad arrampicarsi sui cancelli della Fao per strappare la bandiera di Israele. “Questa è la prova – è stato il suo ulteriore commento – che c’è ancora chi è convinto che Israele come Stato non debba esistere e che, anzi, vada cancellato dalle mappe come vorrebbe Hamas”.
Intanto, dopo le oltre cinquanta Stelle di David apparse su edifici di ebrei, in Francia si registrano altri inquietanti episodi. La Procura di Parigi ha aperto un’inchiesta a seguito di un video pubblicato sui social che mostra un gruppo di persone intonare cori antisemiti all’interno della metropolitana. Secondo una testimonianza, gli autori dei cori erano una ventina, apparentemente studenti universitari. Il video ha fatto registrare centinaia di migliaia di visualizzazioni tra TikTok e X. Il prefetto di Parigi ha definito le frasi pronunciate nel filmato “scioccanti, indegne e inaccettabili”.
Dal 7 ottobre gli attacchi antisemiti sono aumentati – secondo l’associazione ebraica europea, Eja – del 1.200 per cento in Europa. Fiamme e svastiche erano anche comparse nel cimitero ebraico di Vienna nella notte del 31 ottobre. Il presidente Alexander Van der Bellen ha riferito che il numero di incidenti antisemiti in Austria è significativamente aumentato.
Ebrei d’inciampo. Storia naturale dell’antisemitismo del Ventunesimo secolo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 2 Novembre 2023
Perché le piazze pacifiste non chiedono il cessate il fuoco ad Hamas e il rilascio degli ostaggi? Quale abiezione può portare a strappare dai muri i volantini con i volti dei rapiti ebrei e a incendiare le pietre che ricordano chi fu sterminato nei campi di concentramento? Forse perché non sono pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari
Non ho idea di che cosa debba fare Israele per resistere alla minaccia esistenziale posta da Hamas e per garantire pace e sicurezza ai suoi cittadini, né come debba farlo. So che deve farlo, che è giusto che lo faccia, e che dovrà trovare un modo (che io non conosco) per non allargare ulteriormente la mostruosa carneficina cominciata con il pogrom antiebraico di Hamas del 7 ottobre e continuata con i bombardamenti israeliani su Gaza.
So, inoltre, che cancellare Hamas da Gaza probabilmente non libererà i duecento ostaggi ebrei, ma libererà i palestinesi da una teocrazia medievale, corrotta, e imbevuta di un culto millenarista della morte che nasce dall’incontro tra il fondamentalismo islamico e l’ideologia nazista favorito da un ammiratore di Hitler e Mussolini come Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, e da un appassionato lettore dei Protocolli dei Savi di Sion come l’ideologo islamista Sayyid Qutb.
Magicamente, le parole di al-Banna e un passaggio dei Protocolli antisemiti fabbricati dalla Russia zarista per perseguitare gli ebrei sono riportati nel documento di fondazione di Hamas del 1988. Chissà come mai, poi, Hamas agisce con metodi e finalità conseguenti.
Hamas oggi è un’organizzazione eterodiretta da Ayatollah misogini e reazionari che se ne infischiano della questione palestinese, perché impegnati a uccidere le ragazze che si sciolgono i capelli, a finanziare il terrorismo internazionale e a sabotare qualsiasi tentativo di accordo di pace in Medioriente, come quello che per il momento sono riusciti a fermare grazie al pogrom antiebraico eseguito da Hamas il 7 ottobre.
Che fare, dunque? Non lo so, come non lo sa nessuno dei più sensati tra noi.
Lo scrittore tedesco W.G. Sebald in “Storia naturale della distruzione” ha descritto con precisione vivida gli effetti mostruosi del milione di tonnellate di bombe anti naziste sganciate dagli alleati a metà degli anni Quaranta su centotrentuno città tedesche, con i settecentomila civili uccisi e i sette milioni di sfollati rimasti senza casa.
Sebald si interrogava sulle ragioni del rimosso collettivo nazionale tedesco, su «un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milioni di esseri umani nei suoi lager» e che quindi «non poteva certo chiedere conto, alle potenze vincitrici, della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città tedesche».
Ma il punto è se oggi, di fronte a tale distruzione, scenderemmo in piazza a chiedere il cessate il fuoco, a denunciare il genocidio dei tedeschi, e a inneggiare a “Free Nazi Germany” e al suo Lebensraum, allo spazio vitale che Hitler rivendicava dai Pirenei agli Urali, come Hamas dal Giordano al mare, come se nessun altro avesse diritto di esistere.
Siamo nel Ventunesimo secolo e per fortuna certe cose, come radere al suolo Amburgo o Dresda o il quartiere romano di San Lorenzo o Hiroshima, non sono più moralmente accettabili, almeno in Occidente, anche se sono tuttora brutalmente praticate da Grozny ad Aleppo, dallo Xinjiang a Kharkiv, a Mariupol, a tutta l’Ucraina, e ora a Gaza ma in risposta a un attacco.
Nessuno però scende in piazza per chiedere il cessate il fuoco ai russi, ai cinesi, agli iraniani, a nessuno degli ultimi imperialismi del pianeta. In Occidente si protesta solo contro l’America e contro Israele, considerati più o meno la stessa entità capitalista teleguidata dalla medesima lobby ebraica.
Che si protesti contro sé stessi non è una cosa negativa né banale, anzi dimostra la superiorità della civiltà occidentale rispetto alle alternative che abbiamo a disposizione (prima di indignarsi: la civiltà non è un concetto razzista, ma la forma con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale di uno o più popoli uniti da uno stesso sistema di valori condivisi).
Il problema quindi non è la mobilitazione contro i supposti crimini di guerra commessi da Israele, ma la mobilitazione soltanto contro Israele, la cui particolarità e unicità rispetto ad altri soggetti dello scenario internazionale è che Israele è lo Stato degli ebrei.
Il problema non è il diritto a indignarsi per le stragi compiute da Tsaal a Gaza, ma non manifestare mai contro i responsabili delle stragi islamiste che infiammano il mondo, mai contro Hamas, mai contro l’Isis, mai contro Bin Laden, mai contro gli Ayatollah, mai contro Bashar Assad e il suo complice Vladimir Putin. Mai contro la nuova caccia all’ebreo.
C’è una piccola cosa che rivela come il pregiudizio antiebraico sia tornato a manifestarsi in Occidente in tutta la sua brutale pericolosità anche nel Ventunesimo secolo.
Questa piccola cosa è la pratica diffusa a New York come a Milano, a Londra e in altre città europee, di strappare dai muri i sobri manifesti che ricordano i volti e le storie dei duecento ostaggi ebrei in mano ad Hamas.
Sono giorni che mi chiedo quale stato di degradazione morale possa portare un americano o un europeo al gesto abietto di strappare il volantino che tiene viva la speranza dei familiari di poter riabbracciare un bambino o una ragazza detenuta dagli aguzzini di Hamas?
Non riesco a capacitarmi di cosa possa passare per la mente di un militante per la pace che però è favorevole al mantenimento dello status di ostaggio di un coetaneo ebreo. Non crede che Hamas abbia preso ostaggi? Nega, come certuni a proposito delle camere a gas, che Hamas abbia compiuto la strage del 7 ottobre? Pensa che gli ebrei si meritino di essere uccisi, torturati, stuprati e usati come scudi per proteggere i missili e le armi con cui poter ammazzare altri giudei?
Mi chiedo quanto sia sincero lo sdegno per la tragedia in corso a Gaza se non si dice una parola contro gli sterminatori di Hamas e addirittura si va a strappare i volantini dai muri per cancellare la memoria dei civili ebrei rapiti in quanto ebrei?
La stessa domanda vale per quegli imbecilli che, mentre sfilavano per la Palestina a Roma, hanno bruciato le pietre d’inciampo con i nomi dei deportati ebrei sterminati ottanta anni fa nei campi di concentramento nazisti: che cosa porta a profanare le vittime dell’Olocausto nazista mentre si marcia per la pace?
La risposta a questa domanda è univoca e terribile: a muoverli è il drammatico ritorno nella nostra società dell’orgoglio antisemita. Non che dopo l’Olocausto fosse sparito del tutto, ma erano decenni che non andava di moda ostentarlo.
A conferma, c’è anche l’appello ad Israele, soltanto ad Israele, esclusivamente ad Israele, affinché cessi il fuoco, senza una altrettanto accorata supplica ad Hamas e all’Iran affinché rilascino gli ostaggi e smettano di lanciare i missili su Israele che hanno provocato la guerra.
La storia insegna che le guerre finiscono in tre modi: con il dietrofront di chi le ha cominciate, con la capitolazione dell’aggredito o con la vittoria militare di uno dei due contendenti.
I pacifisti che credono davvero nella pace dovrebbero chiedere ad Hamas di rilasciare gli ostaggi (e alla Russia di tornarsene a casa), altrimenti la migliore opzione per far tacere le armi è augurarsi una celere vittoria militare di Israele (e dell’Ucraina).
Sempre, ovviamente, che non preferiscano rinunciare alla società aperta, piantarla con i diritti civili e vivere in una dittatura teocratica (e imperialista). Nel qual caso, non sarebbero pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari.
I nuovi protocolli. L’antisemitismo di oggi è alimentato da decenni di falsità su Israele. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 3 Novembre 2023
La retorica del «Mai più» contro gli orrori del nazifascismo non ha cancellato l'uso sistematico di menzogne e informazioni contraffatte che alimentano l'odio e giustificano le violenze contro gli ebrei
Almeno ottant’anni di letteratura sull’eziologia della discriminazione e violenza antisemita spiegano che a determinare non solo il tenore ordinario ma anche le impennate di quell’andazzo sono in misura praticamente trascurabile le idee e le propalazioni ideologiche antiebraiche: e in misura preponderante, se non esclusiva, i sedimenti e la reiterazione di notizie e rappresentazioni false, ovviamente sulla scorta e con il sussidio di riprove scientifico-statistiche poste a certificare l’inoppugnabile verità di quella spazzatura.
I risultati di quegli studi, compilati a documentazione fredda della temperie sociologica e di banale psicologia sociale che tanta tragedia ha causato, potrebbero utilmente essere considerati oggi: per evitare che le pagine e i dibattiti dedicati al pogrom del 7 ottobre (pochini, in effetti) e quelli emozionalmente rivolti a raccontare i crimini di chi ne fu vittima si riempissero, come invece si riempiono, di menzogne e falsi che più di qualsiasi teoria aggressiva ed esplicitamente discriminatoria si pongono a innesco delle violenze cui stiamo assistendo.
C’è infatti anche la firma dell’editorialista che spara notizie e numeri a caso circa gli obiettivi e le vittime di un bombardamento, c’è anche la sua firma sotto le stelle disegnate a Berlino, a Bologna e a Roma sulle case degli ebrei. C’è anche il video dell’influencer secondo cui «gli israeliani vogliono sterminare tutti i palestinesi» ad accompagnare i cortei in stile kristallnacht per le vie della Repubblica democratica fondata sulla resistenza. Ci sono anche le requisitorie televisive contro i responsabili del «genocidio» in corso a mobilitare i cacciatori di ebrei negli aeroporti e negli alberghi.
È anche il fuoco dei comizi su Israele «cane da guardia» del Satana statunitense a incendiare i cimiteri ebraici e le pietre d’inciampo. Ci sono anche gli appelli dell’accademia malvissuta che straparla della «più grande prigione a cielo aperto del mondo, occupata militarmente da cinquantasei anni», ci sono anche questi immondi spropositi a eccitare le ambizioni di giustizia per il popolo oppresso riassunte nelle svastiche disegnate sulle sinagoghe.
E proprio il fatto che non ci si renda conto – perché si vuole sperare che quel comportamento sia, almeno per i più, incalcolato – dell’effettivo e grave rapporto tra quelle menzogne e le violenze conseguenti, proprio il fatto che non si senta l’urgenza di non alimentare l’incendio con il ricorso alla menzogna, allo spaccio di notizie false e contraffattorie secondo un sistema che storicamente, documentatamente ha prodotto le violenze più indicibili, significa che tutto questo tempo è davvero passato invano.
Decenni e decenni di retorica rigonfia di «Mai più», mentre dall’Onu in procinto di essere affidata alle cure umanitarie della polizia morale si spiegava che Treblinka non viene dal nulla. E il giorno dopo, oplà, dalla fogna social al quotidiano coi fiocchi la difesa degli oppressi per il tramite del 7 ottobre perché «lo dicono anche le Nazioni Unite».
Le stelle di Davide a marchiare le case degli ebrei in Europa hanno complici e mandanti. Panorama il 31 Ottobre 2023
Siamo tornati ad immagini che ci riportano a 90 anni fa. Ma questa volta le colpe non stanno nel mondo di destra, anzi Fermatevi un momento e guardate queste foto. Scorretele una per una. E pensate…
Alcune sono state scattate oggi in Francia, a Parigi, in una zona centrale abitata da ebrei. Le altre, analoghe, in realtà sono di 10 giorni fa ed arrivano dalla Germania. La sostanza è la stessa: siamo al marchio, siamo alla segnalazione delle case degli ebrei, siamo tornati indietro di 80, 90 anni ai tempi del genocidio. Ripetiamo: siamo tornati al genocidio degli ebrei. Stiamo esagerando? Beh, chi pensa questo è invitato a vedersi i video (qui ne trovate uno) di quelli girati domenica in Dagestan dove l’aeroporto è stato preso d’assalto da centinaia di musulmani inferociti che hanno assaltato un aereo per la sola colpa di provenire da Israele. Non fosse intervenuta la Polizia il linciaggio dei presenti sarebbe stato certo, matematico. Queste stelle a sei punte sulle porte e sui muri di casa sono forse la cosa più orribile che l’Europa abbia offerto a tutti noi.
Vi ricordate un anno fa quando in campagna elettorale e nei giorni di formazione del governo Meloni la sinistra gridava all’allarme «fascismo»? Quando bastava una parola, una foto di anni prima per lanciare il ricordo di quello che accadde in Italia negli anni ’30 e ’40? Si è scoperto in fretta che erano tutte bugie, paure lanciate non avendo altro di politico da proporre agli elettori. Bene, eccolo l’odio nella sua forma peggiore, eccolo su quelle porte, eccolo nelle manifestazioni che anche in Italia vedono giovani strappare la bandiera di Israele (tra gli applausi di chi dice di manifestare per la Pace) ed altri inneggiare alla guerra ai sionisti con un megafono in mano e poco più di 20anni sulla carta di identità davanti ai piazzali delle nostre università. Ma ovviamente è, per loro, un odio «buono», «giusto», anzi, non è nemmeno odio perché Israele e gli ebrei tutto questo se lo meritano essendo brutti, cattivi e colpevoli. Ora però dobbiamo chiederci con sincerità da dove arrivi tutto questo, dove nasce questo incendio mondiale che si sta allargando giorno dopo giorno, piazza dopo piazza. È evidente che buona parte di questo odio ci sia sempre stato, magari nascosto nell’animo ma sempre pronto ad esplodere; e quanto sta accadendo questi giorni in Medio Oriente non è la causa ma solo la scintilla che ha riacceso tutto. C’è poi nel mondo islamico fondamentalista quel desiderio scritto nero su bianco e gridato a tutto il mondo di voler sottomettere chi non la pensa come loro, no alla Jihad, la Guerra Santa. C’è però anche la responsabilità di intellettuali, politici e commentatori che dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas in Israele, usa il famoso MA… «condanniamo Hamas, MA…» e dopo i puntini avanti con una serie di richiami storici, culturali, economici e religiosi con cui alla ne si dice che il colpevole sia l’ebreo di Israele. Quelli che in questi giorni, mentre da Gaza sono arrivati quasi ad 8 mila i razzi lanciati verso Israele, raccontano e mostrano sui social solo le immagini dei morti palestinesi, come se quelli israeliani valessero meno, se non proprio «zero». Quelli che «la risposta di Israele è troppo violenta» mentre la violenza di chi ha decapitato la 22enne Shani Louk, uccisa dopo essere stata rapita al rave della strage del 7 ottobre, non conta ed è giustificata. Adesso tornate in cima e riguardate quelle foto, quelle stelle di Davide su porte e muri. Siamo davanti ad uno dei punti più bassi della nostra società perché tutto questo lo avevamo già visto e ci eravamo detti che non sarebbe più successo. Invece eccolo qua, con tante grazie ai veri Nazisti del 21° secolo.
Ebrei d’inciampo. Storia naturale dell’antisemitismo del Ventunesimo secolo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 2 Novembre 2023
Perché le piazze pacifiste non chiedono il cessate il fuoco ad Hamas e il rilascio degli ostaggi? Quale abiezione può portare a strappare dai muri i volantini con i volti dei rapiti ebrei e a incendiare le pietre che ricordano chi fu sterminato nei campi di concentramento? Forse perché non sono pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari
Non ho idea di che cosa debba fare Israele per resistere alla minaccia esistenziale posta da Hamas e per garantire pace e sicurezza ai suoi cittadini, né come debba farlo. So che deve farlo, che è giusto che lo faccia, e che dovrà trovare un modo (che io non conosco) per non allargare ulteriormente la mostruosa carneficina cominciata con il pogrom antiebraico di Hamas del 7 ottobre e continuata con i bombardamenti israeliani su Gaza.
So, inoltre, che cancellare Hamas da Gaza probabilmente non libererà i duecento ostaggi ebrei, ma libererà i palestinesi da una teocrazia medievale, corrotta, e imbevuta di un culto millenarista della morte che nasce dall’incontro tra il fondamentalismo islamico e l’ideologia nazista favorito da un ammiratore di Hitler e Mussolini come Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, e da un appassionato lettore dei Protocolli dei Savi di Sion come l’ideologo islamista Sayyid Qutb.
Magicamente, le parole di al-Banna e un passaggio dei Protocolli antisemiti fabbricati dalla Russia zarista per perseguitare gli ebrei sono riportati nel documento di fondazione di Hamas del 1988. Chissà come mai, poi, Hamas agisce con metodi e finalità conseguenti.
Hamas oggi è un’organizzazione eterodiretta da Ayatollah misogini e reazionari che se ne infischiano della questione palestinese, perché impegnati a uccidere le ragazze che si sciolgono i capelli, a finanziare il terrorismo internazionale e a sabotare qualsiasi tentativo di accordo di pace in Medioriente, come quello che per il momento sono riusciti a fermare grazie al pogrom antiebraico eseguito da Hamas il 7 ottobre.
Che fare, dunque? Non lo so, come non lo sa nessuno dei più sensati tra noi.
Lo scrittore tedesco W.G. Sebald in “Storia naturale della distruzione” ha descritto con precisione vivida gli effetti mostruosi del milione di tonnellate di bombe anti naziste sganciate dagli alleati a metà degli anni Quaranta su centotrentuno città tedesche, con i settecentomila civili uccisi e i sette milioni di sfollati rimasti senza casa.
Sebald si interrogava sulle ragioni del rimosso collettivo nazionale tedesco, su «un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milioni di esseri umani nei suoi lager» e che quindi «non poteva certo chiedere conto, alle potenze vincitrici, della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città tedesche».
Ma il punto è se oggi, di fronte a tale distruzione, scenderemmo in piazza a chiedere il cessate il fuoco, a denunciare il genocidio dei tedeschi, e a inneggiare a “Free Nazi Germany” e al suo Lebensraum, allo spazio vitale che Hitler rivendicava dai Pirenei agli Urali, come Hamas dal Giordano al mare, come se nessun altro avesse diritto di esistere.
Siamo nel Ventunesimo secolo e per fortuna certe cose, come radere al suolo Amburgo o Dresda o il quartiere romano di San Lorenzo o Hiroshima, non sono più moralmente accettabili, almeno in Occidente, anche se sono tuttora brutalmente praticate da Grozny ad Aleppo, dallo Xinjiang a Kharkiv, a Mariupol, a tutta l’Ucraina, e ora a Gaza ma in risposta a un attacco.
Nessuno però scende in piazza per chiedere il cessate il fuoco ai russi, ai cinesi, agli iraniani, a nessuno degli ultimi imperialismi del pianeta. In Occidente si protesta solo contro l’America e contro Israele, considerati più o meno la stessa entità capitalista teleguidata dalla medesima lobby ebraica.
Che si protesti contro sé stessi non è una cosa negativa né banale, anzi dimostra la superiorità della civiltà occidentale rispetto alle alternative che abbiamo a disposizione (prima di indignarsi: la civiltà non è un concetto razzista, ma la forma con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale di uno o più popoli uniti da uno stesso sistema di valori condivisi).
Il problema quindi non è la mobilitazione contro i supposti crimini di guerra commessi da Israele, ma la mobilitazione soltanto contro Israele, la cui particolarità e unicità rispetto ad altri soggetti dello scenario internazionale è che Israele è lo Stato degli ebrei.
Il problema non è il diritto a indignarsi per le stragi compiute da Tsaal a Gaza, ma non manifestare mai contro i responsabili delle stragi islamiste che infiammano il mondo, mai contro Hamas, mai contro l’Isis, mai contro Bin Laden, mai contro gli Ayatollah, mai contro Bashar Assad e il suo complice Vladimir Putin. Mai contro la nuova caccia all’ebreo.
C’è una piccola cosa che rivela come il pregiudizio antiebraico sia tornato a manifestarsi in Occidente in tutta la sua brutale pericolosità anche nel Ventunesimo secolo.
Questa piccola cosa è la pratica diffusa a New York come a Milano, a Londra e in altre città europee, di strappare dai muri i sobri manifesti che ricordano i volti e le storie dei duecento ostaggi ebrei in mano ad Hamas.
Sono giorni che mi chiedo quale stato di degradazione morale possa portare un americano o un europeo al gesto abietto di strappare il volantino che tiene viva la speranza dei familiari di poter riabbracciare un bambino o una ragazza detenuta dagli aguzzini di Hamas?
Non riesco a capacitarmi di cosa possa passare per la mente di un militante per la pace che però è favorevole al mantenimento dello status di ostaggio di un coetaneo ebreo. Non crede che Hamas abbia preso ostaggi? Nega, come certuni a proposito delle camere a gas, che Hamas abbia compiuto la strage del 7 ottobre? Pensa che gli ebrei si meritino di essere uccisi, torturati, stuprati e usati come scudi per proteggere i missili e le armi con cui poter ammazzare altri giudei?
Mi chiedo quanto sia sincero lo sdegno per la tragedia in corso a Gaza se non si dice una parola contro gli sterminatori di Hamas e addirittura si va a strappare i volantini dai muri per cancellare la memoria dei civili ebrei rapiti in quanto ebrei?
La stessa domanda vale per quegli imbecilli che, mentre sfilavano per la Palestina a Roma, hanno bruciato le pietre d’inciampo con i nomi dei deportati ebrei sterminati ottanta anni fa nei campi di concentramento nazisti: che cosa porta a profanare le vittime dell’Olocausto nazista mentre si marcia per la pace?
La risposta a questa domanda è univoca e terribile: a muoverli è il drammatico ritorno nella nostra società dell’orgoglio antisemita. Non che dopo l’Olocausto fosse sparito del tutto, ma erano decenni che non andava di moda ostentarlo.
A conferma, c’è anche l’appello ad Israele, soltanto ad Israele, esclusivamente ad Israele, affinché cessi il fuoco, senza una altrettanto accorata supplica ad Hamas e all’Iran affinché rilascino gli ostaggi e smettano di lanciare i missili su Israele che hanno provocato la guerra.
La storia insegna che le guerre finiscono in tre modi: con il dietrofront di chi le ha cominciate, con la capitolazione dell’aggredito o con la vittoria militare di uno dei due contendenti.
I pacifisti che credono davvero nella pace dovrebbero chiedere ad Hamas di rilasciare gli ostaggi (e alla Russia di tornarsene a casa), altrimenti la migliore opzione per far tacere le armi è augurarsi una celere vittoria militare di Israele (e dell’Ucraina).
Sempre, ovviamente, che non preferiscano rinunciare alla società aperta, piantarla con i diritti civili e vivere in una dittatura teocratica (e imperialista). Nel qual caso, non sarebbero pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari.
Dreyfus 2023. L’antisemitismo sbandierato dei musulmani d’Europa. Carlo Panella su L'Inkiesta il 2 Novembre 2023
Nel continente ci sono trenta milioni e più di ammiratori di Hamas, concittadini che di fatto o apprezzano o non si scandalizzano per un pogrom di ebrei. Una frattura nell’essenza stessa di questa terra
«Aprite i confini, uccidiamo gli ebrei!». Questo abbiamo sentito gridare nelle vie di Milano. «Rivedrete Hitler all’inferno!», minaccia un cartello nella manifestazione di Bologna. A Parigi, ottanta case e sedi di ebrei sono state marchiate per sfregio con la stella di Davide. A Berlino, i manifestanti hanno assaltato due sinagoghe. Le aggressioni antisemite dal 7 ottobre a oggi in Francia sono ottocentocinquantasette, il sessanta per cento contro le persone. In Italia sono quarantadue. Ovunque, in Europa, gli ebrei hanno paura.
Viviamo, di nuovo, il clima mefitico del processo Dreyfus. L’Europa si divide sul tradimento, sul sangue degli ebrei. Un tempo cupo. Di vergogna. Il tentato pogrom all’aereo israeliano in Daghestan, le centinaia di musulmani che al grido di «morte a Israele» protestano per la bandiera di Israele sul municipio di Monfalcone, i centomila a Londra, per due settimane di seguito, e le migliaia a Milano e a Roma e ovunque che strappano la bandiera di Israele e urlano «Palestina dal Giordano al mare» cioè «distruggiamo Israele». Tutto questo è solo la punta di un iceberg inquietante: in Europa abbiamo trenta milioni e più di ammiratori di Hamas, alcuni esaltano e giubilano nelle piazze all’orribile pogrom di millequattrocento ebrei, donne e bambini, altri lo apprezzano in silenzio, altri lo giustificano come «resistenza». Sono le decine e decine di milioni di immigrati musulmani di prima, seconda e terza generazione. E si contano sulla punta delle dita quelli che si dissociano e condannano la strage di ebrei. Un quadro terribile, una frattura, uno iato nell’essenza stessa dell’Europa che può essere insanabile e dalle conseguenze devastanti in un continente ormai offeso da migliaia di atti di antisemitismo.
Un episodio apparentemente marginale, non di antisemitismo, spiega quale clima si respiri in Francia. Sono ben duecentottanta gli studenti liceali, immigrati di seconda generazione, che si sono rifiutati di rendere omaggio ai due professori Samuel Paty e Dominique Bernard massacrati da jihadisti. Per loro sgozzarli era giusto perché hanno offeso l’Islam.
Dunque, in Europa abbiamo un problema. Grave. Conviviamo con decine di milioni di concittadini che di fatto o apprezzano o non si scandalizzano per un pogrom di ebrei. Rare, rarissime le eccezioni. Anche in Italia. Abbiamo addirittura sciagurati, come l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon in Francia che rifiutano di condannare il pogrom ai confini di Gaza nel cinico intento di raccogliere i voti degli immigrati di seconda o terza generazione, cittadini francesi, ormai. I giovani delle banlieue in primis.
Come si è arrivati a questo punto – per ignavia e sconsideratezza – è noto ed Henry Kissinger ce lo rimprovera: «È stato un grave errore fare entrare tante persone di religione, valori e cultura diversi». Soprattutto stride l’abisso che ci separa sui valori. Perché sono, dovrebbero essere universali. Ma così non è.
Inascoltato, anzi ferocemente criticato, ventitré anni fa il cardinale di Bologna Giacomo Biffi era stato lucido profeta: «Gli islamici – nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione – vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità” individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente essi vengono da noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro. (…) hanno un diritto di famiglia incompatibile con il nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli Stati occidentali moderni a dover fare bene i conti al loro riguardo». Estranei alla nostra umanità. Questo è il punto.
Venti anni dopo, col suo famoso discorso di Mureux, Emmanuel Macron, liberale e progressista, già ministro in un governo socialista, ha fatto i conti e ha preso atto che la partita rischia ormai di essere persa. Ha denunciato come una «cancrena della Repubblica» il «separatismo» praticato da una componente grande dell’immigrazione islamica che «pretende di far valere le regole della sharia sopra e contro le leggi della Repubblica».
Ma, con la strage di ebrei del 7 ottobre, è stato fatto un passo oltre. Ci divide da milioni e milioni di immigrati islamici il ripudio di un pogrom. Un antisemitismo che ormai non ha più timore di manifestarsi sfacciatamente. E questo è ben più grave, irreparabile.
Che fare dunque? Si può porre rimedio all’irreparabile? Decenni e decenni di irenico dialogo interreligioso sono naufragati sulla reazione di decine di milioni di immigrati in Europa al pogrom ai confini di Gaza. Le denunce populiste di certa destra restano tali: utili, forse, solo a prender voti. Sterili e dannose.
C’è uno spiraglio, uno solo e minimo: dare voce a quella esigua minoranza di musulmani che rigettano il jihadismo senza se e senza ma – non solo a parole – e che denunciano, almeno in cuor loro, il pogrom degli ebrei.
Ci sono. Sono pochi. Ma trovarli e dare loro voce è compito urgente di una politica lungimirante. Nei fatti questo significa occuparsi della formazione degli Imam, che oggi in Europa viene fatta essenzialmente dai Fratelli Musulmani – a Chateau Chinon in Francia. Significa dare vita a media che parlino e scrivano in arabo e che veicolino valori universali contro il dogmatismo shariatico. Significa intraprendere un difficile cammino che tenti – l’impresa è quasi disperata – di recuperare un terreno di comunicazione e di intesa con un Islam in Europa che o esalta il pogrom del 7 ottobre o lo condivide in silenzio o, al massimo, si dimostra indifferente. Significa rendersi conto che siamo di nuovo di fronte all’innocente Dreyfus. In peggio.
Mai più? Se nessuno si offende, forse il tentativo di linciare degli ebrei in quanto ebrei si può definire antisemitismo. Francesco Cundari l'1 Novembre 2023 su L'Inkiesta.
In un aeroporto russo domenica una folla armata ha dato la caccia ai passeggeri di un volo proveniente da Israele, al grido di «Allah akbar» e «uccidete gli ebrei». Ma nemmeno questo episodio, a quanto pare, si può chiamare con il suo nome
Quando sentiamo dire che non bisogna confondere le dimostrazioni di solidarietà verso la Palestina con l’antisemitismo diamo per scontato che la distinzione sia a tutela del buon nome dei manifestanti e della loro causa, in polemica con chi vorrebbe screditarla, equiparando legittime mobilitazioni politiche all’istigazione all’odio e alla violenza. Distinzione su cui dovremmo essere tutti d’accordo.
Ma come dobbiamo reagire di fronte al caso perfettamente speculare, in cui cioè è la più classica manifestazione di antisemitismo, la caccia agli ebrei, l’inseguimento di persone colpevoli solo di essere identificate come tali da parte di una folla inferocita – cioè esattamente quello che è accaduto domenica notte in un aeroporto del Daghestan, nella ridente federazione russa – a essere definito «una protesta contro l’arrivo di un volo da Israele» da parte di manifestanti pro Palestina?
«E la notte dei cristalli era una protesta contro le finestre», ha commentato Garry Kasparov su Twitter, X o come si chiama adesso. Come dissidente russo, del resto, il grande scacchista ha una certa esperienza nell’uso orwelliano della lingua.
Si tratta peraltro di un caso che ha coinvolto il meglio della stampa occidentale, dall’Associated Press («Folla prende d’assalto un aeroporto russo per protestare contro il volo proveniente da Israele») a fior di giornali e telegiornali italiani, che in parte si sono limitati a tradurre il titolo dell’Ap, in parte hanno aggiunto surreali dettagli sulla folla che – sempre «per protestare», s’intende – se ne va «alla ricerca dei passeggeri dell’aereo», neanche volesse controllare i loro biglietti.
Ecco, in un caso del genere, secondo voi, chi vorrebbe screditare chi? E per quale motivo? Che cosa spinge tanti autorevoli organi di stampa, per giunta in un tempo così attento alle parole e alla sensibilità di tutti, a chiamare «protesta» un tentativo di linciaggio in piena regola?
Davanti alle telecamere dell’aeroporto (e degli stessi assalitori) ha sfilato una folla con in mano armi, pietre e bandiere palestinesi, gente che gridava «uccidete gli ebrei» e «diteci dove sono gli ebrei», oltre all’immancabile «Allah Akbar». Siamo sicuri di voler utilizzare, per questo genere di cose, gli stessi termini e gli stessi concetti che abbiamo utilizzato per commentare le manifestazioni degli ultimi giorni?
Certo che no, ovviamente. Ci mancherebbe. Benissimo. Permettetemi allora di rivolgervi, nella forma più neutra che mi è possibile, una seconda domanda: come ve lo spiegate? Da cosa nasce l’impulso, l’istinto, il bisogno di non chiamare linciaggio, pogrom, caccia agli ebrei, quella che è a tutti gli effetti e inequivocabilmente una caccia agli ebrei?
E già che ci siamo: perché mai di un fatto tanto clamoroso si è parlato non solo così male, ma anche così poco? Ecco uno spunto interessante per qualche articolo giornale, ma forse anche per un tema, magari proprio in quel liceo romano in cui un professore ha proposto ai suoi studenti, come traccia sul conflitto in Medio Oriente, le posizioni di un compagno di classe italo-israeliano, citandolo per nome e cognome. La cosa più grave, però, è il modo in cui l’insegnante ha risposto a una domanda di Repubblica sui sentimenti del ragazzo, da lui messo alla gogna in quel modo: «Si sente scosso? Anche io, perché c’è un genocidio in atto». Si direbbe una rivendicazione.
Nel frattempo, a Parigi, ieri notte, su una sessantina di edifici del quattordicesimo arrondissement qualcuno ha dipinto un gran numero di stelle di David. Anche lui, immagino, per protestare contro le atrocità del regime nazista di Tel Aviv.
Estratto da repubblica.it il 7 Settembre 2023
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è al centro di una furiosa polemica in seguito a un suo intervento tenuto a fine agosto al Comitato rivoluzionario di al-Fatah - riferito dal centro studi Memri - in cui ha sostenuto che Hitler perseguitò gli ebrei europei "perché si occupavano di usura e di traffici monetari".
"Tutti sanno - ha detto Abu Mazen secondo Memri, organizzazione nata in America che si occupa di tradurre dall’arabo discorsi e articoli riguardanti il Medio Oriente - che nella Prima guerra mondiale Hitler era un sergente. Combatteva gli ebrei perché si occupavano di usura e di traffici monetari. A suo parere erano impegnati in sabotaggi, e perciò li odiava. Ma un punto deve essere chiaro: non aveva a che vedere con semitismo o antisemitismo". Abu Mazen, secondo Memri, si è detto infatti persuaso che gli ebrei europei non siano di stirpe semita e che siano semmai i discendenti del regno dei Cazari, situato a suo tempo nel Caucaso.
"Viene detto - ha aggiunto Abu Mazen - che Hitler uccise gli ebrei in quanto tali, che l'Europa odiava gli ebrei perché tali. Non è vero. Gli ebrei erano odiati per il loro ruolo sociale, non per la loro religione".
[…] Il Museo della Shoah di Yad Vashem ha accusato il presidente palestinese di negazionismo dell'Olocausto e ha biasimato i partecipanti alla riunione che ne hanno accettato il contenuto.
Su X (l’ex Twitter) l'ambasciatore di Israele all'Onu Gilad Erdan ha commentato: "Mentre diffonde puro antisemitismo, Abu Mazen paga terroristi palestinesi perché uccidano israeliani e li incoraggia pubblicamente. Il mondo deve ritenerlo responsabile dell'odio che egli diffonde".
Molto dura anche la reazione dell’Unione Europea, attraverso un portavoce del Servizio di Azione Esterna dell'Ue: "Tali distorsioni storiche sono infiammatorie, profondamente offensive, possono solo servire a esacerbare le tensioni nella regione e non servono gli interessi di nessuno: fanno il gioco di chi non vuole la soluzione dei due Stati […].”[…]
In particolare, le affermazioni di Abu Mazen non sono state gradite dalla diplomazia tedesca: "La storia è chiara", ha detto la missione di Berlino a Ramallah, la capitale dell’Autorità nazionale palestinese. "Milioni di vite sono state cancellate: questo non può essere relativizzato. […].
[…] Il presidente palestinese, che ha 87 anni, non è nuovo a simili uscite. Già in passato era stato accusato di antisemitismo per la sua tesi di dottorato sui nazisti e il sionismo. Ma nel corso degli anni ha continuato a tenere lunghi discorsi in cui esponeva le sue teorie.
Abu Mazen aveva suscitato scalpore a livello internazionale per aver sostenuto tesi simili nel 2018, durante quella che descrisse come “una lezione di storia” in una rara riunione del Consiglio nazionale palestinese. […]
Ancora lo scorso anno, Abu Mazen scatenò l’indignazione internazionale dopo aver affermato […] che Israele aveva compiuto "50 massacri, 50 Olocausti". Più tardi Scholz disse che era "disgustato dalle osservazioni oltraggiose" del suo ospite.
"Hitler li uccise perché usurai". La frase choc contro gli ebrei. Storia di Mauro Indelicato su Il Giornale giovedì 7 settembre 2023.
Le dichiarazioni incriminate e in grado di far scoppiare nuovamente una forte tensione tra israeliani e palestinesi sono state pronunciate nello scorso mese di agosto. Ma sono divenute pubbliche soltanto nelle ultime ore. Abu Mazen, successore di Arafat alla guida sia del partito Al Fatah che dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anm), ha in particolare parlato dell'Olocausto durante la Seconda guerra mondiale come di un fatto causato "dall'attività di usura portata avanti dagli ebrei in Europa". Parole subito condannate da Israele, il cui rappresentante all'Onu ha accusato Abu Mazen di negazione dell'eccidio perpetuato durante la seconda guerra mondiale.
Le parole di Abu Mazen
Il presidente palestinese ha espresso le sue considerazioni durante un comitato rivoluzionario di Al Fatah, il partito fondato dal suo predecessore Arafat e per lungo tempo unica guida politica dell'Anm. Secondo Abu Mazen, le ragioni dell'Olocausto non vanno ricercate nell'antisemitismo. Nel suo discorso, riportato dal centro studi Memri, il leader palestinese ha negato ogni movente razziale da parte di Adolf Hitler.
"Tutti sanno - ha detto Abu Mazen nel suo discorso al comitato rivoluzionario di fine agosto - che nella prima guerra mondiale Hitler era un sergente. Combatteva gli ebrei perché si occupavano di usura e di traffici monetari. A suo parere erano impegnati in sabotaggi, e perciò li odiava. Ma un punto deve essere chiaro: non aveva a che vedere con semitismo o antisemitismo".
Puntualizzare questo aspetto per Abu Mazen non vuol dire soltanto attuare una revisione storica, ma sottolineare ai membri del suo partito un punto su cui spesso i palestinesi hanno battuto per giustificare il proprio astio verso Israele. Ossia, rivendicare il fatto che gli attuali ebrei israeliani non hanno origini semite e non sono i discendenti degli ebrei che dimoravano in Palestina nell'antichità.
"Gli ebrei europei non sono di stirpe semita e sono semmai i discendenti del regno dei Cazari, situato a suo tempo nel Caucaso - ha proseguito Abu Mazen nel discorso riportato dal centro Memri - Viene detto che Hitler uccise gli ebrei in quanto tali, che l'Europa odiava gli ebrei perché tali. Non è vero. Gli ebrei erano odiati per il loro ruolo sociale, non per la loro religione".
In tal modo, oltre a sottolineare un'origine non mediorientale degli attuali israeliani, Abu Mazen ha anche messo in cattiva luce la popolazione europea perseguitata durante il nazismo. Due aspetti che non mancheranno di causare polemiche. Anche perché, sotto il profilo prettamente politico, Al Fatah e Anm già da 30 anni riconoscono Israele e il diritto all'esistenza di Israele. Per cui gli argomenti proposti ad agosto da Abu Mazen sembrano portare indietro di almeno tre decadi le lancette dell'orologio.
Le reazioni in Israele
Il primo a intervenire ufficialmente contro le frasi del leader palestinese, è stato il rappresentante di Israele all'Onu, Gilad Erdan."Mentre diffonde puro antisemitismo - ha scritto il diplomatico su X/Twitter - Abu Mazen paga terroristi palestinesi perché uccidano israeliani e li incoraggia pubblicamente. Il mondo deve ritenerlo responsabile dell'odio che egli diffonde".
Altre reazioni molto critiche sono arrivate anche dalla stampa israeliana. In particolare, c'è il timore che le parole di Abu Mazen possano incidere e non poco nell'attuale contesto già molto teso tra israeliani e palestinesi. Negli ultimi mesi infatti il terrorismo è tornato a colpire in Israele, mentre nei territori palestinesi l'esercito dello Stato ebraico è più volte intervenuto con azioni militari rivolte contro cellule estremiste.
Da FdI solidarietà a Israele e accuse alla Boldrini: “Chiarisca sugli incontri con gli amici di Hamas”. Giulio Fioretti su Il Secolo D'Italia il 4 Luglio 2023.
Nel giorno del terribile attentato palestinese a Tel Aviv, scoppia lo scandalo dei possibili e presunti rapporti tra Hamas e un gruppo di parlamentari italiani, appartenenti al centrosinistra. Secondo un articolo uscito su Repubblica ci sarebbero stati dei fondi dati a Mohammad Hannoun, Presidente della Palestinian association in Italy. Cinquecentomila euro, secondo l’indagine condotta anche dallo Shin Bet, l’agenzia di intelligence israeliana, si trovano in qualche modo in Italia. Hannoun – come Repubblica ha dato più volte conto negli scorsi mesi – è stato accusato, senza però avere mai ripercussioni penali, di nascondere dietro al suo gruppo un sostegno economico ai gruppi di kamikaze palestinesi.
I rapporti pericolosi di Hannoun e l’affondo di Fratelli d’Italia
Secondo il quotidiano di Piazza Indipendenza: “Hannoun – che ieri ha preferito non rispondere alle domande di Repubblica – ha continuato a svolgere la sua attività, incontrando anche una serie di parlamentari e politici italiani. Da sempre molto vicino ad alcuni deputati 5 Stelle – era stato ricevuto anche dall’ex sottosegretario Manlio di Stefano mentre organizzava preghiere del venerdì con Sheykh Riyad Al Bustanji, uno dei predicatori più radicali dell’islam – negli archivi recenti spunta un viaggio organizzato a gennaio con Alessandro Di Battista e la deputata e capogruppo 5 Stelle in commissione antiterrorismo Stefania Ascari, per visitare i campi profughi palestinesi”
Una vicenda che ha scatenato la dura reazione di Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di Fratelli d’Italia che oggi in Parlamento ha detto di ritenere “importante per quest’Aula comprendere fino in fondo i rapporti tra i parlamentari del gruppo Amici della Palestina e questa associazione che finanzia Hamas, che è un’organizzazione terroristica secondo le nostre istituzioni europee. La senatrice Ester Mieli ha chiesto chiarezza al Senato, lo faccio anche io alla Camera: non vorrei che dietro agli attacchi ad Israele ci fosse un malcelato antisemitismo di fondo”.
La solidarietà di Malan e le giustificazioni di Boldrini
“Desidero manifestare solidarietà al governo e al popolo d’Israele, nuovamente vittima di attentati. Fa specie, in questo contesto, che organi di informazione, e non solo, siano pronti a esecrare operazioni antiterrorismo, senza le quali gli attentati dovrebbero finire di volte più numerosi e micidiali” ha dichiarato il capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan. L’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha invece riposto a Donzelli affermando di non avere “mai avuto alcun contatto con associazioni che finanziano Hamas”. “Come Intergruppo parlamentare per la pace tra Palestina ed Israele abbiamo chiesto un incontro al ministro degli Esteri e che venga a riferire in Aula sulla situazione”.
“Io negli anni ho incontrato molte delegazioni straniere, anche palestinesi, e dunque è difficile ricordare serenamente i nomi di ognuno di loro. La cosa certa è che io non ho nulla a che fare con associazioni che finanziano il terrorismo”, ha aggiunto, all’Adnkronos, Laura Boldrini, a chi le ha contestato di aver ricevuto a Montecitorio Mohammad Hannou. “Se anche fosse successo, specie a margine di un incontro come è stato scritto da alcuni giornali – ha aggiunto Boldrini –, la polemica mi sembra strumentale e infondata”.
La Lega rincara la dose: “Fatti gravi da esponenti di Pd e 5 stelle”
La giustificazione di Boldrini è stata ritenuta insufficiente dalla senatrice della Lega Stefania Pucciarelli, capogruppo in commissione Esteri e Difesa a Palazzo Madama, secondo la quale “i gravi fatti di cronaca riportati oggi che raccontano di un intervento per sequestro di denaro, notificato all’Associazione benefica di Mohammad Honnoun, per finanziamento al terrorismo e, in particolare, al gruppo di Hamas non possono passare inosservati”. “Nonostante abbia ricevuto negli anni diverse segnalazioni, Honnoun ha continuato a svolgere la sua attività, e ha avuto vari incontri con alcuni parlamentari e politici del Pd e dei 5 Stelle”. La Pucciarelli accusa Laura Boldrini per aver ricevuto l’estate scorsa l’associazione incriminata, anche se già segnalata all’Antiriciclaggio, “così come ricordiamo la capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Antimafia Stefania Ascari, per aver partecipato a un viaggio, lo scorso gennaio, organizzato dall’associazione di Hannoun”. Una vicenda tutta da chiarire che getta ombre su un’area di contiguità politica e su un antisemitismo di sinistra da sempre esistente e finanche sbandierato dai gruppi estremisti.
"Vittime silenziose di un genocidio". Conte contro Israele: la grillina Ascari ospite degli amici di Hamas in Svezia. Redazione su Il Riformista l'1 Giugno 2023
L’Olimpo della sinistra europea pro Palestina – e anti Israele – ha partecipato all’evento organizzato dalla “Conferenza Ue dei palestinesi” e celebrato nel fine settimana a Malmö, in Svezia. La notizia ha fatto eco anche in Italia soprattutto per la partecipazione della deputata pentastellata Stefania Ascari, accolta con calore alla kermesse dall’agenzia vicina ad Hamas, Quds news network.
Inquietudine e polemiche si sono propagate dalle parole di David Lega deputato europeo svedese e membro della commissione Esteri e Diritti umani che ha dichiarato: “Sono davvero furioso”. La linea dei 5stelle è sempre stata ambigua nei confronti di Israele, posizione condivisa sin dalla nascita dell’allora Movimento sia dal padre padrone Beppe Grillo, sia da quello che fu il suo primo delfino, Alessandro Di Battista le cui orme, l’onorevole Ascari, ha sempre seguito. Secondo la deputata i palestinesi sono “vittime silenziose di un genocidio” e i territori contesi sono “un inferno sulla Terra”.
La colpa? Ovviamente da addebitare a Israele, senza considerare tutte le parti in gioco come quella degli Stati arabi o del terrorismo di Hamas. Ascari era stata già al centro delle polemiche per aver portato a gennaio alla Camera Mohammad Hannoun, presidente di una controversa onlus finita sotto la lente dell’Antiriciclaggio per presunti legami con Hamas. Lo stesso Hannoun (come riporta Infopal) ha guidato la delegazione italiana capitanata da Ascari alla conferenza di Malmö guidata da Amin Abu Rashed, considerato da molti come emissario di Hamas in Europa.
L'ultima di Di Battista: parteciperà a un convegno anti Israele. Annarita Digiorgio il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Insieme all'ex grillino sarà presente anche un parlamentare vicino a Nicola Fratoianni
Ha il conto corrente bloccato l’Associazione benefica di solidarietà con il Popolo palestinese, ma prosegue nella sua attività di sostegno ad Hamas. E al suo fianco, come sempre, Alessandro Di Battista, questa volta accompagnato da un deputato della lista di Bonelli e Fratoianni: Tito Magno. “Al Quds è nostra” è il titolo della manifestazione che si terrà il 29 ottobre in un hotel di Assago.
"Siamo attivi secondo priorità in diverse zone del medio oriente, in primis in Palestina dove realizziamo progetti educativi ma anche di ricostruzione edilizia, riqualificazione del territorio nonché siamo attivi nell’ambito sanitario"è scritto sul sito-Assistiamo dove possibile personalmente i bisognosi e dove non ci è possibile andare fisicamente abbiamo referenti in loco che verificano lo stato di sicurezza e salute di tutti i palestinesi che ci è possibile. Siamo inoltre presenti nei campi profughi di: TURCHIA, SIRIA, GIORDANIA, LIBANO, CISGIORDANIA, oltre a GERUSALEMME e naturalmente la striscia di GAZA. ABSPP Onlus realizza programmi di sostegno a distanza che si sviluppano in base alle priorità del momento e comprendono interventi in diversi ambiti con l’obiettivo di sostenere le persone sul proprio territorio e riqualificare le città e le campagne e aiutare il sistema economico interno palestinese. L’associazione è presieduta dall'architetto Mohammad Hannoun, e ha sedi a Milano, Genova e Roma".
L'interrogazione di Fdi
Hannoun è al centro di un'intensa attività di lobbing pro Palestina che ha coinvolto diversi esponenti dei 5 stelle, tra cui l’ex sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano. Tant’è che, in una interrogazione parlamentare, il deputato di Fratelli d'Italia Andrea Del Mastro Delle Vedove chiedeva se "l'associazione Abspp o altre associazioni guidate da Hannoun abbiano ricevuto fondi italiani per la cooperazione internazionale".
A fine dello scorso anno le fu bloccato il conto corrente perché perché sospetta di aver finanziato soggetti non censiti in Palestina e altri inseriti nelle black list delle banche europee. Eppure negli anni aveva avuto contatti con diversi esponenti politici tra cui Matteo Orfini e Laura Boldrini del Pd e Fratoianni. Ma è Di Battista ancora il loro rivoluzionario di riferimento. Insieme ad un nuovo deputato dei cocomeri.
"Raccoglie fondi per i terroristi". L'amico di Dibba vicino a Hamas. Stefano Zurlo il 5 Luglio 2023 su Il Giornale.
Il report dei servizi israeliani sull'architetto Hannoun. Gli incontri con i 5 Stelle Di Stefano, Ascari e Di Battista
Un viaggio nei Territori palestinesi. Solidarietà e aiuti per le popolazioni che vivono in condizioni drammatiche ma anche una contiguità con personaggi che si muovono nell'orbita dei gruppi estremistici che alimentano il terrorismo in Cisgiordania.
Ora, come rivela Repubblica, i riflettori si accendono su un professionista assai controverso, già oggetto di investigazioni nel passato, l'architetto Mohammad Hannoun, fondatore dell'Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese. Per lo Shin Bet, l'intelligence israeliana, i soldi che Hannoun raccoglie per scopi nobili vengono girati in realtà alle strutture militari di Hamas e per armare le cellule che anche in questi giorni di escalation bellica stano dando filo da torcere alla macchina militare israeliana. Di qui la richiesta di sequestrare un milione circa di euro, almeno per la metà depositati su conti italiani e per il resto un po' ovunque, dalla Germania agli Stati Uniti.
Potrebbe essere una querelle che ci riguarda fino a un certo punto, ma le cose sono più complicate perché Hannoun e la sua organizzazione hanno buoni rapporti con i 5 Stelle, hanno portato in Palestina a gennaio Alessandro Di Battista e Stefania Ascari, deputata e capogruppo del Movimento in commissione antiterrorismo, e Hannoun è stato ricevuto a suo tempo anche dall'ex sottosegretario Manlio Di Stefano.
Si pone, come dire, un problema politico. Ma Ascari, raggiunta dal Giornale, respinge le critiche. A tutti i livelli. Anzitutto difende Hannoun: «Questa è la macchina del fango. Dove sono le condanne? Dove sono le sentenze?». C'è stata in verità un'inchiesta della procura di Genova, la città in cui Hannoun risiede, che non è approdata a nulla, anche per la scarsa propensione alla collaborazione delle autorità palestinesi. E ora c'è la richiesta di Gerusalemme di bloccare quel tesoretto, ma Ascari replica indignata a ogni considerazione e allarga il ragionamento: «Io sono stata con Di Battista e l'Associazione di Hannoun nei campi profughi e ho visto l'orrore: bambini che mangiano i rifiuti, famiglie che abitano in tende marce, disperazione assoluta».
Di più ancora: «Si parla tanto degli attacchi a Israele ma per me non esistono morti di serie A e di serie B e invece i 10, 11 palestinesi che sono morti in queste ore di scontri, compresi 3 bambini, non li commemora nessuno. Il nostro parlamento non spende una parola e tace, tace». La questione palestinese che si trascina da più di settant'anni torna a infiammare il Palazzo e a dividere. Non c'è solo l'Ucraina con le ambiguità e le torsioni pacifiste di Conte e, in misura minore, di Schlein. Anche l'atteggiamento nei confronti di Hamas e delle altre organizzazioni che spadroneggiano in Palestina, dove la voce di Abu Mazen è sempre più debole e isolata, suscita domande e distinguo non proprio accademici: il rischio è quello di legittimare la violenza più ideologica dell'islamismo fanatico che non è solo nemico di Israele ma di tutto l'Occidente e della democrazia. È quello che sottolinea la senatrice di FdI Ester Mieli: «Preoccupano le notizie di finanziamenti dell'associazione benefica di solidarietà ad Hamas. Una vicenda particolarmente grave perché Hamas è considerata un'organizzazione terroristica dall'Ue. Non si può essere europeisti a giorni alterni». Ma per Ascari il tema non c'è: «Come si fa a puntare il dito contro la leadership palestinese quando i palestinesi subiscono da sempre una repressione brutale?». Per Ascari la mano sanguinaria di Hamas sono solo un dettaglio di questa immane tragedia.
La promessa della terra. Report Rai PUNTATA DEL 19/06/2023
di Gianmarco Sicuro
Nella notte del 21 dicembre 2022 Benjamin Netanyahu nomina il ministro della Sicurezza Nazionale Israeliana, Itamar Ben-Gvir, capo dell’ estrema destra Potere Ebraico.
Gira armato, sostiene l’illegalità dei matrimoni tra arabi ed ebrei. Nel suo programma c’è lo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, la privazione del diritto di voto per i palestinesi, la deportazione degli arabi che non giurano fedeltà a Israele. Il 10 aprile o ha organizzato una marcia per riaprire Evyatar, il villaggio nel cuore della Cisgiordania palestinese, considerato illegale dallo stesso Israele. Benzina sul fuoco.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora gettiamo lo sguardo oltre i nostri confini che fa bene capire come vanno le cose nel mondo. Il 21 dicembre scorso Netanyahu ha nominato ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, leader dell’estrema destra israeliana Potere Ebraico. È un uomo che gira armato, vuole smantellare l’Autorità nazionale palestinese, è contro i matrimoni tra ebrei e palestinesi, vuole togliere il diritto di voto ai palestinesi e deportare quei palestinesi o arabi che non sono fedeli allo stato di Israele, non giurano fedeltà. Ora, Ben-Gvir si è annesso anche il controllo della polizia di frontiera, circa duemila soldati che sono generalmente occupati nei territori confinanti con i palestinesi, i territori occupati, e che vengono utilizzati proprio per smantellare, per sgombrare i villaggi ritenuti illegali dallo stesso stato di Israele. Allora che cosa è successo? Che il 10 aprile scorso Ben-Gvir ha organizzato un’imponente manifestazione per andare a riaprire il villaggio di Evyatar, un villaggio che viene considerato illegale dalla stessa Autorità israeliana. Insomma, è benzina sul fuoco. Giammarco Sicuro.
ZVI SUKKOT – DEPUTATO PARLAMENTO ISRAELIANO Quella gente… I Palestinesi provano a eliminare il nostro popolo ogni giorno, per cancellarci dalla terra di Israele, che è nostra. Per questo noi vogliamo far vedere che siamo qui e soprattutto, che non abbiamo paura.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Zvi Sukkot è un deputato del parlamento israeliano, eletto nel partito religioso sionista di estrema destra, e si presenta alla marcia verso l’insediamento di Evyatar armato. È il governo di Benjamin Netanyahu ad aver autorizzato questa manifestazione, alla quale partecipano anche sette ministri.
ZVI SUKKOT – DEPUTATO PARLAMENTO ISRAELIANO Voglio inviare le mie condoglianze all’Italia per il vostro concittadino. Sono dispiaciuto per quanto successo.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Il nostro concittadino è Alessandro Parini, avvocato romano travolto da un arabo israeliano alla guida di un’auto lanciata contro la folla lo scorso 7 aprile, a Tel Aviv. I manifestanti marciano per protestare contro quell’attentato ma con l’occasione sfilano nei territori palestinesi con l’obiettivo di fondare una colonia considerata illegale anche dallo stesso stato di Israele.
MANIFESTANTE 1 Questo non è territorio privato della Palestina! Vogliamo stabilirci qui e nessuno può impedircelo.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Il manifestante porta a tracolla un fucile d’assalto.
MANIFESTANTE 1 Devo proteggere la mia famiglia.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO L’uomo marcia con i figli piccoli ma i bambini sono alcune migliaia in una manifestazione che vede la presenza di circa 20mila persone. Sono quasi tutti ebrei ortodossi provenienti dalle colonie. La maggioranza dei manifestanti è armata, sfilano tra centinaia di soldati che li proteggono da possibili attacchi palestinesi. La meta è Evyatar, un insediamento che in passato e stato smantellato dalle stesse autorità israeliane. Si trova nel territorio municipale della città palestinese di Yatma. Per gli arabi è una provocazione e manifestano la loro rabbia bruciando pneumatici al passaggio dei manifestanti. I coloni, però, non si fermano e dopo una marcia di un’ora raggiungono la sommità della collina per dare il via alla cerimonia di insediamento. MANIFESTANTE 2 Ogni collina di Israele è bellissima ed è un nostro diritto stare qui! Noi siamo per la pace, ma se loro non la vogliono, pazienza! Noi rimarremo.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Anche Gula è armato.
MANIFESTANTE 2 Sono un padre e un preside d’istituto, per questo la porto sempre con me. Ve la mostro con piacere.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Gli ebrei ortodossi banchettano e festeggiano mentre Tovia Rosenfeld, artista molto conosciuto tra i coloni, intrattiene i bambini. I suoi spettacoli sono diventati un appuntamento imperdibile per queste comunità.
TOVIA ROSENFELD – ARTISTA Qua attorno è pieno di gente molto brutta, ma presto libereremo le terre di Israele. GIAMMARCO SICURO Non temete una reazione dei Palestinesi?
MANIFESTANTE 3 Ci hanno rubato la nostra terra e devono capire che ci siamo anche noi.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Appena arrivati, i coloni piantano i cartelli stradali con i nomi delle nuove vie per segnare il territorio, poi pregano, e infine prendono possesso di prefabbricati e di baracche.
DONNA 1 Non mi importa cosa diranno: siamo tornati dopo migliaia di anni e questa è casa nostra. Fine della storia.
GIAMMARCO SICURO Quindi per voi saranno i Palestinesi ad andarsene?
DONNA 1 Sì! Ed è ciò che avverrà. Ci sono così tanti posti, per loro, nel mondo… Questa è la nostra patria!
RAGAZZA 1 Perché non chiedi agli americani o agli italiani dove dovrebbero vivere? Non vedo perché lo devi chiedere a noi.
GIAMMARCO SICURO Quindi, alla fine, dovranno andarsene loro?
RAGAZZA 2 Non possiamo vivere insieme perché quando accade c’è sempre troppa violenza. Guarda le città miste, ci sono continuamente attentati.
GIAMMARCO SICURO Quindi per voi la convivenza è impossibile?
RAGAZZA 2 No, non può funzionare. Se accettano che questa è la terra del popolo ebraico e smettono di essere violenti, in quel caso, possono anche rimanere.
GIAMMARCO SICURO E perché questa è la terra del popolo ebraico?
RAGAZZA 2 Perché Dio ce l’ha data, è scritto nella Bibbia.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO L’obiettivo della manifestazione è costringere il governo ad autorizzare il ripopolamento degli insediamenti illegali, 70 colonie in tutto. Un concetto che ribadisce anche Bezalel Smotrich, leader del partito religioso sionista.
BEZALEL SMOTRICH – LEADER DEL PARTITO RELIGIOSO SIONISTA Evyatar verrà presto legalizzata e questo posto sarà pieno di vita ebraica, gente orgogliosa di amare la propria terra e la Bibbia.
DONNA 2 Dio ci ha dato questa terra, non l’Australia o l’Italia, ci ha dato questa: non abbiamo altro posto dove stare.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Entriamo in una delle baracche occupate dalle famiglie dei manifestanti. MANIFESTANTE 3 È tutto kosher, mangiate con noi! Non è ragionevole che gli arabi vivano dove gli pare e poi pretendano che noi abitiamo soltanto una parte della nostra terra perché loro non vogliono vivere con noi. Ci sono 21 paesi islamici attorno a Israele e la maggioranza di essi sono vuoti e nessuno chiede loro di andare via.
GIAMMARCO SICURO FUORICAMPO Le finestre di questi prefabbricati si affacciano sul villaggio arabo di Yamta, comunità che gli ebrei chiamano Beita. Laggiù, oltre il cordone militare israeliano, iniziano i primi scontri tra palestinesi e soldati: da una parte il lancio di pietre, dall’altro l’esercito risponde con proiettili di gomma e gas lacrimogeni anche in direzione dei giornalisti. Alla fine, i feriti saranno 57.
MANIFESTANTE 3 Se vai nel villaggio vicino c’è un cartello che dice che quelli come me, israeliani, non possono andarci perché è pericoloso, mentre loro vengono a Tel Aviv e non solo. Basta attraversare la strada e laggiù insegnano loro a ucciderci. È l’Unione Europea a dare soldi a quelle comunità. Eppure, i Musulmani sono qui soltanto da 1800 anni, gli Ebrei, secondo tutte le religioni, da più di 4000. I Romani ci cacciarono ma noi siamo tornati! Siamo tornati a casa!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Evyatar è un villaggio che è stato costruito nel 2013, porta il nome di un israeliano, padre di cinque figli ucciso, è stato più volte smantellato e sgombrato dalla stessa Autorità israeliana. Ora Ben-Gvir vuole ripopolarlo, in nome di quale sicurezza nazionale, he poi è nome dello stesso dicastero che rappresenta, in un mondo in conflitto? In un luogo, un territorio in conflitto? Quello che manca ancora una volta è un uomo di pace.
L’uomo della cantina e l’ombra del negazionismo. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 marzo 2023.
Caro Aldo, lei ricorda spesso le razzie dei ghetti di Roma e di Venezia. Ma possibile che la colpa sia sempre e solo dei tedeschi e degli italiani? L’antisemitismo non l’abbiamo inventato noi. Perché degli spagnoli non parla mai nessuno? E dei francesi? Nino Sandri, Roma
Caro Nino, In effetti in Francia la responsabilità del regime di Vichy e di molti francesi nella persecuzione degli ebrei è stata a lungo un tabù. Il cinema l’ha infranto da tempo, con due capolavori come «L’ultimo metrò» di François Truffaut e «Arrivederci ragazzi» di Louis Malle. Nel 2021 sono usciti altri due film che hanno avuto meno eco, ma che ho trovato molto significativi. I protagonisti non sono tanto i nazisti, quanto i francesi comuni. Il primo si intitola «Adieu Monsieur Haffmann», addio signor Haffmann. È la storia di un orefice ebreo, il bravissimo Daniel Auteuil, che intesta il suo negozio all’apprendista, gran brava persona di cui si fida ciecamente, con l’accordo che gli sarà restituito a guerra finita. Ma l’improvviso benessere, il rapporto con i tedeschi occupanti, e soprattutto il rovesciamento dei rapporti di forza trasforma l’apprendista in un approfittatore; anche se sua moglie, una donna all’apparenza insignificante, troverà il coraggio del riscatto. Ma forse è ancora più interessante il secondo film, «L’homme de la cave», letteralmente l’uomo della cantina, che in italiano è diventato «Un’ombra sulla verità». L’opera non è ambientata durante l’occupazione nazista ma ai giorni nostri. Un parigino ebreo vende la cantina di casa a un professore che non conosce ma di cui d’istinto si fida: educato, ottimo eloquio, voce suadente. Il professore però si trasferisce nella cantina, violando i patti. E si rivela essere un negazionista antisemita. Grande manipolatore, riesce a mettere contro il protagonista ebreo gran parte dei coinquilini, e a far germinare il dubbio financo nell’animo della figlia. Anche questo film finisce bene. Ma ci ricorda che il negazionismo e l’antisemitismo a volte non si presentano come tali; si ammantano del falso, subdolo, perverso ma efficace fascino della sedicente libertà di pensiero, del rifiuto della versione ufficiale della storia, del coraggio di andare controcorrente. In realtà, sono tutte bugie. Ma bugie che molta gente adora sentire. Per questo non si deve abbassare la guardia, mai.
Quando complottismo fa rima con antisemitismo. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 23 Gennaio 2023
Razzismo e vita quotidiana. La presunta superiorità di una “razza” su un’altra può diventare una strisciante consuetudine sociale. Purtroppo noi italiani ne sappiamo qualcosa. Dal 1938 al 1943, il regime fascista decise di pubblicare il quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, l’intellettuale siciliano che più spudoratamente approvò le leggi razziali in Italia.
Sulla rivista gli ebrei vengono definiti avidi, opportunisti, senza scrupoli. Non mancano le caricature fisiche. Gli ebrei sono rappresentati come sinistri figuri, con il naso adunco e lo sguardo furbo.
La propaganda razzista era presente anche nei libri delle scuole elementari. Vale la pena di ricordarne le parole, perché non si può credere che si possano propinare ai bambini tante violente assurdità: “L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non poteva rimanere inerte davanti a questa associazione di interessi affaristici, seminatrice di discordie, nemica di ogni idealità. Roma reagì con prontezza e provvide a preservare la nobile stirpe italiana da ogni pericolo di contaminazione ebraica e di altre razze inferiori” (Luigi Rinaldi, Il libro della quinta classe elementare, Roma, Le librerie dello Stato, 1941, Fondazione Museo della Shoah).
Ci siamo chiesti se ancora oggi ci fosse un antisemitismo più o meno sommerso e, per PRIMOPIANOSCALAc di Telos A&S, ne abbiamo parlato con Dave Rich, Ricercatore associato nell’Istituto Birkbeck per gli Studi sull’Anti-semitismo dell’Università di Londra. Rich è autore del libro The Left’s Jewish Problem Jeremy Corbyn, Israel and Anti-Semitism, in cui pone l’accento sulla sinistra britannica che, dal suo punto di osservazione, ha cavalcato un certo complottismo anti israeliano e antisemita. “Non ci vuole molto a collegare questa analisi ad alcuni stereotipi davvero obsoleti e sinistri sugli ebrei ricchi, potenti e manipolatori e tutto ad un tratto, la sinistra anti-capitalista diventa sinonimo di cospirazionismo antisemita. Una delle caratteristiche centrali dell’antisemitismo è la capacità di insinuarsi nelle differenti ideologie, religioni e sistemi di credenze” afferma Dave Rich.
Un antisemitismo politicamente trasversale, dunque. Del resto è facile affibbiare la colpa dei problemi sociali a un nemico. Molto più facile che tentare di risolverli.
Intervista a David Meghnagi: “L’antisemitismo è un virus, infetta ancora Italia e Europa”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 24 Gennaio 2023
L’importanza di mantenere in vita la memoria della Shoah. Perché senza memoria non c’è futuro. Nella settimana del Giorno della memoria (venerdì 27 gennaio) Il Riformista ne discute con il professor David Meghnagi, già Vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e delegato per l’Italia presso la Conferenza dell’Osce contro l’antisemitismo. Tra i suoi libri, ricordiamo Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah (Marsilio, 2005); Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente (Marsilio, 2010).; Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo (Marsilio, 2010); Libia ebraica. Memoria e identità, testi e immagini (Feltrinelli, 2020).
“Ricomporre l’infranto” Le quattro figure che lei narra rappresentano, da angolature diverse, tutti coloro che si sono misurati con il male assoluto. Come definirebbe oggi quel male?
Ho cercato di rivisitare la storia e la memoria della tragedia della Shoah facendo idealmente dialogare quatto autori che hanno attraversato dall’interno le temperie storiche del Novecento. Levi mi sembrava adatto a rappresentare il valore della testimonianza. Diventare testimoni comporta una grande trasformazione psicologica e valoriale. Si assume un ruolo attivo, diventando una sorta di profeta del nostro tempo. Edelman, che ha visto quattrocentomila persone radunate nel piazzale del ghetto per essere deportati e sterminati, ha assunto un ruolo di guardiano di un mondo scomparso in cui non c’erano nemmeno le tombe. Gli amici hanno lasciato il paese, chi partecipando all’eroica epopea della ricostruzione di una vita nazionale indipendente in Israele quando tutto rischiava di andare perduto, chi emigrando verso altri lidi dove ha ricostruito la sua esistenza spezzata. Testimone di un mondo perduto, visse in una realtà asfittica attraversata da pulsioni antisemite e dominata dal totalitarismo comunista contro cui da democratico e socialista si era sempre opposto e quando arrivò il momento si unì a Solidarnosh. La storia di Deutscher è ben racchiusa in un adagio talmudico che utilizzò in un incontro con la gioventù ebraica.
Qual è questo adagio e chi ne erano i protagonisti?
Rabbì Mehir, una figura importante del Talmud, e Elisha Ben Abuya, con il quale non interruppe i rapporti nonostante questi avesse abbandonato la fede e ogni pratica religiosa. L’eretico, scrive Deutscher, era in groppa a un asinello. Per rispetto della santità del Sabato il suo amico procedeva a piedi. La profondità della discussione fu tale che Meir non si accorse di aver raggiunto il confine oltre il quale, stando alle norme rabbiniche, è vietato per un ebreo avventurarsi nel giorno di sabato. Il maestro si rivolse all’allievo dicendogli che era stato raggiunto il confine e che bisognava dividersi: “non accompagnarmi oltre”. Su questo interessante dialogo, Deutscher avrebbe voluto scrivere un componimento teatrale che rimase però al primo atto. Elisha era per Deutscher il prototipo di una figura nuova dell’ebraismo contemporaneo, collocata ai confini di mondi diversi, il “prototipo” di “grandi rivoluzionari del pensiero”, degli ebrei “non ebrei”, con cui apertamente si identificava. La sua interpretazione lasciava senza risposta la domanda più importante: che cosa ne sarebbe rimasto di Meir e del suo mondo? Doveva “sparire” in nome di un universalismo astratto, o doveva al contrario vivere e sviluppare la propria cultura in aperto dialogo con il mondo esterno? Nel caso di Scholem abbiamo a che fare con una soluzione opposta. La storia di Scholem è di un ebreo tedesco in rotta con il mito della simbiosi ebraico tedesca e che diventa sionista. Il fratello da cui era stato avviato al sionismo, divenne un leader comunista. Entrambi entrarono in rotta con il padre. Per non partecipare alla grande carneficina della guerra, Scholem riuscì a farsi passare per schizofrenico. Nel 1923 si trasferì a Gerusalemme contribuendo con la sua imponente opera a riscoprire la storia del misticismo ebraico. Il suo epistolario con Benjamin, di cui fu grande amico, è una delle più grandi testimonianze culturali del Novecento.
Professor Meghnagi, non crede che mantenere in vita la memoria della Shoah sia oggi un fatto di grande significanza politica, oltre che storica e culturale?
Senza la memoria di quel passato, che deve essere alimentata dallo studio e dalla ricerca, il rischio è di tornare ad una falsa innocenza perduta che rischierebbe di condurre l’umanità a nuove catastrofi. L’antisemitismo è un “virus” che infetta ancora oggi l’Italia e l’Europa.
Quali ne sono le manifestazioni più acute e pervasive?
Il pregiudizio antiebraico ha una storia millenaria ed è sedimentato nelle profondità dell’inconscio culturale e nel linguaggio. Il vero pericolo è quando assume delle forme politiche con l’obiettivo di riplasmare la società e lo Stato. La nostalgia di una falsa innocenza perduta è all’origine di un nuovo antisemitismo che accusa gli ebrei di coltivare la memoria come una “rendita di posizione”. In questo perverso gioco le negazioni, le banalizzazioni, i dinieghi interpretativi e le false equazioni delle vittime, che si trasformano in carnefici (per esempio nella demonizzazione di Israele), fanno da sfondo ad una nuova e più subdola accusa che rischia di rovesciare contro gli ebrei l’odio che cova a livello mondiale contro la società occidentale e i suoi valori liberali.
In una intervista a questo giornale, Furio Colombo ha sostenuto di ritrovare oggi la disumanità che connotò le leggi razziali nella campagna di odio e di criminalizzazione dei migranti. Lei come la vede?
L’intolleranza e l’odio vanno combattuti richiamandosi ai valori della Costituzione, alla dichiarazione universale dei diritti e in nome dell’etica della responsabilità, evitando espressioni linguistiche che non aiutano a capire e a distinguere e che finiscono per appiattire in un unicum processi storici e realtà fra loro diversi.
Fare i conti con la storia, politica e personale, da cui si proviene non è mai semplice. Non le pare che questo doloroso ma necessario ripensamento difetti alla destra, o almeno ad una parte di essa, che oggi governa l’Italia?
Chiedere perdono per le leggi del ’38 è un atto dovuto ed è uno sviluppo da non sottovalutare e da implementare. Una rivisitazione critica del passato non può fermarsi al suo esito più devastante. Nei vent’anni del regime fascista ogni fase ha purtroppo preparato l’altra. Dalla marcia su Roma alla presa del potere con la violenza, all’assassinio di Matteotti, alla distruzione delle libertà civili, all’esilio degli oppositori e al loro confino. Per non parlare dell’assassinio di Gobetti e dei fratelli Rosselli, dei massacri nel Corno d’Africa: in ogni fase ci fu la possibilità di scegliere diversamente. Così fu anche per le Leggi del 1938 e per le derive successive. Con l’ingresso dell’Italia in guerra al fianco delle Potenze dell’Asse e poi dopo con l’occupazione nazista, ci fu chi scelse diversamente e si unì alla Resistenza pacifica e militare, combattendo i nazisti, salvando le fabbriche, nascondendo le persone braccate, rifiutando di unirsi a Salò, come fecero centinaia di migliaia di militari che furono per questo deportati e con il loro sacrificio contribuirono ad affrettare la fine della guerra.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Estratto dell’articolo di Domenico Quirico per “La Stampa” sabato 25 novembre 2023.
Israele ha perso la guerra. Per la prima volta in settantaquattro anni. Ora i cannoni tacciono, per quattro giorni si spera, «prorogabili» […]. Ma il meccanismo del cessate il fuoco è avviato, seppure a puntate, Hamas distillerà la sua macabra contabilità, dieci oggi, dieci tra una settimana, nella liberazione degli ostaggi costringendo a prolungarlo, e avrà tempo di riorganizzarsi, mentre la rete delle pressioni internazionali si avvilupperà sulle intenzioni israeliane di riprendere gli attacchi.
Che, a questo punto, la porrebbero dalla parte del torto anche con la tentennante solidarietà degli Stati Uniti. Il cui scopo fin dall'inizio è stato quello di acclimatarsi di nuovo sulla «normalità» degli ultimi decenni, fatta da un equilibrio di chiacchiere inutili sulla «necessità di risolvere finalmente il problema dei rapporti tra Israele e l'entità palestinese» e la realtà di crucci e orrori di una guerra di attentati, intifade e rappresaglie che non disturbavano troppo la normalità del nostro mondo. Si torna dunque alla routine. […]
Lo Stato ebraico e i suoi generali hanno perso così l'iniziativa strategica. Ora restano sospesi in un nulla, tengono in mano una parte della Striscia di Gaza senza aver chiaro che fare: creare (ma glielo permetteranno?) uno spazio vuoto di uomini, un cumulo di sabbia e di rovine da presidiare a caro prezzo per evitare nuove incursioni? O ritirarsi lasciando mano libera al ritorno di Hamas [...]?
E poi ci sono le decine di migliaia di israeliani della frontiera Sud e di quella Nord con Hezbollah, sfollati interni da sostenere. Il fatto che non possano tornare a casa è la prova che la vittoria e la sicurezza promessa da Nethanyau sono una bugia. E per quanto tempo un Paese sviluppato come lo Stato ebraico reggerà una popolazione sotto le armi e una economia di guerra che allontana investimenti e progetti? […]
L'errore di trattare con Hamas, con cui aveva dichiarato il 7 di ottobre l'unico rapporto possibile sarebbe stato l'annientamento, è stato soltanto l'ultimo e non il più grave. Non poteva far altro. Salvare le vite degli ostaggi è una buona causa. [...] Lo slogan «nessun surrogato della vittoria» è pericoloso, ma deriva dalla esperienza di una nazione che fin dal 1948 data della sua nascita travagliata non ha mai conosciuto sconfitta.
È il sette ottobre […] che Israele è stato sconfitto: senza rimedio. Un mese e più di forsennata invasione di Gaza non ha posto rimedio a quel fatto, anzi l'ha semplicemente reso evidente. […] Israele ha perso la corazza della sua invincibilità, la certezza, dei suoi cittadini ma anche dei suoi nemici, che poteva esser scalfito da attentati anche sanguinosi; ma che Israele aveva nella sua esistenza radici invincibili.
Israele è condannata ad esistere con le proprie azioni, con la manifestazione della sua forza superiore. È la certezza di questa realtà che crea le condizioni della sua sopravvivenza. Questo essere vivi, ma lavorati dagli enigmi di un destino, comporta il rischio di diventare uno stato bellicista, spinge a una tendenza all'isolamento, a una visione semplicistica del mondo diviso in due campi, quello della oscurità, i nemici, e quello della luce, noi stessi. Un rischio che anche gli Stati Uniti stanno scontando con la loro ingloriosa decadenza nel controllo del mondo.
Gli Stati arabi e il nazionalismo palestinese non erano mai riusciti a infrangere questo paradigma, ci voleva un soggetto mosso da una fanatica distinzione tra luce e tenebre per riuscirci, qualcuno capace di organizzare, con gli odi e le intransigenze, un ciclopico sistema di chiuse e di dighe a funzionamento meccanico. Ed è quanto Hamas ha realizzato sanguinosamente il 7 di ottobre.
Il problema insolubile di Israele, dopo aver perso la propria inviolabilità, era l'assenza di strategie praticabili, sperimentate: il nemico aveva pensato e realizzato l'impensabile. Dove andare da lì? L'antico bivio tra risposta flessibile, una escalation graduale di raid e bombardamenti mirati, e il suo contrario, la rappresaglia massiccia, non aveva più senso. Soprattutto di fronte alla propria opinione pubblica.
Non restava che trasformare Gaza in un solco di rovine di qualche centinaio di chilometri. Troppo e troppo poco. Non c'era alternativa al distruggere, semmai la obiezione dovrebbe essere nel fatto che dopo 70 anni le cose stiano come stanno. Lo scopo proclamato, eliminare Hamas fino all'ultimo miliziano, era una condizione di vittoria irraggiungibile visto che il nemico era diluito tra una popolazione di due milioni di persone, nascosto sotto terra, deciso a pagare anche qualche prezzo per attirare Tzahal sempre più a fondo nella trappola di Gaza.
E poi c'è l'opinione pubblica mondiale. Hamas non ha il problema di preoccuparsene, può usare i mezzi che vuole, poiché si proclama forza rivoluzionaria. Sa che questo è un incubo di Israele. L'opinione pubblica è qualcosa di immateriale e astratto, non ha diplomazia né eserciti, ma può essere più forte di entrambi, soprattutto in un Occidente stanco ed egoista che vuole impietrire il mondo in un senso di benessere, in un ordine apparente.
E dopo un mese di guerra totale a Gaza le immagini dei massacri del 7 di ottobre sono sfumati nel passato, coperti da quelli delle rovine di Gaza che vomitano sulla strada tutto il loro fango di detriti, rottami, polvere, di altri bambini uccisi e del pigia pigia dei fuggiaschi che a mano a mano che errano sono cacciati attraverso i millenni.
Parla lo storico. Perché Netanyahu aveva il dovere di reagire agli attacchi di Hamas, parla Gadi Luzzatto Voghera. Lo storico: «Di fronte a una organizzazione terroristica che continua ad agire anche se è sotto attacco uno Stato democratico difende i propri cittadini. Una società attaccata si ricompatta, Israele però non ha perso lo spirito critico neppure per un momento». Umberto De Giovannangeli su L'Unità il 25 Novembre 2023
“11 Settembre” d’Israele, la guerra di Gaza. Il rapporto tra la diaspora ebraica e lo Stato “focolaio nazionale” del popolo ebraico. L’Unità ne parla con una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Gadi Luzzatto Voghera. Storico, ha insegnato Storia Contemporanea e Storia degli ebrei presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e al Boston University Study Abroad Program a Padova.
È stato il direttore scientifico della Biblioteca e dell’Archivio della Comunità Ebraica di Venezia. Dal 2016 dirige la Fondazione Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano. E’ autore, tra gli altri saggi, di Antisemitismo a sinistra (Einaudi, 2007).
Mille intellettuali ebrei, tra i quali Naoim Kleim e David Grossman, hanno firmato una lettera aperta nella quale, pur condannando fermamente il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre, hanno stigmatizzato la guerra a Gaza, sostenendo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha agito in quel modo per tornaconto politico personale piuttosto che per il bene d’Israele. Lei come la vede?
Certamente Netanyahu ha il suo tornaconto personale, ma da quel punto di vista ormai non è salvabile, nel senso che è responsabile di un governo che non ha visto un pericolo che pure gli era stato segnalato e quindi come Golda Meir nella guerra dello Yom Kippur, ha dimostrato, pur avendo alle spalle una potenza militare all’altezza, di non essere in grado di prevedere e dunque di scongiurare l’immane tragedia che c’è stata. Ma questo, secondo me, non è un tema centrale…
Perché, professor Luzzatto Voghera?
Nel senso che anche l’avesse fatto, non l’avrebbe fatto in “our names”. Ci sono state delle derive dell’attuale Governo israeliano di distorsione della Shoah, mettendola in relazione a ciò che, pur gravissimo, è avvenuto il 7 ottobre. Ma sono state forzature, provocazioni immediatamente rintuzzate da autorevoli istituti. Lo Yad Vashem, ad esempio, è intervenuto in maniera molto forte per censurare il gesto fatto dall’Ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite di mettersi sulla giacca la stella gialla. Non si possono paragonare le due cose. Detto questo, c’è però da aggiungere subito una cosa sulla quale non vi possono essere ambiguità né reticenze…
Vale a dire?
Netanyahu non fa quello che ha fatto dopo il 7 ottobre a nome e per conto di tutto popolo ebraico, nel cui nome lui come nessun altro può arrogarsi il diritto di parlare. Lo fa, a ragione, perché sul piano politico e istituzionale spetta a lui, come a qualsiasi altro presidente del Consiglio di un Paese democratico che subisce un attacco terroristico di quella portata, approntare una reazione di fronte alla mattanza di persone, in stragrande maggioranza civili, uccise o prese in ostaggio da una organizzazione terroristica. Un premier attiva forme di guerra per evitare che questa tragedia si ripeta. In questo non sono d’accordo con l’appello dei mille intellettuali. Perché uno Stato-nazione si muove in questo modo. C’è una organizzazione terroristica che continua ad agire, anche sotto attacco da quasi due mesi, bombardando, lanciando missili, da tutte le parti, sia dal nord che dal sud, e dai territori occupati che pure sono un problema molto grave. Il che vuol dire che l’operazione era ben orchestrata e preparata da tempo. Di fronte a tutto questo, uno Stato democratico difende i suoi cittadini. Che poi la guerra sia di per sé qualcosa di amorale, questo lo sappiamo. Ma discutiamone. In tutte le guerre ci sono purtroppo vittime civili sulle quali piangiamo, speriamo di smetterla il più presto possibile, siamo d’accordo, ma non vedo come in altro modo Israele avrebbe potuto reagire. Certamente non attivando una trattativa e riconoscendo politicamente Hamas come interlocutore. Non è plausibile.
Nella sua storia sofferta e segnata da conflitti, Israele si è sempre ricompattata di fronte alla minaccia, esistenziale, portata da nemici esterni. Stavolta non sembra così. Le polemiche sull’operato di Netanyahu e del suo governo, prima e dopo il 7 ottobre, non sono state accantonate. Lei come lo spiega?
Questa articolazione c’è, ma non riguarda solo gli avvenimenti del 7 ottobre e successivi. C’è stata anche in altri momenti. Io mi ricordo Sabra e Chatila. Personalmente facevo parte dei 400mila che hanno manifestato in piazza, a Tel Aviv. E c’era un Paese in guerra. E’ una novità per il mondo della comunicazione in Europa ma non lo è in Israele. Un Paese dove esiste, da sempre, una dialettica politica molto accesa, che permane anche durante la guerra, a prescindere dal ricompattamento del corpus sociale, che è in grado comunque di considerarsi un unicum. E questo riguarda tutte le componenti del corpo sociale, compresa la minoranza araba, compresi i drusi, compresi i beduini, che si sono sentiti attaccati, perché lo sono stati. Hamas non ha chiesto la carta d’identità prima di compiere i massacri nei kibbutz o al rave party. Una società sotto attacco si difende prima di tutto compattandosi. Israele è abituata a farlo. Stavolta ancor di più. In passato ci sono stati altri episodi di guerra in cui l’attacco riguardava una parte del Paese, limitato, il 7 ottobre si è trattato di un attacco generalizzato. Il ricompattamento c’è ma, basta leggere un giornale israeliano o ascoltare una trasmissione televisiva o radiofonica, per rendersi conto che non si è smesso di utilizzare neanche per un minuto lo spirito critico. Io continuo a martellare su una cosa che qui da noi potrebbe sembrare incredibile…
Di cosa si tratta?
La Radio dell’Esercito israeliano. Che come tale si pensa che dovrebbe dare istruzioni per l’uso, invece ha trasmissioni radiofoniche di grande critica, di grande apertura, in cui si dà voce a tutti. Sono quasi tentati di chiedere elezioni anticipate se non fosse che sarebbero ingestibili, visto che metà della società israeliana è dislocata in parti segnate dalla guerra o impegnate nella guerra. A ciò va aggiunto che quella in corso appare sempre più come una guerra regionale, con tantissimi attori diversi. E questo trasmette alla popolazione israeliana un sentimento di fragilità. Quando arrivano missili dallo Yemen o minacce dall’Iran, la situazione cambia, e non poco, di prospettiva.
Se c’è un Paese dove la memoria storica è elemento fondante della identità nazionale, quel Paese è Israele. Oggi quella memoria non rischia, più che in altri momenti, di essere strumentalizzata per ragioni che con quella storia, con la Shoah, non hanno nulla a che vedere?
Decisamente. Ma siamo ad un passo oltre. A me ha sempre colpito che capi di Stato o di governo in visita ufficiale in Israele, vengano portati, come prassi diplomatica, in primis a visitare lo Yad Vashem, il Mausoleo dell’Olocausto, come se quel luogo fosse l’atto fondativo dello Stato d’Israele. Cosa che non è. Si tratta di una distorsione ottica molto forte. Ed è un uso che viene fatto non dalle origini dello Stato d’Israele, ma che fa parte, in qualche modo, di una storia politica d’Israele, dominata per molti decenni da un establishment europeo, ashkenazita, che anche se era in polemica con la diaspora europea e il suo non saper riconoscere il peso dell’antisemitismo e delle persecuzioni, di quella storia era figlio. Adesso le componenti sociali dell’Israele politico come della società sono talmente variegate, non appiattite sulla memoria della Shoah, che non basta più quel riferimento a ricompattare il Paese. La memoria cambia. I processi sono molto lunghi e complessi.
Mi riferisco anche all’Italia. I presidenti delle più grandi comunità ebraiche nel nostro Paese, quelle di Roma e di Milano, sono due ebrei di origine libica, nati in Libia. E sono figli di pogrom arabi verso la popolazione ebraica vissuti sulla loro pelle. Sono memorie di persecuzioni, sempre, che però cambiano e che ci costringeranno, tutti, non solo Israele, a rideclinare l’intera faccenda.
Nei mesi della rivolta contro quello che veniva definito il “golpe giudiziario” del governo Netanyahu, Haaretz titolava: “Un Governo in cui i ministri fanno a gara a chi è più fascista”, al punto che un ministro razzista e fascista, come Ben-Gvir, può incidere sulla guerra.
Per fortuna costui non fa parte del gabinetto di guerra. Cosa peraltro incredibile, che il ministro della Sicurezza nazionale, responsabile della polizia che nel primo giorno ha perso più di trecento uomini, non sia nel gabinetto di guerra è un segnale, positivo direi, vuol dire che qualcuno di intelligente nel mondo esiste ancora. Detto questo, Israele, come il popolo ebraico in generale, è un organismo normale, in cui la politica è di destra e di sinistra, anche di estrema destra ed estrema sinistra. La teoria politica non guarda in faccia alla storia, se è funzionale a un progetto politico di conquista del potere, vale ovunque. L’uso politico della storia è uno “sport” che viene praticato a tutte le latitudini, in Italia moltissimo, e anche in Israele.
A settembre sono stati i trent’anni della firma degli Accordi di Oslo-Washington. Cosa è rimasto di quella stagione di speranza?
La prospettiva di dare concretezza politica a una convivenza che nei fatti, dal punto di vista sociale come da quello economico, è “naturale”, inevitabile. In un fazzoletto di terra come quello non può essere diversamente, a meno che non si creino muri, barriere artificiali o legislazioni particolari. Quella prospettiva teorica c’è, deve essere valorizzata. Ma questo rimanda a un problema comune, sia in campo israeliano che in quello palestinese.
Quale, professor Luzzatto Voghera?
Identificare leadership politiche in grado di prendere coraggiosamente in mano tutta questa partita, quella della soluzione a due Stati, e ricominciare a lavorarci. Nel mondo palestinese è molto complicato, perché è un mondo che è andato via via ideologizzandosi in maniera molto visibile e con sponsor esterni. La struttura della società palestinese è una struttura secolare, visibile ancora adesso. Una struttura molto forte, legata a grandi famiglie che controllano parti importanti di territori. Francamente mi sfugge come questa realtà non riesca a prendere il sopravvento sulle sovrastrutture ideologiche, delle quali Hamas è parte attiva. Ma non è la sola a marchiare e ipotecare il futuro di un popolo, quello palestinese, e a minacciare la sicurezza del popolo israeliano. Umberto De Giovannangeli 25 Novembre 2023
Attacco sul lungomare in Israele dopo tensioni con Hamas e Libano. Turista italiano ucciso in attentato a Tel Aviv, ferito connazionale: “La vittima è Alessandro Parini”. Redazione su Il Riformista il 7 Aprile 2023
Un morto e cinque persone ferite in un attentato avvenuto in serata a Tel Aviv, in Israele. A perdere la vita “un turista italiano di circa 30 anni” fanno sapere alcuni media locali che sarebbe stato raggiunto da un proiettile alla testa. L’aggressore è stato poi ucciso dalla polizia. Anche tra i feriti ci sarebbero diversi connazionali della vittima ma su quanto avvenuto sul lungomare a Kaufmann Street, e vicino a Charles Clore Park, sono in corso accertamenti della Farnesina.
IL NOME DELLA VITTIMA- “Le autorità israeliane confermano la morte del cittadino italiano Alessandro Parini e riportano il possibile ferimento di altri connazionali nel vile attentato a Tel Aviv. Esprimo ferma condanna contro il terrorismo e vicinanza alle famiglie. La Farnesina è al lavoro”. Lo scrive il ministro degli Esteri Antonio Tajani su Twitter.
Quattro persone ferite, “tre britannici e un italiano” secondo la tv, sono arrivate al pronto soccorso dell’ospedale Ichilov di Tel Aviv: non sarebbero in gravi condizioni.
“Orrore e profondo sgomento per il vile attentato a Tel Aviv” scrive il ministero degli Esteri in un tweet aggiungendo che “l’Unità di Crisi è operativa h24 e raggiungibile al numero: +39 06 36225”. Stando alla ricostruzione delle autorità israeliane, la dinamica è stata quella di un attacco con arma da fuoco e con un’auto lanciata contro pedoni. Non sono stati forniti finora dettagli sulle vittime.
Il media “Times of Israel” sostiene che la persona uccisa sarebbe un italiano 30enne, senza citare le fonti. Altri cinque turisti sarebbero rimasti feriti, tra loro un uomo di 39 anni e una ragazza di 17. Ci sarebbero anche due feriti israeliani. L’aggressore è stato poi ucciso a colpi d’arma da fuoco dalla polizia. Si tratterebbe di un arabo israeliano.
Sempre in giornata due sorelle israeliane erano state uccise e la madre gravemente ferita in un attentato avvenuto nel nord della Cisgiordania, nella Valle del Giordano.
Una situazione incandescente in Medio Oriente. La scorsa notte decine di razzi sono stati sparati dal sud del Libano verso Israele, e l’aviazione israeliana in risposa ha colpito obiettivi legati ad Hamas nella Striscia ma anche nel sud del Libano.
Dopo aver appreso dell’attentato di Tel Aviv, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha ordinato il richiamo di tutte le forze della riserva disponibili della Guardia della frontiera. Ha inoltre ordinato al capo di stato maggiore generale Herzi Halevi di richiamare anche riservisti dell’esercito. Lo ha reso noto il suo ufficio. In precedenza erano stati richiamati anche riservisti dell’aviazione militare.
Auto sulla folla a Tel Aviv. Ucciso turista italiano e ferite altre 7 persone. Il 35enne era sul lungomare a Kaufmann Street Coinvolto anche un altro nostro connazionale. Chiara Clausi l’8 Aprile 2023 su Il Giornale.
Si trovava in centro a Tel Aviv per caso. Un turista italiano, Alessandro Parini, 35 anni avvocato romano, è morto durante quello che i media israeliani e il ministro degli Esteri non hanno esitato a definire attentato. Ieri sera un'auto si è scagliata addosso ai pedoni e, a quanto si apprende, dal finestrino qualcuno avrebbe anche sparato sulla gente, ferendo sette persone tra cui un altro italiano e tre inglesi. L'autore, un arabo israeliano, è stato «neutralizzato». «Orrore e sgomento per il vile attentato» scrive su Twitter la Farnesina mentre avvia le verifiche sulla vittima italiana. L'attentato, duplice, sembra aver colpito due zone della città: un attacco è avvenuto sul lungomare a Kaufmann Street, l'altro al parco Charles Clore. La tensione rimane alta in Israele e si teme il peggio. L'esercito dello Stato ebraico nella notte tra giovedì e ieri ha effettuato attacchi aerei su obiettivi appartenenti ad Hamas nel sud del Libano e nella Striscia di Gaza. I militari hanno affermato che sono stati una risposta a una raffica di 34 razzi lanciati giovedì dal Libano nel nord di Israele. La responsabilità dell'atto è stata attribuita ad Hamas. Intanto il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che in quel momento era in visita a Beirut, ha detto che i palestinesi non «si sarebbero seduti con le braccia incrociate» di fronte all'aggressione israeliana. Ore dopo gli attacchi dello Stato ebraico in rappresaglia due israeliane sono state uccise, e una terza è grave in un attentato palestinese a colpi di arma fuoco nella Valle del Giordano, in Cisgiordania. «Le nostre forze sono adesso impegnate nella caccia ai terroristi. È solo questione di tempo», ha detto il premier Benjamin Netanyahu che si è recato sul luogo dell'attentato con il ministro della difesa Yoav Gallant nella prima apparizione pubblica insieme dopo il licenziamento di Gallant poi congelato. Riferendosi poi a Gaza e al Libano, Netanyahu ha ribadito che il Gabinetto di sicurezza convocato giovedì ha preso «diverse decisioni». Poi ha ammonito che «i nemici scopriranno che siamo uniti, compatti, sicuri di essere nel giusto». La notte tra giovedì e venerdì è stata di fuoco. Ci sono state due o tre esplosioni intorno al campo profughi palestinese di Rashidieh, 5 chilometri a sud della città costiera libanese di Tiro. I media locali hanno anche riferito di raid alla periferia del villaggio di al-Qulaila, altri 4 chilometri più a sud. Le fotografie che circolano sembrano mostrare un piccolo ponte distrutto. Le forze di difesa israeliane hanno twittato che i suoi aerei da guerra hanno colpito «infrastrutture terroristiche appartenenti ad Hamas» in Libano. «Non consentiremo all'organizzazione terroristica di Hamas di operare dall'interno del Libano e riterremo il Paese dei cedri responsabile di ogni fuoco diretto proveniente dal suo territorio», hanno avvertito. Mentre Hamas ha condannato fermamente «la palese aggressione sionista contro il Libano». Ma negli ambienti militari ai livelli più alti l'invito è alla cautela. «Nessuno vuole un'escalation in questo momento», ha detto il tenente colonnello israeliano Richard Hecht. Il ricordo della guerra dello Stato ebraico del 2006 con Hezbollah è vivo nella mente di entrambi gli avversari. Ma un percorso così carico di tensione è spesso lastricato di errori di calcolo fatali. Le prossime due settimane sono particolarmente rischiose, poiché la festa della Pasqua ebraica e il mese sacro musulmano del Ramadan si sovrappongono, e ciò aggiunge fibrillazione intorno ai luoghi santi di Gerusalemme.
Chi era Alessandro Parini, morto nell'attentato a Tel Aviv. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023
Avvocato di 35 anni, romano dell'Eur, amante dei viaggi, era in Israele con alcuni amici. Si era laureato alla Luiss e aveva insegnato all'università di Tor Vergata
Un giovane avvocato di successo, specializzato in diritto amministrativo. Alessandro Parini, ucciso da un terrorista venerdì sera a Tel Aviv, aveva 35 anni ed era romano. Lavorava presso lo studio Police&Partners in viale Liegi, ai Parioli, ma era anche un amante dei viaggi: quattro anni fa era stato in Giordania. Da qualche giorno si trovava in Israele con alcuni amici. Aveva anche insegnato presso l'università di Tor Vergata, dove dopo la laurea in Giurisprudenza alla Luiss, aveva svolto un dottorato in Diritto pubblico dal 2015 al 2019. Da ragazzo Parini aveva frequentato il liceo Massimo all'Eur.
Gli inizi della carriera
Proprio dal sito internet dello studio diretto dal professor Aristide Police si apprende che Parini si era laureato «con il massimo dei voti presso l’Università Luiss “Guido Carli” nel 2011, difendendo una tesi in diritto amministrativo e tributario con il Prof. Massimo Basilavecchia sugli accordi di diritto amministrativo nella fase di riscossione dei tributi». Quindi l'inizio della carriera: «Sin dalla pratica legale comincia a collaborare con lo studio legale internazionale Clifford Chance e, in particolare, nel dipartimento di diritto amministrativo guidato dal Prof. Avv. Police. Nel 2019, consegue il titolo di dottore di ricerca in diritto pubblico presso l’Università di Roma “Tor Vergata” (XXXI Ciclo), con una tesi su “Concorrenza e appalti pubblici: tra libertà d’impresa e sostegno alle PMI“».
Esperto di diritto amministrativo
Il suo curriculum prosegue così: «Attivo sia nel contenzioso che nell’assistenza stragiudiziale, si occupa di diritto amministrativo e regolatorio, in particolare di diritto dei contratti pubblici, della concorrenza e delle comunicazioni elettroniche. Abilitato all’esercizio della professione forense dal 2014. È autore di contributi in materia di diritto amministrativo. È socio dell’Associazione Giovani Amministrativisti. Dal 2022, dopo aver superato il relativo esame, è iscritto nell’Albo Speciale degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori».
Gli studi, la carriera d'avvocato, i viaggi: chi era Alessandro Parini. Andrea Muratore l’8 Aprile 2023 su Il Giornale.
Alessandro Parini, 35 anni, è la vittima dell'attentato di Tel Aviv. Giovane avvocato del foro romano amante dei viaggi, è morto nel tragico assalto al centro della città israeliana
Un giovane professionista già lanciato verso una brillante carriera forense, che nel tempo libero amava i viaggi e, soprattutto, il Medio Oriente ove ha tragicamente trovato la morte: Alessandro Parini, 35 anni, è la vittima italiana dell'attentato di Tel Aviv, città ove si trovava con amici per una vacanza. Secondo quanto appreso dai media, era arrivato a Tel Aviv nella mattinata di venerdì e si trovava dunque nella prima sera della sua vacanza con un gruppo di amici nel momento in cui è stato ucciso dall'auto lanciatasi violentemente sulla folla nel centro di Tel Aviv.
La carriera forense
Parini, dipendente dello studio legale Police & Partners, specializzato in diritto amministrativo, era un alumno di due eccellenze del mondo romano della scuola e dell'accademia: aveva superato col massimo dei voti il prestigioso Liceo Massimo, si era laureato con il massimo dei voti alla Luiss Guido Carli e aveva poi conseguito un dottorato all'Università di Tor Vergata.
In parallelo una carriera avviata, già dai tempi dell'università, presso studi legali e foro romano, prima nel gruppo Clifford Chanche, dal 2011 al 2020 e poi, dal settembre 2020, nello studio ove era impegnato.
All'attività legale aveva associato, durante la sua formazione come dottorando, un'attività abbastanza intensa di ricercatore e pubblicista. 25enne, nel 2013, aveva contribuito al volume Gli organismi di composizione della crisi, manuale sulle crisi d'impresa della prestigiosa Giuffré di Milano; lo stesso anno la sua firma compare in un libro collettivo sulle crisi da sovraindebitamento. Quella di Parini è stata una carriera sicuramente brillante, ma di una persona che appariva di assoluta ordinarietà, con profili social riempiti solo dall'amore per i viaggi, priva di rivendicazioni politiche di qualsivoglia tipo.
Parini come Solesin e Micalizzi, ucciso da un odio cieco
Ora chiusi comprensibilmente al pubblico, i profili di Parini erano assolutamente ordinari. Appariva mentre pedalava all'ombra del Duomo di Milano o di Castel Sant'Angelo, nella sua foto profilo sfoggiava i ricordi di un viaggio in Medio Oriente. Un uomo amante del mondo e dei popoli diversi che ha trovato la morte per un odio cieco e inclemente. In una terra già piegata da violenze incrociate e sofferenze, la storia di Parini ricorda tristemente quella di Valeria Solesin, uccisa nella strage del Bataclan a Parigi nel 2015, e Antonio Micalizzi, morto a Strasburgo dopo l'attentato ai mercatini di Natale del dicembre 2018: persone che intraprendevano carriere di studio e lavoro mantenendo un grande amore per il mondo e le culture diverse che si sono trovate semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato.
La Jihad Islamica ha rivendicato l'attacco in cui Parini è morto parlando di "legittima risposta" ai "crimini dell'occupazione contro il popolo palestinese". Ma è fuorviante pensare che l'uccisione cieca e brutale di un turista scelto per caso come bersaglio di un auto lanciata a folle corse per massacrare vite umane rappresenti la riparazione di qualsiasi ingiustizia. Il circolo senza fine delle violenze rischia di alimentarsi senza sosta, e Parini di essere una di tante vittime in un crescendo senza sosta in una terra tornata a infiammarsi. Nel ricordo e nel cordoglio del giovane e talentuoso avvocato romano morto a Tel Aviv deve valere un solo motto: "Restiamo umani". Lo diceva senza sosta l'attivista Vittorio Arrigoni nello stesso, disgraziato quadrante di mondo, tra i dannati di Gaza, prima di essere a sua volta ucciso in un crescendo di violenze nel 2011. Lo dobbiamo ripetere oggi, di fronte a tragedie tanto immani.
Rientrati gli italiani coinvolti nell'attentato a Tel Aviv: «L'auto e poi gli spari, abbiamo visto Alessandro a terra». Davide Frattini su Il Corriere della Sera l’08 aprile 2023
I genitori di Parini: «Un ragazzo semplice e modesto. Nessuno conosce i traguardi che ha raggiunto». I connazionali coinvolti saranno accompagnati oggi all'aeroporto di Tel Aviv dal personale dell'ambasciata per imbarcarsi su un volo diretto per Roma
L’auto bianca che schizza come un proiettile sulla pista per le bici e i monopattini elettrici, travolge chi passeggia sul lungomare. «Abbiamo sentito il rumore della macchina che ci passava accanto, poi gli spari e ci siamo dispersi. Quando siamo tornati indietro, abbiamo visto Alessandro stesso in terra nel sangue».
Gli amici dell’avvocato romano di 35 anni ucciso nell’attentato di venerdì sera raccontano all’agenzia Ansa gli istanti che hanno trasformato in tragedia il viaggio in Israele. Il gruppo era atterrato al mattino, stavano camminando per raggiungere gli altri della comitiva a Jaffa. La Kia guidata da Yussef Abu Jabber viaggiava da nord a sud, verso la zona di Tel Aviv a maggioranza araba, in questo caso significa che dopo l’improvvisa sterzata sul marciapiede sarebbe piombata alle spalle dei turisti, tra loro anche tre britannici feriti. Gli italiani coinvolti nell'attentato sono rientrati in Italia con un volo di linea. L'aereo è atterrato a Fiumicino intorno alle 18:54 di oggi, sabato 8 aprile. Ad attenderli c’erano alcuni familiari. Subito dopo hanno lasciato lo scalo romano scortati dalla polizia, senza contatti con i tanti cronisti presenti.
Nella notte lo Shin Bet, il servizio segreto interno, ha perquisito la casa dell’attentatore, un arabo israeliano – sono il 20 per cento della popolazione, cittadini a tutti gli effetti – che viveva a Kfar Qassim, nel centro del Paese. Padre di quattro ragazze, lavorava come bidello in una scuola. Quando l’auto si è ribaltata nel parco tra la strada e il mare, è stato circondato dai poliziotti in borghese che l’hanno ucciso. Spiegano di averlo visto allungare il braccio verso un’arma, che – secondo il quotidiano Haaretz – si sarebbe rivelata un fucile giocattolo.
Margherita Scalise, avvocato amministrativista e collega di Alessandro Parini, ricorda il collega ammazzato all’agenzia AdnKronos: «Ci conosciamo tutti e siamo sconcertati. Ieri sera si sapeva solo il nome e ci chiedevamo se potesse essere lui, poi questa mattina purtroppo abbiamo visto la foto. Quando senti di questi attentati sembrano così distanti e invece poi ti rendi conto che può succedere a chiunque. Alessandro lo conoscevo da quasi dieci anni, aveva tanti amici e sempre tanto da raccontare, a livello professionale e umano – aggiunge -. L’ultima volta che l’ho visto mi aveva parlato del viaggio che aveva fatto a New York. È una tragedia assurda, inspiegabile».
Attentato a Tel Aviv: “Parini aveva un proiettile nella gamba”. Ma Israele smentisce. Fonti della polizia riferiscono che l’attacco che ha causato la morte dell’avvocato italiano è stato premeditato. Il Dubbio il 9 aprile 2023
Fonti della polizia riferiscono al quotidiano israeliano Haaretz che il 44enne Yousef Abu Jaber avrebbe premeditato l'attacco terroristico di Tel Aviv che venerdì notte ha causato la morte dell'avvocato italiano Alessandro Parini e il ferimento di altre persone. La possibilità di un incidente stradale è stata esclusa, dicono le stesse fonti. L'ipotesi principale su cui si sta concentrando il servizio di sicurezza dello Shin Bet resta quella di un attacco terroristico.
L'attacco in cui è morto Parini è avvenuto in mezzo a un'ondata di attacchi terroristici e a un'ondata di violenza. È stato il secondo attacco mortale della giornata,- ricorda Times of Israel- dopo che venerdì mattina una sparatoria in Cisgiordania ha ucciso due sorelle e ha lasciato la madre in pericolo di vita. L'aumento della violenza - prosegue il media israeliano - è arrivato mentre le tensioni sono aumentate negli ultimi giorni a seguito delle incursioni della polizia israeliana nel complesso della moschea di Al-Aqsa per sedare i disordini; giovedì, i terroristi di Hamas hanno lanciato raffiche di razzi contro Israele da Gaza e dal Libano". E a questi lanci è seguita in queste ore la risposta dell'esercito israeliano.
“L'Istituto di medicina legale di Tel Aviv smentisce le notizie riportate da organi di informazione italiani precisando che non è stato ritrovato alcun proiettile nella gamba di Alessandro Parini, l'avvocato italiano morto nell'attacco nella città israeliana”, riporta 7 Israel national news sul suo sito web di informazioni. Un alto funzionario di polizia ha riferito ad Haaretz che le ferite alla testa e alla schiena di Parini erano coerenti con l'essere stato investito da un'auto che viaggiava ad alta velocità. Nessun proiettile è stato trovato nel suo corpo, ha detto il funzionario.
Intanto ieri sono rientrati in Italia i cittadini italiani coinvolti nell’attacco. Il volo Ita Airways proveniente da Israele è atterrato alle ieri in serata a Fiumicino e il gruppo ha lasciato l'aeroporto senza avere nessun contatto con i giornalisti che attendevano al Terminal 3. Gli amici della vittima e uno dei due feriti (italiani ndr) sono stati successivamente accompagnati in aeroporto, scortati in ogni momento da funzionari della nostra Ambasciata e dalle autorità locali, per permettere loro di rientrare in Italia con il primo volo disponibile. L'altro cittadino italiano ferito, invece, è "tuttora ricoverato" nell'ospedale Ichilov di Tel Aviv, dove "in serata" l'ambasciatore "si recherà insieme al Ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen.
La salma di Parini "dovrebbe rientrare nei prossimi giorni in Italia", ha assicurato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ai microfoni di SkyTg24. E la Farnesina fa sapere che l'Ambasciata si è occupata di coordinare, assieme alle autorità locali, lo svolgimento di tutti gli adempimenti necessari per un rientro in tempi rapidi della salma". Le indagini sull'accaduto sono in corso, condotte dalla polizia israeliana e dallo Shin Bet, cioè dai servizi di sicurezza interni. Il caso - ha riferito un portavoce dello Shin Bet al Times of Israel - viene trattato come attacco terroristico. Dichiarazione che è giunta dopo che il comandante della polizia di Tel Aviv, Ami Eshed, citato dal giornale israeliano Haaretz, aveva riferito che la polizia stava valutando l'ipotesi che quanto avvenuto sul lungomare potesse non essere un attacco terroristico.
Intanto la procura di Roma ha aperto il fascicolo di indagine per la morte di Alessandro Parini e i reati ipotizzati sono attentato con finalità di terrorismo, omicidio e lesioni: a indagare il gruppo anti terrorismo di Roma, coordinato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino; e le verifiche sono a carico di Ros e Gos, che hanno già inviato una prima informativa. Erano le 21.35 ora locale quando giovedì sera un uomo alla guida di un'auto, mentre percorreva la strada adiacente al lungomare di Tel Aviv, ha sterzato a destra guidando a velocità sulla pista ciclabile e ha colpito pedoni e ciclisti prima che l'auto si ribaltasse sul prato. L'uomo, ucciso da agenti intervenuti sul posto, è stato identificato dalla polizia come Yousef Abu Jaber, 44 anni, arabo-israeliano residente a Kafr Qassem, senza precedenti per sicurezza. Secondo la ricostruzione fornita da Haaretz, un poliziotto e un altro agente arrivati sul posto hanno notato che il presunto attentatore ha provato a raggiungere un fucile che aveva con sé e gli hanno sparato uccidendolo. Hareetz cita una fonte di polizia che riferisce che nell'auto di Abu Jaber non è stata trovata nessun'arma, ma c'era solo una pistola giocattolo. Le indagini si concentrano sul presunto attentatore. Non era affiliato ad alcun gruppo terroristico, ma era stato arrestato nel 2017 a seguito di una rissa scoppiata a Kafr Qasem.
Il Times of Israel riferisce che venerdì sera, dopo quanto accaduto sul lungomare di Tel Aviv, la polizia e le forze dello Shin Bet sono arrivate a casa della famiglia di Abu Jaber a Kafr Qassem, città a maggioranza araba, hanno condotto una perquisizione e interrogato alcuni dei residenti. Alcuni membri della famiglia sono stati portati alla stazione di polizia per ulteriori interrogatori, aggiunge Haaretz. Per il fratello, Omar Abu Jaber, non si è trattato di un attacco terroristico ma di "un incidente d'auto". Alla testata Ynet ha detto che ritiene che Yousef Abu Jaber abbia perso il controllo del veicolo perché non dormiva da diversi giorni a causa del lutto per il cugino. "Yusuf ha sei figlie, ha dei nipoti, li amava tutti. Sorrideva sempre, pensavamo che Dio lo avesse creato in modo tale che non potesse essere duro. A Kfar Qassem lo conoscono in molti, ha un negozio di giocattoli per bambini e cd", sottolinea il fratello, aggiungendo che lavorava anche come addetto alle pulizie in una scuola per sostenere la famiglia.
"A nome del Governo di Israele e del popolo d'Israele, invio le nostre condoglianze alla famiglia e agli amici di Alessandro Parini, il cittadino italiano assassinato nell'attentato di ieri a Tel Aviv, così come al Governo e a tutto il popolo italiano", ha dichiarato il ministro israeliano Cohen, che ha anche espresso le condoglianze in un colloquio con Tajani, a seguito del quale ha affermato che "Israele e Italia sono uniti contro il terrorismo che minaccia tutti noi". E in serata il presidente israeliano Isaac Herzog ha twittato anche in italiano: "È con enorme dolore e costernazione che invio sentite condoglianze alla famiglia Parini e al popolo italiano per l'assassinio di Alessandro Parini in un attentato terroristico a Tel Aviv. Auguro piena guarigione ai feriti dall'Italia e dal Regno Unito", ha scritto.
Decine di persone hanno deposto intanto candele e fiori sul luogo della morte del giovane avvocato romano. "I giovani di Israele abbracciano i giovani italiani", si legge in una didascalia sotto a una foto di Parini lasciata sul posto. I fatti di Tel Aviv giungono in un momento di grande tensione in Medioriente, nel periodo di Ramadan e Pasqua ebraica: sempre venerdì due sorelle britannico-israeliane sono state uccise e la madre è rimasta ferita in una sparatoria in Cisgiordania; il tutto poche ore dopo che l'esercito israeliano aveva compiuto raid aerei nel sud del Libano e nella Striscia di Gaza in risposta a lanci di razzi da Libano e Israele dopo le tensioni alla moschea Al-Aqsa di Gerusalemme.
L’autopsia conferma: Alessandro Parini morto per l’impatto con l’auto. Il corpo del giovane avvocato non presenta ferite di arma da fuoco, come già emerso dall’esame svolto in Israele. Il Dubbio il 12 aprile 2023
Alessandro Parini è morto per l'impatto con l'auto e il suo corpo non presenta ferite di arma da fuoco. L'autopsia effettuata al Policlinico Agostino Gemelli sul corpo del 35enne morto nell'attentato del 7 aprile, sul lungomare di Tel Aviv, conferma quanto evidenziato dagli esami già svolti in Israele.
A provocare la morte del giovane è stata l'auto con cui l'attentatore Yousef Abu Jaber, anche lui morto, gli si è lanciato contro. Sulla vicenda indagano i carabinieri del Ros, coordinati dalla procura capitolina con il procuratore aggiunto Michele Prestipino e la pm Gianfederica Dito. I reati ipotizzati sono attentato con finalità di terrorismo, omicidio e lesioni.
Attentato Tel Aviv, è festa nella città del terrorista islamico. L’azione è stata rivendicata dalla Jihad islamica. Un’auto è piombata sulla folla a tutta velocità, morto un italiano. Michael Sfaradi su Nicolaporro.it 8 Aprile 2023,
La vittima si chiamava Alessandro Parini ed era un giovane avvocato di Roma, aveva 35 anni, e si era specializzato in diritto amministrativo. Lavorava presso un prestigioso studio legale della capitale ed era amante dei viaggi, in particolare verso mete esotiche. Era arrivato in Israele da meno di 24 ore e, vista la bellissima serata, aveva deciso, insieme a un gruppo di amici e conoscenti italiani e inglesi, di passeggiare sulla parte più bella del lungomare di Tel Aviv, quella che divide il centro dalla zona del porto di Yafo.
La passeggiata della morte
Nessuno di loro poteva immaginare che una semplice passeggiata si potesse trasformare in una tragedia, quando un’auto guidata da un terrorista, la Jihad Islamica ha rivendicato la paternità dell’attentato, è salita sul marciapiede e a una velocità che variava fra gli 80 e i 90 chilometri orari, ha falciato chiunque si trovasse in quel momento su quel tratto di lungomare. I soccorsi arrivati sulla scena dell’attentato a distanza di pochi minuti, hanno subito trasferito i feriti nei Pronto Soccorso e Trauma Center degli ospedali Ichilov di Tel Aviv e Wolfson di Holon, mentre per il povero Alessandro Parini hanno potuto solamente constatare la morte.
Chi è il terrorista
Ironia della sorte, il terrorista, Yosef Abu Jaber (45 anni) di Kfar Qasim, autore dell’attentato, aveva lavorato a contatto con giovani studenti israeliani come addetto alle pulizie alla Shazar Middle School di Kiryat Ono. Quando la sua foto è stata pubblicata, sia gli studenti sia il personale della scuola non volevano credere che proprio lui si fosse macchiato di un simile delitto. Tutti loro conoscevano Abu Jaber che aveva lavorato in questa scuola fino all’anno scorso, impiegato presso una società appaltatrice. Il preside e il personale educativo hanno subito informato la polizia non appena il suo nome è stato pubblicato.
Gli islamisti festeggiano
Mentre come da programma consolidato a Kfar Qasim, la città dell’attentatore, prendevano il via i festeggiamenti per la riuscita dell’attentato, nelle dichiarazioni alla stampa israeliana i familiari del terrorista hanno detto che se avessero saputo cosa intendeva fare, lo avrebbero fermato. A conferma di ciò il fratello ha detto che “se avesse avuto l’intenzione di uccidere avrebbe cercato di causare più danni possibili”, come se l’uccisione di una persona e il ferimento di altre cinque, di cui una alla spina dorsale che sta correndo il rischio di passare il resto della sua vita su una sedia a rotelle, non fossero danni abbastanza gravi. Metodo già ampiamente collaudato dalle famiglie dei terroristi che si dissociano sempre dopo gli attentati, ma che non fanno mai nulla per prevenirli. Questo per evitare che la casa dove abitava il terrorista venga abbattuta.
Come già detto nei territori dell’A.N.P. e nella Gaza di Hamas sono subito cominciati i festeggiamenti con la distribuzione di dolci ai passanti. Ieri era la seconda volta che festeggiavano, infatti in mattinata due ragazze israeliane, sorelle, sono state uccise a raffiche di mitra e la loro madre, rimasta gravemente ferita, combatte fra la vita e la morte all’ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme.
Michael Sfaradi, 8 aprile 2023
Dall'attentato al Bataclan alla strage di Nizza, gli italiani vittime del terrorismo nel mondo. Storia di Redazione Tgcom24 l’8 aprile 2023.
L'attentato a Tel Aviv, dove è rimasto vittima il 35enne romano Alessandro Parini, è solo l'ultimo in ordine cronologico degli attacchi terroristici in cui hanno perso la vita cittadini italiani. Da Dacca al Bataclan, da Sharm el Sheik a Nizza, la lista è lunga. Ecco i principali episodi.
11 dicembre 2018 A Strasburgo, Cherif Chekatt apre il fuoco in rue Orfevres e colpisce alla testa il giornalista italiano Antonio Megalizzi, che muore tre giorni dopo. Cinque le vittime in totale.
17 agosto 2017 A Barcellona, Younes Abouyaaqoub, alla guida di un camioncino, piomba sulla zona pedonale de La Rambla, uccidendo 16 persone, tra cui i due italiani Luca Russo e Bruno Gullotta, e l'italo-argentina Carmen Lopardo.
19 dicembre 2016 Un camion, guidato dal tunisino Anis Amri, travolge la folla in un mercatino di Natale a Berlino. Dodici i morti tra cui la trentunenne abruzzese Fabrizia Di Lorenzo.
14 luglio 2016 Ancora un camion, questa volta a Nizza, sulla Promenade des Anglais. Si tratta di uno degli attentati più brutali degli ultimi anni: 86 morti, tra cui sei italiani.
1 luglio 2016 A Dacca, in Bangladesh, un commando irrompe e spara nel ristorante Holey Artisan Bakery. Nove italiani uccisi.
22 marzo 2016 In una serie di attacchi a Bruxelles muoiono 32 persone, tra cui - alla stazione della metro di Maelbeek dove un kamikaze si è fatto esplodere - l'italiana Patricia Rizzo.
13 novembre 2015 l tragico attacco multiplo dell'Isis a Parigi fa 130 vittime. Tra queste l'italiana Valeria Solesin che si trovava al Bataclan per un concerto.
18 marzo 2015 A Tunisi quattro italiani rimangono uccisi nell' attentato al museo del Bardo. In totale i morti sono 22.
13 febbraio 2010 Nadia Macerini, 37 anni, muore a Pune, in India, nell'esplosione di una bomba piazzata in un ristorante.
23 luglio 2005 A Sharm el Sheik 6 italiani muoiono negli attentati terroristici che uccidono 60 persone.
7 luglio 2005 Il terrorismo islamico colpisce nel cuore dell'Inghilterra, sulla metro di Londra. La 32 enne romana Benedetta Ciaccia è tra le 52 vittime.
7 ottobre 2004 Jessica e Sabrina Rinaudo, di 20 e 22 anni, muoiono nell'attentato all'Hotel Hilton di Taba, in Egitto.
16 maggio 2003 In una serie di attentati a Casablanca, in Marocco, il tecnico Luciano Tadiotto è tra i 41 morti.
Abu Daoud, la mente di Monaco 1972. Emanuel Pietrobon il 9 Marzo 2023 su Inside Over.
Abu Daoud, un nome tanto sconosciuto oggi quanto noto all’epoca della Guerra fredda. Tra i ricercati nell’elenco dei “dead or alive” dei servizi segreti di Tel Aviv, in quanto architetto del famigerato massacro di Monaco, che nel 1972 strappò la vita a undici sportivi israeliani, fu uno dei più famigerati fedayyìn di Settembre nero. E riuscì a scampare, fino all’ultimo giorno, alla vendetta del Mossad. Questa è la sua storia.
Daoud prima di Daoud
Abū Dāwūd, nom de guerre di Mohammad Daoud Oudeh, è stato uno dei volti più noti della galassia del terrorismo palestinese delle origini, quello, cioè, di Fatah, Olp e Settembre nero.
Nato in un giorno e in un mese sconosciuti del 1937, in quel di Siloam, Gerusalemme Est, Oudeh cresce all’interno di un contesto familiare relativamente agiato, per gli standard predominanti tra i palestinesi dell’epoca, e viene allevato alla passione per l’insegnamento. Un mestiere, quello dell’insegnante – di fisica e matematica –, che negli anni lo porta a soggiornare tra Giordania e Arabia Saudita.
Cresciuto nell’apoliticità, nel senso letterale del termine – estraneo e disinteressato alla questione palestinese e affini –, Oudeh sarebbe entrato nell’universo del terrorismo palestinese per caso e con irruenza. Nel 1967, di ritorno a Gerusalemme da un’esperienza kuwaitiana – lavoro nel Ministero di giustizia, studio di diritto all’università –, passa da testimone a vittima della Guerra dei sei giorni.
Uno dei tanti sfollati della porzione orientale di Gerusalemme, conquistata dalle forze armate israeliane insieme alla Cisgiordania, Oudeh si trasferisce nella vicina Giordania. Ma qui, anziché proseguire lungo la via del diritto o dell’insegnamento, prende una decisione destinata a cambiare per sempre la sua vita: l’ingresso nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
La guerra a Israele
Il 1967 è l’anno della trasfigurazione, emblematizzata dall’assunzione di un nuovo nome – Abū Dāwūd –, e dell’inizio di una lunga guerra a Israele, resa possibile – si dice – da elementi nordcoreani che lo avrebbero formato, addestrato e trasformato in uno stratega di guerre irregolari, asimmetriche e non convenzionali.
Dopo tre anni di intenso addestramento, nel 1970, Abū Dāwūd esce allo scoperto nelle vesti di cofondatore di Settembre nero, un gruppo paramilitare inizialmente composto da elementi di al-Fatḥ, nato con l’obiettivo di elevare la guerra tra l’Internazionale filopalestinese e Israele. Carismatico, scaltro e ben inserito negli ambienti che contano, da Mosca ad Algeri, Abū Dāwūd riesce a costruire in breve tempo una rete di intelligence eurasiatica, un esercito altamente professionalizzato e un arsenale di dimensioni significative.
Il mondo avrebbe capito la novità rappresentata da Settembre nero l’anno successivo alla costituzione, il 1971, con l’eclatante omicidio dell’allora primo ministro giordano Wasfi Tal. Atto al quale avrebbe fatto seguito, nel 1972, uno dei più gravi attentati che siano mai stati compiuti contro degli obiettivi israeliani all’estero: il massacro delle Olimpiadi di Monaco.
I servizi segreti tedeschi, in prima linea nel monitoraggio del sottobosco neonazista, avevano captato dei segnali potenzialmente inquietanti alla vigilia della strage. Un militante neonazista, Willi Pohl, era in contatto con Abū Dāwūd. Il BfV avrebbe telegrafato la relazione in tempi non sospetti, sottolineandone la possibile pericolosità, senza che, però, fosse mai aperto un fascicolo. Di lì a breve, il 5 settembre, un commando di Settembre nero, armato da neonazisti e veterani del Terzo Reich e in odore di una Tripoli connection, avrebbe fatto irruzione nel villaggio olimpico e ucciso dodici persone, undici atleti israeliani e un poliziotto tedesco.
Prima di Monaco eravamo semplicemente dei terroristi. Dopo Monaco, perlomeno, la gente iniziò a chiedersi: “chi sono questi terroristi? Cosa vogliono?”. Prima di Monaco nessuno aveva la più pallida idea di cosa fosse la Palestina.
Abū Dāwūd, intervista all’Associated Press
Abū Dāwūd, mente del massacro di Monaco, a partire dal 6 settembre 1972 figura al primo posto nell’elenco dei ricercati del Mossad. Al potente servizio segreto per l’estero di Israele viene dato mandato di trovare – ed eliminare – pianificatori ed esecutori della strage, nel contesto della famigerata operazione Ira di Dio, e la testa di Abu Daoud ha priorità massima.
Nella consapevolezza di dover affrontare un nemico ricco di strumenti e inventiva, per il quale i confini geografici non sono un limite, Abū Dāwūd entra in clandestinità. Trascorre un periodo nell’Europa del Patto di Varsavia, probabilmente protetto dal KGB. Viene successivamente intercettato dai servizi segreti francesi a Parigi, nel 1977, ed estradato in tempi record ad Algeri, a seguito di trattative sottobanco con Tripoli e con l’OLP, prima che la giustizia tedesca possa chiederne il trasferimento a Berlino e prima che il Mossad attivi i suoi assassini professionisti.
Il ritiro a vita privata
1 agosto 1981, il giorno del redde rationem mancato. Abū Dāwūd, a passeggio nel centro storico dell’apparentemente impermeabile Varsavia, viene raggiunto da cinque colpi di pistola. Il sicario spara da una distanza di circa due metri, mettendo a segno ogni colpo, ma il terrorista sopravvive miracolosamente. Nessuno dei proiettili, infatti, sarebbe penetrato in zone vitali.
Dopo oltre un decennio di immersione totale, forse trascorso nel più sicuro Libano – divenuto, nel frattempo, una propaggine dell’Iran khomeinista sotto il controllo di Hezbollah –, Abū Dāwūd riemerge dagli abissi nel 1993, anno della sua comparsa a Ramallah. Ma la nuova residenza dura poco: dopo aver dato alle stampe un libro autobiografico, Palestine: De Jérusalem à Munich, viene accusato dalla dirigenza OLP di aver rivelato segreti compromettenti e “invitato”, dunque, a trovare un nuovo luogo sicuro.
Mai depennato dalla kill list del Mossad, e isolato dall’Olp – intento, forse, ad offrire un olocausto sull’altare della normalizzazione costruito con gli accordi di Osolo –, Abū Dāwūd si trasferisce in Siria. Trascorre gli ultimi anni a Damasco, vivendo con una pensione erogatagli dall’Olp e arrotondando con interviste scritte e video rilasciate ai media arabi e globali.
Muore il 3 luglio 2010, a causa di un’insufficienza renale, senza avere mai espresso pentimento per Monaco ’72. Muore poco dopo aver fatto una promessa al suo acerrimo nemico, Israele, ovvero che la guerra per la liberazione della Palestina sarebbe stata portata avanti dalla sua discendenza. EMANUEL PIETROBON
L'odio antisemita alla radice del male. Ma il mondo sunnita isola i palestinesi. Storia di Fiamma Nirenstein su Il Giornale il 29 gennaio 2023.
Il titolo degli attacchi terroristici di ieri e venerdì a Gerusalemme, il primo nel Giorno della Memoria della Shoah alla Sinagoga di Ateret Avraham, il secondo con l'arma impugnata da un bambino di 13 anni nella zona Città di David è: odio ideologico, incitamento antisemita. A Ramallah, a Shkem, a Jenin e anche a est Gerusalemme si sono distribuite caramelle per la gioia. Hamas, la Jihad Islamica, anche Fatah, hanno cercato di travestire gli attacchi da vendetta politica, ma non funziona.
È un retaggio onnipresente contro la presenza ebraica in Israele; è un anno passato con 2.200 attacchi, e 29 morti, seguiti da manifestazioni di gioia. Le operazioni di polizia e anche la conferma elettorale della destra per migliorare la difesa dei cittadini con più determinazione, vengono coi decenni di missili da Gaza, coi coltelli, i mitra, le auto lanciate sui passanti, le urla di morte agli ebrei, mentre l'aiuto internazionale, specie dall'Iran, si allargava da Gaza fino all'Autonomia Palestinese. Intanto però i Paesi arabi sunniti si allontanavano sempre di più dal rifiuto palestinese, e stavolta dall'Egitto come dalla Giordania la voce di condanna si unisce a quella americana: Biden chiede addirittura se può venire ad aiutare. Gli Usa sanno che l'Iran trova il suo vantaggio nelle guerre in corso, ed è una minaccia che si allarga dal conflitto Russo Ucraino su tutto l'occidente, mentre i droni iraniani oltre che su Israele, volano su Kiev.
Le operazioni dell'esercito israeliano a Jenin della scorsa settimana cercavano di arrestare cellule terroristiche pronte a un altro grande attacco terroristico, e lo scontro a fuoco è stato inevitabile. Ma a Gerusalemme, sono invece cent'anni di terrorismo: le sue tracimazioni insanguinano l'Europa e gli USsa. La Sinagoga di Roma nell'82, in Francia, in Belgio nell'Europa del Nord, in America, Rue de Copernique, Ilan Halimi, Rue de Rosiere, Charles Hebdo, la scuola di Tolosa, il museo ebraico di Bruxelles, Pitzburg. Il mucchio di nomi e date sarebbe impervio. E in Israele il terrore è un continuo: la Seconda Intifada, quasi duemila persone uccise sugli autobus, e nelle pizzerie, sempre passanti, donne, bambini, passanti.
Il ragazzo che ha ucciso 7 ebrei e ne ha ferito altrettanti venerdì sera è un arabo israeliano con documenti blu, che gli permettono di essere ovunque, di prepararsi a dovere. Chissà se aveva mai incontrato la coppia scesa da casa per soccorrere i feriti, marito e moglie, Eli e Natalie Mizrahi, che ha steso uno dietro l'altro. Quel giovane di 21 anni, Aqlam Khairi, sapeva quando i suoi vicini di Neve Tzedek, quartiere popolare, escono dalla preghiera. Così il ragazzo che ha compiuto il secondo attentato, e si spezza il cuore, aveva 13 anni. Ha sparato a un padre e a suo figlio che passeggiavano dopo la preghiera. Da qui si vede la Moschea di Akl Aqsa. A suo tempo Arafat invitò proprio i bambini a essere shahid per Gerusalemme, oggi Abu Mazen paga fino a 3.200 dollari di stipendio ai terroristi o alle loro famiglie e che li definisce eroi e martiri; disegna così un popolo che non può crescere in educazione e civiltà. Se oggi cadesse il tabù dell'assoluzione preventiva ai palestinesi che violano i diritti umani, delle donne, dei gay, dei dissidenti, nella loro società, si eviterebbe di arrivare agli estremi a cui si è arrivati verso l'Iran prima dell'attuale rivoluzione. Il fatto che ogni giorno gli Ayatollah e le Guardie della rivoluzione chiamino alla distruzione di Israele è apparso ai più una sciocchezza, da ignorare, così è coi palestinesi. E costa la pace al mondo.
Estratto dell'articolo di Davide Frattini per il Corriere della Sera il 27 gennaio 2023.
I razzi sparati nella notte di giovedì a questo punto sembrano un diversivo. L’esercito teneva gli occhi e i mirini puntati verso sud e la Striscia di Gaza, lo sguardo in alto a individuare le scie dei proiettili. La vendetta per il raid a Jenin — nove palestinesi uccisi, tra loro due civili — è invece arrivata a livello della strada: dall’auto l’attentatore ha sparato sui fedeli all’ingresso della sinagoga, le vie affollate nella sera dello Shabbat, il momento più sacro. Ha ucciso almeno sette persone, anche un adolescente, ultraortodossi come tutti in questo quartiere nella parte araba della città.
E da Gerusalemme Est verso Neve Yaakov ha viaggiato anche il terrorista, che è stato poi ammazzato da una squadra di pronto intervento della polizia. È la strage più grave dal 2008, quando sempre un palestinese residente a Est era entrato con un fucile mitragliatore in una yeshiva, una scuola religiosa, otto gli studenti morti. La Jihad Islamica — suoi affiliati la maggior parte dei caduti negli scontri di mercoledì mattina — esalta l’operazione e Hamas proclama: «È l’unica risposta possibile».
I fondamentalisti spadroneggiano su Gaza dal 2007, dopo averne tolto il controllo all’Autorità palestinese con un golpe, e preferiscono che la prima linea resti verso la Cisgiordania e Gerusalemme. I razzi sparati dopo il raid a Jenin sono stati una reazione limitata, per dimostrare sostegno eppure evitare la guerra totale come nel maggio del 2021. Itamar Ben Gvir, neo-ministro per la Sicurezza Nazionale, si è presentato subito sul luogo dell’attentato. In passato ha invocato la pena di morte per gli attentatori, ora è al governo e la supervisione delle mosse israeliane spetta anche a lui. I suoi sostenitori mercoledì sera hanno marciato attraverso le vie della Città Vecchia e qualche slogan lo accusava di essere troppo morbido con Hamas: è stato eletto con una campagna incentrata sulla sicurezza, sfoderando la pistola che porta sempre con sé.
Davanti agli israeliani riappaiono le immagini della Seconda intifada, i massacri compiuti dai kamikaze, i corpi dei civili coperti dai teli argento. Come vent’anni fa è Gerusalemme al centro degli attacchi, come vent’anni fa è su Jenin che l’intelligence punta la sorveglianza. Nel nord della Cisgiordania, è tra le sue case che era stata combattuta una delle battaglie più sanguinose dell’operazione Scudo Difensivo ordinata dall’allora premier Ariel Sharon.
È sempre stata un bastione del Fatah, ma il presidente Abu Mazen ne ha perso il controllo. Hamas e la Jihad si rafforzano, i miliziani sono riuniti nel gruppo «Figli del campo» (rifugiati). Per ora figli senza padri politici, una nuova generazione della violenza. Benjamin Netanyahu — che nel fine settimana dovrebbe ricevere Antony Blinken, il segretario di Stato americano (...)
ISRAIDELE. Martina Melli su L’Identità il 27 Gennaio 2023
Nella giornata di ieri almeno nove palestinesi sono rimasti uccisi e altri 20 sono stati feriti nel campo profughi di Jenin, in uno degli attacchi peggiori nella Cisgiordania occupata da Israele. Un raid che i palestinesi hanno descritto come un “massacro”. Le forze israeliane si sono subito ritirate dopo gli omicidi, mentre si faceva la conta dei morti, tra cui anche Izz al-Din Salahat, uno dei combattenti della Brigata dei martiri di Al-Aqsa – una milizia armata affiliata al partito politico palestinese Fatah. La situazione sul campo è molto difficile, con i feriti che cercano di raggiungere gli ospedali mentre le forze israeliane ostacolano ambulanze e personale medico. “C’è un’invasione che non ha precedenti, in termini di dimensioni e numero di feriti”, ha detto ad Al Jazeera Wissam Baker, capo dell’ospedale pubblico di Jenin. “L’autista dell’ambulanza ha cercato di raggiungere una delle vittime stesa a terra, ma le forze israeliane hanno sparato direttamente contro l’ambulanza e hanno impedito loro di avvicinarglisi”, ha continuato Baker. Le forze israeliane hanno anche sparato lacrimogeni contro l’ospedale, colpendo la divisione dei bambini e causando loro lesioni da soffocamento. L’esercito, ha negato di aver sparato deliberatamente gas lacrimogeni contro l’ospedale. “Nessuno ha sparato gas lacrimogeni di proposito in un ospedale”, ha detto un portavoce dell’esercito. “Ma l’attività non era lontana ed è possibile che il fumo sia entrato da una finestra aperta”.
Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha rilasciato una dichiarazione in cui invita le Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani a “intervenire urgentemente per fornire protezione al popolo palestinese e fermare lo spargimento di sangue di bambini, giovani e donne”. Saleh al-Arouri, leader di spicco del movimento Hamas che governa la Striscia di Gaza bloccata, ha affermato che “la risposta della resistenza non si farà attendere”. Nel frattempo, le fazioni palestinesi hanno annunciato un giorno di lutto e dichiarato lo stato d’allerta. L’esercito israeliano ha giustificato l’operazione affermando che forze speciali erano state inviate a Jenin per arrestare i combattenti della Jihad islamica sospettati di aver pianificato e realizzato “molteplici attacchi terroristici”. Hanno dunque lanciato un raid su larga scala assediando il campo nelle prime ore con forze sotto copertura, dozzine di veicoli blindati e cecchini. Due sospetti armati sono stati identificati e neutralizzati dalle forze di sicurezza”, hanno fatto sapere i funzionari israeliani in una nota.
Ben-Gvir e la caccia ai palestinesi. Martina Melli su L’Identità il 27 Gennaio 2023
L’Onu ha definito il 2022 l’anno più luttuoso per i Palestinesi nella Cisgiordania occupata dagli Israeliani, dal lontano 2006. Un 2022 terribile conclusosi ancora peggio, con la formazione del Governo Netanyahu, forte della coalizione più di estrema destra nella storia dei 74 anni del Paese. Un Governo che ha subito promesso razzismo e violenza agli odiati inquilini.
Se infatti, già dall’anno scorso gli attacchi nella Striscia di Gaza si erano intensificati, con l’ascesa alla sicurezza di personaggi politici quali Ben-Gvir (Potere Ebraico) e Smotrich (Sionismo religioso), la situazione è già ampiamente precipitata, e non farà che precipitare ancora. Ben-Gvir in passato ha chiesto la deportazione dei cittadini palestinesi giudicati sleali verso Israele; ha anche invitato i coloni a portarsi dietro armi e criticato l’esercito israeliano per non aver usato misure più rigide contro i nemici.
Fine dello stato di diritto. Netanyahu ha tradito il suo passato e la democrazia israeliana alleandosi con l’estrema destra. Carlo Panella su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.
Il nuovo governo dipende numericamente e politicamente da partiti dichiaratamente fascisti, xenofobi e razzisti. Il prossimo obiettivo di questa alleanza è sottomettere la Corte Suprema alla volontà dell’esecutivo e della Knesset
Par capire come sia cambiata Israele oggi sono sufficienti quattro parole di un ministro determinante nel nuovo esecutivo di Bibi Netanyahu: «Sono un fascista omofobo», così si è dichiarato Bezael Smotrich, ministro israeliano delle Finanze.
Su questa piattaforma il suo partito Sionismo Religioso ha raccolto alle elezioni di novembre ben 516.470 voti, pari al 10,84 per cento, e quattordici seggi su centoventi. Al suo fianco, Itamar Ben Gvir, condannato per incitazione all’odio e sostegno di una organizzazione terroristica, seguace del rabbino fascista Meir Kahane, che ha appena vietato da ministro della Sicurezza l’esposizione della bandiera Palestinese, che considera «un simbolo terrorista», porta a Bibi Netanyhau ventuno voti sui sessantaquattro della maggioranza su cui si basa il nuovo governo israeliano.
Un governo che, come abbiamo previsto, sta tradendo le basi stesse della democrazia israeliana e del sionismo. Il tutto per il cinico calcolo dello stesso Netanyhau, che ha tradito il proprio più che ventennale profilo di solido centro liberale e laico e, pur di acciuffare a qualsiasi costo la maggioranza nella Knesset, ha costruito una alleanza con i partiti religiosi e, appunto, con l’estrema destra dichiaratamente fascista, xenofoba e razzista.
Fortissima, ma assolutamente tardiva, la reazione della parte progressista di Israele che ha manifestato per tre sabati consecutivi a Tel Aviv – centomila manifestanti –, Gerusalemme e Bersheeba contro gli intenti liberticidi del governo. Manifestazioni corali e partecipate che non rimediano però ai gravissimi errori commessi dalla sinistra, dai liberal e anche dai partiti arabi che si sono presentati alle elezioni di novembre divisi e frammentati per meschini calcoli tattici e hanno perso preziosi seggi che potevano annullare la spregiudicata manovra di Bibi Netanyahu.
Ora, forte di sessantaquattro seggi su centoventi, il primo passo del nuovo esecutivo mostra chiaramente la esplicita volontà eversiva di questa alleanza che ha come primo obiettivo sottomettere la Corte Suprema alla volontà dell’esecutivo e del parlamento, la Knesset, questo infatti prevede uno dei primi provvedimenti legislativi presentati dal governo.
Il tutto a fronte del complesso quadro istituzionale israeliano. Per varie ragioni infatti, non è stato mai mantenuto l’impegno di David Ben Gurion all’atto della proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 di varare una Costituzione. Tra queste ragioni frenanti, ha avuto un peso la netta opposizione dei partiti religiosi, spesso indispensabili per formare maggioranze parlamentari anche per i governi laburisti, che erano e sono contrari a una Carta Fondamentale che insidierebbe il primato della Torah.
Ma ha anche fortemente influito un sistema istituzionale e giudiziario ereditato dalla Gran Bretagna, potenza mandataria dal 1918 a 1948, monocamerale, basato sulla Common Law e senza il riferimento a una Costituzione (al mondo solo la Gran Bretagna, Israele e Nuova Zelanda non hanno una Costituzione).
Così il Paese si è via via dotato di tredici Leggi Fondamentali, approvate da una maggioranza semplice nella Knesset, il cui rispetto è giudicato da una Corte Suprema che ha anche un ruolo giudicante da Corte di Cassazione. Corte che ovviamente ha sempre avuto un potere sovraordinato e regolatorio rispetto al Parlamento, con sentenze anche clamorose come quelle che hanno imposto a modificare il tracciato del Muro di Protezione per non violare diritti di proprietà dei palestinesi di Cisgiordania.
Ultima, per clamore, la sentenza della Corte Suprema che in questi giorni ha imposto a Bibi Netanyahu di rimuovere dal fondamentale ministero dell’Interno e da quello della Sanità il suo fondamentale alleato Arye Dery, leader del partito religioso ultraortodosso Shas a causa di una sua condanna, con patteggiamento, per evasione fiscale.
Lo stesso Bibi Netanyahu, sottoposto oggi a un processo per corruzione, rischia, se condannato, rischia di dover dimettersi da premier per un verdetto della Corte Suprema. Da qui, dal rischio di una caduta del governo per via giudiziaria, la decisione del governo israeliano di stravolgere il Balance of Power tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, base dello Stato democratico, e di varare una legge che stabilisce appunto che le leggi approvate dalla Knesset sono superiori alle sentenze della Corte Suprema e sono vincolanti per la Corte stessa. Di fatto, la fine dello Stato di Diritto.
L'ex capo del Mossad denuncia l'apartheid israeliano. Piccole Note (filo-Putin) il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.
In Israele “c’è uno status di apartheid. Un territorio nel quale due persone vengono giudicate secondo due sistemi giuridici diversi è uno stato di apartheid”. Questa affermazione giunge da una voce del tutto inattesa, l’ex capo del Mossad Tamir Pardo, e da una fonte altrettanto inattesa, avendo Pardo rilasciato tali dichiarazioni nel corso di un’intervista all’Associated Press il 6 settembre.
Come annota l’Ap, l’ex capo del Mossad non è il solo esponente dell’establishment israeliano ad ammonire sul tema. Infatti, riferisce l’agenzia di stampa americana, “alcuni ex leader politici, diplomatici ed esponenti della Sicurezza israeliani hanno avvertito che Israele rischia di diventare uno stato di apartheid, ma il linguaggio di Pardo è stato ancora più schietto”.
Pardo, infatti, ha voluto aggiungere che le sue affermazioni sul rapporto tra Israele e i palestinesi “non sono estreme. È un fatto“.
Come riferisce l’Ap, l’ex capo dell’intelligence israeliana è stato duramente criticato da alcuni esponenti politici israeliani, con toni anche molto accesi.
Goldberg e l’appello del mondo ebraico contro l’apartheid
L’affermazione di Pardo non giunge certo nuova. Tante le denunce in tal senso da parte dei palestinesi e di alcune autorevoli organizzazioni internazionali (vedi ad esempio il report di Amnesty International).
Più di recente, ha fatto il giro del mondo una polemica nata in Germania, ma di respiro internazionale. “L’apartheid è la nostra realtà in Israele” titolava un articolo della Frankfurter Allgemeine del 23 agosto a firma di Amos Goldberg, uno dei più importanti studiosi dell’Olocausto presso l’Università Ebraica di Gerusalemme.
Questo l’incipit dell’articolo: “Felix Klein, commissario per l’antisemitismo del governo federale [tedesco], ha recentemente affermato, durante un’interessante intervista con l’esperta tedesca del Medio Oriente Muriel Asseburg, che chiunque accusi Israele di apartheid delegittima lo Stato ebraico. E che questa è una narrazione antisemita. La tesi è discutibile. Perché se Felix Klein avesse ragione, alcuni dei più noti studiosi dell’Olocausto e dell’antisemitismo di Israele, dell’America, dell’Europa e dal mondo intero sarebbero antisemiti”.
“Infatti, una petizione pubblicata di recente e co-sponsorizzata da Omer Bartov, uno dei più rispettati studiosi dell’Olocausto e del genocidio [degli ebrei], afferma che ‘non può esserci democrazia per gli ebrei in Israele finché i palestinesi vivono sotto un regime di apartheid […]’. La petizione è stata firmata da più di 1.900 scienziati, per lo più ebrei e israeliani, tra cui Saul Friedlander, Shulamit Volkov, Eva Illouz, Dan Diner e Christopher Browning”.
Sempre in Israele, anche Haaretz ha pubblicato diversi articoli che ammonivano su tale deriva. Citiamo, tra i tanti, quello di Benjamin Pogrund dello scorso 10 agosto, dal titolo: “Per decenni ho difeso Israele dalle accuse di apartheid. Non posso farlo più”.
Tanti in Israele rigettano tali accuse, ma quanto riferiamo segnala che sia in Israele che nel più ampio ambito ebraico internazionale il tema è sentito e partecipato come forse mai prima d’ora. Come denota anche l’articolo di Pogrund succitato, il nuovo governo israeliano, il cui estremismo ha suscitato reazioni fortissime in ambito ebraico, ha provocato il crollo del muro contro il quale s’infrangevano le denunce pregresse. Se ciò porterà anche al crollo del muro che divide israeliani e palestinesi è tutto da vedere. Tempi lunghi, esito più che incerto.
Quel solco sempre più profondo tra israeliani e palestinesi che allontana ogni speranza di pace. FRANCESCA BORRI su La Gazzetta del Mezzogiorno su L'Inkiesta il 28 luglio 2023
Circa 450mila coloni vivono nella West Bank, in circa 130 insediamenti e 100 avamposti. Altri 200mila vivono a Gerusalemme. Per i palestinesi, sparsi qui e lì in oltre 165 frantumi di terra, avere un proprio stato è ormai un problema geografico, prima ancora che politico. Ma a essere in crisi non è solo l’idea dei due stati: è l’idea dei due popoli.
Gli ultimi negoziati si sono avuti nel 2014. Con Obama. Ma oggi, se anche la priorità non fosse l’Ucraina, chi chiamare al tavolo? Chi ha l’autorità e l’autorevolezza per firmare un’intesa? E cioè: chi sarebbe poi capace di vincolare la propria parte a rispettarla?
In Israele si è votato cinque volte in quattro anni. Il quadro delineato nel 2015 dall’allora presidente Reuven Rivlin, e da allora, citato sempre più spesso, con gli israeliani sempre più divisi tra i laici, i religiosi, gli ultra-ortodossi e gli arabi, e sempre più estranei gli uni agli altri, si è calcificato. Quelle che venivano descritte come tendenze della società, ora sono i suoi connotati. Perché ora il governo c’è: ma Netanyahu, che è di nuovo primo ministro, è ostaggio dei coloni, senza cui non ha la maggioranza - e senza la maggioranza, non solo non avrebbe il governo: non avrebbe l’immunità per i molti processi per frode e corruzione in cui è imputato. Il suo ministro per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, fu esonerato dalla leva perché ritenuto troppo estremista. Troppo pericoloso.
Da tempo ormai i periodici bombardamenti di Gaza sembrano coincidere con momenti di tensione interna, più che con momenti di tensione con Hamas: sembrano essere un mezzo per sviare l’attenzione. Operazioni di distrazione, oltre che di distruzione. Ma da febbraio, l’interferenza della politica, e cioè degli interessi di parte, invece che dell’interesse nazionale, nelle questioni di sicurezza è nero su bianco. Gli insediamenti, e più in generale, l’Area C, quel 61 percento di West Bank che è ancora sotto il totale controllo israeliano, sono da sempre di competenza del ministro della Difesa. Ora, invece, a Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze, che è l’altro falco del governo, è stata affidata una nuova Settlement Administration con ampi poteri in materia di pianificazione e costruzione: e con rapporti ambigui con l’Esercito. Di chi sarà l’ultima parola?
Bezalel Smotrich è uno che sostiene che i palestinesi non esistono. Che sono una forma di propaganda araba.
Come già gli ultra-ortodossi, i coloni non rispondono che a se stessi. E non sono solo contro gli arabi, ma contro tutti, diciamo così, i diversamente ebrei. Contro tutti quelli che hanno un’altra visione di Israele. Ma in più, sono armati.
Gli israeliani sono sempre più estranei, ma anche ostili, gli uni agli altri. Mai come oggi non sono uniti che dal nemico. Non sono uniti che dai palestinesi.
E se in Israele si vota sempre, in Palestina invece non si vota mai. Le ultime elezioni sono state nel 2006. Il mandato di Mahmoud Abbas è scaduto nel 2009.
Dell’Autorità Palestinese non si sa molto altro. Perché per i palestinesi, e anche tanta stampa internazionale, tutto deriva dall’occupazione. Del resto non ha senso parlare. Il resto, sarà affrontato a tempo debito. E d’altra parte: complicato parlare. Con la legge sulla Cyber Criminalità del 2018, si viene arrestati anche per un tweet. Il 24 giugno 2021, a Hebron, la polizia è entrata a casa di Nizar Banat, il più noto dei dissidenti, alle 3.30 di notte. Alle 6.45 è stato dichiarato morto per un attacco di cuore.
L’autopsia commissionata dalla famiglia ha rilevato 42 ferite da sprangate. Più del 30 percento del bilancio dell’Autorità Palestinese è destinato alla sicurezza.
E quindi, i ventenni di questa specie di Terza Intifada non rispondono che a se stessi. Non seguono Fatah e Hamas. Seguono Tik Tok. Seguono Instagram. Sono ventenni come mille altri, in felpa e Blundstone, ed è la loro forza: qui chiunque, ormai, in qualsiasi momento, può infiltrarsi oltre il Muro, imprevedibile, e arrivare a Tel Aviv, e sparare. Ma è anche la loro vulnerabilità. Perché non hanno che se stessi. E contro Israele, addestrarsi alla Playstation non è sufficiente. Con i droni, sta eliminando tutti uno a uno. Poi, in realtà, non è vero che Fatah e Hamas sono fuori dai giochi. Stanno dietro le quinte. A manovrare i fili. Basta farsi la domanda che non fa nessuno: chi paga per tutte queste armi?
E per tutte le Audi, le Mercedes, le BMW che sempre più si notano in giro? Per essere usati, non è necessario essere arruolati.
E basta osservare meglio le foto dei martiri, come si dice qui, le foto dei morti, che tappezzano i muri: spesso, con lo stesso M16 in spalla. Perché all’interno della conta dei morti c’è un’altra conta, quella dei militanti, all’interno dello scontro con gli israeliani, c’è un altro scontro: quello tra palestinesi. E mentre le famiglie pensano ai funerali, Fatah e Hamas pensano ai manifesti funebri. Pensano al marketing. Aggiungendo con Photoshop un M16 e il proprio logo a un selfie scattato per strada. Perché l’obiettivo non è la fine dell’occupazione: è la successione a Mahmoud Abbas. Che ha 88 anni, e elezioni o meno, presto sarà costretto a un passo indietro. L’obiettivo è il potere.
Ma ormai tutti qui hanno perso un padre, un figlio, un fratello. Tutti hanno un martire nella propria vita. E la resistenza ha una dimensione privata, personale, più che politica e collettiva. Non sono solo «i palestinesi» a essere contro Israele: sei tu, individualmente, a essere contro Israele. Cercando non più giustizia, ma vendetta. Indipendentemente da tutto e tutti.
Non si avrà alcuna pace. Non per ora. Non si avrà alcuna tregua. Alcuna trattativa. Non sono le proposte a mancare: sono gli israeliani e i palestinesi.
Jenin, il giorno dopo il raid. Piccole Note il 6 Luglio 2023 su Il Giornale.
L’incursione massiva delle forze israeliane a Jenin è stata ordinata “per distogliere l’attenzione dalla potente testimonianza resa al processo contro Netanyahu da Arnon Milchan per i ‘doni sontuosi’ ricevuti [dal premier ndr], oltre che [per distrarre l’attenzione] dal golpe giudiziario, dalle manifestazioni di protesta [contro il golpe stesso ndr] e dalla resa totale di Netanyahu ai veri primi ministri [del Paese], Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir e Arye Dery” (a capo, questi ultimi, dei partiti di destra e ultra-destra che sostengono il suo governo). Così ritiene Usi Misgraw, che ne scrive su Haaretz.
Nell’incursione, sono stati uccisi 12 palestinesi, di cui tre minorenni, come annota Save The Childern in un report che dettaglia che sono stati arrestati anche “alcuni bambini” (si spera subito rilasciati). E ha perso la vita anche un soldato israeliano, anche questo va ricordato ché la morte accomuna anche i nemici.
Altri dettagli interessanti nell’articolo di Misgraw, cioè che malgrado il massivo dispiegamento di forze, non c’è stata una vera e propria battaglia, dal momento che i combattenti palestinesi hanno per lo più evitato il confronto contro un nemico tanto preponderante. E che gli alti gradi dell’esercito israeliano volevano condurre un’operazione più limitata, di un giorno, ma che la politica ha spinto per prolungarla inutilmente, con un ulteriore aggravio della situazione.
Il raid senza senso
Malgrado le forze israeliane abbiano fatto sfoggio di un grande progresso tecnologico rispetto ad altri raid, scrive sempre su Haaretz Anshel Pfeffer, “quando si tratta del motivo per cui stavano combattendo, nulla è cambiato” rispetto al passato. Quindi, registrando l’enfasi con cui politici e militari hanno salutato i risultati dell’operazione, ha commentato: “È tutto tristemente identico [al passato] e privo di significato. I capi delle Brigate Jenin, la mattina dopo, stavano già sfilando nel campo profughi”.
E il fatto che le milizie palestinesi abbiano ancora il controllo del territorio, nonostante la forza e i mezzi dispiegati per eradicarle dalla città, è stato salutato da quanti sostengono la causa palestinese come una vittoria. Tale la dinamica propria della resistenza.
A descrivere il sentimento dei palestinesi per quanto avvenuto, è Jack Khouri: “Case demolite, veicoli distrutti e strade danneggiate facevano apparire la città una zona di guerra. A mezzogiorno, decine di migliaia di persone hanno dato vita al corteo funebre per dieci delle dodici vittime. Hanno iniziato a sfilare dall’ospedale della città, scortati da decine di uomini a viso coperto e armati che sono stati applauditi dalla folla”; ed è probabile, aggiunge il cronista, che gli applausi più calorosi provenissero da “quanti avevano perso la casa e tutti i loro averi” (Haaretz).
La rabbia
Se si voleva attutire la rabbia da cui nasce la violenza, la si è solo alimentata, aggiunge Khoury, che ha registrato i canti che hanno accompagnato il corteo funebre: “ci affideremo alle nostre armi rinunciando al ramoscello d’ulivo”; “non c’è nessuno con cui parlare in Israele” e “Israele comprende solo la forza”.
Più addolorato il resoconto di Gideon Levi, che parla di “500 case distrutte”, ma soprattutto dei “figli di Jenin, che non dimenticheranno mai”. E racconta di un video girato sul web in questi giorni: “In una scena orribile, che potrebbe risalire a un qualche periodo oscuro della storia, soldati armati e corazzati invadono una piccola casa. A tutti viene ordinato di alzare le mani. Un soldato punta il fucile contro le donne e i bambini; e un urlo di terrore squarcia l’aria. Taglio. Il video finisce qui, ma i bambini non dimenticheranno. Non dimenticheranno mai quello che hanno dovuto subire in questa settimana” (Haaretz).
Così si chiudono due giorni di sangue e distruzione, che hanno solo alimentato l’odio tra i due popoli, come dimostra l’automobile lanciata contro ignari passanti israeliani durante il raid di Jenin (sette i feriti nell’attentato). Una catena di sangue che discende da tragedie del passato e del presente ed è preludio a quelle future.
Reportage da Hebron, città simbolo dell’apartheid palestinese. Elena Colonna su L'Indipendente il 10 Giugno 2023
Nonostante si parli spesso di un “conflitto israeliano-palestinese” quella sotto cui vivono migliaia di cittadini in Palestina è, di fatto, un’occupazione militare. Secondo Amnesty International, un vero e proprio sistema di apartheid. Che nella città di Hebron si mostra in tutta la sua brutalità. Al Khalil, ovvero l’amico più caro, è il nome arabo della città palestinese meglio conosciuta con l’appellativo ebraico di Hebron. Situata a trenta chilometri a sud di Gerusalemme, dove i campi di ulivi iniziano a lasciare spazio ad un paesaggio più aspro, Hebron è la città più popolosa della Cisgiordania. Se anni fa era un fiorente centro culturale, Hebron adesso è conosciuta come la città dell’apartheid. È qui, infatti, che l’occupazione mostra il lato più brutale, dove un manipolo di coloni israeliani occupano illegalmente una parte della vecchia città e, protetti dai soldati dello Stato sionista, impediscono la libertà di movimento dei cittadini palestinesi.
Hebron è infatti l’unico luogo in Cisgiordania in cui gli insediamenti israeliani, vere e proprie colonie considerate illegali dal diritto internazionale, si trovano nel cuore stesso della città, piuttosto che intorno a essa. La città è infatti divisa in due parti: H1, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, dove risiede la maggior parte degli oltre 200.000 abitanti palestinesi, e H2, sotto controllo militare israeliano. A H2, che comprende anche il centro storico di Hebron, patrimonio Unesco, abitano oltre 30.000 palestinesi e circa 800 coloni israeliani. Qui le strade sono un susseguirsi continuo di posti di blocco – ce ne sono 22 solamente nella città vecchia – muri, cancelli, recinzioni e fili spinati che separano gli insediamenti israeliani dalle strade in cui abitano i palestinesi.
Spesso israeliani e palestinesi vivono in case adiacenti, o addirittura coabitano nello stesso edificio, e solo le bandiere – israeliane o palestinesi – issate al di fuori delle finestre sprangate permettono di capire chi vi risiede. Nella zona del mercato, i coloni israeliani abitano addirittura sopra alle case palestinesi, e dalle loro finestre gettano rifiuti sulle strade sottostanti. Sopra alle bancarelle del mercato sono quindi issate reti di protezione, sulle quali restano impigliati scatoloni, rifiuti, e sacchetti di plastica gettati dagli israeliani.
Mentre i coloni sono soggetti alla legge civile israeliana, i palestinesi che abitano nell’area H2 vivono sotto legge militare. Questa prevede limitazioni alla libertà di movimento – solo ai coloni è concesso circolare in autoveicoli, e in diverse strade l’accesso è completamente vietato ai palestinesi – così come la chiusura dei negozi palestinesi – oltre 1800 negozi sono stati chiusi – e l’attuazione di misure di coprifuoco. Queste misure creano un’atmosfera spettrale in molte zone di H2, tra cui la città vecchia: a differenza del caos, del traffico e del misto di suoni e odori che riempiono le strade di H1, la parte di Hebron sotto controllo israeliano sembra una città fantasma.
Fucili puntati e telecamere di sorveglianza
l posto di blocco che permette di entrare a Tel Rumeida, insediamento israeliano nel cuore della città vecchia di Hebron, è sorvegliato da militari con il fucile puntato sulla strada. Sopra al tornello attraverso cui bisogna camminare, di fianco a numerose telecamere, è installato un fucile automatico. Una volta superato il posto di blocco, ci si lascia alle spalle il caos della città: le strade di Tel Rumeida, quasi tutte chiuse ai palestinesi, sono infatti completamente vuote e silenziose, percorse quasi esclusivamente da militari israeliani armati fino ai denti. Le vetrine sbarrate dei negozi palestinesi che sono stati costretti a chiudere creano un’immagine di abbandono e desolazione. Il senso di tensione costante è intensificato dall’onnipresenza delle telecamere di sorveglianza, installate in ogni strada dell’insediamento.
[Il ‘Checkpoint 56’, il posto di blocco militare che separa H1 da H2. Credit: Maria Colonna.]«Si può comprendere la situazione di Hebron solo vedendola con i propri occhi», dice Issa Amro, attivista palestinese e fondatore dell’associazione Youth Against Settlements. Issa abita proprio di fianco all’insediamento di Tel Rumeida: solo un muro in lamiera sormontato da filo di ferro separa la sua casa da quella adiacente dove, spiega Issa, abita un colono israeliano. A qualche metro di distanza è appostato un soldato, lo sguardo diretto verso il muro della casa di Issa su cui è riportato l’articolo della convenzione di Ginevra che definisce l’illegalità degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Issa ci spiega che, in quanto palestinese, non può attraversare il checkpoint di ingresso a Tel Rumeida, nè accedere a molte delle strade all’interno dell’insediamento, tra cui il vialetto che porta a casa sua: è obbligato invece a percorrere una strada più lunga attraverso un giardino di ulivi. «A Hebron vige un vero e proprio apartheid», dice l’attivista: anche Amnesty International utilizza il termine apartheid per descrivere l’occupazione israeliana – non solo a Hebron ma in tutta la Palestina.
«Ad oggi, a Hebron sono migliaia i negozi chiusi e le abitazioni palestinesi vuote, e centinaia le limitazioni al movimento, tra posti di blocco e strade chiuse ai palestinesi – racconta Issa – quasi tutte le strade di H2 sono vuote e desolate, per questo chiamiamo Hebron una città fantasma.» L’attivista spiega inoltre che l’occupazione israeliana sta cancellando l’identità palestinese della città: «i nomi di molte vie sono stati cambiati da nomi arabi a nomi israeliani, e ci sono bandiere israeliane ovunque.»
Le violenze e umiliazioni sono quotidiane: «a Hebron – racconta Issa – i palestinesi subiscono violenze sia da parte dell’esercito, con le incursioni, le uccisioni, gli arresti e le detenzioni, ma anche da parte dei civili israeliani: i coloni ci lanciano pietre, rubano dalle nostre case, bruciano le nostre proprietà, bloccano le strade, ci spaventano, insultano e umiliano, intimidiscono i bambini». In un sondaggio delle Nazioni Unite realizzato a Hebron nel 2019, circa il 70% delle famiglie palestinesi interpellate ha dichiarato di aver subito violenze e attacchi dai coloni israeliani nei tre anni precedenti. Gli attacchi dei coloni godono della connivenza, se non della collaborazione, delle forze dell’ordine israeliane: secondo un’indagine dell’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din, solo il 3% delle denunce sporte da palestinesi per violenze commesse da cittadini israeliani in Cisgiordania dal 2005 al 2022 ha portato a condanne. Secondo i dati raccolti da un’altra associazione, B’Tselem, lo stesso tasso di incriminazione del 3% vale anche per i casi in cui soldati o civili israeliani arrivano ad uccidere civili palestinesi.
È proprio per proteggersi dagli attacchi dei coloni che Issa ha costruito una recinzione e fissato del filo spinato attorno a casa sua. Protezioni come quella costruita da Issa sono presenti su quasi tutte le abitazioni del centro storico di Hebron: barriere, fili spinati, o vere e proprie gabbie che rafforzano l’immagine di una città sotto assedio, in cui condurre un’esistenza normale è impossibile.
Una strategia di logoramento per provocare l’esodo
Issa spiega che la strategia israeliana per accaparrarsi sempre più terreni è proprio quella di rendere la vita sempre più difficile per i palestinesi: «Non ti sfrattano con la forza, ma ti rendono impossibile restare, togliendo tutti i servizi, azzerando ogni forma di vita sociale e culturale, creando un clima costante di insicurezza, violenza e pericolo». Un esodo forzato di massa, così è stato definito quello che sta succedendo a Hebron, causato dalle violenze e dalle restrizioni che la popolazione palestinese è costretta a subire ogni giorno. «Il loro obiettivo è la sostituzione etnica – dichiara Issa – farci lasciare le nostre case con qualsiasi mezzo per potersi impadronire della terra.»
È proprio quella di «far sentire la propria presenza» la missione assegnata ai soldati israeliani nei territori occupati: lo scopo è che i palestinesi si sentano costantemente osservati e controllati, finchè non diventa insopportabile per loro continuare a vivere a Hebron. Questo denunciano molte testimonianze raccolte da Breaking the Silence, una ONG composta da veterani israeliani che si oppongono all’occupazione. «Mi chiedi dove ho visto la violenza a Hebron? Ad ogni angolo. La missione a Hebron non è mantenere l’ordine; la missione è imporre la supremazia ebraica nella città. Noi soldati non siamo tra il martello e l’incudine, ma siamo il martello che i coloni scagliano contro i palestinesi» denuncia un’altra testimonianza anonima di un militare dell’esercito israeliano che ha servito a Hebron nel 2014.
Molte delle attività portate avanti da Youth Against Settlements, associazione apolitica e non-violenta fondata da Issa nel 2007, hanno come obiettivo quello di far sentire gli abitanti di Hebron più al sicuro, di denunciare le violenze dei militari e dei coloni, e di ristabilire una vita sociale e culturale nella città. Per aumentare la percezione di sicurezza, e documentare le violazioni dei diritti umani subite dai palestinesi, l’associazione fornisce telecamere e incoraggia gli abitanti di Hebron a documentare le incursioni dell’esercito o le violenze dei coloni. Per ripristinare la vita sociale e far sentire le persone legate alla loro comunità, Youth Against Settlements organizza invece diverse attività culturali: ha aperto un centro per le donne, un asilo nido e sta progettando di avviare un cinema nella zona. Questo, oltre a organizzare manifestazioni e incontri, nonché attività di sensibilizzazione e visite guidate a Hebron per far conoscere la realtà dell’occupazione.
Una delle attività più significative dell’associazione di Issa è la campagna Open Shuhada Street (Aprire Shuhada Street), che negli anni ha ottenuto supporto in tutto il mondo. Shuhada è una lunga strada che si snoda attraverso la città vecchia di Hebron, un tempo la principale via di comunicazione nonché il centro del mercato cittadino, e che nel 2000 è stata completamente chiusa dall’esercito israeliano. Quella che un tempo era la stazione dei bus è diventata una base militare, decine di negozi sono chiusi e molti edifici demoliti. Ormai, solo i coloni israeliani che risiedono negli insediamenti sorti intorno a Shuhada possono percorrere la strada.
[Shuhada street, un tempo una delle strade più importanti di Hebron, oggi chiusa ai palestinesi. Credit: Maria Colonna.]E questa realtà insostenibile non fa che peggiorare: «Sempre più coloni si stanno insediando a Hebron, e nell’intera Cisgiordania, e stanno diventando sempre più violenti» riporta Issa. Questo, secondo l’attivista, perché il governo israeliano si sta spostando sempre più verso l’estrema destra. All’inizio dell’anno si è infatti insediato il governo più di destra della storia di Israele, costituito da un’alleanza tra Netahnyahu e partiti di estrema destra e ultra-ortodossi. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich sono essi stessi coloni, contrari all’esistenza di uno Stato palestinese e forti sostenitori di un’espansione degli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania. «Adesso che i loro leader sono parte del governo, i coloni si sentono legittimati nella loro violenza».
L’apartheid spinta dalla convinzione di adempiere al disegno di dio
I coloni che abitano negli insediamenti illegali in Cisgiordania sono la parte più nazionalista, ortodossa e fondamentalista della società civile israeliana. A guidarli nella decisione di vivere blindati in insediamenti militarizzati, la convinzione di adempiere a un dovere verso Dio e verso il popolo ebraico, di compiere una missione sacra. Negli insediamenti, sono i partiti ultra-conservatori e ultra-ortodossi di estrema destra a raccogliere la stragrande maggioranza del consenso.
Le ragioni religiose dietro all’occupazione israeliana della Palestina sono evidenti a Hebron, e pervadono la storia della città. Per i coloni, infatti, la loro presenza a Hebron è giustificata dal fatto che nella città si trova la Tomba dei Patriarchi (per i musulmani, la Moschea di Ibrahim) – il secondo luogo sacro per l’ebraismo, così come dal fatto che Hebron è la città dove Davide è stato incoronato re di Israele. La destra israeliana descrive l’occupazione della città, avvenuta nel 1967 durante la guerra dei Sei Giorni contro gli stati arabi, come un ritorno a casa, nel cuore di Eretz Israel, finalmente libero. L’anno dopo, nel 1968, gli Israeliani costruirono l’insediamento di Kiryat Arba, appena fuori Hebron, che sarebbe diventata una delle roccaforti della destra israeliana. È da questo insediamento che proveniva Baruch Goldstein, il colono che nel 1994 realizzò un attentato proprio nella Moschea di Ibrahim, uccidendo 29 musulmani in preghiera e ferendone quasi 300. La tomba di Goldstein, nell’insediamento di Kiryat Arba, è diventata luogo di pellegrinaggio per l’estrema destra israeliana. Sulla sua lapide, l’epitaffio definisce Baruch Goldstein martire con le mani pulite ed il cuore puro.
[L’attivista Issa Amro nella sua casa a Hebron. Credit: Maria Colonna.]Nonostante i decenni di violenza, Issa è convinto che un giorno sarà possibile per palestinesi e israeliani convivere nella stessa terra: «Quando risponderanno di quello che hanno fatto e si libereranno di questa ideologia suprematista e di questo razzismo, potremo vivere insieme». Nel frattempo, nel suo attivismo Issa rimane fermamente ancorato alla non-violenza. «Resistenza non violenta significa agire secondo la propria morale e i propri principi, senza fare del male a nessun essere umano» dichiara l’attivista, convinto che la non-violenza sia l’arma più forte con cui i palestinesi possono neutralizzare la violenza israeliana, nonché l’unica strada percorribile. «Prima o poi dovremo convivere con gli israeliani: il sangue e la violenza aumentano il divario tra i nostri due popoli. Scegliendo la non violenza diminuiamo questo divario.»
La sua dottrina apertamente non violenta e pacifista, che ha portato Issa a ricevere riconoscimenti dall’ONU, non protegge tuttavia l’attivista dalla repressione israeliana. Issa è infatti stato arrestato e incarcerato numerose volte, l’ultima a novembre per aver ripreso un soldato che picchiava un attivista israeliano. «Come palestinese, non mi è permesso praticare resistenza non violenta» dice Issa, spiegando che nessun tipo di resistenza è consentito sotto l’occupazione militare: non è permesso protestare pacificamente, non è permesso incontrarsi in più di dieci persone, e basta un incontro per finire in prigione. «Per l’attivismo e la resistenza non violenta che porto avanti, sono stato arrestato, picchiato, imprigionato e condannato molte volte».
La resistenza contro l’occupazione continua
Rievocando i periodi trascorsi in carcere, Issa afferma: «Le prigioni israeliane, ad esempio il centro di detenzione di Gush Etzion, sono come Guantanamo: cercano in ogni modo di umiliarti, di distruggere la tua dignità, di demolire il tuo spirito». L’attivista racconta le terribili condizioni di detenzione: «Le celle non hanno finestre, è impossibile sapere se sia giorno o notte. Spesso vieni lasciato senza cibo e acqua per intere giornate, e quando portano il cibo sono gli avanzi lasciati dai soldati». A volte, Issa è stato messo in isolamento solitario, senza nessun contatto con l’esterno, altre volte è stato tenuto con altri detenuti in celle estremamente affollate e sporche. «Sei volte al giorno, i soldati passano per contarti: devi inginocchiarti, con le mani dietro la testa, a terra, senza guardarli negli occhi, anche nel cuore della notte – continua il suo racconto Issa – e vieni picchiato: ogni volta che vogliono, vieni picchiato.»
Alla domanda di dove trovi la forza per continuare nella sua lotta, Issa risponde: «Nel fatto che molte cose stanno cambiando, che stiamo avendo un impatto su come il mondo vede Israele e l’occupazione». Sempre più organizzazioni internazionali e sempre più giornali, dice Issa, stanno descrivendo la situazione nei territori occupati con il termine apartheid, e stanno aprendo gli occhi del mondo sulla realtà dell’occupazione. Molto recentemente, un rapporto di Amnesty International proprio su Hebron ha documentato l’uso di tecnologie di riconoscimento facciale ai posti di blocco della città, e denunciato il loro uso come mezzo per consolidare il controllo sui palestinesi e mantenere il sistema di apartheid. «L’occupazione, le violenze, le uccisioni, anche la sorveglianza di noi palestinesi, vanno avanti da decenni» dice Issa, «ma fino ad adesso, il mondo riteneva Israele una democrazia, che voleva la pace e rispettava i diritti umani: ora il mondo sta iniziando a vedere il vero volto dell’occupazione israeliana».
Sempre più persone sanno cosa succede in Palestina, eppure la strada da fare è ancora molta: «È solo l’inizio, l’inizio di un cambiamento, ma non è ancora abbastanza» dice Issa. In particolare, l’attivista ritiene che i governi occidentali dovrebbero fare di più per spingere Israele a porre fine all’occupazione. «L’occidente dovrebbe dichiarare Israele un regime di apartheid, per esempio, oppure smettere di vendere armi agli israeliani, imporre sanzioni economiche e limitare il commercio, per rendere l’occupazione più costosa per Israele.» [di Elena Colonna]
Nella tragedia del popolo palestinese, la tragedia dei suoi bambini. Piccole Note il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.
“Ogni anno, le forze di sicurezza israeliane arrestano circa 1.000 bambini palestinesi dalla Cisgiordania e altri 1.000 da Gerusalemme est. I bambini vengono presi dalla strada, nelle scuole e persino nei loro letti”. Così Michael Fruchtmann in un durissimo j’accuse pubblicato da Haaretz dal titolo “Chi proteggerà le migliaia di bambini palestinesi detenuti da Israele?”.
Bambini braccati
“I metodi utilizzati in queste operazioni sono estremamente dannosi per i bambini e i giovani, sia a livello fisico che mentale. E sono proibiti sia dalla legge israeliana che dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che Israele ha ratificato”.
“Tali metodi comprendono arresti notturni, bambini “ricercati” strappati dai loro letti; arresti senza un mandato o una giustificazione giudiziaria; vengono ammanettati e i loro occhi bendati; a genitori, parenti o avvocati è vietato accompagnare i minori; inoltre, percosse e minacce e altro ancora, che causano ai bambini dolore fisico e stress emotivo. Sperimentano una dura solitudine, una grande paura, un senso di disorientamento, l’umiliazione, l’impotenza e spesso la sensazione che le loro vite siano in pericolo”.
La denuncia di Fruchtmann si allarga ad ampio spettro, annotando con gratitudine come gli esperti in salute mentale israeliani si siano uniti alle proteste contro la riforma giudiziaria di Netanyahu, sostenendo che la riforma liberticida avrebbe avuto un forte impatto sulla salute mentale dei cittadini.
Rompere il muro del silenzio
Eppure, continua Fruchtmann, “molti esperti del settore della salute mentale esitano ancora a protestare contro l’impatto negativo sulla salute mentale dei gruppi minoritari provocato da deliberate politiche di discriminazione e privazione dei diritti. Rimangono in silenzio nonostante il danno causato a milioni di palestinesi in Cisgiordania dalla negazione dei loro diritti personali e collettivi da 56 anni”.
“Particolarmente allarmante è il silenzio” di questi “di fronte ai gravi danni subiti dai bambini palestinesi. Questi bambini vivono le loro vite sotto occupazione, consci che in qualsiasi momento del giorno e della notte potrebbero essere messi in prigione”.
Concludendo, Fruchtmann annota che due ong hanno reso pubblico un appello di 300 esperti in salute mentale per chiedere “che cessino le detenzioni estremamente dure dei bambini palestinesi e il rispetto del diritto alla dignità, dall’infanzia alla vecchiaia, per tutti, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”.
E termina augurandosi “che la pubblicazione di questo appello sia accolto dalle migliaia di altri professionisti [del settore] che hanno protestato negli ultimi mesi. Si spera che diano ascolto alle loro voci interiori e attingano alla loro professionalità per alzare all’unisono le loro voci contro queste politiche dannose per l’anima”.
L’appello di Fruchtmann può apparire irenico, anzi lo è di certo, ma se gli abbiamo dato spazio è perché certa buona volontà, come si diceva un tempo, può risultare di conforto a quanti non si rassegnano alle storture del mondo.
Le bombe su Gaza: il durissimo editoriale di Haaretz. Piccole Note su Il Giornale l'11 Maggio 2023.
Mentre prosegue lo scambio di colpi tra Tel Aviv e la Jihad islamica, morti a Gaza e paura in Israele, si hanno notizie contrastanti su un negoziato in corso. Le milizie islamiche hanno avanzato tre condizioni per la tregua: la fine degli omicidi mirati a Gaza e Cisgiordania; la restituzione del corpo di Khader Adnan, la cui morte in un carcere israeliano ha scatenato gli scontri; e l’annullamento della Marcia delle bandiere promossa dall’ultra-destra israeliana in occasione del Jerusalem Day.
In un’intervista a Canale 13, Tzachi Hanegbi, Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, ha dichiarato che Tel Aviv “non ha alcun interesse a continuare lo scontro” perché “le possibilità di ottenere una deterrenza a lungo termine sono basse”. Operazione, cioè, inutile. Nonostante ciò, però, concorda con le autorità israeliane sul fatto che debba proseguire.
Gli Stati Uniti premono per il cessate il fuoco, anche perché in una guerra a Gaza si troverebbero a fianco di Israele, con danno di immagine (un problema per la guerra ucraina nella quale impersonano i “buoni”).
Haaretz e i “danni collaterali” delle bombe
Durissimo l’editoriale di Haaretz, che inizia così: “Nel primo attacco dell’offensiva contro Gaza denominata Operazione Shield and Arrow […] sono state uccise 13 persone, tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio, si è dichiarato che si trattava di un ‘danno collaterale’ dovuto alla necessità di eliminare le tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti devono essere considerati il ‘risultato collaterale’ dell’uccisione mirata dei civili”.
E si chiede se sia vero che i generali israeliani hanno deciso “con giudizio”, dal momento che hanno portato l’attacco “in una circostanza in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, bambini compresi”.
La seconda domanda è rivolta al governo, a cui chiede se abbia vagliato con cura le informazioni ricevute dall’esercito prima di dare il via libera. E chiede: “hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il ‘prezzo’ era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra”.
Il terzo quesito è rivolto al “procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Si è accertato se c’era un pericolo per la vita dei civili? E se così è, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo prezzo scellerato?”
Un leggero urto alle ali…
La quarta domanda è rivolta ai piloti che hanno sganciato le bombe, e si chiede se hanno valutato con attenzione il fatto che “bombardare case piuttosto che siti militari causa l’uccisione di civili”.
Questione ancor più controversa, rincara il giornale, perché si tratta degli stessi piloti che hanno protestato contro la riforma giudiziaria liberticida di Netanyahu (un golpe per gli oppositori). E si chiede: “Sono sereni quando uccidono civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine “sul quale sventola una bandiera nera?”
Quindi Haaretz ricorda l’intervista di “Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di Stato maggiore (e ora leader della protesta anti-golpe)” che, parlando dei bombardamenti su Gaza del 2022, aveva detto: “Quando sgancio una bomba sento solo un leggero urto alle ali”.
Questa la conclusione del giornale israeliano: “La sfacciata arroganza di Halutz nei confronti dell’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente fatto segno di critiche feroci – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia”.
Raid israeliani su Gaza: 13 vittime. Nuova guerra in arrivo? Piccole Note il 10 maggio 2023 su Il Giornale.
Ore di ansia in Palestina e Israele, mentre si attende cosa accadrà dopo il bombardamento israeliano contro la Striscia di Gaza che ha ucciso 13 persone, tre leader della Jihad islamica e i loro familiari. Un attacco improvviso e imprevisto, dal momento che si reputava che l’ennesimo braccio di ferro tra i duellanti si fosse sedato con il bombardamento israeliano della scorsa settimana in risposta a un lancio di razzi contro i suoi confini.
I missili su Israele e la risposta moderata di Netanyahu
Tutto è iniziato con la morte di Khader Adnan, uno dei capi della Jihad detenuto in Israele, morto a seguito di uno sciopero della fame. I palestinesi avevano accusato i carcerieri di avere favorito la sua morte, ipotesi alla quale propende anche Jihad (vedi Haaretz).
Da qui la risposta della Jihad, con un lancio di missili contro il nemico, che ha provocato per fortuna solo paura. La contro-replica israeliana era stata misurata, tanto che Levy si era lanciato in un insolito elogio di Netanyahu,
“La destra, che fino ad allora non aveva osato andargli contro, ha alzato la testa; negli studi dei notiziari televisivi, i bibiisti hanno criticato la sua asserita mancanza di spina dorsale come mai avevano fatto prima. Il centrosinistra aveva annunciato, al solito, che avrebbe sostenuto qualsiasi azione militare atta a ‘garantire la sicurezza dello Stato’ – niente li batte in questo campo, quando si tratta di entusiasmo per l’azione militare e lo spargimento di sangue palestinese – ma, nonostante tutto questo, la saga si è conclusa in 24 ore, senza morti in Israele e solo un morto nella Striscia di Gaza. Uno spettacolo raro” (la vittima in questione non la penserà allo stesso modo, ma nella sostanza Levy ha ragione).
Non solo, date le difficoltà in cui si dibatte, dovendo affrontare le diuturne proteste dell’opposizione contro la sua riforma giudiziaria liberticida, Netanyahu avrebbe “persino potuto guadagnarci, potendo distogliere l’attenzione dai suoi fallimenti grazie a operazioni eroiche nella Striscia di Gaza”. Non l’ha fatto, da cui l’inusuale lode di Levy, suo acerrimo critico.
Il raid a bersaglio
Ma questo era ieri. Oggi il raid e le 13 vittime. A motivare l’inversione di tendenza la dura presa di posizione di Ben Gvir, il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che aveva minacciato di abbandonare il governo se non si fosse agito con più forza.
Nessuno potrà mai confermare il ruolo determinante di Ben Gvir, dal momento che le opposizioni, che spingevano nella stessa direzione, si ritroverebbero accomunate al loro peggior nemico, l’uomo che spesso nelle loro critiche definiscono fascista. Né Netanyahu vuol passare per ondivago e cedevole alle pressioni.
Così la spiegazione ufficiale è che i raid su Gaza erano stati interrotti perché i leader della Jihad si erano nascosti. E sono ripresi quando sono tornati visibili. Ma resta che Ben Gvir ha annunciato che il boicottaggio nei confronti del governo è terminato “in seguito al lancio dell’Operazione Shield and Arrow dell’IDF a Gaza” (Timesofisrael).
Per parte loro, i palestinesi affermano che i leader della Jihad uccisi erano attesi in Egitto, avendo le autorità del Cairo dato loro “il permesso” per la visita dopo aver ottenuto luce verde da Israele; e sono stati uccisi mentre “salutavano i loro familiari” prima della partenza. Gli egiziani, aggiungono, sarebbero furiosi con Tel Aviv “per l’inganno”.
Ora si attende la replica da Gaza. Amos Arel su Haaretz ricorda che, nel precedente scontro tra la Jihad islamica e Israele, Hamas, che controlla la Striscia, era rimasta neutrale. Ma è improbabile che stavolta “possa permettersi di evitare di essere in qualche modo coinvolta”. Troppe le vittime. Se ciò avverrà, prosegue Arel, lo scontro salirà di livello.
Secondo Arel, però, Hamas sarebbe “interessato a un breve ciclo di combattimenti”, dal momento che la situazione a Gaza gli sarebbe “favorevole” e non vuole rischiare di rovinarla. Forse ha ragione, forse no. Vedremo. Ad oggi, l’unica cosa certa è che ci sarà una risposta che attirerà altre bombe su Gaza.
Questa l’amara conclusione di Arel: “Circa una volta all’anno viene lanciata un’operazione militare [israeliana], ma anche quando l’ultima è finita, Gaza rimane sempre Gaza e i suoi problemi rimangono sempre gli stessi”.
La polizia israeliana entra in moschea e picchia palestinesi disarmati: 200 feriti. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 5 Aprile 2023
Nella notte, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme colpendo decine di fedeli palestinesi con manganelli e calci di fucile. Il complesso religioso di cui fa parte la moschea rappresenta il terzo santuario più sacro dell’Islam e il sito più sacro del giudaismo. I palestinesi, mentre svolgevano i riti del Ramadan, si sono chiusi all’interno dell’edificio sacro in previsione dell’arrivo dei fedeli israeliani che celebrano la Pasqua sulla spianata delle moschee. Qui, la polizia israeliana ha lanciato lacrimogeni e bombe stordenti per sgomberare l’area ma i palestinesi hanno risposto con fuochi d’artificio e pietre. I video che circolano in rete mostrano la violenza con cui l’esercito occupante si è scagliato sui fedeli, provocando oltre 200 feriti, tra cui diversi bambini. Sono state effettuate, inoltre, decine di arresti. Da tutta la Palestina sta iniziando la mobilitazione a difesa di Al-Aqsa.
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Le autorità palestinesi hanno prontamente condannato l’attacco ai fedeli. Il portavoce del presidente Mahmoud Abbas ha avvertito Israele che questa mossa «supera tutte le linee rosse e porterà a una esplosione del conflitto». Ha fatto seguito il lancio di diversi razzi dal nord della Striscia di Gaza verso Tel Aviv, in parte intercettati dal sistema anti-missile israeliano in parte caduti in aree aperte. Il complesso della moschea nella Città Vecchia di Gerusalemme est, occupata da Israele nel 1967, è già stato in passato teatro di scontri tra palestinesi e israeliani, in particolare durante il mese di digiuno musulmano del Ramadan. Lo scorso aprile, l’esercito occupante fece irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa mentre i fedeli erano riuniti per le preghiere del mattino, due giorni dopo aver arrestato centinaia di persone presenti nello stesso edifico sacro. Allora, le autorità israeliane giustificarono l’irruzione nel complesso affermando che l’obiettivo fosse quello di “facilitare le visite di routine degli ebrei al luogo sacro”. A distanza di un anno, le violenze si sono ripetute per “espellere degli agitatori”. L’associazione a difesa dei diritti umani Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che i militari israeliani hanno impedito ai medici di raggiungere la moschea di Al-Aqsa, ostacolando le operazioni di soccorso.
[di Salvatore Toscano]
Israele: nasce la polizia governativa per reprimere oppositori e palestinesi. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 3 aprile 2023.
Il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato la costituzione della “Guardia nazionale per Israele”, un corpo di polizia governativa subordinata al Ministero per la Sicurezza nazionale. Il dicastero è guidato dal ministro Itamar Ben-Gvir nonché leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, tra i sostenitori della riforma giudiziaria sospesa lunedì scorso da Netanyahu in seguito alle proteste che da mesi attraversavano il Paese. Per tenere unita la coalizione, il primo ministro ha istituito la Guardia nazionale, che «fungerà da forza dedicata qualificata e addestrata per gestire, tra le altre cose, varie situazioni di emergenza, criminalità nazionalista e terrorismo», come fa sapere il governo. Palestinesi, forze di opposizione e centri per la difesa dei diritti umani hanno prontamente bollato il nuovo corpo di polizia governativa come una “milizia privata” nelle mani di Ben-Gvir.
Quando la riforma della giustizia è stata sospesa, la coalizione di governo ha vacillato: i capi dell’estrema destra hanno inizialmente minacciato di dimettersi, prima di negoziare la propria permanenza. L’esecutivo ha così approvato un finanziamento di un miliardo di shekel, pari a circa 250 milioni di euro, per la Guardia nazionale, riducendo di 1% il budget di altri ministeri. Itamar Ben-Gvir ha definito l’istituzione della polizia governativa «una notizia importante per i cittadini israeliani e che migliorerà la sicurezza personale». Diverse cariche pubbliche hanno invece criticato l’iniziativa, come l’Avvocatura generale dello Stato che ha parlato di impedimento legale a causa della sovrapposizione dei compiti con la polizia. Nei prossimi 90 giorni, una Commissione formata da “tutti i settori della sicurezza di Israele” dovrà precisare le prerogative della Guardia nazionale e fissarne la composizione. Secondo indiscrezioni rilanciate dai media locali, dovrebbero essere coinvolti circa 2000 militari.
L’attuale governo israeliano è composto dalla coalizione più sbilanciata a destra nella storia del Paese. Un compromesso obbligato per il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu, che senza la protezione da primo ministro avrebbe dovuto rispondere delle accuse di corruzione davanti alla giustizia. Il caso ha voluto che sia stato proprio il tentativo di riformare la magistratura il punto di non ritorno della propria carriera politica. Netanyahu si trova, infatti, a gestire sia la delusione della frangia radicale dell’opinione pubblica sia il malcontento di una parte della popolazione che si professa democratica e inclusiva, rimuovendo però la questione palestinese dalle proprie proteste antigovernative. «Se la democrazia è quando ogni cittadino, indipendentemente dalla sua religione, setta, razza o genere, gode del diritto di partecipare agli affari pubblici, allora questo non vale per Israele fino a quando lo stato applicherà un sistema di apartheid etnico-religioso», ha dichiarato il ricercatore Ali Mawasy. Sono rare le voci israeliane che uniscono, sotto l’ombrello democratico, la deriva istituzionale a cui andrebbe incontro il Paese se dovesse passare la riforma della giustizia e le politiche di occupazione e di estrema violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme o nella Striscia di Gaza.
Il capo della polizia Kobi Shabtai ha definito l’istituzione della Guardia nazionale come una misura «non necessaria e dagli alti costi», che può «danneggiare la sicurezza personale dei cittadini e il sistema di sicurezza interno del Paese». Un’attenzione di certo non estesa ai cittadini arabi di Israele, che vivono situazioni di disagio sociale ed emarginazione rispetto ai concittadini ebrei. Nessun riferimento, inoltre, alle violenze della polizia nei confronti della popolazione araba residente nei territori occupati. Nell’ultimo rapporto pubblicato da Amnesty sulla situazione dei diritti umani nel mondo, viene sottolineato come i doppi standard e le risposte inadeguate alle violazioni umanitarie abbiano alimentato impunità e instabilità. L’organizzazione non governativa ha citato in primis il rifiuto di contrastare il “sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi”. Per coloro che vivono nella Cisgiordania occupata, sottolinea Amnesty, il 2022 è stato uno degli anni più mortali da quando, nel 2006, le Nazioni Unite hanno cominciato a registrare i numeri delle vittime: lo scorso anno sono stati 151 i palestinesi uccisi, tra cui decine di bambini. Il partito Balad, in riferimento ai palestinesi che vivono nelle città miste o nei territori occupati, ha bollato l’istituzione della Guardia nazionale come un terribile pericolo per decine di migliaia di persone che saranno alla mercé di “una banda armata legale che obbedirà a un ministro già condannato per terrorismo”. [di Salvatore Toscano]
Israele punta a reintrodurre la pena di morte, ma solo per i palestinesi. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 2 Marzo 2023.
“Chi causa la morte di un cittadino israeliano spinto da motivi razzisti o di odio, e con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria, rischia una condanna a morte”. Recita così il disegno di legge proposto da Otzma Yehudit – partito politico ultranazionalista ebraico che tra i suoi punti programmatici prevede l’annessione a Israele dell’intera Cisgiordania – discusso il 26 febbraio e approvato dal Comitato Ministeriale per la Legislazione israeliana. La strada verso l’approvazione definitiva è ancora lunga, dovrà essere sottoposta all’analisi del consiglio di sicurezza e del Parlamento, ma dopo il primo parere positivo pare possibile. Se approvata la legge andrebbe a sancire una volta di più l’esistenza in Israele di un sistema di segregazione razziale (come già denunciato da Amnesty International e da inviati dell’ONU) dove la pena di morte sarà introdotta, di fatto, solo per i cittadini palestinesi.
L’annuncio è arrivato subito dopo la notizia delle due persone israeliane uccise in un attentato palestinese nei pressi di Nablus, in Cisgiordania. «Agiremo per scoraggiare i terroristi e mantenere la sicurezza. Colpiremo il terrorismo con forza», ha commentato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. «In questo giorno difficile in cui 2 cittadini sono stati uccisi non c’è nulla di più simbolico che approvare questa legge, giusta e morale» ha ribadito Ben Gvir, suo Ministro per la sicurezza nazionale che sul tema ha basato tutta la sua campagna elettorale. Il senso della legge, spiegato dai due rappresentanti, non è quello di punire gli atti terroristici con il carcere («Non vogliamo che tornino in circolazione dopo aver scontato la pena»), ma di eliminarli alla radice, uccidendo cioè chi li avrebbe commessi. Funzionando, a loro parere, da deterrente. «Sono rimasto sbalordito nel vedere l’opposizione al disegno di legge, che intende porre fine all’assurda realtà in cui terroristi assassini con le mani sporche di sangue vengono liberati dopo alcuni anni dal carcere e continuare a vivere comodamente la propria vita», sostiene Son Har-Melech, Membro della Knesset israeliana.
Al momento il testo non chiarisce quale metodo verrebbe utilizzato per eseguire la pena di morte, ma una cosa, invece, è piuttosto chiara, seppur non specificata: dal momento che Israele etichetta come ‘terrorista’ chi danneggia il suo Stato e impedisce al suo popolo di rinascere, è molto probabile che, dovesse essere approvata, tale legge non si applicherebbe mai ai ‘terroristi’ ebrei che uccidono i cittadini palestinesi.
Secondo Baharav-Miara, procuratrice generale di Israele – il cui parere solitamente è vincolante – il disegno di legge non soddisfa i requisiti costituzionali. In Cisgiordania infatti non vige la legge israeliana e le regole non sono emanate dalla Knesset. Il territorio è invece occupato illegalmente dalle IDF, Forze di difesa israeliane. L’introduzione della nuova legge potrebbe essere visto dalla comunità internazionale come un tentativo ufficiale di imporre il proprio ordinamento e cambiare lo status dell’area, in maniera illegittima.
«Crudele, disumano e umiliante», si legge nel commento di Amnesty International Israel, «una legge di apartheid, un crimine contro l’umanità nato dall’idea contorta della supremazia ebraica e ha lo scopo di legittimarla». Tentativi che in realtà Israele porta avanti da anni imponendo la propria presenza fisica in territori che non gli appartengono. Le stime dicono che in Cisgiordania vivano almeno 400mila israeliani, insediatosi negli anni cacciando i palestinesi. Le colonie israeliane non sono dei piccoli accampamenti, sono al contrario vere e proprie città in miniatura ultra-militirazzite, abitate da migliaia di persone e dotate di strade, scuole e qualche industria. La loro esistenza è da sempre la scintilla che tiene accesa la fiamma del conflitto tra israeliani e palestinesi, un fuoco che arde costantemente e che spesso esplode in violenta repressione. E che di fatto, ha impedito, almeno fino ad oggi, il raggiungimento di una pace duratura.
La nascita delle colonie israeliane risale al 1967, dopo la fine della Guerra dei sei giorni, al termine della quale lo Stato di Israele conquista tutta la Cisgiordania e l’intera città di Gerusalemme (compresa la parte Est, abitata principalmente da palestinesi). Una vittoria, quella di Israele, mai riconosciuta però dalla gran parte della comunità internazionale, che già dalla Seconda guerra mondiale incoraggia la nascita di uno stato palestinese indipendente. Un supporto però che non si è mai tradotto in azioni concrete. Motivo per cui, Israele, nonostante la convenzione di Ginevra (la quarta) nel 1949 abbia stabilito che “la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”, ha proceduto in maniera piuttosto disinvolta nella costruzione di insediamenti illegali in casa palestinese, “per motivi di sicurezza e di controllo del territorio”.
E di smantellamento, ormai, non se ne discute neppure più, per almeno due motivi: per via della grandezza che tali colonie hanno raggiunto e perché tutti i Governi che si sono succeduti in Israele non hanno mostrato alcuna intenzione di eliminarle – Netanyahu ha addirittura inserito l’ampliamento degli insediamenti nel suo programma elettorale ufficiale. C’entra anche la comunità internazionale. Israele alla fine dei conti ha sempre potuto fare un po’ come gli pare. Sopraffare con la costruzione di edifici, violare ripetutamente i diritti dei palestinesi a proprio piacimento, reprimere il dissenso con l’accusa di terrorismo e tentare di cancellare la storia araba, senza timore di ritorsioni significative da parte di nessuno, neppure dell’Occidente. [di Gloria Ferrari]
Uomini e donne nello stesso esercito: l’esempio di Israele e il battaglione Leone della Valle. Allegra Filippi il 10 Febbraio 2023 su Inside Over.
Lunedì 6 gennaio l’esercito israeliano è entrato nella città palestinese di Gerico. Quel che c’è di particolare però in uno dei tanti raid compiuti delle Forze di difesa israeliane (Idf), è che in questo caso l’unità era composta da più donne che uomini.
Il raid a Gerico e l’unità a maggioranza femminile
È durante le ore notturne che un battaglione israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Aqabat-Jabr a sud della città palestinese di Gerico, nella Cisgiordania occupata. Nel frattempo altri soldati hanno bloccato gli ingressi al campo e hanno posizionato cecchini sulle montagne circostanti. Secondo l’Idf vi si trovava una cellula terroristica di Hamas. Nello scontro avvenuto sono morti cinque palestinesi di età compresa tra 21 e 28 anni.
L’unità che ha messo a ferro e a fuoco il campo profughi palestinese ha una peculiarità, quella di essere composta da 30 soldati, 15 dei quali donne regolarmente arruolate. Il battaglione si chiama Leone della Valle e svela una storia di integrazione di genere quasi unica nel Medio Oriente e le sue sfide sociali.
L’unità è un battaglione di fanteria composto da uomini e donne ed è la quarta unità mista ad essere istituito nelle Forze di difesa israeliane. Il battaglione vede la luce all’inizio del 2016. Attualmente è ancora in fase di assemblaggio e la sua funzione è quella di presidiare il confine con i territori occupati palestinesi, precisamente nella parte orientale di Israele al confine con la Cisgiordania. È alle dipendenze della Brigata Valley che comprende anche i Leoni del Battaglione della Valle del Giordano, altra unità al femminile dell’Idf.
Il ruolo delle donne nell’Idf e lo scontro con una società patriarcale ortodossa
L’Idf è tra gli unici eserciti del mondo occidentale che prevede la leva obbligatoria anche per le donne. Infatti già dall’anno della sua fondazione nel 1948 le donne hanno sin da subito prestato servizio militare. All’inizio ricoprivano ruoli amministrativi o diventavano istruttrici. Gradualmente sono salite di ruolo e sono state spostate in posizioni operative di combattimento. Un importante passo è stato raggiunto nel 1995, quando l’Alta corte di giustizia israeliana ha stabilito che le donne hanno diritto all’uguaglianza nel servizio militare sancendo quindi un’apertura senza precedenti.
Alle donne è stato aperto il mondo dell’aeronautica e dei battaglioni da combattimento. Nell’ultimo decennio la loro presenza è più che raddoppiata, basti pensare che nel 2012 solo il 3% di loro serviva in posizioni di combattimento, nel 2018 invece ha raggiunto il 7% e da quel momento il numero è in continuo aumento. Parallelamente all’espansione e alla diversificazione delle donne nell’Idf è aumentato anche il numero di uomini ortodossi all’interno dell’esercito che si rifiutano di servire al fianco delle donne.
L’Idf ha tentato di regolamentare per la prima volta il servizio congiunto di ambo i sessi nel 2002 in un ordinamento sulla “corretta integrazione“. Esso stabilisce regole per un comportamento modesto una sistemazione separata per uomini e stabilisce vari privilegi per i soldati religiosi.
L’ordinamento ha però portato a più discriminazione con denunce di semi-segregazione come il caso delle soldatesse obbligate a spostarsi in un complesso recintato e blindato durante la celebrazione di una festività ebraica di soli uomini. Altre sono state oggetto di offese sul loro abbigliamento. In pratica al posto di garantire un servizio dignitoso per ambo i sessi, l’ordinamento è stato applicato in conformità con la legge religiosa ebraica (halakha) basato sul “proteggere” i soldati ortodossi. Il regolamento è stato poi rivisto nel 2016.
Nablus, sulle tombe degli amici i ragazzini raccontano l’orrore. Tra Gerusalemme e Tel Aviv la città tappezzata delle foto dei martiri. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2023.
Dal fondo, all’improvviso, sul corteo funebre di Jamel al-Kayyal, ucciso all’alba nell’ultimo scontro a fuoco, piovono lacrimogeni. Ma non sono gli israeliani: è la polizia palestinese. Che disperde tutti. Anche se in realtà, a Nablus ci si ritrova al cimitero. Andrebbero lì comunque.
Mentre il mondo è concentrato sull’Ucraina, in Medio Oriente sono franati gli Accordi di Oslo, siglati nel 1994 da Rabin e Arafat: con l’impegno di un’intesa definitiva entro 5 anni. I palestinesi sono tornati alle armi. E questa volta, indipendentemente da Fatah e Hamas. Dalla fine della Seconda Intifada, nel 2005, hanno puntato sulla non violenza e il diritto internazionale, tentando, pezzo pezzo, di costruirsi da soli quello stato che gli era stato promesso, tentando di tutto: e non è cambiato niente. I nati del 2005 hanno tutta un’altra cronologia. Ma tipo, il 2012, l’anno del seggio all’ONU, che anno è stato? domando a tre 17enni. «L’anno in cui è stato ucciso mio fratello», dice il primo. «L’anno in cui hanno arrestato mio padre», dice il secondo. «L’anno in cui un proiettile mi ha sbriciolato la caviglia», dice il terzo. «L’ultimo che non ho zoppicato».
Passano il tempo qui, tra le tombe degli amici. Nel 2022 sono morti 230 palestinesi. Il numero più alto dalla Seconda Intifada. E l’età media è 21 anni. Il 38 percento dei palestinesi ha meno di 15 anni. Si chiama il Cimitero dei Martiri. È il cimitero dei bambini.
Stanno davanti alla lapide nera di Ibrahim al-Nabulsi. Il fondatore dei Lions’ Den. La Fossa dei Leoni. Le prime sono state le Brigate Jenin. Ma mentre a Jenin ognuno è legato a un partito, e poi si combatte uniti, qui non segui Fatah o Hamas, o l’Islamic Jihad, segui Instagram. Segui Tik Tok. Su Telegram, i Lions’ Den avevano 230mila follower, poi l’account è stato bloccato: più di Fatah e Hamas insieme. Non rispondono che a se stessi e non hanno che se stessi: è la loro vulnerabilità e la loro forza. Perché sono ventenni come mille altri, in Blundstone e felpa con il cappuccio: e invece chiunque, qui, in qualsiasi momento, può sgusciare oltre il Muro, e arrivare a Tel Aviv: e sparare. «Non è morto. Io sono Ibrahim», dice un altro 17enne. Ahmed. Indica l’amico accanto. «E quando sarò ucciso, lui sarà Ahmed».
Vengono da tutta la città. E da tutta la West Bank. Si fermano tra le macerie del rifugio in cui Ibrahim al-Nabulsi è stato centrato da un drone, con i resti della sua ultima cena, una sua Nike annerita vicino a un Corano, e poi vengono qui.
A fissare il vuoto.
Era il 9 agosto. Ibrahim al-Nabulsi aveva 18 anni, era del 2004: l’anno in cui all’Aja, la Corte di Giustizia ha dichiarato il Muro illegale. Da allora, i palestinesi hanno eletto il venerdì a giorno di manifestazione, ogni venerdì, in ogni città, e nel 2005, chiusa, appunto, la Seconda Intifada, hanno cercato la mobilitazione generale, come il Sudafrica di Nelson Mandela: avviando il movimento BDS, Boicottaggio, Disinvestimento, e Sanzioni, mentre la Lega Araba, intanto, proponeva a Israele la pace in cambio del ritiro dalla West Bank. Era il 2007. Non è mai arrivata risposta. Un 17enne raddrizza delle foglie di palma che il vento continua a piegare. «Il 2007? - dice - L’anno in cui è stato ucciso mio padre». E il 2010? dico. L’anno in cui è stata fondata Rawabi? La prima nuova città palestinese dal 1948? Il suo amico mi guarda. «L’anno in cui casa nostra è stata demolita», dice. Il 2015, l’anno dell’adesione alla Corte Penale Internazionale? Celebrata come una svolta? «L’anno in cui è morta mia madre. Ed è morta sola. Perché era ricoverata a Gerusalemme, e nessuno di noi aveva l’autorizzazione per andarci», dice un altro.
Il 2018, allora. L’anno della Marcia del Ritorno a Gaza. L’anno in cui i palestinesi hanno provato a rompere l’assedio non più con i razzi: ma scavalcando tutti insieme il confine. «L’anno in cui mio padre ha perso il lavoro, e ho lasciato gli studi per stare in un’officina». E Il 2020? L’anno degli Accordi di Abramo? Della pace con gli Emirati Arabi? Che così, in quanto alleati invece che nemici, avrebbero avuto più influenza su Israele? «La prima volta che sono finito in carcere». «La terza volta». «Per me la seconda». «Anche per me. Ma arrestato non da Israele. Da Fatah».
Tutto così. Tutti così. Nablus è il simbolo del fallimento di Oslo, perché con i suoi artigiani, è l’economia della West Bank: e avrebbe dovuto trainare lo sviluppo. Il sapone è stato inventato qui. E da qui, prodotto come allora, è ancora esportato ovunque. «In un altro mondo, Nablus sarebbe vicina a tutto: è a un’ora da Gerusalemme, ma anche da Beirut, da Damasco, da Amman, dal Cairo. Da Tel Aviv. E invece, per anni è stata isolata dal checkpoint di Huwwara. Ora è facile dimenticarlo: ma le file erano interminabili», dice Yousef. Che a 17 anni, non è mai stato fuori Nablus. Non ha mai visto il mare. Il Muro, che per l’85 percento non sta tra Israele e la West Bank, ma dentro la West Bank, tanto che è lungo più del doppio del confine, ha cancellato la libertà di movimento, e demolito l’economia: proprio quello su cui Oslo basava la pace. «Oggi l’unica è lavorare in Israele. Da operaio: vai a costruire gli insediamenti. Vai a costruire la tua rovina, invece che il tuo futuro».
E per lavorarci, è necessaria un’autorizzazione. Due autorizzazioni. Una di Israele, e una dell’Autorità Palestinese. E ovviamente, sono rilasciate solo a chi riga dritto - è quella che i palestinesi bollano come «la doppia occupazione». Il mandato di Mahmoud Abbas, il presidente, è scaduto nel 2009. Le ultime elezioni sono state nel 2006. Ma in realtà, questa è soprattutto una crisi israeliana. Di là dal Muro, si è votato cinque volte in quattro anni. E Netanyahu, che è di nuovo primo ministro, dipende dai coloni: perché senza i coloni, che dagli Accordi di Oslo, sono tre volte di più, non ha la maggioranza. E senza la maggioranza, non solo non ha il governo: non ha l’immunità per i processi per frode e corruzione in cui è imputato. Ha giurato il 28 dicembre. Dicendo che per Israele, è ora di espandersi in tutta la West Bank. L’Unione Europea gli ha inviato distratta un messaggio di benvenuto, ed è tornata a occuparsi di Ucraina. Il neo-ministro per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, fu esonerato dalla leva perché ritenuto troppo estremista. E pericoloso.
Israele ha conquistato tutto, ormai. Ma che stato è? Davvero lo stato che voleva essere? Le manifestazioni, oggi, non sono più nella West Bank: sono a Tel Aviv. «Ma con uno squilibrio così, che senso ha? Spari, sì: ma gli israeliani stanno nei blindati. Nei carri armati. Non gli fai un graffio. Se spari, gli dai solo un motivo per spararti. E basta», dice Hasan. Del 2011, l’anno della Primavera Araba, l’anno del Medio Oriente sottosopra, dice: Non so. «Non è successo niente». E così il 2012, il 2013. Il 2014. E quindi, dice, come avrei potuto convincere mio fratello a non entrare nei Lions’ Den? Che alternativa avrei potuto proporgli? Che prospettiva? Non è colpa mia, dice. Giuro. Sta sotto la lapide di fronte. E Hasan sta qui, tutta la sera. Con una mano sulla lapide. «Penso solo: in fondo, Israele ti voleva morto. Cioè, non voleva proprio questo? Un palestinese in meno».
Poi dice: «Che spreco».
Dalla strada di sotto, intanto, arriva il chiarore dei lampeggianti. È l’esercito. Sta per iniziare un’altra notte di battaglia. O più che di battaglia, di caccia. Nablus è tappezzata di foto di martiri, come si dice qui, le foto dei morti: ma per ora, i Lions’ Den hanno ucciso un solo israeliano.
Per ora, su Google la Fossa dei Leoni è solo la Curva Sud del Milan.
I soldati israeliani incriminati per le violenze sui palestinesi sono meno dell’1%. Sara Tonini su L'Indipendente il 5 Gennaio 2023.
Una denuncia per danni causati a palestinesi diretta verso un soldato israeliano si conclude con un’incriminazione solo nello 0,87% dei casi. La maggioranza delle denunce rivolte all’esercito israeliano, infatti, viene archiviata, la maggior parte delle indagini viene chiusa e, nei rari casi in cui i soldati vengono perseguiti, ricevono sentenze clementi. Inoltre, alti ufficiali e funzionari israeliani sono attualmente esenti da responsabilità per sospetti crimini di guerra, secondo la legge israeliana. I dati, citati in un articolo da +972 Magazine, provengono da una ricerca di Yesh Din, organizzazione che documenta le violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati: con un’analisi statistica del sistema di applicazione della legge militare per un periodo di cinque anni (2017-2021), l’organizzazione ha dimostrato che, anche senza una legge che garantisca loro l’immunità ufficiale, i soldati israeliani godono di impunità quasi totale quando sono violenti verso i palestinesi.
L’attuale sistema giudiziario israeliano funge da “maschera” per Israele e allo stesso tempo serve tenere al di fuori della gestione penale la comunità internazionale. Politici e giuristi israeliani, infatti, hanno descritto il sistema giuridico del Paese come un “giubbotto antiproiettile” che protegge Israele da interventi legali stranieri. In base allo Statuto di Roma, infatti, Israele rivendica la sua volontà di indagare sui propri crimini – la cosiddetta “complementarità” – e questo spesso gli consente di rimanere fuori dalla giurisdizione dei tribunali internazionali. In questo senso, l’esistenza di un sistema di applicazione della legge interno contribuisce a mantenere l’illusione che Israele aderisca a uno Stato di diritto, continuando di fatto a consentire i crimini commessi a danno dei cittadini palestinesi con la quasi assoluta impunità dei responsabili.
Tra il 2017 e il 2021, sempre secondo il report di Yesh Din, sono state presentate all’esercito israeliano un totale di 1.260 denunce per reati commessi dai soldati contro i palestinesi o le loro proprietà, di cui almeno 409 riguardavano soldati che hanno ucciso palestinesi. Questo include 237 civili uccisi durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza nel 2018-19, 84 casi di uccisioni e ferimenti di palestinesi durante l’assalto militare a Gaza nel maggio 2021 e altri 939 casi di uccisioni, danni e reati contro la proprietà commessi dalle forze di sicurezza israeliane nei Territori palestinesi occupati. Ma queste cifre fornite dall’esercito israeliano non si avvicinano al numero totale di casi di palestinesi uccisi o feriti dalle forze di sicurezza israeliane: secondo i dati delle Nazioni Unite, tra gli anni 2017-2021, i membri delle forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 614 civili palestinesi e ne hanno feriti 76.340 nei Territori palestinesi.
I dati forniti dall’esercito dimostrano anche una gestione assurdamente clemente di queste denunce: la maggior parte di esse è stata archiviata di punto in bianco dopo un semplice “esame preliminare”. Su 1.260 denunce, sono state aperte solo 248 indagini, e solo 11 di queste indagini hanno portato a incriminazioni contro i soldati – tre delle quali riguardavano l’uccisione di cittadini palestinesi. Ciò significa che su centinaia di casi che hanno sollevato il sospetto penale che i soldati israeliani abbiano ucciso civili palestinesi, solo tre hanno portato a una vera e propria incriminazione. Da qui il dato per cui la probabilità che una denuncia per danni causati ai palestinesi da un soldato si concluda con un’imputazione è solo dello 0,87%. Di questi 11 casi tra il 2017 e il 2021, poi, cinque erano stati filmati e pubblicati. Forse in questi casi la documentazione non ha lasciato altra scelta ai tribunali che proseguire con un’accusa.
Ma bisogna anche considerare il tipo di conseguenze di cui si parla. Nei rari casi in cui i soldati che uccidono i palestinesi vengono perseguiti, le accuse sono relativamente minori, tra cui “abuso di autorità fino a mettere in pericolo la vita”. Le sentenze poi sono estremamente clementi, considerando la gravità degli atti. Per esempio, il soldato che ha sparato e ucciso senza il permesso del suo comandante Othman Rami Hiles, un ragazzo palestinese di 14 anni, è stato condannato a soli 30 giorni di servizi sociali. A titolo di riferimento, questa è la stessa punizione che un gruppo di soldati ha ricevuto dopo essere stato processato per aver forato le gomme di veicoli palestinesi. Un soldato che ha aperto il fuoco contro una famiglia palestinese la cui auto era stata coinvolta in un incidente stradale, uccidendo un uomo che si stava avvicinando per assistere la famiglia e ferendone gravemente un altro, è stato condannato a tre mesi di servizi sociali.
L’altissima percentuale di impunità e le esigue conseguenze che i responsabili devono affrontare una volta incriminati permettono a Israele di continuare a mantenere la facciata di uno Stato rispettoso della legge, consentendo di fatto il perpetrarsi dei crimini a danno dei cittadini palestinesi. [di Sara Tonini]
Antonio Buttazzo per blitzquotidiano.it il 4 gennaio 2023.
Tel Aviv è la città con più edifici in stile Bauhaus al mondo, oltre 4.000. Bauhaus è la scuola architettonica nata nel 1919 in Germania, che ha esercitato decisiva influenza sulla architettura moderna, inclusa quella italiana, ancorché chiamata fascista.
Nella loro versione originale, i giovani architetti della Bauhaus erano di sinistra. La scuola fu riconosciuta dal Governo di Weimar nel 1919. Due anni prima c’era stata la rivoluzione in Russia, l’Europa, Italia compresa, era tutta un fermento. Il centenario della Bauhaus, nel 2019, fu annunciato dal New York Times con un paio di articoli ma complessivamente l’evento cadde nel silenzio mondiale. Ma torniamo indietro di un secolo.
Con l’avvento di Hitler al potere, per quelli della Bauhaus fu il momento della chiusura e della persecuzione. Molti erano ebrei, una indubbia aggravante. La maggior parte di loro (Van der Rohe in testa) emigrarono in America, esercitando una notevole influenza sulla architettura del dopoguerra. Esemplare il grattacielo noto come Seagram Building, il cui pianterreno, occupato dal ristorante Four Seasons per mezzo secolo, ospitava a pranzo e cena il top della politica e dell’editoria americana.
Alcuni seguaci della Bauhaus scelsero come meta Israele, che in quell’epoca iniziava ad assumere i caratteri di nuova terra promessa che diventò realtà dopo la guerra e la fine del nazismo e del fascismo. Le case in stile Bauhaus di Tel Aviv sono concentrate in un quartiere conosciuto come la Città Bianca di Tel Aviv, costruìto negli anni ’30 del secolo scorso. Fu voluta dall’allora sindaco di Tel Aviv, Meir Dizengoff, col beneplacito degli inglesi, da cui dipendeva Israele fino al 1948 (anno di nascita del nuovo stato ebraico).
Furono costruiti nell’arco di pochi anni oltre 4.000 edifici, tirati su appunto secondo lo stile Bauhaus, trapiantato nella città israeliana, quando sulle dune a nord di Jaffa, antico insediamento palestinese, ebbe inizio la costruzione della moderna Tel Aviv. Solo in seguito, negli anni 70, conobbe lo sviluppo verticale che oggi caratterizza la parte più moderna della città.
Il delizioso nucleo abitativo chiamato la “città bianca”, insediato tra la Promenade che costeggia il mar Mediterraneo e il Centro, intorno all’area commerciale della città, è dal 2003 patrimonio culturale dell’Umanita’. In una città così giovane, quelle costruzioni chiare, basse e dalle essenziali linee ondulate, quasi sempre immerse nel verde, rappresentano la zona “storica” di Tel Aviv che comunque, nella parte araba di Jaffa (la municipalità è detta Tel Aviv-Jaffa) ha una storia millenaria, in quanto secondo la leggenda semitica, fu fondata da Jafet, figlio di Noè.
Fedeli alla ispirazione socialista, quelle palazzine sono costruzioni semplici, popolari. Ma chi le abita si ritiene un privilegiato e assicura che con quello che ha speso per comprare quei 70/80 metri quadrati, a New York vivrebbe al Trump Plaza, a Roma in una residenza del ‘600 e a Londra vicino ai giardini di Kensigton.
Il New York Times e la tragedia dei palestinesi. Piccole Note su Il Giornale il 2 Gennaio 2023
Verso la fine del ’22 il New York Times ha pubblicato un articolo di Yara M. Asi. docente presso la School of Global Health Management and Informatics dell’Università della Florida, dal titolo: “Come ricercatore studio la salute dei palestinesi. È tempo di fare attenzione”. Ne proponiamo ampi stralci perché è raro che un giornale mainstream come il Nyt pubblichi simili testimonianze.
Nablus, una prigione nella prigione
“Quest’anno, in occasione delle elezioni israeliane, sono tornata nella mia città natale, Nablus, nella Cisgiordania occupata, per lavorare a un progetto di ricerca e stare con la mia famiglia. Avevo ricevuto un finanziamento per studiare l’impatto sulla salute dei palestinesi delle restrizioni imposte dagli israeliani al movimento dei palestinesi – posti di blocco, permessi di viaggio (compresi quelli richiesti per le necessità mediche), il muro di divisione che attraversa la Cisgiordania e la chiusura delle strade”.
“Il mio lavoro precedente e la ricerca già esistente sulla salute e il benessere dei palestinesi mi avevano dato un’idea di quanto avrei trovato: molti impedimenti per accedere all’assistenza sanitaria e tassi prevedibilmente alti di depressione, stress, ansia e insicurezza”.
“Mi aspettavo di ascoltare storie di lotte, lutti e traumi. E ne ho sentite decine, soprattutto tra i giovani, provati dalla disperazione più acuta”.
“Ciò che non mi aspettavo era che il mio viaggio coincidesse con il mese più mortale dell’anno più mortale per i palestinesi della Cisgiordania dal 2006: almeno 150 persone sono state uccise finora nel 2022, tra cui più di due dozzine di bambini, morti provocate quasi tutte dalla violenza dei militari israeliani. Né mi aspettavo quanto direttamente avrei sperimentato la violenza quotidiana che affligge la vita dei palestinesi”.
[…] Poche settimane dopo il mio viaggio, Nablus, una città di circa 160.000 abitanti, è stata bloccata dall’esercito israeliano nel tentativo di reprimere la Fossa dei Leoni, un gruppo locale di resistenza armata palestinese di recente formazione. La città è stata tagliata fuori dal resto della Cisgiordania – un territorio occupato già tagliato fuori dal mondo in diversi modi – dall’esercito israeliano, una chiusura che non è stata revocata che tre settimane dopo”.
“Ciò significava che tutti i veicoli in uscita e in entrata dalla città erano soggetti ad attese e perquisizioni di ore […] oppure era semplicemente negato loro il transito per entrare o uscire dalla città. Ciò ha avuto effetti devastanti sull’economia e ha bloccato l’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione e la socializzazione, per non parlare dell’alto livello di stress e di incertezza che si è diffuso tra i cittadini”.
[…] I giovani palestinesi non hanno mai conosciuto la libertà di movimento o una vita libera dal dominio costante e violento dell’esercito israeliano […] Una repressione [così generalizzata] ha avuto come esito che tutti i palestinesi hanno dovuto adeguare anche gli aspetti più minimi della loro vita per evitare la violenza dei coloni e l’esercito israeliano, di stanza in tutta la Cisgiordania”.
“Durante la chiusura, la vita di molti residenti a Nablus e dintorni è stata sostanzialmente sospesa, in attesa che il governo israeliano, un’entità che i palestinesi non hanno il potere di eleggere e che non ha alcuna responsabilità nei loro confronti, decidesse di revocare la chiusura per consentire alla vita di tornare a una parvenza di normalità”.
La normalità: 50anni di restrizioni e violenze
“[…] Mentre partecipavo una serie di focus group con medici, infermieri, pazienti, docenti e studenti di medicina, mi è stato chiaro che mi era impossibile misurare l’entità del danno causato dal blocco di Israele. L’incessante ronzio dei droni di sorveglianza israeliani, che pattugliavano Nablus 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per esempio, molte persone lo hanno definito una forma di tortura psicologica”. Come si fa a misurare tutto questo?”.
“[…] Non sono un’esperta di scienze politiche come lo era mio padre; Studio la sanità pubblica. Naturalmente, si tratta di due tematiche generalmente intrecciate: la salute è intrinsecamente politica. Ma a Nablus, mi sono rammentata di quanto sia profonda questa connessione”.
“Quel contesto è rimasto più o meno lo stesso negli ultimi 50 anni, con periodi caratterizzati da un po’ più di libertà per i palestinesi e altri da pesanti restrizioni e violenze […]”
“L’ultima notte prima della mia partenza, le forze militari israeliane hanno fatto irruzione nella città vecchia di Nablus , uccidendo cinque palestinesi e ferendone almeno una dozzina. Ho trascorso una notte insonne, sapendo quanto stava succedendo a così poca distanza”.
“[…] Non esiste uno studio, non importa quanto rigoroso, in grado di registrare come si sentono i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana da oltre mezzo secolo, specialmente in momenti come questo”.
Un presente sistematicamente impossibile
“Forse la più grande difficoltà nel mio ruolo di studiosa, tuttavia, è nel formulare raccomandazioni su cosa fare”. Quindi, dopo averne elencate alcune, conclude: “Eppure nessuna di queste raccomandazioni affronta l’ostacolo principale alla salute, al benessere e alla prosperità dei palestinesi. Come ha osservato un recente rapporto sulla salute mentale dei palestinesi, ‘se la malattia è politica, allora anche la soluzione sta nella politica: porre fine all’occupazione e sradicare le strutture di repressione e votate alla disuguaglianza’”.
“[…] Dobbiamo preoccuparci di ciò che verrà”, scrive la Asi in relazione al nuovo governo israeliano, che preoccupa per la forte connotazione di ultra-destra, “ma non possiamo nemmeno ignorare la violenza e la pesante tensione mentale che ha già corroso il benessere e la speranza in un’esistenza stabile e dignitosa di questa generazione”.
Questa la conclusione: “La chiusura di Nablus è terminata poco dopo il mio ritorno negli Stati Uniti e l’uccisione quasi quotidiana di palestinesi adesso si è frenata, anche se leggermente. I palestinesi sono tornati a quella che il resto del mondo spesso chiama calma relativa, ma in realtà è una condizione che nessuna popolazione può o dovrebbe accettare”.
“Preoccuparsi del benessere [dei palestinesi] solo quando ci sono sparatorie in Cisgiordania o campagne di bombardamento nella Striscia di Gaza appiattisce l’esperienza di vivere, lavorare, giocare, crescere i figli, andare a scuola e cercare di costruirsi una vita in un ambiente dominato dall’incertezza, dai traumi e dalla violenza. Una situazione che dura da decenni e potrebbe facilmente durare altri decenni”.
Israele compie 75 anni: ma ultimamente c’è poco da festeggiare. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023
Domenica saranno 75 anni dalla nascita dello Stato di Israele, la cui proclamazione ufficiale ebbe luogo il 14 maggio 1948. Le celebrazioni si sono però già tenute lo scorso 26 aprile. Questo perché la festa dell’indipendenza si celebra all’indomani dello Yom HaZikaron, la giornata dedicata alla Memoria dei caduti e delle vittime del terrorismo, che secondo il calendario gregoriano (diverso da quello di Israele) cadeva appunto quel giorno. Il leggero scostamento temporale non cambia comunque la sostanza: il 75° anniversario giunge in un momento tutt’altro che facile (tra proteste contro il governo e nuovi combattimenti contro Hamas e i jihadisti) come racconta in questo episodio del podcast «Corriere Daily» il corrispondente da Tel Aviv Davide Frattini. Lo storico Claudio Vercelli spiega invece quali sono stati i momenti decisivi di questi tre quarti di secolo israeliano per meglio capire il presente del Paese.
L’ipocrisia dell’Ue: va dal dittatore Xi, ma boicotta i ministri di Israele. Assurdo annullare il ricevimento diplomatico per impedire a Itamar Ben-Gvir di parlare. È anche un errore politico. Michael Sfaradi su Nicolaporro.it il 9 Maggio 2023
Per l’evento ‘La Giornata dell’Europa’ che doveva tenersi a Tel Aviv, l’Unione Europea ha scelto di annullare il ricevimento diplomatico pur di impedire la partecipazione, e di conseguenza il discorso, che avrebbe dovuto tenere il ministro della Sicurezza Nazionale di Israele, Itamar Ben-Gvir.
Annullato il ricevimento
La decisione è stata presa dopo le consultazioni tenutesi durante la giornata tra gli ambasciatori europei e il Servizio europeo per l’azione esterna a Bruxelles.
Una dichiarazione rilasciata dalla delegazione dell’Unione europea in Israele afferma: “Non vediamo l’ora di celebrare la ‘Festa dell’Europa’ il 9 maggio come ogni anno. Purtroppo quest’anno abbiamo deciso di annullare il ricevimento diplomatico perché non vogliamo dare una piattaforma a coloro le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dall’Unione europea. Tuttavia, l’evento culturale della ‘Giornata dell’Europa’ si terrà per celebrare con i nostri amici e partner in Israele”.
La reazione israeliana
Il ministro Ben Gabir ha risposto: “È un peccato che l’Unione europea, che pretende di rappresentare i valori della democrazia e del multiculturalismo, pratichi un bavaglio poco diplomatico. Per me è un onore e un privilegio rappresentare il governo israeliano, il suo eroico esercito e il popolo di Israele in ogni forum. Anche gli amici sanno esprimere critiche, ma certamente non mettono il bavaglio a chi non la pensa come loro”.
Si è chiaramente trattato di un intervento a gamba tesa contro il governo israeliano, un intervento che ha dato subito modo all’opposizione di polemizzare nei confronti del Premier Netanyahu. Infatti il presidente dell’opposizione di sinistra Yair Lapid, non ha perso l’occasione per twittare in merito alla decisione degli europei: “Durante il periodo del cambio di governo, abbiamo portato le relazioni con l’Unione europea a un boom senza precedenti che ha contribuito all’economia israeliana e alla nostra forza politica. Invece di continuare la linea positiva, l’attuale governo ci ha portato a litigi inutili e ha creato una crisi solo per far sì che Ben Gvir ci metta ancora una volta in imbarazzo davanti al mondo con un discorso inutile”. Il ministro Ben Gvir avrebbe dovuto rivolgersi ai partecipanti all’evento e congratularsi con loro, ma pur di non farlo parlare, i rappresentanti dell’Unione Europea avevano addirittura considerato di annullare tutti i discorsi decidendo poi di annullare tout court l’evento diplomatico. Stefan Seibert, il rappresentante della Germania in Israele ha dichiarato: “Vorrei che non fosse necessario, ma lo è stato.”
Cina e Iran sì, Israele no
A questo punto la domanda sorge spontanea: cosa è stato necessario? Perché, bisogna ricordalo, tutto questo circo mediatico è stato architettato solamente per impedire la partecipazione di un ministro eletto democraticamente in libere elezioni. E da quale pulpito arriva la predica? Da quello europeo, cioè da coloro che negli ultimi anni hanno incontrato la peggior specie politica esistente al mondo. A Bruxelles, ad esempio, non hanno mai avuto, non hanno e mai avranno, alcuna remora a incontrare i rappresentanti cinesi. Certo a Pechino si fanno buoni affari, ma non venissero a raccontare che nel paese del dragone esiste la libertà, la democrazia e libere elezioni. Abbiamo visto cosa è successo all’ultimo congresso del partito comunista cinese quando l’ex presidente Hu Jintao è stato portato via a forza davanti agli sguardi ipocriti dei presenti e a quello compiaciuto di Xi Jinping. Nessuno a Bruxelles si sognerebbe mai di tappare la bocca a uno dei ministri del Dragone.
A Bruxelles, ad esempio, non hanno mai avuto, non hanno e mai avranno, alcuna remora a incontrare i rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Iran, altro esempio di libertà e democrazia, dove i manifestanti vengono impiccati e le famiglie avvertite ad esecuzione avvenuta. Qualcuno crede che esista un funzionario dell’Unione Europea che abbia le palle per tappare la bocca a un ministro degli Ayatollah? Di esempi di questo tipo se ne potrebbero citare all’infinito.
Perché l’Ue sbaglia con Israele
Il ricevimento a Tel Aviv è stato annullato perché l’Europa non vuole dare una piattaforma a coloro le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dall’Unione europea. E in altri posti? In Turchia, ad esempio, è stato annullato? Eppure la cattedrale di Santa Sofia è stata trasformata in moschea, questo non contraddice nulla? Il punto è, o potrebbe essere, che l’Europa pensa di poter fare la voce grossa con i più deboli e, a causa delle divisioni interne allo Stato Ebraico, vede Israele indebolita e si permette ciò che ad altre latitudini si guarderebbe bene anche di pensare. Sbaglia chi ha fatto questa analisi, sbaglia due volte. La prima quando seguendo le notizie che arrivano dai media crede Israele divisa, e non lo è, la seconda quando non si rende conto di quanto l’Europa stessa sia divisa al suo interno.
Con questa decisione l’Unione Europea ricorda molto un passaggio importante del Vangelo di Luca 6,41-42 quando Yoshua di Nazareth, mio famoso correligionario, durante il discorso della montagna, pronunciò: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? Come puoi dire a tuo fratello: ‘Lascia che io tolga la pagliuzza che hai nell’occhio’, mentre tu stesso non vedi la trave che è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dall’occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello”. Michel Sfaradi, 9 maggio 2023
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 9 maggio 2023.
Alla fine la decisione non è stata quella di ignorarlo, evitarne il discorso, eluderne le strette di mano. Troppo macchinoso e soprattutto troppo poco drastico. Così Itamar Ben-Gvir — che a seconda dei giorni e delle sparate è il ministro più oltranzista del governo israeliano o il suo secondo — non partecipa oggi all’evento organizzato dagli ambasciatori europei per celebrare la festa dell’Unione.
Non partecipa perché la cerimonia è stata annullata visto che il responsabile della Sicurezza nazionale insisteva a presenziare, scelto dalla coalizione di estrema destra.
«Sfortunatamente quest’anno abbiamo dovuto cancellare il ricevimento perché non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dalla Ue», scrive su Twitter la delegazione comunitaria a Tel Aviv.
[…] La decisione di boicottare Ben-Gvir, capo del partito Potere ebraico, è stata sostenuta da quasi tutti gli ambasciatori, le obiezioni espresse non a caso solo da Polonia e Ungheria. Ed è stata presa dopo aver tentato di convincere il premier Benjamin Netanyahu a sostituirlo. […]
Ben-Gvir, condannato in passato per sostegno a un’organizzazione terroristica, denuncia «la vergogna di volermi tappare la bocca, nonostante l’Europa dica di apprezzare i valori della democrazia e del multiculturalismo». I diplomatici erano preoccupati che aprendola dal podio esprimesse le sue posizioni razziste, fin dall’entrata nel governo i funzionari occidentali stavano valutando come trattarlo (o non). […]
Adesso il caso Ben-Gvir, la cui designazione — scrive Noa Landau, vicedirettrice del quotidiano Haaretz — «è stata come mettere un dito nell’occhio degli europei. Per la precisione il dito medio».
"Non lo incontriamo, è un estremista". Tensione tra Ue e Israele. Non ci sarà il previsto ricevimento diplomatico tra rappresentanti Ue e di Israele nella tradizionale ricorrenza della giornata dell'Europa. Mauro Indelicato l'8 Maggio 2023 su Il Giornale.
Scoppia un importante caso diplomatico tra l'Unione Europea e Israele, alla vigilia della tradizionale celebrazione della giornata dell'Europa prevista per il 9 maggio. Motivo del contendere è proprio la ricorrenza in questione. E, in particolare, l'annunciata partecipazione del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir. Bruxelles non vede di buon occhio la presenza del rappresentante del governo di Benjamin Netanyahu. Leader di Sionismo Religioso, Ben Gvir è considerato estremista e non linea con i valori Ue. Da qui la cancellazione del ricevimento diplomatico previsto a margine dell'evento.
La nota dell'Ue
La netta presa di posizione di Bruxelles non è per la verità una sorpresa. Basti pensare che durante la campagna elettorale israeliana, a Washington hanno annunciato un possibile stop alla collaborazione con i ministeri che Netanyahu avrebbe eventualmente affidato a Ben Gvir. Un segnale chiaro di come in occidente, lungo entrambe le sponde dell'Atlantico, il leader di Sionismo Religioso venga mal digerito. Sotto accusa soprattutto le sue uscite del periodo elettorale, in cui in un'occasione si è presentato con una pistola al comizio invitando i poliziotti presenti a sparare contro alcuni palestinesi che lanciavano pietre.
Dopo la sua nomina a ministro, Ben Gvir il 3 gennaio scorso ha compiuto una passeggiata all'interno della spianata delle moschee a Gerusalemme. Un atto ritenuto provocatorio dalla popolazione palestinese. Un episodio che ha contribuito a mettere Ben Gvir nella black list diplomatica dell'Ue. E infatti, dopo l'annunciata partecipazione al ricevimento diplomatico per la celebrazione della giornata dell'Europa, la commissione europea ha annullato ogni formale contatto.
"La delegazione dell’Ue in Israele è ansiosa di celebrare la Giornata dell’Europa - si legge nella nota diffusa nelle scorse ore dalla diplomazia comunitaria - nel Paese che la ospita, come ogni anno. Purtroppo, quest’anno abbiamo deciso di cancellare il consueto ricevimento diplomatico, in quanto non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni sono in contrasto con i valori che l’Unione europea rappresenta". Una presa di posizione netta quindi, in grado di accendere un importante contrasto diplomatico. La celebrazione però si effettuerà ugualmente e senza cambiamenti nel programma. Semplicemente, mancherà poi il consueto ricevimento tra i rappresentanti delle due parti.
Ira di Ben Gvir
In Israele la notizia si è diffusa rapidamente. E il primo a commentarla è stato il diretto interessato. "È una vergogna che l'Ue, che sostiene di rappresentare i valori della democrazia e del multiculturalismo, in modo non diplomatico silenzi le bocche", ha dichiarato Itamar Ben Gvir. Il quale però, incassato lo strappo, non è andato oltre. "È un onore e un privilegio per me rappresentare il governo israeliano, gli eroici soldati delle forze armate e il popolo di Israele in ogni forum - ha infatti aggiunto il ministro - gli amici sanno come esprimere le critiche e i veri amici anche sanno come prenderle".
Un po' come dire, per l'appunto, che nonostante la decisione dell'Ue non c'è interesse nell'interrompere del tutto le relazioni. Del resto, in una fase così delicata per Israele e per il medio oriente, uno strappo a tutto tondo non sembra essere la strada maestra per entrambe le parti in questione. Ad ogni modo, la scelta dell'Ue non mancherà di suscitare ulteriori reazioni. Nello Stato ebraico, così come nel Vecchio Continente.
Le rivelazioni della stampa americana smentite dal premier israeliano e dall’intelligence. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 10 aprile, 2023
Se la notizia fosse confermata segnerebbe una frattura profonda nelle istituzioni israeliane in uno dei passaggi politici più traumatici degli ultimi decenni. Il Mossad avrebbe dunque incitato a manifestare in piazza contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu?
Lo sostengono i due più importanti quotidiani Usa, il New York Times e il Washington Post, venuti in possesso di file riservati della Cia, trafugati dai server del Pentagono e messi online da una “talpa”, file che dimostrerebbero il ruolo attivo dei servizi segreti di Tel Aviv nelle proteste che da oltre tre mesi scuotono lo Stato ebraico.
A incoraggiare gli agenti del Mossad sarebbe stato direttamente il suo direttore, David Barnea, in carica dal 2021, che prima di dare il via libera ai suoi dipendenti si sarebbe consultato con il procuratore generale. I due giornali statunitensi citano un documento datato 1 marzo in cui alti funzionari del servizio di intelligence «invitano esplicitamente all’azione i loro colleghi, criticando il governo».
Il contenuto del documento è una valutazione degli analisti della Cia che non rivelano però i nomi dei funzionari chiamati in causa. Oltreoceano l’Fbi sta indagando sulla fuga di notizie e tentando di individuare la talpa, ma allo stesso tempo ritiene che i file siano autentici, certificando così l’attività di spionaggio e sorveglianza degli Stati Uniti nei confronti dei loro storici alleati, circostanza più che imbarazzante per le relazioni bilaterali. Tanto più che lo stesso presidente Joe Biden le scorse settimane era entrato a gamba tesa sulle vicende interne a Israele, invitando Netanyahu a «cambiare atteggiamento» verso gli oppositori alla controversa riforma del sistema giudiziario, il che ha irritato non poco il partner.
Sia l’esecutivo israeliano che i vertici del Mossad hanno reagito con prontezza alle indiscrezioni pubblicate dal Nyt e dal Post, smentendole seccamente. «Quanto scritto dai giornali americani è falso e privo di fondamento» si legge in una nota diffusa dal portavoce del premier. Più dettagliata la replica dell’ufficio stampa dell’intelligence: «Il Mossad e i suoi alti funzionari non hanno incoraggiato e non incoraggiano il personale dell’agenzia a partecipare alle manifestazioni contro il governo, alle manifestazioni politiche o a qualsiasi attività politica. Il Mossad e il suo personale di alto livello in servizio non sono assolutamente coinvolti nella questione delle manifestazioni e si dedicano al valore del servizio allo Stato che ci ha guidato il fin dalla fondazione». Parole quasi obbligate di fronte a una crisi istituzionale dagli effetti potenzialmente devastanti.
In effetti gli 007 che tramano contro il governo è qualcosa che non si era mai sentito dalle parti di Israele, tuttavia la natura e l’ampiezza della protesta che invade le maggiori città del paese autorizza a pensare fuori dagli schemi.
In primo luogo perché non si tratta di una rivolta “di sinistra”, agitata soltanto dagli oppositori alla coalizione utra-nazionalista guidata dall’eterno “Bibi”. Tra i milioni di israeliani scesi in piazza ci sono infatti anche elettori del likud, elettori centristi e pezzi degli apparati dello Stato un tempo fedeli al governo. Come l’ex capo della polizia di Tel Aviv, licenziato da Netanyahu perché troppo morbido e tollerante» con i dimostranti, O l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, anche lui silurato dal premier a causa delle critiche alla riforma e oggi tra i principali contestatori dell’esecutivo.
Persino i militari stanno vivendo con estrema agitazione la spaccatura che attraversa la democrazia israeliana e l’intransigenza della coalizione nel voler togliere a tutti i costi prerogative i e autonomia alla Corte suprema minando la proverbiale separazione tra potere politico e potere giudiziario. Scossi anche dalla recente creazione di una Guardia nazionale che farà capo al ministro per la Sicurezza nazionale" Itamar Ben Gvir, definita dal leader dell’opposizione Yair Lapid «una milizia privata» e che lo stesso capo della polizia Kobi Shabtai ritirne «non necessaria».
In questo turbolento contesto non è affatto inverosimile che dirigenti del Mossad possano aver violato il proprio codice deontologico, schierandosi contro il governo più imopolare nella recente storia d’Israele.
Israele, torna Netanyahu: nasce il governo che spaventa gay e arabi. Davide Frattini il 29 Dicembre 2022 su Il Corriere della Sera.
Dopo 563 giorni Bibi torna al potere. I ministri di estrema destra, i progetti discriminatori e le preoccupazioni dell’opposizione
Nelle sue memorie lo chiama «un intervallo», una pausa riempita da poco altro — essere capo dell’opposizione non gli bastava— che dal lavorio di scrittura e riscrittura dell’autobiografia. Ci ha messo 563 giorni e al potere è ritornato, chiuso l’intermezzo che deve aver subito come un esilio. Il governo di Benjamin Netanyahu si è insediato ieri, il giuramento dei 31 ministri (solo 5 donne) a saldare i cambiamenti che sono già preannunciati dagli accordi firmati nella coalizione. Gli avversari parlano di estorsione (avrebbe concesso fin troppo pur di ottenere la scappatoia politica dal processo per corruzione) mentre gli analisti cominciano ad ammettere che Bibi, com’è soprannominato, ha messo insieme le forze per creare al suo sesto incarico da primo ministro un blocco di destra-destra estrema che punta all’annessione dei territori palestinesi occupati dal 1967 e «gli permetterà di realizzare — scrive Aluf Benn, direttore di Haaretz, il quotidiano della sinistra che si sente specie minacciata — lo Stato dei suoi sogni: razzista, religioso, autoritario».
A preoccupare anche i conservatori tradizionali — «gli elettori del Likud laici che pagano le tasse e mandano i figli nell’esercito» commenta un altro editorialista — non sono solo i ruoli più visibili come il ministero per la Sicurezza Nazionale, rinominato e ingrandito per far spazio alle ambizioni di Itamar Ben Gvir, il leader di Potere Ebraico, che solo otto mesi fa impensieriva i servizi segreti interni in quanto minaccia a quella «sicurezza nazionale» che adesso dovrebbe proteggere.
O le Finanze affidate a Bezalel Smotrich: si dichiara «orgoglioso omofobo» e vorrebbe imporre la legge dei rabbini a tutto il Paese, se non fosse che gli imprenditori già protestano perché la «start up nation» non può riposare di Shabbat o almeno vuole continuare a uscire e divertirsi dopo aver sgobbato per sei giorni.
A spaventare sono le clausole, i dettagli importanti delle intese tra i partiti. Come quelle siglate con Avi Maoz, unico eletto della sua fazione, per il quale Netanyahu ha inventato l’ufficio «dell’identità ebraica», budget 125 milioni di dollari da usare per diffondere nelle scuole l’ideologia oltranzista. Maoz e gli alleati chiedono di cambiare la legge del Ritorno che dalla fondazione dello Stato ha permesso di ottenere la cittadinanza a chiunque avesse un nonno di origine ebraica come risposta alle regole naziste che così bollavano e sceglievano chi spedire nei campi di sterminio: gli ultraortodossi pretendono una formulazione rispettosa delle norme religiose, ebrei — quindi possibili israeliani — si è solo per discendenza materna.
Hanno anche ottenuto di portare in parlamento un progetto per modificare la legge anti-discriminazione: permetterebbe sulla base della sensibilità religiosa a ristoratori, manager di alberghi, medici, tassisti di rifiutare l’ingresso, il servizio o le cure a membri della comunità Lgbtq+, alle donne o agli arabi israeliani.
Adesso Maoz prova a sostenere di non essere «contro i singoli omosessuali ma di voler fermare l’agenda politica del movimento», a riprova porta il voto per Amir Ohana del Likud a presidente della Knesset, primo parlamentare apertamente gay a ricoprire la carica. Alla Open House di Gerusalemme ricordano bene le campagne di Maoz per impedire lo svolgimento del Gay Pride nella città e la visita — obbligata, doveva consegnare la petizione contro la sfilata — del suo sodale Ben Gvir: indossava i guanti in lattice per paura di essere contaminato.
Fabiana Magrì per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.
Tra ministeri divisi, dipartimenti distaccati e altri aggiunti, cariche raddoppiate o programmate per la rotazione, è nato il 37esimo governo israeliano, il sesto esecutivo guidato da Benjamin "Bibi" Netanyahu.
Il blocco monocromatico con sfumature di sola destra - il Likud del premier, i due partiti ultraortodossi United Torah Judaism e Shas e le tre fazioni religiose e nazionaliste radicali Religious Sionist Party, Otzma Yehudit e Noam - ha conservato la coesione a suon di manovre politiche, prove di forza e soluzioni inedite che hanno portato, ad esempio, tre dicasteri - difesa, istruzione e welfare - ad avere due ministri in servizio contemporaneamente.
Media e analisti locali e internazionali non esitano a definire il governo entrante il più intransigente e di destra nella storia dello stato ebraico. Movimenti Lgbtq+ e democratici hanno espresso rumoroso dissenso da mattina a sera, fuori dalla Knesset e a Tel Aviv.
«Coloro che chiamano bene il male e male il bene sono già qui», mette in guardia David Grossman dalle pagine del quotidiano liberal Haaretz. Non serve che li nomini per capire a chi lo scrittore si riferisca. Itamar Ben Gvir, controverso leader di Otzma Yehudit, sarà per la prima volta a capo di un ministero, quello della Sicurezza Nazionale, disegnato su misura per lui come ampliamento della Pubblica Sicurezza, con poteri senza precedenti sulla polizia. Lui che è un sostenitore dell'annessione a Israele della Cisgiordania, ha ottenuto, nell'accordo di coalizione stipulato tra il suo partito e il Likud, la supervisione diretta dell'intera polizia di frontiera, comprese le unità attive in Cisgiordania, sottratta al ministero della Difesa.
Doppia carica - alle Finanze e alla Difesa - ha ottenuto Bezalel Smotrich, nazionalista messianico incline alla teocrazia, leader dei sionisti religiosi. Potrà esercitare la sua autorità sugli affari civili in Cisgiordania, compresa la costruzione degli insediamenti, di cui è convinto sostenitore in linea con l'ideologia religiosa e di sicurezza incentrata sul mantenimento del controllo ebraico sulla Terra d'Israele.
Tra due anni, Smotrich lascerà la carica di ministro delle Finanze all'ultraortodosso Aryeh Deri di Shas, come parte di un accordo di rotazione tra i leader dei due partiti. Intanto anche Deri, che ha alle spalle una carriera politica trentennale e alcune condanne per reati fiscali, guiderà due dicasteri, Interno e Salute. Al leader di Noam, una fazione di estrema destra apertamente anti-Lgbtq+, Avi Maoz, spetterà la direzione di un ufficio responsabile dell'"identità nazionale ebraica" di Israele che supervisionerà alcuni programmi del sistema educativo che in precedenza erano di pertinenza del Ministero dell'Istruzione.
Saranno in tutto trentuno i ministri, tra cui cinque donne, in numero inferiore rispetto al governo precedente. E un presidente della knesset, Amir Ohana, che è il primo apertamente omosessuale a ricoprire l'incarico, ma schierato con la destra del Likud.
La fotografia ufficiale scattata ieri sera, alla fine della giornata, nel corso della cerimonia alla residenza del capo dello stato Isaac Herzog, ha molto da dire, secondo l'esperto israeliano di immagini e linguaggio del corpo Amir Helmer, sulla sostanza del nuovo esecutivo.
«Prima che Netanyahu prendesse posto alla poltrona centrale - ha annotato e condiviso con La Stampa Helmer - il capo di Shas si è appoggiato allo schienale, afferrandolo come se fosse lui il vero decisore». A fronte di un «sorriso arrogante» di Netanyahu, lo studioso ha rilevato una «espressione da funerale» sul volto di Herzog. Netanyahu ha contrapposto alle speculazioni quattro obiettivi principali.
Bloccare l'Iran «è una questione esistenziale», seguita da «ripristinare la sicurezza all'interno dello Stato di Israele», «"affrontare il problema del costo della vita e degli alloggi« e infine «espandere notevolmente il cerchio della pace», puntando ad includere, secondo gli analisti, l'Arabia Saudita negli Accordi di Abramo.
Con il ritorno di Netanyahu Israele precipita verso l’anarchia. David Grossman il 29 Dicembre 2022 su La Repubblica.
“È in gioco il nostro futuro e quello dei nostri figli, la possibilità di diventare un Paese egualitario. Ma lui potrebbe averci portati a un punto di non ritorno”
Tutto quello che è successo in Israele dopo le elezioni all’apparenza rientra nel quadro della legalità e della democrazia. Ma sotto l’apparenza – com’è successo più di una volta nella storia – sono stati gettati i semi del caos, del vuoto e del disordine all’interno delle istituzioni più cruciali di Israele.
Non parlo soltanto della promulgazione di nuove leggi, per quanto estreme e scandalose, ma di un cambiamento più profondo e fatale, un cambiamento della nostra identità, della natura dello Stato. E non è un cambiamento di cui si sia discusso in campagna elettorale; non è per decidere di questo che gli israeliani si sono recati alle urne.
Israele, Netanyahu annuncia l’accordo per il governo più a destra di sempre
di Rossella Tercatin22 Dicembre 2022
Durante le trattative per formare il nuovo governo, continuava a girarmi in testa un versetto del libro di Isaia: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro». In sottofondo, come una tortura cinese, sento costantemente Moshe Gafni che proclama: «Metà della popolazione studierà la Torah e metà servirà nell’esercito». E ogni volta il mio cervello brucia, questa volta, in parte, per ragioni del tutto personali.
Le trattative, che ricordavano molto da vicino un assalto alla diligenza, guizzavano di fronte ai nostri occhi in rapidi fotogrammi, sprazzi di una logica aliena e provocatoria: «La clausola di annullamento», «la legge di discriminazione», «Smotrich avrà l’ultima parola sulle costruzioni in Cisgiordania», «Ben-Gvir potrà costituire una milizia privata in Cisgiordania», «il criminale recidivo Dery potrà…». In un battito di ciglia, con frenesia crescente, con la destrezza di mano del truffatore che fa il gioco delle tre carte per strada.
Sappiamo che in questo esatto momento qualcuno ci sta raggirando, che qualcuno si sta mettendo in tasca non solo i nostri soldi, ma anche il nostro futuro e quello dei nostri figli, l’esistenza che volevamo creare qui, uno Stato dove, nonostante tutti i suoi limiti e i suoi punti ciechi, la possibilità di diventare un Paese civile ed egualitario, un Paese con la forza per assorbire contraddizioni e divergenze, un Paese che un giorno potrà riuscire a liberarsi della maledetta occupazione, ogni tanto trapela. Un Paese che possa essere ebraico e credente e laico, una potenza tecnologicamente avanzata e tradizionale e democratica, e anche una casa accogliente per le sue minoranze. Uno Stato israeliano dove la molteplicità di dialetti sociali e umani non crei necessariamente paure, minacce reciproche e razzismo, ma conduca al contrario a una fertilizzazione reciproca e a una fioritura.
Ora, dopo che la polvere si è posata, dopo che le dimensioni della catastrofe sono diventate evidenti, Benjamin Netanyahu può anche raccontarsi che seminando il caos ha raggiunto i suoi obiettivi – distruggere il sistema legale, la polizia, l’istruzione e tutto ciò che odori anche vagamente di «sinistra» – e che quindi ora potrà riportare indietro le lancette, cancellare o almeno attenuare la folle e disonesta visione del mondo che lui stesso ha creato e tornare a guidarci in modo appropriato, legale, razionale. Tornare a essere un adulto responsabile in un Paese ben governato.
Ma potrebbe scoprire che dal punto in cui ci ha portati non esiste possibilità di ritorno. Sarà impossibile eliminare o anche semplicemente addomesticare il caos che ha creato. I suoi anni di caos hanno già inciso qualcosa di tangibile e spaventoso nella realtà, nell’anima delle persone che li hanno vissuti. Sono qui. Il caos è qui, con tutta la sua forza di risucchio. Gli odi interni sono qui. Il disprezzo reciproco è qui, così come la violenza crudele nelle nostre strade, sulle nostre autostrade, nelle nostre scuole e nei nostri ospedali. Anche coloro che chiamano bene il male e male il bene sono già qui. Pure l’occupazione, con ogni evidenza, non finirà in un futuro prossimo; è già più forte di tutte le forze oggi attive nell’arena politica. Quello che è cominciato ed è stato affinato con grande efficacia laggiù ora si sta infiltrando quaggiù. Le fauci spalancate dell’anarchia mostrano le zanne alla più fragile democrazia del Medio Oriente. (Traduzione di Fabio Galimberti)
Il sesto Netanyahu zittisce fischi e contestazioni "La democrazia è anche accettare la sconfitta". Il programma: Iran, pace col mondo arabo, infrastrutture e sicurezza. Fiamma Nirenstein il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Israele non dimenticherà in particolare due momenti della drammatica, contestata giornata dell'insediamento del sesto governo Netanyahu, il più stabile con 64 seggi su 120 da anni, ma il più ingiuriato con una fantasmagorica collezione di aggettivi su tutta la stampa mondiale da un'opposizione che era fino a ieri al governo avendo come unico slogan unificante «chiunque fuorché Bibi».
Ed ecco invece Bibi di nuovo con la solita cravatta e col 37esimo governo della storia d'Israele, con un discorso profetico, pieno di storico orgoglio sul successo del suo piccolo Paese che descrive i prossimi 25 anni: dopo i 75 che si festeggiano nel 2023 porteranno lo Stato degli ebrei nel suo secondo secolo «con un bagaglio di democrazia, di benessere, di tecnologia, in pace con la maggior parte del mondo arabo», ha detto. Netanyhu ha disegnato il suo programma (Iran, infrastrutture popolari, sicurezza) e ha ricordato con passione tutto il suo lavoro e il suo impegno fendendo un concerto di urla furiose di offese di ogni genere. «Bugiardo, corrotto, delinquente, distruttore della democrazia».
Al momento della saturazione il primo ministro ha cambiato faccia e ha detto: «Non essere eletti non è la fine della democrazia, ma la sua essenza. Noi siamo e saremo democratici: non ci arrampichiamo sul muro del Capitol, né della Knesset... Imparate, anche ai Mondiali di calcio allo stadio i tifosi sanno accettare la sconfitta».
È vero: la questione della democrazia viene posta ogni volta che la sinistra non vince le elezioni, dei diritti e delle istituzioni ogni volta che sono quelli che fanno comodo. La sua reazione alle accuse sono le scelte nel campo dei ministri del Likud, tutte state fatte nel campo più liberal democratico del partito per controbilanciare le intenzioni della parte più conservatrice, e per altro eletta e legittima, del suo governo. Ed ecco il secondo momento memorabile: il nuovo presidente della Camera, Amir Ohana, un egregio giurista, leader omosessuale, ha segnato la giornata con un discorso storico, rivolgendosi ai i suoi genitori proletari marocchini (seduti nella sala) con cui ha sofferto la fame da bambino per costruire il Paese, e al suo compagno Alon Haddad, che con i loro due bambini in braccio, è stato salutato anche da Netanayahu quando all'inizio ha salutato le famiglie presenti. Ohana ha cambiato faccia anche lui, severo come Bibi, quando ha detto che dal suo ruolo mai e poi mai permetterà che nessuno venga discriminato in Israele secondo il colore, la religione, l'etnia, le preferenze, le scelte soprattutto i bambini. I suoi bambini.
Una promessa più credibile delle urla che promettono che in Israele si prepara una oscura era di fascismo.