Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
GLI EUROPEI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
Confini e Frontiere.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i serbi.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i croati.
Quei razzisti come i kosovari.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i portoghesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come i polacchi.
Quei razzisti come i slovacchi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i Sudafricani.
Quei razzisti come i nigerini.
Quei razzisti come i zambiani.
Quei razzisti come i zimbabwesi.
Quei razzisti come i ghanesi.
Quei razzisti come i sudanesi.
Quei razzisti come i gabonesi.
Quei razzisti come i ciadiani.
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i tunisini.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come i siriani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i giordani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli yemeniti.
Quei razzisti come i somali.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come i pakistani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i thailandesi.
Quei razzisti come gli indonesiani.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i bielorussi.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come gli azeri – azerbaigiani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI OCEAN-AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Quei razzisti come i salvadoregni.
Quei razzisti come gli ecuadoregni.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come i boliviani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come gli australiani.
Quei razzisti come i neozelandesi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Altra Guerra.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. UNDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DODICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TREDICESIMO MESE. UN ANNO DI AGGRESSIONE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUATTORDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SEDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIASSETTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIOTTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIANNOVESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTUNESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTIDUESIMO MESE
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Giorno del Ricordo.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Migranti.
I Rimpatri.
Gli affari dei Buonisti.
Quelli che…porti aperti.
Quelli che…porti chiusi.
Cosa succede in Libia.
Cosa succede in Africa.
Gli ostaggi liberati a spese nostre.
Il Caso dei Marò & C.
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
GLI EUROPEI
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
Confini e Frontiere.
Antonio Giangrande: Un mondo dove ci sono solo obblighi e doveri. Un mondo dove ci sono solo divieti, impedimenti e, al massimo, ci sono concessioni. Un mondo dove non ci sono diritti, ma solo privilegi per i più furbi, magari organizzati in caste e lobbies. In un mondo come questo, dove tutti ti dicono cosa puoi o devi fare; cosa puoi o devi dire; dove l’uno non conta niente, se non essere solo un mattone. In un mondo come questo che mai cambia, che cazzo di vita è.
Pink Floyd – Another Brick In The Wall. 1979
Part 1 (“Reminiscing”) ("Ricordando")
Daddy’s flown across the ocean – Papà è volato attraverso l’oceano.
Leaving just a memory – Lasciando solo un ricordo.
Snapshot in the family album – Un’istantanea nell’album di famiglia.
Daddy what else did you leave for me? – Papà cos’altro hai lasciato per me?
Daddy, what’d’ja leave behind for me?!? – Papà, cos’hai lasciato per me dietro di te?!?
All in all it was just a brick in the wall. – Tutto sommato era solo un altro mattone nel muro.
All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.
“You! Yes, you! Stop steal money!” – “Tu! Si, Tu! Smettila di rubare i soldi!”
Part 2 (“Education”) ("Educazione")
We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.
We dont need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.
No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.
Teachers, leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.
Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!
All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.
All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei soltanto un altro mattone nel muro.
We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.
We don’t need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.
No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.
Teachers leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.
Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!
All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.
All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei solo un altro mattone nel muro.
“Wrong, Do it again!” – “Sbagliato, rifallo daccapo!”
“If you don’t eat yer meat, you can’t have any pudding. – “Se non mangi la tua carne, non potrai avere nessun dolce.
How can you have any pudding if you don’t eat yer meat?” – Come pensi di avere il dolce se non mangi la tua carne?
“You! Yes, you behind the bikesheds, stand still laddy!” – “Tu! Sì, tu dietro la rastrelliera delle biciclette, fermo là, ragazzo!”
Part 3 (“Drugs”) ("Droghe-Farmaci")
“The Bulls are already out there” – “I Tori sono ancora là fuori”.
“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!” – “Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!”
“This Roman Meal bakery thought you’d like to know.” – “Questo è un piatto Romano al forno, pensavo che lo volessi sapere.”
I don’t need no arms around me – Non ho bisogno di braccia attorno a me.
And I dont need no drugs to calm me. – E non ho bisogno di droghe per calmarmi.
I have seen the writing on the wall. – Ho visto la scritta sul muro.
Don’t think I need anything at all. – Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.
No! Don’t think I’ll need anything at all. – No! Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.
All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.
All in all you were all just bricks in the wall. – Tutto sommato eravate tutti solo mattoni nel muro.
Razza: ha insanguinato la nostra civiltà e non è un concetto «umano». Storia di Paolo Fallai su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.
Dopo aver insanguinato la nostra civiltà per secoli, la parola «razza» continua ad essere usata con sconcertante superficialità, molto al di là delle polemiche politiche. La sua stessa origine è stata per molti anni al centro di una violenta disputa tra studiosi accorti e polemisti da strapazzo. La «ratio» non c’entra. E cominciamo a sgomberare il campo da qualcuna di queste stupidaggini. Fino alla metà del Novecento (sì, anche dopo la seconda guerra mondiale e l’orrore dell’Olocausto) era molto diffusa l’ipotesi che la parola derivasse dal latino ratio o generatio, intendendo evocare i significati di «stirpe» e perfino «ragione». Anche importanti studiosi ebrei come Leo Spitzer ne erano convinti e vi facevano riferimento nell’ovvia polemica contro chi la usava in modo discriminatorio. La ricostruzione dell’Accademia della Crusca. In un fondamentale contributo del linguista Lino Leonardi, pubblicato nel 2018, si ricostruisce che «Fu un illustre Accademico della Crusca, Gianfranco Contini, impegnato nel ’44 nella liberazione dell’Ossola, a capovolgere la prospettiva, dimostrando nel 1959 che l’origine era tutt’altra. Razza ha le sue prime attestazioni in italiano antico, da cui si diffonde a tutte le lingue europee, ed è originariamente una trasformazione medievale dell’antico francese haraz, che indica un allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Per una delle più vistose parole-simbolo in nome delle quali si era prodotta l’abiezione della ragione, cadeva così l’illustre derivazione da ratio, e veniva riconosciuta “una nascita zoologica, veterinaria, equina” (Contini)». Ulteriori precisazioni. «Toccò di lì a poco a un altro illustre Accademico, poi Presidente e ora Presidente Onorario della Crusca, Francesco Sabatini, portare nel 1962 ulteriori elementi di prova della giustezza di quell’intuizione – prosegue la ricostruzione di Lino Leonardi -, realizzando quell’integrazione della ricerca la cui assenza aveva impedito al celebre linguista Walter von Wartburg di aderire alla tesi di Contini. Con le numerose testimonianze della forma aratia/arazza/razza, con lo stesso significato “animale” e quindi con la stessa derivazione dal francese, rintracciate nel tardo-latino e nel volgare della cancelleria angioina e poi aragonese di Napoli, la storia del termine si veniva chiarendo anche oltre la sua origine, e si confermava pienamente la teoria continiana». Conclusioni lapidarie. Da decenni dunque – conclude Leonardi - la parola razza, marchiata a fuoco dalla peggiore ignominia della storia del Novecento, può e deve essere intesa alla luce del suo significato originario, e dovrebbe essere usata solo per definire un’identità non umana. Nel 1959, quando Contini pubblicò la sua ricerca, un quotidiano nazionale si rifiutò di darne notizia. Nell’Italia di oggi, cinquant’anni dopo, così diversa da quella di allora, c’è ancora bisogno di diffondere, anche sul piano strettamente linguistico, la consapevolezza di quell’aberrazione». Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Da decenni gli antropologi, che studiano l’uomo dal punto di vista biologico, sociale e culturale, si sgolano per ripeterci che il concetto stesso di «razza» non ha alcun valore scientifico: gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico. Gianfranco Biondi e Olga Rickards, ci hanno scritto un libro fondamentale (L’errore della razza, Carocci, 2011). Ma anche prima di loro un importante docente di genetica Guido Barbujani ha ricostruito la storia delle origini umane, smentendo l’idea ottocentesca che l’umanità sia frammentata in gruppi biologicamente distinti (Guido Barbujani, L’invenzione delle razze , Bompiani, 2006). Una parola che è un problema. Nel 2014, dopo l’ennesima campagna di polemiche «razziste», l’Assemblea nazionale francese approvò l’eliminazione della parola «razza» dalla Costituzione e da ogni altro documento pubblico. Gli antropologi italiani ci provarono anche a Roma: Biondi e Rickards scrissero una lettera aperta alle alte cariche dello Stato (su scienzainrete.it), chiedendo di eliminare il termine dalla Carta e dai documenti amministrativi. La nostra Carta fondamentale. Come è noto, l’articolo 3 della nostra Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Con tutta evidenza, i costituenti citarono la razza solo per ragioni antidiscriminatorie, in un’epoca in cui essa, tuttavia, aveva ancora una certa presunta vitalità scientifica. Che da molto tempo non ha più. Sulla Lettura del Corriere, nel febbraio 2015, altri due importanti antropologi Adriano Favole e Stefano Allovio, rilanciarono il dibattito, pur con tutto il pessimismo del caso: «L’operazione, assai improbabile nel clima politico attuale, sarebbe simbolicamente molto forte come presa di posizione contro ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione», denunciando la pericolosa assenza nella scuola di un’azione culturale e formativa sui reali motivi di differenze e somiglianze tra società e culture. A quella richiesta nessuno ha mai risposto. Quel vuoto non è mai stato colmato. L’ipocrisia fascista e l’abisso. Nel 1938, il regime di Benito Mussolini approvò le leggi razziali, uno degli abissi di immoralità del fascismo, che schierò l’Italia al fianco delle violente politiche discriminatorie di Adolf Hitler, rendendola di fatto complice dell’Olocausto. Il complesso di norme introduceva precisi divieti per gli ebrei italiani, cacciandoli dalle scuole, dagli impieghi e creando i presupposti perché venissero derubati dei loro beni. Questo complesso di leggi che pesano come una vergogna permanente sulla coscienza di ogni italiano sono passate alla storia – una delle pagine più buie della nostra storia – come «leggi razziali». È ora che cominciamo a chiamarle per quello che furono, «leggi razziste». Presupposto per la tragedia che avrebbe insanguinato il mondo negli anni successivi. Come non si stancano di ripetere gli antropologi italiani «Se il pregiudizio è un virus che può innestarsi su molteplici vettori (anche di tipo culturale), è indubbio che la razza è uno dei più potenti». Non è un problema del passato.
Dove finisce un Paese. Il sistema degli Stati-nazione non può più essere dato per scontato. Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna su L'Inkiesta il 3 Ottobre 2023.
La visione attuale delle frontiere funziona solo se le nazioni sono immaginate uguali e sovrane. Come sostengono Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna nel nuovo saggio “Contro i confini”, una tale presunzione richiede un’amnesia storica sulle politiche di dominio
Cosa fanno i confini? Nell’interpretazione convenzionale, stabiliscono dove finisce un Paese e dove ne inizia un altro. Sono linee su una carta, permanenti e, all’apparenza, razionali. I confini delineano il territorio di una nazione e fanno da filtro agli spostamenti in entrata e in uscita di persone e di beni. Tengono fuori ciò che è proibito: somme di denaro non dichiarate, animali, specie vegetali invasive, malattie, droghe e, ovviamente, persone non autorizzate.
I ricchi abitanti del Nord globale attraversano le frontiere con relativa facilità, salvo il breve fastidio del controllo via scanner dei bagagli e del passaporto, prima del caldo abbraccio con la famiglia lontana e del languore delle vacanze. I viaggiatori rispettosi della legge accettano di buon grado le perquisizioni personali e la scansione a raggi x perché ritengono di non avere nulla da nascondere. E, a dirla tutta, perché hanno un desiderio condiviso di controllo, ordine e sicurezza.
È tale bisogno di controllo e sicurezza a definire le politiche sull’immigrazione, e quindi i titoli sui giornali e i discorsi politici contro i pericoli di un’immigrazione incontrollata. Ma a quanto pare questi confini vengono violati di continuo. Da qui le metafore liquide – “diluvio”, “ondate” o “marea” di migranti – superate soltanto dall’espressione, barbarizzante, “orda”. Gli immigrati vengono di solito messi a fuoco come un assortimento delle loro caratteristiche più minacciose, e il loro arrivo e la loro distribuzione sul territorio – troppi, troppo velocemente e del tipo sbagliato – sono visti soltanto come un rischio, che porta con sé insicurezza e declino di una nazione.
In un contesto simile, i governi sembrano costretti a impegnare risorse sempre maggiori e tecnologie sempre più sofisticate per rafforzare i propri confini. Il recente aumento di governi di destra è stato accompagnato dal proliferare di muri, reticolati, barriere galleggianti, droni destinati alla sorveglianza dei migranti che attraversano deserti e oceani, respingimenti ai confini dell’Europa e valutazione delle richieste di asilo attraverso campi di detenzione offshore. L’intensificarsi di una politica di frontiera violenta e spettacolarizzata è intimamente connesso all’ascesa di governi razzisti e nazionalisti propria dell’attuale momento storico.
Ma non si tratta di un problema della sola destra. Da tutto lo spettro politico si alzano voci che affermano la ragionelezza e la necessità delle frontiere. Molti partiti e diversi sindacati ritengono che i confini proteggano la classe lavoratrice dall’abbassamento dei salari causati da un surplus di lavoro migrante, che evitino di sovraccaricare l’edilizia pubblica e i servizi al cittadino e preservino lo “stile di vita” e la “cultura nazionale” delle società meta di immigrazione.
Si ritiene, inoltre, che le frontiere servano da contrasto al traffico di esseri umani e a quello a scopo sessuale, oltre a evitare che i talenti migliori abbandonino i Paesi più poveri. In tutte queste narrazioni, le persone in movimento vengono ridotte a numeri, unità di lavoro, minacce razionalizzate, vittime disperate e categorie legali. La loro umanità viene cancellata e i “fattori di spinta” (pushing factors) che guidano la loro decisione di migrare rimangono sullo sfondo: una sorta di miasma fatto di guerre, persecuzioni e collasso ecologico completamente slegato dagli atti e dalle storie dei Paesi del Nord globale.
Parte del problema è che il sistema degli Stati-nazione viene semplicemente dato per scontato, come se i Paesi e le ineguaglianze fossero naturali e permanenti. La cittadinanza – il sistema politico-legale che assegna gli individui agli Stati – non viene messa in discussione. E non solo: la cittadinanza è vista come un bene universale, segno di inclusione politica e soggettività, e si presuppone che ciascun individuo sia un cittadino a “casa propria”, lì dove ha legami culturali e sociali radicati, un luogo a cui, quindi, “appartiene”.
In un simile contesto, il controllo dell’immigrazione è percepito come mirato esclusivamente all’applicazione di coerenti distinzioni legali e spaziali tra le varie popolazioni nazionali, tramite meccanismi burocratici quali visti, passaporti, controlli alle frontiere e accordi tra gli Stati. I confini tra gli Stati-nazione sono considerati vitali per la democrazia: delimitano il demos. Per sostenere una simile visione delle frontiere, tutti gli Stati-nazione devono essere immaginati come formalmente uguali e sovrani. Ma una tale presunzione richiede un’amnesia storica per quel che riguarda il colonialismo, e una volontà precisa di non tener conto delle attuali relazioni di dominio economico.
Ovviamente le cittadinanze non sono tutte uguali: i cittadini svedesi, neozelandesi o statunitensi hanno maggiori opportunità di una vita migliore e una ben diversa libertà di movimento rispetto ai cittadini del Bangladesh, della Repubblica Democratica del Congo o del Kirghizistan. Dunque, il controllo dell’immigrazione non si limita a dividere il mondo, ma rafforza distinzioni di spazi e diritti tra popolazioni nazionali estremamente ineguali.
Da “Contro i confini” di Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna, Add editore, 208 pagine, 17,10 euro.
Nazionali e nazionalismo. Il calcio internazionale europeo è diventato un’arena di rivendicazioni. Valerio Moggia su L'Inkiesta il 16 Settembre 2023
Non è un caso che la Uefa preveda accoppiamenti vietati nei gironi. Fin dalle origini il pallone è espressione di ideali e ambizioni politiche: oggi l’esistenza di una selezione è vista come un prerequisito per affermarsi in quanto Stato
Martedì 12 settembre, mentre l’Italia di Spalletti otteneva la sua prima vittoria sconfiggendo l’Ucraina, a Bucarest la partita tra Romania e Kosovo veniva interrotta già nel primo tempo, a causa delle proteste dei giocatori ospiti verso uno striscione mostrato dai tifosi di casa. «Kosovo è Serbia» c’era scritto, riprendendo una nota rivendicazione dei nazionalisti serbi. Subito sopra, un altro striscione simile recitava «Bessarabia è Romania», paragonando la questione balcanica a quella tra Bucarest e la regione oggi nota come Moldavia.
Si tratta solo di una partita, eppure i contenuti geopolitici richiederebbero pagine e pagine di approfondimento. Nulla di nuovo, perché ormai da diversi anni il calcio europeo, soprattutto durante la sosta per le nazionali, offre numerosi spunti di dibattito sulla politica internazionale: una rivista come Limes, se volesse, potrebbe dedicare un intero numero anche solo a uno o due turni delle qualificazioni europee, ritrovandosi piena di argomenti di cui discutere. Mentre ancora, in certi ambienti, resiste la retorica secondo cui sport e politica dovrebbero restare separati (come ribadito anche da Fifa e Uefa), la realtà quasi quotidiana racconta una storia ben diversa.
Un calcio figlio del nazionalismo
Non è un caso se, ogni volta che la Uefa deve effettuare un sorteggio dei gironi di qualificazione prevede alcuni accoppiamenti vietati, cioè alcune nazionali che non possono affrontarsi per nessun motivo. Come è immaginabile, tra di esse ci sono Kosovo e Serbia, anche se questo non basta a scongiurare tensioni in altri incontri.
Lo si è visto in Romania lo scorso martedì, ma anche nel 2018 per la gara dei Mondiali tra la selezione di Belgrado e la Svizzera, nella quale giocano diversi immigrati kosovari. L’esultanza di Xhaka e Shaqiri, che mimarono con le mani l’aquila albanese, fece il giro del mondo.
Dal canto suo, il Kosovo è uno Stato che ha costruito un’intera strategia politica sul calcio. Il riconoscimento da parte della Uefa nel 2016 ha aperto un precedente storico, permettendo al piccolo Paese balcanico di acquisire uno status preciso come squadra di calcio prima che come soggetto politico.
Ad oggi, solo centuno membri dell’Onu su centonovantatré riconoscono l’indipendenza di Pristina, che però gode di una posizione molto più solida in ambito sportivo. In poche parole, l’esistenza di una squadra nazionale di calcio è divenuto un prerequisito necessario per affermarsi in quanto Stato-nazione.
In questa strategia riecheggiano le parole dello storico Eric J. Hobsbawm, che già nel 1992 scriveva che «la comunità immaginata di milioni sembra molto più reale quando è incarnata da una squadra di undici». Questo per ricordare come da sempre il calcio per nazionali sia espressione di ideale (e ambizioni) nazionaliste, in quanto figlio della società ottocentesca.
Non è un caso se proprio la prima gara tra selezioni di questo tipo – di cui per altro nell’ultimo turno delle qualificazioni a Euro 2024 si è celebrato il centocinquantesimo anniversario – sia stata Scozia-Inghilterra. Ovvero non la sfida tra due Stati, ma tra due nazioni all’interno di uno stesso Stato.
Lo specchio delle fratture dell’Europa
Le rivalità tra nazionali sono cosa nota, ma la predisposizione dell’Europa a questo tipo di rivendicazioni affonda le sue radici nei travagliati eventi del Novecento. La formazione e la dissoluzione degli Stati multietnici, prima al termine della Grande Guerra e poi alla caduta del comunismo, ha riempito il continente di fratture politiche che non si sono più del tutto rimarginate.
Vale per i tristemente noti Balcani, ma non solo. Tant’è vero che nell’aprile 2021 furono i media spagnoli a rifiutarsi di pronunciare il nome del Kosovo, avversario durante una partita delle qualificazioni ai Mondiali. Nelle grafiche televisive, il nome del paese balcanico venne scritto in piccolo, e non fu mai chiamato «inno» l’inno nazionale kosovaro. Questo perché la Spagna non riconosce Pristina, dato che questo aprirebbe delle controversie in merito all’indipendentismo catalano.
Una situazione simile, ma con altri protagonisti, si è verificata lo scorso 8 settembre a Eskisehir, in Turchia, quando la tv locale ha silenziato l’inno dell’Armenia. I rapporti tra Yerevan e Ankara sono da sempre tesissimi a causa del genocidio commesso dai turchi tra il 1915 e il 1923.
Nella gara di andata, giocatasi a marzo, i tifosi armeni avevano esposto uno striscione con sopra scritto «Nemesis», il nome dell’operazione paramilitare condotta dalla Federazione rivoluzionaria armena tra il 1920 e il 1922, che portò all’uccisione di sette persone, turche e azere, responsabili del genocidio.
Quello tra Armenia e Azerbaijan è un altro fronte aperto, nella politica e nel calcio. Gli ultimi mesi hanno riportato al centro della cronaca estera la questione del Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra i due Paesi a cui gli azeri hanno imposto un discusso blocco, isolando la comunità armena.
Questo mese, l’Armenia ha siglato un accordo di cooperazione con gli Stati Uniti, vicini all’Azerbaijan, che ha permesso una distensione nella regione, e quasi in contemporanea, lunedì 11 settembre durante Armenia-Croazia, alcuni tifosi di casa sono riusciti a far volare sopra il terreno un drone che sventolata la bandiera dell’Artsakh, il soggetto politico armeno nel Nagorno-Karabakh.
Se la politica internazionale continua a essere co-protagonista di molti match di calcio europeo durante i turni di qualificazione, non va però sottovalutato il recente aumento di queste rivendicazioni, che stanno diventando sempre più frequenti.
I motivi sono senza dubbio molteplici, ma non si può non notare come tutto questo vada di pari passo con il risorgere dei nazionalismi in tutto il Vecchio Continente. E infatti dodici delle cinquantacinque federazioni affiliate alla Uefa rappresentano paesi che in questo momento hanno governi esplicitamente nazionalisti.
Tensioni tra Romania e Kosovo: quando il calcio incontra la politica. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 14 Settembre 2023
La partita di calcio tra Romania e Kosovo, giocatasi martedì sera all’Arena Nationala di Bucarest, era appena iniziata da un quarto d’ora quando l’arbitro ha deciso di richiamare i giocatori negli spogliatoi, sospendendo il match per circa 45 minuti. La causa? I cori e gli striscioni realizzati dai padroni di casa, che hanno portato la politica sugli spalti esibendo scritte eloquenti, come “Bessarabia è Romania” e “Kosovo è Serbia”. Per capirne il legame è necessario tornare al 17 febbraio 2008, quando Pristina proclamò unilateralmente l’indipendenza da Belgrado. La Romania, così come Spagna, Cipro, Grecia e Slovacchia, si rifiutò di riconoscere tale cambiamento nello status quo, preoccupata dalle istanze di autonomia avanzate dalla minoranza magiara. Inoltre, facendo leva su questa interpretazione del principio di integrità territoriale, Bucarest non ha abbandonato le rivendicazioni sulla Bessarabia, regione sotto il controllo di Bucarest tra le due guerre mondiali e oggi coincidente in gran parte con la Moldavia. A fare da sfondo ai cori pro-Belgrado inscenati martedì sera è, infine, la questione religiosa, con Romania e Serbia accomunate dalla fede ortodossa.
I magiari di Romania sono la principale minoranza etnica del Paese, dove si contano circa 1 milione e mezzo di ungheresi (6,5% della popolazione). I magiari vivono principalmente in Transilvania, regione storicamente contesa tra Bucarest e Budapest. A seguito della prima guerra mondiale e del crollo dell’Impero austro-ungarico, la Transilvania venne infatti assegnata alla Romania dal Trattato di Trianon del 1920. Il trasferimento territoriale ha portato una significativa minoranza ungherese all’interno del Paese, che ancora oggi continua a vivere nella regione. Da allora gli ungheresi transilvani hanno sempre avuto un rapporto travagliato con il governo centrale di Bucarest, responsabile di diversi tentativi di assimilazione culturale, perlopiù falliti dal momento che hanno scalfito l’identità della regione solo in minima parte. Gli esecutivi romeni cercano di mantenere il proprio controllo in loco attraverso una forte presenza militare sul territorio e sostenendo le istituzioni ecclesiastiche ortodosse, che agiscono da presidio ideologico nei confronti degli ungheresi, di tradizione cattolica. La maggiore sponda politica della minoranza magiara è l’Alleanza Democratica degli Ungheresi di Romania, che dal 1989 chiede autonomia territoriale per il Székelyföld (o Terra dei Siculi, dove il vive il nucleo principale della popolazione magiara) e autonomia culturale per tutti gli ungheresi del Paese. Istanze che Bucarest respinge, recidendo i rapporti con quelle esperienze estere (come il Kosovo) suscettibili di alimentare l’indipendenza magiara.
La Bessarabia è invece una regione storica compresa tra i fiumi Prut e Nistro, che nel 1918 ottenne l’indipendenza sulle ceneri dell’Impero russo. Nello stesso anno venne assorbita da Bucarest, diventando una provincia orientale della Grande Romania (espressione con cui viene indicato il territorio romeno tra il 1918 e il 1941). Dopo la seconda guerra mondiale, la Bessarabia fu annessa da Mosca, diventando la Repubblica Socialista Sovietica Moldava. Nel 1991, a seguito della dissoluzione dell’URSS, si trasformò nella Repubblica di Moldavia, da cui si sono staccate con un moto secessionista russofono alcune città, dando vita alla Transnistria, uno Stato non riconosciuto a livello internazionale. Oggi gran parte della regione storica della Bessarabia coincide con la Moldavia mentre la restante area meridionale è sotto l’amministrazione ucraina.
Dopo la Rivoluzione romena del 1989, che portò al crollo del regime dittatoriale di Nicolae Ceaușescu, nacque il Movimento per l’unificazione della Romania e della Moldavia, ispirato al periodo interbellico. Raggiunta l’indipendenza, la Moldavia adottò la bandiera romena con uno scudo moldavo al centro e scelse come inno nazionale quello in vigore a Bucarest. Tuttavia, la possibile fusione con la Romania venne frenata dal Fronte Popolare Moldavo, che da movimento di opposizione era nel frattempo salito al potere. Col passare degli anni, il sentimento unionista è scemato, soprattutto a Chisinau, senza però sparire dal dibattito pubblico e dalle agende politiche. I principali movimenti unionisti si chiamano Noii Golani, Deşteptarea e Basarabia – Pământ Românesc. L’unificazione trova sostegno in fette più o meno ampie della popolazione, tanto rumena quanto moldava, variando a seconda del contesto sociale o delle radici familiari. Ad esempio, i moldavi di origine russa, ucraina o gaugaza tendono a essere contrari all’unione con la Romania, preferendo l’attuale divisione. L’unificazione va tenuta distinta dall’irredentismo, che ha invece come base l’elettorato nazionalista romeno (protagonista martedì scorso all’Arena Nationala) e come maggior espressione politica il partito ultra-conservatore Grande Romania.
A destare preoccupazione a Bucarest, in ottica di un’eventuale unificazione con Chisinau, è la situazione della Transnistria, uno Stato non riconosciuto ma indipendente de facto, che si opporrebbe fortemente a un avvicinamento amministrativo tra Bucarest e Moldavia, da cui almeno formalmente dipende. In particolare, preoccupa il rischio che la Transnistria utilizzi il precedente del Kosovo per rafforzare la propria posizione, anche e soprattutto a livello internazionale, dove si gioca l’importante partita del riconoscimento statale. Timori simili sono al centro delle agende politiche di Slovacchia, Grecia, Cipro e Spagna, gli altri Paesi dell’Unione europea che non riconoscono il Kosovo per le conseguenze che tale scelta avrebbe sulle questioni interne secessioniste. Madrid, ad esempio, fa i conti con diversi movimenti indipendentisti, con sede soprattutto in Catalogna e nei Paesi Baschi, per anni associati alle azioni dell’organizzazione armata Euskadi Ta Askatasuna (ETA). [di Salvatore Toscano]
Estratto dell’articolo di Enrico Franceschini per “la Repubblica” sabato 26 agosto 2023.
Uno spettro si aggira per l’Europa ed è bianco come il lenzuolo che ricopre i proverbiali fantasmi. Dietro la benevola immagine di un gruppo di nazioni unite da democrazia, stato di diritto e libero mercato, l’Unione Europea rischia di diventare il custode di un’identità culturale razzista, domani pronta ad accogliere gli ucraini, come ha fatto in precedenza con polacchi, ungheresi e altri popoli dell’Est, perché in maggioranza cristiani e con il nostro stesso colore della pelle, ma determinata a chiudere la porta ad africani, islamici e migranti provenienti dal sud del pianeta, perché considerati “diversi”.
È la polemica tesi di un libro uscito in questi giorni nel Regno Unito, di denuncia fin dal titolo: Eurowhiteness, (edito da Hurst Publishers), traducibile con “eurobiancore” o anche “europurezza”, termine che risveglia la retorica nazifascista sulla difesa della razza.
L’autore, Hans Kundnani, ex analista di Chatam House e European Council of Foreign Relations, due prestigiose think tank londinesi di affari internazionali, è di madre olandese e padre indiano, per cui pone un quesito vissuto in prima persona: «È certamente possibile essere un nero olandese o un francese di origine marocchina, ma è possibile per un non bianco sentirsi davvero europeo?». La sua risposta è negativa.
Kundnani afferma che l’Europa unita, nata come modello universalista di pace e democrazia, in realtà è sempre stata un difensore della propria civiltà contro “gli altri”: una volta il comunismo, oggi l’Islam (e anche, secondo lui, il capitalismo senza regole americano).
Unificate dalla Ue, le ex potenze coloniali europee, accusa il politologo, sono colpevoli di «amnesia imperiale», ignorando le proprie secolari responsabilità verso le ex colonie in Africa e in Medio Oriente, da dove oggi partono i barconi pieni di migranti. […]
E ci sono sicuramente motivi per non essere d’accordo. Il disincanto provato dall’autore per la Ue lo porta a trascurare gli innegabili aspetti positivi del progetto europeo: che Paesi nemici nelle due terribili guerre mondiali del Novecento siano diventati alleati; che il continente, diviso in due da un muro militare, ideologico e sostanziale dagli accordi di Jalta fra Usa e Urss, mettendo la parte orientale sotto il tallone di ferro del totalitarismo sovietico, sia oggi unito nel segno di libertà e democrazia.
Il suo libro non riconosce, inoltre, che l’Europa odierna è un’unione sempre più multietnica e multiconfessionale: basta guardare le nostre scuole elementari per accorgersene o seguire i mondiali di atletica, come ha notato nei giorni scorsi Emanuela Audisio su Repubblica ,sottolineando che il 50 per cento della nazionale italiana ha nomi come Zaynab, Hassane, Yeman, Ayomide, Osana e radici che vanno dalla Tanzania alla Nigeria, dall’Etiopia al Senegal.
L’aspetto più sconcertante del volume è presentare la Brexit come un’occasione per la sinistra britannica di diventare più internazionalista, così cadendo nello stesso pregiudizio ideologico di Jeremy Corbyn, leader laburista all’epoca del referendum del 2016 sull’Ue, secondo il quale l’Europa unita era in sostanza un club di banchieri capitalisti impegnato a sfruttare i lavoratori e a proseguire una politica coloniale verso i Paesi emergenti.
«Adesso possiamo avere più immigrati dalle nostre ex colonie e creare una società veramente multietnica», si compiace Kundnani, senza riflettere che anche questa è discriminazione razziale, contro 27 popoli europei.
Con scarso senso storico e geografico, alla fine l’autore suggerisce che la Gran Bretagna post Brexit, invece di sentirsi parte della civiltà europea, provi a reinventarsi come membro della rete post imperiale dei paesi che appartenevano al British Empire: una rivalutazione del Commonwealth che lascia indifferente la maggioranza degli elettori britannici. […]
Confini e frontiere. Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico - su L'Indipendente il 14 gennaio 2023.
Ho aperto per curiosità il manualetto di “geografia moderna” pubblicato da Giacinto Marietti, Torino 1840. A proposito di migrazioni, sentite le note sui popoli dell’America: “È comune opinione che i primi abitanti dell’America venissero dall’Asia per lo stretto di Bering largo solo da 35 miglia. La gente colà è distinta in varie classi. I bianchi europei occupano il primo grado, gli americani indigeni o indiani il secondo, i mulatti cioè nati da un bianco e da una negra o viceversa tengono il terzo, e l’ultimo è dei neri schiavi trasportati dall’Africa… Parlando dei bianchi si può dire invece che sono molto intraprendenti nel commercio di grano tabacco e cotone che con ingegnosa speculazione sanno prendere e trasportare ove trovino maggior guadagno”.
Sono sempre in gioco due forze antitetiche, una centripeta etnocentrica, in cui prevale il sistema di valori dominante, che punta sulla difensiva e che però, nel caso delle conquiste e dei colonialismo è in grado di respingere ai bordi come stranieri proprio le popolazioni autoctone. Rigoberta Menchú, nel suo libro sui Maya e il mondo (Giunti 1997), reclama che l’ONU debba riconoscere l’esistenza dei popoli indigeni, i loro diritti. E non solo ovviamente di quelli americani: “Anche i popoli del Pacifico, dell’Australia e della Nuova Zelanda sono nostri fratelli, perché hanno subito la colonizzazione, sebbene in epoca più recente della nostra, e appartengono anch’essi a culture di carattere millenario, dalle profonde radici”(p.216). Queste forze centripete, identitarie, dei popoli originari ma anche dei conquistatori e colonizzatori, puntano sulla definizione dei confini. In questo caso prevale il concetto di minaccia, sia a un ordine arcaico, di origini remote, sia ai sovrani confini nazionali, magari ottenuti a scapito della gente del luogo.
L’altra forza è invece quella centrifuga, che ha messo in moto lungo i millenni i popoli, sia quelli conquistatori, sia quelli nomadi, sia quelli che sfuggivano a persecuzioni. Una forza simile a quella che più tardi ha generato e soddisfatto il bisogno sempre crescente di comunicazione, sino a farcene temere l’oppressione e la distruttività. Ma centrifughe, migranti sono anche le correnti di civilizzazione, pensiamo fra tutte alla nostra matrice indoeuropea. Il grande linguista Emile Benveniste così scriveva: “Il miracolo, visto che le fasi di queste migrazioni ci restano sconosciute, è che noi possiamo designare con sicurezza i popoli che hanno fatto parte della comunità iniziale e riconoscerli, a esclusione di tutti gli altri, come indoeuropei. La ragione va cercata nella lingua e soltanto nella lingua” (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi 1976, p. 3). Le forze centrifughe delle migrazioni agiscono dunque anche sul terreno linguistico, sulla
fondazione dei valori persistenti, tramandati, ereditati e posti in discussione, su quelle che poi chiamiamo tradizioni.
Analogamente, nei tempi moderni, agiscono le esigenze della mobilità. Questa ha a che fare con l’idea di frontiera, di negoziazione, di superamento dell’ignoto. “La frontiera – osserva Marc Augé – ha sempre una dimensione temporale, è la forma dell’avvenire e, forse, della speranza” (Per una antropologia della mobilità, Jaca Book 2015, p. 15). Facciamo davvero i conti, come sostiene Augé, con il divario tra una globalità senza limitazioni e la realtà di un pianeta frammentato, dove sarebbe necessario muoversi fisicamente per conoscerlo e per conoscersi, senza ridurre tutto a messaggi e a immagini. La mobilità, la migrazione possono essere opportunità o condanne, generare aperture o blocchi, circolazione di linguaggi o incomprensione. Franco Ferrarotti osservava che tutto si può sopportare e vincere se si sa dove si è diretti, o come Ulisse o come Abramo, a seconda degli orizzonti, dei compiti e delle responsabilità.
E allora vedremo in gioco i confini, con le loro determinazioni rigide e insuperabili o al contrario le frontiere che continuamente si spostano e si moltiplicano perché attinenti alla conoscenza, alle curiosità, alle nuove visioni, ai bisogni. Ferrarotti parlava dello speciale incontro ad Emmaus con Gesù, narrato dall’evangelista Luca con un piglio perfino giornalistico. Ancora una volta, se vogliamo crederlo o ammetterlo, “il mondo sarà salvato, se sarà salvato, dall’apporto dello straniero” (Partire, tornare, Donzelli 1999, p. 148). La migrazione è legata al cambiamento, alle variazioni di prospettiva, implica, anzi impone, strumenti sempre nuovi di interpretazione.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Quei razzisti come gli italiani.
Su e giù.
Tra le Forze dell’Ordine.
Tra la Scuola e l’Università.
Tra i politici.
Tra la gente.
In Barbaria-po lentonia (di comprendonio).
Al Cinema.
In TV.
Ai Musei.
Nello sport.
Sui Giornali.
Quesiti linguistici. Si «sale» a Milano e si «scende» a Napoli? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su Linkiesta il 25 marzo 2023.
Dipende tutto dall’origo, ossia dal punto in cui avviene la comunicazione. Ma non sempre è così. E se ci troviamo in Svizzera e dobbiamo andare in piazza Duomo?
Tratto dall’Accademia della Crusca
In questo articolo si cercherà di rispondere a quanti ci chiedono se sia corretto usare i verbi salire e scendere per descrivere uno spostamento che avviene da sud a nord (e viceversa), ossia, ad esempio, se sia corretto dire salire a Milano considerando come punto di partenza un posto situato più a sud della città.
Per rispondere a questa domanda è necessario spiegare brevemente alcuni concetti legati a quella che in linguistica viene chiamata deissi ossia il modo in cui si riflette nella lingua, attraverso strutture linguistiche, la percezione che ha l’uomo del contesto extralinguistico (dal greco δεῖξις ‘dimostrazione’, da δείκνυμι ‘mostrare’, cfr. Levinson 1983, p. 54). Nel nostro caso particolare si parla di deissi spaziale e le strutture linguistiche che descrivono lo spazio, cioè il contesto extralinguistico in cui avviene l’atto comunicativo, sono i verbi salire e scendere. Questi due verbi, come vedremo, rivelano quale sia la proiezione mentale dello spazio reale e concreto in cui si agisce. Vale la pena introdurre inoltre un altro concetto linguistico fondamentale negli studi sulla deissi e cioè quello di origo ossia di ‘origine’ (Bühler 1983). Con origo si intende il centro deittico cioè il punto di riferimento con cui ciascun parlante descrive il contesto extralinguistico. Visto che la comunicazione è di per sé egocentrica, nella maggior parte dei casi l’origo (anche detto zero point, cfr. Lyons 1980) coincide con il parlante. Ma può anche non essere così: infatti se l’origo è diversa rispetto al parlante si parla di oggetto pivot ossia un oggetto che viene usato come punto di riferimento condiviso per descrivere lo spazio circostante. Ad esempio, in “vicino all’armadio c’è un comodino su cui sta il libro”, l’oggetto pivot è l’armadio che viene usato come punto di riferimento condiviso da coloro che partecipano all’atto comunicativo.
Dopo aver precisato questi concetti passiamo a rispondere ai nostri lettori che ci interrogano circa la correttezza d’uso di questi verbi (si tratta dei verbi nel loro uso intransitivo; per gli usi transitivi si legga la risposta di Matilde Paoli). Anzitutto i significati a cui fanno riferimento i quesiti vanno distinti da quelli che assumono questi verbi per descrivere uno spostamento verso (nel caso di salire) o da (nel caso di scendere) una località posta a un’altitudine maggiore rispetto a un’altra. Quest’uso, infatti, è registrato fin dal Tommaseo-Bellini che, citando la Bibbia, riporta a proposito di scendere:
Di chi viene da paese più alto. T. Nel Vang. Scendere a Gerico (da Gerusalemme ch’era in altura). Lo pregava che scendesse e sanasse il suo figliuolo.
E sempre quest’uso, seppur non presente nelle edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca, è simile a quello che ne fa Dante nella Commedia per indicare lo spostamento verso l’Inferno (collocato sotto la superficie terrestre) e quello verso l’Empireo (il cielo più alto fra tutti quelli che compongono il Paradiso, collocato quindi ad un’altitudine maggiore) o anche per indicare il moto verso o da un colle o una qualsiasi altura. Nel quesito proposto dai nostri lettori, invece, i verbi salire e scendere indicano uno spostamento che non avviene seguendo l’altitudine, ossia la direttrice alto-basso, ma la latitudine cioè quella nord-sud. Inoltre va specificato che quest’ultima accezione è differente anche rispetto a quella che questi verbi assumono quando descrivono lo spostamento di entrata e uscita da un mezzo di trasporto (la barca, la bicicletta ma soprattutto il treno, la metro, il tram) del tipo sono sceso/salito a Milano (ossia ‘sono sceso/salito dal/sul treno alla stazione di Milano centrale’). Invece, come dicevamo, le accezioni che vogliamo trattare si basano su uno spostamento che avviene nel senso della latitudine, quindi da nord a sud o viceversa; esse non sono segnalate esplicitamente né dal GDLI né dal Sabatini-Coletti mentre sono state inserite nel GRADIT (ediz. del 2007 sotto la quarta accezione di salire e scendere) e nel Devoto-Oli 2023 (seconda accezione di salire e settima di scendere):
salire […] 4. v.intr. (essere) spostarsi in un luogo posto più a Nord: da Lecce sono salito a Milano
scendere [..] 4. v.intr. (essere) estens., spostarsi in un luogo posto più a sud: i normanni scesero in Italia
salire. […] 2. Spostarsi verso un luogo più settentrionale (+ a, in, anche + da): Esempi salire da Salerno a Torino, salire in Francia.
scendere […] 7. Recarsi in un posto situato più a sud (+ a, in, anche + da): Esempi scendere in Calabria, da Roma a Palermo. Di eserciti o popolazioni, spostarsi in massa verso sud, calare. Esempi i barbari scesero in Italia.
A livello semantico, ossia del significato, possiamo dunque dire che i verbi salire e scendere usati con le accezioni a cui ci riferiamo, sono ormai entrati nell’uso comune tanto da essere stati registrati dai dizionari contemporanei.
A un livello linguistico differente, ossia tecnicamente pragmatico, i significati dello spostamento lungo la latitudine (nord-sud) rivelano il meccanismo di riproduzione mentale di uno spazio nel cervello umano. Ci spieghiamo meglio: nella comunicazione verbale, l’uomo descrive lo spazio tridimensionale, ossia quello reale, dopo averlo riprodotto virtualmente nella propria mente (spazio odologico, cfr. Mazzoleni 1985). Questa riproduzione è soggetta a scomposizione secondo i piani in cui si divide il corpo umano e si riflette nel linguaggio attraverso alcune strutture linguistiche come ad esempio su-giù, avanti-dietro (le cosiddette preposizioni avverbiali o modificatori avverbiali: Rizzi 1988, p. 508; Vicario 1999, p. 15). I significati che i nostri lettori ci hanno segnalato rivelano che la riproduzione mentale dello spazio reale, soprattutto per le grandi distanze, riflette quella che l’istruzione, attraverso la geografia e soprattutto le riproduzioni cartografiche, ci ha trasmesso; in altre parole nella mente del parlante, quando si parla di uno spostamento tra due città, di solito si riflette la riproduzione cartografica che localizza i due punti. Aggiungiamo inoltre che nel descrivere linguisticamente uno spostamento tra due città, intervengono anche fattori culturali legati al prestigio economico, sociale e linguistico di una località rispetto ad un’altra (infatti per alcuni centri della Tuscia viterbese, ad esempio, Roma si trova su, in alto, mentre cartograficamente è posta a sud, cioè giù). Nel nostro caso i significati di salire e scendere che stiamo trattando nascono soprattutto da una “coscienza” cartografica, basata sulla diversa latitudine, dei punti salienti nello spazio come città, paesi, località. Pensando alla storia delle esplorazioni nel XVI secolo, questa conoscenza cartografica sarà stata più comune presso coloro che avevano accesso alle mappe e alle carte: persone acculturate ma anche navigatori ed esploratori (Cinque 2011). Si sarà consolidata con la diffusione delle raffigurazioni cartografiche dell’orbe e con l’attribuzione del concetto di ‘su’, ‘sopra’ al nord e ‘giù’, ‘sotto’ al sud (si legga la risposta di Claudio Iacobini a proposito di salire su e scendere giù). Non entrando nel merito di questioni geografiche, a livello comunicativo avviene proprio questo: la condivisione di conoscenze diffuse presso la maggior parte della popolazione (la conoscenza cartografica e l’attribuzione del concetto di ‘su, sopra’ al nord e di ‘giù, sotto’ al sud) crea la base necessaria affinché questi significati di salire e scendere risultino trasparenti e condivisibili per la maggior parte dei parlanti.
Passiamo ora al concetto di origo cioè del punto di riferimento dello spazio riprodotto: perché si dice comunemente salire a Milano e non scendere a Milano? Perché si dice più comunemente scendere a Palermo e non salire a Palermo? Dipende tutto dall’origo ossia dal punto in cui avviene la comunicazione. Se ci si trova in un punto situato più a sud di Milano è normale dire salire a Milano e questa situazione è più probabile di quella contraria visto che Milano, nella penisola italiana, è situata a nord. Lo stesso vale per Palermo che si trova a sud: la maggior parte della popolazione italiana vive a nord di Palermo. Negli esempi riproposti dai nostri lettori, il punto di riferimento è il parlante mentre il sistema di riferimento, è l’Italia. Un italiano che abita in Svizzera o in Austria o in Germania non potrebbe dire salgo a Milano, semmai scendo a Milano. Dipende tutto dal sistema di riferimento e dal punto di riferimento che di solito è il parlante. Ma potrebbe anche non esserlo.
Pensiamo a questo esempio: mi trovo in Svizzera per lavoro e sto parlando al telefono con mia madre, che si trova a Bologna, per aiutarla con le indicazioni stradali per raggiungermi in macchina. Pur essendo io il parlante e pur trovandomi io a nord rispetto a Milano, dirò a mia madre che deve salire a Milano e non viceversa. In questo caso l’origo, cioè il punto di riferimento è dislocato sulla persona di mia madre che diventa l’oggetto pivot.
Concludendo, i verbi salire e scendere usati per indicare uno spostamento che avviene lungo la direttrice della latitudine (nord-sud) non sono sbagliati ma anzi rivelano la riproduzione cartografica che avviene nella mente dei parlanti prima che si concretizzi la comunicazione verbale. Questa coscienza geografica condivisa nasce in tempi relativamente recenti e cioè con la diffusione dell’istruzione presso la maggior parte della popolazione; grazie ad essa, una comunicazione che descrive la riproduzione dello spazio mentale, è possibile e soprattutto efficace: perché non usarla?
Profilazione razziale e maltrattamenti: l’ONU condanna le forze dell’ordine italiane. Salvatore Toscano su L'Indipendente sabato 16 settembre 2023.
In Italia gli abusi e i maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine ai danni delle minoranze sono troppi e troppo frequenti. Lo ha affermato il Comitato ONU per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, il quale ha invitato il nostro Paese ad adottare misure di prevenzione e sanzionare adeguatamente chi si rende colpevole di tali comportamenti. L’organismo delle Nazioni Unite si è attivato su segnalazione dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), prendendo atto di un generale quadro discriminatorio, arricchitosi di una certa tendenza politica a convergere verso un linguaggio razzista e d’odio e di numerose denunce relative a casi di profilazione razziale, il fenomeno per cui l’etnia di una persona influenza in modo spropositato il modo in cui le forze dell’ordine la trattano.
“Il Comitato nota con preoccupazione l’uso di sistemi di riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine che possono colpire in modo sproporzionato alcuni gruppi etnici, come i Rom, i Sinti e i Camminanti, gli africani e le persone afrodiscendenti, così come gli immigrati, e che possono portare alla discriminazione razziale”, ha scritto l’organismo ONU nelle sue osservazioni conclusive, concentrando l’attenzione sulle “informazioni relative ad un elevato numero di casi di abusi razzisti e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Il Comitato ha di conseguenza raccomandato all’Italia di includere nella propria legislazione il divieto di profilazione razziale, di garantire la trasparenza nell’uso degli algoritmi di riconoscimento facciale in modo da non compromettere il principio di non discriminazione e il diritto all’uguaglianza davanti alla legge. Il Comitato ONU ha poi invitato il nostro Paese a “indagare efficacemente e tempestivamente su tutti gli episodi di profilazione razziale, abusi razzisti, maltrattamenti e uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine e garantire che i responsabili siano perseguiti e, se condannati, puniti con sanzioni adeguate”. Indagini che l’Italia dovrebbe estendere anche ai discorsi d’odio, la cui punizione è prevista dal diritto nazionale, come ricordato dagli esperti delle Nazioni Unite.
Soltanto pochi mesi fa, il diciannovesimo Rapporto Antigone aveva fatto luce sullo stato delle carceri italiane, tracciando un quadro di sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie impossibili, suicidi, violenze e torture. [di Salvatore Toscano]
«Noi, schedati solo perché neri»: la profilazione razziale è una violenza silente, anche in Italia. Prendere di mira persone in base all’etnia senza validi motivi: una pratica di polizia subdola e difficile da dimostrare. Anche perché mancano dati sulla sua diffusione, gli strumenti legislativi per arginarla e il dibattito pubblico sul tema quasi non esiste. Simone Fontana e Anna Toniolo su L'Espresso il 6 Giugno 2023
«Condanniamo fermamente la profilazione razziale e le molestie subite dai nostri colleghi nel campus». Si apre così la lettera aperta scritta il 4 maggio 2023 da un gruppo di dottorandi dello European University Institute di Fiesole, polo accademico d’eccellenza finanziato dall’Unione europea che ogni anno ospita circa 600 ricercatori provenienti da oltre 60 Paesi.
A inizio maggio, appunto, alcuni ricercatori arrivati in Italia con una borsa di studio spagnola avevano deciso di denunciare la disparità di retribuzione esistente nell’istituto e di sottoporre un report completo della situazione alla vicepremier spagnola Nadia Calviño, che in quei giorni si sarebbe dovuta trovare a Fiesole come speaker di una conferenza annuale organizzata dall’Eui. Ma la presenza di Calviño era saltata all’ultimo minuto, sostituita da un intervento registrato, e i dottorandi avevano dovuto accontentarsi di affiggere il report alle pareti del campus.
Fin qui tutto regolare. Se non fosse che l’azione ha attirato l’attenzione di alcuni agenti della Digos presenti in borghese all’evento, che hanno fermato e identificato sei persone. A finire nel mirino dei poliziotti è stata in particolare una ricercatrice che preferisce mantenere l’anonimato e che, raggiunta da L’Espresso, ha raccontato di aver fornito agli agenti il badge identificativo dell’università (un documento ufficiale rilasciato dall’Ue) senza che ciò servisse a placare la manifesta ostilità nei suoi confronti. Le forze dell’ordine hanno infatti intimato alla donna di mostrare la sua carta d’identità, l’hanno scortata fino alla postazione di lavoro dove teneva il documento e la situazione è tornata alla normalità solo dopo la verifica dei documenti. Quando un agente ha fatto sapere ai suoi colleghi che «sì, purtroppo lei lavora qui». Piccolo particolare: la ricercatrice era anche l’unica persona non bianca presente nella stanza.
È ciò che tecnicamente si definisce profilazione etnica o razziale, una pratica di polizia che consiste nel prendere di mira individui o gruppi specifici di persone in base alle loro caratteristiche e senza un giustificato motivo. Non solo le manganellate del caso di Milano dei giorni scorsi, quindi. Qui si tratta di una forma di discriminazione particolarmente subdola, perché di rado si presenta sotto forma di violenza esplicita, ma si presenta nella maggior parte dei casi come una prevaricazione invisibile e difficile da denunciare.
«Non è la prima volta che mi capita», ha spiegato la ricercatrice a L’Espresso, «ma ci sarà sempre qualcuno che metterà in dubbio che si sia trattato di profilazione razziale e di una discriminazione basata sulla mia provenienza e sul colore della mia pelle». Dello stesso avviso è anche l’avvocato Gilberto Pagani, difensore di alcune persone che hanno provato a denunciare simili abusi: «Dai dati di esperienza risulta che questo fenomeno esiste, ma è molto difficile dimostrarlo». Poiché tutto si fonda sulle testimonianze personali delle vittime. Secondo l’avvocato, la legge italiana non mette a disposizione strumenti adeguati per fronteggiare il fenomeno, che ritiene un problema strutturale delle forze di polizia.
Oltre agli strumenti legislativi, però, a mancare in Italia è anche e soprattutto un dibattito pubblico sul tema. A riempire questo vuoto, da qualche mese, ci pensa un gruppo di ragazzi e ragazze ferraresi che, in collaborazione con la Goldsmiths University di Londra, ha creato il progetto Yaya con l’obiettivo di dare voce direttamente alle vittime. «Molte persone con cui abbiamo parlato riconoscevano l’ingiustizia di essere fermate senza un motivo, ma non sapevano che avesse un nome. E questo è un problema», ha detto a L’Espresso il coordinatore italiano del progetto Shahzeb Mohammad. L’altro problema è l’assoluta mancanza di dati per descrivere il fenomeno, ragione che ha portato alla creazione del sito web del progetto: un enorme database di testimonianze dirette, che raccontano una storia di soprusi troppo spesso normalizzati.
E se i dati forniti direttamente dal ministero dell’Interno britannico (l’altra nazione interessata dal progetto) parlano di una probabilità nove volte maggiore per le persone nere di essere fermate dalla polizia, nel contesto italiano tutto è lasciato alla percezione delle vittime. Secondo un sondaggio realizzato nel 2021 dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, il 71 per cento della popolazione immigrata o afrodiscendente in Italia ritiene di aver subito un trattamento irriguardoso dalle forze di polizia; una forma d’abuso che tra gli intervistati bianchi scende al 14 per cento. Un divario di esperienze enorme che, tuttavia, non può essere supportato da alcun numero ufficiale.
Un problema nel problema, perché ciò significa che l’intero discorso pubblico sulla profilazione razziale dipende dalle voci delle persone direttamente interessate, sottorappresentate nei media e molto spesso private di diritti fondamentali. Come testimonia l’esperienza dello stesso Mohammad, 25 anni, arrivato in Italia quando ne aveva 13, eppure ancora privo di cittadinanza. Oggi si batte per dare voce a storie come la sua, come quelle della ricercatrice di Fiesole o di milioni di persone che ogni giorno subiscono questa violenza silenziosa. Storie che si somigliano, perché sono prodotte dallo stesso sistema di potere, e che a oggi rappresentano l’unico strumento per comprendere la reale portata del fenomeno.
Da repubblica.it mercoledì 2 agosto 2023.
Siparietto tra un contestatore e il presidente della Regione Veneto Luca Zaia alla festa della Lega Romagna in corso a Cervia. "Vai a lavorare", urla un uomo passando dietro al palco dove parla il governatore. Lui risponde: "E tu che lavoro fai?". Allontanadosi, il contestatore risponde: "Il muratore". Quindi Zaia prosegue rivolgendosi alla platea. "La mia prima partita Iva - dice - l'ho fatta a 18 anni. Sono figlio di un meccanico e di una casalinga che mi hanno educato al rispetto. Questo signore non ne ha". E aggiunge: "Dall'accento non mi pare uno della Romagna, questo".
Sinistra, amnesie storiche: quando il Partito comunista invocava l'Autonomia. Francesco Carella su Il Riformista il 27 giugno 2023
Tra le tante costanti della vita politica del nostro Paese ve n’è una che affonda le radici addirittura nell’epoca preunitaria. Infatti, la riflessione sui rapporti fra lo Stato centrale e il sistema delle autonomie locali è al centro del dibattito fin dal 1851, quando Carlo Cattaneo scrisse che «il federalismo è l’unica via della libertà». Il teorico degli “Stati Uniti d’Italia” ha influito non poco sulla formazione della nostra classe politica dall’Unità ai giorni nostri. In tal senso, si può dire che vi è un lungo filo che parte da Luigi Carlo Farini, esponente di spicco della Destra storica, e raggiunge Roberto Calderoli, padre del Disegno di legge sull’autonomia differenziata.
Il ministro Farini nell’agosto 1860, dopo avere ricevuto l’imprimatur di Cavour, propose di conciliare «l’autorità centrale dello Stato con le necessità dei comuni, delle province e dei centri più vasti». Se, però, per il progetto Farini e subito dopo con quello del suo successore all’Interno Marco Minghetti gli ostacoli che ne impedirono la realizzazione avevano un fondamento storico rilevante (la fragilità di uno Stato giovane e la spinta disgregatrice lanciata nel Mezzogiorno dal brigantaggio) per ciò che riguarda la riforma del ministro Calderoli le ragioni sembrano meno nobili e più legate a un approccio demagogico da parte di una sinistra che ha dimenticato la sua stessa storia. Vale la pena di ricordare a Elly Schlein che la questione dell’autonomia era già al centro dell’attenzione di Palmiro Togliatti ed è sempre stata presente nel dibattito politico interno al Partito comunista. Del resto, già nel lontano 6 novembre 1975 in un’intervista a “La Stampa” il presidente della regione Emilia Romagna Guido Fanti individuava nella «forma decentrata dello Stato l’unica possibilità per il Paese di uscire dalla crisi che stava attraversando».
Egli propose di lavorare attorno a un «progetto di aggregazione tra le cinque regioni della Valle Padana che avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale in una politica di programmazione regionale e nazionale». Un altro leader di primo piano del Pci, Renato Zangheri, nel corso di un dibattito parlamentare sulle riforme istituzionali nel maggio 1988, afferma che «il Pci auspica un energico decentramento legislativo con una reale rivitalizzazione degli organismi locali per mezzo di una concreta autonomia finanziaria e impositiva». Lo spartito non muta con il Pds. Il 12 dicembre 1994, in assemblea, il segretario Massimo D’Alema presenta «il federalismo come l’unico strumento in grado di realizzare una nuova unità del Paese». A rileggere le polemiche delle ultime settimane vengono in mente le parole del meridionalista Guido Dorso: «Occorre augurarsi che non ci siano più cervelli che concepiscano l’unità nazionale, sacra ed inviolabile per tutti gli italiani, come mezzo per continuare con lo sgoverno attuale». Quei cervelli sono ancora in mezzo a noi pronti a fare danni.
Antonio Giangrande: Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!
Lo sproloquio del saggista e sociologo storico Antonio Giangrande. Da far riflettere…
2 e 3 giugno: Si festeggiano il giorno della Repubblica ed il giorno della libera circolazione tra regioni.
Il tutto sotto diktat della Padania.
I Padani hanno voluto l’Unità d’Italia per depauperare l’Italia meridionale.
I Padani comunisti hanno voluto la Repubblica per continuare a saccheggiare l’Italia Meridionale.
I Padani con le sedi legali delle loro aziende nei paradisi fiscali vogliono continuare a dettar legge con la scusa della secessione.
L’Italia divisa in due.
La violenza sulle donne non è una questione geografica. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.
È facile che nei talk show sfugga una frase infelice. È capitato a Italo Bocchino ospite di «Otto e mezzo». Si parlava dell’omicidio di Senago, della violenza sulle donne, di problemi culturali. Bocchino se ne esce con questa affermazione: «Qualche tempo fa c’era più rispetto per le donne in una società matriarcale come quella del Sud Italia che io conosco bene».
Il napoletano Bocchino dovrebbe conoscere bene la celebre storia della Baronessa di Carini, prima vittima illustre del delitto d’onore. Dovrebbe conoscere bene la storia di Franca Viola, che nel 1965 fu rapita all’età di 17 anni da un mafioso locale e poi violentata, malmenata e lasciata a digiuno, ma che non accettò la «paciata», il fatto compiuto e le nozze riparatorie.
Matriarcato o retorica del matriarcato? Dovrebbe sapere che solo nel 1981 sono stati aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, due lasciti legali del Codice Rocco di epoca fascista. Forse il vero rispetto nei confronti delle donne è iniziato con la cancellazione di quelle assurde norme.
Quanto a violenza, il delitto di Senago ci ricorda che ora non c’è differenza tra Nord e Sud; la differenza, se mai, è tra civiltà e barbarie. Da sempre, e in tutte le culture, la sopraffazione accompagna il mito delle virilità: che è l’ultimo rifugio di chi trasforma la propria miseria in brutalità.
Estratto da lastampa.it il 19 marzo 2023.
«Il caso dell'esclusione da una scuola in lingua tedesca della provincia autonoma di Bolzano di un bambino, a seguito di un test linguistico, entra in contrasto con i principi costituzionali che prevedono l'erogazione dell'educazione scolastica senza limiti e non condizionati da alcun test preventivo ed appare grave che ciò sia avvenuto nell'ambito di una scuola dell'obbligo».
Lo dichiara il capogruppo di FdI in Commissione affari costituzionali della Camera Alessandro Urzì. In Alto Adige vige il principio dell'insegnamento nella madre lingua (tedesco, italiano oppure ladino). Soprattutto nei centri urbani le scuole di lingua tedesca registrano però un grande afflusso anche di alunni che non sono di madre lingua tedesca.
«Mi sono per questo rivolto al ministro per l'istruzione e il merito Valditara - aggiunge Urzì - per sollecitare una profonda riflessione anche a livello nazionale su quanto accaduto e per accertare responsabilità e conseguenze di questo atto»
[…] «Il tema - conclude Urzì - è impegnarsi acchè siano le scuole in lingua italiana a garantire la più ampia offerta di insegnamento in lingua tedesca offrendosi come luogo di educazione per la formazione completa sul piano anche plurilinguistico degli alunni garantendo la piena risposta a tutta la domanda. In questo senso l'appello al ministro Valditara per studiare di concerto con le autorità locali la più ampia formazione e reclutamento di personale docente plurilingue adeguato alla richiesta altoatesina», conclude Urzì.
Estratto dell'articolo di Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 16 marzo 2023.
Vuoi studiare in una scuola di lingua tedesca a Bolzano? Benissimo, ma potrai farlo solo se superi un esame di ammissione. […], afferma Johanna Ramoser, l'assessore comunale all'Istruzione dell'Svp nella città di Bolzano, […] In provincia di Bolzano esistono tre distinti sistemi scolastici (di lingua tedesca, italiana e ladina), diversi per organizzazione funzionale e amministrativa, in base all'idioma parlato.
La popolazione scolastica è distribuita per un 72 per cento nella scuola tedesca, 25 in quella italiana e il tre per cento in quella ladina. Ma secondo l'ultimo censimento del 2011, i numeri sono un po' differenti riguardo alla popolazione: oltre i due terzi degli abitanti (69,41%, quindi leggermente inferiore rispetto agli studenti) sono di madrelingua tedesca, il 26,06% italiana (ma con una punta del 73,80% nella città di Bolzano), e il restante 4,53% ladina[…]
I numeri sono cambiati molto nel corso della Storia. Nel 1880 i tedeschi rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, con il 90,6% degli abitanti, e gli italiani solo una esigua minoranza (il 3,4%), inferiori persino al gruppo ladino (4,3%).
Queste cifre sono rimaste più o meno invariate sino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando cominciò ad aumentare la percentuale dei nostri connazionali (16,2% nel 1921) per crescere poi considerevolmente con l'italianizzazione voluta dal fascismo, arrivando a toccare il 35% della popolazione.
La situazione si può dire che è rimasta praticamente stabile fini agli Anni Novanta, quando la rappresentanza degli abitanti che parlano la nostra lingua è scesa attorno al 26%, attestandosi da allora sempre su questa linea. […]
«La lingua tedesca va garantita nelle scuole di lingua tedesca», ha detto l'assessore all'Agenzia Italia, «dove ci sono sempre più classi frequentate da bambini che parlano solo l'italiano, con la inevitabile conseguenza che i docenti sono costretti a rallentare i programmi perché devono prima insegnare la lingua. Non è una questione etnica, ma un problema quotidiano a cui si deve trovare una soluzione».
«[…]E non è un problema che riguarda solo il tedesco. Nelle vallate dell'Alto Adige il livello di conoscenza dell'italiano è molto basso, e anche questo non va bene».
Una ragione però ramoser ce l'ha. Gli psicologi Johnson e Newport hanno dimostrato in una loro ricerca che «il bilinguismo viene raggiunto dal bambino solo nel caso in cui l'acquisizione sia avvenuta prima del settino anno». Ma allora non sarebbe meglio, più di un esame di ammissione, realizzare scuole infantili che insegnano il tedesco già nell'età dell'asilo?
Estratto dell'articolo di Marco Angelucci per corrieredelveneto.corriere.it il 16 marzo 2023.
[…] In questi giorni infatti il Consiglio regionale del Trentino Alto Adige sta discutendo la legge che aumenta le indennità dei consiglieri di circa 800 euro al mese. Primo firmatario il presidente del Consiglio Josef Noggler che parla di una legge che vuol far risparmiare le casse regionali eliminando gli adeguamenti automatici all’inflazione.
Il risparmio però è solo sulla carta: la norma infatti taglia l’indennità tassata (da 10.400 a 7.700 euro mensili) ma triplica i rimborsi spese esentasse. Il risultato è che la Regione spenderà meno di Irpef ma incasserà anche meno visto che, in virtù dell’Autonomia, i nove decimi delle tasse rimangono sul territorio. […]
La ciliegina sulla torta è che il presidente si è scritto una legge su misura. Il ddl, che al momento è in commissione e sarà discusso in aula nella sessione di aprile, infatti individua due categorie di eletti: quelli che vivono a meno di 75 chilometri dalla sede del Consiglio e quelli che risiedono a più di 75 km. I primi hanno diritto ad un rimborso forfettario di 2.100 euro al mese, i secondi di 2.900. Inutile dire che il presidente abita a 80 km dal capoluogo e dunque ha diritto al rimborso più generoso senza nemmeno bisogno di documentare le spese visto che i rimborsi sono forfettari.
“Una legge truffa, irricevibile” tuona Paul Koellensperger, leader del partito di opposizione team K che si prepara a dare battaglia in commissione […]
Elezioni, clamorosa gaffe di Majorino sulla Calabria. Occhiuto lo spiana: “È un cretino”. Il Tempo l’08 febbraio 2023
Una frase che ha scatenato un putiferio. Pierfrancesco Majorino, candidato presidente della Regione Lombardia per il centrosinistra e M5S nelle elezioni che si terranno nel weekend si è scusato per una gaffe clamorosa sulla Calabria fatta, come lui stesso riferisce, nel corso di una trasmissione televisiva. Da qui un video, diffuso dal suo staff in cui l’ex eurodeputato del Pd fa mea culpa. «Volevo chiedere scusa per una espressione un po’ infelice che ho usato questa mattina in una trasmissione televisiva nella quale parlavamo delle difficoltà della Regione Lombardia, nel quadro di una riflessione sulle politiche di sviluppo e culturali. Ho detto che ‘La Lombardia non è come la Calabria’, ed è sembrato quasi che io mi riferissi, perché l’ho detto male, ai cittadini calabresi, alla loro voglia di fare, ai loro talenti. Ragazzi e amici calabresi, scusate, non intendevo assolutamente offendere la vostra creatività e forza. Anzi - chiude il messaggio di scuse Majorino - credo che Lombardia e Calabria debbano collaborare ancora di più su politiche per lo sviluppo, culturali e su buone politiche sulla sanità per tutti, un tema grandissimo. Ho sbagliato e quindi, chiedo scusa».
Le frasi di Majorino hanno fatto andare su tutte le furie il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, che gli ha risposto per le rime su Facebook: «La Regione Lombardia non è la Calabria, è una regione che ha grandi potenzialità, un sacco di gente che si dà da fare, ha tante persone sul territorio impegnate in progetti sociali, culturali. Questo - dice Occhiuto mentre vede il video del candidato della sinistra - è proprio scemo. Ecco come simili personaggi disprezzano il Sud. Questo è un tale che si chiama Pierfrancesco Majorino, è candidato alla Regione Lombardia ma è soprattutto un cretino, perché non sa che anche la Calabria, come la Lombardia, ha tante opportunità, tante possibilità, e ha tante persone che vanno a lavorare e che meritano rispetto. Meritano anche il suo rispetto, lui non lo sa perché evidentemente è proprio un cretino. Quindi, Majorino, come dicono i miei amici lombardi, lascia stare la politica, va a lavurà».
Pure Franco Lucente, consigliere del gruppo Fratelli d’Italia in Regione Lombardia, si è scagliato sul candidato di Pd e M5S: «Ho sentito le raccapriccianti parole contro la Calabria e i calabresi da parte di Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza di Regione Lombardia. Trovo assurdo dovergli spiegare che anche la Calabria è una regione con grandi opportunità e possibilità, che anche i calabresi, esattamente come i lombardi, si impegnano e lavorano assiduamente. Assurdo, ma a quanto pare necessario, date le sue frasi piene di insensati pregiudizi razzisti e antimeridionali. Mi chiedo come si possa anche solo pensare che sia adatto al ruolo di Presidente di Regione Lombardia. Una persona che manca di rispetto senza remore, che denigra senza neanche conoscere la terra e le persone di cui sta parlando, non è una persona che ha i valori giusti per governare e assicurare un futuro ottimale ai cittadini». Una frase infelice che ha fatto finire Majorino al centro del ciclone delle polemiche.
Se anche il dem Majorino scivola sul cliché dei calabresi scansafatiche. Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Regione Lombardia. “La Regione Lombardia non è la Calabria”: il clamoroso autogol televisivo del candidato Pd-M5S. Che poi si scusa pubblicamente. Rocco Vazzana su Il Dubbio l’8 febbraio 2023
«La Regione Lombardia non è la Calabria, è una Regione che ha grandi potenzialità, ha un sacco di gente che si dà da fare, ha tante persone nel territorio impegnate in progetti sociali e culturali». A parlare così in campagna elettorale non è quel Mario Borghezio che nel 2012, dopo una nevicata epocale a Roma, disse: «La caduta della neve non è un fatto così epocale. Da Roma in giù manca la volontà e la voglia di lavorare».
No, il vecchio riflesso leghista anti terùn per una volta non c’entra niente. Perché a scivolare sul cliché del calabrese scansafatiche è nientepopodimeno che Pierfrancesco Majorino, candidato dem (della sinistra dem) alla presidenza della Regione. Una caduta di stile dovuta, si spera, alla stanchezza della campagna elettorale arrivata ormai agli sgoccioli. Un autogol clamoroso, a pochi giorni dal voto, visto che la Lombardia potrebbe definirsi la seconda regione calabrese d’Italia per numero di residenti. Un brutto segnale, in epoca di autonomie differenziate vissute al Sud come un tentativo di cristallizzare per legge la divisione del Paese.
«Volevo chiedere scusa per una espressione un po’ infelice», prova a recuperare dopo il patatrac Majorino. «Questa mattina, in una trasmissione televisiva nella quale parlavamo delle difficoltà della Regione Lombardia, ho detto che la Lombardia non è come la Calabria ed è sembrato che mi riferissi ai cittadini calabresi, alla loro voglia di fare, ai loro talenti», si sforza di spiegare il candidato del Pd e del M5S. «Assolutamente amici calabresi scusate, non intendevo offendere la vostra creatività e forza, e anzi credo che Lombardia e Calabria debbano collaborare di più per buone politiche di sviluppo e culturali, per la sanità per tutti. Ho sbagliato e chiedo scusa», chiosa Majorino, quando ormai però le uova sono tutte rotte nel paniere. E a replicare ci pensa il governatore calabrese Roberto Occhiuto, che su Facebook scrive: «Stavo lavorando e mi sono fermato perché mi hanno portato questo video». E dopo aver lanciato il filmato, Occhiuto commenta senza mezzi termini: «Ma questo è proprio scemo». Poi la battuta finale: «Majorino, come dicono i miei amici lombardi, lascia stare la politica, va a lavura'».
Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” mercoledì 2 agosto 2023.
«Dovete tener conto dell’evoluzione dei modelli familiari e sociali e rispettare il principio costituzionale di uguaglianza di genere femminile e maschile». L’ha sancito la Corte d’appello di Venezia con una sentenza che di fatto condanna il maschilismo perdurante in certe montagne venete, dove vengono negati alle donne i diritti sulle proprietà collettive. Parliamo di Regole, di queste antiche istituzioni che nelle Dolomiti governano da secoli i beni fondiari indivisi come boschi e pascoli attribuendo ai soli figli maschi ogni prerogativa ereditaria.
La sentenza riguarda in particolare la Regola di Casamazzagno, nel Comelico, ma stabilisce un principio generale che coinvolge l’intero territorio, compresa l’area più famosa e tradizionalista di Cortina d’Ampezzo che si è sempre opposta a ogni tentativo di emancipazione. «É il momento di cambiare — rilancia ora Stefano Lorenzi, il segretario generale delle Regole ampezzane che da anni vorrebbe adeguare lo statuto all’evoluzione sociale —. Da noi è dura perché c’è uno zoccolo duro di intransigenti.
Questi regolieri temono che attraverso la donna arrivi il forestiero perché se si sposa con un uomo che non è del luogo, i figli potrebbero portare un cognome non originario. Insomma, qui vogliono evitare il rischio che gli Esposito sostituiscano i Ghedina. Naturalmente è un timore infondato e anacronistico nella società attuale che riconosce oltretutto il doppio cognome. Però questa cosa da noi è ancora un tabù, mi auguro che i nostri si diano una svegliata».
Non è questione di poco conto. Le proprietà delle Regole in quest’angolo paradisiaco d’Italia supera infatti l’80% del territorio e le antiche famiglie, circa 1.100, rappresentano il 40% dell’intera popolazione residente (un secolo fa erano il 95%). «Hanno paura di perdere l’identità e non si rendono conto che invece la perdono se non si adeguano. Il numero dei nuclei storici è infatti in costante calo, visto che si fanno sempre meno figli e che si estinguono quelli senza una discendenza maschile.
[…] «Il problema è che le Regole non li fanno propri pretendendo una sovranità che non c’è. Loro dicono che le donne sono ammesse ma in realtà è ammessa la partecipazione solo nel caso in cui non si sposino o prendano per marito un residente che deve essere pure regoliere. È mai possibile che una ragazza, se non vuole perdere i diritti, debba sposare un indigeno? E che la Regione […] taccia?». […]
"Razzismo in Italia". Cosa si nasconde dietro la propaganda nordafricana. Fomentare gli animi e suscitare sentimenti vendicativi da sfogare in Italia: sembra essere questo l'obiettivo della propaganda contro l'Italia. Francesca Galici il 27 Giugno 2023 su Il Giornale.
Ci sono molti punti ancora oscuri nella propaganda nordafricana contro il nostro Paese. Se da un lato, infatti, i migranti vengono spinti a raggiungere l'Italia con argomenti capaci di far presa sulla loro cultura, l'Italia viene ripetutamente accusata di razzismo. Critiche, anche forti, al nostro Paese arrivano soprattutto dai migranti subsahariani, secondo i quali l'Italia favorirerebbe quelli magrebini, quindi i tunisini e i libici. Le illazioni contro il nostro Paese sono, ovviamente, frutto di costruzioni falsate della realtà per incutere nelle persone l'idea che nel nostro Paese ci sia un sistema di accoglienza che privilegia gli uni piuttosto che gli altri. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, visto e considerato l'incremento dei reati compiuti da stranieri in Italia.
"Addestrati dall'Italia...". L'ultima bufala della propaganda africana
Durante la conduzione del nostro reportage tra le chat e i gruppi di migranti e trafficanti, da qualche tempo ci imbattiamo in messaggi di questo tipo. Lampedusa sembra essere uno dei bersagli preferiti in questa propaganda, che sembra avere l'obiettivo di fomentare gli animi dei migranti contro il nostro Paese prima della loro partenza. Una strategia quasi martellante, che punta a far nascere in loro, solitamente giovani e particolarmente suscettibili, un sentimento di rivalsa e di vendetta, da portare a termine all'arrivo in Italia.
La strategia sembra essere chiara in questo momento: sull'onda di quanto accade in Tunisia, dove i locali sono esausti dalla presenza eccessiva di migranti sahariani, si cerca di aumentare il sentimento avverso nei loro confronti nei subsahariani, convincendoli che in Italia verranno trattati diversamente dai tunisini e dai libici. In questa costruzione di propaganda pericolosa e falsa, i burattinai che muovono i fili della protesta cadono spesso in errori clamorosi, come quello legato al video in allegato a questo articolo, che vede protagonista la motovedetta Cp 278 della Guardia costiera italiana. Nel commentarlo nel contesto propagandistico, infatti, chi lo pubblica scrive: "Ecco un barcone di migranti tunisini che viene fatto passare dalla Guardia costiera tunisina, che va a intercettare un barcone di subsahariani. Questo è normale?".
Nei commenti, però, viene ribaltata la situazione e a essere accusata di razzismo, stavolta contro i tunisini, sono gli italiani: "Guardate la bandiera issata sulla nave. Sono italiani, hanno salvato prima i neri dei tunisini". E poi ancora: "Razzismo in Italia contro i tunisini, che dev'essere invertito". Tralasciando il verbo "salvare" utilizzato per una barca perfettamente galleggiante, con migranti talmente tranquilli da avere la prontezza di riflessi di riprendere l'intervento della Guardia costiera, il concetto che sta passando è: in Italia c'è razzismo. E lo dicono da un barcone diretto a Lampedusa che qualche minuto dopo ha ottenuto l'intervento dell'assetto italiano. C'è poi la questione Lampedusa, già presa di mira con commenti vergognosi contro l'Italia: "Quello che sta succedendo a Lampedusa nei centri di detenzione è grave. Tunisini e libici sono favoriti rispetto ai subsahariani, che vengono fatti crollare e fanno passare i magrebini". Il fenomeno potrebbe assumere contorni più gravi, con conseguenze irrecuperabili.
Estratto del'articolo di Claudia Brunetto per repubblica.it il 16 maggio 2023.
A metà giugno lascerà il posto di lavoro e la regione che ha amato. Ha cercato di stringere i denti fino all'ultimo, ma alla fine ha firmato le dimissioni. Corrada Ambrogio, 43 anni, medico chirurgo originaria di Avola, da alcuni anni impegnata in un ambulatorio a Villa Ottone, frazione di Gais che conta mille anime in val Pusteria, dice così addio al sogno coltivato da tempo di vivere e fare il suo lavoro in Alto Adige e soprattutto di "sentirsi parte di una piccola comunità in mezzo alla natura, circondata dai caprioli".
L'ha voluto fortemente, ha studiato la cultura e le tradizioni del posto, ha vestito in più occasioni gli abiti tirolesi e ha anche un tatuaggio in lingua tedesca. "Questo non è bastato a farmi sentire una di loro", racconta la dottoressa.
Ambrogio, cosa è andato storto?
"Pensavo davvero di potermi integrare in un piccolo centro così come avevo sempre desiderato. Ma alla fine mi sono arresa all'evidenza di essere considerata sempre "l'italiana" in un territorio che, invece, troppo spesso pensa di essere fuori dall'Italia. Eppure ho studiato sodo per conquistare un posto da medico di base nella provincia più settentrionale del Paese: due anni di tedesco a Vienna raggiungendo il livello di conoscenza C1 e in più visto che per lavorare negli uffici pubblici serve il patentino di bilinguismo ho dovuto sostenere pure un esame di italiano. Il problema sono stati i dialetti".
In che senso?
"A una mia paziente fortemente malata che parlava soltanto dialetto stretto del posto e con cui non riuscivo a comunicare in alcun modo ho consigliato di cambiare medico, ma proprio per il suo bene, perché potesse trovare qualcuno che riuscisse a seguirla come meritava. Ci ho provato in tutti i modi, ma non riuscivamo a dialogare. Questo episodio, per esempio, è stato strumentalizzato. Mi è capitato anche che alcuni colleghi durante le riunioni parlassero soltanto dialetto stretto. Amo l'Alto Adige, i paesaggi, la cultura del posto, ho partecipato alle feste tradizionali vestita con abiti tirolesi, mi sono sposata a Gais con mio marito originario del Trentino, ho un tatuaggio in lingua tedesca che dice "Ama sopra ogni cosa", ma non è bastato".
Perché si è innamorata dell'Alto Adige?
"L'ho conosciuto come meta di vacanze e l'ho trovato incantevole. La natura, gli ampi spazi, gli animali che guardi dalla tua finestra, piccole comunità ancora a misura d'uomo. Quando studiavo tedesco a Vienna ho avuto una proposta per lavorare lì, ma desideravo appunto vivere in un piccolo centro e sentirmi parte di una comunità e non ho accettato".
[…]
"Mi sono ritrovata al centro di articoli delle testate locali tacciata come "l'odiatrice dei tedeschi", "l'italiana dalle aperte simpatie neofasciste per Giorgia Meloni", "l'italiana che nega ai pazienti l'uso della lingua tedesca". Il distretto sanitario ha cominciato a cambiare atteggiamento nei miei confronti fino a consigliare ai miei pazienti di cambiare medico dicendo che io non sarei più tornata quando, invece, ero stata costretta a prendermi un periodo di pausa per malattia. Intanto, però, mi hanno fatto perdere 400 pazienti".
Ha subito minacce, danneggiamenti?
"Lo scorso ottobre, durante la festa del paese a Villa Ottone, l'ambulatorio che si trova nel seminterrato di una scuola è stato vandalizzato. Ho trovato le piante di limoni sradicate e la terra sulle pareti, i boccali di birra sulle maniglie, i fili della luce tagliati, urina e vomito ovunque. Anche la targa con il mio nome danneggiata. Anche in quel caso ho scritto un post di denuncia su Facebook e la cosa non deve essere stata gradita. […]".
"[…] Se si viene in Alto Adige come turista è tutto bellissimo, tutto pulito e pieno di servizi. Un'altra cosa è viverci e lavorarci soprattutto se si arriva dal profondo sud come me. Adesso mi trasferirò in un'altra regione, probabilmente la Lombardia".
«La vicina a Cremona mi chiama ancora "terrona"», barese insultata scrive di nuovo a Decaro. «È una battaglia contro il razzismo». Il 7 luglio ci sarà l’udienza preliminare a carico dell’anziana vicina che dovrà rispondere di lesioni, violazione di domicilio e atti persecutori. FRANCESCO PETRUZZELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Maggio 2023.
Il caso è diventato ormai virale. Circola sulle principali testate nazionali, alimenta i dibattiti televisivi e muove anche la politica. Il sindaco Antonio Decaro monitora la vicenda non escludendo nelle prossime ore l’invio di una lettera ufficiale con la quale manifestare solidarietà e vicinanza a nome di tutta la città. Non si spengono i riflettori sulla famiglia pugliese (moglie barese, marito tarantino e figlia 21enne) emigrata 22 anni fa a Cremona e da un anno oggetto di atti persecutori e di stalking da parte di una vicina di casa 82enne, che non sopporta più gli inquilini perché «meridionali», invitandoli più volte in modo sprezzante a tornarsene nella loro «Beri».
Una vicenda raccontata in esclusiva e in anteprima dalla Gazzetta del Mezzogiorno lo scorso 12 maggio all’indomani della lettera che la 55enne Vera, nata e vissuta per anni al quartiere Libertà sino al trasferimento in Lombardia, ha inviato nei giorni di San Nicola al sindaco Decaro per manifestare tutto il suo dolore «devastante» nel sentire «sfregiare la mia amata e incantevole città in modo sprezzante da chi non la conosce e al solo scopo di ferirci».
Atti persecutori, aggressioni e insulti iniziati nel marzo di un anno fa, messi a verbale in numerose denunce e che il prossimo 7 luglio apriranno l’udienza preliminare del processo a carico dell’anziana cremonese che dovrà rispondere di lesioni personali, violazione di domicilio e atti persecutori. Un anno insomma di vessazioni, contatti fisici e frasi sprezzanti del tipo «andatevene al Sud che magari con i vostri simili vi capite», «meridionali di m…», «meglio affittare ai cinesi, ai romeni o regalarlo, che non a voi» (la signora è infatti la proprietaria di casa dell’appartamento in cui vive questa famiglia) e che hanno costretto Vera a inviare una mail a Decaro per chiedere giustizia e rispetto per l’immagine di Bari.
«Quando per l’ennesima volta ho sentito dire “Beri” non ci ho visto più. Ho pianto e ho deciso di scrivere al sindaco Decaro, sperando in una sua risposta. E non smetteremo mai di ringraziare la Gazzetta del Mezzogiorno per aver fatto luce sulla nostra storia. Qui al Nord nessuno ci ha dato ascolto», dice Vera assieme al marito Renato in una delle tante telefonate intercorse in questi giorni. La famiglia, perfettamente integrata in una «Cremona che per noi resta accogliente e meravigliosa perché qui c’è tantissima brava gente», ha inviato nelle scorse ore una seconda lettera al primo cittadino di Bari con «l’auspicio – si legge – che questa battaglia contro il becero razzismo non passi in secondo piano, ma serva per tutte le vittime di questo atavico pregiudizio, coinvolgendo gran parte dei cremonesi che non si riconoscono nelle azioni reiterate della signora (la vicina 80enne, ndr)».
Vera e il marito Renato confidano anche in un atto istituzionale di Decaro nei confronti del sindaco di Cremona Galimberti che possa, si legge ancora nella lettera, «fungere da collante tra due città che hanno comunque valori e tradizioni di accoglienza». E anche nella costituzione di parte civile del Comune nei confronti di chi ha leso l’immagine della città visto che nelle carte processuali ci sono numerosi passaggi nei quali si fa riferimento a «Beri».
Intanto ieri pomeriggio la storia è approdata sugli schermi Rai de La Vita in diretta condotta da Alberto Matano. L’inviata del programma ha cercato di parlare con l’anziana 82enne ma è stata presa a ombrellate. Toccante l’intervista a Virginia, la figlia 21enne di questa famiglia. Davanti alle telecamere e tra le lacrime ha raccontato le sue paure quotidiane, le vessazioni subite dai suoi genitori e ha ribadito l’orgoglio per le sue origini meridionali e baresi.
La vicina la insulta perché «di Beri» anche se vive a Cremona: una donna scrive a Decaro. La vittima, suo marito e sua figlia, dicono di essere oggetto di continue discriminazioni e atti persecutori da parte di una vicina di casa e proprietaria dello stabile in cui vivono. FRANCESCO PETRUZZELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 maggio 2023.
Non è una storia di panni stesi male o di classiche liti condominiali per il posto auto, i cattivi odori o la pulizia degli spazi comuni. Né una di quelle che spesso si sentono nei tribunali della tv. È, purtroppo, una storia che porta indietro nel tempo, al più becero dei pregiudizi nei confronti del Sud e della sua gente. Con frasi del tipo «tornatavene nel Meridione», «tornatevene nella vostra “Beri”». Facile poi immaginare i vari epiteti da non ripetere per «mero pudore». E se la propria città viene «ingiustamente sfregiata nel nome» e sentirlo ripetere ogni volta è «devastante», allora bisogna necessariamente farlo sapere al suo primo cittadino.
Nei giorni di San Nicola un postino (virtuale) ha bussato alla porta del sindaco Antonio Decaro con la mail accorata di una 50enne barese, residente da 22 anni a Cremona. La donna, suo marito e sua figlia, dicono di essere oggetto di continue discriminazioni e atti persecutori da parte di una vicina di casa e proprietaria dello stabile in cui vivono. Per la sola colpa, a loro dire, di essere meridionali, pur pagando regolarmente l’affitto e rispettando ogni tipo di dovere e di collaborazione condominiale.
Una vicenda, regolarmente denunciata in Procura, che il prossimo 7 luglio finirà nell’aula di un tribunale, lì in Lombardia, per l’inizio del processo.
E che questa donna emigrata al Nord e «fiera di essere di Bari» ha voluto rendere pubblica al suo Comune d’origine perché «la mia città è incantevole e non merita tutto questo atteggiamento sprezzante», perché il Sud Italia «ha bellezze incantevoli, storia, cultura» ed «un’innata accoglienza e umanità».
Chissà che Decaro non faccia un colpo di telefono a Cremona, anche solo per ribadire che si pronuncia «Bari» e non «Beri».
Cremona, anziana bagna i panni stesi degli inquilini del Sud: «Tornatevene nella vostra "Beri"». E loro scrivono al sindaco di Bari. Francesca Morandi Il Corriere della Sera il 13 maggio 2023.
La proprietaria 82enne rinviata a giudizio per stalking: in un'occasione ha inondato d'acqua i panni stesi al balcone. La mail a Decaro: «Disprezzata la nostra città d’origine»
Ventidue anni fa sono emigrati al Nord, da Bari a Cremona. Hanno preso casa in affitto in un palazzo signorile in via Cadolini, civico 2, centro storico. Proprietaria dell’intero stabile è Giuliana, classe 1940 (gli 83 anni li farà il 13 luglio). Per 21 anni, i rapporti tra gli inquilini - padre, madre e figlia – e l’anziana che nel palazzo abita, sono stati ottimi. Poi, nel 2022, di punto in bianco si sono incrinati.
«Tornatevene nella vostra "Beri"»; «Andatevene al Sud che magari con i vostri simili vi capite». È la storia di un presunto stalking condito di pregiudizi che si consuma tra panni stesi, scampanellate, intrusioni nell’appartamento, minacce e tirate di capelli. Il caso è finito in tribunale a Cremona e a Bari sulla scrivania del sindaco Antonio Decaro.
Al Nord, l’ultraottantenne Giuliana è stata rinviata a giudizio: atti persecutori nei confronti di Renato, della moglie Veneranda (detta Vera) e della loro figlia 21enne, famiglia che si ritiene stalkerizzata per la sola colpa di essere meridionale e che si è già costituita parte civile in udienza preliminare con l’avvocato Paolo Carletti. Il processo è fissato al 7 luglio prossimo.
Al Sud, il sindaco Decaro ha ricevuto una mail. Gliel’ha inviata Veneranda, 55 anni. Trentadue righe in tutto per informarlo dello stato dell’arte («Siamo vittime di stalking»). Poi, lo sfogo: «Non è tollerabile, oggigiorno, che si continui con il pregiudizio, si denigrino e discriminino persone solo perché meridionali, venga disprezzata la città d’origine di una famiglia sempre "puntuale" nell’adempimento dei propri doveri e disponibile per qualsiasi cosa».
Non ci sta, Veneranda, agli sbeffeggi dell’anziana Giuliana. Perché «la nostra Bari è incantevole. Sentire sfregiare il suo nome in modo sprezzante da chi non la conosce ed al solo scopo di ferirci, perché ci sentissimo diversi è stato davvero devastante». E lo è, incantevole, «il Mezzogiorno con la sua immensa cultura, la storia e le tradizioni millenarie, per non parlare delle bellezze artistiche, delle località stupende e della innata accoglienza ed umanità espressa quotidianamente dall’empatia della sua gente». Firmato: «Vera, fiera di essere barese».
Porta la firma del pm Vitina Pinto la richiesta di rinvio a giudizio per l’ultraottantenne signora Giuliana che, tra il 20 marzo e l’1 luglio di un anno fa, non avrebbe dato pace alla famiglia, costretta a cambiare abitudini di vita, a non invitare più gli amici a casa, a non uscire sul balcone di giorno. Quattro mesi di andirivieni delle Volanti. Tre pagine di capo di imputazione raccontano delle ripetute lamentele per il bucato steso al balcone, degli appostamenti, di cartelli attaccati sui portoni degli inquilini con le regole da rispettare, della gestione delle abitazioni dove «i panni stesi vanno ritirati, pena l’obbligo di cambiare casa».
Il 10 maggio l’anziana avrebbe afferrato un tubo e bagnato la biancheria: Renato si precipitò sul balcone: inzuppato. L’anziana lo bagnò dalla testa ai piedi, «dicendogli che l’acqua era santa e gli faceva solo bene». Ma Giuliana avrebbe anche dato a Renato del «dittatore come Putin», a sua moglie della «stregassa» («stregaccia» in dialetto cremonese), ad entrambi dei «meridionali di m…», e quanto all'appartamento «meglio affittare ai cinesi, ai romeni o regalarlo».
Il video TikTok delle tre studentesse diventa un caso: offese razziste contro una donna cinese. Matteo Castagnoli su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023
Mahnoor Euceph, regista e influencer Usa, ha ripreso sul treno da Como a Milano tre ragazze italiane che scimmiottavano una donna
Il video diventa virale subito. In meno di dodici ore si contano sedici milioni di visualizzazioni. O meglio, lo diventa dopo 9 giorni dall'accaduto quando Mahnoor Euceph, influencer e regista statunitense di origine pakistana, lo pubblica sul proprio profilo TikTok. Succede tutto su un treno il 16 aprile scorso, di ritorno dal lago di Como verso Milano. Nel filmato, due sedute più in là da Euceph, vengono riprese tre ragazze che poi si scopriranno essere italiane e studentesse universitarie. Ridono, incrociano lo sguardo dell'influencer che sta riprendendo e ogni tanto allungano la mano quasi ad indicarla. Sono in corso prese in giro poi considerate «razziste», come affermerà la stessa Euceph.
Il video diventato virale
La spiegazione di quegli attimi la fornisce l'autrice stessa del video nella descrizione del post: «Ero in treno con il mio fidanzato, per metà cinese, sua madre, appunto cinese, e suo padre. Ho notato queste ragazze ridere e parlare in italiano. Prima le ho ignorate. Ho fatto un sonnellino ma quando mi sono svegliata lo stavano facendo ancora ma con più aggressività. Allora ho chiesto se ci fosse qualche problema. Mi hanno risposto di no». Ma a quel punto, racconta sempre Euceph, iniziano gli scimmiottamenti accusati di essere discriminatori che deridevano la nazionalità del fidanzato e della madre. Ripetono «Ni hao!» («ciao» in cinese, ndr.) in un modo «odioso e razzista». Le prese in giro si affievoliscono e si trasformano in risate di gruppo solo quando l'influencer estrae il telefono per documentare la situazione, anche se «si possono ancora sentire i "Ni hao"», spiega Euceph. «In vita mia non avevo mai sperimentato un razzismo così palese», conclude.
Le scuse delle ragazze
«Spero che voi italiani possiate trovare queste ragazze». È l'auspicio finale con cui si chiude la descrizione del video su TikTok di Mahnoor Euceph. O almeno era il suo. Perché la rete dei social non tradisce e le tre giovani vengono rintracciate dagli utenti. I loro nomi, profili, università (Bicocca, Cattolica e Iulm) e luoghi di lavoro vengono resi pubblici. Addirittura qualcuno è arrivato a richiederne l'espulsione dagli Atenei.
Le giovani hanno poi raggiunto l'influencer con un messaggio di scuse. Messaggio che è stato, anche questo, pubblicato su TikTok in un video esplicativo. «Non c'era intenzione di essere razziste e siamo veramente dispiaciute». In un secondo, inoltre, spiegano che aver diffuso quel video abbia attirato bullismo nei loro confronti, «dando alle persone veramente razziste la possibilità di riversare il loro odio su di noi». Ma la risposta è stata lapidaria: «Il fatto che anche dopo essere stata svergognata pubblicamente da milioni di persone, tu stia cercando di manipolarmi mostra non solo che si tratta di scuse completamente false, ma che sapevi esattamente cosa stavi facendo».
Le reazioni delle università
Sono arrivate nel frattempo le reazioni delle università. La prima in ordine di tempo è stata la Cattolica con un post pubblicato verso le 21 di martedì sera sui propri social, in cui si prendevano le distanze dall'accaduto. «L'Università promuove da sempre il valore del rispetto e condanna ogni atteggiamento razzista e discriminatorio. L'episodio al quale fanno riferimento molti commenti apparsi in queste ore non può essere in alcun modo imputato all'Ateneo che si riserva di compiere accertamenti». Nel frattempo, i commenti sotto il post sono stati disattivati dopo il fiume di reazioni post diffusione video.
Nel pomeriggio di mercoledì, invece, sono state pubblicate le prime parole istituzionali delle altre due università coinvolte, Bicocca e Iulm, che fino a quel punto avevano limitato le interazioni sui rispettivi profili. Gli Atenei, sempre via social, hanno ribadito la loro distanza dall'accaduto, ma nel comunicato della Iulm si chiarisce che le richieste di espulsione per la propria studentessa non sono tollerabili perché «un tale accanimento nasconde in sé il germe altrettanto grave del totalitarismo».
Scandalo al social. La risata di Franti, le ragazze su Trenord e il mercato del moralismo spicciolo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Aprile 2023
Una stronzetta americana dà di razziste a tre ventenni per prendere i like. E naturalmente scatta la gara a distruggere la reputazione
Oggi è il ventottesimo compleanno di Mahnoor Euceph e, poiché una ragazza deve pur darsi dei traguardi, le piacerebbe che fosse l’ultimo in cui ne ignorate l’esistenza. L’anno scorso soffiava sulle candeline del ventisettesimo compleanno raccogliendo fondi per finanziare il suo cortometraggio, che nel frattempo ha diretto e che sta portando in giro per festival. Ma non basta.
Lo dice Chris Rock in Selective Outrage: per diventare famosi in questo secolo ci sono quattro modi. Far vedere il culo, quello funziona sempre. Commettere un’infamia (Will Smith è più famoso per il ceffone che per qualunque film). Essere eccellenti: Serena Wiliams è l’esempio che fa Rock. Ma l’eccellenza è faticosa, e quindi resta il quarto modo, il più facile: fare la vittima.
Racconta Mahnoor Euceph su TikTok che il 16 aprile era su un treno tra Milano e i laghi. Invece di concentrarsi sull’inefficienza di Trenord, si è concentrata su tre ragazze sedute dall’altra parte del corridoio, di cui otto giorni dopo ha postato un video. Ma partiamo dalla didascalia, più interessante del video.
«Mai, nella mia vita, ho visto un tale ostentato razzismo […] L’America avrà i suoi problemi con la questione razziale, ma l’Europa è vent’anni più indietro». Fa già ridere così. Mahnoor, cittadina americana, dice che l’Europa è ferma a vent’anni fa. A quando, cioè, erano sì e no trentacinque anni che l’America aveva messo fuori legge la segregazione abitativa. Siamo indietro, dice la cittadina d’un paese che fino agli anni Sessanta ha avuto campionati sportivi separati per i giocatori neri.
Ma scusate, non voglio distrarmi borbottando «ma pensa te se dobbiamo stare a sentire una che non solo è nell’età più scema ma è pure americana»: non vi ho ancora raccontato il video.
Nel video ci sono tre ragazze che ridono. C’è una scena di “Sex and the city” in cui Miranda si offende moltissimo perché, quando chiama il ristorante cinese per ordinare, li sente ridere tra di loro. È forse l’unica scena memorabile di “Sex and the city”, perché tutte siamo state così giovani e sceme da non voler passare davanti a un gruppetto, per strada o nei corridoi del liceo, per il terrore che ridessero di noi: noi sole e loro che si danno di gomito, che incubo.
Poi cresci, e capisci due cose. Quella meno importante è che a nessuno importa di te: probabilmente ridono per i fatti loro (come le cinesi del ristorante di Miranda, appunto). Quella più importante è che, se anche ridono di te, chissenefrega: cosa ti cambia? Solo che, appunto, per arrivare a capire che è irrilevante devi crescere, e il mondo in questo secolo ti fornisce un telefono con telecamera ben prima che tu sia cresciuta. Ti fornisce un telefono con telecamera e ti fa capire bene che quel telefono è un’arma.
Mahnoor lo sa, quindi ci dice che era col fidanzato e la suocera, cinesi, e che le ragazze, orrore e raccapriccio, stavano irridendo la parlata cinese. Mahnoor sa ciò che fa, e sa che nel video si vedono solo tre ragazze che ridono con la tipica stupidera delle ventenni, e quindi precisa che non le ha filmate al loro peggio, che in quel video sembrano innocue ma non lo sono (sembrano tre che ridono, ma sono il Ku Klux Klan – altra eccellenza americana). Mahnoor sa ciò che fa, e quindi la chiamata al linciaggio la esplicita: «Spero che voi italiani possiate rintracciare queste ragazze e svergognarle». È mai successo che l’internet non rispondesse a una chiamata a fare il giustiziere dilettante? Certo che no.
Martedì, le ragazze sono già state rintracciate, e la Cattolica e lo Iulm (le università dove studiano) hanno già dovuto non solo compilare i loro bravi comunicati, ma nel caso della Cattolica anche chiudere i commenti, come nei casi gravi.
L’indignazione selettiva non turba coloro che conoscono abbastanza la cultura italiana da ricordare quante volte, per spiegarci che è un infame, Edmondo De Amicis ritiene di precisarci che Franti ride. Non siamo gran patria di cancel culture, ma il livello di gravità di tre che ridono è percepito altissimo, nel paese fondato su quel romanzo la cui morale sta nella frase «Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise».
All’altezza di martedì mattina, Mahnoor ripostava gongolante il dissociarsi da una delle ragazze di una ditta produttrice di racchette da padel che la stessa utilizza. Siamo quelli che s’indignano se Franti ride, ma siamo anche quelli della commedia all’italiana: un paese in cui difficilmente perdi il lavoro per aver violato la morale di Instagram, ma in cui le racchette da padel prendono tosto le distanze.
Ci sono molti aspetti di questa storia che sono indicativi dello spirito del tempo. Uno è la curva d’apprendimento piattissima.
Siamo quasi a maggio 2023, sono otto anni da quando Jon Ronson ha pubblicato “I giustizieri della rete“, due da quando io ho pubblicato “L’era della suscettibilità”, tre dal caso di Central Park: non abbiamo ancora capito che linciare la gente on line è quantomeno imprudente.
D’altra parte sono anche dieci anni da stamina, ovvero da quando un programma televisivo non ha esitato a fingere esistesse una cura per una bambina terminale (che cos’è la cialtroneria, se in cambio ti danno lo share); e ne sono passati sei da quando lo stesso varietà ha deciso di demolire la reputazione d’un regista trattato come il mostro di Firenze: più i programmi che s’investono del compito di fare giustizia fanno pasticci, meno capiamo che il metodo «intanto ti lincio e poi si vedrà» non funziona.
E infatti un altro elemento è che Mahnoor mica fa una piazzata a quelle che la irridono, come Miranda al ristorante: Mahnoor prende il telefono e le filma. Giacché, e questo è l’elemento secondo me più interessante, abbiamo convinto intere generazioni che la cosa più grave ch’io possa fare non sia ucciderti ma ridere di te; e la seconda cosa più grave non sia prenderti a cazzotti, ma distruggerti la reputazione.
Prima dei social, l’ultima volta che la reputazione aveva contato tanto era ai tempi della “Lettera scarlatta” – il cui autore, pur scrivendo nell’800, aveva dovuto ambientare il suo romanzo duecento anni prima, ché l’800 era troppo emancipato per le stronzate reputazionali. E infatti in “Via col vento”, ambientato a metà Ottocento, Rossella O’Hara vedova un po’ troppo allegra si preoccupa della reputazione per circa due secondi, poi continua a ballare.
Poi siamo arrivati noi, il secolo più regressivo della storia dell’uomo, e abbiamo convinto le Mahnoor del mondo che, se l’internet si convince che sei razzista, sei rovinata per sempre. E infatti una delle ragazze le scrive, a Mahnoor. Mica chiama un avvocato per sapere se valga la pena fare una rogatoria e denunciare questa stronzetta americana che le dà della razzista per prendere i like, no: le scrive per spiegarle che non è razzista.
Gongolando come chi è in una posizione di forza, Mahnoor pubblica i suoi messaggi, dicendo che ennò, non basta, non sei davvero pentita. Perché non basta mai, che è la ragione per cui non bisogna spiegarsi mai. Ma, soprattutto, non bisogna cedere mai alla tentazione di sentirsi così importanti da pensare che, domani, qualcuno si ricorderà di noi, che l’altroieri eravamo lo scandale du jour.
«“Franti, tu uccidi tua madre!”. Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise». Noialtri ci voltiamo a guardare le tre studentesse che dimenticheremo domani, ma pure Mahnoor, la Meghan Markle dei treni locali. Mahnoor che, se spera di diventare Scorsese (o anche solo la Ferragni) con questi mezzucci, sta fresca: sai quanta concorrenza c’è, ragazza mia, al mercato del moralismo spicciolo e dei sett’etti di gogna per sett’etti di like?
Saletta riservata. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.
La signora Cecilia Bonaccorsi, in vacanza a San Martino di Castrozza con la famiglia, ha raccontato sui social di aver lasciato l’albergo dopo essere stata invitata dalla proprietaria a continuare la cena in una saletta riservata, dal momento che gli altri clienti si erano lamentati di suo figlio Tommaso, disabile cognitivo. L’albergatrice si è poi profusa in sentite scuse, il sindaco ha ricordato che l’inclusività nelle sue valli regna sovrana e tutti si sono giustamente premurati di salvaguardare il buon nome della propria azienda e della propria terra, foriero di fatturati futuri. A me invece incuriosisce di più il punto di vista di chi è rimasto nel cono d’ombra di questa storia, ma ne rappresenta il motore primo: i villeggianti degli altri tavoli che si sono lamentati di Tommaso con l’albergatrice. Non sappiamo che cosa abbia fatto il ragazzo per infastidirli tanto, ma di una cosa sono ragionevolmente sicuro: si saranno sentiti lesi in un loro diritto, quello di passare la sospirata settimana bianca in santa pace. I diritti, quando sono i nostri, vengono prima. Così come i doveri, quando sono quelli degli altri. Quel ragazzo era come un sensore che li riportava alla complessità della vita, mentre loro avevano pagato proprio per lasciarla fuori dalla porta. Vorrei pensare che l’episodio abbia finito col disturbargli lo stesso la vacanza con una punta intermittente di rimorso, ma non ne sono poi così sicuro.
Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 9 marzo 2023.
Tommaso ama la montagna e, anche se non vede, gioisce quando il cristallo dell’aria si appoggia sul suo viso. Tommaso è un disabile cognitivo, ma ama passeggiare nei boschi insieme a mamma e papà, che ormai faticano a tenere il suo ritmo.
Tommaso ora sa anche per quale motivo la sua vacanza preferita è terminata dopo soli tre giorni, e soffre come soffrirebbe ogni altra persona. «Alcuni ospiti si sono lamentati di suo figlio a cena, vi va se vi sistemo in una saletta un po’ in disparte?» Trentino, San Martino di Castrozza, anno 2023. L’hotel Colbricon Beauty & Relax, 4 stelle, promette una vacanza di qualità e benessere.
E invece ecco servita una storia di ordinaria disumanità. «Volevano sistemarci in una sala isolata, con i vetri oscurati da un mosaico. Di fronte a una richiesta del genere abbiamo deciso di andarcene, ma voglio anche far sapere cos’è successo.
Ci metto la faccia perché nessuno subisca più un’umiliazione così», dice Cecilia Bonaccorsi, 67 anni, romana, farmacista in pensione e anima dell’associazione “Con i miei occhi”, che segue i disabili della vista affetti anche da altre invalidità.
Lei e il marito, Remo Pimpinelli, ingegnere, hanno Tommaso. Ha 24 anni, è il terzogenito, ed è affetto dalla sindrome di Norrie. “E’ un disabile grave ma noi l’abbiamo portato in tutto il mondo e nessuno ci ha mai riservato un simile trattamento”, dice tradendo più amarezza che sete di vendetta.
[…] «La mattina successiva l’albergatrice mi ha preso in disparte. Mi ha detto che una famiglia la sera precedente si era lamentata per la presenza di Tommaso. Anzi, ha detto proprio così: per la presenza di un disabile a tavola. Quindi ci ha proposto una saletta lontana, solo per noi. Ero talmente scossa che sono riuscita solo ad abbozzare».
Cecilia e Remo ne parlano, ci ragionano e, alla fine, decidono di andarsene senza attendere la fine della settimana. Non cenano il martedì sera e non fanno colazione il mercoledì mattina, prima di ripartire alla volta di Roma. Pagano quindi per i tre giorni in cui sono rimasti e tanti saluti. […]
Trentino, una mamma denuncia: «L'hotel a Primiero ci ha proposto di mangiare in disparte perché mio figlio è disabile». Lorenzo Pastuglia su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.
La famiglia era in vacanza in montagna, è polemica. Bufera sulla struttura: «Daremo la nostra versione». La famiglia rifiuta le scuse: «Inaccettabile».
«Sono Tommaso, ragazzo cieco che non parla. Ho ricevuto un atto di pesante discriminazione.... Mi trovavo presso l'hotel Colbricon di San Martino di Castrozza. Degli ospiti della sala ristorante erano infastiditi dalla mia presenza e se ne sono lamentati con l'albergatrice che ha proposto ai miei di prendere i pasti successivi in una saletta separata dai vetri ambrati oscurati. Lo ha proposto a noi e non a loro... Sono stato trattato come un cane non ammesso nella sala ristorante comune». Si apre così un post su Facebook di Cecilia Bonaccorsi, 67enne ex farmacista di Roma in pensione, che insieme a suo marito, Remo Pimpinelli, alloggiava all’hotel dell'alta valle del Primiero, località dove la coppia va in vacanza da oramai da un ventennio. Con loro c'era il figlio Tommaso Pimpinelli, terzogenito di 24 anni, disabile cognitivo perché affetto dalla sindrome di Norrie: una patologia genetica rara caratterizzata da anomalie dello sviluppo della retina associate a cecità congenita. Il gesto dell'hotel ha lasciato sconcertati entrambi i genitori, che hanno deciso di lasciare la struttura e fare ritorno a Roma nonostante una prenotazione che era fissata fino a questo sabato.
Le scuse dell'hotel
Dopo l’uscita di un articolo su La Repubblica, sono subito divampate le polemiche contro i responsabili dell’hotel, che a Bonaccorsi hanno inviato una mail di scuse: «Non lo accetto, mi dispiace — le parole della 67enne — Non hanno fatto niente per trattenerci, troppo facile cercare di sistemare tutto con una e-mail. Io non cerco denaro, non mi interessano i risarcimenti. Sono innamorata di questi luoghi, sono sempre stata trattata bene e ho intenzione di ritornare in Trentino». L'hotel spiega che racconterà la propria versione dei fatti: «Queste sono vicende che non possono passare in maniera indifferente - ha fatto sapere la struttura- sono cose che lasciano il segno. Questo albergo è aperto da quarant'anni ed è una tradizione di famiglia, abbiamo dato mandato al nostro avvocato ed emetteremo un comunicato con il nostro racconto dei fatti».
Il ricavato dell'azione legale a favore di ragazzi disabili
Notizia delle ultime ore, preannunciata dalla donna in risposta a un post polemico su Facebook, è la possibilità di avviare una causa legale contro l’hotel, «con il ricavato che non verrebbe utilizzato dalla famiglia — dice ancora la mamma di Tommaso — ma per programmi che coinvolgano ragazzi con questo tipo di patologie». La donna infatti è presidente dell’associazione romana «Con i miei occhi», nata dalla volontà di alcune famiglie di utenti dell’Istituto Sant’Alessio di Roma, con il fine di tutelare i propri diritti nei confronti delle istituzioni e con l’obiettivo di proporre iniziative rivolte verso i disabili.
Il sindaco: «Messaggio non rappresenta la comunità»
In risposta alla questione, infine, è intervenuto anche il sindaco di Primiero San Martino di Castrozza, Daniele Depaoli: «Un episodio così grave – spiega il sindaco – non era mai successo. Ma conosco anche bene la famiglia che gestisce questo hotel e posso assicurare che sono sempre stati inclusivi, non ci sono mai stati problemi di questo genere. Per questo non voglio dire altro, perché vorrei prima capire bene cosa è successo. Di certo il messaggio che sta arrivando non è certo quello che rappresenta questa comunità».
L'assessore: inaccettabile
«Quello del personale dell’Hotel Cobricon Beauty & Relax è un comportamento inaccettabile, che non riflette per nulla il valore dell’accoglienza che è innato nei cittadini trentini. Se valutiamo di fare un pensiero nei confronti della famiglia? Certamente, qualcosa faremo, visto che siamo riconosciuti in Italia nel mondo. Ne parlerò anche con l’assessora provinciale alla Sanità, Stefania Segnana». Le parole dell’assessore al Turismo della provincia autonoma di Trento, Roberto Failoni, sono eloquenti. Il presidente dell'Apt San Martino di Castrozza Primiero, Antonio Stompanato si dice sorpreso: «Ho sentito la famiglia - afferma- mi è stato detto che le cose non sono andate nella maniera in cui sono state raccontate». E ancora: «Mi sento di dire che conosco questa famiglia di albergatori e il loro senso dell'accoglienza e devo dire che mi stupisce che sia stato utilizzato questo tipo di comportamento. Hanno sempre accolto persone disabili, per questo resto stupito».
L'hotel di Primiero che ha isolato un disabile: «I clienti si lamentavano delle urla, gli abbiamo dato una sala intima». Lorenzo Pastuglia su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2023.
L'albergo aveva chiesto alla mamma di cenare in uno spazio riservato e non insieme agli altri ospiti. La titolare si era scusata e ora fornisce la sua versione
«A oggi, l’Hotel Colbricon si dice estremamente rammaricato per quanto accaduto, ma ci tiene a puntualizzare che nulla è stato compiuto in malafede o con intento discriminatorio». Troppo forte la polemica mediatica perché l’hotel di San Martino di Castrozza non rispondesse. E infatti l'ha fatto con una nota firmata dalla titolare della struttura Isabella Doff che ha spiegato la posizione della struttura accusata di aver fatto mangiare in disparte una famiglia «colpevole» di avere un figlio disabile.
La denuncia della mamma
La polemica è scoppiata questo mercoledì e vede al centro della vicenda Tommaso Pimpinelli, il 24enne romano disabile e cieco (affetto dalla sindrome di Norrie) che avrebbe dato fastidio ad altri clienti durante la cena di lunedì scorso, mentre alloggiava nell’hotel a quattro stelle di San Martino di Castrozza insieme alla sua famiglia: composta da una 67enne ex infermiera in pensione, di nome Cecilia Bonaccorsi, e dal marito Remo Pimpinelli, ingegnere. Le presunte lamentele dei clienti avrebbero portato la titolare della struttura, Isabella Doff, a fare una scomoda richiesta a Bonaccorsi il giorno seguente intorno alle 10, dopo che la famiglia aveva appena fatto colazione: di spostarsi in una saletta privé a lato, normalmente dedicata ai vip e con i vetri oscurati, in modo da non dar fastidio a nessuno. Un gesto per nulla piaciuto né a Cecilia né a Remo, che hanno così deciso di lasciare l’hotel mercoledì intorno alle 7.30, prima di ricevere una mail di scuse dalla struttura intorno alle 11.29. È così bastato un post su Facebook in cui la donna ha denunciato l'accaduto per far divampare le proteste, tanto che anche la ministra alla disabilità, Alessandra Locatelli, ha deciso di metterci la faccia definendo la questione come «inaccettabile e da cambiare».
La risposta dell'albergo
Il giorno è dopo lo scoppio della polemica è arrivata la risposta della titolare della struttura di San Martino di Castrozza, Isabella Doff, che si lascia andare alla sua testimonianza con una nota: «Dal momento che, come struttura che opera nel settore alberghiero da oltre 40 anni, l’hotel Colbricon ha la priorità di garantire il benessere di tutti i suoi ospiti, alcuni clienti si sono rivolti ai gestori per chiedere una maggiore tranquillità, a causa delle urla nella sala da pranzo — è scritto ancora nella nota — Per tale motivo la proprietaria ha proposto a Cecilia e Remo di spostarsi in una saletta intima, raccolta, in cui spicca come elemento decorativo un mosaico di vetro. Non, come è stato scritto, un vetro oscurato o una stanza in cui isolare Tommaso; al contrario, un luogo nel quale a Tommaso venissero garantite la massima discrezione e la possibilità di esprimersi liberamente». E ancora: «La proprietaria dell’hotel si scusa per il gesto fraintendibile. Non era suo intento offendere la sensibilità di nessuno, motivo per il quale ha subito tentato di aprire un dialogo con le persone coinvolte, per ora senza risultati» La nota finisce quindi così: «Sono moltissime le telefonate e le e-mail, anche da parte di testate giornalistiche, che l’hotel ha ricevuto in questi giorni. L’intero staff dell’Hotel Colbricon rinnovano le proprie scuse alla famiglia di Tommaso e i propri ringraziamenti agli ospiti, ai colleghi e agli amici che li hanno sostenuti in queste ore difficili, in cui sono stati travolti da un’autentica tempesta mediatica e critiche spesso infondate in quanto provenienti da persone estranee ai fatti».
«Attenti agli zingari, attenti agli zingari!»: annuncio choc sulla metro A denunciato su Twitter. Provvedimenti per l'operatore. Erica Dellapasqua su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2023.
La giornalista Francesca Mannocchi denuncia sui social la vicenda e Atac rintraccia il responsabile: «Offesa inaccettabile»
«Attenti agli zingari, attenti agli zingari!!!». Una passeggera, nella fattispecie la giornalista Francesca Mannocchi, denuncia su Twitter l'annuncio offensivo sentito in metro e Atac, che legge i social, rintraccia il responsabile che sarà sottoposto a sanzione disciplinare.
E' successo tutto nel giro di poco tempo. La giornalista ha raccontato il caso sul suo profilo Twitter: «Dagli altoparlanti dei vagoni la voce dice: Attenti agli zingari, attenti agli zingari! Poi torna ad annunciare le fermate. Prossima fermata Barberini, uscita lato destro». «Chiedo al sindaco Roberto Gualtieri - ha scritto ancora la Mannocchi - se è ammissibile».
Atac, molto attenta ai social che spesso la subissano di critiche, sempre via Twitter ha subito chiesto informazioni: «Ci dispiace molto leggere - ha scritto l'azienda - preliminarmente ci scusiamo. Per eseguire una verifica, abbiamo bisogno di qualche dato aggiuntivo come la stazione, l'ora (più precisa possibile) e la direzione del treno». E ancora la Mannocchi via Twitter: «Repubblica, intorno alle 14.50 direzione Battistini».
Alle 17,55 è infine arrivata la nota ufficiale di Atac: «Una volta ricevuta la segnalazione - ha scritto - l'azienda si è subito attivata e ha individuato il responsabile dell'annuncio offensivo e discriminatorio emesso in una stazione della metro A. L'annuncio non era ovviamente registrato. Si è trattata di una iniziativa personale che l'azienda giudica inaccettabile. Il responsabile, quindi, sarà sottoposto a provvedimento disciplinare». E' poi intervenuto anche il sindaco Gualtieri, che ha twittato: «E' inammissibile e inaccettabile - ha chiosato -. Bene ha fatto Atac a prendere immediatamente provvedimenti nei confronti di chi si è reso responsabile di un gesto così offensivo e discriminatorio».
La polemica continua sotto, nei commenti. «Spero ci siano provvedimenti seri e non solo una ramanzina - scrive Yuma - certa gente non può lavorare in posti pubblici». Mentre Agata entra nel merito, probabilmente, della vicenda. «Ci sono tanti modi per avvisare i passeggeri rispetto alla pratica del borseggio indipendentemente da chi lo fa: hanno scelto quello sbagliato ed è inaccettabile, a Roma come in qualsiasi altra città». Da un primo racconto sembra infatti che l'operatore di Atac volesse mettere in guardia gli utenti da possibili borseggiatori che, molto spesso purtroppo, affollano le metro di Roma. Toni e modi comunque unanimemente ritenuti «inaccettabili» e che, promette l'amministrazione, saranno puniti.
Razzismo anche più crudele rispetto al pregiudizio che porta alla discriminazione dei neri. Borseggiatrici rom, la caccia alle ‘zingaracce’ con la scusa della ragione umanitaria: il giornalismo d’inchiesta italiano…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Aprile 2023
Nel clima di persecuzione che tocca al popolo romanì a pochi decenni dalle politiche profilattiche che ne pianificavano lo sterminio, alcuni, oggi, 2023, in questo Paese che fu alleato della belva nazista che assassinava cinquecentomila esponenti di quella razza di sotto-uomini, hanno la sfrontatezza di spiegare che l’istigazione della furia contro le “borseggiatrici rom” ha dopotutto una specie di ragione umanitaria: e cioè tutelare i bambini che quelle “zingaracce” adoperano nell’accattonaggio e allevano alla scuola del furto. È tutela dell’infanzia, insomma: la cura del bambino tramite l’arresto della madre.
Ma varrebbe la pena di usare gli occhi e il sentimento di quel bambino per esaminare bene la società assediata “dall’emergenza rom”, la società che si protegge avviando inchieste sulla “pista rom”, la società che mette in prima pagina e in prima serata “l’impunità delle zingare in gravidanza”. Da quando è piccolissimo, e appena comincia a capire qualcosa, quel bambino percepisce che i propri genitori sono considerati ladri dalla società circostante, criminali, poco di buono, gentaccia canaglia di cui diffidare e da tenere lontana: percepisce di non essere un bambino, ma uno zingaro.
È una specie di razzismo anche più crudele rispetto al pregiudizio che porta alla discriminazione dei neri: la quale, per quanto ancora esistente e praticata, non è pubblicamente difendibile e anzi è destinataria di comune riprovazione, per quanto spesso solo formale e rituale. Lo zingaro non gode di altrettanta guarentigia civile: è un reietto costituzionale, uno per cui non occorre nemmeno immaginare politiche di respingimento perché nasce respinto, nasce e cresce ai margini della società per cui egli è soltanto quello, uno zingaro. Uno zingaro e dunque un ladro, un ladro in quanto zingaro: uno con la madre depravata, che lo concepisce per evitare la galera e lo partorisce per farne un borseggiatore.
Borseggiatrici della metropolitana di Milano, perché la destra chiede una legge contro i rom che viola il diritto
Ma noi tuteliamo i diritti di questo bambino, quando usiamo gli altoparlanti per avvisare la gente onesta di fare attenzione agli zingari. Tuteliamo questo bambino, quando spieghiamo che magari non tutti i ladri sono zingari, ma tanti zingari e verosimilmente tutti gli zingari (lo dicono le statistiche!) sono ladri. Pensiamo ai diritti di questo bambino, quando facciamo il bel giornalismo d’inchiesta che dà voce ai cittadini per bene, quelli che avranno pure diritto di protestare visto che non tirano la fine del mese mentre gli zingari se ne fregano della legge.
I più compassionevoli indugiano sulla sfortuna capitata a questi innocenti figli di brutte persone: hanno le mamme zingare, poveretti. I più compassionevoli si riferiscono alla miseria e al degrado degli accampamenti in cui nascono e crescono i bambini del popolo romanì, e appunto all’ingiustizia rappresentata dal venir su in una famiglie tanto dissipate. Ma quei bambini soffrono una sfortuna diversa e un’ingiustizia più grande: vale a dire di essere vittime del sospetto, dell’inciviltà, della cattiveria, del razzismo della società che li circonda.
Iuri Maria Prado
Scontro De Gregorio-Storace. Lei: “Non si dice zingari". Lui: "Ma dove vive?" Affari italiani. Domenica, 12 marzo 2023
Sui treni della Metro A di Roma è stato dato qualche girono fa un annuncio particolare, a In Onda su La 7 è subito scontro tra Storace e De Gregorio
“Attenti agli zingari, attenti agli zingari”: qualche giorno fa è scoppiata una vera e propria bufera mediatica sull'annuncio razzista avvenuto sulla Metro A di Roma da parte di un dipendente Atac che anzichè elencare le classifiche fermate, si è lasciato andare ad un alert particolare. A denunciare la cosa, è stata la giornalista di La7 Francesca Mannocchi che si trovava alla stazione Repubblica. Nella puntata dell'11 marzo di "In Onda", il programma d'attualità politica condotto da Daniel Parenzo e Concita De Gregorio, si è tornati sull'argomento. In studio anche l'ex ministro della Salute Francesco Storace. La discussione è fin da subito accesa: De Gregorio fa notare a Storace che la voce della metro ha detto “attenti agli zingari”, non “attenti ai borseggiatori”. Ma lui replica furioso: "E perché, come li chiamano i cittadini? Vivete in un altro mondo".
Matthia Pezzoni aggredito dalle borseggiatrici in metrò a Milano mentre avverte i passeggeri del rischio di furti. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2023.
Vittima del pestaggio il 34enne presidente del «Comitato Sicurezza per Milano», nato pochi mesi fa per iniziativa di alcuni cittadini. È stato soccorso dal 118 e medicato al Policlinico
Aggredito dalle borseggiatrici che, ormai abitualmente depredano i passeggeri della metropolitana nei corridoi della stazione Centrale di Milano, e da un ragazzino, con ogni probabilità minorenne, loro complice. Vittima del pestaggio il 34enne Matthia Pezzoni, tra i fondatori della pagina Instagram MilanoBellaDaDio, sostenitore della Lega e presidente del «Comitato Sicurezza per Milano», nato pochi mesi fa per iniziativa di alcuni cittadini. Stava filmando il gruppo di ladri. La denuncia è partita dall'ex assessore regionale alla Sicurezza, Riccardo De Corato (oggi vicepresidente della Commissione Affari costituzionali della Camera) e confermata dalla Questura.
Pezzoni, si legge nella ricostruzione offerta dalla Questura di Milano, «era in un corridoio di interscambio tra la MM3 e la MM1 e stava avvisando i passeggeri della presenza delle borseggiatrici», quando è stato aggredito. Prima da tre donne, e poi da un giovane che era al loro seguito e che lo ha colpito con un pugno all'occhio. La vittima è stata soccorsa dal 118 e medicata al Policlinico in codice «verde». Dopo il pestaggio, i quattro aggressori sono riusciti a scappare, nonostante l'intervento della Polmetro, l'unità di polizia che opera sulle linee della metropolitana.
Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per corriere.it il 25 Aprile 2023
È stata arrestata 25 volte in 11 anni sempre per furti in appartamento. L'ultimo colpo sabato 22 aprile a San Siro, quando la donna 25enne di origini rom è stata bloccata con altre due nomadi dai carabinieri mentre usciva da un palazzo dopo aver cercato di forzare la porta di un appartamento. La 25enne è stata arrestata perché nei suoi confronti pendeva un ordine di carcerazione definitivo a 7 anni e mezzo, cumulo di una serie di condanne sempre per furto.
[…] La ragazza ha alle spalle una lunga serie di precedenti e condanne. Tutti furti in appartamento nei quali è stata arrestata da diverse forze di polizia. In molte occasioni aveva fornito generalità diverse da quelle reali per «ostacolare la propria identificazione».
Nel suo casellario si contano 25 arresti, i primi quando era appena 14enne, soglia dell'imputabilità. Il primo episodio risale a quando era appena 12enne ed era stata fermata nel 2011 a Piacenza e subito rilasciata. Poi una lunghissima serie di episodi in tutta Italia: Brindisi, Firenze, Pescara, Grosseto, Rimini, Venezia, Trieste, Pavia e ad Oristano dove era stata arrestata nel 2013 mentre tentava di rubare nell’appartamento di un parroco.
Tra il 2015 e il 2020 una decina di episodi per furto e possesso ingiustificato di chiavi o grimaldelli, tutti tra Trieste, Mestre e Venezia. Oltre agli arresti, nei suoi confronti erano state emessi diversi provvedimenti di divieto di dimora nei comuni dove è stata fermata, fino ad arrivare all’ultimo episodio di sabato scorso a Milano. La 25enne è ora in carcere a San Vittore. Tramite i suoi legali ha chiesto di essere scarcerata e messa ai domiciliari al campo nomadi di via Monte Bisbino per l'allattamento del figlio neonato. La decisione dei giudici è ancora pendente.
Occhio alla tecnica del "saliscendi": così le borseggiatrici rubano tutto. Vestite alla moda, con zaini e cartine geografiche per fingersi studentesse o turiste. La tecnica del saliscendi per rubare senza essere prese. Ecco come agiscono le ladre della metro a Roma. Federico Garau il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.
Le borseggiatrici continuano a fare il bello e il cattivo tempo in metropolitana. Fotografie e filmati, servizi web e trasmissioni televisive non sono serviti a fare da deterrente. Il fenomeno, purtroppo, non si ferma ed è divenuto ormai un problema di proporzioni significative.
Quarta Repubblica, programma condotto da Nicola Porro e trasmesso su Rete 4, torna sulla questione, particolarmente dibattuta in questi giorni. Un inviato riesce a intervistare un agente della polizia locale, l'agente Milani, che per anni si è dedicato al contrasto del borseggio. Le informazioni fornite dall'agente sono sconcertanti.
"Non rischio nulla". La borseggiatrice si vanta: "Intasco mille euro al giorno"
Attenzione alla tecnica del "saliscendi"
"Da circa quindici anni ho fatto dei servizi specifici, in borghese, sulla metro per andare a cercare di contenere questo fenomeno", racconta l'agente in servizio a Roma. "Ho preso almeno 600 ragazze, quasi tutte di etnia rom".
Principalmente agiscono nella tratta della metropolinata della linea B, nel tragitto che va Termini al Colosseo. Sono "pericolose" tutte le fermate intermedie. Col passare del tempo le ladre sono diventate sempre più scaltre. Sanno come muoversi, come agire senza essere notate. "Uno dei modi più classici con cui agiscono è la cosiddetta tecnica del saliscendi", spiega il poliziotto. "Si posizionano su banchine particolarmente affollate della metropolitana, dove la gente spinge e c'è la calca. Si inseriscono tra le persone e cercano di colpire poco prima della chiusura delle porte, in modo da poter scendere quando il treno parte".
La tecnica è predatoria, non richiede destrezza. La vittima si accorge del furto, ma questo avviene quando ormai è troppo tardi. Le ladre sono già scese dal treno, e le porte si sono chiuse.
Ladre "alla moda"
Persino l'aspetto delle borseggiatrici è cambiato, tanto che ormai non è più così semplice riconoscerle. Non di rado alcuni poliziotti in servizio hanno difficoltà a individuarle.
La spiegazione risiede nel fatto che, ormai, le ladre si vestono come le loro coetanee italiane. A occhi inesperti, appaiono come studentesse o turiste. "Dai vestiti che le rendevano più riconoscibili come ragazze rom, sono passate a vestirsi come le 15enni italiane. Si vestono alla moda, si spacciano per studentesse o turiste, portando con loro cartine geografiche o uno zainetto", spiega l'agente.
Ultimamente, aggiunge il poliziotto, le borseggiatrici tendono a coprirsi il volto, usando un foulard o una mascherina. Può darsi che ciò sia dovuto ai recenti video e foto in cui sono state immortalate. Si tratta, per la maggior parte dei casi, dello stesso gruppo di ragazze. Giovani che sono state prese anche una quarantina di volte, precisa l'agente Milani. Al di sotto dei quattordici anni, tuttavia, non possono essere incriminate. Sopra ai quattordici anni sono spesso incinte, o hanno bambini piccoli in allattamento. E si torna al punto di partenza.
Il Bestiario, la Difensigna. La Difensigna è un animale leggendario che difende i ladri e accusa i derubati. Giovanni Zola il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.
La Difensigna è un animale leggendario che difende i ladri e accusa i derubati.
La Difensigna è un mitico essere, che vive rinchiusa all’interno di Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, senza nessun contatto con la vita reale. La consigliera del PD, avendo contratto il virus dell’ideologia radical chic, difende la privacy delle povere borseggiatrici filmate in metropolitana da gruppi di crudeli volontari che intendonosottoporle alla pubblica gogna. Le parole esatte della Difensigna sono state: “É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico”.
Secondo l’autrice, se capiamo bene, le borseggiatrici, essendo in uno stato di bisogno, non dovrebbero essere messe nella condizione degradante di rubare. Sarebbe più dignitoso creare, all’interno delle metropolitane, punti di raccolta dove i passeggeri possano deporre orologi, borsette e oggetti di valore da devolvere direttamente alle borseggiatrici senza doverle far sentire a disagio e in imbarazzo come fossero delle ladre qualsiasi. In nome dell’uguaglianza sociale, inoltre, sarebbe gradito allegare al bene anche un biglietto di scuse per appartenere a un ceto sociale abbiente.
La Difensigna aggiunge anche che: “Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell'ordine”. Il problema è che, come tutti sanno, le borseggiatrici, spesso incinta o con figli molto piccoli, se arrestate vengono rilasciate il giorno stesso. Le forze dell’ordine non possono nulla. Dunque che fare?
Anche in questo caso proviamo a interpretare il pensiero della Difensigna. Immedesimiamoci per un istante in queste madri o future madri che devono sostenere lo stress psicofisico dell’arresto, di un interrogatorio e di una sentenza che, per quanto le lascerà libere, le traumatizzerà per tutta la vita. Possiamo sopportare l’idea che le borseggiatrici vivano tutto questo abbandonate a sé stesse? La proposta potrebbe essere quella che il derubato accompagni la derubante in questura per sostenerla psicologicamente in un momento così difficile. Si consiglia infine di invitarle a casa per farle trascorrere una notte tranquilla regalandole una copia delle chiavi dell’appartamento per non sembrare ostili.
Milano, il video delle borseggiatrici in metrò pubblicato su Internet: «È violenza». «No, senso civico». Chiara Baldi su Il Corriere della Sera il 13 marzo 2023
Insulti e intimidazioni e ora, Monica Romano, consigliera comunale milanese del Pd, valuta la possibilità di denunciare chi da due giorni continua a indirizzarle messaggi al vetriolo per un post critico nei confronti di «Milano bella da dio», account Instagram seguito da oltre 171 mila persone e attivissimo nel denunciare ogni giorno i problemi di sicurezza in città. «Siamo ancora al punto che una donna viene derisa per il suo aspetto quando esprime una opinione», racconta.
Il video
A scatenare gli hater un post di Romano in cui chiedeva di porre fine alla «gogna social» anche nei confronti delle borseggiatrici del metrò. «Quest’abitudine di filmare persone sorprese a rubare sui mezzi Atm e di diffondere i video su pagine Instagram con centinaia di migliaia di follower è violenza, ed è molto preoccupante», ha scritto la dem venerdì sera su Facebook. Pochi minuti dopo il post è stato ripreso da «Milano bella da dio» e in pochissimo Romano è divenuta bersaglio di commentatori inferociti.
Gli insulti
«Per la consigliera, il senso civico è tutelare i criminali, molto bene direi», scrive un utente. Non sono mancati insulti a lei e al suo partito, il Pd, «che vive fuori dalla realtà». Perché quello che mostra l’account Instagram è una città in perenne assedio, sebbene i numeri del ministero dell’Interno raccontino altro: oltre alle borseggiatrici di origine rom, anche le molestie sul bus, i ragazzi che fanno indebitamente il bagno nel Naviglio, le risse fuori dalla Stazione Centrale, i furti di cellulari con «la tecnica del foglio». E poi tanti post che attaccano il sindaco Beppe Sala che «nasconde l’emergenza sicurezza».
Su Instagram
«La pagina è nata ormai più di un anno fa per rispondere alle esigenze dei cittadini, visto che le istituzioni non fanno nulla e anzi, fingono di non vedere che a Milano siamo al limite della sopportazione», racconta il fondatore di «Milano bella da dio», Giovanni, milanese 26 enne che preferisce non svelare il cognome né il quartiere da cui proviene. In tasca ha una laurea in psicologia e un master preso a Cambridge in «Psicologia del consumatore». Oggi lavora ma proprio in questi giorni sta decidendo se diventare «imprenditore digitale» visto il contratto siglato con un’azienda, la Msa Multiservice Ambrosiana, che «crede nel progetto di Milano bella da dio». E di recente ha anche ricevuto offerte politiche: «Fratelli d’Italia mi voleva in lista per le Regionali ma ho detto no». In effetti «Milano bella da dio» è molto vicina al centrodestra milanese — consiglieri comunali e regionali conoscono Giovanni e lo contattano spesso — anche se lui ci tiene a specificare che «la sicurezza non ha colore politico».
Fino a 100 segnalazioni al giorno
Racconta Giovanni: «Tra Instagram, la chat di Telegram e la mail ricevo fino a 100 segnalazioni al giorno e in media pubblico sei post ogni 24 ore con il materiale che ritengo più interessante. In più gestisco le notizie e monto i video che arrivano perché alcuni sono troppo lunghi». Tra i suoi collaboratori, ci sono l’influencer Giulia Ghezzi — in arte “amo.chemangiamo” — che si occupa dei post sui ristoranti e «alcuni inviati sul campo, un legale e una persona che gestisce le promozioni». A proposito degli insulti alla consigliera Romano, il creatore della pagina spiega che «purtroppo alcuni post hanno un numero ingestibile di commenti ed essendo da solo non riesco a monitorarli tutti, sono davvero troppi. Voglio però dire che mi dissocio da chi usa la violenza. Mentre mi associo a chi segnala le borseggiatrici. A Milano siamo al limite della sopportazione e quando le istituzioni fanno finta di non vedere, allora si mobilitano i cittadini. Ogni giorno ricevo messaggi di ringraziamento per il lavoro che faccio con la pagina e non solo da parte dei cittadini ma anche delle forze dell’ordine, che spesso usano il nostro materiale per lavorare».
Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per corriere.it il 13 marzo 2023.
Insulti e intimidazioni e ora, Monica Romano, consigliera comunale milanese del Pd, valuta la possibilità di denunciare chi da due giorni continua a indirizzarle messaggi al vetriolo per un post critico nei confronti di «Milano bella da dio», account Instagram seguito da oltre 171 mila persone e attivissimo nel denunciare ogni giorno i problemi di sicurezza in città. […]
A scatenare gli hater un post di Romano in cui chiedeva di porre fine alla «gogna social» anche nei confronti delle borseggiatrici del metrò. «Quest’abitudine di filmare persone sorprese a rubare sui mezzi Atm e di diffondere i video su pagine Instagram con centinaia di migliaia di follower è violenza, ed è molto preoccupante», ha scritto la dem venerdì sera su Facebook. Pochi minuti dopo il post è stato ripreso da «Milano bella da dio» e in pochissimo Romano è divenuta bersaglio di commentatori inferociti.
[…]
«La pagina è nata ormai più di un anno fa per rispondere alle esigenze dei cittadini, visto che le istituzioni non fanno nulla e anzi, fingono di non vedere che a Milano siamo al limite della sopportazione», racconta il fondatore di «Milano bella da dio», Giovanni, milanese 26 enne che preferisce non svelare il cognome né il quartiere da cui proviene. […]
Oggi lavora ma proprio in questi giorni sta decidendo se diventare «imprenditore digitale» visto il contratto siglato con un’azienda, la Msa Multiservice Ambrosiana, che «crede nel progetto di Milano bella da dio».
E di recente ha anche ricevuto offerte politiche: «Fratelli d’Italia mi voleva in lista per le Regionali ma ho detto no». In effetti «Milano bella da dio» è molto vicina al centrodestra milanese — consiglieri comunali e regionali conoscono Giovanni e lo contattano spesso — anche se lui ci tiene a specificare che «la sicurezza non ha colore politico». […]
Tra gogna e vergogna. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 marzo 2023.
La consigliera del Pd milanese Monica Romano ha scritto che chi riprende le borseggiatrici sulla metropolitana e ne diffonde in rete le immagini non dà prova di senso civico, ma incita alla violenza. Il tribunale dell’internet, subito riunitosi in seduta plenaria, l’ha ovviamente condannata ai livori forzati. Invece secondo me la Romano non ha del tutto torto, anche se ha ragione soltanto a metà. Ha ragione quando dice che mettere le ladruncole alla gogna non contribuisce a farle arrestare, ma a titillare i peggiori impulsi dei potenziali giustizieri. Però ha torto quando si dimentica di aggiungere che i cittadini fanno benissimo a riprendere chi ruba sui mezzi pubblici. Purché le immagini vengano consegnate alle forze dell’ordine, anziché essere date in pasto ai social. Questo concetto Monica Romano lo ha precisato in seguito, intervistata dal Corriere. Ma nel suo scritto non se ne trova traccia (anzi, vi si dice che i passeggeri perbene devono invitare gli altri a spegnere le fotocamere…). Intendiamoci, molti l’avrebbero lapidata lo stesso, eppure quel mancato riferimento all’enorme differenza esistente tra il filmare e il postare ha stupito anche me. Critichiamo sempre gli indifferenti e poi, appena qualcuno si mobilita per smascherare un sopruso, lo trattiamo come se ne fosse lui l’autore? Da un politico mi aspetto che chieda ai cittadini di collaborare in modo attivo e non violento con la Legge, non di voltarsi dall’altra parte per paura di sembrare vendicativi.
Ora la sinistra fa scudo alle scippatrici del metrò. Chiara Campo il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il Pd contrario alla pubblicazione dei video minaccia querele. Il centrodestra: "Assurdo"
Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».
Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L'autrice, appena eletta nell'assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell'ordine».
Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori Pd («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolata», «dove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il Pd si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l'attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l'idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell'ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c'è stato il Pd. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».
Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l'immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».
Il Pd della Schlein, dalla parte delle borseggiatrici di Milano. Andrea Soglio su Panorama (Di giovedì 23 marzo 2023)
I dem ritirano le firma da una proposta di legge in cui la maggioranza aveva inserito pene più severe per le mamme anche con figli sotto l'anno di età. La scusa usata dalle ladre delle stazioni di tutta Italia che possono così continuare a rubare indisturbate
Il nuovo corso del Pd targato Elly Schlein, come accade per ogni neo segretario di ogni partito, viene seguito con profondo interesse. perché al di là degli slogan, che valgono il tempo di un lampo, quello che conta per capire come sarà e dove andrà il Partito Democratico sono i gesti concreti. Alcuni esempi li abbiamo già avuti, anche se sono passati sotto silenzio, sovrastati dalle manifestazioni e dalle frasi ad effetto sui figli delle coppie omosessuali e dagli abbracci a Landini. O dagli attacchi a Berlusconi: «Ero milanista - ha raccontato la Schlein - poi ho capito chi era il proprietario e sono diventata juventina…» Settimana scorsa alcuni europarlamentari Dem infatti hanno votato a favore di una proposta di legge che punta a introdurre una Tassa Patrimoniale per i ricchi. Non un parlamentare a caso, ben 7 (oltre a tre grillini). Oggi, ecco l’ennesimo solco sul percorso della nuova sinistra alla Schlein: I parlamentari del Pd hanno ritirato le firme alla proposta di legge a favore delle detenute madri e quindi il provvedimento, essendo stato presentato da loro in quota opposizione, è decaduto. Nel dettaglio: il provvedimento era già stato approvato da un ramo del Parlamento poi la maggioranza (Lega in primis) lo ha modificato inserendo regole più severe verso le mamme che avrebbero potuto così andare in carcere anche con figli sotto l’anno di età.
Una stretta, quella del governo, arrivata in seguito alle note vicende delle borseggiatrici della Stazione Centrale di Milano (e non solo) indisturbate ed impunite Regine del piazzale e delle zone limitrofe che colpiscono alla luce del sole, irridendo la Polizia dato che, anche se colte con le mani nel sacco (nel vero senso della parola) avendo tutte un figlio neonato il giorno dopo tornano sul luogo del delitto a caccia di altre valigie, portafogli, cellulari. I record li conoscete tutti: ci sono ladre con più di centro fermi, arresti e segnalazioni e che in questi giorni di ribalta mediatica hanno spiegato candidamente alle telecamere che «L’Italia è il Paradiso dato che non ti possono fare nulla», soprattutto se hai un neonato in casa. Ad annunciare e motivare il ritiro delle firme del Pd l’on. Alessandro Zan, si, proprio lui, il parlamentare al centro delle note polemiche sul Ddl mai approvato che portava il suo cognome e che chiedeva norme più restrittive contro i reati legati all’omofobia: «Il nostro era un provvedimento che mirava a migliorare le condizioni delle mamme in carcere…questo le peggiora. Non potevamo che ritirarci». Chiaro come il sole. Ecco la nuova linea del Pd targato Schlein: difesa e cura delle donne in galera e non delle persone perbene che attraversano ogni giorno la Stazione Centrale di Milano nella speranza di uscire vincitrici dalla roulette russa del furto e del borseggio. Populismo becero direte voi. Sarà. Ma davanti a questi episodi di criminalità non ci sono vie di mezzo: o si sta da una parte o si sta dall’altra. O si combattono i ladri, difendendo turisti e pendolari, o si proteggono i disonesti, consentendogli di continuare le loro attività. In realtà non dovremmo stupirci più di tanto dato che sul tema delle borseggiatrici qualche giorno fa una consigliera comunale di Milano, sempre del Pd, Monica Romano, aveva scritto che «Diffondere sui social i video di queste persone che rubano è una violenza nei loro confronti». Sembrava la follia di un singolo, ci sbagliavamo di grosso. È la nuova linea del Nazareno. Stasera grazie al Pd le borseggiatrici della Stazione Centrale di Milano, nelle loro case occupate o nei campi nomadi senza bollette da pagare, gentilmente fornite dalla comunità, ringraziano e festeggiano perché sanno che lassù, in Parlamento, qualcuno le ama
Chi sta sempre dalla parte sbagliata. Badate bene, questa storia è assolutamente vera e non è un racconto di fantasia. Francesco Maria Del Vigo il 24 Marzo 2023 su Il Giornale.
Badate bene, questa storia è assolutamente vera e non è un racconto di fantasia. Un brevissimo riepilogo: il centro di Milano, e in particolare la stazione, negli ultimi anni sono divenuti un far west nel quale spadroneggiano criminali di ogni sorta. Un degrado raccontato da tutti i media e da una pagina Instagram che si chiama «Milano bella da dio» e raccoglie più di 180mila follower. Cosa fanno i suoi gestori, alcuni ragazzi sui vent'anni? Il sabato pomeriggio filmano con i loro smartphone gli ordinari crimini che vengono commessi e li condividono sulle reti sociali: per avvisare i concittadini dei pericoli che corrono e per rendere identificabile chi viola la legge. Così alcune ragazze di etnia rom che commettono regolarmente furti finiscono prima nei loro obiettivi, e poi in quelli di Striscia la Notizia. Tutti le conoscono, ma nessuna le arresta, perché molte di loro sono incinta o hanno figli piccoli. Un caso? Non sempre, alcune arrivano addirittura a teorizzare la maternità come un metodo efficace per non finire dietro alle sbarre. Muoviamo subito da due presupposti: 1) la nazionalità di chi commette questi reati è del tutto ininfluente, non ci interessa 2) In un mondo normale non dovrebbero essere i ragazzini a occuparsi della sicurezza, ma le forze dell'ordine e le amministrazioni locali. Ma siccome viviamo in un mondo al rovescio succede che chi cerca di tutelare le legalità viene attaccato dalla politica e chi scippa giovani e vecchiette invece viene difeso, nel nome della privacy, dalla politica stessa. Anche questa storia è arcinota: Monica Romano, consigliera Pd del comune meneghino e vice presidente della commissione pari opportunità (probabilmente le pari opportunità degli scippatori) ha scritto, poi rimosso e poi confermato un post nel quale accusava di violenza (sic) chi immortala i ladri. Avete capito? La devono smettere i cittadini di filmare, non i delinquenti di rubare. I milanesi devono ribellarsi a loro, non a chi cerca di scipparli usando i bambini come scudi contro la polizia. Un problema che non è solo di ordine e sicurezza, ma anche politico. Locale e nazionale. Perché al netto dell'innegabile lassismo dell'amministrazione Sala che, ogni qualvolta si presenta l'occasione, sta sempre dalla parte sbagliata, c'è anche qualcosa che non funziona a livello legislativo. Solo che appena il governo ha provato a inasprire le sanzioni per le donne in stato di gravidanza, proponendo la detenzione in case famiglia o ai domiciliari, la sinistra ha fatto scoppiare il solito casino, accusando la maggioranza di ogni nefandezza. E, quindi, difendendo ancora una volta chi sta dalla parte sbagliata e confermando che viviamo in un mondo al rovescio, dove i cittadini per bene sono sempre gli ultimi, alla faccia dello stato di diritto.
Valerio Staffelli incontra la borseggiatrice, lei lo insulta: «Io faccio il mio lavoro, alla polizia non interessa». Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2023.
L'inviato di «Striscia» ha trovato di nuovo in centro la stessa ragazza arrestata il giorno prima: dialogo surreale tra i due. La «tecnica del foglietto» per portare via i telefoni cellulari dai tavolini dei locali
Nuova incursione dell'inviato di «Striscia la Notizia» Valerio Staffelli contro le borseggiatrici in azione a Milano. Durante la realizzazione di un servizio in centro, il conduttore ha incontrato per caso una giovane donna che lui stesso aveva sorpreso a rubare il giorno prima. Surreale il dialogo che segue tra i due.
«Ma come, il giorno dopo senza problemi si torna subito a rubare?».
Lei attacca con gli insulti: «Che cosa vuoi da me? Io faccio il mio lavoro».
«Il tuo lavoro è rubare?», chiede Staffelli.
«Io sì», risponde lei ben convinta. Lo minaccia e gli dice che non le importa niente di lui.
«Questo l’ho capito - replica Staffelli - ma le immagini sono chiare...».
Nuovi insulti: «Che ti importa se io rubo?».
«A me interessa, perché non è corretto che tu vada rubare alla gente. Interessa anche alla polizia anche ai carabinieri», replica l'inviato.
Ma la ragazza controbatte: «No, non interessa, non gli interessa niente alla polizia», e termina con un'altra sfilza di insulti.
Come spiega Staffelli nell'introduzione del servizio, «con la legge Cartabia le borseggiatrici a Milano sembrano essersi moltiplicate, perché di fatto il reato di furto e borseggio non è più perseguibile tramite denuncia d'ufficio, bensì saranno le vittime a dover querelare le lestofanti e portarle in tribunale. E questo ovviamente accade in rarissimi casi».
Staffelli ha dedicato ampio spazio nel servizio a mettere in guardia milanesi e turisti da un nuovo furto con destrezza che viene commesso ogni giorno in numerosi locali di Milano: il «trucco del foglietto», ovvero una cartina di Milano spiegazzata che viene posata sui tavolini da ragazzi e ragazze che fingono di chiedere informazioni. Il trucco è posare la cartina sul telefono cellulare della vittima, e mentre questa è distratta allontanarsi portandosi via insieme carta e telefonino. «È accaduto anche a mia figlia», ha spiegato Staffelli, e la ragazza stessa ha raccontato come è riuscita a evitare, per una frazione di secondo, il furto.
Estratto dell’articolo di Lucio Fero per blitzquotidiano.it il 14 marzo 2023.
Non per caso e non per fortuito concorso di circostanze: la storia di Monica Romano consigliera comunale del Pd a Milano e del sito Milano bella da dio illustra nel suo breve e secco dipanarsi cosa è e sempre più sarà il nuovo Pd, il Pd format valori e cultura, pensieri, parole, gesti, azioni e reazioni modello Schlein. Il Pd del prima gli ultimi.
E la breve storia illustra e documenta anche quanto sia imprevedibile nelle sue architetture, topografie e habitat la strada che porta agli ultimi. Ma ecco appunto la breve ed esemplare storia. […]
Il sito Milano bella da dio di questi video ne ha fatti e ne fa e sopra ci fa anche una campagna d’opinione che a qualcuno appare troppo per così dire securitaria. Ma a Monica Romano consigliera Pd, di un Pd fresco di rigenerazione Sclhein, altro che securitario, il fotografare e ritrarre, il fare video a chi ruba in metro alla consigliera Romano appare niente altro che “violenza”.
Violenza nei confronti dei ladri. Violenza, gogna mediatica, spegnere le fotocamere sono parole e pensieri della consigliera comunale Monica Romano. Eccola: “Questa abitudine (di realizzare video dei borseggi ndr) è violenza”. Violenza, ci tiene a spiegare la consigliera comunale Monica Romano, imparentata culturalmente con la violenza di Cutro, la violenza di chi non soccorre i migranti e con la violenza squadrista di chi pesta gli studenti.
E’ il nuovo Pd che parla con la voce della consigliera comunale Monica Romano, il Pd che ha come programma politico ed imperativo etico la protezione degli ultimi. Se sei ultimo vai protetto senza tanti se e tanti ma.
Se borseggi in metro devi, per definizione, essere categoria e identità “ultimi”. Quindi la tua condizione non va esposta alla “gogna”. Ultimi, ultimissimi sono poi i migranti e ogni migrante che muore durante la traversata è colpa diretta di qualche “assassino” che non l’ha voluto salvare. E attenzione a come si parla: nella metro di Roma è stata usata la parola “zingaro”.
Definizione in realtà scorretta e anche volgare. Ma il nuovo Pd, o meglio la sua stampa di riferimento, ne fa manifesto e denuncia indignata di razzismo discriminante ancora una volta ai danni degli ultimi. […]
Da corriere.it il 14 marzo 2023.
Una borseggiatrice in metrò viene bloccata dai passeggeri in attesa dell'arrivo delle forze dell'ordine. È uno dei video pubblicati dal profilo Instagram Milanobelladadio all'origine della polemica scatenatasi sui social a proposito dell'opportunità di diffondere queste immagini in Rete.
Davide Desario per leggo.it il 14 marzo 2023.
Di solito sono i turisti un po' ingenui e un po' distratti ad essere facili prede dei borseggiatori che a Roma fanno il bello e cattivo tempo nelle principali piazze e aree di pregio di Roma. E di solito sono i romani a metterli in guardia, ad aiutarli per evitare di essere derubati. Lunedì invece le parti sono invertite. A subire il furto del proprio portafogli è stato il sottoscritto, reo di essersi distratto per una telefonata proprio mentre attraversava la casbah di Fontana di Trevi all'ora di pranzo. E ad aiutarlo prima una famiglia di americani e poi una ragazza olandese. E quello che è successo ha dell'incredibile.
Ma andiamo con ordine. Dopo un pranzo di lavoro alle 14,30 esco da un ristorante del Centro e mi dirigo verso la redazione di Leggo in via del Tritone. Invece di conservare il portafogli al sicuro nella tasca interna della giacca lo lascio in quella anteriore del giubbotto. Attraverso piazza di Fontana di Trevi che a quell'ora, complice una spettacolare giornata di sole, era stracolma. Sembrava un alveare attorniato dalle api che girano tutte intorno.
Proprio in quel momento squilla il cellulare. Quell'istante in cui una persona abbassa la guardia anche se in quel momento non avrebbe dovuto. Un maledetto istante. Sento qualcuno che dà una botta. E nonostante il caos istintivamente tocco il giubbotto con la mano e mi rendo conto che il portafogli non c'è più.
Tremendo: all'interno pochi euro ma i documenti, le carte di credito. Mi guardo subito intorno. Ma niente, non noto nulla di strano. Per fortuna al mio fianco c'è una famiglia americana. La madre e la figlia mi indicano una direzione e mi ripetono a voce alta: «The whiteone, the whiteone» (il bianco, ndr).
Cerco di capire. Di individuare qualcuno che stia scappando. Mi guardo intorno. Ma niente. Chiedo aiuto. Un'altra ragazza, olandese, ha visto tutta la scena e mi indica una persona che si sta allontanando: è un ragazzo, vestito con jeans bianchi, camicia bianca e un maglioncino azzurro poggiato sulle spalle.
Mi faccio largo tra la gente, lo rincorro. Lo affianco. Lo guardo. E' sicuramente straniero, forse magrebino. Ha la barba curata, i capelli pettinati. Ma con la coda dell'occhio vedo che nella tasca anteriore dei jeans ha un grande rigonfiamento. È il mio portafogli, ne sono sicuro. Lo fermo. Lo afferro per la camicia e gli urlo di ridarmi il portafogli. Non fiata, non si dimena. Mette la mano in tasca e tira fuori il mio portafogli e me lo porge. Lo prendo, lo apro subito per controllare che ci sia tutto. Rialzo lo sguardo ed è già scappato a gambe levate da Fontana di Trevi verso via del Tritone.
In quel momento passa una gazzella dei carabinieri. La fermo, racconto tutto ai militari. Gli fornisco la descrizione del ladro. Loro mi chiedono le generalità, gliele fornisco. Provano a rintracciarlo ma è passato troppo tempo e temo non ci siano riusciti.
Io, con il cuore in gola, mi giro cerco di rintracciare quei turisti che mi hanno aiutato e mi hanno evitato non solo di perdere decine di euro ma soprattutto il delirio burocratico di dover rifare documenti, bloccare carte di credito e bancomat. Purtroppo però in quel marasma non li vedo più. Che Dio li benedica. Viva la solidarietà tra persone oneste.
Una storia a lieto fine che ho voluto raccontare sperando di aiutare chi la legge a stare più attento di quanto lo sia stato io. Perché purtroppo ogni giorno nel centro di Roma sono centinaia le persone che vengono derubate tra piazza di Spagna, Fontana di Trevi, Colosseo, Pantheon e Vaticano, nelle stazioni e nei vagoni della metropolitana.
«Le borseggiatrici seriali del metrò sono donne sfruttate, riconsegnarle ai parenti non è la soluzione». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.
Il giurista Gianluigi Gatta: giusta la detenzione ma in luoghi diversi dal carcere. Serve una legge, chiudere gli occhi non fa bene né a loro né ai cittadini
Esiste un rischio: «Che nell’opinione pubblica montino reazioni violente, che si esprimono nei commenti sui social. Commenti che spesso trascurano la complessità del problema umanitario e alimentano una pericolosa scia di discriminazione». Un pericolo che deriva da una miopia. Quello delle borseggiatrici seriali, che non scontano la pena perché incinte o madri di neonati, è «un problema che coinvolge più vittime: oltre alle persone derubate, i nascituri, i neonati e le stesse madri. Le donne rom vengono mandate a rubare dai gruppi cui appartengono. Sono donne sfruttate», riflette Gianluigi Gatta, ordinario di diritto penale e direttore del Dipartimento di scienze giuridiche «Cesare Beccaria» all’università Statale.
È un tema di sicurezza comune alle grandi città. A Milano si concentra nelle stazioni centrali del metrò. L’analisi è spesso superficiale, ferma a una domanda: perché se vengono arrestate non vanno in carcere? «Finché sono in età fertile, quando dev’essere eseguita la pena cui sono state condannate, queste donne sono spesso incinte o hanno figli piccoli — spiega il giurista —. In questi casi il codice penale prevede, per ragioni umanitarie e di tutela dei bambini, il rinvio dell’esecuzione della pena. Il sospetto è che alcune gravidanze seriali, da parte di donne condannate in modo altrettanto seriale, possano essere strumentali perché consentono di evitare il carcere. È un problema molto serio, anche dal punto di vista etico e morale. Il differimento dell’esecuzione della pena, pur previsto dalla legge, fa sì che queste donne siano riconsegnate ai loro gruppi di appartenenza e da questi inviate di nuovo a rubare, con un circolo vizioso che continua a ripetersi. Del problema deve farsi carico il legislatore. Chiudere gli occhi non è una soluzione».
È il punto chiave. Un principio di cultura giuridica (tutela di madri e bambini) viene distorto con effetti opposti (sfruttamento di madri e soprattutto bambini). «A Milano — ricorda il professor Gatta — alcuni anni fa il Tribunale di Sorveglianza con alcune decisioni innovative aveva disposto, al posto del rinvio o della detenzione domiciliare presso i campi nomadi», la collocazione all’Icam, l’Istituto di custodia attenuata dove madri e figli vivono insieme in un ambiente che, per quanto detentivo, «non ha le sembianze di un carcere e consente ai bambini di uscire per andare a scuola. Nel carcere di Bollate esiste un asilo nido e una sezione dedicata, che cerca di rendere meno drammatica l’esperienza della detenzione per madri e figli. Bisogna tutelare entrambi, senza dimenticarsi dei cittadini derubati sui mezzi pubblici. Rimandare a casa chi è condannato in modo seriale per furti che continuerà a commettere non è una soluzione. Non fa bene a nessuno: nè alle madri sfruttate, nè ai loro figli e men che meno ai cittadini che non vengono tutelati».
Borseggiatrici in metropolitana a Milano: perché non vanno in carcere? Che fine fanno le pene arretrate? Domande e risposte. Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.
L’elemento decisivo sta nell’articolo 146 del codice penale, che stabilisce il differimento della pena per le donne incinte e le neomamme. Le giovani donne sono un anello di una catena criminale che le sfrutta
Oggi borseggiano, oggi vengono fermate da un poliziotto o un carabiniere: perché domani mattina sono di nuovo in metrò a infilare le mani nelle tasche e nelle borse dei passeggeri? Eccola, la domanda chiave intorno a cui ruotano le storie criminali e sociali rilanciate in queste settimane da decine di video delle borseggiatrici rom postati sui social.
Perché non vanno in carcere?
L’elemento decisivo sta nell’articolo 146 del codice penale. Che stabilisce: «L'esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita: 1) se deve aver luogo nei confronti di donna incinta; 2) se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno». Dunque se una ragazza è incinta o madre di un bambino molto piccolo il giudice è obbligato a sospendere la pena.
Le giovani borseggiatrici si trovano sempre in condizione da beneficiare del «differimento pena»?
Quasi sempre è così. Purtroppo le giovani borseggiatrici sono un anello di una catena criminale (anche di sfruttamento delle ragazze) nel quale i clan conoscono le regole basilari del diritto. E quindi, soprattutto in giovane età, fino a oltre i 20 anni, quasi sempre le ragazze si trovano in gravidanza o hanno da poco avuto un bambino. E questo assicura a loro (e ai loro sfruttatori) che pur se arrestate in flagranza verranno rimesse in libertà.
Che fine fanno le pene «arretrate»?
Di fatto restano congelate, in attesa di esecuzione. E si accumulano. Qualche anno fa nel metrò di Milano è stata fermata una giovane borseggiatrice che, all’età di 26 anni, aveva già a suo carico un cumulo pena definitivo di quasi 25 anni.
Quando sconteranno la loro pena?
Al momento in cui verranno fermate, o semplicemente controllate dalle forze dell’ordine, e si troveranno nella condizione di non poter beneficiare di un nuovo differimento.
Milano, borseggiatrice in metrò bloccata dai passeggeri
Cosa succede se vengono arrestate in flagranza di reato?
Per il cumulo pene arretrato vale quanto detto sopra. Per il nuovo reato affronteranno un processo: al termine, se condannate, la pena andrà ad aggiungersi al cumulo che già hanno «maturato». La storia giudiziaria di queste ragazze contiene spesso provvedimenti che, processo dopo processo, aggiornano il cumulo delle pene.
Per scontare la pena devono essere di nuovo arrestate?
No. Se si trovano nella condizione di poter scontare la pena, basta che vengano semplicemente controllate dalle forze dell’ordine: dai terminali emergerà l’ultimo provvedimento della pena da scontare e quindi può scattare direttamente la reclusione.
Fermate e subito liberate: ecco perché le borseggiatrici non vanno in carcere. Manuela Messina il 15 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto spiega i casi in cui le donne in gravidanza o con bimbi piccoli fino a un anno di età restano libere
Il caso delle borseggiatrici incinte riprese “in azione” su metro e stazioni sta facendo discutere da ore dopo le polemiche suscitate dal post di Monica Romano, consigliera del Pd di Palazzo Marino, accusata di difendere la “privacy” dei delinquenti. L'indiscusso successo di alcune pagine Instagram – “Milanobelladadio” in primis, dove vengono postati video di furti a turisti e pendolari– dimostra che il tema suscita non poca indignazione, anche fuori dai social. Molti cittadini si chiedono se siano quindi efficaci le norme che, anche dopo un arresto in flagranza (leggi: con le mani nel sacco) rimettono immediatamente in libertà donne incinte o con bimbi piccoli al seguito, con il rischio che ritornino a borseggiare esattamente come prima.
L'articolo 146
Francesco Maisto, il garante dei detenuti di Milano, segnala che al momento nel carcere di San Vittore di Milano c'è “una sola donna accusata di borseggio incinta, di etnia rom. Ce n'era un'altra fino a ieri, quando è stata scarcerata”. Sempre il garante prova a fare chiarezza sui casi in cui alle condannate si evita il carcere in virtù del famoso articolo 146 del codice penale. Il “differimento pena”, questo è il nome, è obbligatorio quando la condannata è in gravidanza o deve occuparsi di un bimbo molto piccolo, cioè fino all’anno di età. “Significa che se la persona che deve scontare una pena definitiva è incinta oppure ha un bimbo piccolo fino a un anno di età, questa non entra in carcere”, spiega Maisto. E se il bambino è più grande? “In questo caso il differimento è facoltativo, lo decide il magistrato di sorveglianza di caso in caso”.
Con le mani nel sacco
Diverso è il caso di un arresto in flagranza, spiega Maisto. Qui a segnare il confine tra carcere e libertà è il “rischio di recidiva”. Tradotto: se vi è il fondato timore che l'arrestato in flagranza commetta di nuovo lo stesso reato una volta libero – come succede ad esempio per le borseggiatrici cosiddette “di professione” – allora si resta in cella. E non c'è gravidanza o bimbo piccolo da accudire che tenga: in questo caso il pm di turno è obbligato a tenere dietro le sbarre la borseggiatrice.
Senza rischio di recidiva, invece, continua Maisto “interviene l'articolo dell'articolo 387 bis di codice di procedura penale”. Le forze dell’ordine devono comunicare immediatamente al pm di turno e al procuratore presso il tribunale dei minorenni che l’arrestata è incinta. E una volta arrivata “la comunicazione, questa viene immediatamente scarcerata”.
La circolare che scatenò un putiferio
Nel 2019 l'ex procuratore capo di Milano Francesco Greco aveva firmato una circolare per bloccare il carcere per tutte le donne incinte o con bimbo fino a un anno. In nessun caso – cioè né in caso di esecuzione della pena detentiva e definitiva, né in caso di arresto in flagranza, le borseggiatrici in gravidanza potevano entrare in carcere: una decisione che scatenò un putiferio. E infatti il nuovo procuratore della Repubblica Marcello Viola, l'ha revocata appena si è insediato. Maisto, garante attentissimo ai diritti delle detenute e dei detenuti, precisa: “È vero che in passato si sono verificate situazioni anomali nel reparto femminile di San Vittore, dove c'erano anche 5 donne di etnia rom incinte nello stesso momento. E questo era un problema, anche perché nella casa circondariale di piazza Filangieri il servizio per le donne in gravidanza è inadeguato e non viene assicurato il servizio di ginecologia o ostetricia h24”.
Borseggiatrici, chi sono e da dove vengono: «L’Italia è un paradiso!». A Milano un arresto al giorno. Cesare Giuzzi il 16 Marzo 2023 su Il Corriere Della Sera.
La residenza spesso rimanda a Roma, ma sono stanziali a Milano. Il sistema: le donne rubano, gli uomini organizzano le «batterie» di ladre , gestiscono e spartiscono i guadagni.
«È proprio un paese di handicappati l’Italia. Però è un paradiso per gli zingari!». Risata. «Il paese di divertimento per gli zingari». La conversazione è quasi surreale. Adrijana Omerovic parla con un amico. È l’estate del 2018 e le cimici piazzate dalla polizia captano quello che è una sorta di programma criminale. L’indagine riguarda un gruppo, tutti parenti, che gestisce i borseggi in metropolitana. Un sistema organizzato, secondo gli investigatori, con ruoli e compiti ben definiti: le donne rubano, gli uomini organizzano le «batterie» di ladre nelle zone più affollate, gestiscono e spartiscono i guadagni.
I reati di destrezza
Quello dei borseggi è uno dei problemi più sentiti dai milanesi. Ma i dati del Viminale dicono che i cosidetti «furti con destrezza» sono in calo nonostante il clamore social: 21.560 nel 2021 contro i 24.556 di dieci anni prima. E fino all’anno del lockdown il numero è sempre rimasto sopra quota 25 mila. Negli ultimi tre mesi dell’anno scorso la sola squadra Mobile, che ha gruppi dedicati alla caccia ai borseggiatori, ha fatto praticamente un arresto al giorno: 84. Nei primi tre di quest’anno, considerato che siamo a metà marzo, i numeri sono sovrapponibili: 75 arresti. Un’analisi dice che solo 14 degli 84 arrestati del 2022 sono stati rilasciati senza misure in attesa di giudizio. Per 15 è stato disposto il carcere, per gli altri i giudici (gip e direttissime) hanno stabilito misure cautelari come obbligo di firma o divieto di dimora.
Le pagine social
Il caso delle ladre immortalate dalle pagine social ha fatto clamore perché le donne sono spesso incinte e incompatibili con la detenzione ma è solo una parte del problema. Molti degli arrestati sono nordafricani (egiziani e marocchini), bulgari e sudamericani. E le aree in cui agiscono sono ben più differenziate rispetto alla sola stazione Centrale o alla metropolitana. Ma cosa c’è dietro le bande di ladre incinte? Il sistema è organizzato, come dimostrato dalle indagini sul gruppo Omerovic. Spesso ad agire sono sorelle, mogli o cugine dei veri «organizzatori».
I turisti da seguire
Sono gli uomini a indicare le aree da «battere». Di solito si puntano turisti («I giapponesi sono i migliori») e si scelgono aree molto affollate. Tanto che quando arriva l’estate e Milano si svuota, molte «batterie» si trasferiscono al mare, a Firenze, Venezia, Roma. Proprio da qui provengono alcuni dei gruppi di origine bosniaca e serba più attivi. La residenza rimanda spesso ad accampamenti nel Lazio, ma si tratta in realtà di persone stanziali a Milano. C’è chi dice di risiedere nel campo di via Monte Bisbino, ai confini con Baranzate, e chi proprio come gli Omerovic e gli Hrustic, vive invece in case occupate tra il Giambellino e (fino a pochi mesi fa) via Bolla. Appena un ladro riesce a sfilare un portafoglio, subito lo passa al complice che si allontana. Si prendono cellulari e contanti, mentre i documenti finiscono in un cestino o buttati sopra le macchinette automatiche alle fermate. I soldi poi vengono spartiti: si comprano auto, borse o gioielli.
Borseggiatrici di Milano e i video linciaggi: fermare la caccia al rom. Angela Azzaro su Il Riformista il 15 Marzo 2023
A conferma che l’allarme lanciato è giusto, Monica Romano è stata presa a sua volta di mira. Con insulti e minacce. La consigliera milanese del Pd ha osato dire che i video postati sulla pagina Fb e Instagram di “Milano bella da dio” con le immagini di presunte borseggiatrici non dovrebbero stare lì. Che invece di filmare e condividere, alimentando la violenza, si dovrebbe denunciare alle autorità preposte. Bravissima e coraggiosissima, Romano.
«Credo – ha detto in una intervista al Corriere della sera – che chiunque sia in possesso di materiale di questo tipo debba consegnarlo alle forze dell’ordine. Questo è l’unico modo per porre fine alla questione dei furti in metrò. Chi difende questi sceriffi improvvisati dovrebbe seriamente ripassare i fondamentali sulle regole di convivenza civile in uno Stato di diritto». Monica Romano denuncerà gli haters che si sono scatenati contro di lei. I gestori dell’account “Milano bella da dio” hanno condiviso il post in cui lei accusava la pratica – che anche noi definiamo – barbara e sono partite le offese e le minacce. Nel suo caso, gli insulti sono ancora più pesanti: è la prima donna transgender al Consiglio comunale di Milano. Non vedevano l’ora di prenderla di mira anche per questo.
Romano dice di aver paura. Non si sente tranquilla. Siamo andate a vedere anche noi la pagina sotto accusa e siamo rimaste scioccate. I video sono una caccia alla rom. Spesso non si capisce bene neanche che cosa sia accaduto, si vedono gli insulti, le spinte e le donne che vengono accusate di furto che hanno paura. In quelle immagini lo Stato di diritto non c’è, è totalmente fuori campo, sparito dall’inquadratura, defunto. Ciò che resta è la rabbia delle persone, la loro ira che potrebbe sfociare in comportamenti più violenti. Il passo è breve. Se cade lo Stato di diritto, qualsiasi risposta è possibile. Un altro consigliere Pd, Michele Albiani, ha scritto un post molto duro. «Sono mesi che lo dico ovunque (in consiglio, in tv etc), ma evidentemente lo devo scrivere, così faccio prima: #Milanobelladadio, e tutto il sistema che gli gira intorno, fa schifo. Non arriverei a parlare di squadrismo, ma di becera fame di soldi alle spalle della salute mentale della nostra città. Infatti utilizzano materiale girato da cittadini… per ottenere visibilità, pubblicizzare i loro eventi in discoteca…».
Quei video fanno paura. Mostrano una società dove si risponde a un (presunto) reato con la violenza, con il linciaggio. Non è la prima volta che i social scatenano meccanismi di questo tipo, ma si è superato il limite della convivenza civile. Valerio Staffelli di Striscia, che sta facendo una campagna contro chi ruba sui mezzi pubblici a Milano, dica anche lui che non è linciando che si risolvono i problemi. Prenda le distanze da chi sta cavalcando la paura e istiga alla violenza.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Nicholas Vaccaro, 18 anni: «Filmo le borseggiatrici in metrò mentre il sabato i miei coetanei vanno in discoteca». Luca Caglio il 14 Marzo 2023 su Il Corriere Della Sera.
Il giovane che gira i video-denuncia per la pagina Instagram «Milano bella da dio»: «Ho votato Fratelli d’Italia ma non penso a una carriera politica»
«Sono un ragazzo particolare, lo so, io che ho 18 anni e il weekend lo passo in metropolitana a stanare le borseggiatrici. Molti miei coetanei giocano a calcio, si ritrovano all’oratorio, vanno a ballare. Be’, io preferisco spendermi per la sicurezza della mia città, Milano, documentando scippi e degrado, spaccio e occupazioni abusive».
Nicholas Vaccaro, voce fiera, è stato il «booster» della pagina Instagram «Milano bella da dio», fondata nel 2019 e decollata con la pubblicazione di video (virali) sui furti ai danni di pendolari e turisti. Quindi svelando ai cittadini volti e nomi delle ladre seriali, impenitenti e impunite. Un metodo che la consigliera comunale Monica Romano (Pd) giudica «violento» e lesivo della privacy, contrario al senso civico che a suo dire prevede la denuncia dei reati alle forze dell’ordine. Mai sui social.
Vaccaro, com’è nata la sua collaborazione con Milano bella da dio?
«Grazie ad alcuni miei video-denuncia sullo spaccio di droga a Porta Venezia. Il fondatore della pagina li vede e mi contatta: “Sei in gamba, sei giovane, mandaci qualcosa”. Qualcosa? Bene. Lo invito giù, in metropolitana, dove già conosco la piaga delle borseggiatrici. Pesca grossa. E "Milano bella da dio" inizia a imbarcare follower».
E lei, Vaccaro, ci guadagna. Follower chiamano pubblicità, soldi.
«Prego? Io non prendo un euro per i contenuti. Diciamo che sono un volontario per la sicurezza, come altri miei amici che presidiano le stazioni. Il mio guadagno sono i “grazie” della gente, quei cittadini che ora possono difendersi perché informati. Avessero aspettato il vademecum del Comune… Nessun tornaconto personale. E poi io lavoro. Riesco a ritagliarmi quattro giorni a settimana per i sopralluoghi sotterranei».
Di cosa si occupa?
«Sono impiegato in una società di sicurezza, guarda un po’, che ha un contratto d’appalto con un’università milanese. Sto alla reception: controllo chi entra e chi esce. Ho fatto l’alberghiero, tre anni al Capac, un istituto professionale. Lo studio, un peso. Però ho scritto un libro autobiografico, "Hotel del futuro", sulla mia infanzia travagliata, la vita in comunità ma non per droga. Colpa di problemi familiari, genitori distanti. È stata dura. Ora vivo con mamma».
La ritrovata serenità.
«Insomma. Le borseggiatrici mi minacciano. Soprattutto i loro mariti o compagni».
Come?
«Su TikTok. Avevo condiviso un video di un tentato furto, milioni le visualizzazioni. A un certo punto arriva un messaggio: “Sei un figlio di p., hai picchiato mia moglie incinta, il mio bambino, dammi il tuo indirizzo, vedrai cosa ti succede”. E un’altra volta una borseggiatrice mi ha spruzzato in volto spray al peperoncino».
Avete mai denunciato i furti alle forze dell’ordine, come suggerisce la consigliera Romano?
«Certo che sì. Scrivendo via email a prefettura e questura, e allegando tutto il materiale. Dicono che ne sono al corrente. Stop. Meglio mi è andata quando ho segnalato il caso dell’ex liceo Manzoni, in via Rubattino, occupato da minori stranieri scappati dalle comunità. Lo scorso novembre è stato sgomberato».
Altre missioni?
«Sto aiutando una signora di 58 anni che rischia di finire in strada. Le hanno bloccato il reddito di cittadinanza, così sto cercando di capirne il motivo con l’Inps. Qualche documento mancante, forse. Per ora dorme in un affittacamere a Sesto San Giovanni. Ho promosso una raccolta fondi già arrivata a 900 euro».
Ha già esercitato il suo diritto di voto?
«Sia alle politiche sia alle regionali. Ho dato fiducia a Fratelli d’Italia».
Ambisce a una carriera politica?
«Per ora no. Rischierei il pregiudizio, quando vorrei solo testimoniare a tutti il lato oscuro di Milano. Avevo la tessera di Fratelli d'Italia, ma ora non più per evitare strumentalizzazioni».
"Filmo il degrado a Milano". La missione del 18enne che non piace al Pd. Nicholas Vaccaro passa i suoi weekend a filmare scippi e borseggi in metro per mettere in guardia i cittadini. Una mission nel segno della sicurezza contestata dalla consigliera Pd Romano. Novella Toloni il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
Tabella dei contenuti
L'impegno per Milano
Le minacce delle ladre
Le denunce rimaste inascoltate
Nicholas Vaccaro ha 18 anni e invece di andare a ballare o al cinema, come tutti i suoi coetanei, trascorre le sue serate a documentare il degrado di Milano: scippi, borseggi in metro, spaccio e occupazioni abusive. Tutto filmato e condiviso sui social network solo per senso civico: "Mi spendo per la sicurezza della mia Milano". Eppure, c'è qualcuno che ha avuto il coraggio di contestare il suo impegno - la consigliera comunale Monica Romano del Partito Democratico - che ha definito il suo operato "violento e lesivo della privacy".
L'impegno per Milano
I suoi video, nei quali mostra ai milanesi i volti e le identità delle ladre seriali, diventano virali in rete e la pagina Instagram "Milano bella da Dio" lo contatta per collaborare. I filmati sui furti ai danni di ignari turisti e malcapitati pendolari hanno milioni di visualizzazioni, ma da questo suo impegno Nicholas non prende un centesimo. "Diciamo che sono un volontario per la sicurezza. Il mio guadagno sono i 'grazie' della gente", ha raccontato al Corriere il 18enne, che oggi gode di un'ondata di popolarità senza precedenti. Nicholas, che lavora come impiegato di reception e ha un passato da militante in Fratelli d’Italia ("Ma ora non più per evitare strumentalizzazioni"), non è solo nella sua missione. "Altri miei amici presidiano le stazioni della metro", spiega, rivelando della rete di controllo messa in atto nel tempo per seguire le borseggiatrici (ma anche spacciatori e immigrati), che delinquono nel sottosuolo cittadino.
"Tu rubi", "Io lavoro". Le parole choc della borseggiatrice a Staffelli
Le minacce delle ladre
I suoi video sono tra i più visti del web e generano un seguito fuori dalla norma, considerando che non si tratta di contenuti ironici né glamour tanto in voga sui social. Nicholas racconta di avere ricevuto pressioni e minacce per il suo impegno. "Le borseggiatrici mi minacciano. Soprattutto i loro mariti o compagni". Su TikTok il 18enne è stato addirittura contattato dal compagno di una delle ladre: "Avevo condiviso un video di un tentato furto, milioni di visualizzazioni. Poi mi arriva un messaggio: 'Sei un figlio di p... hai picchiato mia moglie incinta, il mio bambino, dammi il tuo indirizzo, vedrai cosa ti succede'". Mentre in un'altra occasione una borseggiatrice ha reagito spruzzandogli in faccia spray al peperoncino. Lui però non molla e continua nella sua battaglia per la legalità.
Fermate e subito liberate: ecco perché le borseggiatrici non vanno in carcere
Le denunce rimaste inascoltate
La consigliera Pd Romano ha criticato l'operato di Vaccaro, invitandolo a denunciare invece di pubblicare su Instagram i video. Cosa che il ragazzo ha fatto in più di una occasione: "Ho inviato mail a prefettura e questura, allegando tutto il materiale. Dicono che ne sono al corrente. Stop. Meglio mi è andata quando ho segnalato l'ex liceo Manzoni occupato da minori stranieri scappati dalle comunità. A novembre è stato sgomberato". Impegno e missioni anche sociali, come l'aiuto a una donna di 58 anni che viveva per strada in gravi difficoltà economiche.
«Attenti ai borseggiatori», il cartello indicato dall'elefante allo zoo di Milano: ecco la vigilanza attiva (già) negli Anni '70. Giangiacomo Schiavi su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.
Con la proboscide Bombay mostrava al pubblico la scritta, avvisava di fare attenzione ai «borsaioli». E di «fa ballà l’oeucc»: tenere gli occhi ben aperti
Caro Schiavi, grande scalpore e dibattiti si sono scatenati per le riprese con telefonini dei moderni borseggiatori milanesi. Mi fa ricordare quando, ancora negli Anni '70 allo zoo di Milano, la paziente elefantessa Bombay, indicava con la proboscide un cartello con la scritta «Attenti ai borsaioli» per divertire ed avvertire gli spettatori del suo piccolo spettacolo quotidiano. Fortunatamente per Bombay lo zoo non ospitava allora i leoni da tastiera…con buona pace dei borseggiatori. Angelo Comotti
Caro Comotti, basta e avanza la sua mail per chiudere un’ uscita infelice che non meritava tutta l’attenzione che ha avuto: stare in guardia da ladri e scippatori è doveroso, se qualcuno ci avverte lo ringraziamo, se lo fa con i segnali di fumo, con il fischietto o con lo smartphone è lo stesso. Non c’è nessuna privacy violata, gentile Monica Romano, consigliera comunale pd: si tratta di vigilanza attiva, di controllo del territorio, di un passaparola che si attiva nelle chat di condominio quando si aggirano i falsi esattori della luce…
Ci dissociamo dagli insulti dei manganellatori da social che navigano nella pattumiera della rete, ma converrà con noi che l’aumento dei reati da strada, cosiddetti «predatori», sono aumentati negli ultimi mesi ed è normale che se ne parli e si chieda un maggior controllo: qualche pattuglia di polizia in più dunque, vigili in strada finalmente, di questo ha bisogno Milano per sentirsi più sicura. Altri lettori ricordano che nelle stazioni del metrò anche l’Atm metteva in guardia i viaggiatori (“ma ora non più”, scrive Giulio Milanesi), e che il livello di furti ha raggiunto il limite di guardia (“nonostante una parte politica tenda a minimizzarli se non quasi scusarli”, scrive Mauro Bettale). Poi c’è l’elefantessa «Bombay» e la sua foto è un cimelio di anni in cui per gli animali non esisteva il politicamente corretto: però ladri e borseggiatori esistevano anche allora e siccome il portafoglio è prezioso, ecco l’invito a tenerlo stretto. Che cosa dovevano fare allo zoo? «Attenti ai borseggiatori» l’hanno indicato con una proboscide: messaggio crudele di involontaria comicità. Un modo per dire quello che vale anche oggi, e che la lingua milanese traduce così: fa ballà l’oeucc
Milano, la borseggiatrice con 9 figli: «Guadagno fino a 1.000 euro al giorno con i furti, ma ho sensi di colpa». Luca Caglio su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2023
Milano, le confessioni di una 29enne che scippa I passeggeri del metrò. «Ho imparato il mestiere a 13 anni, una delle mie sorelle ha preferito studiare e oggi ha un lavoro. Per me è troppo tardi. Il carcere? Non rischio nulla»
Le rubo dieci minuti, signora, promesso.
Ma si può mai «rubare» qualcosa in casa dei ladri — la metropolitana s’intende — foss’anche il tempo per un’intervista, che poi sarebbe la confessione di una borseggiatrice, un diritto di replica, la sua difesa d’ufficio in un processo (mediatico) per I furti ai danni di pendolari e turisti, ovvero la parte civile ma forse un po’ incivile, «violenta» (cit. Monica Romano, Pd) quando la denuncia avviene a mezzo social? Che saga, le borseggiatrici. E che strano averne una qui davanti, ora, nel mezzanino della stazione Centrale. Forse la chiusura di un cerchio, o l’apertura del cerchio per capire le geometrie del gioco sporco, sapere perché lo fa e chi c’è dietro. Quanta vita in dieci minuti. La vita di Ana (nome di fantasia), 29 anni e 9 figli.
I figli vivono con lei?
«No, tutti in Bosnia, dove sono nata. L’ultimo parto è stato a dicembre. Se ne occupa mio marito, che non lavora. Mantengo io la famiglia: mando I soldi a casa e non sono pochi. È capitato che in un giorno mettessi in tasca 1.000 euro, un’eccezione, perché anche 500 sono una fortuna ora che la gente gira con poco contante. Io però ho pazienza. Sette giorni su sette, dalla mattina alla sera».
Quando stacca dal «turno» dove va?
«A casa, zona Niguarda, nell’appartamento comprato dai miei genitori. Lo condivido con amiche e parenti: le mie colelghe di scippi. Io però preferisco muovermi da sola o al massimo in coppia, tra Duomo e Centrale, per non dare nell’occhio. Guardi che affollamento, quante persone: ne studio I volti, le movenze, infine battezzo la vittima».
Come colpisce in metropolitana?
«Mi apposto nei pressi dei distributori automatici di biglietti, così posso vedere dove il passeggero ripone il portafoglio. Quando decido di entrare in azione, seguendo il soggetto a mio giudizio più vulnerabile, spesso donne, mi sfilo il giubbotto e me lo porto al braccio, nascondendo la mano con cui frugherò nella sua borsa. Se pesco uno smartphone va bene uguale».
Ha ereditato l’arte del furto dai genitori?
«Anche. Loro adesso vivono in Spagna, in una seconda casa di proprietà. Una delle mie sorelle s’è ribellata a questa vita, fuggendo, e so che è diventata parrucchiera. Non abbiamo più rapporti e si vergogna del suo cognome. È stata nostra zia a iniziarci».
Quando?
«A 13 anni, ci insegnava il mestiere nella metropolitana di Roma. Tuttora mi onfus tra Milano e la Capitale, dove abbiamo un altro tetto. Mi sposto in treno, non ho la patente né una vita sociale: mio marito è molto geloso. Mi premetto giusto qualche cena al ristorante».
Non può seguire l’esempio di sua sorella?
«Troppo tardi, ma se potessi tornare indietro scapperei anch’io. Adesso dove vado, con 9 figli, io che non so fare niente e che sono semianalfabeta? L’unica che mi riesce bene è rubare. A volte ho i sensi di colpa».
Dopo quanto si va in pensione?
«Credo mai. Mia zia, over 50, è ancora in pista. E so di una veterana attiva che ha 78 anni».
È a conoscenza dei video sui social che documentano I vostri blitz?
«Certo e mi dà fastidio. Ma non reagisco quando qualcuno mi riprende. Altre borseggiatrici sono più aggressive. Rubare a Milano è diventato più difficile. I passeggeri ci riconoscono».
Altri ostacoli?
«La concorrenza. Ci sono ladre che nel weekend raggiungono Milano in camper».
Ora non è più incinta. Teme il carcere?
«Con un bimbo appena nato? Non corro nessu rischio. Non mi portano più nemmeno in caserma. Prima ci finivo anche più volte al giorno: sempre rilasciata perché incinta o in quanto madre di neonati».
Se Ana è sembrata sincera, un’altra borseggiatrice ha preferito negare anche l’evidenza. Mascherina in volto e telefono Nokia preistorico, ha respinto qualsiasi addebito, salvo poi contraddirsi. «Io incinta? Ma va’, sono grassa. Ladra? Mai rubato, lavoro in una scuola. Avete sbagliato persona, anche la polizia una volta s’è confusa. E comunque la smettano, questi ragazzetti, di fare video: perché non inseguono chi ammazza o chi porta via I bambini?». Touché.
Pd, si può mettere alla gogna solo chi è nemico dei dem. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 17 marzo 2023
Ma come, consigliere Romano? Si è permessa di fare la morale a quei cattivoni che girano in metropolitana per filmare e fotografare le borseggiatrici che ripuliscono i vagoni h24, incassando pure il plauso del Pd, e poi - non più tardi dello scorso novembre metteva alla gogna sui social un suo detrattore? Allora come la mettiamo? La privacy vale solo a corrente alternate?
Quando toccano un esponente di sinistra è giusto pubblicare nome e cognome con relativo commento mentre se si tratta di proteggere pendolari e turisti dalle mani leste delle conosciutissime ladre nomadi è pratica deprecabile mettere i loro faccioni online? Basta intendersi. Il doppiopesismo, però, è sotto gli occhi di tutti.
IL PRECEDENTE Era il 23 novembre, quando Monica Romano - il primo consigliere comunale transgender a Milano, eletto in quota Partito Democratico postava su facebook lo screenshot di un commento ricevuto a un video, da lei pubblicato su TikTok per contestare Checco Zalone «per la sua orribile “satira” ai danni delle persone trans». Due righe che recitavano così: «Quelle come te dovrebbero stare due metri sotto la terra». Una vergogna.
Perché solo così puo definirsi un inequivocabile augurio di morte. Questo è fuori discussione: i social non potranno mai essere considerati una discarica dove poter vomitare di tutto impunemente. E lo stesso, ovviamente, vale anche per gli insulti ricevuti dal consigliere dopo aver bacchettato i giovani che ogni giorno cercano di contrastare le borseggiatrici armati di telefonino.
Però, ed è di fatto innegabile, pubblicando quel commento con tanto di nome e foto ben visibili, l’esponente dem ha fatto la stessa cosa per cui cinque giorni fa si è stracciata le vesti. Un cortocircuito in piena regola.
Con orgoglio, tra l’altro, Romano annunciava sui social che aderiva alla campagna #eiotipubblico, ringraziando l’ideatrice Laura Boldrini per averla coinvolta. L’obiettivo dichiarato, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, era quello di mettere in mot «una catena collettiva di indignazione» e accompagnare ogni post di denuncia con il relativo hashtag.
«Contribuiamo a rendere il web un posto migliore e sicuro»: si chiudeva così il papiro della Boldrini condiviso da parecchie politiche di sinistra contro «una violenza di nuova generazione, che ha il volto del linguaggio d’odio, del sessismo e della misoginia online».
Ma non è tutto. Perché nel recente post in cui il consigliere chiedeva «a quelli che realizzano i video» di smetterla «di spacciare la loro violenza per senso civico», il centrodestra è stato velatamente accusato di lucrare consenso grazie a questa modalità di denuncia online. Scriveva infatti: «Di violenza e squadrismo ne abbiamo già avuti abbastanza davanti a un liceo di Firenze e nelle acque di Cutro».
Quindi, di fatto, sarebbe sbagliato secondo lei usare social e chat rendere virali problematiche che inevitabilmente impattano sul dibattito politico. E allora perché, sul suo profilo facebook, Romano la buttava addirittura sul ddl Zan in merito ai brutti epiteti ricevuti?
ACCUSE POLITICHE - Era l’8 settembre scorso e così scriveva: «Io credo- e nulla me lo toglierà dalla testa che il clima stia cambiando da quando la legge Zan è stata affossata e ancor di più in vista delle prossime elezioni. I geni si sentono al sicuro, sempre più legittimati a esprimere le loro “opinioni”, a offendere e ad aggredire tanto verbalmente quanto fisicamente anche perché sanno che i sondaggi danno le destre in vantaggio». E ancora: «I diritti delle persone Lgbt+, delle donne, delle minoranze etniche o di credo religioso e delle persone con disabilità qui in Italia sono fragili. Mi duole doverlo dire ma l’Italia non è un paese sicuro per noi persone Lgbt+, per le donne e per le minoranze in genere. Stiamo in campana e andiamo tutt* a votare». Con tanto di pugno chiuso e bandiera arcobaleno. Dimenticandosi, oggi come allora, che gli insulti e le minacce sono sempre la strada peggiore da percorrere: non esiste una scala di gravità in base a chi viene colpito, così come non possono esserci due pesi e due misure nel denunciarli. Oppure merita il patibolo social solo chi è nemico del Pd?
99 contro 1: ecco il sondaggio sulle borseggiatrici che annienta la sinistra. Marco Leardi il 17 Marzo 2023 su Il Giornale
Striscia la Notizia interroga il pubblico sui video social che denunciano e smascherano i borseggiatori. Il 99% dei votanti ha bocciato la posizione del Pd: "Una stro..."
Il risultato è stato plebiscitario, schiacciante. Con buona pace della sinistra milanese e della sua battaglia sulla privacy delle borseggiatrici. Secondo il 99% dei partecipanti a un sondaggio lanciato da Striscia la notizia, la consigliera comunale Pd Monica Romano (che aveva criticato i video di denuncia postati sui social) ha detto una fesseria. Anzi di più: "una str*nzata", per usare l'espressione di Rocco Tanica, tastierista del gruppo Elio e le Storie Tese, in aperto dissenso con l'esponente dem.
Il sondaggio di Striscia
Dopo la polemica sorta nei giorni scorsi, il tg satirico di Canale5 - che da tempo promuove una campagna tv contro scippatori e malintenzionati - aveva interpellato il proprio pubblico per capire cosa ne pensasse. La trasmissione Mediaset, in particolare, aveva chiesto ai telespettatori di prendere posizione, stabilendo chi avesse ragione tra la consigliera comunale Pd e il tastierista Rocco Tanica. "Quest’abitudine di filmare persone sorprese a rubare sui mezzi Atm di Milano e di diffondere i video su pagine Instagram con centinaia di migliaia di followers è violenza, ed è molto preoccupante", aveva lamentato l'esponente dem e il musicista aveva le risposto in modo graffiante: "Grazie a Monica Romano per questa grandiosa str*nzata".
Il risultato che stronca il Pd
Il sondaggio, effettuato sul sito internet di Striscia, si è concluso nelle scorse ore il tg satirico ne ha divulgato l'esito finale. Per il 99% dei votanti - questo il risultato - quella proveniente da sinistra era una posizione non condivisibile. Per quanto possa essere rappresentativa una tale consultazione, il risultato la dice lunga sulla (mancata) sintonia della sinistra milanese rispetto alla realtà percepita dai cittadini. I video postati sui social, del resto, non sono altro che una risposta istintiva alla scarsa sicurezza avvertita da chi utilizza i mezzi pubblici o frequenta alcune zone della città battute dai malintenzionati.
"Quello delle borseggiatrici non è un fenomeno che riguarda la nazionalità delle persone coinvolte, né tantomeno può essere ricondotto a un atteggiamento discriminatorio", aveva spiegato nelle scorse ore Striscia, mostrando le immagini di uno scippo su un mezzo pubblico sventato proprio da una donna araba. Il programma aveva poi trasmesso anche il filmato di un borseggio evitato a Venezia da un turista straniero.
Le lamentele espresse dalla consigliera Pd sui video social di denuncia, peraltro, sono sembrate in aperta contraddizione con una campagna anti-hater condivisa dalla stessa Romano nei mesi scorsi. Per svergognare un odiatore che l'aveva gravemente insultata, l'esponente dem aveva pubblicato i riferimenti del bullo da tastiera sul proprio profilo Facebook. Ma in quel caso nessuno si era giustamente lamentato né aveva gridato allo "squadrismo".
Italia, il paradiso (amaro) delle borseggiatrici di Milano. Andrea Soglio su Panorama il 16 Marzo 2023.
Ladre professioniste, che vivono in case occupate abusivamente, arcinote alle Forze dell'ordine, impunite. e che si prendono gioco di noi.
La frase, purtroppo, non è lo slogan del nostro ente del turismo o la recensione Tripadvisor di qualche americano rimasto a bocca aperta davanti alle bellezze di Roma e Venezia. Sono le parole di una delle famose borseggiatrici «nomade» (guai a dire zingare, guai….) che imperversano, anzi, vino felici tra la Stazione Centrale di Milano e le due linee della metropolitana che si incrociano proprio in uno dei principali punti di approdo del capoluogo lombardo. Un paradiso, dice la giovane, alla telecamera che la riprende. E, in effetti, ha tutte le ragioni per sostenerlo. Mettetevi nei miei panni: casa gratis perché la situazione abitativa della giovane e delle sue colleghe nomadi (e non zingare, lo ribadiamo) si divide in due. Da una parte c’è il campo nomadi del Comune che offre struttura, e bollette; in alternativa c’è l’occupazione abusiva di una casa, anche questa del Comune. Per quanto riguarda poi il lavoro, anche qui, nessun problema: ladre professioniste, con una lunga, lunghissima esperienza. Astenersi perditempo.
Un lavoro che, a guardare il codice penale, sarebbe un reato: furto o rapina. Reato che prevede delle pene. Invece qui c’è la falla nel sistema. Perché queste borseggiatrici sono conosciute non solo dalle forze dell’ordine ma persino dagli abituali pendolari della Stazione centrale e sono state fermate decine e decine di volte. Avendo noi gli uffici proprio a due passi dal piazzale e dalla stazione abbiamo visto più volte commettere dei furti, o quantomeno, tentarli; abbiamo sentito le forze dell’ordine avvicinarsi a loro e ammonirle come si fa con il figlio discolo… «dai, ragazze, andate via…». Stop. In realtà le abbiamo anche viste fermate con le mani ne sacco, e non è un modo di dire; prese, fermate, e caricate sulla volante. Il fatto è che il giorno dopo, invece che trovarsi nelle patrie galere, erano nuovamente al loro posto di lavoro, puntuali. Si parla tanto di loro, da giorni, e abbiamo anche imparato che esiste un cavillo legale per il quale non è possibile arrestarle e metterle in un cella: impunità e serene, quindi. Un vero e proprio paradiso. Ma c’è di più. C’è persino chi le protegge, nella persona della consigliera comunale Monica Romano che ha attaccato chi diffondeva i video con le facce delle ladre per cercare di mettere in guardia i viaggiatori, probabili future vittime. «Non si devono sottoporre alla gogna mediatica….» ha detto la Romano, che però poi ha tolto il post dai social, senza in realtà cambiare idea. Anni fa, nel pieno delle crisi legata alle bande delle rapine in villa che colpivano indisturbate, vennero rese pubbliche delle telefonate che i rapinatori facevano ai loro parenti: «Venite qui, tanto anche se ti prendono non ti succede nulla e poco dopo sei libero….». Anni fa durante in viaggio in un emirato, diciamo non troppo democratico, chiesi alla guida quale fosse nel paese lo stato delle criminalità. Lui rise e disse: «Qui non è come da voi; qui non ci provano nemmeno a rubare, altrimenti gli tagliamo la mano…». ecco. Tra la legge del Taglione e l’impunità ci sono delle vie di mezzo che vanno esplorate e che non sembrano nemmeno troppo complesse da mettere in pratica. Siamo il paradiso, siamo il Paese dei balocchi purtroppo però non della gente onesta (che va avanti tra mille difficoltà) ma dei ladri, borseggiatrici o rapinatori che siano. E la cosa peggiore non è la frase in se, ma il tono con cui la nomade borseggiatrice l’ha pronunciata: ridendo, in maniera arrogante, sfidando giornalisti ed agenti, con fare sbruffone. Questo l’Italia non lo può e non lo deve permettere
Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per corriere.it il 16 marzo 2023.
«È proprio un paese di handicappati l’Italia. Però è un paradiso per gli zingari!». Risata. «Il paese di divertimento per gli zingari». La conversazione è quasi surreale. Adrijana Omerovic parla con un amico. È l’estate del 2018 e le cimici piazzate dalla polizia captano quello che è una sorta di programma criminale. L’indagine riguarda un gruppo, tutti parenti, che gestisce i borseggi in metropolitana. Un sistema organizzato, secondo gli investigatori, con ruoli e compiti ben definiti: le donne rubano, gli uomini organizzano le «batterie» di ladre nelle zone più affollate, gestiscono e spartiscono i guadagni.
[…] Le pagine social
Il caso delle ladre immortalate dalle pagine social ha fatto clamore perché le donne sono spesso incinte e incompatibili con la detenzione ma è solo una parte del problema. Molti degli arrestati sono nordafricani (egiziani e marocchini), bulgari e sudamericani. […]
I turisti da seguire
Sono gli uomini a indicare le aree da «battere». Di solito si puntano turisti («I giapponesi sono i migliori») e si scelgono aree molto affollate. Tanto che quando arriva l’estate e Milano si svuota, molte «batterie» si trasferiscono al mare, a Firenze, Venezia, Roma. Proprio da qui provengono alcuni dei gruppi di origine bosniaca e serba più attivi. La residenza rimanda spesso ad accampamenti nel Lazio, ma si tratta in realtà di persone stanziali a Milano.
C’è chi dice di risiedere nel campo di via Monte Bisbino, ai confini con Baranzate, e chi proprio come gli Omerovic e gli Hrustic, vive invece in case occupate tra il Giambellino e (fino a pochi mesi fa) via Bolla. Appena un ladro riesce a sfilare un portafoglio, subito lo passa al complice che si allontana. Si prendono cellulari e contanti, mentre i documenti finiscono in un cestino o buttati sopra le macchinette automatiche alle fermate. I soldi poi vengono spartiti: si comprano auto, borse o gioielli.
Premessa incriminatrice. Un paese che non si reputa razzista, ma con molte amiche “borseggiatrici rom”. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 28 Marzo 2023
Per giorni il dibattito pubblico si è concentrato sul tema usando un’espressione aberrante. Nemmeno uno, a destra (figuriamoci) come a sinistra, che abbia fatto notare l’oscenità di certi appellativi
Il solo fatto che per qualche giorno si sia imposto sulle prime pagine dei giornali e nei dibattiti televisivi l’uso di questa dicitura, «borseggiatrici rom», dice molto bene quanto sia andato in desuetudine – sempre che sia mai stato in funzione – il comune dovere di controllo e contenimento dell’aberrazione razzista.
Semmai ci si è divisi in questi altri due fronti. Il fronte di quelli che senza tante storie reclamavano attenzione e provvedimenti speciali per quella notoria categoria delinquenziale, da un lato, e dall’altro lato il fronte di quelli che invece ne proteggevano il diritto alla privacy: brutte sporche e cattive, come negarlo? Ma siamo democratici e quindi non le fotografiamo.
Che tra le tante emergenze italiane che alimentano, e di cui si alimenta, la monnezza giornalistica abbia fatto capolino la “questione rom”, evidentemente, non arreca disturbo a nessuno. Né a chi la pone – questo è chiaro – ma nemmeno a chi se la vede opposta, cioè a dire la sinistra cui si addebita di volerle mandare in giro liberamente, le “borseggiatrici rom”: la sinistra che mica risponde come si deve, e cioè che dire «borseggiatrici rom» è come dire «negri assassini» o «ebrei usurai», e invece replica che non è vero, noi volevamo solo tutelare i i bambini e le gravide in carcere, ma figurarsi se siamo teneri con le «borseggiatrici rom».
Il criterio è pressappoco quello del giornalismo democratico che mette in riga gli antisemiti che prendono di mira il naso di Elly Schlein, volgari mistificatori della verità rino-progressista impegnati a censurare le reali origini etrusche di quella protuberanza ingiustamente incolpata di giudaicità.
E così tutti dentro a discutere dei delitti delle borseggiatrici rom, dei diritti delle borseggiatrici rom, dei figli delle borseggiatrici rom, dei feti delle borseggiatrici rom, del carcere duro o del carcere morbido per le borseggiatrici rom, del pugno di ferro contro le borseggiatrici rom o della rieducazione delle borseggiatrici rom e neanche uno, letteralmente neanche uno, a denunciare che l’uso stesso di quell’espressione è potenzialmente il preludio di una reazione sociale e di una giustizia che indugiano meno sul furto che sulla condizione etnico-razziale di chi lo commette. Con l’inevitabile conseguenza – ed evidentemente neppure questo pericolo è avvertito – che quella condizione diventa una specie di premessa incriminatrice.
E dunque: non fa effetto a nessuno, proprio a nessuno, che a qualche decennio di distanza dai saggi sulla «piaga zingara» qui si discuta senza perplessità del tema delle «borseggiatrici rom»?
Milano, la borseggiatrice choc: "L'Italia è proprio un paese di...". Libero Quotidiano il 16 marzo 2023
"È proprio un paese di handicappati l’Italia. Però è un paradiso per gli zingari!", "Il paese di divertimento per gli zingari": questo lo scambio che una borseggiatrice avrebbe avuto con un suo amico. La conversazione, captata dalle cimici piazzate dalla polizia, risalirebbe all’estate del 2018. L’indagine, in particolare, come riporta il Corriere della Sera, riguarderebbe un gruppo, composto da parenti, che gestisce i borseggi in metropolitana.
Si tratterebbe di un sistema organizzato, secondo gli investigatori: le donne sarebbero incaricate di rubare, gli uomini invece si occuperebbero di smistare le borseggiatrici nelle zone più affollate e poi di gestire e dividere i guadagni. Al momento, quello dei borseggi è uno dei problemi più sentiti dai cittadini a Milano. Nonostante questo, però, i dati del Viminale dicono altro: i cosiddetti "furti con destrezza" sono in calo, 21.560 nel 2021 contro i 24.556 di dieci anni prima. Stando ai dati riportati dal Corsera, "negli ultimi tre mesi dell’anno scorso la sola squadra Mobile, che ha gruppi dedicati alla caccia ai borseggiatori, ha fatto praticamente un arresto al giorno: 84. Nei primi tre di quest’anno, considerato che siamo a metà marzo, i numeri sono sovrapponibili: 75 arresti".
Questo fenomeno ha avuto un grosso clamore sui social. Molti degli arrestati sono nordafricani, bulgari e sudamericani. E le aree in cui agiscono sono diverse e non limitate alla sola stazione Centrale o alla metropolitana. Ora gli investigatori avrebbero scoperto che spesso ad agire sono sorelle, mogli o cugine dei veri "organizzatori". Sarebbero gli uomini, infatti, a indicare le aree da presidiare. Di solito si puntano turisti e si scelgono aree affollate.
«Torino città di m...», le scuse di Morando: «Affermazioni dettate dall'ira del momento». Redazione online su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.
Le parole dell'imprenditore del vino hanno scatenato la rivolta dei ristoratori piemontesi che hanno invitato i locali della città a boicottare i suoi prodotti
«Alla luce di una serata gogliardica, passata con amici, usciti da un noto ristorante (sottolineo non si tratta del ristorante Il Cambio) ho trovato la macchina rigata. La terza volta in tre mesi. Preso dall’ira, sono consapevole di aver utilizzato una frase che assolutamente non penso. “Torino è una città di merda” e ‘"A Torino la ristorazione è di basso livello” sono state esternazioni di un momento di indignazione». Sono le parole di scuse dell'imprenditore del vino e del pet food Franco Morando, finito nella bufera per le esternazioni negative sulla città durante una diretta social con l'avvocato torinese Alessandra Demichelis. Le affermazioni hanno scatenato la rivolta dei ristoratori piemontesi che hanno invitato i locali della città a boicottare i suoi prodotti.
«Vivo, cammino, respiro, mangio e bevo quotidianamente a Torino - ha aggiunto - La città ha adottato i miei vini e le mie etichette per prima. Non denigrerei mai una realtà simile. Viaggio a testa alta, mi pento e chiedo scusa alle Associazioni di categoria per l’eventuale disagio che le mie parole hanno provocato. Penso che per una battuta infelice esternata esclusivamente per questioni di delusione e sdegno ci sia un eccessivo accanimento nei confronti della mia persona. Fatica, sudore, eccellenza, presenza sul territorio sono state fino ad oggi e lo saranno sempre parole d’ordine e nessun video potrà mai distruggere un sogno chiamato Montalbera».
La studentessa americana: «I miei 6 mesi da incubo a Firenze e l’odio degli italiani». E Amanda Knox le risponde. Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023
La giovane studentessa è tornata negli Stati Uniti e ha scritto un lungo articolo sul suo soggiorno a Firenze. Amanda Knox su Twitter replica (con ironia?): «Ma cosa dici? È meraviglioso studiare all'estero»
«Sono una studentessa della New York University, ho studiato a Firenze per sei mesi e ho odiato ogni aspetto del mio soggiorno». È tornata di corsa in patria Stacia Datskovska - 23 anni, studentessa di giornalismo e relazioni internazionali - dopo il semestre trascorso nel capoluogo toscano, durante il quale ha trascorso quasi ogni giorno a rimpiangere la sua New York. Non si aspettava di trovare quello che ha trovato e, profondamente delusa dal soggiorno, ne ha scritto al suo ritorno sul magazine americano Insider, seguito soltanto su Facebook da oltre 9 milioni di persone.
Un’esperienza da dimenticare, quella di Stacia a Firenze.
Delusa da (quasi) tutto, ma soprattutto dalla casa sovraffollata condivisa con sette studentesse, dalle stesse coinquiline che passavano molte sere a festeggiare anziché studiare e poi, nel fine settimana, invece di godersi Firenze, spesso ne approfittavano per una gita fuori porta con i voli Ryanair. E poi, non ultimo, il comportamento degli italiani e dei fiorentini, accusati dalla giovane di guardarla con diffidenza e con una certa ostilità.
Il tweet di Amanda Knox
Uno spaccato di Firenze, quello descritto da Stacia, a cui risponde via Twitter Amanda Knox, l'americana che fu detenuta per quasi quattro anni a Perugia per l'omicidio di Meredith Kercher prima di tornare libera e quindi venire definitivamente assolta. Con un tweet un po' criptico (considerata la sua esperienza italiana), ha risposto a Stacia sostenendo che, al contrario di quanto affermato dalla ragazza, studiare all'estero è eccezionale.
La storia di Stacia
Tornando alla storia di Stacia, la ragazza ha abitato in via Tosinghi, in pieno centro storico. Prima di trasferirsi a Firenze, scrive la ragazza nel suo articolo, immaginava divertenti cene alla buona con le coinquiline, avventure estive, gelato e vino italiano da abbinare al prosciutto e ad una bella conversazione. «Ma quando il mio semestre è finito, ho cominciato a disprezzare i panorami, odiare le persone e non vedevo l'ora di tornare a casa nel mio campus di New York». Un giudizio spietato.
Il suo racconto inizia dalle coinquiline, molte delle quali americane. «Le persone con cui vivevo avevano orari sfalsati rispetto ai miei, questo significava che sarebbero state in giro in vari momenti del giorno e della notte. Alcune prendevano l'autobus per il nostro campus alla periferia della città, mentre altre andavano a piedi al negozio di panini All'Antico Vinaio dopo lezione, tornando a casa saltuariamente per fare i compiti. Molti uscivano fino a tarda notte approfittando dell’età legale per bere in Italia».
La sua routine si concilia male con quella dei suoi coinquilini coetanei. «Non andavo fuori a festeggiare, lavoravo a casa la maggior parte del tempo ed era diventato difficile concentrarmi sui miei progetti universitari». E poi il comportamento degli italiani che, scrive lei, «vengono spesso descritti come pieni di sentimento e ospitalità, ma potrei fare esempi concreti di ostilità».
Esempio: «Una volta in autobus due donne stavano parlando di me, mi guardavano dall'alto in basso e mi deridevano». E allora lei, quasi come forma di protesta, ha iniziato a vestirsi con un abbigliamento sportivo di marca americana, con scarpe Nike Air Max 97 e felpe grandi con cappuccio: «Quando passavo per strada, gli italiani storcevano il naso». Atteggiamenti che le fanno scaturire una domanda: «Perché i fiorentini, nonostante i 5mila studenti americani in città, sono ancora arrabbiati per il modo in cui ci comportiamo e disgustati da come ci vestiamo?».
E insomma, Stacia aveva nostalgia di casa: «Mi sentivo come se stessi perdendo tempo prezioso a Firenze». Poi, alla fine dell’articolo, la precisazione: «Con questo non voglio dissuadere gli studenti ad andare a Firenze. I miei sentimenti non sono l'esperienza di tutti gli studenti universitari, ma non posso pensare di essere l’unica a pensare che studiare all’estero sia un incubo».
Dritto e rovescio, l’immigrato choc: “Perché odio l’Italia”. Libero Quotidiano il 10 marzo 2023
"Io, immigrato, vi spiego perché odio l'Italia". La testimonianza choc è di un ragazzo giovanissimo, di origini extracomunitarie ma italianissimo, che in studio a Dritto e rovescio su Rete 4 illustra con grande calma e pacatezza cosa lo sta allontanando dagli italiani in maniera forse irrimediabile e irreversibile.
"Se tu per tutta la vita lei nel paese in cui sei nato ti senti dire neg***o, marocchino di mer***a o vucumprà e per una vita ti senti insultato dai tuoi stessi amici di classe, io crescendo e arrivando alle medie a un certo punto mi ricordo di te che per 5 anni alle elementari mi dicevi neg***o, marocchino e vucumprà e tutto questo automaticamente alimenta un odio".
"C'è stato anche un episodio in giro per la città, sull'autobus per esempio. Lo vuoi raccontare?", chiede il giornalista di Rete 4. "C'è stato un periodo nella mia vita in cui io ho addirittura smesso di prendere i mezzi pubblici, perché quando salivo su un autobus la gente mi guardava come se avesse visto um marziano o qualcosa di mai visto".
In studio Paolo Del Debbio e il leghista Alessandro Morelli ascoltano con attenzione la sua testimonianza. "Scene di cui io salgo sul pullman e tutto quanto il pullman si mette a guardarmi, oppure il 'negro' che partono oppure quando mi siedo semplicemente di fianco a una persona e lei si alza...".
«Vai via, negretto», offese razziste al legale in Questura. Lilina Golia su Il Corriere della Sera il 28 febbraio 2023.
A insultare verbalmente l’avvocato Sall Babacar, un addetto all’accoglienza
Quel «vai via, negretto», che brucia come una sigaretta spenta su una mano. Un’offesa a sfondo razziale uscita dalla bocca di un addetto all’accoglienza della Questura di Brescia. «Non un poliziotto — precisa l’avvocato Sall Babacar, destinatario del barbaro invito rivoltogli in via Botticelli — ma un volontario che si dovrebbe occupare di assistere chi arriva all’Ufficio Immigrazione per sbrigare pratiche e ricevere informazioni». La vicenda ha fatto scalpore proprio per i modi a dir poco ruvidi con cui si è consumata, in un luogo che rappresenta uno dei primi contatti per chi, per i motivi più diversi, arriva da lontano nel nostro Paese. Modi che non rendono onore all’alacrità con cui chi, indossando la divisa, si adopera quotidianamente per rispondere alle decine e decine di istanze che arrivano ogni giorno.
Lo sfogo pubblico del legale su Facebook
L’avvocato Babacar qualche giorno fa, come spesso gli capita per lavoro, aveva varcato i cancelli della Questura. Avrebbe dovuto dare comunicazione dell’impossibilità di un suo assistito di rispondere alla convocazione per la registrazione delle impronte digitali perché costretto agli arresti domiciliari. Non aveva ancora raggiunto la porta dell’Ufficio Immigrazione, quando è stato aggredito verbalmente dall’addetto all’accoglienza.«Gli ho chiesto di abbassare la voce», racconta l’avvocato che cercava di spiegare il motivo della sua presenza in Questura. E la risposta è stata quell’agghiacciante «vai via, negretto», pronunciato davanti a diverse persone, rimaste di sasso, davanti alla scena. «Purtroppo c’è da dire che la situazione non è nuova — precisa Sall Babacar — perché è capitato anche a molti miei colleghi di ricevere un trattamento a dir poco sgradevole negli spazi dell’accoglienza, ma con me, in questa occasione, si è andati oltre con un insulto razzista. Una cosa troppo grave per non farla sapere. E così sono stato il primo a denunciare quello che spesso accade in Questura, ma non ad opera degli agenti della Polizia di Stato. Anzi. Negli uffici, a cominciare dalla dirigente, sono sempre tutti cordiali e disponibili per il disbrigo delle pratiche. Negli ultimi tempi è stato fatto un grande lavoro, soprattutto in tema di protezione speciale». Uno sfogo, diventato pubblico, attraverso il quale si spera di «addolcire» l’accoglienza in via Botticelli, da dove qualcuno ha già inviato delle scuse all’avvocato Babacar.
Estratto dell’articolo di Loris del Frate per “il Messaggero” il 6 febbraio 2023.
Un club privato dove per entrare serve una tessera rilasciata personalmente dal titolare e un regolamento buttato giù con troppa disinvoltura. Sono questi gli ingredienti che hanno fatto sollevare una polemica che rischia di sconfinare nella discriminazione razziale.
Rischia, perché ora toccherà alla Questura di Pordenone capire se effettivamente ci sono gli estremi. L’ultimo atto si è consumato nei giorni scorsi, quando una coppia si è presentata all’ingresso. «Mi dispiace - ha detto l’uomo sulla porta - la signora non può entrare». Solo che la signora era una donna di colore.
La bomba è scoppiata appena la cosa è diventata di dominio pubblico. Prima la “battaglia” sui social, poi l’interessamento della Questura per capire se ci sono reati. A cercare di parare il colpo il titolare del club Piper (questo il nome del locale) di Fontanafredda, Edward Giacomini, che ha portato avanti la tradizione del padre, anche se una delle più importanti discoteche degli anni d’oro della disco music ora è un club privato.
«Sono amico di persone di razze e religioni diverse, le più disparate. Sinceramente non capisco proprio tutto questo chiasso. Qui non c’è davvero alcun problema di razzismo».
Il problema, però, è il regolamento del Piper per le varie serate, pubblicato sulla pagina social del club. «L’entrata - si legge - è riservata a persone di oltre 40 anni e NATIVI (in maiuscolo, ndr) della zona per poter garantire un pubblico adulto con cui si vuole rivivere la magica atmosfera del revival al “Mitico Piper di Fontanafredda”, locale storico del Friuli Venezia Giulia e del Veneto orientale per i cinquantenni.
Ma è qual “riservato ai NATIVI”, che ha fatto storcere il naso anche al questore di Pordenone, Luca Carocci. «In un club - spiega - è senza dubbio possibile far entrare le persone subordinando l’ingresso all’esibizione di una tessera - spiega il questore - ma la scelta non deve essere assolutamente legata a discriminazioni razziali. Questo non significa solo “se sei nero non entri”, ma resti fuori anche se sei nato a Napoli o a Milano. Quindi quel “nativi della zona”, per di più in maiuscolo, che si legge come lasciapassare al Piper club è illegittimo».
Cosa succede ora? Il questore non lo dice, ma è facile supporre che ci sarà un controllo e non si esclude anche la possibilità che il Piper venga chiuso per alcuni giorni. Sicuramente per riaprire dovrà modificare il regolamento. […]
Estratto dell’articolo di Andrea Mollas per roma.repubblica.it il 30 gennaio 2023.
"Scusami un attimo. Che c'è uno sporco negro che mi disturba". Quando torna a raccontare ciò che gli è successo Adama Doumbia sorride per lasciare che la cattiveria e l'intolleranza con cui ha avuto a che fare qualche giorno fa, scivoli via. "Le avevo solo detto di raccogliere gli escrementi del cane, non pensavo mi aggredisse così".
Dietro quel sorriso gentile c'è la storia di una vita che non si stupisce e neanche si rassegna. In Italia è arrivato tre anni fa dal Mali. Ha trovato lavoro nel bar del Parco Nemorense, un giardino ai Parioli non lontano dalla maestosa Villa Ada. Molta ghiaia a terra, molti cani portati giù dai grandi palazzi che si affacciano su quell'intento di verde.
Nel bar Adama Doumbia, lavoratore di una cooperativa, presta servizio come manutentore. Tiene pulito il parco.
Pochi giorni fa mentre è al lavoro chiede a una signora di raccogliere e mettere nella bustina gli escrementi del suo labrador. Lei continua a parlare al telefono, come se lui non esistesse. Lui ripete l'invito. Lei a quel punto interrompe la telefonata stizzita: "Scusami un attimo. Che c'è uno sporco negro che mi disturba".
Una frase a voce alta, pronunciata di fronte ad altri. Adama si ferma, resta in silenzio, la dottoressa richiama il cane e esce dal parco.
"Sì che ho sentito", dice una testimone. "Ho visto questa donna mentre camminava velocemente parlando al telefono, chiamando ogni tanto il cane per farsi sentire. Dietro lei c'era il signore del bar che le chiedeva di raccogliere i bisogni ma con scarsi risultati. Prima si è voltata verso di lui urlandogli di tacere perché impegnata con un suo paziente in quanto dottoressa, poi, visto che lui insisteva, gli urlato l'insulto razzista".
"È stato raccapricciante" - afferma la testimone - "Sono andata da lui per rincuorarlo, mi sono vergognata di essere italiana".
Un episodio vile, così come tanti altri che ha vissuto sulla sua pelle: "Non è la prima volta che mi chiamano così. Ogni giorno cerco di far rispettare le regole, eppure ad altri non importa. Se provo a dire loro qualcosa mi dicono che devo tornare in Africa, oppure che sono negro e non devo parlare perché sono ospite".
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"Non si affitta a meridionali se non hanno il posto fisso". Come si è concluso il progetto di vita di un uomo del sud e di una piemontese: "Non si affitta a meridionali se non hanno il posto fisso". Giampiero Casoni. Pubblicato il 19 Febbraio 2023
Accade ancora e accade sempre più spesso: “Non si affitta a meridionali” se non hanno il posto fisso.
Lo sconvolgente annuncio è stato diffuso a Carmagnola da una coppia di 20enni in cerca di casa. La vicenda è stata trattata da La Gazzetta del Sud, che spiega come un ulteriore discrimine sia stato quello del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
“Non si affitta a meridionali” senza posto fisso
Il media spiega con tristezza che quello che sta riportando è “quanto accade oggi, nell’anno del Signore 2023, a Carmagnola, nel Torinese”.
Ma cosa è accaduto nel pur civilissimo Piemonte? Che stando al resoconto della testata ad incappare in quel “calvario” sarebbe stata una coppia di ventenni. I due stanno assieme da meno di un anno e si sarebbero conosciuti in un ristorante dove lavorano insieme.
La ricerca di una casa e l’amara risposta
Lui è originario di Siderno ed è “cresciuto in una famiglia di sani principi, reduce da un anno di ferma prefissata in Marina Militare dopo aver lasciato l’università per ragioni logistiche”.
E lei? La donna è piemontese “abituata a rimboccarsi le maniche e a lavorare in locali, bar o panetterie”. I due aspettano un figlio e si sono messi in cerca di una casa in affitto e, nelle more di quella ricerca, sono incappati nell’annuncio in questione ed in una risposta molto amara, perciò hanno deciso di renderlo pubblico.
Dagospia il 23 gennaio 2023. Da “La Zanzara – Radio24”
“Odio i mafiosi e ho paura dei mafiosi. Quando incontro certe persone al nord mi faccio sempre la domanda: ma non è che questo sarà un capobastone e ce ne accorgiamo dopo un po' di tempo dai giornali? La mafia va sradicata, e lo Stato deve fare scelte radicali. Non si può fare un esercizio di civiltà coi mafiosi. Con gli altri delinquenti si può usare la civiltà e rieducarli, con i mafiosi è stupido, è un atteggiamento che non serve. Non ci vuole né la pena di morte, né il 41 bis, né carcere ordinario. Li rimettiamo in libertà dopo averli lobotomizzati”.
Lo dice l’imprenditore brianzolo Gianluca Brambilla a La Zanzara su Radio 24. “Ho il terrore dei mafiosi – dice ancora – ho paura per me e la mia famiglia. Facciamo già la castrazione chimica e adesso possiamo castrare la violenza con la chimica. Messina Denaro lo consegniamo alla sua famiglia lobotomizzato, così va in giro per il suo paese per strada completamente sedato. Deve essere neutralizzato cerebralmente, e dato ai suoi familiari. O parli ed esci, oppure vieni lobotomizzato se vuoi fare il mafioso fino in fondo. In milioni al nord la pensano come me. Noi al Nord abbiamo paura dei meridionali, e nessuno lo vuole dire, nessuno lo vuole ammettere. I meridionali li incontriamo nella pubblica amministrazione, a scuola, ovunque”.
“I meridionali – prosegue – sono diversi antropologicamente, hanno la fissazione del potere. Noi abbiamo come cifra la ricchezza, mentre i meridionali vogliono condizionare gli altri, comandare. Dire a uno terrone significa cretino, deficiente, ritardato, pirla. L’altro giorno Dolce, quello di Dolce e Gabbana, è tornato dalla Sicilia e ha detto: la mia terra è puttana, non sarei mai quello che sono se fossi rimasto in Sicilia.
Io una gelateria in Sicilia? Non lo farei mai, avrei una paura incredibile. Per fare cosa? La fine di Bramini…”. Poi attacca pure il ministro degli interni Piantedosi: “Ma non è nato a Bolzano, l’Italia è stata meridionalizzata. E’ un dramma estirpare la mafi dall’Italia perché la complicità, guarda quanta ce n’era in Sicilia per Messina Denaro…”. Aggiunge Brambilla: “Non bisogna festeggiare dopo la cattura di un latitante dopo trent’anni. Va dato il giusto tributo alle forze dell’ordine, ma il trionfalismo non ha senso. Abbiamo fatto per trent’anni una grandissima figura di merda”
“E’ un film sulla Danimarca…”. A Venezia il regista smonta la boiata sulla “diversità”. Il botta e risposta tra il giornalista ed il regista, durante il Festival. Redazione su Nocolaporro.it l'8 Settembre 2023.
Sta per volgersi al termine l’ottantesima edizione del Festival del cinema di Venezia, iniziata lo scorso 30 agosto e che si concluderà nella giornata di domani. Dopo il terremoto scatenato dalla parole di Pierfrancesco Favino, in merito al fatto che sia “assurdo” che attori stranieri interpretino personaggi italiani, pochi giorni fa è intervenuto sulla questione anche l’attore Mads Mikelsen, sostenendo la tesi di Favino, ma con una frecciata: “Se in Francia, in Germania, in Italia e in Spagna smettessero di doppiare i film in tutte le lingue, potrebbe costituire un elemento importante per affrontare il problema”.
Un Festival infuocato, che nelle ultime ore ha avuto – ancora una volta – come protagonista l’attore danese, durante la conferenza di The Promised Land, film diretto dal regista Nikolaj Arcel. A sorprendere, in questo caso, è stata la domanda di un giornalista presente in sala, che in modo indispettito ha chiesto all’attore ed al regista perché il cast del film sia interamente nordico, contrario quindi ai principi di diversità.
Peccato che il film ricalchi il periodo storico in Danimarca nel 1750, come sottolineato dallo stesso regista. Il cast, infatti, è ambientato nella brughiera danese del diciottesimo secolo, ma pare che per il giornalista – anche nel racconto storico di tre secoli fa – l’intero film debba essere revisionato attraverso la lente d’ingrandimento politicamente corretta.
Insomma, non sarebbe il primo caso di “revisionismo cinematografico”. A patire questa preoccupante ascesa sono sicuramente gli Stati Uniti, dove negli ultimi anni si è cercato di conformare il mondo del cinema a canoni sempre più progressisti, radical-chic e “rispettosi” delle diversità etniche. Un caso lampante, per esempio, sono i film della Disney.
Il colosso si sta impegnando da tempo in un personalissimo revisionismo storico, decidendo di eliminare dalla sezione dedicata ai bambini ben tre film, colpevoli di diffondere stereotipi dannosi: Peter Pan, Dumbo e Gli Aristogatti. Il motivo? “Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni e culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto, vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”, si legge ora nell’avvertenza che precede i titoli di testa dei film.
Una censura che si è tentata di applicare anche al Festival di Venezia, nei confronti di film la cui unica “colpa” è quella di raccontare ed ambientarsi in Paesi vissuti quasi interamente da bianchi, soprattutto se si parla di tre secoli fa. Eppure, il politicamente corretto non vuole accettare ciò che è stato e ciò che è accaduto: il tentativo è sempre quello di ridisegnare la storia, in nome del preoccupante fenomeno della cultura della cancellazione che piace tanto al mondo progressista. O forse, meglio ancora, della cancellazione della cultura.
Con Favino la gauche italiana si scopre sovranista. Personaggio italiano? Attore italiano. Questo è quanto ora chiedono gli attori del nostro Paese alle produzioni americane. Quindi anche a sinistra conoscono il significato di sovranismo e dimostrano di apprezzarlo. Francesca Galici il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Pierfrancesco Favino è uno degli attuali interpreti del cinema italiano. Per molti è l'erede dei grandi nomi che nella seconda metà del Novecento hanno contribuito a creare il mito di Cinecittà, della Dolce vita ma, soprattutto, interpreti di quei film straordinari che sono entrati di diritto nelle teche storiche del cinema mondiale. Apprezzato e quasi osannato da "quelli giusti", dai circoli che contano e dalla gauche italiana, consapevole che il suo orientamento politico fosse un plus nella società di oggi, Favino non ha mai fatto mistero di essere un simpatizzante della sinistra ma, soprattutto, di quelle battaglie da copertina che tanto funzionano sui media e per sentirsi in pace con la propria coscienza.
Eppure, all'improvviso, ecco che Pierfrancesco Favino si scopre sovranista. Non in senso lato ma in senso stretto, strettissimo. Alla Mostra del cinema di Venezia, uno degli eventi più radical chic del nostro Paese, c'era anche lui come protagonista di uno dei film in concorso. E così, durante una delle tante tavole rotonde, ecco che arriva il suo affondo. Il pomo della discordia? Il film Ferrari, produzione kolossal americana con attori americani. Ma come? Il protagonista è uno dei baluardi dell'italianità e non viene affidata la sua interpretazione a un italiano? I più maligni sostengono che il rancore di Favino non sia da ricercare in un sentimento patriottico, in quella "appropriazione culturale" che sventola come vessillo, ma nel fatto che a interpretare Enzo Ferrari, o uno degli altri protagonisti, non sia stato chiamato lui.
Favino da Venezia si è fatto portabandiera dell'orgoglio attoriale italico, della lesa maestà delle arti del Belpaese ignorate dalle produzioni internazionali. In coda all'attore si sono messi in tanti, che ora rivendicano il diritto, che sembra essere inalienabile, di essere protagonisti di tutte le produzioni in cui vi sia un personaggio italiano. Abbastanza comodo così, ennesima battaglia personale travestita da battaglia sociale che tanto piace a quelli giusti. Ma come mai si svegliano ora, Favino e soci, quando questa è una battaglia che diversi prima di loro hanno portato avanti nel mondo del cinema, senza mai avere nessun seguito o riscontro. Forse perché non sono parte di quel mondo elitario e ristrettissimo della sinistra culturale italiana? Ah, i misteri di questo Paese.
Alberto Mattioli per il Foglio - Estratti mercoledì 6 settembre 2023.
Prima gli italiani: nei musei, nei teatri e adesso anche al cinema. Non gli spettatori, beninteso, che si sono volatilizzati dal tempo, ma gli attori. Da Venezia, Pierfrancesco Favino si indigna perché nel biopic di Michael Mann su Enzo Ferrari il protagonista non è a chilometro zero come i tortellini, quindi modenese come sarebbe filologicamente corretto (certe “esse”, mi spiace, non si imparano, si succhiano col latte materna) e nemmeno italiano, bensì Adam Driver.
“Appropriazione culturale”, accusa Favino, che peraltro è anche uno che sa anche recitare, cosa tutt'altro scontata per chi in Italia lo fa di mestiere (e non maramaldeggiamo ricordando quel che diceva uno che un po' se ne intendeva come Orson Welles ).
Segue dibattito, ovviamente. Con Favino, riporta il Messaggero, scendono in campo Alessandro Siani, Pupi Avati, Rocco Papaleo, Enrico Vanzina e addirittura Caterina Murino. Insomma, “fuori i barbari!”, come strillava Giulio II, e giù le mani dai nostri personaggi, Dio ce li ha dati e guai a chi ce li tocca. Inutile ricordare che, mettiamo, Burt Lancaster e Alain Delon non fecero poi così male nel Gattopardo , né Robert De Niro e Gerard Dépardieu in Novecento . Oppure, come spiega sul Corriere uno dei produttori di Ferrari , Andrea Iervolino, che un film con una star hollywoodiana si vende in tutto il mondo, quello con un protagonista che ha come prima e unica lingua il romanesco dentro il grande raccordo anulare (forse).
Burt Lancaster e Alain Delon non fecero poi così male nel Gattopardo, né Robert De Niro e Gerard Dépardieu in Novecento. Oppure, come spiega sul Corriere uno dei produttori di Ferrari , Andrea Iervolino, che un film con una star hollywoodiana si vende in tutto il mondo, quello con un protagonista che ha come prima e unica lingua il romanesco dentro il grande raccordo anulare (forse) . Burt Lancaster e Alain Delon non fecero poi così male nel Gattopardo, né Robert De Niro e Gerard Dépardieu in Novecento. Oppure, come spiega sul Corriere uno dei produttori di Ferrari , Andrea Iervolino, che un film con una star hollywoodiana si vende in tutto il mondo, quello con un protagonista che ha come prima e unica lingua il romanesco dentro il grande raccordo anulare (forse).
(...) La sparata di Favino arriva dopo che Vittorio Sgarbi aveva festeggiato tutto giulivo la prossima espulsione dei tre direttori stranieri dei musei italiani di prima fascia (Brera, Uffizi e Capodimonte), che peraltro a fine anno se ne andranno comunque, in ossequio al decreto Franceschini.
Poi Sgarbi si è autosmentito dicendo che stava scherzando, cucù, sorpresa (l'opposizione, al solito, sbaglia: questo governo non è una tragedia e nemmeno un dramma, ma una farsa), però è chiaro che riflette una mentalità diffusa. Prima del Meloni I, di sovrintendenti stranieri alla testa di fondazioni liriche ce n'erano quattro: adesso sono due, dopo la cacciata di Alexander Pereira dal Maggio e il decreto ad hoc per sbattere fuori Stéphane Lissner dal San Carlo.
(...)
Questa voglia di autarchia è l'ennesima conferma che la concorrenza fa paura.
Da adnkronos.com il 3 settembre 2023.
Attori, registi e doppiatori italiani appoggiano la 'battaglia' di Pierfrancesco Favino, che ha fatto sentire la sua voce dalla Mostra del cinema di Venezia 2023. "Il pubblico italiano tornerà ad avere fiducia nel cinema italiano quando vedrà gli attori italiani entrare nelle produzioni internazionali. È la piccola battaglia che io sto facendo per la quale dico che i ruoli italiani devono essere interpretati da attori italiani", dice l'attore, riscuotendo consenso ampio tra i colleghi.
"La polemica di Favino io la condivido. Ha pienamente ragione. Visto che capita spesso che gli americani facciano film sugli italiani, ha perfettamente un suo senso che siano interpretati da italiani. Ferrari, un modenese, che viene dal Nebraska, fa un po’ ridere", dice all'Adnkronos il regista Pupi Avati.
"Quando ho girato il film su Dante Alighieri, noi siamo stati tentati, sedotti dall’idea di farlo interpretare ad Al Pacino -rivela il maestro Avati- Ma per quanto lui sia un italo americano, poi ci siamo ricreduti. E grazie a Dio abbiamo scelto Sergio Castellitto e Alessandro Sperduti, quindi attori italiani. Il film ha avuto un grande successo e questo conferma che con attori italiani il film ha una credibilità assoluta maggiore".
"Quello che dice Favino è assolutamente giusto: come loro pretendono di far interpretare gli americani agli americani, gli italiani devono essere interpretati d italiani. Anche perché se no la presa diretta, dove gli attori recitano senza essere doppiati, elemento fondamentale per valutare la credibilità dell’attore, come la valutiamo?".
"Condivido l'invito ad avere un maggiore attenzione nei confronti degli attori italiani. Rispetto a film che raccontano storie di grandi italiani, magari realizzati anche da produttori americani, bisognerebbe considerare l'opportunità di affidare quei ruoli anche a attori italiani. In Italia c'è poca considerazione e si permette un po' tutto; allora c'è bisogno di una maggiore attenzione verso il cinema italiano e quindi andrebbe protetto", afferma all'Adnkronos l'attore e regista Marco Bocci.
"Il tema posto da Pierfrancesco Favino, che è un mio caro amico, è una questione molto complessa, su cui bisognerebbe riflettere in maniera più approfondita e comunque il fatto che oggi ne stiamo discutendo dimostra l’importanza del tema", le parole all'Adnkronos del regista premio Oscar Gabriele Salvatores.
"Concordo pienamente con l'esternazione di Pierfrancesco Favino: trovo giusto quello che ha detto. Se si creano due fronti, uno a favore della dichiarazione di Favino e uno contrario, io sono con schierato con il fronte favorevole", dice l'attore e regista Rocco Papaleo.
"Favino? Ha assolutamente ragione. Noi doppiatori in tempi non sospetti abbiamo fatto uno sciopero a favore di questo tema quando per i 'Promessi Sposi' furono prese persone straniere, tra cui Danny Quinn, e noi abbiamo detto 'grazie no: per i film italiani servono attori italiani'", dice all'Adnkronos Pino Insegno, attore e doppiatore italiano.
"Come gli americani chiamano gli spagnoli per gli spagnoli, i portoghesi per i portoghesi, i cinesi per i cinesi, così noi italiani almeno per il nostro bagaglio culturale se dobbiamo fare Michelangelo, con tutto il rispetto per Charlton Eston, dovremmo preferire un Favino, o un Santamaria, e così via", sottolinea Insegno. Che per il film 'Ferrari', di Michael Mann, che racconta la parabola verso il successo del modenese Enzo Ferrari avrebbe "chiamato un attore italiano nuovo, bravo, che magari grazie a questa interpretazione diventa un attore famoso. Il problema infatti è che non c'è stato un ricambio generazionale importante", spiega.
"Gli attori si contano sulla punta delle dita purtroppo, ma non è colpa del fatto che non ci sono attori ma del fatto che non c'è un investimento culturale per accrescere le possibilità dei giovani di crescere", prosegue Insegno. E sul protagonista del film, Adam Driver, scherza: "Attore straordinario, ma che c'entra Enzo Ferrari con lui? E' vero che col trucco si fa miracoli, però... qui ci voleva un italiano".
"Detto che la scelta degli attori la fanno i registi, Favino fa bene a portare avanti gli attori italiani. E se non lo fa lui, che in questo momento ha una grande esposizione, ben venga chi si prende la responsabilità di rompere gli argini della banalità e di raccontare qualcosa che magari si dice in uno stretto giro di persone ma poi nessuno ha il coraggio di dirlo ai quattro venti", osserva Alessandro Siani all'Adnkronos.
Più tiepida la reazione di Giorgio Tirabassi: "E' vero che per fare grandi personaggi italiani attori bravissimi italiani non mancano certo. E' altrettanto vero che una produzione americana è libera di scegliere gli attori che vuole. Non ho un punto di vista chiaro sul tema sollevato da Favino e tuttavia eviterei di fare discorsi generici su una questione che ha aspetti complessi", dice all'Adnkronos.
Il Sì&No del giorno. Ruoli italiani ad attori stranieri, giusto lo sfogo di Favino? “Sì, la nostra Scuola è un’eccellenza e poi… Italians do it better”
Simona Branchetti (Conduttrice Mediaset) su Il Riformista il 6 Settembre 2023
Nel Sì&No del giorno, spazio al dibattito aperto dalle parole di Pierfrancesco Favino che ha contestato l’assegnazione di ruoli di personaggi italiani ad attori stranieri. Abbiamo chiesto un parere sulla questione a Luciano Nobili, esponente di Italia Viva, che ritiene sbagliato lo sfogo dell’attore, e a Simona Branchetti, conduttrice Mediaset, che, invece, ritiene giuste le argomentazioni di Favino.
Qui di seguito, l’opinione di Simona Branchetti.
Pierfrancesco Favino ha lanciato un appello che mi sembra sia stato vittima di una torsione fuorviante: siano gli attori italiani a interpretare i grandi italiani che portiamo sul grande schermo. Ed è stato subito lapidato da chi intravvede in una nota simile del sovranismo. Perché in Italia qualunque cosa deve essere buttata in politica e politichese, e se si afferma qualcosa di simile allora si diventa di destra e dunque da lapidare. Premesso che io nutro i miei dubbi sul fatto che Pierfrancesco Favino, forse il miglior attore italiano, possa essere di destra (né mi interessa saperlo), egli non ha minimamente sostenuto che gli attori italiani debbano prevalere solo perché’ italiani. Ha semplicemente detto che sarebbero più adatti a interpretare personaggi che sono italiani, e che dunque recano con se una certa loro unicità culturale, mimica, valoriale.
Con una battuta rubata al grande Carosone verrebbe da dire “Tu vuo’ fa l’americano”… già ma “si nato in Italy”; e allora perché non usare un attore italiano per valorizzare appieno l’Italianità di uno dei brand più famosi al mondo, cioè Ferrari?
Favino ha ragione nel rivendicare il ruolo degli italiani come protagonisti della fabbrica cinematografica italiana. A maggior ragione per interpretare il ruolo di Enzo Ferrari, un modenese, papà del cavallino simbolo dell’italianità nel mondo. Cosa può raccontare il seppur bravo Adam Driver dal Nebraska, di quel rombo di motori, di quella scuderia, di quella famiglia cresciuta a pane e olio e rombi nel cuore di quella che oggi è la motor valley più famosa e prestigiosa al mondo? Come fa a mettere a fuoco il tessuto culturale, sociale, valoriale che ha portato alla creazione di un mito che è solo, tipicamente e tutto italiano?
Vuoi mettere il trasporto emotivo che avrebbe potuto avere un Gassman, un Favino – per citare solo quelli già citati – nel ruolo del grande patron fattosi grande nella Padania degli anni 60? Lo stesso Pupi Avati con un po’ di ironia ha sorriso di fronte all’idea di un “Ferrari Made in Nebraska” pur ammettendo che anche lui quando ho girato il film su Dante Alighieri, è stato tentato dall’idea di farlo interpretare ad Al Pacino, ma di aver poi fortemente voluto Sergio Castellitto e Alessandro Sperduti.
E passi pure l’ottima esperienza di Lamborghini dove un cast tutto americano e la coinvolgente storia ha avuto il buon effetto di rendere la pellicola internazionale, ma non ha comunque risparmiato lo spettatore dal vivere una sorta di estraneità, di distacco emotivo nel vedere sullo schermo quello che ad alcuni è apparsa un’americanata con qualche salto emotivo, primo fra tutti la mancanza di un timbro decisamente italiano che ti riportasse immediatamente, anche ad a occhi chiusi a quella memoria tutta nostrana. Se il nostro paese ha un valore nel mondo è prima di tutto grazie alle nostre eccellenze, brand come Ferrari, Lamborghini e non solo, ma anche facce e interpreti unici come Totò, Mastroianni, Gassman, Sordi, attrici come Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Virna Lisi, che l’America provó a soffiarci senza per fortuna riuscirci.
Abbiamo una scuola cinematografica d’eccellenza che continua a sfornare talenti forse si, un po’ trascurati, ma non certo meno eccellenti di interpreti d’oltreoceano. E allora pellicole come queste non possono che essere occasioni perse per il nostro paese, per riscoprirne l’Italianità, la storia, e per la nostra industria cinematografica che ha talenti tuttora molto da dare, perché “Italians do it better “. Dovremmo ricordarcelo più spesso
Simona Branchetti (Conduttrice Mediaset)
Il Sì&No del giorno. Ruoli italiani ad attori stranieri, giusto lo sfogo di Favino? “No, la storia del nostro cinema più grande non conosce bandiera”. Luciano Nobili su Il Riformista il 6 Settembre 2023
Nel Sì&No del giorno, spazio al dibattito aperto dalle parole di Pierfrancesco Favino che ha contestato l’assegnazione di ruoli di personaggi italiani ad attori stranieri. Abbiamo chiesto un parere sulla questione a Luciano Nobili, esponente di Italia Viva, che ritiene sbagliato lo sfogo dell’attore, e a Simona Branchetti, conduttrice Mediaset, che, invece, ritiene giuste le argomentazioni di Favino.
Qui di seguito, l’opinione di Luciano Nobili.
Indispensabile premessa: Pierfrancesco Favino è un attore straordinario. Probabilmente il miglior interprete cinematografico che l’Italia possa vantare oggi. Basterebbero la sua immedesimazione in Tommaso Buscetta ne “Il traditore” di Bellocchio, la sua metamorfosi in Bettino Craxi nel film di Gianni Amelio e la sua struggente interpretazione in “Nostalgia” di Mario Martone – solo per stare ai suoi ultimi successi – per riconoscerlo, senza aprire il dibattito. Così come ha commosso e convinto tutti il “suo” Comandante Todaro che ha aperto l’ottantesima edizione della Mostra del Cinema in corso a Venezia. Favino, peraltro è uno dei pochi volti del cinema italiano che ha riconoscibilità internazionale e che lavora all’estero. Ha partecipato a film di grande successo, da “Una notte al museo” a “Le cronache di Narnia”, da “Miracolo a Sant’Anna” diretto da Spike Lee fino a “Angeli e Demoni” e “Rush” di Ron Howard. Ha persino ricevuto il prestigioso riconoscimento di entrare a far parte del ristrettissimo novero dei giurati italiani dell’Academy, che partecipano all’individuazione dei candidati agli Oscar.
Insomma, possiamo certamente escludere che Favino parlasse pro domo sua o di cose che non conosce quando ha lanciato un pesante j’accuse contro la scelta di un attore americano per interpretare Enzo Ferrari nel film di Mann presentato alla Mostra. Aveva, immagino, l’intenzione di difendere i colleghi e il cinema italiano da quella che ha – addirittura – definito “appropriazione culturale”. Un po’ come l’accusa che colpì la Disney nei confronti del popolo maori per “Oceania”. Nonostante ciò, credo proprio che Favino si sbagli. E non solo perché il cinema italiano, dopo il disastro del Covid, vive una timida fase di ripresa e di ritorno in sala degli spettatori, anche se con trend disomogenei che vanno assolutamente consolidati. Ripresa testimoniata proprio a Venezia dalla presenza di ben sei titoli italiani in concorso. E neanche perché Micheal Mann – che è un regista di livello indiscutibile, uno degli ultimi maestri di cinema del nostro tempo – si è trasferito per mesi a Modena per studiare le radici e lo spirito del Drake e perché la produzione del film porterà un indotto importante a quel territorio e non solo, di cui dovremmo essere felici. O perché un’icona assoluta del nostro paese come Enzo Ferrari è stato interpretato oggi da Adam Driver come lo è stato ieri da Sergio Castellitto e chissà domani chi tornerà a impersonarlo. Ma soprattutto perché la storia del nostro cinema più grande non conosce bandiera, ed è costruita con lo sguardo di grandi cineasti che hanno saputo scegliere, di volta in volta, il meglio per i loro film. E perché ci sono interpreti “stranieri” che sono consustanziali ai grandi capolavori per i quali siamo amati in tutto il mondo.
Cosa sarebbe stato “Il Gattopardo” senza Burt Lancaster e Alain Delon o “Le mani sulla città” senza Rod Steiger? Cosa sarebbe stata “La Strada” di Fellini senza lo Zampanó di Anthony Quinn? Come si fa a pensare a “Novecento” di Bertolucci senza Depardieu e Robert De Niro? Cosa sarebbe stato il cinema di Sergio Leone senza Clint Eastwood? Perché se c’è – piuttosto – una battaglia da fare oggi nel cinema non è quella contro la provenienza di questo o di quell’attore, ma perché si tratti di un interprete in carne ed ossa e non un prodotto dell’intelligenza artificiale, battaglia che stanno conducendo gli attori oltreoceano e che dovrebbe preoccupare anche in Europa. E perché, vivaddio, il cinema è arte, libertà, trasfigurazione. Non ha confini né nazioni.
Torniamo a far grande il nostro cinema, costruiamo uno star system italiano, lavoriamo sulla qualità delle nostre opere cinematografiche lasciando da parte le polemiche. Contrastiamo il sovranismo in politica, ci manca solo di vederlo applicato alla settima arte. Luciano Nobili
Prima Picchio. Meno male che Favino c’è e altre baruffe chiozzotte. L’attore italiano, da Berlino a Venezia, sa come stare sulla scena e come tenere in piedi il mondo dei giornali (peccato che i giornalisti non lo capiscano). Guia Soncini su L'Inkiesta il 4 Settembre 2023
Meno male che Favino c’è. Meno male che Pierfrancesco Favino esiste e, oltre all’evidente fighezza, porta in dote anche una dose di mestiere ormai fuori moda.
Meno male che Pierfrancesco Favino non pensa che il mestiere degli artisti non sia porsi il problema di come funziona l’infernale macchina dentro cui si muovono, e quindi si mette una giacca borgogna perché, andando a presentare uno di quei film che in postmodernista si definirebbero «tutti maschi», sa che sul tappeto rosso saranno in dieci con la giacca nera, e sarà visivamente un disastro, e qualcuno con uno straccio di colore ci vuole.
Meno male che Pierfrancesco Favino legge i giornali, sa che devono fare un titolo, e si pone il problema di farglielo fare, problema che di sicuro non si era posta la moderatrice della conferenza stampa di “Adagio”, il secondo film con Favino passato a Venezia in tre giorni. A un certo punto della come sempre noiosissima presentazione ai giornalisti, il regista Stefano Sollima, e uno degli altri attori, Valerio Mastandrea (un altro che sa cosa e come funziona, non per nulla è cresciuto al Maurizio Costanzo Show), cominciano a palleggiarsi un cazzeggio che non sia lo strazio di quanto ci stimiamo e quanto ci è piaciuto fare questo film.
Sollima dice che inizialmente la storia era quella di tre vecchi ex boss criminali, Mastandrea l’avrebbe letto e avrebbe obiettato che mica poteva fare la parte del vecchio, Sollima gli avrebbe suggerito di chiedere al figlio se lo reputasse giovane. Però anche tuo figlio, ma tuo figlio è più grande del mio, e a quel punto Mastandrea dice una di quelle cose che si dicono solo per chiamare i bis, ovvero: «magari di questo dovremmo parlarne dopo». E la moderatrice, adatta al ruolo come io lo sono al balletto sulle punte: magari, sì. E come niente uccide l’unico momento vitale di quella mezz’ora riportandoci alle inquadrature, la trilogia, la tantissima rava e pochissima fava per cui nessuno ma proprio nessuno compra un giornale. Mi piace pensare che qualcuno tra i cronisti pianga sommessamente: e io il titolo come lo faccio?
Mi piace pensare che in quel momento Favino decida d’essere il supereroe che salva i giornali. Che la parte di Enzo Ferrari avrebbe dovuto farla un italiano è un anno che lo ripete, e ogni volta ci fanno il titolo, ma chissà perché giovedì si erano distratti, quando l’aveva detto appena arrivato al festival. Me lo vedo Favino che s’incarica di trovare a tutti noi un titolo, e – poiché probabilmente è anche l’ultimo rimasto che legga i giornali – sa che nulla è più inedito dell’edito, e quindi prende da parte un cronista qualunque, ne basta uno tanto poi tutti ricalcano, e gli dice guarda che nei filmati dell’altroieri e di sei mesi fa puoi trovare la notizia di oggi.
«Quel che sta succedendo è che grandi attori – non parlo di me – non vengono mai considerati per ruoli da italiani che sono i protagonisti della storia. Senza contare il fatto che per me è una novità che Ferrari non parli italiano o che i membri della famiglia Gucci parlassero tra loro in americano. Tutto questo da noi passa sotto silenzio, mentre stiamo assistendo a una sollevazione nel mondo al rispetto delle minoranze, delle specificità, delle nazionalità. Siamo l’unico Paese, non me ne viene in mente un altro: Ridley Scott gira il “Napoleon” in Francia, ma è una produzione inglese, non francese. E so per certo che qualche francese storce il naso. Ma nessuna produzione oserebbe mai chiedere a un attore americano di fare Yves Saint-Laurent».
È quel che ha detto Favino sabato? Macché: è quel che ha detto Favino a febbraio, al festival di Berlino. Lì, passava il film in cui Helen Mirren fa Golda Meir. A Venezia, quello in cui Bradley Cooper fa Leonard Bernstein. In entrambi i casi, ci sono state polemiche per l’antisemitismo (buonanotte) del far interpretare personaggi ebrei ad attori non ebrei. Poiché sognarsi antisemitismo è la forma di suscettibilità che si concedono quelli normalmente non suscettibili, sono due casi in cui ha protestato anche chi aveva trovato ridicole le polemiche per una Cleopatra non africana.
Degli italiani non importa a coloro che non hanno ben capito che il lavoro d’un attore non è fare sé stesso ma interpretare appunto altro da sé, e quindi vogliono il trans per fare il trans, il coreano del sud per fare il coreano del sud (se è del nord è appropriazione culturale), e il paralitico per fare il paralitico (che però se per metà film camminava è un problema: se pensate stia inventando, vi siete dimenticati le polemiche per Eddie Redmayne che interpreta Stephen Hawking).
Ma neppure importa a coloro che si straniscono se Bradley Cooper si mette un naso posticcio per interpretare un direttore d’orchestra ebreo. Degli italiani non importa nulla a nessuno perché, come lamentò Favino a febbraio, ci dicono che non siamo una minoranza; e, come diceva Silvio a Tony nel miglior dialogo dei “Soprano”, a nessuno importa che ai miei nonni sputassero addosso perché erano calabresi.
Sabato, quando Favino ha fatto fare un titolo a tutti i giornali rivendicando posti di lavoro per gli attori italiani i cui personaggi vengono arrubbati da Adam Driver, ai migliori di noi è venuto in mente Gary Cooper – che, ci spiegavano nei “Soprano”, non ha mai sofferto quanto noi italiani. Ma, spiegava il saggio Tony, oggi apparterrebbe comunque, Gary Cooper, a un qualche gruppo identitario dedito al vittimismo, «i cristiani fondamentalisti, i cowboy stuprati, i gay» (ovviamente Silvio non capiva, e chiedeva se Gary Cooper fosse gay).
Quelli che non avevano i “Soprano” nel repertorio delle citazioni hanno detto eh ma però Favino ha interpretato D’Artagnan, scambiando la metastoria di Giovanni Veronesi per un film in cui Favino era davvero un moschettiere. L’opinionismo in mancanza di basi non può salvarlo neanche Favino, che pure coi guai del presente s’impegna assai, tra giornali moribondi ai quali fornisce una sleppa di clic, e posti di lavoro che s’impegna a difendere con un piglio che neanche Di Vittorio.
«Se vieni da noi e hai la possibilità di avere il 40 per cento di tax credit, allora deve esserci una regolamentazione», aveva detto a febbraio. Prima gli attori italiani, intendeva, riuscendo comunque a restare di sinistra, sennò che fuoriclasse sarebbe.
«Una volta Ferrari l’avrebbe interpretato Gassman», ha detto la settimana scorsa. Prima gli attori del Novecento, abbiamo pensato tutti, ma nessuno l’ha detto, tutti impegnati a dire «Picchio, che ce la facciamo una foto?». Una volta Gassman aveva interlocutori all’altezza, Favino ha noialtri e insomma è andata così.
Forum Retequattro Mediaset 14 settembre 2023. L’argomento è la lite tra condomini, di fatto è razzismo contro i meridionali. Daniela amica di Antonella: “Ora, c’è questa persona che si sente diffamata e si è offesa perché Antonella ha detto che lei e suo marito sono una coppia diabolica. Eh, ma come dice il proverbio: Errare è umano e perseverare è diabolico. Ed è chiaro che questa coppia continua a disturbare Antonella nonostante i richiami e senza nessun rispetto per lei. Comunque, va bene. La gente del Sud è più rumorosa di quella del Nord. Per esempio, sappiamo tutti che, quanto si usi il clacson da Roma in giù, anche quando non serve. E c’è un sacco di gente che va in giro in motorino senza casco, o in due o in tre sul monopattino e delle regole se ne fregano. Scene che qua al Nord non vedete mai. Ovviamente, anche al sud c’è chi si comporta bene, ma queste cose succedono solo lì. E conoscendo la mia amica, sinceramente non posso credere che ce l’abbia con la gente del Sud. Ce l’ha con queste persone del Sud, non con tutti quelli del Sud. Io credo, invece, che sia scoppiata psicologicamente per la tortura che l’hanno sottoposta questi vicini. Perché la privazione del sonno è una vera tortura, che può fare impazzire la gente. C’è anche il fatto che Antonella è una sensitiva con una sensibilità più acuta rispetto a quella delle persone normali. Lei vede e sente cose che noi non vediamo e non sentiamo, figurarsi lei ad essere sottoposto ad un bombardamento continuo di colpi e rumori, che vanno avanti tutto il giorno e tutta la notte. Chiaro che, ad un certo punto, possa succedere di perdere la lucidità e lasciarsi scappare qualche parola di troppo. Ma chi provoca questa situazione? E’ possibile che nel 2023 ci sia ancora gente, che invece di dimostrarsi collaborativa va alla ricerca dell0oscontro? E sappia solo dire: a casa mia faccio quello che voglio”.
Maria Grazia Landlady
In Mediaset c'è un continuo e strisciante intendo a mettere in cattiva luce il sud, con trasmissioni, oltre a Forum ma anche a C'è Posta per te, ove i protagonisti "coloriti" sono sempre meridionali. Con fiction che oramai hanno stancato, che rappresentano un sud =mafia.
Pietro Montalbano
Maria Grazia Landlady facciamo una bella petizione..
Maria Grazia Landlady
Pietro Montalbano io ho smesso da tempo di guardare c'è posta per te e certe fiction di Mediaset, tipo Maria Corleone, un obbrobrio
Anto Zanardelli
Non è risentimento si tratta solo di buona educazione,provate ad avere vicini di casa che se né fregano delle regole poi parlate
Giusy DG
Anto Zanardelli E a te chi te lo dice che è vero? Secondo me , dopo aver sentito come ragiona, si capisce perfettamente che la percezione è falsata dalla sua necessità. E non da veri fatti accaduti. È tutto ovvio. La colpa è delle pareti sottili, non di chi vive la vita normalmente
Anto Zanardelli
Giusy DG ma pensa che il giudice ha detto che è vero il suo problema è stato lo stalking comunque provate ad avere vicini di casa maleducati io ne so qualcosa e siccome con educazione non vogliono capire bisogna fare tutto quello che loro fanno agli altri
Giusy DG
Anto Zanardelli No , il giudice non ha affatto detto questo. Anzi , guardava la signora fattucchiera con una faccia quasi disgustata. Ovviamente non può schierarsi.
Vincenzo Capurso
La signora meridionale innanzi tutto dovrebbe gesticolare un po' meno e poi...
non è che toccando le corde di uno pseudo razzismo dei settentrionali nei confronti dei meridionali, può giustificare comportamenti a dir poco irrispettosi nei confronti di chicchessia.
Quanto al "voi meridionali" non e del tutto inappropriato perché è il risultato di un'osservazione statistica pari a quella che TUTTI adoperiamo per i migranti anzi invasori (giusto per non prenderci in giro)...
e per statistica bisogna intendere non quanti, fra tutti i migranti sono cattivoni ma, di tutti i reati quale sia la percentuale commessa dai migranti... idem dicasi per i meridionali del mondo o chicchessia.
Spero aver reso l'idea in misura sufficiente da non consentire fraintendimenti.
P.S.
Sono meridionale ma né campanilista né ipocrita sia ove si tratti di "compaesani" che, ancor più, di migranti.
Arianna Trombini
Forum può ospitare chi desidera, però avallare e promuovere l'opera di questi personaggi lo trovo deplorevole
Liliana Proietti
io ho girato canale sentire ste cretinate x raggirare la gente mi fa innervosì!!!
Coronavirus, Palombelli: “Al Nord più diffuso perché ligi al dovere”. Asia Angaroni il 21/03/2020 su Notizie.it. Sono le regioni del Nord Italia a essere più colpite dall'allarme Coronavirus: Barbara Palombelli ha dato una spiegazione, ma molti non hanno gradito. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte: è il Nord Italia a essere più coinvolto dall’emergenza Covid-19. Secondo gli esperti, sono le polveri sottili ad accelerare la diffusione dell’infezione, in particolare nella Pianura Padana. Intervenuta sull’allarme Coronavirus al Nord, Barbara Palombelli ne ha dato una sua interpretazione. In molti, tuttavia, pare non abbiano gradito il suo commento. Spiazzati i cittadini del Sud, che ora fanno appello al marito Francesco Rutelli, affinché prenda le distanze dalla moglie. “Il 90% dei morti è al Nord perché sono tutti ligi e vanno a lavorare”. Con queste parole Barbara Palombelli, nel corso della sua trasmissione Stasera Italia, in onda su Rete 4, ha spiegato qual è per lei il motivo per cui siano più numerosi al Nord Italia i contagi e i morti causati dal Covid-19. Sicuramente la celebre presentatrice, moglie dell’ex sindaco di Roma, si riferiva alla facile trasmissione del virus legata al maggior numero di persone che si muove da una città all’altra. Le cifre, nelle grandi metropoli del Nord, risultano più consistenti. Essendoci più gente che si muove, la rapidità e la facilità del contagio rischiano di salire esponenzialmente. Tuttavia, il Sud non ci sta e attacca: “Non ci sono giustificazioni: è un’infamia“. Per alcuni, simili parole esigevano delle “scuse immediate” da parte della Palombelli. E ancora: “Uno scivolone, anche se intollerabile, può capitare”. Ma a dare l’esempio, secondo il giudizio di alcuni, deve essere il marito Francesco Rutelli. A detta di alcuni, infatti, in nome del suo ruolo istituzionale e del suo passato politico, dovrebbe discostarsi dalle affermazioni della moglie, prendendo le difese del Sud.
Barbara Palombelli, polemica sul coronavirus: "Più morti al nord perché più ligi? E il Sud insorge. Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Barbara Palombelli nel mirino dei social. La conduttrice di Stasera Italia è finita al centro della polemica a causa di una frase sul coronavirus. "Il 90 per cento dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?" ha chiesto la Palombelli ai suoi ospiti nello studio di Rete Quattro. Una frase che ha immediatamente fatto indignare gli utenti del web che si sono scagliati così: "Un esempio di razzismo, in piena emergenza coronavirus. Seconda la Palombelli, il coronavirus ha fatto più morti al Nord perché lì 'sono più ligi e vanno a lavorare'", è uno dei commenti più leggeri che su Twitter si sono susseguiti. Eppure il contesto era totalmente diverso e la frase estrapolata e interpretata in malo modo.
L’assurda tesi anti Sud della Palombelli: “Al Nord più contagiati perché vanno a lavorare”. «Come il 90% dei morti da coronavirus in Italia si è registrato al nord?”. Barbara Palombelli, giornalista e conduttrice del programma d’informazione, ‘Stasera Italia’ (Rete 4), porge la domanda al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, una delle aree più colpite dal coronavirus. Ma prima di passare la parola al sindaco, Palombelli aggiunge: “Vi sono delle motivazioni particolari? Ci sono delle persone più ligie che vanno sempre a lavorare?”. Redazione de Il Riformista 21 Marzo 2020
Barbara Palombelli nella bufera per battuta sul Sud: «Più casi di coronavirus al Nord perché tutti lavorano?» Il Mattino Sabato 21 Marzo 2020. Barbara Palombelli nella bufera sui social per una domanda sul coronavirus. «È venuto fuori che il 90% dei morti» per coronavirus «è nelle regioni del Nord. Che cosa ci può essere stato di più? Comportamenti di persone più ligie che vanno tutti a lavorare?». Così Barbara Palombelli parlando dell'emergenza coronavirus in Italia durante la trasmissione Stasera Italia su Rete4. La domanda che la conduttrice del programma ha rivolto ai suoi ospiti ha innescato una bufera sui social. «Cara Barbara Palombelli, che brutta caduta di stile. In un momento così difficile per l'Italia intera, lei cosa fa? Squallide insinuazioni»; «Per cotanta bassezza intellettuale provo solo tanta pena»; «Scivolone assurdo di Barbara Palombelli, considerazione spicciola e gretta. Andiamo anche noi terun a lavurà»; «Ma davvero? Ma questa gente non è mai stata a sud di Assago? Ma che credono che noi viviamo sugli alberi? Io non ho parole!!! #barbarapalombelli si vergogni!», sono alcuni dei commenti che si leggono su twitter.
Luca Telese? Vietato dire "indigeni" (ma "terroni" va bene): il mondo al contrario. Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 10 settembre 2023
Chi ha paura degli “indigeni”? Luca Telese, sicuramente. Scena surreale a In Onda, su La7, con il padrone di casa che inquietato bacchetta in diretta Francesco Specchia, nostro collega di Libero. Tutto tranne che un pericoloso fascistoide, men che meno razzista. Eppure, meritevole di censura linguistica. Ricapitoliamo. Si parla del caso Caivano, con annessa polemica sul decreto “legge e ordine” varato dal governo e sul maxi blitz al Parco Verde.
«Un ripristino simbolico, una bonifica totale del territorio ma graduale - premette Specchia in collegamento da Milano -. Finora non sono stati ottenuti risultati... I ragazzi di Caivano, lo dicono gli stessi circoli del Pd, hanno applaudito pur in silenzio l’operazione della polizia, per non parlare di Don Patriciello e dei parrocchiani. Quel blitz ci voleva. La Bindi si è dimenticata di dire che i genitori a cui viene revocata la potestà genitoriale perché non mandano i figli a scuola sono quelli camorristi».
Quindi la frase contestata. «Se la camorra utilizza gli indigeni, i ragazzi del territorio...». Telese interrompe Specchia: «Non diciamo indigeni». Francesco sgrana gli occhi: «Indigeni in senso tecnico ed etimologico», si giustifica per spirito di cortesia, visto che non ce n’era alcun bisogno. «Eh lo so ma le parole sono importanti - rincara il conduttore -. Se li definisci indigeni siamo al colonialismo». «Luca, io sono indigeno di Milano e tu sei indigeno di Roma», replica Specchia. Al che a Telese scappa la frizione: «No io sono cittadino del mondo e ultra terrone». Riassumendo: “indigeno” è vietato, “terrone” è lecito. E tutto questo nel magico mondo della sinistra televisiva.
Il capitale (umano). La guerra impossibile della Lega agli insegnanti terroni. L'Inkiesta il 20 Giugno 2011
Tra le varie categorie di lavoratori non indigeni che rubano il lavoro a quelli padani, da qualche tempo la Lega ha deciso di prendersela con gli insegnanti meridionali. E’ noto, nel settore scolastico importare forza lavoro dall’estero è per ovvie ragioni non facile e dunque la Lega può tornare al suo antico amore: la guerra ai terroni. Il provvedimento varato nel 2009 dal Ministro Gelmini che stabiliva la riapertura delle graduatorie a esaurimento su base provinciale con inserimento in coda degli insegnanti provenienti da altre province, altro non era che un tentativo maldestro di compiacere le istanze leghiste. E il caos conseguente alla prevedibile dichiarazione di illegittimità dello stesso da parte della Consulta è il prezzo che tutto il sistema scolastico paga alle ragioni di una politica che non vuole tenere conto delle condizioni strutturali del nostro paese.
Quello che con toni spesso razzisti la Lega ci ricorda, è che gli insegnanti non sono poi così diversi dagli altri lavoratori. Tant’è che vanno a cercare l’occupazione dove è possibile trovarla.
Nel grafico qui sotto, tratto da uno studio Banca d’Italia in parte pubblicato nel Rapporto sulla Scuola 2009 della Fondazione Giovanni Agnelli, vediamo che i flussi migratori sono essenzialmente unidirezionali. Gli insegnanti del sud si spostano al centro-nord mentre il contrario non è quasi mai vero.
Ma se la scuola è un servizio pubblico presente su tutto il territorio italiano per quale ragione si rende necessario un tale esodo?
È presto detto: come in ogni settore, anche in quello del lavoro scolastico esistono condizioni strutturali e di mercato che creano squilibri e necessità di riallineamento.
La prima condizione di struttura è la demografia: la domanda di servizi scolastici è rappresentata dagli studenti presenti sul territorio, ma nei 10 anni che vanno dal 1997 al 2007, il numero di individui in età scolare è diminuito del 9% al sud, ed è aumentato al centro e al nord rispettivamente del 4% e del 12%. La ripresa nell’Italia centro-settentrionale è dovuta essenzialmente alla presenza di prime e seconde generazioni di giovani immigrati. I significativi flussi migratori degli ultimi vent’anni e le conseguenti regolarizzazioni di massa (che danno stabilità e prospettiva ai progetti di vita dei lavoratori stranieri) comportano ricongiungimenti familiari e picchi nei tassi di fertilità che alla fine si traducono in un maggior numero di “nuovi italiani” e dunque nuovi studenti.
Ma perché la maggior domanda di insegnanti al nord non può essere soddisfatta da forza lavoro locale?
Per una semplice ragione: anche per gli insegnanti esiste una “crisi delle vocazioni” ma, a differenza del sacerdozio, nella scuola la crisi è indotta da più semplici ragioni economiche.
Qui di seguito riportiamo il differenziale salariale a 5 anni dal conseguimento del titolo tra laureati che abbracciano la professione dell’insegnamento e laureati nelle stesse discipline che intraprendono altre strade.
Si osserva come questo sia molto elevato per i laureati del comparto tecnico-scientifico, mentre è abbastanza contenuto per il comparto linguistico-letterario. I primi hanno opportunità lavorative alternative significativamente più redditizie dell’insegnamento. Questa ragione, sommata a quella della precarietà – un insegnante sopporta in media in Italia 10-11 anni di precariato prima dell’inserimento in ruolo – determina il fatto che, al nord, le graduatorie per l’immissione in ruolo nelle materie tecnico-scientifiche siano in molti casi esaurite o in via d’esaurimento (e rendono necessaria l’importazione di altra forza lavoro), mentre quelle delle materie linguistiche-letterarie presentino code d’attesa molto lunghe, che in altre zone d’Italia diventano addirittura chilometriche.
Alcuni direbbero che la ragione della crisi delle vocazioni potrebbero avere a che fare anche con il presunto calo della considerazione sociale per il ruolo degli insegnanti (deficit di status). Ma questo è in parte una conseguenza del relativo svantaggio economico e lavorativo.
Lo squilibrio tra domanda e offerta di insegnanti nelle scuole del nord, dunque, genera la necessità di accogliere nelle graduatorie insegnanti provenienti da altre aree del paese. Il fatto che questi si sobbarchino anche l’onere della migrazione a fronte di trattamenti economici non privilegiati è di per se rivelatore delle inesistenti prospettive occupazionali nelle loro regioni d’origine. Ma il problema della Lega è che essi arrivano al nord con punteggi e anzianità spesso più elevati di quelli dei pochi insegnanti autoctoni in lista d’attesa, sopravanzandoli.
Esistono dunque insegnanti settentrionali le cui aspettative d’ingresso in ruolo sono frustrate dai nuovi arrivi. È un problema serio che però non chiama in causa questioni relative ai livelli di qualificazioni degli insegnanti (la scuola del nord è piena di insegnanti meridionali eppure è quella con risultati migliori) o alle presunte discontinuità didattiche causate dalle domande di trasferimento degli insegnali meridionali desiderosi di tornare verso lidi più caldi (0,6% delle domande accettate su base annua).
Ma ha a che fare, come detto, con fattori strutturali e in parte non malleabili (sviluppo economico e demografia nel mezzogiorno) e con gli incentivi necessari ad attrarre giovani “padani” nella professione insegnante. Tuttavia, se migliorare il trattamento economico degli insegnanti o ridurne la precarietà di certo attrarrebbe più giovani settentrionali nella professione, al contempo finirebbe con l’esasperare i flussi migratori (migliori condizioni di reddito e di lavoro allevierebbero i costi della migrazione). Dunque, agire solo su questa leva non darebbe ai leghisti i risultati sperati.
Il punto cruciale, per uscire da un’ottica di mero antimeridionalismo e abbracciarne una più attenta alla qualità del servizio, è come si determina il match tra singolo insegnante e singola scuola. Il sistema rigido delle graduatorie iper-regolamentate che da quando non si tengono più concorsi è peraltro fortemente slegato dalla qualità professionale, nella pretesa di trattare tutti allo stesso modo in base a criteri “oggettivi”, determina anche grandi iniquità. Ad esempio, un brillante giovane precario sarà sempre discriminato rispetto a un vecchio cattivo insegnante.
Un sistema più flessibile dovrebbe prevedere che, a fronte di una certificazione professionale riconosciuta e con standard qualitativi identici su base nazionale, gli insegnanti possano scegliere le scuole in cui desiderano lavorare e le scuole possano scegliersi gli insegnanti da integrare nella propria squadra. Questo consentirebbe di esaltare il ruolo dell’autonomia scolastica (sancita dalla costituzione) e sposterebbe il focus dai punteggi e dalle provenienze alla mera professionalità degli insegnanti con un guadagno complessivo per l’intero sistema.
Ma si tratta certamente di un argomento complesso sul quale varrà la pena tornare.
Per mettere il razzismo alla berlina serviva l’ondata comica dei nuovi italiani. Nathan Kiboba, Yoko Yamada, Xhuliano Dule. E tanti altri. Sono i nuovi volti di Comedy Central, che ribaltano cliché e ironizzano sui tic. Emanuele Coen su L'Espresso il 3 Agosto 2023
Scontro di civiltà con il microfono in mano, a colpi di risate. È la linea dei comici trentenni, nuovi italiani e figli di migranti, che ironizzano sul razzismo, sui tic di italiani e stranieri, sfatando luoghi comuni e pregiudizi. «L’altro giorno ho visto un politico in tv che diceva: “Ormai in Italia esiste anche il razzismo contro i bianchi”. E c’è gente che ci crede, cazzo», esordisce Nathan Kiboba, originario della Repubblica democratica del Congo, ormai milanese, portato fin da bambino per la comicità e tra i volti di punta di Comedy Central. «Non può esistere il razzismo contro i bianchi. Voi siete troppo forti: siete riusciti a far stare il porno in un cellulare. Chi cazzo può essere razzista contro di voi». E ancora: «In Africa hanno già preso tutto quello che c’era da prendere: le ricchezze, le terre, tutto hanno preso. L’unica cosa che ci è rimasta nella vita è lamentarci del razzismo».
Si muove invece sul terreno della comunicazione e della comprensione Yoko Yamada che, a dispetto di nome e cognome, abita a Venezia ed è nata e cresciuta a Brescia. Madre italiana, padre giapponese. «Fin da piccola ho imparato due lingue diverse. Una con suoni molto armonici, melodici, fluidi, cioè l’italiano; l’altra più dura, austera, con suoni gutturali che quasi incutono timore: il bresciano». E infine Xhuliano Dule, 31 anni, cresciuto in Veneto da genitori albanesi, che prende in giro la sua cultura di origine. «L’unico gesto d’amore che farà un genitore albanese è non abortirti. Da quel momento in avanti sei da solo». E ancora: «Mio padre nella mia vita ha avuto lo stesso ruolo del padre di Bambi nella sua. È comparso un paio di volte a dare pessime notizie. E poi si è dileguato nell’ombra».
Myrta Merlino e il reddito: "Ho sempre difeso i meridionali. Ma..." Libero Quotidiano il 23 gennaio 2023
"Io ho sempre difeso i meridionali dall'accusa di non avere voglia di lavorare, ma in questo caso sono in difficoltà". A L'aria che tira Myrta Merlino alza le mani e manda in onda un servizio, sconcertante, su un signore di Palermo, disoccupato e percettore del reddito di cittadinanza. Davanti alle telecamere di La7, un ristoratore gli offre un posto di lavoro nel suo locale, e gli dà appuntamento per parlarne a quattr'occhi. Lui accetta, sia pur titubante, ricordandogli di non avere esperienza nel settore. "Mi basta che lei abbia voglia di lavorare", gli ribadisce l'imprenditore, che poi chiede: "Quanto prende di reddito?". "1.200 euro". "Le offro la stessa cifra".
Arriva il giorno dell'appuntamento, ma del percettore non c'è traccia. "Secondo lei, prende 1.200 euro al mese e accetta di prenderne altrettanti lavorando?", domanda sconsolato al giornalista di La7 il ristoratore. La Merlino torna alla carica, invita il percettore in trasmissione per ascoltare la sua versione dei fatti. Altro due di picche. "Si è defilato". Poi colpo di scena, il disoccupato telefona per dire la sua: un misto di spiegazioni raffazzonate, cavillose, che spazientiscono tutti. "Non è un bello spot per il reddito di cittadinanza", riconosce addirittura il grillino Michele Gubitosa, tirando in ballo le politiche attive del lavoro, la mancanza di comunicazione e le omissioni dei presidenti di regione.
Va dritto al sodo invece Gian Luca Brambilla, imprenditore brianzolo anti-reddito: "Myrta, se dico quello che penso temo di passare per razzista. Vuoi la franchezza? Questa storia dimostra che c'è una differenza antropologica tra Nord e Sud. Se mi avessero offerto un posto da lavapiatti e poi chiesto di pulire un polpo, non avrei protestato ma avrei accettato. Mio padre mi avrebbe detto: 'Parti da lavapiatti per diventare uno chef'. Noi qua in Brianza abbiamo come obiettivo quello di 'rubare' il lavoro. Ed è così che abbiamo fatto fortuna".
La destra fa confusione fra arabi e maomettani, la sinistra fra egizi ed egiziani. CAMILLO LANGONE su Il Foglio il 23 settembre 2023.
Lo sconto al Museo egizio riservato ai visitatori di lingua araba? Potevano essere anche copti, maroniti, melchiti, tutti arabofoni e al contempo cristiani. Ma la "condivisione con le genti del paese d’origine di quel patrimonio"?
Iside, dea splendida, il caso del Museo Egizio ricorda l’incompatibilità fra precisione e politica. La destra, nella persona di alcuni importanti esponenti, fa confusione tra arabi e maomettani. Accusando il direttore Christian Greco di avere favorito tempo addietro i musulmani con uno sconto riservato ai visitatori di lingua araba. Che però potevano essere anche copti, maroniti, melchiti, tutti arabofoni e al contempo cristiani. La sinistra, nella persona del direttore Greco, a naso un immigrazionista, genera confusione tra egizi ed egiziani. Lo sconto venne ufficialmente motivato come “mezzo per condividere il prezioso patrimonio del museo con le genti del paese d’origine di quel patrimonio”. Come se quelle genti fossero all’origine di quel patrimonio. Gli egizi parlavano l’egizio, gli egiziani parlano l’arabo, imposto dalle spade del califfo. Gli egiziani credono maggioritariamente in Allah e minoritariamente in Cristo, gli egizi credevano in molte divinità fra cui Amon, Osiride e te, Iside. Fosse stato per gli islamici iconoclasti non è difficile immaginare che fine avrebbe fatto la tua bellissima faccia di pietra grigia: molto meglio starsene nel museo di Torino... (Ho parlato per amor di precisione, per avversione verso l’ottuso dualismo destra/sinistra, per attrazione verso i piccoli seni granitici della dea).
Camillo Langone. Vive a Parma. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "Eccellenti pittori. Gli artisti italiani di oggi da conoscere, ammirare e collezionare" (Marsilio).
La Lega attacca Christian Greco (museo Egizio): «Va cacciato, ideologico e razzista con gli italiani». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2023.
Il vicesegretario del Carroccio, Andrea Crippa, contro il direttore del sito museale torinese: «Nel 2018 decise uno sconto solo per i cittadini musulmani e io chiesi di protestare inondando il centralino di telefonate»
Un altro attacco a Christian Greco, direttore del museo Egizio di Torino, ma sempre sul piano politico, questa volta arriva dalla Lega per bocca del vice segretario del partito, Andrea Crippa, intervistato da «Affari italiani». L'oggetto del contendere è ancora quella strategia di marketing che, in passato, ha causato il celebre scontro con Giorgia Meloni. La colpa? Aver promosso sconti «per i musulmani».
Il caso del 2018
In realtà lo sconto era per chi parlava arabo ed era legato all'origine del museo stesso, perché tutti i reperti arrivano da un Paese arabofono e per il direttore era solamente un «gesto di dialogo» fra le tante promozioni che normalmente si fanno.
«Qualche anno fa – ha raccontato Crippa – Greco decise uno sconto solo per i cittadini musulmani (arabofoni, ndr) e io chiesi ai cittadini di protestare inondando il centralino di telefonate. Lui mi denunciò, fui condannato in primo grado e assolto in secondo, vincendo la causa». Quel gesto creò non pochi problemi al Museo Egizio, in effetti. «Greco è un direttore di sinistra – ha proseguito Crippa – che ha gestito il Museo Egizio di Torino in modo ideologico e razzista contro gli italiani e i cittadini di religione cristiana. Va cacciato subito, meglio quindi se fa un gesto di dignità e se ne va lui».
Crippa insiste e accusa Greco di razzismo, poi si rivolge direttamente al Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che finora non ha mai commentato ma dovrà rispondere a un'interrogazione parlamentare dell''ex sindaca di Torino, oggi deputata 5 stelle, Chiara Appendino. «Faremo di tutto per cacciarlo – ha attaccato – e chiediamo a Sangiuliano di cacciarlo se non si dimette lui». Ma l'unico organo titolato a revocare o confermare la fiducia al direttore è il cda del Museo Egizio.
Gli egittologi per Greco
Gli egittologi italiani non ci stanno. Corinna Rossi, tra le prime firmatarie della lettera in favore di Greco, spiega: «Faccio notare che gli oltre 90 firmatari della lettera aperta corrispondono praticamente alla totalità delle persone competenti in materia Egittologica in Italia. E quindi sono coloro che, più di altri, posseggono strumenti e competenze per esprimere un giudizio obiettivo su Christian Greco. I curricula scientifici seri, peraltro, sono tutti online: basta consultare GoogleScholar o ORCID e paragonare fatti, non chiacchiere. Competenze e risultati sono come la matematica: non sono un’opinione».
"Ticket solo per islamici". La Lega contro il direttore del museo Egizio: "Razzista con gli italiani". Ora che il contratto del direttore del museo Egizio dev'essere rinnovato, la Lega chieda che Christian Greco venga sostituito dopo l'iniziativa "Beato chi parla arabo". Francesca Galici su Il Giornale il 21 Settembre 2023.
È scontro aperto tra la Lega e il direttore del museo Egizio di Torino, Christian Greco. Il direttore è in scadenza di mandato e la sinistra, così come lo stesso Greco, vorrebbe si procedesse al rinnovo, ma ora la Lega alza le barricate e chiede la sostituzione della dirigenza del museo. "Il Museo Egizio di Torino viene pagato dai cittadini e lui ascolta solo la sinistra. È un razzista contro italiani e cristiani. Si dimetta subito, farebbe più bella figura", ha dichiarato Andrea Crippa, vicesegretario della Lega intervistato da Affaritaliani.it.
Tutto nasce alcuni anni fa, nel 2017, quando Crippa lanciò l'iniziativa "Beato chi parla arabo", con tanto di locandine in lingua araba, destinato esclusivamente ai cittadini stranieri. A loro veniva offerto un ingresso omaggio al museo Egizio dietro l'acquisto di un altro ticket. Un 2x1 che permetteva di risparmiare notevolmente alle famiglie arabe che desideravano visitare il museo di Torino. Iniziativa, dice la Lega, discriminatoria nei confronti degli italiani e dei cattolici. Ai tempi, il museo si difese dichiarando che si trattava di una mera operazione di marketing.
Il direttore la definì come "un mezzo per condividere il prezioso patrimonio del museo con le genti del Paese d'origine di quel patrimonio". Augusta Montaruli, invece, la definì un'iniziativa "assurda, ingiustificabile, discriminatoria nei confronti di chi non è arabo e anche offensiva nei confronti delle donne". Andarono all'attacco dell'iniziativa anche Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ai quali il museo replicò: "Per noi è un'operazione di marketing culturale, non certo politica e ci spiace se il nostro scopo non sia stato capito e che possa venir strumentalizzato".
Oggi che si discute il rinnovo dell'incarico, il tema torna di stretta attualità: "Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, faccia un gesto di dignità e si dimetta. Faremo di tutto per cacciarlo e chiediamo al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, di cacciarlo se non si dimette lui", continua il vicesegretario della Lega. Greco ha risposto: "Mi valutino con criteri oggettivi. Sono qui da nove anni, puntiamo a un milione di ingressi, stiamo lavorando al bicentenario. Mi lasciano basito gli attacchi della politica". La questione è aperta: da sinistra hanno fatto quadrato attorno al direttore, che anche se dice che non fosse quello l'obiettivo, è evidente che ha scatenato una battaglia politica, che vede da una parte la Lega che considera discriminatoria l'iniziativa del direttore e dall'altra la sinistra da sempre esterofila e distante dal mondo reale.
Sgarbi difende Greco: “Accuse assurde di Crippa, il direttore resterà a vita al Museo Egizio”. La polemica a Torino. "Crippa che esiste la maledizione di Tutankhamon? Con questa sua uscita otterrà l’effetto contrario: il direttore resterà lì a vita". Redazione Web su L'Unità il 22 Settembre 2023
Per Vittorio Sgarbi le accuse del leghista Andrea Crippa al direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco sono assurde. “Ma visto che parliamo di Egizi, lo sa Andrea Crippa che esiste la maledizione di Tutankhamon? Con questa sua uscita otterrà l’effetto contrario: il direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco, resterà lì a vita”, ha detto il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi in un’intervista a Il Correre della Sera Roma.
Crippa ha recuperato una polemica scoppiata nel 2018, quando anche l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni arrivò a Torino per protestare contro la promozione dei due biglietti al costo di uno per i visitatori di lingua araba. Il vice segretario del Carroccio chiese ai cittadini di contattare il centralino del Museo per criticare, venne denunciato, condannato in primo grado e assolto in Appello. “Greco è un direttore di sinistra che ha gestito il Museo Egizio di Torino in modo ideologico e razzista contro gli italiani e i cittadini di religione cristiana. Va cacciato subito”, aveva detto Crippa ad Affari Italiani.
Il vice segretario della Lega aveva sollecitato un’azione al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ma l’unico organo che può sollevare il direttore è il cda del Museo Egizio. La comunità degli egittologi italiani ha destinato una lettera di solidarietà in favore di Greco: oltre 90 firmatari. Sgarbi, nei mesi scorsi arrivato allo scontro duro con Sangiuliano, ha condiviso l’atteggiamento del ministro di non intervenire sul caso.
“L’idea dello sconto a chi parla arabo, nel 2018, fu una precisa scelta di marketing – ha aggiunto Sgarbi – , un’operazione merceologica. Greco, che sa far funzionare il museo perfettamente, guardando le statistiche dei visitatori aveva notato che per il 60 per cento erano americani, poi venivano gli inglesi, i francesi, gli italiani ma nessun arabo. Così, ebbe questa pensata di promuovere gli ingressi delle persone di lingua araba”.
Redazione Web 22 Settembre 2023
Il Sì&No del giorno. Giusto chiedere le dimissioni del direttore del Museo Egizio? “No, sotto la sua direzione è diventato il quinto museo più visitato d’Italia”. Silvia Fregolent (Senatrice Italia Viva) su Il Riformista il 22 Settembre 2023
Nel Sì&No del giorno, spazio al dibattito sulla richiesta di dimissioni del direttore del Museo Egizio. Abbiamo chiesto cosa ne pensano ad Andrea Crippa (Vicesegretario Lega), che ritiene giusta la richiesta, e a Silvia Fregolent (Senatrice Iv), che al contrario la ritiene una richiesta ingiusta.
Qui di seguito l’opinione di Silvia Fregolent.
“La cultura è universale”. Così Christian Greco rispondeva a Giorgia Meloni, che nel 2018 lo accusava di discriminazione nei confronti degli italiani, “reo” di aver promosso l’iniziativa di uno sconto al Museo Egizio di Torino per chi parla arabo. Quella colpa a breve divenne un merito, uno dei tanti tasselli della campagna capillare, volta ad incrementare l’affluenza dei visitatori, che ha portato il Museo dedicato alla civiltà egizia ad essere il quinto museo più visitato d’Italia, con quasi 900 mila ingressi nello scorso anno e una tendenza in crescita per quest’anno.
Siamo nel 2023, nel frattempo quella Giorgia Meloni che l’aveva giurata al direttore, da leader di un partito d’opposizione è diventata Presidente di un governo di destra, sovranista e populista, e le polemiche sulla direzione di Christian Greco sono tornate più vigorose di prima. Dopo le dichiarazioni di Marrone, assessore al Welfare della giunta Cirio, che nei giorni scorsi ha sì riconosciuto a Greco “doti manageriali non comuni”, ma ha anche aggiunto di ritenere che “esistano figure potenzialmente più qualificate che sono state penalizzate”, ieri è arrivata la stoccata scomposta del vicesegretario della Lega Andrea Crippa: “Faccia un gesto di dignità e si dimetta. Faremo di tutto per cacciarlo e chiediamo al ministro della Cultura Sangiuliano di cacciarlo se non si dimette lui”.
Noi ora chiediamo una presa di posizione forte e chiara a favore della gestione di Greco da parte del Ministro della Cultura, del presidente della Regione e del sindaco di Torino, per porre rimedio al silenzio assordante, complice, che stride con le voci di scienziati, egittologi e della stessa amministrazione della Fondazione delle Antichità Egizie in favore del direttore in carica.
Greco, sotto il fuoco di fila degli esponenti della destra, è un’autorità dell’egittologia, riconosciuto a livello internazionale. Per lui parlano i risultati: il museo ha avuto un’impennata di ingressi, risultando tra i primi musei d’Italia e primo in Piemonte, è rimasto aperto durante tutto il periodo di ristrutturazione permettendo di non perdere la continuità turistica, ha accresciuto il prestigio mondiale attraverso collaborazioni atenei e musei internazionali, è divenuto un punto di riferimento del panorama culturale italiano – grazie non solo alle riconosciute competenze, ma anche alla capacità di dialogo e di conoscenza del territorio in cui il museo è innestato -.
Quello che per Crippa è il peccato originale, non solo non ha tolto nulla agli italiani, ma è divenuto in realtà un volano per l’integrazione nella città con la più grande comunità arabofona d’Italia, attraverso giornate di formazione, studio e ascolto, di dialogo interculturale, di confronto sul ruolo dei musei per il cambiamento sociale e il contrasto degli stereotipi. Una piccola rivoluzione partita dalla cultura.
Se la Cultura è universale, e Greco lo rende evidente tutti i giorni con successo, noi scegliamo di fare un passo avanti rispetto alle sue parole e ci spingiamo a dire che la cultura è la prima fonte di integrazione.
Per spiegarlo dobbiamo tornare al 2015, quando l’Europa era sotto scacco di violenti attacchi terroristici di matrice islamista. A dieci giorni dai tragici fatti di Parigi l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi rispondeva alla domanda securitaria con coraggio “Per ogni euro in più investito sulla sicurezza deve esserci un euro in più investito in cultura”.
Fu uno spostamento di paradigma senza precedenti. Oggi purtroppo il governo delle destre sta compiendo pericolosi passi indietro, non riconoscendo il valore che la cultura ha per la crescita e per l’economia e per la stessa sicurezza del Paese. Chi si dice sovranista, chi si riempie la bocca ogni giorno del valore del Made in Italy, non può essere così miope da non vedere che i tagli alla cultura – come l’eliminazione della 18app – e gli affondi verso chi la gestisce in modo così esemplare fanno solo danni, quelli sì che tolgono qualcosa agli italiani. Perché, contrariamente a quanto pensano esponenti della destra, con la cultura non solo si mangia, ma si vive.
Silvia Fregolent (Senatrice Italia Viva)
Il Sì&No del giorno. Giusto chiedere le dimissioni del direttore del Museo Egizio? “Sì, ha fatto scelte ideologiche e razziste contro gli italiani”. Andrea Crippa (Vicesegretario Lega) su Il Riformista il 22 Settembre 2023
Nel Sì&No del giorno, spazio al dibattito sulla richiesta di dimissioni del direttore del Museo Egizio. Abbiamo chiesto cosa ne pensano ad Andrea Crippa (Vicesegretario Lega), che ritiene giusta la richiesta, e a Silvia Fregolent (Senatrice Iv), che al contrario la ritiene una richiesta ingiusta.
Qui di seguito l’opinione di Andrea Crippa.
Christian Greco ha gestito il Museo Egizio in maniera ideologica, ha preso delle decisioni alquanto discutibili nel recente passato. Ad esempio ha scelto di fare degli sconti solo per i cittadini musulmani. Ma che senso ha? Il Museo Egizio è un patrimonio di tutti, dato che è anche pagato con i soldi dei cittadini italiani. La sua è stata una gestione ideologica e politica. E quindi, visto che in questo momento c’è un governo di centrodestra, l’obiettivo non è quello di mettere una figura della nostra area politica ma un direttore che faccia gli interessi del Museo Egizio e dei cittadini italiani che pagano.
Detto in maniera franca: mi fa davvero sorridere chi in queste ore mi ha dato del cavernicolo, chi mi ha accusato di essere un fascista, chi addirittura mi ha appicciato l’etichetta di xenofobo. Sono tutte accuse che respingo con fermezza, anche perché vanno al di là del merito della questione. Tengo a specificare che la mia è una battaglia che ha un obiettivo ben definito: cercare di difendere i cittadini cristiani e gli italiani che si sono sentiti offesi dalle scelte del direttore del Museo Egizio. Va cacciato.
Inoltre, come se non bastasse, noto che si continua con la storiella di scelte intraprese a favore di chissà quale inclusione. Ma su questo punto, che a mio giudizio è assolutamente bizzarro e paradossale, mi viene spontaneo rivolgere una domanda. E mi piacerebbe che i miei detrattori mi rispondessero direttamente, senza sviare o ricorrere all’utilizzo dei soliti epiteti. Perché il direttore del Museo Egizio la stessa scelta di inclusione non l’ha fatta per cittadini di altre religioni? Bisogna essere intellettualmente onesti.
È inutile girarci attorno per difendere Greco a spada tratta: se si vuole includere tutti – ma includere veramente tutti, non solo quelli di una determinata religione – allora vanno inclusi anche buddisti e cristiani, giusto per fare un esempio. In generale avrebbe dovuto agire a vantaggio dei cittadini di tutte le altre religioni. Solo allora sarebbe stata una scelta inclusiva, ma lui si è reso protagonista di una scelta razzista nei confronti dei cittadini di altre religioni. Non capisco perché dover prevedere un beneficio e uno sconto solo per i cittadini musulmani, quando il Museo Egizio è un patrimonio di tutta l’Italia.
In sostanza la nostra idea è quella di arrivare a trattare e considerare il Museo Egizio come un vero e proprio patrimonio culturale. Di tutti, non solo del centrodestra o di appartenenza del centrosinistra. Proprio per questo motivo bisogna poter contare su un direttore all’altezza di un prestigioso museo riconosciuto a livello mondiale, che – non va affatto dimenticato – è un gioiello in Italia riconosciuto a livello planetario. Ora con quale coraggio il direttore pretende di rimanere incollato alla poltrona?
Per conseguire tale obiettivo è necessario che Christian Greco faccia un gesto di dignità, a questo punto doveroso: faccia un passo indietro e si dimetta. Ribadisco che la Lega non ha alcuna intenzione di mollare, faremo di tutto per cacciare il direttore del Museo Egizio. È un direttore di sinistra che in questi anni ha gestito il Museo Egizio facendosi guidare dall’ideologia e dal razzismo non solo contro gli italiani, ma anche contro i cittadini di religione cristiana. Dimettersi sarebbe un gesto di dignità. Andrea Crippa (Vicesegretario Lega)
Chi è Christian Greco, il direttore dell'Egizio di Torino che la destra vuole cacciare. Dall’Italia all’Olanda, e ritorno. Per approdare al vertice del museo che in questi anni ha rivoluzionato. Parla quattro lingue, ne legge dieci. Ecco chi è il nuovo nemico del governo in questo ritratto del 2019 realizzato da L'Espresso. Sabina Minardi su L'Espresso il 22 Settembre 2023.
Il ricordo affiora all’improvviso, come una incidentale senza troppa importanza. Ma mette subito le cose in chiaro: «Un ricordo della mia infanzia? Il gesto di liberare dal cellophane i libri nuovi, all’inizio dell’anno scolastico. È una sensazione viva ancora oggi: mi sembra di risentire quel profumo di carta e di inchiostro che mi investiva. Affondavo in pagine mai aperte, e pensavo con entusiasmo a ciò che di lì a poco avrei scoperto, studiando».È un fil rouge della conversazione la parola “studio”. La bellezza dello studio. Gli anni intensi dello studio. Il desiderio di riprendere a studiare. Lo studio a cui si dedica quando la burocrazia è troppa, gli impegni lo travolgono, le soluzioni non quadrano, e non c’è altra strada da tentare che liberare l’agenda, e rinchiudersi tra i libri.
Christian Greco, 44 anni, direttore del Museo Egizio di Torino, nominato cinque anni fa a un’età da record per l’Italia, travolge con un impasto di passione, curiosità e talento. Che tuttavia sarebbero impressioni passeggere senza due qualità sempre più desuete, da lui fieramente rivendicate: spirito di sacrificio. E l’ostinatezza di dedicarsi a un sogno: «Ho sempre voluto fare l’egittologo. L’ho desiderato sin da quando avevo 12 anni. I miei genitori mi portarono in Egitto, e lì, davanti all’emozione incredibile della Valle dei Re, guardai mia madre e le dissi: Da grande farò l’egittologo».
Così è stato. Origini ad Arzignano, Vicenza: «Sono figlio unico, e siccome i miei lavoravano a tempo pieno sono cresciuto coi nonni. Una fortuna: i loro racconti hanno influenzato il mio amore per il passato e per la storia, che è sempre stata la mia materia preferita». Liceo classico a Vicenza, poi l’ammissione al prestigioso Collegio Ghislieri di Pavia. Nel 1999 la laurea in Lettere classiche con una tesi in Archeologia del Vicino Oriente antico: il sogno si va delineando.
Chiaro, limpido, con quei modi gentili e antichi che hanno reso virale sul web un suo botta e risposta con Giorgia Meloni, che per una promozione verso i visitatori parlanti arabo lo accusava di discriminare gli italiani «a favore di una specifica religione» («Di una lingua, non di una religione: lo sa che in Egitto vivono 15 milioni di copti, che sono cristiani?», le ribatteva), Greco ripercorre gli anni trascorsi fuori dall’Italia dal suo ufficio all’ultimo piano del museo. Dove giganteggia un suggestivo scatto degli scavi di Pompei: anni Trenta, una vasca appena svelata, antichità egizie sul bordo. A sottolineare un gusto diffuso nella Roma del primo secolo dopo Cristo.
«Sono andato in Olanda a 21 anni per l’Erasmus, pensando di starci 7 mesi, ci sono rimasto 17 anni», racconta: «Anni meravigliosi, e faticosissimi. Appena arrivato a Leiden ho avuto l’incontro che mi ha cambiato la vita: con il professor René Van Walsem. Mi presentai per seguire il suo corso di Cultura materiale. Mi rispose che sarebbe stato impossibile: era avanzato, si svolgeva in olandese, sarebbe iniziato dopo poche settimane. Era il 7 gennaio, il 30 iniziavano le lezioni, mi sono iscritto quel pomeriggio stesso a un corso di olandese e ho studiato giorno e notte: al termine ho ottenuto un punteggio di 9 e mezzo, e il primo giorno di lezione c’ero anch’io: non potevo permettere che l’olandese diventasse l’ostacolo tra me e il mio sogno. Per raggiungerlo, ho fatto tutto con rigore: nei weekend compravo il quotidiano e ne leggevo dieci pagine. Annotavo le parole che non conoscevo e le ripetevo per gli altri giorni della settimana. Frequentavo solo persone olandesi».
Non a caso, Greco, che di lingue ne parla quattro, e ne legge una decina, pensa e studia nella lingua dei Paesi Bassi: «È quella che conosco meglio. Che canto sotto la doccia. Ma anche quella che uso se devo dipanare questioni complesse. Probabilmente averla acquisita con tanta volontà l’ha resa davvero mia», dice, riconoscendo il sapore delle cose conquistate.
«Ho fatto molti lavori mentre studiavo, incluse le pulizie. Finivo le lezioni, e mi spostavo a lavorare nel campus scientifico. Sono stato portiere all’Hotel Ibis, guida al museo. Quando il mio olandese è diventato buono ho cominciato a dare lezioni di latino e greco».
Nel frattempo, gli studi proseguono. A Leiden ottiene il Master in egittologia. All’Università di Pisa il dottorato di ricerca. La nomina a direttore del più importante museo egizio fuori dall’Egitto, tra oltre cento candidati, arriva mentre insegna Archeologia funeraria egizia e archeologia della Nubia e del Sudan.
«Una gioia incredibile. L’Italia mi mancava molto. È vero che avevo coltivato i miei obiettivi con disciplina. Però la nostalgia di casa era tanta. Stare all’estero mi ha insegnato a guardare le cose diversamente. Per esempio, io che in Italia sono considerato un giovanissimo direttore, in Olanda sono sempre stato il più vecchio. A 34 anni ero diventato curatore del museo archeologico di Leiden: chi mi aveva preceduto aveva avuto lo stesso incarico a 23. Dovrebbe essere un obbligo per i giovani trascorrere qualche anno all’estero: apre la mente, insegna la tolleranza. Io che sono cresciuto in Veneto, dagli olandesi ero considerato uomo del Sud. All’inizio non lo capivo: pensavo alla Pianura Padana, alla nebbia, e mi sentivo dire che a Pavia respiravamo l’aria del Mediterraneo. Credo che relativizzare la complicatezza del mondo sia utile per comprenderlo».
Allontanarsi per vedere meglio. Col risultato di sentirsi cittadino del mondo. Casa dov’è, allora? «Casa è Torino, ma ho tanti luoghi dell’anima. Vicenza, dove ho vissuto per 18 anni. E Pavia: gli anni al Collegio Ghislieri sono stati decisivi per la formazione, ma anche per le mie amicizie. Ovviamente Leiden. E poi l’Egitto. Non so spiegarlo, ma quando arrivo in Egitto, con un volo che atterra tardi, scendo dall’aereo, prendo un taxi e mi sento a casa», dice, sorridendo al richiamo di una terra, colori luce profumi: al fascino di una cultura.
«Su di me l’Egitto ha un potere catartico, mi cura l’anima, mi dà lezioni di convivenza e di vita. Forse perché è un Paese dove si respira ancora una dimensione spirituale, che mi affascina. Il Cairo è una città che adoro, metropoli contemporanea e insieme mediorientale, che nel passato ribadisce la sua identità. Città forte, difficile, con molte sacche di povertà, ma al tempo stesso attratta dall’Occidente e dallo sviluppo tecnologico».
Città di contrasti, certo. E di fratture clamorose, tra modernità e tradizione, sul fronte dei diritti e dei principi democratici. «È vero. È un Paese che cerca la sua strada, complesso, con una terra coltivabile ridotta, una popolazione concentrata, fasce di povertà estese, che pure riesce a garantire scolarità e sanità a tutti, ad esempio. Ma torno a ciò che ho imparato dai miei 17 anni fuori dall’Italia, nei quali molte volte ho sentito sulla mia pelle il pregiudizio - «Sicuro di essere italiano?», mi dicevano, «lavori come un tedesco!». Non mi piace dare giudizi e criticare una società da fuori. Per me Egitto vuol dire anche Luxor. E la Valle del Nilo, il caldo, la vegetazione che contrasta col deserto. E quei magnifici monumenti che abbiamo la fortuna di avere ancora, che continuano a interrogarci e ai quali cerchiamo di dare risposte. Uno dei luoghi più belli al mondo è Assuan. Da lì puoi arrivare a Philae, e a Kalabsha...».
Parla, e sorride con gli occhi il direttore. E lo sa: «Ci sono arrivato da bambino, forse mi è rimasto dentro un po’ quel fanciullino: uno stupore che riprovo sempre. Abbiamo la fortuna di avere uno scavo a Saqqara e di collaborare con gli egiziani. C’è un rapporto forte con loro, che va oltre le differenze culturali: siamo tutti lì per fare in modo che questo patrimonio sopravviva». Saqqara, trenta chilometri a sud del Cairo, una piramide a gradoni fatta costruire dal faraone Djoser nel 2650 avanti Cristo all’orizzonte. E un deserto per seppellire gli ufficiali dell’antico Egitto, intorno. L’orgoglio del direttore, che lì torna a fare l’archeologo, grazie alla missione del suo Museo e del Rijksmuseum di Leiden. «Sono fiero di questo scavo», dice, appena reduce dal sito: «La mia settimana di scavi è irrinunciabile. È un momento nel quale riprendo contatto con la disciplina e con la cultura materiale. Ho fatto l’egittologo perché sono curiosissimo di questa civiltà. Voglio studiarla e comprenderla il più possibile», dice, prima di allineare i successi del museo.
«Sono a Torino da cinque anni, ma mi sento all’inizio del percorso. I risultati sono il frutto di una perfetta coesione tra direzione e presidenza della Fondazione Museo delle Antichità Egizie: Eveline Christillin è una donna che sa fare squadra, e questo ci ha portato a condividere gli obiettivi. Per primo, trasformare questo luogo in un ente di ricerca. Non c’era niente, ora esiste un dipartimento Collezione e ricerca, con dieci curatori. Abbiamo creato la rivista del Museo Egizio, Rime, on line, scaricabile, che riunisce le pubblicazioni scientifiche. Ho firmato oltre ottanta memorandum di intesa con università italiane e straniere: l’ultimo è “Crossing Boundaries”, con Basilea e Liegi, per studiare la nostra straordinaria collezione di papiri. Un museo tanto importante ti consegna un’enorme responsabilità: dobbiamo studiare e conservare. Un principio costituzionale, sancito dall’articolo 9: la Repubblica, cioè lo Stato in tutte le sue articolazioni, cioè noi cittadini, promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca tecnico-scientifica. C’è sempre stata profonda spaccatura tra tutela e valorizzazione, ma la cosa che conta di più è la ricerca. Se non conosciamo il patrimonio non possiamo preservarlo e comunicarlo. Io amo usare la parola cura. Come ci si prende cura del patrimonio? Conoscendolo, conservandolo, comunicandolo».
Raddoppiato negli spazi nel 2015, rinnovato dopo anni di lavoro, il Museo Egizio incarna oggi una filosofia di apertura alla città. E le politiche di accoglienza che fecero insorgere la leader di Fratelli d’Italia proseguono: «Questo museo appartiene a tutti. Non è un mondo sospeso, è un ente dove ci sono donne e uomini che fanno ricerca. Reattivo a tutti i cambiamenti della società. Se il museo appartiene a tutti, è anche di chi al museo non può venire. Per questo abbiamo stabilito relazioni con l’ospedale pediatrico. E mai avrei pensato di trovare un’alleata importante nella casa circondariale di Torino: il direttore, che ringrazio, mi chiamò per fare una lezione ai detenuti. Da lì è iniziata una collaborazione che ha portato i detenuti a realizzare repliche perfette dei nostri reperti, come questi geroglifici» dice, mostrando un papiro.
Poi il direttore allinea i suoi desideri: «I torinesi sono il 23 per cento dei visitatori. Ma questo non è il museo da visitare una volta nella vita: vorrei che tornassero almeno una volta all’anno. Vorrei che tutti gli egiziani in Italia sapessero che questo museo esiste, e che qui ci si prende cura di oggetti patrimonio dell’umanità. Vorrei che il Museo Egizio riuscisse a ottenere il riconoscimento di luogo di formazione, come l’École du Louvre. Saldare luoghi della cultura e accademia potrebbe attrarre studenti dall’estero: a Pompei, al Colosseo, all’Egizio. Vorrei coinvolgere di più i giovani. I dati Ocse ci dicono che i musei subiscono un calo d’attenzione tra i 20 e i 45 anni: bisogna farli percepire come luoghi di arricchimento, non stantii».
Al secondo mandato - «dovrei arrivare al 2024», Greco ha in vista il bicentenario del museo: «Ci stiamo preparando ai festeggiamenti. Due anni prima c’è il bicentenario della nostra disciplina: duecento anni dalla “Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques”, del 14 settembre del 1822, con la quale Jean-François Champollion ebbe l’intuizione che avrebbe cambiato la comprensione dei geroglifici -«Je tiens l’affaire!», ho la soluzione, gridò. Sempre nel 2022 si festeggerà il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon».
Accordi col Canada, con gli Emirati Arabi, col Sudamerica: viaggia in continuazione, Greco: «Momenti miei? Pochi. Leggo, rileggo. In questo momento “I fratelli Karamazov”, l’analisi psicologica degli scrittori russi è insuperabile. Se col tesoro nel quale vivo ho qualche rapporto speciale? Mi sono occupato di testi cosmografici del Nuovo Regno. Al museo c’è una collezione di sarcofagi gialli interessantissimi. Ma se mi chiede se ho un legame emotivo con un reperto in particolare: sì, è con la tomba di Kha». La tomba di Kha e di sua moglie Merit, ritrovata intatta nel 1906 negli scavi della necropoli di Deir el Medina, Tebe, con le mummie e l’intero corredo funerario. «Se ho avuto una giornata difficile, se sento il peso di una decisione, faccio un giro prima di andare a casa per le gallerie. Passo davanti a questa tomba, rifletto sul messaggio immortale che ci lancia, e vado a casa più sereno».
Cattolico, socratico. E alle prese col tempo: «So di sapere poco. Ripenso spesso al testamento di Paolo VI, scritto a Castelgandolfo, quando stava iniziando la sua agonia. Prossimo alla fine, il Papa scrive: «Quanto più avrei voluto apprezzare il tempo, per leggere i grandi del passato, per riflettere sui filosofi, ascoltare la musica». Era un uomo di fede: ma prima di arrivare dal Padre, avrebbe voluto capire».
Calcio, vietato il numero 88 sulle maglie: "Simbolo antisemita". Arianna Di Pasquale su Il Tempo il 27 giugno 2023
Nessun calciatore scenderà più in campo con il numero 88 sulle spalle. Questo è quanto è emerso oggi dall'alleanza tra calcio e politica nella lotta all'antisemitismo, sancita con la dichiarazione d'intenti firmata al Viminale dal Ministro per lo Sport e i giovani Andrea Abodi, dal Ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi e dal coordinatore nazionale per la lotta contro l'antisemitismo Giuseppe Pecoraro. L'88 è usato nei gruppi neonazisti per simbolizzare il saluto 'Heil Hitler' (l'h è l'ottava lettera dell'alfabeto), pertanto viene allontanato definitivamente dal mondo del calcio.
“Nel codice etico delle società – spiega il ministro Piantedosi – viene recepito il riferimento alla definizione internazionale di antisemitismo. C’è quindi il divieto dell’uso da parte delle tifoserie di simboli che possano richiamare il nazismo; la responsabilizzazione dei tesserati a tenere un linguaggio non discriminatorio in tutte le manifestazioni pubbliche; la definizione delle modalità di interruzione delle partite in caso di episodi di discriminazione".
Una misura rigida che verrà attuata a partire della prossima stagione. "Sarà inoltre valutato positivamente l’atteggiamento proattivo delle società in questo campo“, chiosa il Ministro dell'Interno. Fece già discutere, anni fa, quando scesero in campo con la maglia numero 88 giocatori come Mateusz Praszelik, Gigi Buffon e Marco Borriello, i quali affermarono che non c'era nessuna motivazione politica dietro alla loro scelta. L'anno scorso in Serie A solo due calciatori hanno optato per il numero 88: Mario Pasalic dell'Atalanta e Toma Basic della Lazio. A partire dalla stagione 2023/2024 però non sarà più possibile avere tale numero, nonostante ormai da anni le squadre di calcio permettano la personalizzazione della maglia ai propri tesserati. La volontà è chiaramente quella di combattere l’antisemitismo nel calcio per estirpare un fenomeno ancora oggi troppo presente negli stadi italiani e che di tanto in tanto riemerge con veemenza.
Come si fa a chiamarlo Giro d’Italia se ignora quasi tutto il Mezzogiorno? PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Maggio 2023.
Se l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno e l’autostrada del Sole a Napoli perché stranirsi se il Giro ignora il Mezzogiorno?
Sarebbe pensabile un giro d’Italia che partisse da Bologna e si fermasse a Palermo? Sarebbe immaginabile che la Gazzetta dello Sport si presentasse dagli sponsor istituzionali, come Enel e Ferrovie dello stato per esempio, con un progetto di giro che lasciasse tutto il Nord assente dalla più grande competizione sportiva ciclistica italiana?
E perché invece nessuno si stupisce se il Giro lascia lo stivale fuori dalla competizione? Se poco meno di un terzo della popolazione viene privata e non viene toccata dalla gara?
D’altra parte se l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno, se l’autostrada del Sole si è fermata a Napoli perché stranirsi se il Giro mette in vetrina solo una parte dell’Italia, quella che conta secondo alcuni. Eppure è proprio la parte che più ha bisogno di mostrarsi che rimane fuori. Quella che é meno conosciuta dal mondo, quella Calabria che per anni e stata la nostra Amazzonia, abbandonata ai nativi, meglio nella quale “gli indigeni” sono stati, lasciati in mano della criminalità organizzata, dove la sanità è stata commissariata, lasciata nelle mani di manager improbabili, di politici trombati provenienti dalle regioni “brave”.
E d’altra parte qualcuno potrebbe anche sostenere che l’Italia è talmente lunga che può anche essere naturale che in qualche anno si possa farlo passare solo da una parte e che può anche essere opportuno, per motivi organizzativi, che ci si possa concentrare solo in una area del Paese. Tutto logico e comprensibile. Se fosse un fatto che alternativamente riguardasse tutti. Il fatto è che invece vi é una parte che viene sempre compresa ed una che viene lasciata qualche volta fuori. Occasione opportuna per riflettere sull’approccio del Paese con il suo Sud, ritenuto frontiera, spesso sconosciuto e guardato come territorio “d’oltremare”.
Lo stesso atteggiamento che si é avuto per i grandi eventi, che non lo toccano quasi mai, per le agenzie internazionali che non vi vengono localizzate, parte utile per posizionare le raffinirei e l’industria pesante, dal quale attingere capitale umano nei momenti di espansione, e da utilizzare come mercato di consumo interno non solo per i beni ma anche per i servizi, da quelli sanitari a quelli scolastici, se é vero che si mortifica la sanità locale per alimentare i viaggi della speranza o si potenziano le università, compresa quella Cattolica, per attrarre i giovani meridionali, che sostenuti nei costi dalla società di provenienza serviranno ad alimentare il mercato del lavoro della parte ricca, in una operazione di sottrazione di un patrimonio finanziario e di capitale umano che ormai dura da decenni e che ha portato all’ impoverimento non solo di alcune aree ma, in una visione bulimica di una parte, di tutto il Paese.
E il Giro é una visione plastica di un vecchio modello che andrebbe superato ma che invece torna prepotentemente perché é insito in una visione provinciale della parte che conta. E nessuno si straccia le vesti o si rifiuta di sponsorizzare una manifestazione chiamata d’Italia ma che dovrebbe piuttosto essere individuata come il Giro di mezz’Italia o che lascia fuori la colonia. Tale scelta sarebbe assolutamente da non commentare se non fosse un indicatore di un approccio, che riguarda tutta la società italiana che conta, tutte le imprese più importanti partecipate, che hanno guardato a questa parte come residuale, per cui le Ferrovie non vi hanno investito, l’Anas non ha fatto le manutenzioni richieste, la Rai pubblica l’ha guardato per le cronache criminali, tanto la classe politica locale chiedeva altro alla politica ed alla grande impresa: il posto di lavoro per l’amico, mancette per i propri clientes, mai un Ministero delle infrastrutture ma piuttosto quello delle Poste.
Il Giro é l’occasione di una riflessione necessaria per chi ha in mano il volante della guida del nostro Paese, che non sono certamente i rappresentanti eletti del Mezzogiorno, che se non si muovono secondo le logiche e gli interessi prevalenti rischiano la loro stessa esistenza. Come si è visto in Conferenza delle Regioni, nella votazione riguardante l’autonomia differenziata, che ha visto votare a favore i governatori meridionali della maggioranza, per disciplina di partito, tranne poi qualche giorno dopo andare ad Arcore a lamentarsi con il loro capo di una normativa che sottrarrebbe ulteriori risorse. Anche quelli che rappresentano regioni importanti come Occhiuto o Schifani.
Bisogna cambiare cappello e finalmente fare quello che a parole si é sempre dichiarato cioè affermare e partire in ogni decisone dalla centralità del Mezzogiorno, perché tale cambio di paradigma é l’unico che può riportare il Paese ad essere competitivo rispetto ai partner importanti del continente. Convincersi che i fattori che vanno sfruttati per far ripartire il Paese si trovano tutti nel Mezzogiorno, a cominciare da una posizione logistica nel Mediterraneo importante rimasta totalmente non utilizzata. Capire che il nostro Western, verso il quale bisogna muovere risorse e impegno, quello che ha tutti i fattori produttivi inutilizzati, da quelli ambientali a quelli umani a quegli logistici, la nuova frontiera, é pronto a rappresentare il futuro di questo nostro Paese.
La parte che può crescere a tassi da tigre d’Oriente, che può rappresentare la soluzione alla eccessiva antropizzaione di un Nord ormai saturo. Sembrerebbe cosi facile da capire per una società pensante eppure le resistenze continuano ad essere enormi, anche se alcune posizioni recenti, come quella di tutta la destra, ma in particolare della Lega, sul ponte sullo stretto e sulle altre infrastrutture al Sud, mostrerebbero un cambio di passo molto interessante, che fa ben sperare. Vedremo nei prossimi mesi se é strumentale o sincero, mentre la sinistra sembra non capire l’esigenza di un cambiamento che, se non avviene, rischia di far crollare il sistema Paese, sotto le proprie contraddizioni, che possono essere rappresentate da una parte dove lavora una persona su due ed un’altra dove invece ne lavora una su quattro, compresi i sommersi. Riuscire a capire che bisogna dare al Sud una prospettiva di sviluppo concreta, senza chiudersi dietro slogan ed ideologie, è un passaggio che ancora la sinistra non riesce a fare. Eppure i segnali forti che sono venuti dal Sud, compreso il successo dei Cinque Stelle, dovrebbe aver dato segnali importanti, che sembrano non essere stati colti, se le posizioni rimangono vecchie e stantie.
Vlahovic, i cori razzisti in Atalanta-Juventus, l’ammonizione e Gasperini: cosa è successo. Alessandro Bocci, inviato a Bergamo su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2023
Nel finale di Atalanta-Juventus Dusan Vlahovic viene bersagliato dagli ultrà bergamaschi con cori razzisti. Da lì il gol, l'esultanza e il giallo. Poi le parole di Gasperini
Succede ancora. Stavolta non con un giocatore di colore, ma con un giovane serbo. «Sei uno zingaro», urla la Curva Pisani a Dusan Vlahovic nel momento più concitato di Atalanta-Juventus, spareggio per la Champions . Tutto comincia al 90’ quando il centravanti della Juve, entrato a metà ripresa al posto di Milik, allontana il pallone dopo aver subito fallo da Maehle. Koopmeiners e De Roon invitano gli ultrà bergamaschi a fermarsi, ma non succede. Il finale è rovente. Vlahovic è scosso, l’arbitro Doveri ferma la partita per un minuto, l’altoparlante fa il solito annuncio.
Il gol, l'esultanza e il giallo
Poi si riprende e Vlahovic, che qui era stato preso di mira già quando giocava con la Fiorentina, segna il gol del raddoppio mettendosi l’indice alla bocca senza però rivolgersi ai suoi contestatori. Chiesa, che aveva regalato l’assist al compagno, mette le mani dietro le orecchie e i cori maledetti ripartono. L’arbitro ammonisce Vlahovic per esultanza provocatoria e gli fa segno di calmarsi. Sembra la riedizione del caso Lukaku. Anche se il serbo della Juve, non essendo diffidato, non sarà squalificato. Da vedere se la società bianconera farà ricorso: «Questi cori vanno combattuti con forza. Ma chi sta in campo deve far finta di niente quanto più possibile perché solo ignorando certa gente si può risolvere la cosa. Poi tocca a chi di dovere prendere i provvedimenti», il commento di Allegri.
Gasperini: «Razzismo cosa seria, non va confuso»
Assurda la presa di posizione di Gasperini: «Condanno i cori, ma nell’Atalanta giocano Pasalic e Djimsiti e in passato a Bergamo ci sono stati tanti giocatori di quell’etnia. Bisogna differenziare. A volte ci sono insulti per altre cose. Il razzismo è una cosa molto seria e non va confuso. Se fosse razzismo ci sarebbe anche contro giocatori che sono qui…». La Figc, intanto, ha contattato la Juventus per manifestare la sua solidarietà.
Estratto dell'articolo di Matteo De Santis per “la Stampa” il 6 aprile 2023.
Quattro pagine di allegati che si riempiono dall'ottantesimo minuto. Dal fallo di Lukaku su Gatti, il momento preciso in cui cambia in peggio il vento che spira sull'ultimo Juve-Inter, i tre ispettori della Procura Federale annotano di tutto. Il rapporto degli inviati allo Stadium ravvisa che, in concomitanza con il primo giallo a Lukaku, «sostenitori della Juventus occupanti il primo anello della Tribuna Sud intonavano versi di discriminazione razziale» all'indirizzo del numero 90 interista.
«Versi consistenti nella riproduzione del verso della scimmia ("Uhh Uhh") venivano effettuati dalla maggioranza dei 5034 spettatori nel settore e veniva percepito da tutti e tre i delegati della Procura Federale». Realizzato al 94' il rigore del pari, "Big Rom" si rivolge verso la curva «mimando il saluto militare alla visiera con la mano destra e l'invito a fare silenzio con quella sinistra. A seguito di ciò i sostenitori della Juventus occupanti il primo anello della Tribuna Sud intonavano nuovamente versi di discriminazione razziale».
Dalla Curva Sud, nel frattempo, venivano lanciati «un corpo contundente non identificato all'interno dell'area di rigore e una bottiglietta d'acqua semipiena all'interno del recinto di gioco». Al 95', mentre Lukaku esce per il secondo giallo, «diversi sostenitori della Juventus occupanti il settore 101 del primo anello della Tribuna Ovest intonavano versi di discriminazione razziale consistenti nella riproduzione del verso della scimmia e proferivano ripetuti insulti di carattere discriminatorio quali "Negro di m...."».
Al triplice fischio di Massa, «iniziava un vigoroso confronto al termine del quale Cuadrado colpiva con un violento pugno al volto Handanovic. Si scatenava, di seguito, una "mass confrontation"» che sfociava nell'espulsione dei due protagonisti principali. «Diversi dirigenti e calciatori di entrambe le società non indicati nelle rispettive distinte di gara si introducevano sul campo senza che il servizio di sicurezza intervenisse per impedirlo.
Mentre la quasi totalità si adoperava per cercare di sedare la "mass confrontation"», il dirigente interista «Dario Baccin tentava più volte di arrivare al contatto fisico con l'arbitro. Impedito nell'intento grazie all'intervento di altri dirigenti della propria società proferiva all'indirizzo del direttore di gara ripetute espressioni offensive quali: "Testa di c....", "Sei un pezzo di m...." ». Nessuna traccia, nel resoconto degli 007 federali, di discussioni nel tunnel per gli spogliatoi: probabile che non ce ne sia neanche nel referto dell'arbitro Massa.
Lettera di Antonello Piroso a Dagospia l'8 maggio 2023.
Caro Dagospia,
vedo che hanno provocato sconcerto, critiche e ripulsa le frasi di Gasperini -uno che non è esattamente nel Pantheon delle mie simpatie- sul razzismo negli stadi. Con commenti, intinti nello sdegno, delle "firme" degli (ex) grandi giornali.
Ma fattelo dire da chi per la Federcalcio ha ideato e realizzato in passato la campagna "Razzisti, una brutta razza", e che per di più è figlio di un calabrese nato in una città, Como, in cui a cavallo tra la fine degli anni 50 e l'inizio degli anni 60 potevi trovare cartelli in cui si annunciava: "Non si affitta ai terroni" (scritto proprio così, mi raccontava mio padre: non "meridionali", ma "terroni", puoi dunque intendere quale possa essere la mia posizione nei confronti di ogni forma di razzismo e xenofobia; una casa poi alla fine ci fu sì affittata, ma da un...veneto): in punta di logica, l'allenatore dell'Atalanta non ha torto.
Il suo non fluidissimo ragionamento rimanda, senza saperlo -o magari sì, sapendolo; vai a sapere- a Desmond Morris, "La scimmia nuda", do you remember?, del quale mi era sfuggita un'intervista del 2019 che ho recuperato grazie alla ripresa che ne ha fatto proprio Dagospia.
Intervistato dunque da Marino Niola, non dal primo fesso che scrive sui giornali (antropologo, suggerisco la lettura dei suoi "Miti d'oggi", "Il presente in poche parole" e "Baciarsi"), alla domanda : "Negli stadi italiani imperversano i cori razzisti. C'è anche qui una spiegazione etologica?", Morris così rispondeva, distinguendo tra razzismo e tribalismo, e ovviamente non negando che le offese razziste esistano, eccome: "Più che altro (c'è una spiegazione) sociale. In realtà se a fare goal sono i giocatori di colore della nostra squadra, la tifoseria esulta e li osanna. Mentre insulta quelli delle squadre avversarie. Insomma, il nostro nero è un eroe, il loro è un selvaggio. Ma questo non è razzismo nel senso pieno della parola, è piuttosto un comportamento tribale. Proprio per questo intitolai il mio libro La tribù del calcio. Perché questo sport è l' ultimo rifugio del tribalismo".
Dopo di che, io ad occuparsi dei teppisti delle curve manderei la Celere, ma questa è un'opinione da boomer, mi rendo conto.
Ps il "giallo" appioppato a Vlahovic per -almeno così pare (non so ancora nulla del referto arbitrale)- aver esultato reagendo agli insulti pone adesso un problema alla Figc, visto che Lukaku, squalificato dopo un rosso, è stato graziato dal presidente Gravina per aver reagito a "ripetute manifestazioni di odio": il giallo allo juventino rimarrà o no? Quando in tv a Domenica Dribbling ho posto il tema del "precedente", qualche "utonto" dei social mi ha spernacchiato. Ma se gli arbitri devono sanzionare i giocatori che reagiscono agli insulti, quando a replicare non sono solo i neri, ma -per dire- gli "zingari" o i "napoletani", e anche per loro scatta l'ammonizione, potranno tutti contare sul "precedente Lukaku" sì o no? (Per me evidentemente sì, perchè altrimenti saremmo di fronte a un caso di "grazia" discriminatoria...al contrario).
Estratto dell'articolo di Marco Beltrami per fanpage.it l'8 maggio 2023.
La partita tra l'Atalanta e la Juventus è stata funestata dai cori discriminatori dei tifosi di casa nei confronti di Vlahovic. "Sei uno zingaro" hanno urlato a più riprese i sostenitori atalantini per una situazione che fa il paio con quanto accaduto due stagioni fa quando vestiva la maglia della Fiorentina.
[…] Gasperini ha voluto fare un distinguo. […] ha spiegato che a suo dire c'è la necessità di non fare confusione sulla tipologia degli insulti che spesso arrivano dagli spalti. Per questo Gasperini ha tirato in ballo anche alcuni suoi giocatori: "Condanna dei cori discriminatori a Vlahovic? Sì assolutamente però devo anche evidenziare che nell'Atalanta giocano Pasalic, Djimsiti, Ilicic, Sutalo, tanti giocatori di quella etnia se volete. E quindi bisogna anche differenziare le cose".
[…]"A volte gli insulti sono legati anche ad altre cose no? Come quando si prendono anche altri tipi di insulti. Il razzismo è una cosa molto seria eh, non va confusa. A volte la confondiamo, poi che vada combattuto non c'è dubbio. Ma non va confuso perché sennò il razzismo riguarda tutti quanti, anche i nostri giocatori. Invece se non è così qualche volta bisogna distinguere".
[…]"L'insulto è anche quando ti dicono "figlio di p…" o "pezzo di m…". Se un insulto è al singolo o è un insulto razzista. Se è razzismo sarebbe riferito anche a tanti giocatori che sono qua e invece non è così. Va differenziato perché sennò si fa di tutta l'erba un fascio. Poi dopo bisogna combattere il razzismo vero, e non gli insulti individuali. La maleducazione? Questo è un altro discorso, perché va distinta. È più difficile perché è diffusa e generalizzata, combatterla è un'impresa".
Romelu Lukaku e l’espulsione: il paradosso di punire la vittima dei razzisti. Così si è arrivati alla figuraccia. Daniele Fiori su Il fatto Quotidiano il 5 aprile 2023.
Esistono sfumature, interpretazioni avventate e un regolamento troppo generico. Ma c’è una certezza: se una partita finisce con la punizione di un calciatore vittima di razzismo, mentre per gli autori dei beceri cori e ululati viene semplicemente chiesto un “supplemento di indagine” (quindi la sanzione arriverà, chissà, più avanti…) è evidente che il calcio italiano ha sbagliato tutto. Infatti, dopo l’espulsione di Romelu Lukaku nel finale di Juventus–Inter – semifinale di andata di Coppa Italia – tutti cercano di correre ai ripari. “Il razzismo è insopportabile ovunque, tanto più su un campo di calcio su qualunque campo di calcio”, scrive in un tweet il ministro per lo sport Andrea Abodi. Mentre la Lega Serie A in una nota “condanna con fermezza ogni episodio di razzismo e ogni forma di discriminazione. Le Società di A, come sempre hanno fatto, sapranno individuare i colpevoli, escludendoli a vita dai propri impianti”.
Dichiarazioni di circostanza, che però non servono a evitare la figuraccia. La nazionale del Belgio si è subito schierata dalla parte di Lukaku: “No al razzismo“, il tweet accompagnato da una foto dell’esultanza di Lukaku con la maglia dei Diavoli Rossi. Anche il club dove è cresciuto, l’Anderlecht, ha scritto in italiano: “Tutti con te Rom”. I tre principali quotidiani sportivi italiani nelle loro prime pagine in edicola non accennano nemmeno ai buu e ai cori razzisti, mentre la più importante testata sportiva europea – L’Equipe – sul suo sito dedica un articolo alla partita dal titolo: “Romelu Lukaku è stato vittima dei cori razzisti dei tifosi della Juventus”. Non esattamente una bella pubblicità per il nostro calcio. Poi è arrivato pure il comunicato della società che cura l’immagine di Lukaku: la Roc Nation, agenzia fondata da Jay-Z che ha nel suo “roster” musicisti e sportivi di tutto il mondo. “Gli insulti razzisti da parte dei tifosi della Juventus sono stati oltremodo spregevoli e non possono essere accettati”, ha dichiarato Michael Yormark, presidente di Roc Nation. “Le autorità italiane devono sfruttare questa occasione per affrontare il razzismo, piuttosto che punire la vittima degli abusi”, ha aggiunto. Un concetto che è stato ribadito da molti, compreso il deputato Mauro Berruto, ex ct della Nazionale italiana di pallavolo maschile e oggi responsabile sport del Pd: “Di nuovo, il mondo capovolto. Il razzismo e l’antisemitismo sono una piaga da estirpare nel mondo ultras, qualsiasi sia il colore della bandiera. Invece chi reagisce così, con dignità e coraggio, viene espulso. Incredibile”, ha scritto su Twitter.
Perché Lukaku è stato ammonito (e quindi espulso, visto che aveva già ricevuto un cartellino giallo) per aver esultato zittendo i tifosi razzisti? La cronaca dice che al 93esimo minuto viene assegnato un rigore all’Inter. Mentre l’attaccante nerazzurro è sul dischetto pronto per tirare si sentono dagli spalti piovere ululati e altri appellativi razzisti. Lukaku segna e si ferma, portando una mano alla fronte per mimare un saluto militare e l’altra alla bocca, facendo con l’indice il gesto del silenzio. Resta immobile. Tutti interpretano il suo gesto come una risposta alla curva bianconera, ma allo Stadium Lukaku ha esultato esattamente come aveva già fatto in occasione del gol contro la Svezia, quando indossava la maglia del Belgio nella partita giocata lo scorso 24 marzo. Quel modo di festeggiare infatti è un tributo a Jérémy Doku, suo connazionale fermato dall’ennesimo infortunio. Il significato è chiaro: andare avanti senza ascoltare le critiche. O gli ululati. In quel momento, l’esultanza dell’attaccante nerazzurro sembra effettivamente rivolgersi alla curva bianconera, che lo aveva appena apostrofato con appellativi razzisti e appunto i soliti tristi buu.
L’arbitro Davide Massa decide di mostrare il secondo cartellino giallo a Lukaku, ritenendo di applicare la norma presente a pagina 95 del regolamento: in caso di festeggiamento di una rete, il calciatore deve essere ammonito se “agisce in un modo provocatorio o derisorio“. Una regola incomprensibile, perché rischia di sfociare in un’ammonizione ad ogni gol. Il balletto di un calciatore può essere considerato derisorio? Un attaccante che si porta la mano all’orecchio dopo un gol – Luca Toni lo ha fatto per una carriera – è provocazione? Secondo Massa, quindi, Lukaku ha “provocato” i razzisti chiedendo loro di stare zitti. Così a una regola scritta male si è aggiunta un’interpretazione insensata. Innanzitutto perché il direttore di gara non ha tenuto conto del fatto che l’esultanza di Lukaku non era pensata ad hoc per la situazione, ma era un suo modo di festeggiare, già utilizzato di recente. Lo stesso errore fu commesso da Daniele Doveri, che ammonì l’atalantino Lookman per aver esultato mimando il gesto degli occhiali, suo marchio di fabbrica. Inoltre, se è vero che Lukaku ha rivolto la sua esultanza alla curva, Massa non ha valutato il contesto in cui è maturata: il razzismo, appunto. Quando nel 2019 Mario Balotelli, che allora vestiva la maglia del Brescia, fermò il gioco e scagliò il pallone verso i tifosi dell’Hellas Verona per aver sentito versi scimmieschi, non fu ovviamente ammonito. Anzi, la partita fu sospesa per qualche minuto. Un’opzione che gli arbitri hanno sempre a disposizione in caso di cori razzisti tanto quanto i cartellini per le esultanze, ma non utilizzano praticamente mai.
Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per “la Repubblica” il 23 marzo 2023.
[…] L’Italia torna a Napoli dopo dieci anni, ma […]quasi nessun giocatore del Sud. Nell’anno in cui il Napoli vincerà lo scudetto senza napoletani, visto che l’unico in rosa, Gaetano, ha giocato 37 minuti, in azzurro non arrivano calciatori nati al di sotto di Roma.
Tranne due: Gianluigi Donnarumma da Castellammare di Stabia e Domenico Berardi di Bocchigliero in provincia di Cosenza. Ma sono diventati calciatori lontano da casa, in squadre del Nord. […]
Certo manca Immobile, infortunato, ma Ciro ha 33 anni: al prossimo Mondiale ne avrà 36. […] Nel 2006 vincevamo i Mondiali con Cannavaro, ultimo Pallone d’oro d’Italia, Gattuso, Perrotta, Iaquinta e Barone (più Materazzi, nato a Lecce e passato per le giovanili del Messina al seguito del papà Beppe), oggi le grandi di Serie A hanno giusto un paio di giocatori meridionali: Immobile e l’interista D’Ambrosio sono gli unici nelle prime 7 del campionato.
Il Sud resta la zona con la più alta percentuale di abbandono dell’attività calcistica, soprattutto in adolescenza: tra il 2018 e il 2021, le società dell’area hanno perso il 35% dei tesserati, più di un terzo. Molti si spostano al nord, dove sono migliori le strutture, ma soprattutto dove i club offrono spesso un convitto a chi viene da fuori. La questione chiave però è quella della competitività: nei campionati regionali giovanili, in Lombardia, affronti ogni settimana squadre come Milan, Inter, Atalanta, avversarie che alzano il livello della competizione.
Al Sud, se giochi nella Salernitana sei fortunato se due volte all’anno incontri il Napoli. E questo, a lungo andare, fa sì che aumenti la forbice con chi si confronta con rivali più probanti. «Ma il talento di base è forse più diffuso al Sud», racconta Luigi Maione della Real Casarea, società giovanile napoletana che ha progetti di integrazione calcio-scuola. […]
«Siamo la seconda regione per società tra attività giovanile e dilettantistica » spiega il presidente del Comitato regionale campano Carmine Zigarelli, «ma ogni campo qui lo dividono tre o quattro società e ognuna ha almeno due squadre»: vuol dire avere a malapena un paio d’ore a settimana di disponibilità per ogni ragazzo. […] Il problema, come sempre, è trovare i soldi, per far sì che il calcio al Sud non sia solo il Napoli senza italiani.
A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato a al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" dato a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!
Estratto dell'articolo di Filippo Femia per “la Stampa” il 15 febbraio 2023.
Un arbitro preso di mira, insultato, per il colore della pelle. È accaduto domenica scorsa a Loria, poco più di 9 mila anime in provincia di Treviso. […] Mamady Cissé, 35 anni e origini della Guinea, ha interrotto la partita tra Bessica e Fossalunga di seconda categoria […] La colpa di Mamady? Aver concesso un rigore contro i padroni di casa.
Poco dopo il pareggio della squadra ospite, all'87', è arrivato l'insulto razzista[…] Il direttore di gara non ha avuto esitazioni: ha fischiato la fine del match in anticipo e senza avvisare i capitani si è diretto verso gli spogliatoi. […]
[…]Ieri è intervenuto anche il presidente Figc Gabriele Gravina, con parole dure: «Io oggi sono Cissé, tutto il calcio e Cissé e deve combattere questa forma di cultura becera che va espulsa dal nostro sistema». […] «Quello che serve è una maggiore collaborazione dei protagonisti mondo del calcio e dello sport con sanzioni più forti. Servono provvedimenti severissimi contro mascalzoni e delinquenti».
Mamady è molto conosciuto nel Trevigiano per il suo impegno nel mondo del calcio. «Essere arbitro mi ha aiutato a integrarmi in una seconda famiglia, a crescere e maturare», aveva detto in un'intervista pubblicata sui canali dell'Associazione italiana arbitri. […] Quello di domenica non è il primo episodio di cui Cissé è vittima: nel 2018 gli insulti razzisti erano arrivati da un dirigente. «Se stavolta ha sospeso il match significa che sono state parole molto gravi o semplicemente non riesce più a sopportare l'idiozia e l'ignoranza», spiega un giocatore che lo conosce bene.
Estratto dell’articolo dui Domenico Zurlo per leggo.it il 26 febbraio 2023.
Razzismo contro i meridionali, nel 2023. Accade a Brescia, dove Luca Guerra, un cronista di Radio Selene che si trovava al Rigamonti per la telecronaca della partita di calcio tra Brescia e Bari, si è visto rivolgere da un tifoso di casa una frase non particolarmente simpatica: «Siete di Bari, siete italiani?».
Il giornalista era in diretta prima della partita quando un tifoso bresciano gli ha urlato questa frase e lui non ha esitato a rispondere a tono: «Sì, sono italiano deficiente».
A quel punto per un attimo ha interrotto la sua diretta per commentare a caldo l'accaduto: «Il razzismo territoriale fa parte ancora della testa di qualcuno nel 2023, verrebbe voglia di tornare a casa se qualche deficiente ci chiede, 'siete di bari siete italiani?' - ha detto -. Ma andiamo oltre questi deficienti, che non vi abbiamo mostrato altrimenti sarebbe stato un momento di gloria immeritato per loro».
[…] Sono «50 secondi per capire che c'è qualcuno che ancora è indietro con il cervello di 50 anni. Mi scuso se ho detto tre parolacce in onda, non è nel mio stile. Ma di fronte a delle provocazioni così spicciole si viene colpiti nell'orgoglio - ha poi commentato il cronista sulle sue pagine social -. La persona inutile dall'altra parte aveva più o meno la mia età e ridacchiava, spalleggiato da altri quattro amichetti. Tutti tifosi del Brescia. Ha perso sul campo ma aveva già perso la sua partita con la civiltà. Buona serata e a mai più».
Cronista del Bari insultato a Brescia durante la diretta: «Ma siete italiani?». L'episodio pochi minuti prima della radiocronaca della partita che ieri ha visto la vittoria dei biancorossi. REDAZIONE ONLINE La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Febbraio 2023.
«Siete di Bari, siete italiani?». È la provocazione razzista rivolta a un cronista di Radio Selene che si trovava ieri allo stadio Rigamonti di Brescia per la telecronaca della partita di calcio Brescia - Bari.
Luca Guerra, questo il nome del giornalista, era in diretta prima della partita quando un tifoso bresciano gli avrebbe urlato questa frase e lui non ha esitato a rispondere, «Si, sono italiano deficiente». Per un attimo ha quindi interrotto la sua diretta per commentare a caldo l’accaduto: «Il razzismo territoriale fa parte ancora della testa di qualcuno nel 2023. Verrebbe voglia di tornare a casa se qualche deficiente ci chiede, "siete di bari siete italiani?" - ha detto - ma andiamo oltre, altrimenti sarebbe un momento di gloria immeritato per loro».
L’episodio è stato denunciato sulla pagina Facebook di Radio Selene. «A lanciare la stupida e deprecabile provocazione - spiegano - è stato un tifoso bresciano». Sono «50 secondi per capire che c'è qualcuno che ancora è indietro con il cervello di 50 anni» dicono, poi il cronista si scusa per aver «detto tre parolacce in onda, non è nel mio stile. Ma di fronte a delle simili provocazioni si viene colpiti nell’orgoglio. La persona dall’altra parte aveva più o meno la mia età e ridacchiava, spalleggiato da altri quattro amichetti. Tutti tifosi del Brescia. Ha perso sul campo ma aveva già perso la sua partita con la civiltà».
Estratto dell'articolo di Marco Azzi per repubblica.it il 21 febbraio 2023.
Cresce l'allarme per l'ordine pubblico a poche ore dalla sfida di Champions League tra Eintracht e Napoli, in programma stasera alle 21 a Francoforte. C'è un intreccio preoccupante legato alle relazioni tra ultrà, con i tedeschi che sono gemellati con quelli dell'Atalanta, nemici giurati della frangia oltranzista della tifoseria azzurra. La polizia locale è in stato d'allerta da giorni e sono state vietate le coreografie nelle curve della Deutsche Bank Arena, in cui non potrà andare in scena il previsto spettacolo pirotecnico.
In città sono comparsi degli adesivi razzisti ("Terroni di m...") e nella notte prima della partita c'è stata tensione all'esterno di alcuni ristoranti, con un abbozzo di caccia all'italiano. Ma la preoccupazione è destinata ad aumentare con l'arrivo dei voli charter che stanno portando in Germania i 2.600 sostenitori della squadra di Luciano Spalletti, la cui marcia di trasferimento dall'aeroporto allo stadio avverrà con la scorta di un centinaio di agenti, per fugare il timore di agguati.
(…)
Allo stadio tremila napoletani residenti in Germania
Il Napoli fa sognare e per questo si sono mobilitati anche i tifosi residenti in Germania, con almeno altri tremila sostenitori azzurri che saranno sparpagliati stasera in altri settori dello stadio, mischiati a quelli tedeschi. Pure all'interno della Deutsche Bank Arena lo stato di allerta sarà dunque ai massimi livelli. Ma c'è un ulteriore motivo di preoccupazione: la presenza in città di tanti appassionati senza biglietto, che rischiano di sfuggire al controllo delle forze dell'ordine. Il mercato nero si è risvegliato con il sold out e il prezzo dei tagliandi s'è decuplicato. "Speriamo che sia una bellissima festa", ha detto il tecnico tedesco Glasner. Sui social ci sono però già dei messaggi di fuoco in vista della rivincita del 15 marzo allo stadio Maradona. Fuori dal campo tira una brutta aria.
Estratto dell’articolo di Filippo Femia per “la Stampa” il 16 febbraio 2023.
«Adesso mi sento un po' più leggera, anche se il mio peso è rimasto identico». Martina Scavelli, 34enne di Catanzaro, non ha perso il sorriso, nonostante poche ore fa abbia preso la decisione più complicata e sofferta della sua vita: dimettersi dal ruolo di arbitro di pallavolo dopo 15 anni. […]
I controlli sul peso ci sono sempre stati?
«Sì, sono norme federali basate su indicazioni sanitarie. Bisogna rientrare in determinati parametri antropometrici, come il BMI (l'indice di massa corporea) e la circonferenza addominale. Io ho sempre seguito un regime alimentare particolare per rispettarli, se li superavo mi autodenunciavo».
È singolare che un arbitro, che durante le partite non si muove, debba rispettare tali parametri.
«Sono norme intese per tutelare la salute e non le discuto. Ma è paradossale che un giocatore possa essere obeso e che gli allenatori o i dirigenti non debbano rispettare tali parametri. Perché?»
Nel suo sfogo ha usato termini pesanti. «Non sopporto più di essere pesata come si fa con le vacche», ha scritto.
«Confermo. Ricordo ancora quelle file, decine di persone in attesa: qualcuno si sentiva umiliato. E non parlo solo di donne: anche uomini o persone non binarie».
[…]
Nella sua carriera ha mai ricevuto insulti per il suo fisico?
«In più di un'occasione, soprattutto da parte di genitori dei giocatori: è la categoria che più avvelena lo sport. Ma sa qual è la cosa che fa più male?».
Quale?
«Essere presa di mira per il tuo fisico e non per le tue abilità o gli errori tecnici. Se commetto uno sbaglio perché devo sentirmi urlare che sono "cicciona"?».
[…]
Da ilnapolista.it il 5 gennaio 2023.
Su Le Parisien l’apertura dello sport è dedicata agli ululati razzisti dei tifosi della Lazio nei confronti di Umtiti che è uscito in lacrime alla fine del match che il Lecce ha vinto 2-1 sulla squadra di Sarri. Sull’edizione on line de L’Equipe è la seconda notizia. Inutile dire che non si trova in evidenza su nessun quotidiano on line italiano.
Scrive invece Le Parisien:
Fedeli alle loro cattive abitudini, i tifosi della Lazio si sono mostrati nel peggiore dei modi. Questa volta a farne spese è stato Samuel Umtiti. Il difensore centrale del Lecce, in prestito dal Barcellona, ha dovuto subire cori razzisti, come il suo compagno di squadra Lameck Banda. L’ex giocatore del Lione ha pianto.
Racconta Le Parisien che dopo il 2-1 il settore dei laziali ha cominciato a intonare cori razzisti nei confronti di Umtiti e del giocatore dello Zambia Banda.
A fine partita Umtiti è scoppiato in lacrime tra le braccia del suo presidente, mentre i suoi sostenitori cantavano il suo nome.
Prosegue Le Parisien:
Questo tipo di comportamento è diventato un’abitudine in diversi stadi italiani e non è la prima volta per i tifosi laziali. Lo scorso novembre, le autorità sportive italiane hanno annunciato indagini sui cori antisemiti durante il derby contro la Roma. Nell’ottobre 2021, in Europa League, il calciatore del Marsiglia Bamba Dieng sarebbe stato vittima di versi di scimmia. Nel febbraio 2016, la partita Lazio-Napoli fu interrotta per lo stesso motivo, i versi furono rivolti al difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly.
Paola Egonu. Dagospia il 10 marzo 2023. PAOLA EGONU CHIAGNE E FOTTE: DESCRIVE L‘ITALIA COME IL SUDAFRICA DELL’APARTHEID AI TEMPI DI MANDELA MA QUESTO PAESE CONTINUA A PAGARLA BENE – L'ATLETA, DOPO I FALLIMENTI CON L’ITALVOLLEY, I MONOLOGHI SANREMESI E LE BATTUTE A VUOTO SULL’ITALIA RAZZISTA, DICE SI’ A MILANO. GUADAGNERA’ UN MILIONE E RINSALDERA’ IL LEGAME CON ARMANI DI CUI E’ TESTIMONIAL – ALLA FINE NON MALE PER UN PAESE DI COTONIERI CHE LEI RAPPRESENTA COME FOSSE L’ALABAMA DEGLI ANNI ’50…
Estratto dell’articolo di Davide Romani per la Gazzetta dello Sport il 10 marzo 2023.
«Ti aspetterò perché sei tu che porti il sole». Gli appassionati di pallavolo italiana nella scorsa primavera canticchiavano il successo dei Boomdabash “Per un milione”. Il testo della canzone portata a Sanremo nel 2019 rappresentava l’arrivederci a Paola Egonu, pronta ad approdare in Turchia, al Vakifbank Istanbul, con la pancia dai successi a Conegliano impreziositi anche dal record di vittorie consecutive (76 match di fila).
Dopo una stagione il sole è pronto a tornare: la 24enne opposta – che a Sanremo 2023 è stata una della co-conduttrici della kermesse canora al fianco di Amadeus - ha rotto gli indugi e ha detto sì all’offerta del Vero Volley che dalla prossima stagione giocherà stabilmente a Milano. Un’operazione da circa 1 milione di euro a stagione (800 mila più premi e bonus) senza contare gli effetti collaterali che questa scelta comporterà in termini di visibilità e di opportunità, il legame con Giorgio Armani, di cui è testimonial. Una cifra di poco inferiore a quella percepita quest’anno sul Bosforo.
(...)
Ufficialità L’annuncio non arriverà in tempi brevi anche perché tra pochi giorni Egonu sarà protagonista dei quarti di Champions League proprio contro il Vero Volley. L’andata a Istanbul è in programma il 15 marzo (ore 17.30) mentre il 21 marzo (ore 20) ritorno all’Allianz Cloud. Un antipasto prima della prossima stagione dove l’attende un’altra “partita” da giocare. Milano aspetta Paola «come i bimbi aspettano il Natale».
La pallavolo è dunque pronta a riabbracciare la sua giocatrice di punta in attesa di scoprire il suo futuro con la maglia azzurra. Estate con la Nazionale che avrà due appuntamenti importanti: Europei e qualificazioni olimpiche. E nel torneo continentale l’Italia giocherà le prime gare all’Arena di Monza, l’impianto che fino a quest’anno ha ospitato i match della sua nuova squadra prima del passaggio a Milano. Per Paola un bell’antipasto prima dello sbarco nella città.
Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 14 gennaio 2023.
La pallavolista Paola Egonu la scorsa settimana ha ancora una volta denunciato il razzismo che non risparmia nemmeno chi è nato e cresciuto in Italia ed è un orgoglio nazionale. Lei, dopo gli insulti razzisti, per qualche mese ha preso le distanze dalla Nazionale e solo qualche giorno fa ha detto di essere pronta a tornare a rappresentare l'Italia.
La giornalista Karima Moual è nata in Italia da genitori del Marocco, ieri dalle colonne della Stampa ha confessato di essersi arresa. «Non saremo mai italiani abbastanza come voi - ha scritto -. I nostri nomi sono troppo stranieri, le nostre facce, i tratti, il colore della pelle, ancora più se è nera, non passa».
Non passa, no. Lo conferma Maurizio Ambrosini, sociologo e studioso delle migrazioni. «Siamo ancora sotto il duraturo influsso della retorica degli italiani "brava gente", non abbiamo sviluppato anticorpi sufficienti contro il linguaggio, il pensiero e l'approccio razzista. A Milano nel linguaggio corrente si è abituati a chiedere "Quanto guadagna al mese la tua filippina?". Si usa la parola filippina per definire le colf etichettando in modo profondamente razzista chi arriva dalle Filippine.
Anche il termine badante, che indica un'attività svolta in gran parte da stranieri, ha nella parola un'inferiorizzazione di un lavoro che è molto di più che un semplice badare a delle persone anziane, vuol dire ascoltarle, accompagnarle, assisterle a volte con prestazioni parainfermieristiche. Di Paola Egonu si dice che questo Paese le ha dato la maglia azzurra, non che se l'è conquistata».
[…]
Jean-René Bilongo è originario del Camerun, vive in Italia dal 2000, è responsabile del Dipartimento Politiche Migratorie di Flai-Cgil Nazionale. «In Italia non si vuole affrontare il tema dell'inclusione delle diaspore presenti nel Paese. Abbiamo un modello di inclusione che è in atto ma manca una locomotiva che lo guidi a livello sociale». Che l'Italia sia razzista lo mostrano alcuni indicatori, aggiunge. […]
Di fronte a tanto razzismo c'è speranza? Secondo Ambrosini ci sarebbe se si desse attuazione alla possibilità di far entrare gli immigrati a pieno ruolo nell'impiego pubblico, che è un ascensore sociale per i gruppi discriminati». Secondo Chef Kumalé «bisogna trovare nella scuola, nello sport e nel lavoro il modo di accorciare le distanze».
Jean-René Bilongo è il meno ottimista.
«C'è speranza? La speranza è sempre l'ultima a morire ma ci vogliono volontà vere a livello nazionale e non mi sembra che ci siano. Qualcuno sa che esiste una Consulta per i lavoratori immigrati e le loro famiglie presieduta dal capo del governo? E qualcuno sa che l'ultima volta che si è riunita è avvenuto nel 2007?».
Dagospia il 14 febbraio 2023.
Caro Dago, ti seguo sempre con interesse, perché riesci a raccontare l’attualità con grande ironia.
Mi permetto però di scriverti per l’articolo che hai pubblicato su di me, anche se purtroppo non ne hai riportato il contenuto integrale, ed è un vero peccato perché così facendo hai estrapolato un’interpretazione mistificata e falsa di quel che ho scritto ( e l’articolo è per altro libero sul sito della Stampa. qui il link)
Non ho per esempio mai scritto che l’Italia o gli italiani nella loro totalità sono dei razzisti.
Ci ho tenuto molto a scriverlo con chiarezza perché sarebbe ingeneroso, generalizzare ed anche falso.
Inoltre, io per carattere non frigno. Quanto scritto su La Stampa è un atto d’amore racchiuso in una lunga riflessione che mi costa molto. Vi invito perciò a rileggerla senza mistificare le mie parole.
Credo che almeno voi non abbiate bisogno di costruire nemici immaginari.
Con stima Karima Moual
Estratto dell'articolo di Nina Verdelli per vanityfair.it il 3 Febbraio 2023.
A quattro anni ho capito di essere diversa. Ero all’asilo e, con un mio amichetto, stavamo strappando l’erba del giardino: ci facevano ridere le radici. La maestra ci ha messo in castigo. Per tre volte le ho chiesto di andare in bagno. Per tre volte mi ha risposto di no. Alla fine ci sono andata di corsa, senza permesso.
Troppo tardi: mi ero fatta tutto addosso. La maestra mi ha riso in faccia: “Oddio, fai schifo! Ma quanto puzzi!”. E, per il resto del giorno, non mi ha cambiata. Ho dovuto attendere, sporca, l’arrivo di mia madre nel pomeriggio. Ancora oggi, 20 anni dopo, fatico a usare una toilette che non sia quella di casa mia».
Italiana di Cittadella, in provincia di Padova, figlia di genitori nigeriani, pallavolista di punta della squadra turca Vak?fBank e, forse, pallavolista più forte al mondo, la 24enne Paola Egonu sceglie con cura le cose da evitare, nel linguaggio e nella vita. Con il razzismo, però, non sempre ci riesce: non vuole nominarlo, perché «quando ne parli qualsiasi cosa dici ti si ritorce contro», ma poi in quella parola inciampa e finisce per snocciolare aneddoti di crudeltà.
Come quello capitato l’estate scorsa quando, al termine di una partita con la Nazionale, si è sfogata con il procuratore minacciando di lasciare le Azzurre: «Mi hanno chiesto perché sono italiana. Sono stanca». Potrebbe succedere ancora a Sanremo, dove sarà co-conduttrice insieme a Chiara Ferragni, Chiara Francini e Francesca Fagnani, qualora sul palco dell’Ariston decidesse di alzare la voce.
Ci sta pensando?
«Preferisco usare quello spazio per parlare di sensibilità, di empatia, per raccontare chi sono fuori dal campo».
E non subisce atti di razzismo fuori dal campo?
«A noi atleti conviene essere diplomatici per non infastidire i club, per non creare tensioni nella squadra. Forse quando smetterò di giocare potrò dire tutta la verità».
Quando smetterà di giocare, qualsiasi cosa dirà farà meno rumore.
«Lo so».
Vuole provare a dirla ora la verità? Per esempio, rispetto a quando è stata maltrattata all’asilo, oggi c’è meno razzismo in Italia?
«No. Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei».
Come è possibile, scusi?
«Sa che in alcune filiali si entra attraverso porte girevoli, aperte e chiuse dagli impiegati all’interno? Ecco, a lei non la aprivano. La cosa che mi fa più male è che non si arrabbia neanche: “È normale”, mi dice».
Qualche anno fa ha raccontato che i suoi genitori raccomandavano a lei e ai suoi fratelli: «Vi diranno che i neri puzzano, voi fatevi trovare puliti».
«Ci hanno anche insegnato a non mettere mai le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusati di furto. Ancora oggi, se ho il cellulare in tasca e devo mandare un messaggio, aspetto di uscire».
Mai una reazione impulsiva?
«Alle medie una ragazzina continuava a prendermi in giro perché ero nera. Un giorno l’ho afferrata per i capelli e le ho urlato: “Dillo un’altra volta e ti metto le mani addosso, non ho paura di te”».
Di questo governo ha paura?
«Più che altro mi suscita una domanda: perché all’apice ci sono persone insensibili che agiscono per il proprio interesse e non per quello del popolo? Quando ho letto alcune dichiarazioni dei sodali di Giorgia Meloni sull’aborto non ci potevo credere. Se un partito guidato da una donna non hai il coraggio di difendere le altre donne, allora non ci sono speranze».
Se la incontrasse, che cosa le vorrebbe dire?
«La stessa cosa che direi a tanti potenti: quando vedete la vostra gente soffrire, come fate ad andare a dormire sereni?».
Lei ci va a dormire serena?
«Più o meno».
[...]
Chi non apprezza?
«Per esempio quelli che mi insultano chiedendo perché sono italiana. Non sanno niente di me, di noi atlete. Non sanno quanto fatichiamo, quanto siamo stanche, quanto non ci sentiamo all’altezza, quanto a volte vorremmo solo prenderci una pausa da tutto, ma non possiamo. Non ho nemmeno il tempo per godermi una vittoria che arriva la sfida successiva: dopo lo scudetto c’è la Champions, e l’Europeo, la Super Coppa, le Olimpiadi. Allora poi succede che qualcuno mi dice la frase sbagliata e io mi domando: perché mai dovrei rappresentare voi?».
[...]
Si vede anche mamma, un giorno?
«Assolutamente sì. Il desiderio ce l’ho da quando sono piccola, ma solo recentemente ho capito che è realizzabile».
In che senso?
«Prima non riuscivo a immaginare che qualcuno potesse volere un figlio con me: non mi vedevo attraente».
Prego?
«Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l’essere bianca. E, sa, i ragazzini possono essere molto spiacevoli. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo. A un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo».
Ora invece?
«Sto imparando che diverso non vuol dire brutto e che, sì, sono un’atleta ma sono anche una donna e che, come tale, posso essere sensuale. Me lo sono persino tatuata sulla coscia, guardi».
[...]
E del suo fidanzato, il pallavolista polacco Michal Filip, è innamorata?
«Non è il mio fidanzato: ci siamo frequentati per un po’. È già finita».
Adesso è single?
«Sì. Spesso le persone con cui esco mi dicono: “Non sono abbastanza per te”. Ma come, scusa, secondo te io sprecherei il mio poco tempo libero con qualcuno che non è abbastanza? Sarei scema».
[...]
Che cosa cerca in amore?
«Una persona sicura di sé, che mi sappia stare accanto senza paura. Possibilmente non uno sportivo».
Perché?
«Perché gli sportivi tradiscono. Sono tutti sposati con figli, poi vai in trasferta e li becchi a fare serata con altre ragazze. Inconcepibile: investi del tempo per creare un legame con una persona, poi ti viene voglia di sc...re e butti tutto nel cesso? È un inferno per noi donne».
Anni fa aveva trovato conforto proprio tra le braccia di una donna, la pallavolista Katarzyna Skorupa. I suoi come l’avevano presa?
«Malissimo. Erano preoccupati di quello che avrebbero pensato gli zii o i vicini di casa. Poi hanno capito che la mia non era una scelta. Chi opterebbe per uno stile di vita che ti mette contro tutti? Certe cose capitano e basta».
Dalla società, invece, si è sentita più accettata?
«Mica tanto: io me ne fregavo, baciavo la mia fidanzata anche in pubblico. Le reazioni, però, non sono sempre state gradevoli. Il problema è che la gente non pensa agli affari propri. Io dico, cosa vieni a giudicare me, o una coppia omosessuale che cresce i figli con amore, quando è pieno di famiglie tradizionali disfunzionali? È un mondo di m...da, me lo lasci dire. Spero che presto arrivi l’Apocalisse».
Non le sembra di essere un po’ catastrofica?
«Sa che a volte con mia sorella ci chiediamo se sia opportuno per noi mettere al mondo dei bambini?».
Che cosa intende?
«Io so già che, se mio figlio sarà di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?».
Da ilnapolista.it il 3 Febbraio 2023.
“A noi atleti conviene essere diplomatici per non infastidire i club, per non creare tensioni nella squadra. Forse quando smetterò di giocare potrò dire tutta la verità“. Paola Egonu tra pochi giorni co-condurrà il Festival di Sanremo. E’ è una delle più forti giocatrici di pallavolo del mondo, è nera, è italiana ed è “diversa da quando avevo 4 anni, da quando l’ho capito”. Egonu parla di razzismo (anche) in una lunga intervista concessa a Vanity Fair.
“Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei. Sa che in alcune filiali si entra attraverso porte girevoli, aperte e chiuse dagli impiegati all’interno? Ecco, a lei non la aprivano. La cosa che mi fa più male è che non si arrabbia neanche: è normale, mi dice. Ci hanno anche insegnato a non mettere mai le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusati di furto. Ancora oggi, se ho il cellulare in tasca e devo mandare un messaggio, aspetto di uscire”.
“Prima non riuscivo a immaginare che qualcuno potesse volere un figlio con me: non mi vedevo attraente. Non mi vedevo attraente in un contesto in cui lo standard di bellezza è essere bianca. Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l’essere bianca. E, sa, i ragazzini possono essere molto spiacevoli. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo. A un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo”.
“Mi chiedo a volte se sia il caso di mettere al mondo dei bambini. Se mio figlio sarà di pelle nera vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?”.
Egonu qualche anno fa ha avuto una relazione con la pallavolista Katarzyna Skorupa. Racconta che i suoi l’hanno presa “malissimo. Erano preoccupati di quello che avrebbero pensato gli zii o i vicini di casa. Poi hanno capito che la mia non era una scelta. Chi opterebbe per uno stile di vita che ti mette contro tutti? Certe cose capitano e basta. Io me ne fregavo, baciavo la mia fidanzata anche in pubblico. Le reazioni, però, non sono sempre state gradevoli. Il problema è che la gente non pensa agli affari propri. Io dico, cosa vieni a giudicare me, o una coppia omosessuale che cresce i figli con amore, quando è pieno di famiglie tradizionali disfunzionali? È un mondo di merda, me lo lasci dire. Spero che presto arrivi l’Apocalisse”.
“Avete rotto!”. L’ira di Cruciani su Sanremo che ci dipinge razzisti e sessisti. Il conduttore de La Zanzara senza filtri: “In due giorni di festival è emerso un Paese che non esiste”. Giuseppe Cruciani, su Nicolaporro.it il 10 Febbraio 2023.
Il festival della canzone italiana, meglio conosciuto come Festival di Sanremo. In due giorni cosa è venuto fuori da due pesi massimi di questa kermesse, da alcuni invitati, insomma dalla creme de la creme?
Che l’Italia è un Paese razzista: lo ha detto una persona portata in palmo di mano sul palco. La signora Egonu, portabandiera olimpica, omaggiata e riverita dalla maggior parte delle persone. Sostiene che l’Italia è un Paese razzista.
Ci hanno raccontato da quel palco, che dovrebbe essere un palco nazional-popolare e non raccontare minchiate, che l’Italia è un Paese sessista dove le donne sono considerate più come mamme che come persone e lavoratrici: lo ha detto la signora Chiara Ferragni.
E il marito invece, il signor Fedez, ha esposto la fotografia di un viceministro vestito da nazista, dipingendo il governo come un branco di fascisti.
Abbiamo anche capito che abbiamo una Costituzione da difendere contro i barbari, che non esistono, e che la vogliono cancellare. Il signor Benigni.
Avete rotto il cazzo. È questo il punto: non c’è nulla di vero in tutto questo: è un racconto, ridicolo, penoso e patetico di tutto quello che non è l’Italia.
Giuseppe Cruciani, 10 febbraio 2023
Se l'Italia fosse davvero razzista, la Egonu non sarebbe la Egonu. L'atleta: «So che se il mio bimbo sarà di pelle nera affronterà lo schifo che ho vissuto io» Ma è proprio in questo Paese che la sua famiglia ha trovato accoglienza e lei il successo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2023
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Aveva ventitrè anni Jesse Owens nero dell’Alabama, quando alle Olimpiadi del ‘36 divenne il lampo nel cielo oscuro della Berlino nazista, vincendo quattro medaglie d’oro in un oceano di teste ariane sotto choc. Aveva 24 Jackie Robinson, primo nero della Major League americana di baseball, quando veniva preso a pallate dai lanciatori anche della sua squadra; e, vincendo tutto s’infilò nei libri di storia come il «più grande sportivo americano di sempre». Paola Egonu padovana di genitori nigeriani ha la loro stessa età ma un approccio alla vita più catastrofico.
Paola è probabilmente la più grande pallavolista che l’Italia abbia mai prodotto, vanta una classe agonistica innaturale quanto il palmarès. Ed è ovvio che la sua intervista-provocazione a Vanity Fair, rimbalzata su tutti i ntg e rotocalchi, astutamente uscita a margine del Festival di Sanremo di cui è una delle conduttrici, stia sollevando sdegno e solidarietà di fan e lettori.
Paola, richiesta di commento su una sua eventuale gravidanza si è pregiata di rispondere, di non volerlo, un figlio in Italia: «Se mio figlio sarà di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all'infelicità?».
Che è, ovviamente, una domanda retorica.
IL TRAUMA E LA MAESTRA Vale sempre la pena, L’insicurezza sociale di Paola, campionessa dal sorriso carsico, è inversamente proporzionale alla sua altezza (1,93!). Nell’intervista la ragazza racconta il trauma della maestra che alle elementari le impedì di andare in bagno portandola a farsela sotto (e accaduto anche a mio figlio, bianco e biondo, ma finora nessun trauma); per poi darle, con cattiveria della «puzzona, fai schifo» rovinando il suo rapporto con le toilette. E poi, Paola spiega che gli italiani sono inevitabilmente razzisti: «Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei».
O parla delle reazioni feroci nei corridoi scolastici: «Alle medie una ragazzina continuava a prendermi in giro perché ero nera. Un giorno l'ho afferrata per i capelli e le ho urlato: “Dillo un’altra volta e ti metto le mani addosso, non ho paura di te”». E, per inciso, Paola ha fatto benissimo: io consiglio sempre ai figli in difficoltà, di assestare ai bulli una testata secca sul setto nasale.
Dopo, però, Egonu carica il racconto. Narra degli estremi sacrifici sportivi a cui è sottoposta, non pensando che c’è pure chi –bianco come un cencio- fa la colf, sta in coda alla Caritas o lavora in miniera. E c’è perfino una discriminazione estetica: «Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l'essere bianca. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo» continua lei «a un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo». Certo, osservate dalla visuale dell’adolescente cresciuta in una famiglia di migranti nel profondo nord, le denunce sono comprensibili, e stringono il cuore. Come quando Paola evocò, tra le lacrime, l’episodio in cui un branco di tifosi sbagliati le urlarono di non esser degna di vestire la maglia azzurra. Dolore su dolore. A cui s’aggiunge anche la morte delle sua prima allenatrice Fabiola Bellù. Insomma, sfighe sempre all’orizzonte.
Noi tifosi capiamo tutto. E la abbracciamo dell’abbraccio eterno di quando vinse il suo primo scudetto, o il titolo di miglior giocatrice del continente. Epperò vorremo anche sgravarla di tutto questo dolore. Sottolineando qualche piccolo dettaglio che ne ridimensioni il dramma. Innanzitutto Egonu fa un’intervista a Vanity Fair, una delle riviste più fighette e patinate del mondo; e concede interviste a quotidiani come il Corriere della sera dall’età di 17/18 anni. E le sue speculazioni non riguardano la tecnica del bagher, il cambiopalla o la classifica dei play off. Sono opinioni richiestele in quanto opinion leader, in grado di modificare carichi pubblicitari ed etica delle aziende. Paola, meno di Fiona May (che prima di diventyare una star tv denunciò anche lei epoisodi di razzismo) ma come Andrew Howe, Fausto Desalu e soprattutto Marcel Jacobs, è un’italiana di seconda generazione perfettamente integrata in Italia; e anche la sua famiglia ha avuto identica accoglienza. E spesso, come lei stessa ammette, per i ragazzini Egonu appare come modello di vita e di sport.
RESPIRO D’ORGOGLIO Pur avendo buttato lacrime e sangue, Egonu non se la passa male. Gli idioti razzisti esistono in ogni dove, cara Paola, basta ignorarli e non farsi sottomettere dalle patetiche minoranze, specie nei social. Quando farai un figlio, instillagli gli stessi respiri di orgoglio, di gioia e di coraggio che ti hanno spinto fin qui. (E se lo fai nascere nel mio Veneto, quei respiri saranno ancor di più i miei...)
Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “la Stampa” il 6 febbraio 2023.
«Quando sono arrivata a Roma c'erano solo bianchi», Claudia Marthe parla dell'inizio degli Anni 80, di lei quattordicenne, creola, passata dalla multietnica Parigi alla monocromatica Italia. Non troppo tempo dopo, in mezzo al quartiere San Paolo della capitale, si sarebbe innamorata e appena ventenne sarebbe rimasta incinta di Elodie, la cantante uscita da «Amici», diventata ormai famosa e oggi pronta ad esibirsi al suo terzo Sanremo.
Quando la signora Marthe è rimasta incinta, si è preoccupata della sua età, «ero tanto giovane», non certo del colore che avrebbe avuto la pelle della bambina: «Per questo resto disorientata dalle parole della pallavolista Paola Egonu che non voglio affatto giudicare, ma mi piacerebbe capire».
Egonu ha detto: «Mi preoccupa l'idea di far crescere un figlio di pelle nera in questo schifo. E ha aggiunto Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora». Sarebbe il caso di Elodie, lei l'ha mai fatto considerazioni simili?
«No e mi fa proprio strano vederla così. Nei mesi in cui aspettavo Elodie, io e suo padre ci chiedevamo come sarebbe stata la pelle, che lineamenti avrebbe avuto, da chi avrebbe ereditato cosa: ci immaginavamo, come ogni genitore, di passarle i tratti più belli di ognuno e la pensavamo scura con gli occhi chiari. Quando è nata, mio suocero cercava la bambina nera nella nursery, gli ho detto: "È quella, è uscita poco cotta"».
Le è capitato di doverle proteggere da episodi di razzismo?
«L'ho educata a riconoscere l'ignoranza, ad usare l'autoironia che non significa fare finta di niente, ma smontare le reazioni che non sono accettabili. Però a farlo con intelligenza, a distinguere. Spero di averla preparata. Da piccola capitava che le toccassero i capelli straniti, è successo anche a me, lasciavo fare: "Vedete, sono così"».
Lei si è mai sentita discriminata in Italia?
«Quando mi sono trasferita era un'altra Italia, non parlavo la lingua, mi vedevo l'unica colorata per strada. Ho messo su un carattere forte, ho avuto i miei giorni tosti. Sono andata avanti e ho pure vissuto anni splendidi in un posto che sento casa».
Forse, nel 2023, pure l'Italia dovrebbe essersi evoluta.
«Lo sta facendo, però proprio non potrei definirlo un Paese che discrimina in base alla razza. Ci sono gli idioti, qui e altrove. Sono intollerabili, qui o altrove. E allora? Non facciamo più figli per paura degli stupidi? Tanto ci sarà sempre chi giudica e non solo la provenienza. O sei troppo grasso o troppo sproporzionato, sei sempre qualcosa. Se si dipende dall'approvazione altrui non ci si muove».
(...)
Egonu ed Elodie, saranno entrambe a Sanremo. Si immagina delle conversazioni?
«Spero si confrontino, si parlino perché Elodie ha vissuto pure lei esperienze negative, tutti abbiamo sofferto, ma bisogna superare. Vorrei dire a questa bellissima ragazza che deve volersi più bene: è splendida, affermata, è italiana e non ha bisogno di essere riconosciuta come tale, lo è. Non si può piacere a tutti, chi non accetta le differenze tra le persone è una minoranza».(...)
Paola Egonu ha veramente rotto le balle. Cara pallavolista: un po’ meno selfie, pianterelli, interviste a Vanity Fair e un pochino più di realtà. Nicola Porro il 4 Febbraio 2023.
Nel giorno in cui l’Economist ci spiega che la nostra democrazia è diventata più fragile per colpa del governo Meloni, dobbiamo sorbirci anche l’intervista di Paola Egonu. La pallavolista, infatti, racconta in prima pagina della sua infanzia tremenda e di come una maestra cattiva le fece fare la pipì addosso: insomma, la sua intervista a Vanity Fair è una lamentela continua.
Egonu dice di aver vissuto di merda in questo Paese: “L’Italia è razzista” e ovviamente la colpa è della Meloni e dei leghisti. Ma l’eroina della sinistra non si ferma qui: dice che non vuole fare un figlio in Italia perché se nasce nero sarebbe un disastro e se invece nasce mulatto non verrebbe considerato fico né dai neri né dei biacchi.
Ragazzi, in un Paese che non vuole avere figli i problemi sono altri. Non una signora di grande successo che fa il suo pianterello su Vanity Fair e tutto il mondo le sta al cospetto.
Ieri, ad esempio, sono andato a presentare il mio libro a Sovico e ho incontrato una signora che mi ha detto che suo figlio invalido al 100% prende €385 al mese di accompagnamento. Ci sono persone che hanno situazioni di disagio mostruose, ma i giornali dedicano le loro prime pagine alla lagna della campionessa Egonu che dice di non volere un figlio nero o mulatto. Ma di che cazzo stiamo parlando?
E nessuno provi a dire che questa signora ha un problemino, perché ogni critica diventa un presupposto per dire che l’Italia è un paese razzista. Qui l’unica cosa razzista è non riconoscere il fatto che, in Italia, ci sono bambini che non sono né neri né mulatti e hanno, ahimè, situazioni disastrose. Eppure i loro genitori sono ugualmente felici della loro esistenza e orgogliosi di averli messi al mondo.
Cara Egonu, un po’ meno selfie, pianterelli, interviste a Vanity Fair e un pochino più di realtà. Per carità, lo dico io che sono completamente scollegato dalla realtà, ma di certo non a questi livelli.
Nicola Porro, 4 febbraio 2023
Paola Egonu e le infermiere. Storie di razzismo e integrazione. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.
Caro Aldo, l’Italia è razzista? Io rispondo che l’Italia non è razzista anche se ci sono degli ignoranti che manifestano in questo senso. Ho lavorato in sanità, ho conosciuto tante persone di ogni ceto sociale e non ho mai avvertito questo sentimento in maniera generalizzata! Qualche cretino sì! Lei come la pensa? Ermanno Montobbio
Caro Ermanno, La sua lettera mi ha fatto tornare in mente un episodio di fine anni 80, quando ero un giovane redattore delle cronache italiane della Stampa. Quel sabato non doveva esserci proprio nessuno, visto che era toccato a me andare alla riunione per la prima pagina. Anche il direttore, Gaetano Scardocchia — grandissimo giornalista che aveva firmato con Giampaolo Pansa l’inchiesta sulla Lockheed e i furti di Stato — mancava. Il capo della cronaca di Torino, allora considerato il numero 3 del giornale, disse che nel più grande ospedale della città, le Molinette, alcuni anziani pazienti avevano rifiutato di essere assistiti da infermieri dalla pelle nera. Il numero 2 del giornale, il vicedirettore Lorenzo Mondo, disse: «Questa notizia non la mettiamo in prima, la tenete nelle vostre pagine, e guai se la commentate negativamente. Questi vecchietti non fanno così perché sono razzisti. Questi vecchietti fanno così perché hanno paura. E la maggioranza dei nostri lettori la pensa come loro». Neppure Lorenzo Mondo ovviamente era razzista. Era un uomo coltissimo, custode dei diari di Cesare Pavese che avrebbe rivelato pochi mesi dopo, professore di letteratura italiana all’Università di Torino, cresciuto nella cultura azionista che a quarant’anni dalla fine del partito d’Azione era ancora la linea politica della Stampa, quotidiano egemonico in una strana regione dalle province bianche e dal capoluogo rosso. Con quelle sue parole, Mondo ci diede tre lezioni di giornalismo. La prima: sono i lettori che giudicano il loro giornale, non il giornale che giudica i suoi lettori. La seconda: la paura non è il più nobile dei sentimenti, ma non va demonizzata, bensì — come ogni cosa — raccontata e spiegata. La terza: il razzismo non ha colore ideologico, il razzista non è di destra e l’antirazzista non è di sinistra (per questo è sbagliato che ministri in carica chiedano preventivamente a Paola Egonu di non parlare di razzismo). Da quella riunione di redazione sono passati quasi altri quarant’anni. L’Italia sta diventando, come altri Stati europei, un Paese multietnico. Ovviamente il razzismo, come in tutto il mondo, esiste. Nello stesso tempo esistono milioni di persone di cuore, che ogni giorno fanno un gesto anche piccolo per favorire l’integrazione dei nuovi italiani. A volte sono le stesse persone che, in un momento di difficoltà o anche solo di malumore, dicono e fanno cose in cui magari non si riconosceranno. L’integrazione è un processo lungo e complesso; per questo non dovrebbe mai essere strumentalizzato da un partito politico. La destra non dovrebbe additare i migranti come nemici, e la sinistra dovrebbe capire che il prezzo dell’immigrazione lo pagano le classi popolari. Sino a non molto tempo fa, il Regno Unito governava l’India con poche decine di migliaia di soldati, quasi tutti indiani, che con i loro lunghi bastoni soggiogavano i compatrioti; oggi il Regno Unito è governato da Rishi Sunak, premier di origine indiana e leader del partito conservatore, come lo era Churchill che definiva Gandhi un fachiro seminudo. La storia non fa salti; ma cambia con una velocità cui non riusciamo a stare dietro.
Calderoli: «Paola Egonu dice che l’Italia è razzista? Vorrei incontrarla e capire perché». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.
Il ministro commenta le parole di Paola Egonu a Sanremo e le sue riflessioni sul razzismo in Italia: «L’atleta si sarà imbattuta in qualche stupido»
Ministro Roberto Calderoli, cosa pensa delle accuse di razzismo che Paola Egonu rivolge agli italiani?
«Vorrei parlarle per capire le ragioni di quel che dice. Per me l’Italia non è razzista» risponde l’esponente leghista che finì sotto processo per un epiteto rivolto all’ex ministro Cécile Kyenge («di questo, però, non voglio più parlare»).
Come fa a dirsi così sicuro?
«Se si parla di un Paese intero non si può lanciare un’accusa del genere. Può essere, invece, che l’atleta si sia imbattuta in qualche stupido che ha avuto nei suoi confronti un comportamento assolutamente da condannare. Fare differenze sulla base del colore della pelle non è ammissibile».
Voi leghisti, specie agli inizi, siete stati accusati di razzismo, magari più nei confronti dei meridionali che delle persone di colore.
«Questa è un’accusa che sento fare da quando la Lega è nata. Guarda caso, però, proprio noi abbiamo avuto un amministratore locale, che poi è stato eletto senatore (Toni Iwobi, bergamasco d’adozione, a Palazzo Madama nella scorsa legislatura, ndr), di origine nigeriana. Alle chiacchiere noi rispondiamo con i fatti».
Beh, però sull’antimeridionalismo avete puntato molto in passato.
«È sempre stata una narrazione alimentata ad arte per cercare di contrastarci visto che avevamo argomenti validi. La contrapposizione fra Nord e Sud era funzionale a sbarrarci la strada. Ma anche qui, con i fatti, abbiamo dimostrato che perseguiamo una battaglia perché tutto il Paese cresca pur nelle sue differenze».
Si sta riferendo alla battaglia per l’Autonomia differenziata?
«Con quella e con il federalismo fiscale daremo ad ogni Regione la possibilità di svilupparsi secondo le proprie peculiarità e i propri bisogni».
L’accusano di voler spaccare l’Italia. Anche questa una forma di «razzismo» dei ricchi verso i poveri.
«Anche questa la sento dalla prima volta che sono diventato ministro, nel 2004. Vorrei rispondere dicendo che non puoi rompere ciò che è già rotto in almeno 3-4 parti. Ma non mi interessa polemizzare. Lavoro perché il divario si restringa».
Eppure, c’è chi non apprezza lo sbarco della Lega a Sud.
«Sì, qualche borbottio di pancia lo avverto quando vado nel Mezzogiorno. Ma è una visione assolutamente minoritaria e miope che non rappresenta nulla».
Sanremo 2023: Paola Egonu, non siamo razzisti, ma. Beatrice Dondi su L’Espresso il 10 Febbraio 2023.
Le gettano fango, insulti e accuse surreali di ingratitudine. E alla fine la campionessa co-conduttrice (si fa per dire) sul palco dell’Ariston recita un monologo che ha il doloroso sapore delle scuse: «Amo l’Italia e vesto con onore la maglia azzurra che è la più bella del mondo»
Io sono Paola, sono una donna, sono italiana. E sono alta. No, non lo ha detto ma a un certo punto lo avrà pur pensato visto che tutta la sua presenza sul palco della terza serata si sarebbe potuta riassumere con una radiografia del suo metro e novantatrè di splendore con e senza tacchi. Paola Egonu, co-conduttrice, si fa per dire, della terza serata del Festival, è stata presa ed esibita come una statuina, fatta cantare, ballare, giocare, perché incredibile, Paola sei bravissima, Paola non hai sbagliato, Paola, ma come sei bellina, alta e serena, alta e compita, alta e diligente. Una solfa ormai incancrenita con cui generalmente si avvolgono le donne, donne a caso, donne a prescindere, donne come “ci vorrebbe un presidente donna”.
Così dopo scenette varie mal costruite arriva il temuto monologo sui gradini dell’Ariston. Che avrebbe potuto essere contro il becero razzismo di cui questo Paese ancora ostinatamente non si vergogna. E che invece è diventato un messaggio di scuse. «Amo l’Italia e vesto con onore la maglia azzurra che è la più bella del mondo» dice Egonu e pazienza se dopo aver dimostrato di essere la più forte giocatrice del globo se ne è dovuta andare in Turchia. Pazienza se dopo l’annuncio della sua presenza al Festival si è vista tirare addosso una tale cascata melmosa da far piegare le spalle anche alle menti più solide.
«Spero che non venga a fare una tirata sull’Italia razzista, perché gli italiani sono un popolo che accoglie e che allunga la mano a tutti», aveva dichiarato con il consueto interesse sulle questioni festivaliere Matteo Salvini, omettendo che Paola Egonu è italiana quanto lui, nata a Cittadella, nel profondo Veneto, talmente italiana che ha persino ringraziato mamma e papà.
I commenti dopo la conferenza stampa del mattino, poche ore dal debutto, recitavano cose come «Sciacquati la bocca», o meglio ancora «Accusi gli italiani però poi vai a Sanremo con i soldi nostri», che poi sarebbero anche soldi suoi, visto che da buona italiana il canone tocca anche a lei. Fino alla perla del consigliere di Sangiuliano Francesco Giubilei, che dandole del tu con l’eleganza che contraddistingue questo tipo di esternazioni aveva twittato: «Amare l’Italia significa rispettarla e non attaccare la nazione che ti ha offerto molte possibilità tra cui essere a Sanremo quando potrebbero esserci tanti altri atleti di valore al tuo posto. Un po’ di riconoscenza farebbe bene». Riconoscenza, Paola, ingrata che non sei altro.
Dopo alzate di questo tipo poteva schiacciare, potente, come solo lei sa fare. Invece col foglietto stretto tra le mani, l’emozione legittima dei suoi 24 anni ha dovuto giustificare le sue insofferenze, perché è stata fraintesa, non è vero che non vuole avere figli in un Paese razzista, che crescerebbero discriminati, non è vero che non ha rispetto per l’Italia, sono solo accuse di chi crede che il bicchiere colorato contenga acqua da un gusto diverso rispetto a quello trasparente e non è vero che è un’ingrata, anzi, «Ho un profondo senso di responsabilità per questo Paese su cui ripongo le speranze di domani».
Tutto questo con l’emozione stanca, di chi ha dovuto imparare a non mettere le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusato di furto. Perché alla fine come si dice, “non siamo razzisti, però”. E forse, dovremmo chiedere scusa a Paola Egonu per aver dovuto chiedere scusa.
Antonio Giangrande: Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.
La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.
Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.
Antonio Giangrande: Razzismo e Disastri Ambientali.
Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.
Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.
Per i media prezzolati e razzisti.
Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.
Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.
“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.
Feltri: «Pugliesi sfaticati» e da S. Ferdinando parte la battaglia giudiziaria contro «Libero». Il prossimo 12 settembre sarà celebrata davanti al gip l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione nei confronti del cronista Andrea Morigi, indagato per diffamazione in seguito ad una denuncia presentata dal docente. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 settembre 2023.
È finita davanti al Tribunale di Milano la battaglia giudiziaria fra un giornalista del quotidiano «Libero» e il professor Luigi Cassio Telesforo Dipace, originario di San Ferdinando, presidente nazionale dell'associazione «I cittadini contro le mafie e la corruzione». Il prossimo 12 settembre sarà celebrata davanti al gip l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione nei confronti del cronista Andrea Morigi, indagato per diffamazione in seguito ad una denuncia presentata dal docente.
La vicenda trae spunto da un altro procedimento giudiziario, nato da una querela che sempre lo stesso Dipace aveva presentato contro l’ex direttore Vittorio Feltri, la cui posizione è stata archiviata. Feltri, ospite nel 2018 di una trasmissione su Retequattro aveva detto: «In una regione come la Puglia, ad alto tasso di disoccupazione, i pugliesi invece di stare a grattarsi le palle a casa, andassero a raccogliere le olive e a lavorare la terra». Una considerazione che aveva indotto Dipace a trascinare Feltri in Tribunale per tutelare l’onorabilità di tutti i pugliesi. Ma i giudici hanno ritenuto insussistente la diffamazione. Morigi, a sua volta, è stato denunciato per aver riferito di una richiesta di risarcimento a dire di Dipace mai avanzata.
Feltri contro i pugliesi: «Andate a raccogliere le olive invece di grattarvi». Le affermazioni shockanti del direttore di Libero ospite su Rete 4 in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, hanno acceso la miccia sui social. GRAZIANA CAPURSO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 luglio 2018.
«La Puglia ha un alto tasso di disoccupazione. Allora dico ai disoccupati pugliesi: invece di stare a casa a grattarsi le palle vadano a raccogliere le olive, vadano a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto loro». Con queste durissime parole Vittorio Feltri in diretta ieri sera a 'Stasera Italia' su Rete 4 ha attaccato i pugliesi. Il direttore di Libero, ospite in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, ha letteralmente insultato gli abitanti della nostra regione in attesa di un'occupazione.
«E' una cosa indecente! Non abbiamo lavoro? Lavoriamo la terra. Ma che male c'è - ha continuato - mica è una vergogna lavorare. Fate lavorare i pugliesi, i campani...lavorino tutti invece di chiamare i poveracci che arrivano dall'Africa!».
Affermazioni che fanno male e che sono state ribadite da Feltri anche su Facebook con un post sulla sua pagina ufficiale.
Un post che ha creato tanta indignazione, scatenando una vera e propria pioggia di insulti sui social. Tra un «Vai a schiacciare i ricci col c...» e un «Sei un trim...» c'è anche chi esige delle scuse: «Lei non si deve permettere - scrivono - chieda scusa a chi ha lavorato anche nei campi, sottopagato e sfruttato e si è stancato di esserlo». «Se ci riesce per una volta, si vergogni - commentano - perché lei, dall'alto della sua poltrona da direttore non ha nemmeno idea di cosa voglia dire lavorare dieci ore sotto al sole cocente per 20 euro al giorno».
Carceri piene di meridionali: indole criminale o povertà? Antigone ha affrontato un argomento delicato: l'associazione tra le regioni meridionali e la criminalità. Analizzando con profondità questi dati ,evidenzia la necessità di considerare i fattori socio-economici prima di trarre conclusioni affrettate. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 31 agosto 2023
Calabresi, campani, pugliesi e siciliani sono dei criminali per indole? L'Associazione Antigone ha affrontato una interessante argomentazione partendo dal dato che – se visto superficialmente – suggerisce che le persone del Sud siano più inclini al crimine rispetto ai cittadini delle altre regioni italiane. Tuttavia, un'analisi più approfondita di questi dati rivela un quadro più complesso e sottolinea l'importanza di considerare fattori socio-economici e contestuali prima di trarre conclusioni affrettate.
La riflessione dell'Associazione Antigone parte dal seguente dato: al 30 giugno 2023, il 45,2% delle persone detenute in Italia proviene dalle regioni di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Questo dato sembrerebbe suggerire una maggiore propensione al crimine in queste aree. Eppure fa emergere che il carcere è spesso un riflesso dell'emarginazione sociale, della povertà e di altri fattori strutturali. Un punto chiave per contestualizzare i dati carcerari è la correlazione tra povertà e tasso di criminalità. Secondo il ministero dell'Economia e delle Finanze, nel 2020 Calabria, Campania, Puglia e Sicilia si trovavano tra gli ultimi sei posti in termini di reddito medio. Questo legame tra bassi redditi e criminalità è un tema ampiamente riconosciuto dagli esperti di criminologia.
È quindi fondamentale capire che il carcere non riflette solo l'attività criminale in senso stretto. È un luogo in cui si concentrano le conseguenze dell'emarginazione sociale, delle disuguaglianze e della mancanza di opportunità. Molti detenuti provengono da contesti di svantaggio socio-economico, e la loro presenza in carcere è spesso la risultante di una serie di fattori, tra cui mancanza di accesso all'istruzione, disoccupazione e limitate opportunità di riscatto sociale. L'analisi dell'Associazione Antigone sottolinea giustamente che la questione meridionale è prima di tutto una questione sociale. Le politiche mirate al miglioramento del welfare e delle opportunità di lavoro sono essenziali per affrontare le radici della criminalità. Una visione più approfondita del quadro complessivo rivela che calabresi, campani, pugliesi e siciliani non sono necessariamente più inclini al crimine, ma spesso affrontano sfide socio-economiche più grandi rispetto ad altre regioni.
La riflessione dell'Associazione Antigone, che suggerisce un'associazione tra le regioni meridionali e la criminalità, richiede una valutazione critica dei dati e del contesto circostante. La detenzione in carcere è un riflesso complesso di fattori sociali ed economici, e attribuire una predisposizione al crimine a specifiche regioni non tiene conto della natura multifattoriale del problema. È fondamentale affrontare la questione del carcere e della criminalità con una prospettiva più ampia che includa il contesto socio-economico e la necessità di politiche volte al miglioramento delle condizioni di vita e delle opportunità nelle regioni emarginate.
Una analisi che fa il paio con l’ultima relazione al Parlamento da parte del Garante nazionale delle persone private della libertà. Alla presentazione a Montecitorio, il presidente Mauro Palma, evidenziando la tendenza all'aumento del numero di individui detenuti per pene estremamente lievi, ha messo in luce un punto critico: il mancato accesso a misure alternative alla detenzione nei confronti di questi ristretti. Questo problema sembra essere associato a una marginalità sociale che dovrebbe essere affrontata con soluzioni più mirate. Invece di mandare persone con pene brevi in carcere, sarebbe stato necessario trovare risposte che riducessero l'esposizione al rischio di recidiva. La relazione del Garante ha sottolineato come la povertà sia uno dei principali fattori che contribuiscono all'assenza di accesso a misure di comunità e di alternative alla detenzione.
La "questione giovanile". Stupri a Caivano e Palermo: per salvare il Sud meno retorica e musei antimafia. Violenze, bullismo, aggressioni: la gioventù sotto il Garigliano risente di politiche educative fallimentari, di cui il giustizialismo è il perfetto simbolo. Alberto Cisterna su L'Unità il 29 Agosto 2023
C’è nei fatti orribili di Palermo e Caivano qualcosa che si colloca oltre l’evidenza di un rapporto sempre più malato e deteriorato tra adolescenza e sessualità. È chiaro che questa è la chiave di interpretazione più diretta, e anche più semplice, per comprendere l’aggressione in branco di vittime inermi.
Tuttavia la giungla dei social, l’affievolimento delle relazioni parentali (con genitori, talvolta, ancora più dispersi e disorientagli dei figli nella costruzione di stabili punti di riferimento emotivi e sentimentali) non può bastare per spiegare perché anche il Sud d’Italia sia sempre più di frequente attraversato da fenomeni di aggressione a sfondo sessuale da parte di gang di ragazzini alla ricerca di crude conferme delle proprie devianze educative. Il Mezzogiorno del paese, soprattutto le regioni un tempo largamente controllate dalla criminalità mafiosa, necessitano urgentemente di un potente intervento pubblico che prenda in esame proprio la formazione delle giovani generazioni, i loro destini educativi e lavorativi.
In gran parte la “questione giovanile” al Sud può dirsi archiviata e dichiarata fallita dal clamoroso, incessante esodo dei ragazzi verso i poli universitari e le sedi lavorative del Nord e, in modo massiccio, del resto d’Europa. Ad andar via da due decenni ormai sono i giovani di tutte le classi sociali, alla disperata ricerca di un futuro che al Sud promette solo assistenzialismo, clientelismo, redditi di cittadinanza e bassa qualità dell’istruzione e del lavoro.
È una sfida, ripetesi in gran parte persa e di cui sono un doloroso riscontro il crollo dei mercati immobiliari nelle città meridionali, la rarefazione delle iscrizioni universitarie disseminate (per ragioni clientelari) in un pulviscolo di micro facoltà con un numero di docenti sproporzionato rispetto a quello degli studenti, il fallimento dei bonus immobiliari che solo l’insipienza di un ceto politico accecato dal giustizialismo ha potuto dirottare verso gli immobili “regolari” dei ricchi potentati, anziché verso la bonifica delle tante Beirut dell’incompiute dell’abusivismo edilizio. Un territorio devastato in cui, per la prima volta, la cronaca giudiziaria è cronaca di giustizia minorile.
Una svolta probabilmente inattesa per fronteggiare la quale si assiste ancora alla riedizione della patetica politica di allontanare bambini e ragazzi dalle famiglie in odor di mafia, mentre nelle nuove banlieue, assediate dallo spaccio a tappeto delle droghe, le genie si contaminano, i rampolli dei boss bullizzano e violentano insieme ai figli del nuovo proletariato assistito e marginalizzato. Palermo e Caivano, come le risse di strada a Catania o a Reggio Calabria, gli scontri coltello alla mano nei vicoli di Bari o di Napoli ci consegnano un quadro imprevisto e in parte incontrollabile con gli strumenti oggi a disposizione dello Stato.
Avviata alla vittoria la battaglia contro le mafie – messe all’angolo da una repressione capillare e senza tregua – le istituzioni scoprono tragicamente che l’assistenzialismo demagogico ha solo inseminato e fatto da volano a una generazione di adolescenti e di ragazzi vocati alla violenza, disincantati verso la scuola, privi di fiducia per l’avvenire che predano la società e danno la caccia ai più deboli, spesso fragili coetanee, se non bambine. Come agnelli in mezzo ai lupi i più esili soccombono, scompaiono, fuggono quando possono, abbandonando le macerie di una società che ha smarrito ogni condiviso progetto sociale, ogni prospettiva di crescita collettiva per affidarsi a una primordiale legge della giungla.
I predatori si aggirano nelle strade, nelle scuole, nei bar abbandonati a sé stessi, capaci di commettere ogni genere di gesto violento, ogni tipo di sopraffazione. C’è l’urgenza di una profonda riconversione anche degli apparati di polizia e giudiziari dello Stato nel Mezzogiorno d’Italia. Commissioni parlamentari e regionali, comitati, associazioni e tutto il variegato mondo che si occupa (e solo talvolta si preoccupa) della condizione giovanile al Sud pongano attenzione al rafforzamento delle istituzioni incaricate di prevenire e anche reprimere le devianze giovanili e lo Stato (con il suo ormai vacillante e sbrindellato Pnrr) destini fondi veri a questo scopo.
Si lascino pure marcire i beni di mafia (simulacri di macerie di cui la società spesso non sa che farsi, con il rischio di alimentare il solito assistenzialismo antimafia di una certa politica che dispensa stipendi e sistemazioni per quieto vivere) e si destinino quei fondi al rafforzamento delle politiche educative e scolastiche al Sud. Il Mezzogiorno non ha bisogno di retorici musei delle mafie, ma di gesti concreti che tentino almeno di evitare un’ecatombe generazionale. Forse si sono strappati i figli alle grinfie insanguinate delle cosche per lasciarli soccombere nella disperazione delle gang.
Alberto Cisterna 29 Agosto 2023
Non solo Caivano. Dal Nord al Sud: ecco i fortini dei clan che devono cadere. Periferie di Palermo, Torino, Foggia e pure Aosta: le zone dove le forze dell'ordine non entrano sono note ma adesso si promette un giro di vite Il ruolo delle mafie, delle baby gang e dei trapper. Massimo Malpica l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Dal Nord al Sud, da Est a Ovest. Non c'è solo Caivano tra le zone franche alle quali Giorgia Meloni ha dichiarato guerra. Ogni angolo del Bel Paese ha le sue piazze di spaccio, i suoi angoli dove fervono attività illecite alla luce del sole, le sue strade dove si muore ammazzati nonostante lo Stato. Su tutto, ovviamente, c'è spesso il cappello delle mafie italiane - sia quando giocano in casa sia quando proiettano i propri interessi in territori un tempo vergini, come prova la crescente presenza della ndrangheta in Valle d'Aosta e delle organizzazioni criminali straniere. Del tutto intenzionate a mantenere questi pezzi di Italia fuori dalla portata delle forze dell'ordine e della legge.
Luoghi dove tutto è gestito in proprio da chi si è assicurato il controllo del territorio. Come accade nella borgata di Ciaculli, periferia Sud-Est di Palermo, famosa per il suo pregiato mandarino tardivo. Qui lo Stato è assente, in tutti i sensi: un singolo autobus collega il quartiere alla città. La mafia invece qui è stata di casa da tempi remoti: è del 1963 la «strage di Ciaculli», quando un'Alfa Romeo Giulietta ripiena di tritolo esplose uccidendo sette carabinieri. Anche se ora la borgata ospita il «giardino della memoria», dedicato alle vittime di mafia, appena un anno fa un blitz antimafia ha rivelato che qui le cosche si occupavano di governare tutto: oltre a spacciare droga, infatti, vendevano mascherine (rubate) durante l'emergenza Covid, imponevano la propria intermediazione ben retribuita nelle compravendite immobiliari del quartiere, e rivendevano anche l'acqua agli agricoltori della Conca d'oro per irrigare i campi, naturalmente dopo averla rubata agli acquedotti pubblici.
Anche la «quarta mafia», la «società foggiana» in forte ascesa, sa controllare il «proprio» territorio. Se il capoluogo è insanguinato da anni dagli omicidi della guerra tra clan, le sue piazze di spaccio sono spesso inaccessibili e «invisibili» per lo Stato. Pochi mesi fa, solo il lavoro di due agenti sotto copertura ha permesso di scoprire le decine di locali blindatissimi dedicati allo smercio degli stupefacenti nella vicina San Severo. Dove la droga veniva venduta in quartieri dai nomi eloquenti come «Fort Apache» - anche in «coffee-shop» dove i clienti potevano consumarla in loco, senza alcun timore che le forze dell'ordine potessero interrompere la «festa». Che, ovviamente, continua indisturbata altrove. Il tutto per non citare i «ghetti dei migranti» nella Daunia, vittime del caporalato e stipati in queste baraccopoli dove, parola della Dia, «è persistente una situazione di diffusa illegalità, caratterizzata da una costante commissione di delitti di varia natura, talvolta di estrema gravità».
E non c'è solo il Sud, non c'è solo la mafia. Anche la Dia ha sollevato l'allarme per le baby gang, per i comportamenti criminali messi in atto da ragazzi che spesso imitano i comportamenti dei boss e agiscono convinti che il branco garantisca l'impunità, come anche la storia di Caivano conferma. Di zone così, però, ce ne sono ovunque. Anche a Nord, a Torino, Borgo Vittoria. Quartiere settentrionale segnato da risse, furti e appunto dalle violenze delle baby gang, che anche l'ultima relazione della Dia indica come particolarmente attive «in Lombardia e Piemonte». Qui abitano, in un gruppo di case popolari considerate «off limits» per la polizia, anche alcuni dei minori arrestati per aver lanciato, a gennaio scorso, una bici elettrica su Mauro Glorioso, ragazzo palermitano finito in coma per quell'aggressione, e che non hanno mai nemmeno chiesto scusa per il folle gesto.
Ma sono tanti altri i luoghi dove lo Stato è ancora assente. Se davvero non devono esistere zone franche, come dice la premier, in queste aree la legalità dovrà rimettere piede. Per fermare gli orrori e l'omertà di Caivano, ma anche le gang di salvadoregni, di aspiranti baby-camorristi, di trapper italiani, lo spaccio e gli agguati a colpi di pistola in pieno giorno, in Sicilia come in Brianza, e gli affari di una ndrangheta sempre più radicata in tutto il Paese.
Da ilnapolista.it il 30 aprile 2023.
Libero riceve minacce di morte per l’articolo sul reddito di cittadinanza e dà la colpa al Napolista
Libero ieri ha piazzato la festa scudetto del Napoli in prima pagina, scrivendo che è pagata col reddito di cittadinanza. Un articolo in cui il quotidiano riprendeva il servizio di Striscia la notizia (di Luca Abete) che documentava come a Napoli in alcune mercerie vengano acquistate bandiere del Napoli con la tessera di cittadinanza. Articolo per il quale sono fioccate minacce di morte. Oggi, Libero accusa Il Napolista di aver scatenato l’inferno, per il titolo del nostro pezzo: “Libero schiuma di rabbia“.
Sul quotidiano, Alessandro Gonzato scrive:
“Qualcuno non ha capito. Rispieghiamo. Ieri abbiamo dato conto che nella Napoli ormai prossima al meritato tricolore c’è chi sta acquistando fraudolentemente bandiere e fumogeni col reddito di cittadinanza (tutto documentato da Luca Abete di Striscia la Notizia) ma la traduzione del sito Il Napolista è stata: “Libero schiuma rabbia per lo scudetto”.
Rabbia per cosa? Che poi è dall’inizio che il nostro giornale esalta la squadra di Spalletti, e poi non è che a Libero il calcio sia una ragione di vita. È stata stravolta la realtà, ma non quella che abbiamo descritto, e infatti nessun gentiluomo che sui social ha iniziato a insultarci e peggio ha contestato il contenuto dell’articolo. Hanno scambiato, diciamo così, la denuncia di una truffa ai danni dello Stato – quindi contro tutti gli italiani napoletani perbene inclusi – per un attacco calcistico intriso di razzismo, il che pur avendone viste tante ci ha lasciato basiti”.
Ancora:
“Dal Napolista l’attacco si è propagato sui social fino alle minacce al sottoscritto, alcune di morte”.
Minacce che Gonzato elenca:
“Un tale è arrivato a pubblicare su Facebook il mio volto contornato da un mirino. Un altro ha aggiunto il commento «Io l’avrei capovolta», la foto, a testa in giù come i fascisti. Da piazza del Plebiscito a piazzale Loreto”.
Per concludere:
“Tutto normale? Un altro utente scrive: «Da napoletano spero che sia vero, significherebbe che vi abbiamo fregato due volte», messaggio edulcorato. Ne arriva un altro: «Continua a pagarci le tasse», e di messaggi così me ne arrivano decine. Giù di minacce e offese fino ai bis-cugini laterali. Dai guagliù, festeggiate, senza pazzià”.
Da ilnapolista.it il 30 aprile 2023.
Caro Libero, ti ringraziamo di tanta considerazione. Ora vuoi farci credere che quel bel richiamo in prima pagina “La festa scudetto pagata col reddito di cittadinanza” era un innocente ripresa di un episodio di cronaca documentato da Striscia la notizia. Nella sostanza è così, nella confezione francamente non tanto. Abbiamo qualche anno e ciascun giornale lavora per accontentare la propria platea di lettori.
E la tua sta osservando quel che sta accadendo a Napoli in queste ore come si farebbe con un documentario del National Geographic sul mondo animale. Il calcio, consentici, non c’entra niente. Sappiamo bene, e lo abbiamo sempre documentato, che Libero si è appassionato (come tutti) al Napoli di Spalletti. Con l’ottimo Savelli e altri. Però proprio tu, che hai quel gigante di Vittorio Feltri in casa, non puoi giocare a buttare la pietra e nascondere la mano.
Non la facciamo lunga perché oggi abbiamo da fare, sempre che tutto vada per il verso giusto. Però una cosa ci teniamo a dirtela. In realtà, caro Libero, noi ti proteggiamo. Ieri avremmo potuto evidenziare una castroneria scritta dal vostro Luciano Moggi, e cioè che i selfie al murales di Maradona sono a pagamento (“Sarà una giornata di grande festa per questa città che ha già preparato striscioni e bandiere e che in un murales ha collocato l’immagine di Diego Maradona con il quale tutti, naturalmente a pagamento, potranno fotografarsi”), e vi sareste beccati l’ennesima shit storm. Non c’è alcun selfie a pagamento. Magari si potrebbe evidenziare che è un tempio dell’economia sommersa. Ma questo è un altro discorso.
È giusto discriminarmi? Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.
L’aviazione militare inglese si è imposta di assumere il 40 per cento di donne e neri, con ciò lasciando a terra dei piloti bravissimi che avevano il solo torto di essere maschi e bianchi. A denunciarlo non è stato un membro del KuKluxKlan, ma una donna, ufficiale dell’aviazione, preoccupata per lo scadimento qualitativo del suo reparto. È giusto discriminare una persona per il sesso e il colore della sua pelle, perpetuando uno schema consolidato, sia pure a sessi e colori invertiti? No, non è giusto. Ma potrebbe rivelarsi saggio, se davvero nei prossimi cinquant’anni vogliamo raggiungere l’obiettivo strategico di una società evoluta: l’eguaglianza dei punti di partenza.
Il maschio bianco ha goduto per millenni di condizioni di favore che lo rendono ancora adesso più preparato a occupare certi ruoli. Se però continua a occuparli solo lui, gli esclusi non potranno mai mettersi al suo livello. Come in tutte le cose, servono gradualità e buonsenso, ma per realizzare una giustizia domani, bisogna probabilmente commettere un’ingiustizia oggi. È fastidioso, lo riconosco, specie per chi appartiene alla categoria chiamata a compiere il momentaneo passo indietro. Finché essere maschi e bianchi era un privilegio, a noi sembrava l’ordine naturale: perciò ci sconvolge vederlo trasformarsi adesso in un sopruso. Ma forse è l’unico modo per arrivare, nel volgere di un paio di generazioni, a una società dove tutti abbiano le stesse opportunità e la parola «merito» acquisti finalmente un senso compiuto.
Estratto dell’articolo di Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 3 Febbraio 2023.
L’intento era lodevole, il risultato forse un po’ meno. La leggendaria Raf, la Royal Air Force, ossia l’aviazione militare britannica, è finita nella bufera perché si è scoperto che portava avanti una «discriminazione positiva» ai danni dei maschi bianchi: in pratica, pur di arruolare più donne e persone di colore, finiva per bocciare i candidati troppo pallidi e di sesso maschile, anche se erano i più qualificati.
Una politica che, secondo il presidente della Commissione Difesa di Westminster, Tobias Ellwwod, rischiava di avere «un impatto materiale sulla performance operativa della Raf»: in altre parole, di minarne la capacità di combattimento. Addirittura, la persona preposta al reclutamento, che pure era una donna, la capitana di squadrone Elisabeth Nicholl, si è dimessa per il suo disaccordo con queste pratiche, dopo aver identificato almeno 160 casi di discriminazione ai danni di maschi bianchi. […]
Il pregiudizio razziale dei buonisti. Si chiamano atti di discriminazione razziale, punibili per altro dalla legge Mancino. Luigi Mascheroni il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Si chiamano atti di discriminazione razziale, punibili per altro dalla legge Mancino. Tipo: penalizzare una categoria di persone per il sesso o il colore della pelle. Cose che accadono ancora, purtroppo; a volte in maniera strisciante, altre plateale. Ieri è successo sul Corriere della sera, in prima pagina, rubrica «Il caffè», firma: Massimo Gramellini, dunque la vetrina più bella del woke journalism in salsa Zan. Uno splendido esempio di come si voglia abbattere un pregiudizio razziale con un altro pregiudizio, sempre razziale. L'autore dell'articolo ha provato a giustificare la decisione della Raf, l'aviazione militare britannica, che si è imposta di assumere il 40% di donne e di neri, indipendente dalle capacità e dal valore, a scapito di piloti maschi, bianchi e bravi. Il ragionamento dell'articolo non è solo contorto - se vogliamo in futuro raggiungere l'uguaglianza del punto di partenza per tutti dobbiamo rinunciare ora a essere ugualitari, insomma meglio commettere un'ingiustizia oggi (cioè un atto razziale contro i bianchi) per realizzare una giustizia domani (cioè dare a tutti le stesse chance) - ma è anche terribilmente ideologico. Oltre che inconsapevolmente ironico: Gramellini per coerenza ora dovrebbe lasciare il posto di rubrichista e vicedirettore del Corriere a un giornalista meno bravo di lui e di tanti altri suoi colleghi, purché di colore, o donna, o entrambi, perché così nel volgere di un paio di generazioni le nuove leve di giornalisti avranno - forse - imparato a scrivere e le assunzioni al Corriere risponderanno a specchiati criteri di merito, senza più favorire maschi bianchi torinesi. Speriamo che il Cdr sia d'accordo. Sarà, ma l'idea di arruolare - in qualsiasi settore e professione - più donne e persone di colore finendo col bocciare i candidati di altro sesso o colore della pelle anche se più qualificati, non corrisponde precisamente alla nostra idea di progresso, né sociale né civile. Si potrebbe dire che l'articolo predicando la meritocrazia suggerisce che il metodo migliore sia selezionare per razza e genere sessuale (e chi lo firma è un giornalista razzista e sessista a sua insaputa). Si potrebbe obiettare che, secondo la stessa logica, è giusto mandare avanti chirurghi neri e donne anche se non bravissimi, così con un paio di decenni di macelleria operatoria conquisteremo una società che dà a tutti le stesse chance. O forse si può dire solo che l'eccesso di inclusività, come sempre, sfocia nel peggior fanatismo. Com'era la frase? «Se non vogliamo più il razzismo, serve più razzismo». Ecco.
Antonio Giangrande: A proposito del Titolo di Libero sui “Terroni”.
Gli opinionisti del centro-nord Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Ergo: COGLIONE. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come prossimo passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Antonio Giangrande: Chi dice Terrone è solo un coglione.
La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.
L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".
Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".
Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.
Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:
Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.
Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.
Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.
Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.
Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!
Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.
Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.
Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.
Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.
Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.
Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.
Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.
C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.
L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni" , scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».
La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».
Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Quei razzisti come i serbi.
Chi è Milan Radoicic, l’estremista serbo responsabile dell’attacco a Banjica in Kosovo. Il vicepresidente di 'Lista serba' ha ammesso le sue responsabilità e si è dimesso dal partito. La conferma è arrivata anche dal presidente serbo Vucic. Pristina aveva accusato il governo serbo di aver sostenuto l'attacco. Nello scontro sono morte quattro persone, tra cui un poliziotto kosovaro. Poi i miliziani si erano rifugiati in un monastero. Redazione Web su L'Unità il 29 Settembre 2023
Si è dimesso dalla carica di vicepresidente del partito Lista serba (gruppo politico rappresentativo dei serbi del Kosovo) Milan Radoicic, accusato dal ministro dell’Interno kosovaro Xhelal Svecla di essere il leader del gruppo armato che ha attaccato domenica il villaggio di Banjica. Lo ha reso noto il presidente serbo, Aleksandar Vucic, in un’intervista ripresa dall’emittente “Euronews“. “Radoicic non vuole danneggiare ulteriormente la Lista serba“, ha sottolineato Vucic, definendo poi preoccupante la situazione in Kosovo. “Non so se quello che è successo sia stato un punto di svolta“, ha detto Vucic in riferimento a quanto accaduto a Banjica. “Sono molto preoccupato perchè so quanto siano aggressivi Albin Kurti e Vjosa Osmani (premier e presidente del Kosovo), soprattutto quando credono di avere molto sostegno da parte della comunità internazionale“, ha aggiunto il presidente serbo. L’ex vicepresidente del partito Lista serba Radoicic si è assunto la “piena responsabilità” dell’attacco. Lo stesso Radoicic ha rilasciato alcune dichiarazioni tramite il suo avvocato Goran Petronijevic e rilanciata dall’emittente televisiva “N1″.
Chi è Milan Radoicic l’estremista serbo responsabile dell’attacco a Banjica in Kosovo
Nella lettera, Radoicic ha spiegato di essere arrivato “insieme ai connazionali” il 24 settembre nel nord del Kosovo al fine di “incoraggiare la popolazione nella resistenza al regime di Albin Kurti“. L’ex vicepresidente di Lista serba ha sottolineato di “aver effettuato personalmente tutti i preparativi logistici” e di “non aver ricevuto alcun aiuto dalle autorità di Belgrado, nè di averle informate delle sue intenzioni“. Radoicic ha spiegato che, secondo le informazioni in suo possesso, il poliziotto kosovaro morto nello scontro “è stato ucciso da un’esplosione e non da un proiettile“, ma che in quel momento lui non era presente. In precedenza, il ministro dell’Interno kosovaro, Xhelal Svecla, pubblicando un video aveva accusato Radoicic di essere il leader del gruppo armato.
Le dimissioni
Radoicic è un personaggio controverso al centro di vicende oscure e al limite della legalità. Il suo avvocato, Petronijevic ha accusato l’Ue, garante degli accordi del dialogo, di non aver preso alcuna misura per indurre Pristina al rispetto di tali intese. Il legale ha ribadito le critiche alle autorità kosovare che non hanno consentito a esperti serbi nè di Eulex di assistere all’autopsia sulle salme dei tre serbi rimasti uccisi negli scontri a Banjska. Cosa questa, ha osservato, che dimostra la volontà di nascondere qualcosa.
Redazione Web 29 Settembre 2023
L'attacco di 30 persone armate: 4 vittime. Attentato contro la polizia, la fine del dialogo (fallimentare) tra Kosovo e Serbia. Federica Woelk su Il Riformista il 28 Settembre 2023
La situazione intorno al Kosovo diventa sempre più instabile. Tra sabato e domenica sono state uccise quattro persone nel Nord del Kosovo in uno violento scontro a fuoco in cui un poliziotto kosovaro è stato ucciso, un altro è rimasto ferito. Le tensioni fra Kosovo e Serbia si riaccendono, a causa di questa escalation per la quale il governo kosovaro ha attribuito la responsabilità ai serbi accusando il governo serbo di destabilizzare la regione. Ma è davvero così?
Partiamo dai fatti: Banjska, dove è avvenuta la sparatoria, è un villaggio nel Nord del Kosovo, la parte dove la minoranza serba costituisce la maggioranza di popolazione. È un territorio difficile da controllare, perché in quella zona agiscono tanti gruppi criminali. Spesso e volentieri intimidendo i Kosovari Serbi ed impedendo loro di integrarsi e vivere una vita comune con gli albanesi. Inoltre, la Serbia continua a considerare il Kosovo suo territorio/sua provincia, e spesso e volentieri interferisce con la situazione nel Nord del Kosovo (anche tramite gli stessi gruppi criminali) al fine di creare una situazione instabile. La polizia kosovara cerca di mantenere l’ordine, ma a fatica.
Che cosa è successo esattamente? È chiaro che un gruppo di circa trenta persone armate, ben organizzato, ha attaccato la polizia. Nello scontro a fuoco sono rimasti uccisi anche tre degli aggressori. Alcuni di loro avevano sfondato l’ingresso di un monastero della Chiesa ortodossa serba e si erano barricati al suo interno. «Dopo diversi scontri consecutivi», la polizia ha preso il controllo del monastero.
Secondo il primo ministro kosovaro Albin Kurti e la presidente del Kosovo Vjosa Osmani, gli aggressori non erano serbi del Kosovo, ma venivano dalla Serbia (nei video diffusi si sentono gli aggressori parlare serbo con l’accento della Serbia, hanno trovato delle targhe della Serbia nelle macchine dei terroristi), e pertanto la Serbia sarebbe responsabile dell’attacco.
Domenica sera il presidente serbo Aleksandar Vučić, commentando l’accaduto, ha detto che l’omicidio del poliziotto kosovaro «non può essere giustificato» ma che tali violenze costituiscono il risultato della «brutale» repressione che i kosovari di etnia serba subiscono dal governo del Kosovo. Negando inoltre qualsiasi coinvolgimento del governo serbo, Vučić ha definito il primo ministro kosovaro un “terrorista”.
Non ci sono prove concrete che sia stato il governo serbo a mandare i terroristi in avanscoperta. Ma da mesi il governo serbo continua, attraverso la sua politica contro il Kosovo, ad aumentare le tensioni e a impedire un vero dialogo.
Anche il più recente incontro fra il presidente Vučić e il primo ministro Kurti a Bruxelles è stato un completo fallimento, proprio perché la Serbia non intende fare alcuna concessione nei confronti del Kosovo, per quanto riguarda il riconoscimento come stato. Non vuole, e non potrebbe farlo facilmente, perché nella Costituzione della Serbia è scritto che il Kosovo è una provincia serba. Quindi l’UE, che dovrebbe facilitare il dialogo, è arrivata a un punto morto: il Kosovo è disposto a creare l’Associazione dei comuni serbi solo a condizione che ci sia almeno un’apparenza di riconoscimento di esistenza del Kosovo, la Serbia invece insiste sull’Associazione a prescindere, cioè prima del riconoscimento del Kosovo. Un vicolo cieco, una situazione che ha bisogno di essere sbloccata.
È probabile che la Serbia sia implicata nel recente scontro? Le indagini sono ancora in corso. Ma il modus operandi, e il fatto che il presidente Vučić lunedì mattina (25.09) per prima cosa abbia incontrato l’ambasciatore russo per parlare dell’accaduto, sono segnali difficili da ignorare.
Per poter tranquillizzare la situazione, l’Unione europea dovrebbe finalmente prendere sul serio il suo ruolo di mediatrice. Non basta “facilitare” un dialogo fra sordi. Ci vuole una strategia (propria). Che tenga conto del ruolo ambiguo e destabilizzante della Serbia nella regione, non solo in Kosovo. La stabilità nei Balcani non è garantita dalle autocrazie, ma dalla democrazia e lo stato di diritto.
Federica Woelk. Nata a Trento, laureata in Scienze Politiche all’Universitá di Innsbruck, ho due master in Studi Europei (Freie Universität Berlin e College of Europe Natolin) con una specializzazione in Storia europea e una tesi di laurea sui crimini di guerra ed elaborazione del passato in Germania e in Bosnia ed Erzegovina. Sono appassionata dei Balcani e della Bosnia ed Erzegovina in particolare, dove ho vissuto sei mesi e anche imparato il bosniaco.
Serbia, nuova sparatoria vicino Belgrado. Otto morti e 13 feriti. Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023. Il responsabile, un 21enne, sarebbe stato individuato dall’unità antiterrorismo. L’episodio all’indomani di un’altra grave sparatoria in una scuola elementare.
Nuova sparatoria in Serbia, presso la città di Mladenovac, circa 60 km a sud di Belgrado dove un individuo a bordo di un’auto ha esploso diversi colpi contro un gruppo di persone in strada per poi darsi alla fuga, lasciando dietro di sé almeno otto morti e 13 feriti, secondo France Presse. L’episodio avviene all’indomani di un’altra grave sparatoria in una scuola elementare del paese, dove uno studente di 13 anni ha ucciso otto coetanei e una guardia di sicurezza. Sul posto decine di agenti, soccorritori elicotteri mentre è scattata la caccia all’uomo per cercare di individuare il colpevole. Il ministro dell’interno serbo, Bratislava Gasic ha definito l’episodio un atto di terrorismo. Il responsabile sarebbe stato individuato dall’unità antiterrorismo della polizia serba che ha circondato l’area dove si nasconde il 21enne. La sparatoria si è verificata in due distinti villaggi nei pressi della cittadina di Mladenovac, 50 chilometri a sud di Belgrado.
Belgrado, 13enne spara in una scuola primaria: 9 vittime e 7 feriti. «Aveva la lista dei bambini da colpire». Giulia Arnaldi su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023.
L’autore dell’attacco, Kosta Kecmanovic, è iscritto nello stesso istituto: ha utilizzato la pistola del padre (che è stato arrestato) e si era portato dietro diversi caricatori. La polizia: progettava l'attentato da almeno un mese. Secondo la legge non è perseguibile.
Sono 9 le vittime di una sparatoria avvenuta nella scuola Vladislav Ribnikar, nel centro di Belgrado, dove un alunno non ancora quattordicenne , Kosta Kecmanović, ha aperto il fuoco con una pistola.
Sono morti 8 bambini e il custode dell’istituto primario (In Serbia il ciclo delle scuole primarie è l’equivalente delle nostre elementari e medie, e dura 8 anni) , mentre altri 6 alunni e un insegnante sono rimasti feriti. Il direttore della clinica pediatrica di Tirsovo Sinisa Ducic ha affermato che tre bambini sono stati ricoverati dopo la sparatoria: due hanno ferite agli arti inferiori ma sono in buone condizioni, mentre una ragazza è stata portata d’urgenza in sala operatoria per gravi lesioni cerebrali. Anche l’insegnante, che ha riportato gravi ferite al bacino, è in pericolo di vita.
La polizia serba ha arrestato il responsabile della strage nel cortile dell’istituto. Il ragazzo si è presentato a scuola stamattina intorno alle 8:40 armato della pistola calibro 9 del padre con alcuni caricatori di riserva, un’altra pistola nello zaino e diverse bottiglie molotov. Sul luogo sono arrivati anche il ministro dell’Istruzione Branko Ružić e la ministra della Salute Danica Grujičić. Secondo le testimonianze di alcuni compagni di classe, si tratta di un «ottimo» ragazzo che si è sempre comportato in maniera ineccepibile.
Alle 13:15 ha avuto luogo, presso la sede del governo serbo, una conferenza stampa straordinaria, dove sono intervenuti il ministro dell’Istruzione Branko Ružić, il ministro della Salute Danica Grujičić e un rappresentante del MUP.
Secondo le informazioni rilasciate dalle forza dell’ordine serbe, l’adolescente stava progettando l’attacco da almeno un mese, e aveva addirittura disegnato degli schizzi delle classi dell’istituto, stilando una lista delle persone che intendeva colpire. Stando alle dichiarazioni del padre di una studentessa della scuola, il ragazzo avrebbe fatto irruzione nell’aula della figlia, colpendo l’insegnante e un altro studente, mentre i compagni si riparavano sotto ai banchi. È stato lo stesso Kosta ad avvertire le forze dell’ordine, una volta conclusa la strage.
Il ministro dell’Interno Bratislav Gasic ha anche comunicato che il padre di Kosta Kecmanovic è stato arrestato: «Le armi erano detenute legalmente ed erano chiuse in una cassaforte — ha dichiarato Gasic — ma, evidentemente, il figlio ne conosceva la combinazione. Il fermo previsto è di 48 ore». In serata la polizia ha arrestato anche la madre. Secondo fonti non ufficiali, il ragazzo andava spesso a caccia insieme al padre, e sarebbe così che ha imparato a sparare. Anche la madre del giovane è stata fermata, anche se ancora non è chiara quale sia l’accusa nei suoi confronti.
Durante la conferenza stampa il ministro dell’Istruzione ha anche confermato che il ragazzo aveva denunciato un episodio di bullismo, aggiungendo però che non si era verificato nella scuola ma durante un corso privato di recitazione, e che quindi non permette di trarre nessuna conclusione riguardo al movente.
Secondo la legge serba, però, Kecmanovic non è penalmente responsabile, perché non ha ancora compiuto 14 anni. Stando a quanto dichiarato a dall’Alta Procura di Belgrado, dopo l’interrogatorio da parte della polizia, avvenuto in presenza di genitori, Kosta potrà essere rilasciato: nei suoi confronti, prosegue la Procura, non si possono adottare provvedimenti penali. Per il momento, riferisce il presidente serbo Aleksandar Vučić, il ragazzo «Verrà portato nella sezione speciale di una clinica neuropsichiatrica», visto anche che entrambi i suoi genitori sono in stato di fermo. Nei suoi confronti è stato anche disposto un prelievo di sangue per l’analisi tossicologica, al fine di determinare se fosse sotto l’effetto di alcol, stupefacenti o altre sostanze psicoattive al momento del reato commesso.
Aleksandar Vucic, il padre della nuova Serbia. Emanuel Pietrobon il 28 Dicembre 2022 su Inside Over.
La Serbia è tornata al centro dell’arena europea, nonostante le ferite della disgregazione iugoslava sanguinino ancora, e le sue aspirazioni di egemonia regionale turbano i sonni delle cancellerie di Unione Europea e Stati Uniti.
La Serbia è tornata al centro dell’arena europea, nonostante sia oggi una piccola porzione di ciò che fu e abbia anche perduto l’accesso (montenegrino) al mare. Ha fame di revisionismo, come quella che muove i suoi due alleati di ferro – Russia e Repubblica Popolare Cinese –, e reclama una revisione del finale delle guerre iugoslave. E se non fosse stato per Aleksandar Vučić, difficilmente avrebbe avuto luogo questa rinascita.
Genesi di un presidente
Aleksandar Vučić nasce a Belgrado il 5 marzo 1970. I suoi avi paterni erano originariamente di Bugojno, Bosnia centrale, e furono espulsi in Serbia nel corso della Seconda guerra mondiale dagli ustascia croati. Gli altri membri della famiglia Vučić, i più sfortunati, furono invece assassinati dagli ustascia.
Le entrate dei genitori, un economista e una giornalista, permisero al giovane Vučić di avere una vita relativamente agiata e di ricevere una formazione invidiabile: prima gli studi in legge a Belgrado, poi lo studio dell’inglese a Brighton. Descritto da chi lo conobbe in gioventù come sfrontato, Vučić riuscì ad entrare nel “sistema” cogliendo orazianamente l’attimo: un’intervista per diventare intimo con Radovan Karadžić, una partita a scacchi per conoscere Ratko Mladić, le partite allo stadio per tifare la Stella Rossa Belgrado e per fare networking coi membri della classe dirigente iugoslava.
Nel 1993, mentre il sogno iugoslavo va cadendo a pezzi, Vučić si iscrive al Partito Radicale Serbo, una forza di estrema destra mirante alla ricostituzione della Grande Serbia, col quale riesce ad entrare nell’Assemblea nazionale alle parlamentari dello stesso anno. Due anni dopo, nel 1995, Vučić “lo sfrontato” avrebbe preso il comando del Partito.
Il 1998 è l’anno della svolta: Vučić entra nel governo Marjanović nelle vesti di ministro dell’informazione. Sarà lui a gestire la strategia comunicativa di Belgrado durante la guerra del Kosovo, introducendo multe per i giornalisti non conformi alla linea dettata dall’esecutivo, censurando la stampa straniera e implementando altre disposizioni – tra cui la confisca delle proprietà ai rei di disinformazione – in quella che è stata definita la legislazione mediatica più restrittiva di fine Novecento.
Nell’immediato dopoguerra, cioè nel 2000, Vučić fu tra i più grandi detrattori della cosiddetta Rivoluzione dei bulldozer che detronizzò Slobodan Milošević, che, vinto sul campo, era stato appena rieletto alle presidenziali. Il tempo avrebbe dato ragione al fronte degli scettici capitanato da Vučić, siccome oggi è fatto noto e comprovato che la deposizione del leader di guerra fu l’esito di una rivoluzione colorata pianificata e finanziata dagli Stati Uniti.
La plateale uscita di scena di Milošević, ad ogni modo, si sarebbe rivelata molto istruttiva per Vučić, che, dopo un silenzio stampa lungo otto anni, nel 2008 annunciò l’entrata nel neonato Partito Progressista Serbo. Primo passo verso il ritorno ai vertici della piramide del potere.
La lunga ascesa al trono di Belgrado
Il 2008 è l’anno del ritorno nella scena politica. Vučić entra nel neonato Partito Progressista Serbo, di cui viene nominato vicepresidente, cominciando contemporaneamente un processo di pulizia della propria immagine pubblica. Condanna del massacro di Srebrenica. Distanziamento dal defunto Milošević. Nessun riferimento alla Grande Serbia. Se il cambiamento di idee sia genuino o meno non è dato saperlo, certo è che gli permetterà di farsi strada nelle stanze dei bottoni della Serbia post-miloseviciana.
Nel 2012, a causa dell’elezione di Tomislav Nikolić alla presidenza del paese, Vučić assume automaticamente la dirigenza del Partito, destinata alla formalizzazione ufficiale qualche tempo dopo. Lo stesso anno, e fino all’estate di quello successivo, Vučić presterà anche servizio come ministro della difesa. L’inizio dell’ascesa.
Nel 2014, in seguito ai risultati delle parlamentari – un exploit eccezionale per i progressisti –, Vučić viene nominato primo ministro. Ma la sua influenza su Nikolić sarebbe stata tale da renderlo un potere dietro il trono. Potere fattosi trono nel 2017, anno delle presidenziali, grazie all’ottenimento del 56% dei suffragi.
Ritorno alla serbosfera
Multivettorialità e neutralità; queste le suadenti parole d’ordine che nel 2017 consentirono a Vučić di magnetizzare il consenso di quasi sei elettori su dieci. Ma il neopresidente non aveva fatto i conti con il peso dell’irrisolta questione kosovara, destinato ad aumentare sensibilmente a causa dell’aggravamento della competizione tra grandi potenze e dell’allargamento dell’Alleanza Atlantica – Montenegro 2017, Macedonia del Nord 2020.
La Serbia non aveva la stazza per potersi permettere ambiguità strategiche, doppi giochi e non allineamenti. O l’Unione Europea o l’Unione Economica Eurasiatica. Accettare l’irreversibilità della perdita del Kosovo o nulla. Occidente o Russia. La Serbia non era e non è l’abile Turchia, sposa della NATO e amante di Russia e Cina, perciò la sfida della costrizione geografica si è rivelata più ardua di quanto preventivato da Vučić.
Davanti al bivio, memore della Rivoluzione dei bulldozer e di Belgrado ’99, Vučić ha optato – dopo aver flirtato a lungo con l’asse Bruxelles-Washington – per il sodalizio con Mosca e Pechino. Sodalizio che ha assunto le forme dell’accordo di libero scambio con l’Unione Economica Eurasiatica del 2018, costatole un’ammonizione ufficiale da parte dell’Eurocommissione, dell’avvicinamento alle Nuove Vie della Seta e del rispolveramento dell’antico gemellaggio politico-culturale con la Russia.
Dopo il breve paragrafo del disgelo dell’era Trump, palesato dagli accordi di normalizzazione parziale con il Kosovo e dalla nascita della mini-Schengen, l’atmosfera nelle terre serbe dell’ex Iugoslavia è andata via via surriscaldandosi – con la complicità e, talvolta, dietro la regia del duo Putin-Vučić. Poiché il ritorno alla serbosfera, realtà pubblicamente rinnegata dal Vučić progressista, ha significato la ricomparsa dello spettro della secessione nella fragile Bosnia ed Erzegovina e il crescendo di escalazioni verbali, diplomatiche e militari con la provincia-divenuta-stato del Kosovo.
L’importanza di chiamarsi Kosovo
Vučić vorrebbe essere ricordato come colui che è riuscito a riscrivere il finale della guerra del Kosovo, aggiungendogli dei termini più favorevoli per la (vinta) Serbia. Consapevole dell’irreversibilità dell’indipendenza del Kosovo, perno della grand strategy degli Stati Uniti nei Balcani, Vučić vorrebbe popolarizzare l’idea di uno scambio territoriale su basi etniche: la valle di Preševo in cambio del Kosovo settentrionale.
La cronicizzazione dello stato di crisi tra Belgrado e Pristina, processo cominciato nel 2021 e accelerato all’indomani della guerra in Ucraina, è da leggersi nel microcontesto del “piano Vučić” per la serbosfera e nel macrocontesto della Terza guerra mondiale a pezzi – dove è il secondo a condizionare il primo.
Chiunque avrà il coraggio di rimettere in discussione il finale delle guerre iugoslave – a suo tempo criticato, tra l’altro, anche da Henry Kissinger – e di andare incontro al presidente serbo, le cui aspirazioni non differiscono molto da quelle dell’omologo kosovaro – essendo entrambi alla ricerca dell’omogeneità etnica nei loro territori –, sarà ricordato come il risolutore definitivo della questione serbo-kosovara. Ma la domanda è se le grandi potenze saranno lungimiranti abbastanza da preferire la diplomazia alle armi.
Quei razzisti come i greci.
Pezzi di storia Il Partenone è come la Gioconda, non può essere tagliato a metà tra due Paesi contendenti. L'Inkiesta il 28 Novembre 2023
Il parallelismo è del ministro greco Kyriakos Mitsotakis, discretamente seccato dalla decisione dell’omologo britannico Rishi Sunak di annullare l’incontro voluto per dirimere la lunga disputa su fregi del Partenone conservati a Londra. Si tratta di figure in marmo realizzate dallo scultore Fidia che decoravano il tempio da 2.500 anni
Il parallelismo è del ministro greco Kyriakos Mitsotakis, discretamente seccato dalla decisione dell’omologo britannico Rishi Sunak di annullare l’incontro voluto per dirimere la lunga disputa su fregi del Partenone conservati a Londra. Si tratta di figure in marmo realizzate dallo scultore Fidia che decoravano il tempio da 2.500 anni. Previsto per oggi sul Tamigi, il faccia a faccia è saltato solo poche ore prima, ha detto il capo della delegazione greca, mentre lo staff di Sunak non ha commentato.
A Mitsotakis è stato offerto un colloquio alternativo con il vice di Sunak, Oliver Dowden ma il capo del governo greco l’ha presa male e ha rifiutato, dichiarando di sentirsi «profondamente deluso».
Tra le ipotesi che spiegherebbero la decisione, ci sono le esternazioni di Mitsotakis durante un’intervista realizzata qualche ora fa con Laura Kuenssberg della BBC: «avere alcuni pezzi di Partenone a Londra e il resto ad Atene è come tagliare a metà la Gioconda», ha dichiarato il capo dell’esecutivo ellenico. Indignato, Mitsotakis ha poi commentato che «Chi ha argomentazioni in cui crede non rifiuta il dialogo. Avevo previsto di avviare una discussione con Sunak su questo tema, ma anche su tante altre importanti sfide globali come il conflitto in Israele e in Ucraina, la crisi climatica e migratoria». Avrebbero insomma dovuto essere quarantacinque minuti intensi, un lunch di lavoro, ma secondo fonti vicine al governo inglese anche Sunak sarebbe irritato: «L’incontro è saltato perché la posizione inglese è da sempre che i marmi di Elgin fanno parte della collezione permanente del British Museum e devono rimanere qui. Per noi conservatori non è negoziabile».
Da più parti quella che può apparire come una piccola schermaglia diplomatica non sarebbe da sottovalutare per i risvolti politici. Sostengono infatti i conservatori che l’incontro amichevole e dai toni possibilisti tra Mitsotakis e il laburista sir Keir Starmer, avvenuto in questi giorni, sia stata una scelta sconsiderata. L’idea per i laburisti, sarebbe infatti di non opporsi a un eventuale accordo di prestito tra il British Museum e Atene, iniziativa che non richiederebbe alcun permesso da parte del governo.
Ma l’Esecutivo si fa scudo con il British Museum Act del 1963 che vieta lo spostamento degli oggetti esposti nel noto museo: «Starmer ignora il contributo che generazioni di contribuenti britannici hanno dato per mantenere i fregi al sicuro e mostrarli al mondo», ha fatto sapere un portavoce del partito al governo.
La contesa è stata bollata dai media inglesi come «una bizzarra pièce teatrale a tema culturale». Una guerra che ha per oggetto l’arte e che però apre a un tema piuttosto sentito. Ovvero, l’opportunità che i musei di tutto il mondo debbano restituire ai loro paesi di origine i pezzi frutto di razzie attraverso i secoli.
Muore l’ultimo re greco, Costantino II aveva 82 anni. Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.
È morto all’età di 82 l’ex re di Grecia Costantino II, fa sapere la tv pubblica greca Ert. L’ex monarca, cugino del re britannico Carlo III, padrino del principe William, fratello della regina Sofia, moglie re Juan Carlos di Spagna e madre del monarca attuale, Felipe VI, è morto in seguito a un ictus in un ospedale di Atene, dov’era stato ricoverato la scorsa settimana. Alle Olimpiadi di Roma del 1960 vinse una medaglia d’oro nella Vela, ha regnato dal 1964 fino alla proclamazione della Repubblica nel 1974, che coincise con la fine della dittatura dei Colonnelli (1967-1974).
Nel 1968, otto mesi dopo il golpe militare, tentò un contro-golpe che fallì, e Costantino fuggì con la famiglia reale a Roma, per poi trasferirsi in Inghilterra nel 1974. In un referendum dopo il ritorno della democrazia, il 70% dei greci votò per l’abolizione della monarchia. Collegata alle monarchie britanniche e danese, la dinastia Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glucksburg, iniziata dal nonno danese di Costantino, Giorgio I, nel 1863, si estingue così con lui.
Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” l’11 gennaio 2023.
Costantino II (1940-2023). Ultimo re di Grecia. Ha regnato dal 1964 fino alla proclamazione della Repubblica nel 1974. Cugino del re britannico Carlo III, padrino del principe William, fratello della regina Sofia la moglie del re Juan Carlos di Spagna. Membro onorario del Cio, aveva un particolare legame con l'Italia: da atleta, infatti, era riuscito a vincere le Olimpiadi di Roma nel 1960 nella disciplina della vela. È morto di un ictus in un ospedale di Atene. Aveva 82 anni
Estratto dell'articolo di Eva Grippa per repubblica.it l’11 gennaio 2023.
Di Costantino II, scomparso all'età di 82 anni ad Atene, si potrebbero dire molte cose. È stato l'ultimo re di Grecia, salito al trono giovanissimo, a 24 anni, e lì rimasto per meno di dieci anni (fino cioè alla proclamazione della Repubblica, nel 1974). Fu uno sportivo, appassionato di vela, che conquistò una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Fu padre presente per i suoi cinque figli, affezionato amico di suo cugino, re Carlo III del Regno Unito, e padrino del suo primogenito, il principe William. Ma fu soprattutto un uomo innamorato di una sola donna per tutta la vita: Anne-Marie di Danimarca, conosciuta quando lei aveva solo 13 anni. Sposati nel 1964, anno in cui Costantino diventò re, sono rimasti assieme per quasi 60 anni.
La storia d'amore tra l'affascinante erede al trono di Grecia e la più giovane delle tre figlie dei reali danesi inizò con una visita di Stato in Danimarca; re Paolo e la regina consorte Federica di Hannover avevano portato i figli con loro e per premiarli decisero di accompagnarli al circo di Copenaghen. Fu proprio il re di Grecia a notare per primo Anne-Marie, che allora aveva solo 13 anni, e a dire a sua moglie: "Guarda, è leggiadra come una farfalla. Spero che un giorno Tino la sposi".
(…) L'annuncio fu dato il 23 gennaio 1963 a Copenaghen, dove le bandiere danese e greca furono messe a sventolare insieme mentre entrambe le famiglie comparivano sul balcone del palazzo di Amelienborg per salutare la folla.
La data fu fissata al gennaio 1965; due anni di attesa per aspettare che la principessa diventasse maggiorenne, poiché aveva ancora solo 16 anni, mentre Costantino ne aveva 22. Il desiderio di re Frederik era che sua figlia completasse il ciclo di studi prima di sposarsi; era un padre, e un re, alquanto moderno. Così Anne-Marie tornò nel suo collegio in Svizzera, mentre Constantine si tuffò nei suoi doveri ufficiali.
Nel frattempo, il destino si mise di mezzo: a fine gennaio 1964, i medici diagnosticarono a re Paolo un cancro e le sue condizioni peggiorarono nei mesi successivi, finché il 1° marzo fu colpito da un'embolia polmonare che lo portò alla morte, il 6 marzo 1964. Lo stesso giorno Costantino prestò giuramento come nuovo re.
Verso le undici e mezzo del mattino del 18 settembre 1964, centouno colpi di cannone, sparati dal Monte Licabetto e dalle navi da guerra attraccate nel porto del Pireo, salutarono la nuova regina consorte di Grecia. Il re Costantino II, 24 anni, e la principessa Anne-Marie di Danimarca, 18 anni, avevano appena detto di sì in una cerimonia officiata dall'arcivescovo Chrysostomos II nella cattedrale dell'Annunciazione di Santa Maria. (…)
Nell'aprile 1967 tutto cambia per loro: una giunta militare, inizialmente sostenuta dal re, si impadronisce del potere e, dopo un fallito contro-colpo di Stato, il re e la sua famiglia decidono di andare in esilio; prima a Roma, poi a 'casa' di Anna Maria, in Danimarca, e infine a Londra. Nel giugno 1973 il sovrano è formalmente deposto dalla giunta militare, scelta confermata nel dicembre 1974: è la fine della monarchia in Grecia.
Costantino torna temporaneamente ad Atene nel 2004, durante le Olimpiadi, come membro del Comitato olimpico internazionale, e solo nel 2013 torna a vivere stabilmente nel suo Paese, trasferendosi con la moglie a Porto Heli.
Al suo capezzale, nei giorni precedenti la morte, si sono riuniti tutti, dalla moglie - sempre al suo fianco - ai figli e le sorelle, prima tra tutti Sofia, moglie dell'ex re di Spagna.
Addio Costantino II, ultimo re di Grecia, che per tutta la vita amò solo la sua Anna Maria di Danimarca. Eva Grippa su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.
È scomparso all'età di 82 anni l'ultimo monarca greco, dopo essere stato ricoverato in terapia intensiva a seguito di un ictus. Quando si è spento, era circondato dall'intera famiglia: moglie e cinque figli. Quella che lo legò ad Anna-Marie fu una grande, bellissima storia d'amore, lunga oltre sessant'anni
Di Costantino II, scomparso all'età di 82 anni ad Atene, si potrebbero dire molte cose. È stato l'ultimo re di Grecia, salito al trono giovanissimo, a 24 anni, e lì rimasto per meno di dieci anni (fino cioè alla proclamazione della Repubblica, nel 1974). Fu uno sportivo, appassionato di vela, che conquistò una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Fu padre presente per i suoi cinque figli, affezionato amico di suo cugino, re Carlo III del Regno Unito, e padrino del suo primogenito, il principe William. Ma fu soprattutto un uomo innamorato di una sola donna per tutta la vita: Anne-Marie di Danimarca, conosciuta quando lei aveva solo 13 anni. Sposati nel 1964, anno in cui Costantino diventò re, sono rimasti assieme per quasi 60 anni.
L'incontro con Anne-Marie e l'inizio della storia d'amore
La storia d'amore tra l'affascinante erede al trono di Grecia e la più giovane delle tre figlie dei reali danesi inizò con una visita di Stato in Danimarca; re Paolo e la regina consorte Federica di Hannover avevano portato i figli con loro e per premiarli decisero di accompagnarli al circo di Copenaghen. Fu proprio il re di Grecia a notare per primo Anne-Marie, che allora aveva solo 13 anni, e a dire a sua moglie: "Guarda, è leggiadra come una farfalla. Spero che un giorno Tino la sposi".
Tino - Costantino - era cugino di terzo grado della principessa; erano tempi quelli in cui le famiglie reali europee erano legate tra loro da legami di sangue e di matrimonio, così che i due ragazzi avevano molte possibilità di incontrarsi.
Il re Paolo e la regina Federica di Grecia con i figli: Costantino, detto Tino, è il secondogenito ma erede al trono. La sorella maggiore è Sofia, che diventerà regina di Spagna a fianco di Juan Carlos, e la minore è Irene, che non si è mai sposata e ha sempre vissuto nel Palazzo reale di Madrid con sua sorella. Galeotto fu il matrimonio del duca di Kent con Katherine Worsley, nel giugno 1960: durante i festeggiamenti, il principe ereditario telefonò ai genitori ad Atene per metterli in guardia perché il principe spagnolo Juan Carlos di Spagna stava corteggiando sua sorella, la principessa Sofia. I due in effetti convoleranno a nozze due anni dopo (Juan Carlos diventerà re, e nel 2014 abdicherà a favore del figlio Felipe). Oltre a tenere d'occhio sua sorella, però, Tino osservò tutta la sera la quindicenne Anne-Marie. Sua madre, la regina Federica, nei mesi successivi capì che tra i due stava nascendo qualcosa perché dopo quel matrimonio Costantino iniziò a visitare sempre più spesso la fredda Copenaghen. Per non destare sospetti, faceva da accompagnatore a turno per tutte e tre le principesse danesi (Margrethe, oggi regina di Danimarca, Benedikte e appunto Anne-Marie), tanto che la stampa inizialmente sospettava che il principe volesse corteggiare Benedikte.
Il re velista
L'estate successiva Tino e Anne-Marie si incontrarono ancora in Norvegia, dove lei era in vacanza e lui partecipava a delle regate in yacht, provetto velista. Quando le propose il matrimonio, Anne-Marie accettò felice ma tennero il loro progetto segreto per i successivi sei mesi.
L'annuncio fu dato il 23 gennaio 1963 a Copenaghen, dove le bandiere danese e greca furono messe a sventolare insieme mentre entrambe le famiglie comparivano sul balcone del palazzo di Amelienborg per salutare la folla.
Il fidanzamento ufficiale: Costantino ammira l'anello che ha regalato alla sua Anne-Marie, sotto lo sguardo del re Frederik e della regina Ingrid
La data fu fissata al gennaio 1965; due anni di attesa per aspettare che la principessa diventasse maggiorenne, poiché aveva ancora solo 16 anni, mentre Costantino ne aveva 22. Il desiderio di re Frederik era che sua figlia completasse il ciclo di studi prima di sposarsi; era un padre, e un re, alquanto moderno. Così Anne-Marie tornò nel suo collegio in Svizzera, mentre Constantine si tuffò nei suoi doveri ufficiali.
Nel frattempo, il destino si mise di mezzo: a fine gennaio 1964, i medici diagnosticarono a re Paolo un cancro e le sue condizioni peggiorarono nei mesi successivi, finché il 1° marzo fu colpito da un'embolia polmonare che lo portò alla morte, il 6 marzo 1964. Lo stesso giorno Costantino prestò giuramento come nuovo re.
Il royal wedding di Grecia
Verso le undici e mezzo del mattino del 18 settembre 1964, centouno colpi di cannone, sparati dal Monte Licabetto e dalle navi da guerra attraccate nel porto del Pireo, salutarono la nuova regina consorte di Grecia. Il re Costantino II, 24 anni, e la principessa Anne-Marie di Danimarca, 18 anni, avevano appena detto di sì in una cerimonia officiata dall'arcivescovo Chrysostomos II nella cattedrale dell'Annunciazione di Santa Maria. Nello stesso tempio ortodosso due anni prima si era sposata la sorella dello sposo, Sofía, con Juan Carlos, che sarebbe diventato re di Spagna. Gli sposi arrivarono all'altare mossi unicamente dall'amore, non per via di strategie diplomatiche o politiche.
Tino era in alta uniforme e accompagnato dalla madre, Federica di Hannover, mentre Anna Maria arrivò al braccio del padre re Federico IX, con indosso un abito da sposa realizzato dal suo connazionale Jorgen Bender: bianco e ispirato alla moda settecentesca, con taglio impero, scollo a barchetta, maniche a tre quarti, lungo strascico e un velo in pizzo irlandese già scelto da sua madre, la regina Ingrid, e da sua nonna materna, Margherita di Connaught, prima moglie del re Gustavo VI Adolfo di Svezia.
Il corteo delle dame di compagnia era composto da sei principesse; Irene di Grecia (sorellina di Costantino), la principessa Anna del Regno Unito, Cristina di Svezia, Margaret di Romania, Tatiana Radziwill e Clarissa d'Assia. Gli attuali re Harald di Norvegia, Carlos Gustavo di Svezia e Carlo III d'Inghilterra erano incaricati di tenere le corone sulle teste delle parti durante il rito.
La famiglia, la politica
Costantino II e Anna Maria furono sempre una coppia unita, chiamata ad affrontare subito grandi problemi. I figli arrivarono uno dopo l'altro: Alessia, la primogenita, poi Paolo (il nome del nonno re), Nicola, Teodora, Filippo. La famiglia reale trascorreva le sue vacanze con i parenti britannici, il principe Carlo e la principessa Diana, e i loro figli; Costantino fu padrino del principe William.
Tre famiglie reali in vacanza assieme sullo yacht 'Fortuna' a Majorca, Spagna, agosto 1990. Da sinistra: l'ex regina Anne-Marie e l'ex re Costantino di Grecia con la figlia principessa Teodora; lady Diana e il marito, il principe Carlo (oggi re Carlo III del Regno Unito), il re Juan Carlos di Spagna con le figlie Cristina ed Elena, i principi William e Harry con un amico e infine la regina Sofia di Spagna
Nell'aprile 1967 tutto cambia per loro: una giunta militare, inizialmente sostenuta dal re, si impadronisce del potere e, dopo un fallito contro-colpo di Stato, il re e la sua famiglia decidono di andare in esilio; prima a Roma, poi a 'casa' di Anna Maria, in Danimarca, e infine a Londra. Nel giugno 1973 il sovrano è formalmente deposto dalla giunta militare, scelta confermata nel dicembre 1974: è la fine della monarchia in Grecia.
Il re Costantino con la regina Elisabetta II del Regno Unito
Costantino torna temporaneamente ad Atene nel 2004, durante le Olimpiadi, come membro del Comitato olimpico internazionale, e solo nel 2013 torna a vivere stabilmente nel suo Paese, trasferendosi con la moglie a Porto Heli.
Al suo capezzale, nei giorni precedenti la morte, si sono riuniti tutti, dalla moglie - sempre al suo fianco - ai figli e le sorelle, prima tra tutti Sofia, moglie dell'ex re di Spagna.
C’è una pista italiana nell’inchiesta sul “Watergate greco”. Elena Kaniadakis da Atene su L’Espresso il 26 Dicembre 2022.
Carte d’identità rubate a Pompei. Utilizzate dall’uomo chiave dello scandalo sul controllo di giornalisti e politici. Che è partner nel suo paese della milanese Rcs Lab
Se venisse rappresentata in un film di spionaggio, la sede dei Servizi segreti greci assomiglierebbe probabilmente a come è in realtà. Un cubo di cemento trapiantato nella periferia di Atene, dove la bandiera greca, unica nota di colore, sventola all’entrata e le finestre degli uffici sembrano scrutare l’esterno come tanti piccoli occhi.
A quattro mesi dallo scoppio del cosiddetto «Watergate greco», l’edificio pare custodire gelosamente molte delle risposte agli interrogativi che stanno mettendo in crisi il governo conservatore di Nea Dimokratia. O forse bisognerebbe cercare quelle risposte lungo la riviera ateniese, nel quartiere esclusivo di Glyfada, presso la sede di Intellexa, l’azienda che ha venduto lo spyware Predator. Ma oggi al suo interno non c’è più nessuno: il personale, dopo una sommaria perquisizione degli uffici da parte delle autorità greche, ha fatto gli scatoloni e protetto dalla stessa riservatezza che ha accompagnato il suo arrivo due anni fa, ha abbandonato Atene. «Finché le autorità greche non condivideranno le informazioni, saremo costretti a comporre il puzzle con il materiale che abbiamo: e l’immagine emersa finora non è confortante», ha dichiarato l’europarlamentare Sophie in ‘t Veld durante una visita ad Atene con la commissione Pega, istituita per fare luce sull’utilizzo di spyware in Europa. E un tassello di questa costruzione in divenire conduce in Italia.
È l’ultimo capitolo di una storia che inizia con il giornalista Thanasis Koukakis, collaboratore del Financial Times, il primo a denunciare nella primavera scorsa di essere stato intercettato dai Servizi segreti greci nel 2020, mentre stava portando avanti indagini sull’evasione fiscale e l’emissione di fatture false in Grecia. Un anno dopo l’intercettazione dei Servizi segreti, Koukakis ha ricevuto un messaggio con Predator: per permettere che tutte le attività del suo cellulare venissero monitorate, è bastato cliccare sul link ricevuto da uno sconosciuto. La stessa trappola è stata tesa, pochi mesi dopo, all’europarlamentare e presidente del partito socialista del Pasok, Nikos Androulakis; vittima dello spyware, infine, è caduto anche il deputato di Syriza Christos Spirtzis: «Attraverso me volevano ascoltare Alexis Tsipras», ha dichiarato dopo avere presentato una denuncia nel settembre scorso.
Il premier conservatore Kyriakos Mitsotakis, responsabile di avere avocato a sé per legge la gestione dei Servizi segreti, ha negato ogni possibile uso di Predator da parte dello Stato e ha promesso di «sciogliere il groviglio di questo centro di spionaggio occulto». Le numerose rivelazioni della stampa greca tratteggiano invece uno scenario diverso: un parastato, vicino al premier, avrebbe utilizzato entrambe le modalità di spionaggio per controllare almeno cento persone tra politici, forze dell’ordine e giornalisti. Sotto la lente di ingrandimento del sito d’inchiesta Insidestory, con cui Koukakis collabora, sono finite due aziende: la già citata Intellexa e Krikel, rifornitrice ufficiale del ministero dell’Interno per quanto riguarda le tecnologie di sorveglianza e di interesse, secondo la stampa greca, dell’uomo d’affari Yannis Lavranos. A evidenziare un rapporto tra le due aziende sarebbe sia il movimento di fondi tra Krikel e Intellexa, nel 2020, sia un servizio di consulenza prestato dall’imprenditore Felix Bitzios, divenuto successivamente azionista di Intellexa, all’azienda rifornitrice dello Stato nel 2018. Secondo il quotidiano greco Efimerida ton syntakton, inoltre, Krikel sarebbe coinvolta in un probabile giro di fatture false, in base alle quali avrebbe effettuato transazioni per 5 milioni di euro con un’altra impresa ma i pagamenti bancari corrispondenti non risultano da nessuna parte.
«Yannis Lavranos appare come una figura mitica, soprattutto per ciò che su di lui non è stato detto», ha riportato il quotidiano: l’imprenditore afferma di vivere a Londra e avrebbe goduto di un accesso privilegiato sia ai precedenti governi di Nea Dimokratia che a quello di Syriza. Nel maggio di quest’anno, in un elegante centro ricevimenti fuori Atene, Lavranos ha organizzato il battesimo del proprio figlio: come padrino ha presenziato il nipote ed ex capo di gabinetto di Mitsotakis, Grigoris Dimitriadis, dimessosi quest’estate a seguito dello scandalo. A rendere il personaggio di Lavranos ancora più misterioso, contribuisce una carta di identità italiana, rubata e poi falsificata con una sua foto, che è stata rinvenuta dal sito d’inchiesta greco Reporters United. L’Espresso ha potuto verificare come il documento, il cui uso rimane sconosciuto, e nel quale Lavranos appare con il nome di Gianni Berti, sia stato rubato a Pompei nel 2012. Altre due carte di identità italiane che risultano rubate nei pressi di Napoli nello stesso anno sono state registrate, con i nomi di Antonio Sassi e Giorgio Antonelli, nel consiglio di amministrazione di un’altra società riconducibile a Lavranos, la Elektroum technologies, che dal 2017 non pubblica il bilancio nel registro delle imprese.
L’Espresso, in aggiunta, ha potuto visionare la copia di altre due carte di identità italiane rubate nel 2012 a Pompei e Ottaviano poi falsificate con le foto di persone ricollegabili alla cerchia di collaboratori di Lavranos.
Interpellata a proposito della vicenda, l’Agenzia delle entrate greca commenta: «La verifica dei documenti di cittadini europei viene effettuata solo in caso di sospetti di reato sulla base di una richiesta scritta alla rispettiva ambasciata». Contattato da L’Espresso, Lavranos afferma di avere presentato denuncia contro ignoti dopo essere venuto a conoscenza della carta di identità italiana con la propria foto e di non avere rapporti di partecipazione con Krikel, mentre a proposito di Elektroum ribadisce di non avere più legami con l’azienda da molti anni.
Un altro legame che sembra emergere tra il misterioso uomo d’affari e l’Italia risale al 2021, quando i Servizi segreti greci firmano un contratto per la fornitura di «sistemi moderni di intercettazione legale» con la milanese Rcs lab, azienda di punta del settore che vanta tra i suoi clienti anche le forze dell’ordine italiane. In base alle testimonianze raccolte da Insidestory di due funzionari che hanno partecipato alle trattative, una figura si sarebbe imposta «a rappresentanza degli interessi italiani»: Lavranos, considerato il «local partner» in Grecia di Rcs lab, mentre Krikel sarebbe stata l’azienda subappaltatrice del contratto.
L’Espresso ha chiesto a Rcs lab di commentare queste affermazioni, e ha ottenuto la seguente risposta: «Esistono specifici obblighi normativi e contrattuali che vincolano l’azienda al riserbo […] in ogni caso, si ritiene opportuno precisare che rientra tra le modalità operative di Rcs lab quella di fruire del supporto di partner tecnici locali per aspetti logistici, implementativi o di manutenzione […] qualora un partner non risultasse più idoneo a svolgere l’incarico, l’azienda provvederebbe alla tempestiva sostituzione». Lavranos, inoltre, ha smentito qualsiasi relazione con Rcs lab e ha denunciato una «spietata guerra di diffamazione del proprio nome».
Una commissione parlamentare d’inchiesta, istituita per indagare sulle intercettazioni, si è conclusa senza una relazione condivisa: l’opposizione ha infatti accusato i deputati di Nea Dimokratia di ostruzionismo, quando si sono opposti alla convocazione di personaggi considerati decisivi per la vicenda, come Lavranos. A seguito della chiamata della Commissione parlamentare per le Istituzioni e la Trasparenza, invece, Lavranos e Bitzios non si sono presentati sostenendo di risiedere all’estero e si sono detti disposti a rispondere per iscritto alle domande. L’unico a essere stato ascoltato è Dimitriadis, il nipote del premier, che ha negato ogni legame con l’utilizzo di Predator.
«Ogni ombra su questo caso deve essere allontanata prima delle elezioni» previste per la prossima primavera, ha invocato l’europarlamentare Sophie in ‘t Veld, ricordando come «sono di interesse non solo nazionale, ma anche europeo». Alla vigilanza di Bruxelles guardano con speranza i reporter greci, costretti a lavorare in un clima di crescenti intimidazioni, e i giovani, tra i più convinti che al pari del suo illustre americano, «il Watergate greco» debba concludersi con la scoperta dei responsabili.
Quei razzisti come gli austriaci.
Anche il Wiener Zeitung nato nel 1703. il giornale più antico del mondo dice “addio” alla carta e resta solo online. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Luglio 2023
Il quotidiano austriaco pubblicato per la prima volta nel 1703 non verrà più stampato e sopravviverà soltanto in versione digitale
Sopravvissuto a dieci imperatori e dodici presidenti il Wiener Zeitung, un quotidiano con sede a Vienna, non ce l’ha fatta a restare sostenibile con l’edizione cartacea, a causa dell’aumento dei costi fissi e la diminuzione in picchiata dei lettori e della raccolta pubblicitaria. E dopo 320 anni di pubblicazioni Il giornale più antico del mondo ha stampato la sua ultima edizione cartacea . L’editore ha così deciso di non stampare più il quotidiano, lasciando solo il prodotto on line, sul sito con l’obiettivo di distribuire una edizione cartacea a cadenza mensile.
Il giornale aveva iniziato a pubblicare nell’agosto 1703. Il titolo di giornale più antico del mondo è conteso con la Gazzetta di Mantova, pubblicata per la prima volta nel 1664. Mentre la London Gazette, gazzetta ufficiale del governo britannico che non riporta le notizie, risale al 1665.
Nel 1768 ll Wiener Zeitung diede notizia ai propri lettori di un concerto particolare, avente come protagonista un bambino di 12 anni “particolarmente talentuoso”. Il suo nome era Wolfgang Amadeus Mozart. E quando l’Austria fu sconfitta nella prima guerra mondiale, il giornale pubblicò un’edizione speciale con la lettera di abdicazione dell’ultimo imperatore asburgico, il Kaiser Karl.
Nella sua ultima edizione cartacea ha pubblicato un editoriale che giudica negativamente la nuova legge sulle inserzioni pubblicitarie voluta dal governo che di fatto ha posto fine alla sua tiratura. “Non è stata una misura tempestiva per il giornalismo di qualità, considerando che su un numero crescente di piattaforme i contenuti seri si rincorrono con notizie false, video di gatti e teorie del complotto”. La scelta di interrompere la pubblicazione cartacea. infatti è arrivata a seguito di una discussa legge del governo che prevede l’abolizione delle inserzioni obbligatorie: nel caso della Wiener Zeitung, si trattava delle notizie aziendali nella sezione “gazzetta ufficiale”.
Gli annunci garantivano alla casa editrice 18 milioni di euro all’anno, ma in base a una direttiva dell’Ue – come sottolinea lo Spiegel – questi ora possono essere fatti soltanto in formato digitale. Senza questa fonte di reddito, la principale del giornale, l’editore è arrivato alla conclusione che la Wiener Zeitung non era più redditizia come prodotto stampato. Da qui la scelta di interrompere. Di tanto in tanto, in futuro appariranno anche edizioni cartacee, ma il prodotto e l’intervallo di pubblicazione sono ancora “in fase di sviluppo”, ha detto l’amministratore delegato Martin Fleischacker.
La sua distribuzione contava ad aprile 20.000 copie giornaliere, anche se il numero raddoppiava nei fine settimana. Durante i suoi tre secoli di vita il giornale ha avuto solo una pausa forzata. Dopo che l’Austria fu incorporata alla Germania di Hitler: il giornale fu chiuso dai nazisti nel 1939. Nel 1945 ricominciò a stampare. Il Wiener Zeitung non morirà definitivamente, proseguendo la propria attività sulla piattaforma digitale. Anche la redazione subirà un cambiamento, con una riduzione del numero dei giornalisti che scenderà a 20. Redazione CdG 1947
"Vedova cerca anziano benestante": i soldi, la trappola e la scia di sangue. Almeno dieci vittime, l’ossessione per il gioco d’azzardo e nessun pentimento: la storia della vedova nera austriaca che odiava gli uomini. Massimo Balsamo l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'odio per gli uomini
L'ossessione per il gioco
La prima vittima
Elfriede Blauensteiner, la vedova nera austriaca
L'arresto
Il processo e la morte
Si può diventare serial killer anche dopo aver superato i 50 anni. I casi sono pochi, pochissimi, ma sono notevoli. Nell'elenco spicca sicuramente il nome di Elfriede Blauensteiner: l'assassina seriale austriaca è stata tra le vedove nere più spietate in Europa e ha fatto molto parlare di sé, non solo per gli orribili delitti. Dall'ossessione per il gioco d'azzardo alle piazzate in tribunale, passando per le citazioni religiose e i continui cambi di versione: la viennese regalato parecchio materiale per la realizzazione di libri, film e addirittura opere teatrali. Mettendo da parte il personaggio, il bilancio è nitido: condanna per tre omicidi, ma il numero sale (almeno) a 10 vittime tra confessioni e indagini postume.
L'odio per gli uomini
Elfriede Blauensteiner nasce a Vienna il 22 gennaio del 1931 in una famiglia molto povera. I disagi sono tanti, sia per lei che per i cinque fratelli. In realtà della sua infanzia e della sua adolescenza si sa poco, perché le principali informazioni riguardano la seconda parte della sua vita. Come anticipato, la vedova nera austriaca inizia a compiere i primi atti criminali superati i 50 anni, ma in realtà la prima svolta della sua esistenza arriva prima, con la nascita della figlia e la successiva separazione dal primo marito. Sarà lei stessa a confermarlo: "In quel momento ho iniziato a odiare gli uomini".
L'ossessione per il gioco
La rottura con il primo marito segna la sua vita e da quel momento inizia a nutrire un sentimento di disprezzo nei confronti dell'altro sesso, come testimoniato dal bilancio delle sue vittime: tutti uomini, a eccezione di una donna, ammazzata per motivi economici. Meritano di morire, il ragionamento di Elfriede Blauensteiner. Ma non solo: l'altro movente è la necessità di denaro. L'austriaca è ossessionata dal gioco d'azzardo, una fissazione cresciuta in maniera esponenziale con il passare degli anni.
La prima vittima
Elfriede Blauensteiner firma il primo delitto nel 1981. Convolata a nozze con Friedrick Doecker, la donna possiede una casa di vacanze sul lago di Salisburgo ed è lì che commette l'omicidio. In questo caso però non c'è movente economico: la donna ammazza il custode della sua residenza. Il motivo? Gli abusi perpetrati nei confronti della moglie e dei figli. Una rivalsa contro gli uomini, a testimonianza dell'odio provato nei confronti dell'altro sesso a partire dal divorzio con il primo marito. Il primo crimine di una lunga serie.
Elfriede Blauensteiner, la vedova nera austriaca
Sempre più dipendente dal gioco, Elfriede Blauensteiner va spesso a giocare al casinò di Baden-Baden e sfrutta diversi pseudonimi. Una vera e propria patologia che la porta a derubare le vittime di somme sempre più ingenti. Dopo il portiere del suo stabile, inizia a uccidere per soldi: prima falsifica il testamento e poi uccide attraverso arsenico e farmaci antidiabetici una coppia di anziani suoi vicini di casa.
Nel 1992 il secondo marito muore dopo dieci giorni di coma - la serial killer non viene condannata, ma molti non credono al decesso per cause naturali - ed Elfriede Blauensteiner inizia a mettere delle inserzioni sui giornali, proponendosi come governante di uomini anziani e soli. "Vedova sessantaquattrenne, amante casa e giardinaggio, cerca anziano benestante, fine amicizia", il testo di un annuncio riportato da Ruben De Luca nel suo libro "Serial killer".
Poco dopo è il turno di un amico: l'uomo, un sessantacinquenne, viene ucciso in ospedale. Le aveva appena regalato una casa. Poco dopo, sempre nel 1995, è la volta di un altro anziano, il settantasettenne Alois Pichler, questa volta conosciuto attraverso un giornale di annunci personali. Il modus operandi è sempre lo stesso sopra citato: Elfriede Blauensteiner utilizza il farmaco Euguclon combinato con un antidepressivo. Una tecnica particolare ma infallibile.
Milena Quaglini, la storia della vedova nera del Pavese
L'arresto
L'omicidio di Pichler costa caro a Elfriede Blauensteiner. Assetata di denaro, prima di ucciderlo con un mix letale decide di falsificare il suo testamento per intascare l'eredità. Un dettaglio che indispettisce i parenti dell'uomo, in particolare il nipote, che decide di fare chiarezza. Scattata la denuncia, la polizia indaga sulla vicenda e scopre tutto, compreso il testo modificato all'insaputa della vittima. La vedova nera di Vienna viene arrestata l'11 gennaio del 1996.
Il processo e la morte
Il processo contro la serial killer parte un anno più tardi, nel febbraio del 1997. In quel preciso momento Elfriede Blauensteiner inizia a manifestare comportamenti a dir poco strani: prima confessa con freddezza il delitto contestato, poi ne rivela altri, poi smentisce tutto e ritratta. Ma non solo. Alle udienze in tribunale sfoggia mise e atteggiamenti sopra le righe. Esemplare un suo intervento con un crocifisso d'oro al collo: “Lavo nell'innocenza le mie mani”, citando Ponzio Pilato nel Nuovo Testamento.
Il 7 marzo del 1997 Elfriede Blauensteiner viene condannata all'ergastolo. Nel 2001 viene condannata nuovamente per altri due omicidi. Tre in tutto i delitti "ufficiali", ma tra confessioni e ricostruzioni degli esperti il bilancio è almeno di dieci vittime. Nonostante l'atteggiamento spavaldo in tribunale, la donna ammette di sperare di tornare in libertà e, perché no, di trovare un nuovo amore. Non realizzerà nulla di tutto ciò: muore il 18 novembre del 2003 in un ospedale di Vienna a causa di un tumore.
La vera storia del video di Ibiza che fece cadere l’estrema destra in Austria (e il dubbio processo al suo autore). Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023
La vendetta di una ex guardia del corpo, una ridicola dimenticanza che fece fallire la prima trappola, l'ingenuità inaudita di un leader di partito: le nuove rivelazioni dietro al video di Ibiza, uno dei più clamorosi scandali politici in Europa degli ultimi anni
La vendetta di un’ex guardia del corpo, un investigatore privato senza scrupoli, una prima trappola fallita per una dimenticanza ridicola, l’incredibile ingenuità di un leader di partito, una dubbia condanna per droga al detective che dava fastidio alla politica austriaca.
Le nuove rivelazioni sullo scandalo del video di Ibiza mostrano cosa c’era dietro un intrigo senza precedenti nella storia recente dell’Europa. E che a lungo era rimasto un mistero.
Lo scandalo del video di Ibiza, una trappola che nel 2019 ha portato alla caduta del governo austriaco con l’estromissione del partito di estrema destra FPÖ, allora guidato da Hans-Christian Strache, è stato uno dei più gravi scandali politici europei degli ultimi anni.
A lungo nessuno era stato in grado di scoprire chi l’avesse organizzato. Poi la rivelazione: l’autore della trappola era l’ex detective privato Julian Hessenthaler, che nel 2017 aveva invitato Strache e uno dei suoi colleghi di partito in una lussuosa villa a Ibiza per l’incontro — da lui filmato di nascosto — con una sedicente nipote di un oligarca russo.
Il video mostrava Strache, che allora era solo il leader dell’FPÖ, il Partito della Libertà Austriaco, ma che dopo pochi mesi sarebbe diventato vice-cancelliere dell’Austria nel primo governo di Sebastian Kurz (il giovane leader del Partito popolare austriaco, nel frattempo anche lui caduto in disgrazia per accuse di corruzione), mentre parlava di favori in cambio di appalti pubblici con la sedicente nipote dell’oligarca, in realtà un’attrice pagata da Hessenthaler.
Strache e il suo stretto collaboratore Johann Gudenus le promettevano ricchi appalti statali in cambio del sostegno (illegale) al loro partito e in particolare le chiedevano di comprare il lettissimo tabloid Kronen Zeitung e di usarlo per sostenerli in campagna elettorale.
Il video venne pubblicato dai media tedeschi Spiegel e Süddeutsche Zeitung due anni dopo la sua registrazione e portò alla crisi del primo governo di Sebastian Kurz.
Poco dopo il suo autore Julian Hessenthaler è finito sotto inchiesta in Austria per traffico di droga. E il 30 marzo dell’anno scorso è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere sulla base di testimonianze contraddittorie. Adesso è stato rilasciato in libertà condizionata e ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) per ingiusto processo, in cui afferma che «autorevoli funzionari del Ministero degli Interni e del Ministero della Giustizia austriaci» e dell’Ufficio Federale di Polizia Criminale «prima e dopo la pubblicazione del video di Ibiza» hanno tentato di «metterlo a tacere» «perseguendolo per reati legati alla droga».
Il sito tedesco di giornalismo Correctiv lo ha intervistato subito dopo il rilascio e ha ricostruito la vicenda, trovando elementi critici nel modo in cui la giustizia austriaca ha portato avanti l’indagine e il processo a Hessenthaler.
Finora nessuno conosceva le motivazioni di Hessenthaler nell’organizzare la trappola. L’idea del video di Ibiza, ha raccontato lui a Correctiv, è nata dall’incontro con l’avvocato di una ex guardia del corpo del leader dell’FPÖ Strache. Il bodyguard si era ammalato di cancro ed era stato licenziato e voleva vendicarsi di Strache. L’investigatore privato Julian Hessenthaler era specializzato in indagini su criminalità organizzata e traffici internazionali per contro di aziende private e autorità statali. «L’avvocato — spiega Correctiv— aveva ottenuto documenti e foto incriminanti dalla guardia del corpo e ora stava cercando altro materiale contro Strache». Per questo aveva contattato Hessenthaler proponendogli di organizzare una messinscena ai danni del leader dell’FPÖ. «Hessenthaler, il detective, avrebbe dovuto tendere una trappola a Strache e al suo entourage per dare maggiore credibilità ai documenti incriminanti della guardia del corpo. Hessenthaler ricorda di aver detto: “Se fai sul serio, devi solo mettere dei soldi”». L’avvocato ha confermato a Correctiv di aver pagato per organizzare il tranello.
Hessenthaler quindi usa il suo contatto con Johann Gudenus, l’allora vicesindaco di Vienna e sodale di Strache, e gli propone di vendere alla «nipote di un oligarca russo» un terreno di Gudenus a un prezzo gonfiato. La messinscena funziona ma Hessenthaler commette un errore da dilettante: dimentica le schede di memoria nelle telecamere nascoste.
Decide allora di organizzare in sole 48 ore un altro agguato. «Se siamo riusciti a farlo una volta, potevamo farlo una seconda volta», dice nell’intervista a Correctiv. Prepara tutto il più velocemente possibile, per evitare che Strache e Gudenus facciano dei «controlli». «La nostra messinscena non avrebbe resistito», ammette. Con il senno di poi è questo uno degli elementi più incredibili della vicenda: che Strache, leader di un partito nazionale, già consapevole del fatto che sarebbe stato uno dei vincitori delle successive elezioni, e futuro vicecancelliere austriaco, sia stato così ingenuo da non aver fatto verifiche sulla donna a cui chiedeva soldi e sostegno in cambio di appalti.
Ma lo è stato: Strache e Gudenus incontrano la sedicente nipote dell’oligarca e cercano di convincerla ad acquistare la Kronen Zeitung. Hessenthaler stavolta non fa errori e registra tutto. Per due anni tiene il video riservato, poi contatta la Süddeutsche Zeitung e lo Spiegel che nel maggio 2019 lo pubblicano, scatenando un terremoto politico.
Kurz prima licenzia tutti i ministri dell'estrema destra, poi indice elezioni anticipate che stravince (salvo doversi dimettere travolto da un altro scandalo due anni dopo), intanto la carriera politica di Strache è finita e anche il suo partito viene ridotto alla marginalità.
Rimane inizialmente il mistero su chi ha organizzato la trappola e sul perché abbia rivelato il video solo due anni dopo.
A Vienna viene istituita una commissione d’inchiesta speciale, la «Soko Tape» per indagare sulla vicenda. In molti temono il coinvolgimento dei servizi segreti stranieri, si ipotizza che poteri forti abbiano voluto estromettere Strache, considerato un elemento di debolezza per il governo conservatore di Kurz e i suoi alleati in Europa. Viene individuato l’investigatore privato Hessenthaler. La verità, secondo quanto dice lui (e conferma l’avvocato che dice di averlo incaricato di organizzare a trappola), sarebbe molto più banale e legata alle rivendicazioni di un ex dipendente dell’FPÖ di Strache licenziato quando era malato.
Le indagini, inoltre, svelano che Hessenthaler non ha commesso reati secondo la legge austriaca.
La vicenda sembra conclusa.
Pochi mesi dopo però la polizia austriaca arresta un uomo che con la compagna viene trovato in possesso di cocaina: è un dipendente di Hessenthaler. I due diventano anche i suoi principali accusatori. «Il testimone dell’accusa Slaven K. era un dipendente di Hessenthaler, ma a quanto pare era anche un informatore dell’Ufficio federale di polizia criminale austriaco —racconta Correctiv —. E aveva ricevuto denaro per raccogliere informazioni su Hessenthaler. Hessenthaler afferma inoltre di aver incontrato più volte Slaven K. in un rifugio bavarese, perché sperava che quest’ultimo potesse passare informazioni sul video di Ibiza alle autorità di Vienna». La polizia austriaca invece accusa Hessenthaler di traffico di droga: lo fa arrestare mentre si trova a Berlino, ne ottiene l'estradizione e lo fa condannare a tre anni e mezzo.
Il processo, scrive Correctiv, dà adito a molti dubbi. «I verbali degli interrogatori e le motivazioni del verdetto sono contraddittori — spiega il sito di giornalismo investigativo —. Un esempio: la fidanzata di Slaven K., che era la seconda testimone nel procedimento contro Hessenthaler, durante l’interrogatorio ha dichiarato di aver trattato aggressivamente Hessenthaler. Nel verbale dell’interrogatorio, la donna afferma di aver “messo Hessenthaler sotto torchio”. E ancora: “Julian si agitava”. Solo quando la testa di Hessenthaler è diventata “bordeaux”, la donna lo ha lasciato andare, secondo la trascrizione dell’interrogatorio ottenuta da Correctiv. Il giudice ha poi ribaltato la scena nel verdetto: non è stata la donna a bloccare Julian Hessenthaler, ma è stato Hessenthaler a “metterla in guardia e a bloccarla”, secondo le motivazioni del verdetto. Le trascrizioni dell’interrogatorio e le motivazioni della sentenza sono contraddittorie ». Non solo: la corrispondenza tra Hessenthaler e il suo avvocato è stata intercettata dalle autorità mentre il primo si trovava in custodia cautelare in carcere, e poi trasmessa alla Procura. Anche lo studio del suo avvocato berlinese Johannes Eisenberg è stato messo sotto sorveglianza. E adesso Hessenthaler, che è stato rilasciato all’inizio di aprile, ha fatto ricorso alla Cedu perché ritiene violati i suoi diritti alla difesa e a un giusto processo.
Correctiv ha verificato quello che poteva verificare della versione di Hessenthaler, che ha dimostrato di essere senza scrupoli e di muoversi in una zona grigia della legge. E l’ha trovata credibile («Solo chi si muove negli abissi dello Stato può rivelare al resto del mondo ciò che vi accade» scrivono i giornalisti del sito). Intanto la politica austriaca ha dimostrato di essere teatro di altri intrighi ed episodi di corruzione.
Estratto dell'articolo di Rita Monaldi Francesco Sorti per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.
È l'«estate, fredda, dei morti ». Così viene da ribattezzare, con lugubre parallelo mutuato da Pascoli, la stagione sciistica in corso in Austria. Temperature primaverili, più adatte a molli passeggiate che a slalom sui ghiacciai, dove ormai la neve è all'80% artificiale e, sparata dai cannoni la sera, per il pomeriggio del giorno seguente già scivola verso il centro delle piste e quella poca che resta ai bordi gela, preparando insidie mortali.
Questo inizio 2023 registra la cifra di incidenti letali più alta da dieci anni ad oggi. Numeri terrificanti, li definisce la Orf , la tv pubblica austriaca, mostrando un grafico che confronta i dati di novembre- dicembre dell'ultimo decennio e schizza in alto per il 2022. Il colpo più duro è arrivato il 28 dicembre a Waidring, due passi dalla tirolese Kitzbühel. Due amiche diciassettenni. La curva un po' troppo veloce le ha portate entrambe fuori pista, un volo di 50-60 metri e lo schianto.
Una duplice morte sul colpo. (…)
Già 13 incidenti mortali, di cui 11 in Tirolo, dall'inizio della stagione sciistica. Le cifre sono «vistose», commenta preoccupato il quotidiano viennese Der Standard (il tutto senza calcolare slavine e cadute degli alpinisti). Fino ad ora tenuti "bassi" dai media, confinando i singoli casi più nella stampa regionale che in quella nazionale, gli incidenti sono quasi vorprogrammiert , fanno quasi parte del programma, ammette Viktor Horvath, dirigente della polizia alpina tirolese.
Ma perché le piste non sono state chiuse di fronte a tante morti? Risposta del soccorso alpino austriaco: «Quando ci sono incidenti in autostrada, si chiude forse il traffico auto?». Ma le autostrade sono infrastrutture essenziali, una sciata con la famiglia invece no. La Ökas, l'osservatorio della sicurezza alpina, cerca di tranquillizzare dando allo Standard le cifre complessive dei morti in montagna, che sarebbero in calo: al 30 dicembre «sono morte 265 persone, l'anno precedente nello stesso periodo erano state 313». (…)
Dove la neve scarseggia, spuntano le rocce. In molte zone è ormai quasi tutta artificiale, sparsa con i cannoni sparaneve. Ma la crisi energetica ha fatto esplodere prezzi di skilift, illuminazione e...cannoni. A Kitzbühel si è proposto di spegnere l'illuminazione pubblica alle 22, e tutti a letto.
Che ci sia qualche ragione economica per la scarsità di neve sulle piste?
La Alpinpolizei intanto indaga sulle troppe morti, si attendono le perizie e i referti medici.
Quei razzisti come i croati.
Nuovo inizio. La Croazia cresce perché ha capito che il futuro passa dall’euro e dalla libera circolazione. Riccardo Piccolo su L’Inkiesta il 4 Gennaio 2023.
Zagabria festeggia il 2023 con un doppio traguardo: adozione della moneta unica e ingresso nell’area Schengen. È entrata nell’Ue per ultima, nel 2013, ma le riforme le hanno permesso di superare Paesi più avanti. Ora è chiamata a presidiare (con meno brutalità) i confini esterni dell’Ue
Per festeggiare l’anno nuovo, il primo gennaio, il governatore del principale istituto finanziario croato Boris Vujčić – come ogni banchiere che si rispetti – si è recato in filiale nel centro di Zagabria, e ha prelevato una banconota da cinquanta euro. Ritirandola dal distributore Atm, sorridente davanti alla stampa, ha detto: «In questi tempi incerti l’euro offrirà ulteriore stabilità all’economia croata e faciliterà la crescita».
L’ingresso della Croazia nell’Eurozona e nell’area Schengen è un evento storico per il Paese e rappresenta un importante passo verso una maggiore integrazione europea, che quest’anno festeggia il trentennale del mercato unico. Dopo anni di negoziati e di adempimento dei criteri di convergenza, lo Stato balcanico ha fatto il grande passo adottando la moneta unica – entrata in vigore proprio il primo di gennaio – e potendo accedere all’area di libera circolazione senza controlli alle frontiere.
«Euro e area di libero transito potrebbero aiutare anche le zone arretrate della Croazia, come l’entroterra dalmata», afferma Goran Saravanja, capo economista della Camera di commercio croata, ribadendo che «la prospettiva europea per la Croazia è incredibilmente importante». Infatti economisti e osservatori di Reuters sono concordi nel sostenere che l’euro porterà vantaggi al turismo e ulteriore stabilità all’economia del paese, in una fase di alta inflazione (a novembre era al 19,5 per cento) e tassi di interesse in aumento.
A festeggiare il grande evento c’è anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha detto: «Credo che in questo primo gennaio non ci sia posto migliore in Europa per celebrare un nuovo inizio e un nuovo capitolo se non qui, al confine tra Croazia e Slovenia». Al valico di Bregana-Obrezje, che oggi non è più frontiera, la guida dell’esecutivo europeo è stata raggiunta dal primo ministro croato, Andrej Plenkovic, che le ha offerto un caffè pagando in euro, e la neopresidente slovena, Natasa Pirc Musar.
I nuovi euro croati (foto: Christophe Licoppe/EU)
Sulla nuova moneta da un euro il bel disegno scelto raffigura una martora (tra gli animali simbolo del Paese, che dava il nome alla vecchia valuta) stilizzata su uno sfondo a scacchiera degli artisti Jagor Šunde, David Čemeljić e Fran Zekan. A fare discutere invece è stata la raffigurazione prescelta per le monete da dieci, venti e cinquanta centesimi. Infatti, il profilo di Nikola Tesla tracciato dal designer Ivica Družak ha causato tensioni con la Banca nazionale serba, che ha accusato la controparte croata di «usurpare il patrimonio culturale e scientifico del popolo serbo», poiché Tesla, pur essendo nato in quella che oggi è la Croazia, era però di etnia serba.
Il lungo cammino verso la moneta unica
Tutto è cominciato nel 2000 con l’arrivo al governo a Zagabria delle forze europeiste e democratiche, dopo gli anni Novanta segnati dalla sanguinosa disgregazione della Jugoslavia e la conseguente de-industrializzazione. A peggiorare lo stato delle cose, in quegli anni, contribuirono una forte disoccupazione e l’insufficienza delle riforme economiche. In particolare, preoccupanti erano la stasi del sistema giudiziario e l’inefficienza della pubblica amministrazione (soprattutto in materia di proprietà privata).
Da allora i progressi dal punto di vista economico e sociale sono stati molti. Nel febbraio 2005, la Croazia ha sottoscritto il Patto di Stabilità, Crescita e Sviluppo dell’Ue e ha fatto sostanziali passi in avanti verso la completa adesione. Dopo avere aderito nel 2009 alla Nato, è stata l’ultima new entry dell’Ue, in cui è entrata nel 2013.
Diventa ora il ventesimo membro dell’Eurozona, che si allarga per la prima volta dal 2015, quando vi aderì la Lituania. Come prescrive il trattato di Maastricht, la Croazia, prima di entrare nell’eurozona, ha dovuto soddisfare i criteri di convergenza. L’adesione all’Erm II (il meccanismo di cambio erede del Sistema monetario europeo) il 10 luglio 2020 ha fissato stabilmente all’euro il tasso di cambio della kuna, la vecchia moneta locale.
Da quel momento la prima data consentita per l’adozione dell’euro, che richiede due anni di partecipazione all’Erm, era il 10 luglio 2022. Da subito molte piccole imprese in Croazia hanno cominciato convertire in euro i loro conti e perfino i privati hanno iniziato a utilizzare la moneta europea per la maggior parte dei risparmi e molte transazioni informali.
Un Paese in crescita
«Abbiamo recuperato nei confronti dei Paesi occidentali che hanno aderito all’Ue quasi un decennio prima di noi», ha detto il premier Andrej Plenkovic, aggiungendo che «la Croazia sta ancora cercando di raggiungere gli stessi standard economici e sociali, i livelli di investimento e il clima imprenditoriale delle nazioni più avanzate dell’Ue».
Nel superare le resistenze degli euroscettici, Zagabria, come prima successe per Lubiana, ha potuto contare sulla vicinanza geografica al blocco comunitario, su una società (in larga maggioranza cattolica) più orientata verso Ovest rispetto alla Serbia (ortodossa), oltreché sulla forza del turismo, che vale il venti per cento del Pil e ha garantito, con gli arrivi dall’estero, un costante miglioramento del tenore di vita nel Paese.
Secondo le stime di Reuters la crescita economica del 5,7 per cento prevista quest’anno dovrebbe scendere allo 0,7 per cento nel 2023, mentre il debito pubblico dovrebbe essere ridotto al 67,9 per cento del Pil dal 70,2 per cento di quest’anno. La spesa è fissata a 26,7 miliardi di euro dal governo, in aumento di 2,1 miliardi di euro rispetto a quest’anno, a causa di un aumento dei programmi sociali e di sviluppo degli istituti pubblici. L’inflazione, stimata al 10,4 per cento quest’anno, dovrebbe scendere al 5,7% nel 2023.
Le autorità di Zagabria prevedono una forte crescita economica nei prossimi anni, considerando che attualmente il Paese soffre a causa del deficit della bilancia commerciale e del debito pubblico. Alcune grandi compagnie commerciali hanno già beneficiato della liberalizzazione del mercato croato, mentre si attende una forte espansione della produzione grazie ad un incremento degli investimenti.
Nuovi confini europei
Per il Paese, l’area Schengen significherà anche probabilmente una maggiore pressione migratoria. Riuscire a entrare nella nazione, che adesso è una porta verso il resto dell’Unione, diventerà un obiettivo ancora più ambito. L’avvicinamento a Schengen non è stato semplice per la Croazia, che condivide un confine di mille chilometri con la Bosnia-Erzegovina, in un’area che – come dimostrano le candidature bocciate di Bulgaria e Romania – è attraversata da traffici di persone e droga.
Il problema si concentrerà però soprattutto sul confine con la Serbia. Belgrado ha sottoscritto con diverse nazioni del mondo accordi di liberalizzazione dei visti che ne fanno una meta per accedere in Europa e provare poi a entrare irregolarmente nell’Ue.
Adesso però saranno aboliti tutti i controlli ai confini terrestri con la Slovenia e l’Ungheria, e quelli marittimi con l’Italia, mentre per il traffico aereo si dovrà aspettare marzo. «Questo è un momento storico e va festeggiato», ha dichiarato il ministro degli Esteri, Goran Grlic Radman, aggiungendo che da oggi la Croazia si assume anche «la grande responsabilità per la protezione di più di 1.300 chilometri del confine esterno dell’Ue».
Quei razzisti come i kosovari.
Chi è Albin Kurti, il Che Guevara dei Balcani: l’attivismo, il carcere e la guida del Kosovo. Federica Woelk su Il Riformista il 6 Novembre 2023
Albin Kurti è il Che Guevara dei Balcani. Basta questo per capire la sua personalità; ma di certo non basta per capire come un attivista politico come lui sia riuscito, nel giro di qualche anno, a diventare primo ministro e ad avere più del 50% dei consensi (dati del 2022). Una popolarità come la sua si vede raramente, soprattutto nei Balcani, soprattutto a livello personale, non solo politico.
Per capire il suo percorso politico, bisogna conoscere il suo percorso personale e le sue posizioni sia sul tema dell’indipendenza kosovara (e della sua sovranità), sia le posizioni cambiate nel tempo (come quello dell’unificazione tra Kosovo e Albania, ad esempio).
Kurti è e rimane un sostenitore dell’autodeterminazione del suo popolo. È conosciuto principalmente per le sue proteste “creative”, e per il suo battersi in prima persona per le battaglie che contano.
Partiamo dall’inizio: Albin Kurti è nato a Pristina nel 1975. Si è laureato nel 2003 in Ingegneria delle telecomunicazioni e informatica presso la Facoltà di ingegneria dell’Università di Pristina. Ha sia la cittadinanza kosovara che quella albanese.
Albin Kurti è salito alla ribalta nell’ottobre 1997, come uno dei leader delle proteste studentesche in Kosovo. Gli studenti albanesi protestavano contro l’occupazione del campus dell’Università di Pristina da parte della polizia jugoslava. L’occupazione era iniziata nel 1991 e aveva portato il personale accademico e gli studenti di etnia albanese a dover utilizzare luoghi alternativi per le loro lezioni, poiché la legge serba vietava loro di utilizzare i locali dell’università per via dell’uso della lingua albanese. Le proteste furono represse con violenza, ma gli studenti e Kurti non interruppero la resistenza e organizzarono altre proteste nei mesi successivi. Nel luglio 1998, Kurti collaborò come assistente del rappresentante politico Adem Demaçi, vicino al gruppo UÇK. Queste azioni lo resero un bersaglio della polizia jugoslava, perché l’UÇK, l’Esercito di liberazione del Kosovo (ELK), è stata un’organizzazione paramilitare kosovaro-albanese e ha oggi una reputazione molto controversa (per il sospetto di coinvolgimento di alcune sue unità in crimini di guerra).
Nell’aprile 1999, durante i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia, Kurti è stato arrestato e duramente picchiato dalle forze jugoslave. In un primo momento è stato inviato alla prigione di Dubrava ma, con il ritiro dell’esercito serbo dal Kosovo, il 10 giugno 1999 è stato trasferito in una prigione di Požarevac. Più tardi, nello stesso anno, è stato accusato di “mettere a repentaglio l’integrità territoriale della Jugoslavia e di cospirare per commettere un’attività nemica legata al terrorismo” ed è stato condannato a 15 anni di carcere.
Molteplici testimonianze di albanesi in prigione con lui raccontano di come fosse coraggioso, e di come lo abbiano torturato quasi a morte per farlo parlare, ma di come non si sia mai piegato. Anche questo lo ha reso così popolare; la sua resilienza e la sua calma sono i suoi tratti caratteristici.
Nel 2000, le manifestazioni a sostegno del rilascio di Albin Kurti dalla prigione di Niš, in Serbia, erano estese. Anche Amnesty International ha rilasciato diverse dichiarazioni a suo sostegno; e anche il Parlamento europeo ha contribuito ad aumentare la pressione per il rilascio.
Fu liberato nel dicembre 2001 dal governo post-Milošević dietro spinta delle pressioni internazionali. Dalla sua liberazione, restò fuori della politica, ma fu un critico severo della Missione di Amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo (UNMIK) e della corruzione imperante nel paese. Organizzò proteste non violente a sostegno delle famiglie i cui parenti scomparvero durante la guerra e in favore dell’autodeterminazione politica del Kosovo. Fu attivista per la Action for Kosovo Network (AKN), costituita nel 1997, movimento che si dedica a diritti umani, giustizia sociale, istruzione, cultura e arte.
Albin Kurti è anche il leader del movimento Lëvizja Vetëvendosje! (ossia Movimento per l’Autodeterminazione! in albanese, noto come VV o LVV) fondato nel 2005; ha sede a Pristina. È un partito di ideologia radicale, che si oppone alle ingerenze straniere negli affari interni del Kosovo e propone il diretto esercizio della sovranità del popolo come elemento di autodeterminazione.
Si è presentato alle elezioni parlamentari per la prima volta il 12 dicembre 2010, raccogliendo 88.652 voti, pari al 12,69% dei suffragi, divenendo con 14 seggi su 120 la terza forza politica del paese alle spalle del Partito Democratico del Kosovo e della Lega Democratica del Kosovo. Quattro anni più tardi, alle elezioni politiche dell’8 giugno 2014 il partito, guidato da Albin Kurti, ha visto aumentare i propri consensi raccogliendo 99.397 voti, pari al 13,59%, che gli hanno garantito la permanenza in parlamento come forza d’opposizione con 16 seggi. La svolta arriva nel 21 febbraio 2021, quando il partito di Kurti vince le elezioni col 50,28% dei voti.
Questo risultato esprime un collegamento molto forte tra il partito e i cittadini e il forte supporto della popolazione alla persona di Kurti, in forte contrasto con il vecchio sistema politico (e la corruzione che aveva come corollario).
Ad oggi il governo di Kurti ha lavorato tantissimo sullo stato di diritto; di conseguenza, la corruzione, problema cruciale per il paese, è diminuita (secondo la relazione annuale della Commissione europea). Anche l’altra priorità del governo, quella di aumentare l’occupazione, è in piena fase di sviluppo.
Pur essendo primo ministro, Kurti mantiene ancora il suo spirito da attivista; il suo motto, “law and justice”, caratterizza il suo mandato e il suo programma.
Nel dialogo con la Serbia, Kurti ha sempre tenuto una posizione molto dura, comprensibilmente: per “normalizzare” i rapporti fra i due paesi, prima la Serbia deve riconoscere il Kosovo, poi si discuterà del resto. Kurti insiste molto anche sull’ottenere informazioni dalla Serbia sui più di 1.000 kosovari-albanesi scomparsi. Ma la Serbia su questo continua a negare di avere informazioni.
Questo articolo nasce da un mio recente viaggio in Kosovo in cui ho avuto l’onore di incontrare il primo ministro Kurti e di poter confermare l’idea che mi ero fatta di questo politico kosovaro.
Il primo ministro Albin Kurti è già parte della storia del Kosovo; del passato, del presente ed anche del futuro. Tramite le sue lotte per un Kosovo migliore, più giusto, e democratico, è riuscito ad arrivare al governo dove sta attuando alcune riforme che il paese aspettava da tanto. Sta cercando di trasformare il Kosovo per riuscire a prepararlo per l’ingresso nell’Unione europea. La liberalizzazione dei visti, prevista per il 1 gennaio 2024, è una grande conquista. Un altro passo importante, la domanda di adesione al Consiglio di Europa, è a metà strada; se compiuto porta avanti il Kosovo come paese riconoscendo i progress fatti negli ambiti della democrazia, dello stato di diritto, e della visione politica complessiva. L’Unione europea deve decidere se intende premiare questi cambiamenti positivi, oppure se continuare a preferire di dare corda a un autocrate, Aleksandar Vucic, Presidente della Serbia, che va contro i valori europei, con le parole e con le sue azioni.
Albin Kurti ha avuto un passato difficile. Ma ha visione e energia da riuscire a trasformare le sue difficoltà (anche personali) in punti di forza. Da attivista a primo ministro è figura stimata, riconosciuta e sostenuta nel paese. Avremmo bisogno di più politici del genere, nei Balcani, ma anche in Europa.
Federica Woelk.
Nata a Trento, laureata in Scienze Politiche all’Universitá di Innsbruck, ho due master in Studi Europei (Freie Universität Berlin e College of Europe Natolin) con una specializzazione in Storia europea e una tesi di laurea sui crimini di guerra ed elaborazione del passato in Germania e in Bosnia ed Erzegovina. Sono appassionata dei Balcani e della Bosnia ed Erzegovina in particolare, dove ho vissuto sei mesi e anche imparato il bosniaco.
Instabilità cronica. I disordini in Kosovo e il fallimento della politica estera continentale della sinistra europea. Carlo Panella su L'Inkiesta il 31 Maggio 2023
Lo Stato nato nel 2008 su impulso di D’Alema e Steinmeier fa ancora fatica a essere riconosciuto a livello internazionale. Il suo assetto artificiale e il millenario odio tra gli ortodossi serbi e i musulmani albanesi impediscono ogni ricomposizione e convivenza
I venticinque militari della Kfor feriti in Kosovo – quattordici sono italiani – sono l’ennesima prova del fallimento della politica estera continentale della sinistra europea, in particolare delle strategie astratte di Massimo D’Alema e del socialdemocratico tedesco Frank Walter Steimeier. Fallimento che oggi fa il gioco di Vladimir Putin che fa da sponda al nazionalismo serbo e ha tutto l’interesse al precipitare di una crisi nei Balcani.
Gli incidenti di lunedì spiegano perfettamente come la situazione kosovara sia ingestibile: disertate nei mesi scorsi le urne amministrative, la minoranza serba della regione – centomila abitanti contro 1.750.000 albanesi – ha tentato di impedire a Zvecan, cittadina a piena maggioranza serba, che si instaurasse un sindaco di etnia albanese eletto sulla base dei suffragi del solo e misero tre per cento degli aventi diritto al voto.
In questo contesto paradossale e palesemente non democratico, i militari della Kfor hanno applicato le regole d’ingaggio e si sono frapposti a difesa degli albanesi rinchiusi nel municipio, assediati dai cittadini serbi che hanno lanciato molte molotov – che hanno appunto ferito la forza di interposizione della Nato. Invano, nei giorni scorsi, Italia e Germania hanno tentato di fare pressione sul governo di Pristina perché sospendesse la nomina dei sindaci albanesi eletti con una votazione palesemente assurda in comuni nei quali la maggioranza dei cittadini è di etnia serba.
Ancora una volta, l’ennesima, il governo di etnia albanese del Kosovo non ha ascoltato gli appelli europei alla moderazione e al compromesso e ha scelto la strada della provocazione e dello scontro frontale con la minoranza serba. Scontro tentato ancora pochi mesi fa dallo stesso governo di Pristina quando ha messo provocatoriamente fuori legge le vecchie targhe della Serbia delle automobili della minoranza serba nel nord del Paese, col risultato che i cittadini serbi hanno eretto barricate e che la Serbia, a loro protezione, ha spostato truppe e carri armati alla frontiera.
Crisi congelata grazie alla mediazione dell’Europa e dell’Italia. Prova provata comunque del fatto che è ingestibile l’assetto stesso del neonato Stato del Kosovo voluto fortemente nel 2008 appunto da Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri e dal suo collega tedesco Frank Walter Steinmeier. Stato che peraltro non è riconosciuto da tutte le nazioni dell’Unione europea che hanno problemi di scissione delle loro minoranze etniche – Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia – né da ben novantacinque Stati dell’Onu su centonovantatré. Tra questi Russia, Ucraina, Cina, India e quasi tutti gli Stati dell’Asia e dell’America Latina.
La realtà infatti è che, mentre era più che giustificata la guerra dichiarata nel 1998 dalla Nato alla Serbia di Slobodan Milosevic – che stava conducendo una feroce pulizia etnica contro gli albanesi in Kosovo –, dieci anni dopo, nel 2008, la decisione di proclamare l’indipendenza di una regione mai stata storicamente uno Stato, voluta essenzialmente dalla sinistra europea nel nome di suoi principi astratti, è stata più che discutibile e foriera di instabilità cronica.
La ragione di questo rifiuto al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo è duplice. Innanzitutto, quasi la metà delle nazioni del mondo non accetta il principio di creare uno Stato ex novo, mai esistito storicamente, giudicandolo un pericolosissimo precedente per le proprie regioni autonomiste. Una secessione unilaterale di un nuovo Stato non è mai stata infatti accettata dalla comunità internazionale. Unica eccezione, la secessione del Sud Sudan dal Sudan, che però è stata concordata dopo una guerra e una trattativa con lo Stato, il Sudan appunto, che precedentemente vi esercitava la sovranità, mentre la Serbia rifiuta nettamente ogni trattativa al riguardo.
In secondo luogo perché era evidente a molti che sarebbero incontrollabili le feroci e millenarie tensioni e guerre tra i serbi cristiano ortodossi, che avrebbero mantenuto una consistente minoranza in Kosovo, e gli albanesi musulmani che controllano il governo di Pristina. Con una aggravante: durante la guerra del 1998 gli Stati Uniti decisero improvvidamente di levare dalla loro lista delle organizzazioni terroriste l’organizzazione autonomista kosovara Uçk, e di riconoscerla invece, di colpo, come legittimo esercito di liberazione nazionale.
Il risultato di questa mossa è stato disastroso sul lungo periodo. Infatti dopo la saggia leadership nel governo del Kosovo post 1998 dell’intellettuale moderato Ibrahim Rugova, i dirigenti della pur disciolta Uçk sono riusciti a imporsi nel governo di Pristina applicando una politica del terrore e mafiosa, praticando omicidi politici degli avversari e sempre finanziandosi con traffico di eroina, contrabbando e atrocità varie.
Tra questi ex dirigenti della Uçk dalle mani sporche, di nuovo con una scelta improvvida, gli Stati Uniti hanno per un ventennio privilegiato Hasim Taçi, considerandolo il più politico, tanto che questi è riuscito a diventare primo ministro dopo le elezioni del 2007, imponendo a una riluttante Unione Europea la scelta della indipendenza formale (voluta però fortemente ma di nuovo incautamente dagli allora ministri degli Esteri della Germania e dell’Italia Walter Steinmeier e Massimo D’Alema).
Hasim Taçi infine è riuscito addirittura a diventare presidente della Repubblica tra il 2016 e il 2020. Presidenza bruscamente interrotta su mandato del Tribunale Speciale per la ex Yugoslavia dell’Aja che gli ha finalmente contestato assieme ad altri ex dirigenti della Uçk crimini di guerra e contro l’umanità.
Crimini di guerra e contro l’umanità ai danni della minoranza serba che peraltro la pur disciolta Uçk e altre organizzazioni islamiche hanno perpetrato sin dall’indomani della fine della guerra del 1998. La Nato infatti è stata costretta a inviare subito in Kosovo un forte contingente denominato Kfor forte ancora nel 2007 di sedicimila unità – oggi sono 3411 – per proteggere manu militari chiese e conventi serbo ortodossi attaccati freddamente dagli albanesi musulmani con molte vittime. La Nato ha quindi disposto una cintura di sicurezza armata a favore della minoranza serba che risiede nel nord del Kosovo ma anche in alcune enclave.
Fortissima, ma vana, negli ultimi mesi è stata l’attività diplomatica di Antonio Tajani, di Guido Crosetto e dei loro colleghi europei per tentare una mediazione tra il governo del Kosovo di Albin Kurti e quello della Serbia guidato da Alexandar Vucic. È l’assetto artificiale stesso del neonato Stato e il millenario odio e le cento furiose battaglie tra gli ortodossi serbi e i musulmani albanesi a impedire ogni ricomposizione e convivenza.
Il tutto, a favore di Vladimir Putin, alleato storico della Serbia, che ovviamente soffia per il deflagrare di una guerra nei Balcani, con la Nato in totale difficoltà di gestione.
Perché in Kosovo è scoppiata la rivolta dei serbi. Stefano Baudino su L'Indipendente il 30 Maggio 2023.
Ieri pomeriggio, durante le operazioni di contenimento delle manifestazioni dei cittadini di etnia serba che protestavano contro l‘insediamento dei sindaci albanesi nelle aree del Kosovo a maggioranza serba, 14 militari italiani del contingente Nato Kfor (Kosovo Force) sono rimasti feriti. I fatti sono avvenuti a Zvecan, centro situato a 45 chilometri a nord di Pristina, nei pressi di un edificio municipale. I militari della Kfor hanno chiesto ai manifestanti di liberare la strada a due veicoli delle forze speciali di polizia kosovare: di fronte al loro rifiuto, hanno usato gas lacrimogeni e granate stordenti sui dimostranti, i quali hanno risposto lanciando pietre e dando alle fiamme un’auto. Nei tafferugli sono rimasti feriti in tutto una cinquantina di manifestanti e trenta militari Nato. Tra i soldati italiani, tre sono stati portati in ospedale in elicottero, ma non risultano in pericolo di vita.
“A nome mio e del Governo, esprimo i miei più sinceri sentimenti di vicinanza ai militari italiani che sono rimasti feriti durante i disordini in Kosovo – ha scritto su Twitter Giorgia Meloni -. Esprimo inoltre la più ferma condanna dell’attacco avvenuto a danno della missione Kfor che ha coinvolto anche militari di altre Nazioni. Quanto sta accadendo è assolutamente inaccettabile e irresponsabile. Non tollereremo ulteriori attacchi nei confronti di Kfor”.
La situazione si è surriscaldata la scorsa settimana, durante le procedure di insediamento dei sindaci di etnia albanese eletti nella tornata di aprile. Le elezioni – dove solo il 3,47% degli aventi diritto è andato a votare – non sono state partecipate né riconosciute dalla comunità serba presente nel territorio kosovaro. Venerdì, alcuni manifestanti serbi si erano scontrati con la polizia kosovara, che aveva sparato gas lacrimogeni sulla folla per consentire ai nuovi sindaci di accedere agli edifici comunali.
Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić aveva quindi dichiarato di aver messo l’esercito in «stato di massima allerta», ordinando un movimento «urgente» dei soldati vicino al confine e richiedendo alle truppe guidate dalla Nato di stanza in Kosovo di tutelare i cittadini di etnia serba dalla polizia kosovara. In quella occasione, L’Ue, gli Stati Uniti d’America e – con una dichiarazione congiunta – Francia, Italia, Germania e Regno Unito, avevano condannato fermamente le azioni del governo kosovaro. Ma ora, a pochi giorni di distanza, la situazione sembra essersi ribaltata.
Lo scorso gennaio, in seguito ad una escalation di tensioni, la Kfor aveva respinto la richiesta di Belgrado di inviare un proprio contingente a difesa dei serbi in Kosovo sulla base della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che prevede che, nel caso in cui la situazione si aggravi, la Serbia possa fare richiesta per inviare una propria divisione da stanziare ai valichi di frontiera, nelle aree a maggioranza serba e nei luoghi religiosi cristiani ortodossi. Adesso, invece, la Kfor è intervenuta senza indugi contro i manifestanti serbi.
I cittadini di etnia serba protestano contro il governo kosovaro per via di una decisione che reputano palesemente incostituzionale: infatti, come sancito dalla Costituzione del Kosovo del 2008, nonché dagli accordi stipulati a Bruxelles per la regolamentazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado nel 2013, il governo kosovaro sarebbe tenuto a garantire alla minoranza il diritto all’autogoverno. Negli anni, invece, la costituzione dell’associazione/comunità delle municipalità a maggioranza serba che dovrebbe tutelare la minoranza in determinate sfere della politica pubblica – come sanità, educazione e sviluppo economico – è rimasta lettera morta.
A marzo, quando il presidente serbo Aleksandar Vučić e il premier kosovaro Albin Kurti avevano accettato una proposta Ue per normalizzare i rapporti tra i due Paesi all’insegna dei concetti di pace e indipendenza, per la prima volta la situazione era parsa in discesa. Ora, invece, si assiste allo scenario opposto: con un’inversione a U, il governo di Pristina ha evidentemente deciso di forzare la mano contro i cittadini di etnia serba e le loro richieste. E, dopo le prese di posizione in ottica anti-Kurti in seguito agli scontri della scorsa settimana, anche la Nato è tornata sui suoi passi.
Questa mattina, i manifestanti si sono nuovamente riuniti davanti ai Municipi di Zvecan, Zubin Potok e Leposavic. In loco è presente una massiccia schiera di poliziotti kosovari e di soldati della Kfor. Srpska Lista, il maggior partito dei serbi del Kosovo, ha dichiarato che i manifestanti continueranno a presidiare i centri finché Pristina non accoglierà due loro specifiche richieste: i nuovi sindaci non dovranno fare ingresso nei palazzi comunali e le unità della polizia kosovara dovranno ritirarsi nel più breve tempo possibile dal nord del Paese. Oggi non si sono verificati scontri fisici, ma, sul versante politico-diplomatico, la situazione resta caldissima. [di Stefano Baudino]
Convertirsi sotto Tito. La storia del monastero di Visoki Dečani è quella dei travagli del Kosovo. Gianluca Carini su L’Inkiesta il 13 Marzo 2023.
Isola serba in mezzo a un territorio a maggioranza albanese, il luogo di culto fu risparmiato durante la guerra. La battaglia legale con Pristina per i terreni lì attorno e quella per la strada verso il Montenegro. «Non vogliamo parlare di politica», ma la politica lo circonda. Il reportage
La strada che porta al monastero di Visoki Dečani, nel Kosovo occidentale, è disseminata di bandiere albanesi e statue dei membri dell’UÇK, il controverso movimento di liberazione kosovaro: eroi partigiani per gli albanesi, l’ex leader (e già presidente del Paese) Hashim Thaçi è però attualmente sotto processo all’Aja per crimini di guerra. L’UÇK combatté i serbi con una guerriglia fatta di attacchi repentini per poi sparire sulle montagne, dove era forte il sostegno della popolazione locale. «Vedi quella casa, lì una famiglia tenne da sola in scacco un intero battaglione di serbi», dichiara la guida mentre passiamo con l’automobile accanto a una delle tante abitazioni che costeggiano queste strade fuori dai centri abitati.
L’altra cosa di cui ci si rende conto girando è il debito di riconoscenza del Kosovo albanese verso gli Stati Uniti. Nella capitale, Pristina, c’è addirittura una statua di Bill Clinton, ma anche più a Ovest molti palazzi espongono vessilli a stelle e strisce. Un adesivo su una macchina recita «Proud to be American». Un aspetto (tra gli altri) che in Kosovo contrappone ovviamente la maggioranza albanese alla minoranza serba, che vede invece negli Stati Uniti la guida della Nato che bombardò Belgrado nel 1999.
L’organizzazione di difesa atlantica però è ancora molto presente in Kosovo attraverso la missione Kosovo Force (Kfor), che protegge anche il monastero di Dečani, poco distante da Peć (Peja in albanese). Un edificio patrimonio dell’Unesco, così come lo è quello di Gračanica (in albanese Graçanicë), più vicino alla capitale Pristina, nel centro del Paese.
«La nostra giornata inizia alle sei con le preghiere e termina con la preghiera delle 20.30», spiega Petr, il monaco delegato all’accoglienza degli ospiti e alla presentazione del monastero. All’ingresso i militari perquisiscono i visitatori, che devono lasciare un documento e il cellulare: vietate infatti riprese o foto. Questo monastero è una sorta di isola serba in mezzo a un territorio a maggioranza albanese. Durante la guerra fu però risparmiato e anzi accolse circa duecento albanesi.
La sua storia racconta molto del travaglio di questa regione. Il monastero di Dečani fu fondato intorno alla metà del 1300 dal sovrano serbo Stefano Uroš, martire e santo per la Chiesa ortodossa e fu completato dal figlio Dušan. Danneggiato nel 1389 dopo la battaglia del Kosovo tra serbi e turchi, nel 1455 cadde definitivamente sotto il dominio ottomano e così rimase fino all’inizio del ventesimo secolo.
Da lì subì una serie di cambi di regime: “liberato” dai montenegrini nel 1912, nel 1915 passò sotto i bulgari e quindi gli austriaci (venendo usato anche come magazzino militare). Nel 1918 ritornò ai serbi che lo restaurarono, ma il 20 aprile 1941 se ne impossessarono i tedeschi, che lo affidarono quasi subito ai carabinieri italiani, i quali lo protessero durante la guerra. In seguito, Tito espropriò molti dei territori circostanti.
«Non vogliamo parlare di politica, l’unica cosa che ci interessa sono i nostri diritti. Non si rispettano troppe leggi in Kosovo», afferma Petr, portando ad esempio una vicenda giudiziaria attualmente in corso: «Qui attorno ci sono ventiquattro ettari di terreno che il Tribunale kosovaro ha riconosciuto essere del monastero, ma le autorità locali non adempiono alla sentenza. Se non rispettano noi che abbiamo dalla nostra avvocati, media e tanto interesse, pensa cosa può fare una normale famiglia serba in Kosovo».
Ma le questioni con la comunità circostante sono anche altre: il 17 febbraio 2022, in occasione della quattordicesima festa dell’indipendenza kosovara, il monastero di Dečani scomparve da Google Maps: seguendo le indicazioni del motore di ricerca, si finiva in una rotonda nel centro della città, riportava Panorama, sottolineando il carattere intimidatorio del gesto.
«Un altro problema è che vorrebbero costruire una strada per il Montenegro facendola passare vicino a questo monastero, ma questo non si può fare per le leggi del Kosovo», aggiunge Petr. Non ci si stupisca quindi se i rapporti con il presidente Albin Kurti non siano idilliaci. «Qui non è mai venuto, anche se avrebbe voluto», afferma Petr. «Ma noi vogliamo i fatti prima, non concedere passerelle».
Petr parla bene un ottimo italiano, frutto delle conversazioni con i carabinieri italiani, che qui si alternano a protezione della struttura, e di un monaco del nostro Paese che ha preso il nome Benedikte: «Era un economista, è venuto qui per la prima volta come turista», racconta Petr. «Era un giovedì, il giorno dell’apertura della tomba di Santo Stefano. Dopo pochi mesi è tornato per restare».
Un caso non comune, quello di un monaco “straniero”. Le chiese ortodosse infatti sono organizzate su base nazionale, con ognuna che celebra e amministra nella propria lingua. Molti di questi monaci poi sono nati sotto il regime di Tito. «La mia generazione è cresciuta sotto il comunismo, per cui non appartengo a una famiglia religiosa», sottolinea Petr. «A vent’anni però ho iniziato a interrogarmi sul senso della vita e della morte. Nel 2002 sono entrato nei novizi ed eccomi qui».
Kosovo. LE FERITE E IL RANCORE, Daniele Bellocchio il 6 Marzo 2023 su Inside Over.
Ci sono storie che per essere narrate bisogna raccontarle incominciando dal finale che però, si badi bene, non corrisponde alla fine. Perché ad ogni ultimo atto di queste storie potrebbe seguirne poi un altro che riporta il canovaccio al punto di partenza; e tutto, di nuovo, potrebbe ricominciare da capo.
Sono le storie di luoghi in cui ferite mai sanate sono divenute feritoie da cui è germogliata la gramigna del rancore, la memoria ha sostituito la storia e il passato non è mai passato del tutto. E quando si parla del Kosovo è inevitabile fare così: iniziare dall’ultimo finale per sapere come potrebbe andare a finire il prossimo inizio.
“Tutto è incominciato in Kosovo e tutto finirà in Kosovo”, per anni questa giaculatoria geopolitica ha cercato di riassumere e mettere ordine al disordine balcanico. E di verità nella sua essenza ne contiene molte, troppe.
In queste ore abbiamo assistito all’incontro a Bruxelles tra il presidente serbo Alexander Vucic e il primo ministro kosovaro Albin Kurti per porre fine alla guerra delle targhe e alle diatribe politiche dai toni nazionalistici che negli ultimi mesi hanno fatto temere che il Kosovo potesse di nuovo implodere. Barricate e colpi di arma da fuoco, albanesi e serbi, tre dita alzate e aquile bicipiti, e la comunità internazionale con il fiato sospeso. Ora, nel cuore dell’Europa, ci si lancia in premature esultanze perché, finalmente, si legge, si è arrivati a un passo da una svolta storica. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Josep Borrell ha annunciato ai giornalisti che manca poco per una stretta di mano tra Belgrado e Pristina grazie a un testo preparato da Bruxelles e basato su 11 punti. È vero che si scorgono punti di intesa, ma ancora non c’è nulla di certo e definitivo perché sulle questioni prioritarie, ovvero il riconoscimento della sovranità del Kosovo da parte di Belgrado e la creazione delle municipalità serbe nel Paese di Pristina, non c’è ancora una risposta. Il “prendere o lasciare” di Bruxelles a Belgrado non è detto che venga accettato o che non provochi rovesciamenti di governo, le cancellerie balcaniche al momento traccheggiano e quindi tutto potrebbe accadere di nuovo proprio là dove la storia ci insegna tutto è incominciato.
È in Kosovo, infatti, che nel 1389, a Kosovo Polije, l’esercito ottomano guidato dal sultano Murad sconfisse le forze cristiane condotte alla battaglia della Piana dei Merli dal leggendario Duca di Lazar. I turchi trionfavano sul campo, i serbi nell’identità facendo della sconfitta la pietra fondante della propria storia. Un malinteso della memoria protratto per secoli e tutt’oggi vivo e pulsante.
Seicento anni dopo, proprio dal Kosovo, Slobodan Milosevic, affondato nei suoi completi anonimi e larghi da zelante banchiere del socialismo reale, gridava ai serbi radunatisi a Pristina: “Nessuno potrà più permettersi di toccarvi”. L’atto di nascita del nazionalismo serbo, il certificato di morte della Jugoslavia: il concepimento del mostro delle guerre etniche.
Sarebbero seguiti, a quelle parole, lager e crimini di guerra, assedi e mattatoi, vergogne internazionali e imbarazzi diplomatici, indignazioni nostrane ed eroismi allogeni. Un ex anteposto alla Jugoslavia ne liquidò sbrigativamente memoria e dottrina e nel mosaico dei nuovi Balcani niente ormai era più al suo posto. Dopo Dayton la Bosnia rimase un artifizio diplomatico di odi congelati e non cancellati e la Serbia invece una nazione ferita alla ricerca di un orgoglio corale con cui lenire la nostalgia di sé stessa. Nulla era finito, non fu un addio alle armi ma un arrivederci.
Kosovo-Methoija, 14 monasteri e chiese ortodosse, terra “sacra” per i serbi ma abitata da secoli da una maggioranza musulmana albanese. Nel 1991 su una popolazione di 2 milioni di persone vivevano oltre un milione 700mila albanesi e dopo l’implosione della Jugoslavia e gli accordi Dayton anche la provincia del Kosmet, com’era chiamata nel linguaggio burocratico, iniziò a invocare diritti e libertà che legittimamente le spettavano. La guerra di nuovo stava per venire.
La fermezza serba nel non fare concessioni alla popolazione albanese, gli schipetari come venivano definiti in modo dispregiativo, le leggi repressive, le persecuzioni quotidiane, gli interrogatori e le torture esasperarono la situazione e la violenza esplose. Si formarono milizie paramilitari e polizie speciali, l’Uck (Ushtria Clirimtare es Kosoves), l’Esercito di Liberazione del Kosovo, diede vita alla rivolta armata albanese, Belgrado reagì con il pugno di ferro potenziando le unità di polizia speciale, inviando truppe regolari, esumando lo scomodo retaggio della Grande Serbia e di nuovo, dal germe di una guerra da poco finita un’altra ne ebbe inizio.
C’è stata la pulizia etnica, il narcisismo delle piccole differenze si è sfogato in massacri a distanza ravvicinata, pogrom ed esecuzioni sommarie, e la guerra, come una cancrena perniciosa, ha poi infettato tutti seppellendo col suo velo di colpevolezza anche l’Occidente pacificatore. Dopo l’estenuante conferenza di Rambouillet, infatti, la dottrina muscolare del segretario di Stato americano Madeleine Albright, che ristrutturò la Nato riformulandola ad alleanza politica su basi militari e facendone lo strumento per far valere la supremazia U.S.A in un mondo unipolare e libera dai vincoli Onu, prese il sopravvento. E così, nel novero delle vergogne del conflitto kosovaro, vanno ricordati anche i massacri dei civili in Serbia, i 78 giorni di bombardamenti su Belgrado, le stragi dell’ambasciata cinese e della televisione di Stato, le bombe all’uranio impoverito e alla grafite e addio ad ospedali, ponti, stazioni, e alla geografia semplicistica delle linee nette tra buoni e cattivi.
E ora, che non sappiamo più nemmeno se la memoria sia un dovere o una condanna, in un’epoca in cui nazionalismi e ideologie si mischiano disordinati nel mazzo di carte dei fanatismi, a 24 anni di distanza da quegli eventi, sospesi sullo spartiacque dei paradossi della storia, come dobbiamo fare per orientarci ed evitare un divenire drammaticamente prevedibile?
Dobbiamo fare una cosa, anche se costa cara agli occhi e fa male al cuore, ritornare a quei giorni del Kosovo e per farlo farci portare là da chi laggiù c’era. Nel freddo, nel fango, sotto i colpi dell’artiglieria e immerso nei fumi dei villaggi dati alle fiamme con i corpi dei civili carbonizzati, come in una Pompei balcanica, dopo il passaggio delle milizie cetniche, il reporter Ivo Saglietti, lui, in mezzo a tutto questo, c’era. Guardiamo le sue foto in bianco e nero scattate sui monti del Kosovo mentre la guerra imperversava. Sono foto che appartengono a un mondo in cui le fotografie venivano ancora scattate a pellicola e l’economia degli scatti imponeva una sacralità dello sguardo. Pochi grandi testimoni per congelare la memoria e renderla indelebile per tutti. Sono foto che non invecchiano, iconografie della storia, l’atto supremo del giornalismo.
Le sue immagini, scattate nel 1998 e nel 1999, sono il racconto di un reporter onesto e dell’onestà di un reporter che ha camminato tra le macerie dei palazzi colpiti e ha visto e fotografato la guerra per quello che è nella sua più vera essenza: il dipinto di una quotidianità dolce e delicata fatta di vestiti, stoviglie, bambole e stufe a legna che viene però interrotta all’improvviso. La muta testimonianza di cos’era la vita sino a un istante prima che tutto finisse. Sino a un istante prima che la guerra iniziasse.
Urlano le diapositive di Ivo, lo fanno mostrandoci carovane di uomini e donne in fuga, ammassati sui camion e che trascinano tutta la loro esistenza in una carriola. Sono foto che ci fanno sentire l’afrore degli incendi nei villaggi albanesi e ci fanno riascoltare i pianti delle madri e delle vedove kosovare ai funerali. Sono il racconto dell’incubo reale, quello della gente comune, che la guerra non la decide ma la subisce, son un omaggio straziante e solenne alle donne affogate nelle loro lacrime, ai vecchi morti di inedia, ai bambini mai cresciuti.
Quanto sono attuali queste foto, quanta Ucraina, Caucaso e Donbass è raccontato in questi scatti.
Il reportage di Saglietti è anche il sacrificio di chi ha speso sé stesso per testimoniare il dolore dei dimenticati infettandosi della sofferenza altrui tra lingue sconosciute e guerre incomprensibili. Oggi ci insegna tante cose Ivo con questo suo reportage, innanzitutto che la pace non è un lieto fine scontato e neppure un diritto acquisito, e che il giornalismo, G maiuscola, probabilmente non sovverte gli ordini del mondo ma, facendo compagnia alle vittime nel loro calvario quotidiano, impedisce che qualcuno poi possa dire “io non lo sapevo”.
Adesso quindi che la storia è al suo crocevia, sospesa tra una fine e un inizio, prima che il dado venga tratto e la scelta finale sia definitiva, occorrerebbe che chiunque guardasse queste foto, per essere così consapevole di che cos’è stato e cosa potrebbe essere. Poi, decidere. Ma a quel punto, sono certo, avrebbe ragione Ivo che, in una kafana di Sarajevo, in giorni in cui la Bosnia assumeva le sembianze di un Donbass sulla Drina, mi ha confidato, tra una Leica e una rakija, che una bella foto ha un potere che nessuno le potrà mai togliere: quello di riparare i sogni dai torti della realtà.
Riordinare il tempo e il mondo fermando la storia in un’istante: la rivoluzione in un’istantanea di Ivo Saglietti.TESTO DI Daniele Bellocchio
Quei razzisti come i rumeni.
Per la Romania, l'Italia ormai è "il paradiso dei criminali". Decine di colletti bianchi condannati a Bucarest vivono nel nostro Paese e riescono a non essere estradati "grazie" alle pessime condizioni del loro sistema carcerario e ad altri cavilli, ottenendo inoltre pene alternative alla detenzione (non previste in Romania). In quattro anni negate 70 estradizioni. Stefano Vergine su L'Espresso il 20 novembre 2023
L’ultimo caso famoso è quello di Ionel Arsene. Il politico romeno, ex presidente della Provincia di Neamt, è stato condannato in patria a 6 anni e 8 mesi per corruzione. La sentenza della Corte d’Appello romena è del 10 marzo 2023, ma quando i giudici l’hanno letta Arsene non era più in Romania. È riapparso tre settimane dopo a Bari, consegnandosi alla polizia del capoluogo pugliese e chiedendo al tribunale locale di non essere consegnato alle autorità di Bucarest. Alla fine di un lungo iter giudiziario, a inizio novembre la Corte di Cassazione italiana ha deciso di rispedire Ionel in patria, ma quello del dirigente del partito socialdemocratico (Psd) è solo uno dei tanti esempi di politici e imprenditori romeni che, condannati in Romania, si rifugiano in Italia nella speranza di non essere estradati. E spesso ci riescono, evitando di finire in carcere e facendo così infuriare i propri concittadini.
Sebbene sia poco conosciuto da noi, il fenomeno è molto presente nel dibattito pubblico in Romania. “Italia paradiso dei criminali romeni”, è il titolo scelto dall’edizione locale del settimanale americano Newsweek, in una serie di articoli dedicati al tema. L’ex ministro della Giustizia, Stelian Ion, ha recentemente dichiarato che il suo Paese dovrebbe rivolgersi alla Corte di giustizia europea per risolvere la questione. Sprezzante il giudizio della nota giornalista romena Ioana Ene Dogioiu: «Italia e Grecia sono diventate le mete preferite dei criminali, non solo romeni, perché essendo profondamente corrotte, come la maggior parte del fianco sud dell’Europa, possono fornire vie di fuga».
Per capire le dimensioni del fenomeno, abbiamo chiesto i dati all’ambasciata della Romania in Italia. Le statistiche più recenti, relative al 2021, mostrano che quell’anno sono stati 158 i mandati d’arresto europei inviati da Bucarest a Roma, ma in 22 casi il nostro governo ha rifiutato la consegna. Le proporzioni sono simili anche per il 2018, 2019 e 2020. In totale, in questi quattro anni l’Italia si è rifiutata di consegnare alla Romania 70 persone, su un totale di 810 richieste.
Tra coloro che sono riusciti a evitare di finire in una prigione romena ci sono alcuni personaggi famosi. Alina Bica, ad esempio, è l’ex capa della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Condannata a novembre del 2019 dalla Corte di Cassazione romena a 4 anni per il reato di favoreggiamento personale continuato nei confronti di un imprenditore, Bica si è trasferita in Puglia circa un anno prima della sentenza definitiva, si è consegnata alle autorità italiane e ha raggiunto il suo obiettivo. A novembre del 2020, la Corte d’Appello di Bari ha negato l’estradizione e ordinato l’esecuzione della pena in Italia.
Giorni di carcere effettivamente scontati nel nostro Paese? Pochissimi, conferma il suo avvocato, Cristian Di Giusto, che oltre a lei ha difeso diversi altri condannati romeni. In Italia, Bica ha trascorso in carcere «alcuni giorni al momento dell’arresto in esecuzione del mandato d’arresto europeo – spiega Di Giusto – dopodiché ha espiato un periodo di alcuni mesi in regime di arresti domiciliari e successivamente è stata rimessa in libertà fino all’attuale espiazione in regime alternativo», cioè l’affidamento in prova ai servizi sociali, con la possibilità di lavorare e con l’obbligo di non uscire di casa tra le 9 di sera e le 7 di mattina. «Nel febbraio del 2023 – precisa l’avvocato – il Tribunale di sorveglianza di Bari ha accolto la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali per il residuo di pena pari a 3 anni e 9 mesi circa». Non male, considerando che in Romania Bica avrebbe quasi sicuramente trascorso 4 lunghi anni in prigione. Sì, perché un’altra differenza tra i due Paesi consiste nel fatto che in Romania le condanne si scontano quasi sempre dietro le sbarre, anche per pene brevi, mentre in Italia per quelle inferiori a 4 anni non si finisce quasi mai al fresco, ma si beneficia solitamente delle cosiddette misure alternative come, appunto, l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Ma qual è stata la motivazione giuridica con cui la Corte d’Appello di Bari ha negato l’estradizione di Alina Bica e ordinato l’esecuzione della pena in Italia? È la legge 69 del 2005, modificata dal decreto legislativo 10 entrato in vigore il 20 febbraio 2021. Secondo la norma, i tribunali italiani possono rifiutare la consegna di chi «legittimamente ed effettivamente risieda o dimori in via continuativa da almeno cinque anni sul territorio italiano».
Per la stessa ragione ha evitato di finire in una prigione romena un altro condannato eccellente: Dragos Savulescu, imprenditore ed ex azionista di maggioranza della Dinamo Bucarest (tra i club calcistici più titolati del Paese), nonché marito della ex Miss Universo Albania, Angela Martini. Il 7 febbraio del 2019 Savulescu è stato condannato in Cassazione a 5 anni e 6 mesi per associazione a delinquere e abuso d’ufficio per una frode commessa dal 2002 al 2014. Consegnatosi alle autorità italiane il 13 gennaio del 2020, dopo che la Romania aveva spiccato nei suoi confronti un mandato d’arresto europeo, è riuscito nel suo intento: nel settembre dello stesso anno la Corte d’Appello di Napoli si è infatti rifiutata di consegnarlo alla Romania e gli ha concesso di scontare la pena in Italia. Nella sentenza, i giudici di Napoli hanno ricordato che Savulescu è «presente almeno dal maggio 2018» nel nostro Paese, dove ha aperto diverse società, possiede un immobile e vive con la moglie. Motivando la decisione, i giudici italiani hanno scritto che in questo modo il condannato «sarà maggiormente vicino ai suoi affetti e ai suoi interessi», inoltre «potrà vivere l’esperienza detentiva come un momento di maturazione della consapevolezza del disvalore dei fatti commessi, piuttosto che come un momento di aspra punizione scontata molto lontano dal suo contesto familiare». Va ricordato che, come prevede la nostra Costituzione, in Italia la pena deve avere funzione rieducativa, non punitiva. Argomento su cui fanno ovviamente forza gli avvocati di molti condannati in cerca di riparo in Italia. Di contro, è comprensibile l’indignazione di molti romeni che vedono su Instagram le foto di Savulescu sorridente in barca, in aereo, intento a fare shopping a Milano, a passeggiare per le vie di Saint Moritz, a prendere il sole in Grecia assieme a Eros Ramazzotti. Istantanee di un uomo che, in effetti, sembra tutto fuorché un condannato per una frode milionaria.
La motivazione più frequente con cui i tribunali nostrani si oppongono alle richieste di estradizione di Bucarest non è però quella del radicamento sul territorio italiano: riguarda invece la situazione in cui versano le carceri. Per questa ragione sono riusciti a evitare di essere consegnati alla Romania, tra gli altri, personaggi di spicco come Marian Zlotea, ex parlamentare e capo dell’autorità sanitaria (8 anni e 6 mesi per corruzione di pubblico ufficiale, associazione a delinquere e concussione), e Daniel Dragomir, già ufficiale dei servizi segreti (3 anni e 10 mesi per traffico d’influenze). Nella sentenza su Dragomir, ad esempio, il 6 ottobre del 2022 la Corte d’Appello di Bari ha rifiutato l’estradizione per «seri e concreti rischi di un trattamento carcerario contrario all’articolo 3 della Cedu», la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «In Romania gli istituti penitenziari sono pessimi e mancano le risorse per poter affrontare ogni genere di problema strutturale», riassume l’avvocato Di Giusto, che tra gli altri ha difeso anche Dragomir.
Le ricerche che definiscono «inaccettabili» le condizioni di detenzione nelle carceri romene abbondano. Nell’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, pubblicato nell’aprile del 2022, si legge ad esempio che «il sovraffollamento carcerario continua a costituire un grave problema»: le celle vengono descritte come «fatiscenti e prive di mobilio», in alcuni casi per i detenuti è stato riscontrato «uno spazio vitale di 2 metri quadrati», con «materassi e lenzuola consunti e infestati dalle cimici». Va detto che l’Italia non può certo vantarsi delle sue prigioni. L’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, del giugno 2023, calcola che all’interno dell’Ue solo Cipro e Romania hanno tassi di sovraffollamento maggiori del nostro. Inoltre, in metà delle carceri italiane non c’è l’acqua calda, in alcuni casi non funzionano i caloriferi e talvolta i detenuti non hanno nemmeno a disposizione i 3 metri quadrati calpestabili (tra i requisiti minimi previsti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo).
La Romania è dunque messa peggio di noi, ma anche l’Italia non sempre riesce a garantire ai carcerati delle condizioni di vita dignitose. Perché allora tanti cittadini romeni cercano di scontare in Italia, più che in altri Paesi Ue, pene inflitte dalla Romania? Oltre alla condizione delle prigioni, spiega l’avvocato Di Giusto, «la legge rumena non prevede la possibilità, se non in rarissimi casi, di poter accedere a misure alternative alla carcerazione. Non esiste neppure la liberazione anticipata, dunque l’ordinamento penitenziario italiano offre qualche possibilità in più qualora venga intrapreso un effettivo percorso rieducativo da parte del condannato. In Romania, invece, non vi è alcun genere di vantaggio neppure per un detenuto che si comporti in maniera irreprensibile». Aggiungiamo a questo il fatto che in Italia vive una grande comunità romena, che rispetto ad altri Paesi Ue il clima è mite e i costi della vita (e degli avvocati) sono relativamente bassi, ed ecco spiegate le ragioni per cui il nostro Paese, visto da Bucarest, può apparire effettivamente come un paradiso. Sempre che l’imputato abbia i soldi per pagarsi il viaggio, un bravo avvocato e una casa. E non è da tutti: secondo le statistiche dell’Unione europea, lo stipendio medio in Italia è infatti quasi il triplo di quello che si percepisce in Romania.
Le "cene di addio" e il veleno: il massacro della vedova nera romena. Tra le più famose serial killer della Romania, Vera Renczi uccise almeno 34 uomini ma il bilancio potrebbe essere decisamente più corposo. Massimo Balsamo il 17 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Infanzia e adolescenza
I matrimoni (e i primi omicidi)
Vera Renczi diventa Mrs. Poison
L'arresto e la fine della vedova nera
Vera Renczi è stata una delle prime serial killer donne della storia, nonché una delle più prolifiche. Trovare informazioni affidabili sul suo conto è spesso un'impresa - tant'è che per qualcuno si tratta semplicemente di una leggenda - e in rete non si trovano sue immagini: le uniche due che circolano sono fake. Ma la Renczi è esistita e ha commesso almeno 35 delitti, anche se mai come in questo caso il bilancio è ufficioso: le vittime della furia della vedova nera romena potrebbero essere molte, molte di più.
Infanzia e adolescenza
Vera Renczi nasce a Bucarest nel 1903 da padre ungherese e madre romena. La famiglia è piuttosto ricca e riceve una buona educazione. All'età di 13 anni perde improvvisamente la madre e si trasferisce con il padre a Nagybecskerek (oggi Zrenjanin, Serbia), dove frequenta un collegio, e poi a Berkerekul.
In questa fase inizia ad assumere comportamenti difficili da gestire per i suoi cari, ma anche un interesse quasi malato per il sesso. Il primo rapporto sessuale all'età di quindici anni, seguito da numerosi altri incontri con ragazzi diversi. Una notte viene pizzicata nel dormitorio di un collegio maschile nel pieno della notte. Ribelle, ma anche gelosa e possessiva: segnali d'allarme che nessuno riesce a cogliere.
I matrimoni (e i primi omicidi)
Neanche ventenne, Vera Renczi conosce l'austriaco Karl Schick, uomo d'affari molto più anziano di lei. Un vero e proprio colpo di fulmine, seguito dal matrimonio. Un anno dopo le nozze, nasce il figlio Lorenzo. Ma proprio pochi mesi dopo il lieto evento, la donna inizia a sospettare del coniuge. Ossessionata dalla presunta infedeltà, organizza la prima "cena d'addio": una serata speciale in cui versa dell'arsenico nel vino e lo uccide. Si tratta del primo di una lunga serie di delitti. Per giustificare la scomparsa del coniuge, racconterà di una tragica morte in un incidente stradale.
Vera Renczi inizia a frequentare i locali notturni di nascosto e dopo un anno di "lutto" decide di risposarsi, questa volte con un uomo della sua età. Una relazione molto tumultuosa, un'altra delusione per la romena, che scopre subito dopo le nozze l'infedeltà del marito. Come successo con Schick, decide di eliminarlo: veleno nel vino e corpo nascosto in una bara di zinco conservata nella sua tenuta, precisamente in una panchina. Dopo il secondo matrimonio fallito, decide di non sposarsi mai più e si dà alla pazza gioia. Sia in amore, che nella seconda vita da serial killer.
Vera Renczi diventa Mrs. Poison
Vera Renczi colleziona storie d'amore tra relazioni clandestine con uomini sposati e rapporti fugaci con amanti conosciuti nei locali. L'esito di queste liaison è sempre lo stesso: per la gelosia ossessiva, li avvelena con l'arsenico e ne nasconde i corpi. La romena è alla ricerca di un "uomo perfetto", un'idea romantica ma mai tramutata in qualcosa di concreto. O semplicemente una scusa per continuare a uccidere e trovare nuove vittime.
Aileen Wuornos, la "vendicatrice" che sconvolse la Florida
Vera Renczi continua a fare il bello e il cattivo tempo per diversi anni, fino a quando le autorità non uniscono i punti sull'aumento esponenziale di uomini scomparsi nell'area. L'ultima vittima delle "cene d'addio" della vedova nera è un funzionario di banca di nome Milorad, anche lui avvelenato dopo notti di passione.
L'arresto e la fine della vedova nera
Le autorità scoprono la vera fine dei mariti di Vera Renczi e la arrestano nel 1930. Ma non è l'unica scoperta: la donna aveva infatti ucciso anche il figlio, reo di averla minacciata di denunciarla. Durante il processo, la donna inizia a mostrare i primi segni di demenza, patologia peggiorata progressivamente in carcere. La Renczi viene condannata all'ergastolo - era stata appena abolita la pena di morte per le donne. Muore trent'anni dopo, nel 1960. MARTINA PIUMATTI
La truffa dei tre tronchi, così in Romania guadagnano i trafficanti di legname. Ogni anno, nel Paese, vengono tagliati illegalmente 15 milioni di metri cubi di alberi. Che, in piccole percentuali, vengono trasportati e venduti nascosti in mezzi ai carichi regolari. Con la complicità di guardaboschi corrotti e nell’assenza di norme efficaci. Giulia Marchina su L'espresso il 27 Luglio 2023
Nelle foreste vergini dei Carpazi si consuma da decenni un grosso bluff, come la danza truffaldina della pallina nascosta sotto una delle tre campanelle appoggiate sul tavolino. Il commercio illegale di legname in Romania – che rifornisce pubblici, privati, multinazionali – è tra i fenomeni più diffusi, ma anche più complicati da scovare. Perché il problema sorge nel momento in cui si cercano i colpevoli. Il ministero dell’Ambiente romeno e l’istituto che ha lavorato all’inventario forestale (Ifn) hanno calcolato, con una stima approssimativa, che ogni anno vengono tagliati legalmente circa 20 milioni di metri cubi di alberi, illegalmente, invece, 15.
Ma la percentuale di legname tagliato senza seguire le procedure inserita in ogni carico portato a valle per poi essere venduto, e non controllato dai silvicoltori, è molto piccola. Il meccanismo è giocato su modesti volumi occultati tra i tronchi che viaggiano «con documenti», accatastati sui tir che percorrono lo Stato; a fine anno, però, il traffico presenta un conto complessivo con cifre mostruose. L’inganno è lì, sul crinale: legno con documenti, legno senza documenti. Lo sfruttamento del polmone verde che a occhio nudo pare inesauribile si è innescato a partire dal 1989, con la fine del comunismo: per via degli intensi rapporti commerciali, molte foreste sono state cedute a privati come beni da cui trarre profitto senza che però questi potessero vantarne la proprietà.
A trainare la filiera che coinvolge l’Amazzonia d’Europa – valore stimato: circa 1,5 miliardi di euro – è il taglialegna: il primo a guadagnare, prendendo la cosiddetta stecca, dall’eccesso di tronchi non dichiarati al momento del taglio nei documenti di trasporto. Alcuni, quelli che si affidano solo a metodi legali e che denunciano il disboscamento coatto, vengono picchiati, minacciati, a volte muoiono in circostanze mai chiarite. A godere di questo sistema è anche il guardaboschi, capo del circuito forestale e carica che in Romania assicura grande prestigio.
Tiberiu Busutar, attivista nel Nord del Paese che assieme ad altri cittadini organizza interventi sulle montagne per rallentare i lavori dei trafficanti del legno, racconta che di recente uno di loro ha dichiarato la presenza di seimila metri cubi di legno sulla superficie da lui sorvegliata. In realtà, ce n’erano ottomila. In questo modo ha truffato lo Stato vendendo la differenza al mercato nero. Valore: 100 mila euro. Ogni albero sui 6,5 milioni di ettari totali di foresta è sotto la cura di un silvicoltore: eppure, con milioni di metri cubi di legno tagliato illegalmente ogni anno, non esiste, oggi, un guardaboschi perseguito per complicità nel traffico.
«Solitamente – spiega Busutar – il guardaboschi che ottiene legno illegale in più, facendo accordi coi taglialegna, trasmette le informazioni ad agenti economici affidabili, in modo che, quando si partecipa ad aste con società che vogliono acquistare legname, si sappia che c’è del legno in più, senza documenti, ma più economico. Per depistare eventuali controlli, i metri cubi illegali non vengono trasportati insieme, su un unico mezzo, ma se ne aggiungono alcuni a ogni trasporto con regolare bolla di accompagnamento».
Quando i tronchi arrivano in città e sono pronti per imboccare le strade statali o i vagoni di un treno merci, in sede di controllo è difficile stimare se i documenti siano truccati: il sistema di potere romeno, costituito anche da polizia corrotta che copre i trasporti e guardia forestale connivente, rende vano ogni sforzo di segnalare pratiche scorrette. In Romania, perché il trasporto di legname senza documenti sia ritenuto un atto grave dev’essere di oltre dieci metri cubi: in quel caso avviene anche il sequestro del mezzo. «Chi segnala i carichi sospetti non è ammesso all’atto della verifica – continua Busutar – e capita che venga multato per aver presentato una denuncia ingiustificata. Non ci sono persone contro cui puntare il dito in quanto trafficanti di legno per esclusiva “professione”, ma non ci sono nemmeno persone che lavorano nel settore e che non compiano mai illeciti. L’unica differenza è la percentuale di legname legale e no che trattano».
Dunque, è impossibile sapere con certezza se il legno che arriva in fabbrica sia tagliato legalmente. E dal 2015 la legge limita le grandi aziende: non possono lavorare legno proveniente dalla Romania per più del 30% del volume totale per specie d’albero. Ad esempio, Hs Timber, multinazionale che poteva lavorare oltre 3,5 milioni di metri cubi di legno l’anno, è stata autorizzata ad acquistare meno di 1,5 milioni di metri cubi di legno dalla Romania. La domanda è: quanto del legno che arriva nella fabbrica è stato regolarmente tagliato? Lo stesso vale per Egger Group, multinazionale con sedi in tutta Europa e un immenso stabilimento a Suceava, a poche centinaia di chilometri dalle foreste a Nord. Alla domanda se siano a conoscenza dei traffici e se abbiano mai impiegato legname illegale, non hanno risposto. Poi, un chiarimento: l’azienda «combatte il traffico di legname con politiche di tolleranza zero».
Ikea – che, secondo l’organizzazione ambientalista Earthsight, tra il 2018 e il 2020 avrebbe ottenuto legname illegale – nel 2022 schivava le accuse sostenendo come nessuna indagine interna avesse evidenziato lo sfruttamento di aree boschive. Intanto, ha acquisito quasi l’1% delle foreste in Romania, divenendo la più grande proprietaria di superficie forestale.
Quei razzisti come i portoghesi.
Portogallo, errore nelle intercettazioni sul cognome di António Costa (che ormai si è dimesso). Storia di Matteo Castellucci su Il Corriere della Sera domenica 12 novembre 2023.
Il premier ormai si è dimesso, e il Portogallo tornerà al voto il 10 marzo del 2024, ma non era lui l’António Costa citato nelle intercettazioni dell’«Operation Influencer» che ha travolto i Socialisti al governo. Era un quasi omonimo, cioè António Costa Silva, il suo ministro dell’Economia.
La svista nelle carte
A segnalare l’errore ai giudici è stata la difesa di Diogo Lacerda Machado, uno dei fedelissimi del premier tra i 5 arrestati martedì. La procura ha ammesso lo sbaglio nella trascrizione di una telefonata, registrata il 31 agosto 2022, tra Lacerda Machado e un dirigente d’azienda su uno dei progetti (il data center a Sines) su cui vertono le indagini per corruzione. Il testo dell’ordinanza si fermava a «Costa», ma nell’audio si sente il cognome completo.
Nella frase intera, tra l’altro, si rifletteva su quale dicastero sondare: «Se si tratta di Economia, troverò un modo per raggiungere António Costa». Il ministro, ha chiarito Lacerda Machado nell’interrogatorio a Lisbona. Per raggiungere il capo di governo — suo amico personale, da cui in passato ha ricevuto dossier pesanti — gli sarebbe bastata una chiamata. Da qui la formula.
In tv, Costa si è professato innocente e ignaro dell’inchiesta. Si è dimesso di fronte a sospetti che non considera compatibili con il mandato, quando la Corte suprema ha confermato l’esistenza di un fascicolo, per presunto traffico d’influenze, a suo carico. Prima di convocarlo (due volte), martedì il presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa ha ricevuto a Belém la procuratrice generale, Lucília Gago.
Questa, rettificata, sarebbe finora l’unica ricorrenza esplicita del nome del primo ministro nelle carte, anche se vanno ancora sbobinate altre intercettazioni. Tra le 42 perquisizioni, le sedi di due ministeri e la residenza del premier. Qui, a Palacio São Bento, gli agenti hanno scoperto più di 75 mila euro in contanti nell’ufficio del capo di gabinetto di Costa, Vítor Escária. Le banconote nascoste tra i libri e persino dentro casse di vino. Ieri è stato convalidato il carcere preventivo per Escária e Lacerda Machado.
La crisi istituzionale
C’è poi l’altro filone, sulle autorizzazioni per le miniere di litio nel nord del Paese. Se anche finisse tutto con un’archiviazione di Costa (al momento solo indagato), resterebbe il danno d’immagine. La credibilità del governo, e di un sistema di potere, sono compromesse. Tra i 9 imputati c’è anche il ministro delle Infrastrutture, João Galamba.
L’ennesimo scandalo non sarà riassorbito da un rimpasto, anche perché de Sousa ormai ha sciolto il Parlamento. Sabato sera, in un discorso alla nazione, Costa ha scaricato il suo inner circle. Ha parlato di vergogna e fiducia tradita. Ha chiesto scusa ai portoghesi. Sui legami con Lacerda Machado, un tempo definito «il mio migliore amico», ha detto che «un primo ministro non può averne», perché più a lungo governa e meno gliene restano. E lui è al potere dal 2015.
Fino a marzo resterà ad interim, anche per chiudere la finanziaria. È stata esclusa una staffetta con Mário Centeno, ex presidente dell’Eurogruppo. Costa era ritenuto tra i favoriti per la successione a Charles Michel alla guida del Consiglio europeo, al prossimo giro di nomine. «Con molta probabilità non ricoprirò più alcuna carica pubblica», ha detto sabato. Prima dell’ultimo colpo di scena.
Estratto dell’articolo di Matteo Castellucci per il “Corriere della Sera” lunedì 13 novembre 2023.
Il primo ministro ormai si è dimesso, e il Portogallo tornerà al voto il 10 marzo del 2024, ma non era lui l’António Costa citato nelle intercettazioni dell’«Operation Influencer» che ha travolto i Socialisti al governo. Era un quasi omonimo, cioè António Costa Silva, il suo ministro dell’Economia.
A segnalare l’errore ai giudici è stata la difesa di Diogo Lacerda Machado, uno dei fedelissimi del premier tra i 5 arrestati martedì. La procura ha ammesso lo sbaglio nella trascrizione di una telefonata […] tra Lacerda Machado e un dirigente d’azienda su uno dei progetti (il data center a Sines) su cui vertono le indagini per corruzione. Il testo dell’ordinanza si ferma a «Costa», ma nell’audio si sente il cognome completo.
Nella frase intera […] si rifletteva su quale dicastero sondare: «Se si tratta di Economia, troverò un modo per raggiungere António Costa». Il ministro, ha chiarito Lacerda Machado nell’interrogatorio a Lisbona. Per raggiungere il capo di governo — suo amico personale, da cui in passato ha ricevuto dossier pesanti — gli sarebbe bastata una chiamata. Da qui la formula.
In tv, Costa si è professato innocente e ignaro dell’inchiesta. Si è dimesso di fronte a sospetti che non considera compatibili con il mandato, quando la Corte suprema ha confermato l’esistenza di un fascicolo per presunto traffico d’influenze a suo carico. […]
Tra le 42 perquisizioni, le sedi di due ministeri e la residenza del premier. Qui, a Palacio São Bento, gli agenti hanno scoperto più di 75 mila euro in contanti nell’ufficio del capo di gabinetto di Costa, Vítor Escária. Le banconote nascoste tra i libri e persino dentro casse di vino.
Ieri è stato convalidato il carcere preventivo per Escária e Lacerda Machado. C’è poi l’altro filone, sulle autorizzazioni per le miniere di litio nel nord del Paese. Se anche finisse tutto con un’archiviazione di Costa (al momento solo indagato), resterebbe il danno d’immagine.
La credibilità del governo, e di un sistema di potere, sono compromesse. Tra i 9 imputati c’è anche il ministro delle Infrastrutture, João Galamba. L’ennesimo scandalo non sarà riassorbito da un rimpasto, anche perché de Sousa ormai ha sciolto il Parlamento.
Sabato sera […] Costa ha scaricato il suo inner circle. Ha parlato di vergogna e fiducia tradita. Ha chiesto scusa ai portoghesi. Sui legami con Lacerda Machado, un tempo definito «il mio migliore amico», ha detto che «un primo ministro non può averne», perché più a lungo governa e meno gliene restano. E lui è al potere dal 2015.
Fino a marzo resterà ad interim, anche per chiudere la finanziaria. È stata esclusa una staffetta con Mário Centeno, ex presidente dell’Eurogruppo. Costa era ritenuto tra i favoriti per la successione a Charles Michel alla guida del Consiglio europeo, al prossimo giro di nomine. «Con molta probabilità non ricoprirò più alcuna carica pubblica», ha detto sabato. Prima dell’ultimo colpo di scena.
Estratto dell’articolo di Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” lunedì 13 novembre 2023.
Il suo nome è Santos da Costa. António-Luis Santos-da-Costa. Ma è nazionalmente e internazionalmente noto nella forma abbreviata di Costa, António Costa, 119esimo primo ministro del Portogallo.
Ha ricoperto la carica con indiscussa agilità per quasi otto anni, dei quali non festeggerà l’anniversario per sole due settimane e un banale scambio di persona con il suo ministro dell’Economia, António José da Costa Silva.
Socialista da quando aveva 14 anni — ora ne ha 62 — il Costa capo di governo è in Parlamento da quando ne aveva 30 ed è stato il sindaco di Lisbona tra il 2007 e il 2015.
Negli anni ha abituato i suoi connazionali a qualche colpo di scena, soprattutto in campagna elettorale.
Come quella volta — era il 1993 — che organizzò una gara di velocità tra un asino e una Ferrari per le trafficate vie di accesso alla capitale. Il bolide su quattro zampe batté quello su quattro ruote, impantanato negli ingorghi, e Costa si guadagnò le simpatie di tutto il Paese, ma mancò, per meno di duemila voti, la poltrona di primo cittadino a Loures, roccaforte comunista nei dintorni di Lisbona.
La sua corsa politica, comunque, era appena all’inizio. Laureato in Giurisprudenza […], era già membro della Segreteria nazionale del suo partito nel 1995 e ministro per gli Affari parlamentari nel governo di António, nel 1997, per passare due anni più tardi al dicastero della Giustizia, dov’è rimasto fino al 2002.
Vicepresidente del Parlamento europeo nel 2004, dall’anno seguente era di nuovo ministro dell’Interno nel governo di José Socrates che, nel 2007, patrocinò la sua candidatura a sindaco di Lisbona.
[…] La popolarità di Costa aumentò, ma soprattutto si raffinò il suo fiuto di «animale politico», capace di cogliere e cavalcare gli umori della piazza. Aveva ottenuto quasi il 30% delle preferenze nel 2007, fu riconfermato con oltre il 40% nel 2009 e con quasi il 51% nel 2013.
[…] Costa capì di avere basi di consenso sufficientemente solide per puntare ai vertici del partito socialista, del quale aveva già presieduto il gruppo parlamentare tra il 2002 e il 2004. Sfidò nel 2014 il segretario António José Seguro e vinse la scommessa.
Ma è l’anno dopo, nel 2015, che António Costa diventa un modello di strategia, l’architetto delle alleanze impossibili. Accade infatti che a vincere le elezioni sia la coalizione di destra «Portugal a frente» guidata dal primo ministro in carica, Pedro Passos Coelho […].
Costa raduna tutte le forze disponibili a sinistra, i comunisti e il Bloco de Esquerda, che include anche l’estrema sinistra, e riesce a scippare all’avversario l’incarico di formare il governo. Certo, molti portoghesi arricciano il naso di fronte a quel guazzabuglio, soprannominato la «geringonça».
Ma funziona, regge perfino l’onda d’urto della pandemia, salvo naufragare un anno fa, su diverse questioni: gli stipendi dei dipendenti pubblici, l’aumento del salario minimo, il costo dei trasporti. L’anno scorso il Portogallo riconferma la sua fiducia nel primo ministro, con il 41,7% dei voti. António Costa sarebbe diventato il premier più duraturo dai tempi della Rivoluzione dei Garofani, che aveva posto fine alla dittatura nel 1974, non fosse stato per un’omonimia.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Gli Scandali.
Le tradizioni.
I Serial Killer.
I Politici.
Estratto dell'articolo di Veronica Cursi per ilmessaggero.it lunedì 4 dicembre 2023.
I Windsor (stranamente) questa volta non c'entrano. Il gossip, stavolta, riguarda un'altra famiglia reale: quella spagnola. E più precisamente la regina Letizia Ortiz, protagonista (suo malgrado) di un libro scandalo in cui viene raccontata - con tanto di foto rivelatrici - la lunga storia d'amore che la sovrana avrebbe avuto con il suo ex cognato, Jaime Del Burgo, 53 anni. Relazione che - udite, udite - sarebbe continuata anche quando Letizia era già sposata con Felipe di Spagna, nel 2004.
La foto scandalo
Sabato scorso, Del Burgo ha pubblicato una foto che ritrae la regina davanti allo specchio mentre si scatta un selfie. Nella controversa fotografia, Letizia è incinta. L'immagine è accompagnata da un testo, digitato dallo stesso Jaime del Burgo nel suo account X, che sembra scritto da Letizia, ma senza alcuna prova a sostegno. Il testo dice: «Amore. Indosso la tua pashmina. È come sentirti accanto a me. Si prende cura di me. Mi protegge. Conto le ore finché non ci rivedremo. Amando Te. Fuori di qui». La foto fa il giro del web. Ma solo 24 ore dopo Jaime cancella il post e il messaggio.
La relazione d'amore
Questo messaggio (e molto altro) è parte del contenuto del nuovo libro di Jaime Peñafiel, dal titolo: ‘Letizia ed io’, in cui viene data voce alla testimonianza di Del Burgo. Una relazione che, come spiegato dallo stesso imprenditore, ha attraversato “quattro fasi” iniziata come “relazione d’amore” dal 2002 al 2004; passando per “amici e confidenti”, dal 2004 al 2010; a riprendere la loro storia d’amore, questa volta più “duratura e continuativa” tra il 2010 e il 2011 fino a diventare “cognati”, dal 2012 al 2016.
La proposta di matrimonio fallita
Nel 2004, senza sapere che la sua fidanzata giornalista era fidanzata con il principe Filippo, Del Burgo – figlio del politico Jaime Ignacio del Burgo – la invitò a cena nel giardino dell’hotel Ritz per chiederle di sposarsi. «Aveva in tasca un anello di fidanzamento, però non poteva darglielo, perché a quanto pare Letizia gli aveva rivelato di aver incontrato un uomo che le avrebbe cambiato completamente la vita: Felipe di Borbone e di Grecia». Dopo l'annuncio del loro fidanzamento Letizia chiese a Jaime di essere testimone al loro matrimonio.
L'idea di fuggire insieme
Tuttavia, Jaime afferma di aver avuto una relazione romantica con Letizia anche dopo il matrimonio nel 2004 e afferma di aver conservato come prova "fotografie, video, telefoni cellulari" e messaggi di testo. […] Jaime sostiene che "hanno fatto passi avanti con l'obiettivo di essere liberi", il che ha comportato la ricerca di una consulenza legale (per le figlie di lei) e l'idea di andare negli Stati Uniti.
Volevano un figlio
Una delle affermazioni più dannose secondo quanto riferito da Jaime è che la regina Letizia ha suggerito di avere un figlio insieme utilizzando una madre surrogata a Los Angeles. […]
Il matrimonio con la sorella della regina
L'anno successivo, nel 2012, Jamie si fidanzò con la sorella minore di Letizia, Telma Ortiz, che lavorava nel comune di Barcellona,dopo soli due mesi di frequentazione. La sorella della regina ha già avuto la figlia Amanda, nata dalla relazione con l'ex compagno Enrique Martin Llop. Il matrimonio tuttavia durò solo due anni, fino al 2014. Un portavoce della famiglia reale spagnola ha detto a FEMAIL: «Non abbiamo commenti da fare al riguardo».
[…]
Letizia di Spagna: l'ex cognato sostiene di essere stato suo amante. "Sognavamo di scappare insieme". Eva Grippa su La Repubblica il 05 Dicembre 2023.
Un libro uscito in Spagna mette nero su bianco le confessioni di Jaime del Burgo, ex marito di Telma Ortiz e dunque ex cognato della regina Letizia. Che sostiene di essere stato suo amante prima e dopo il matrimonio dell'ex giornalista con il principe Felipe, oggi re
La regina Letizia di Spagna avrebbe avuto una relazione extraconiugale con l’ex marito di sua sorella. Che lo racconta in un libro e fornisce una prova. Si chiama Jaime del Burgo, ha 53 anni e dal Regno Unito, dove vive, ha dato il suo contribuito al libro "Letizia & I" del giornalista Jaime Peñafiel con rivelazioni piuttosto piccanti e pericolose per la casa reale spagnola.
L’uomo sostiene infatti di aver avuto una relazione con l'allora giornalista Letizia Ortiz prima del suo incontro con Felipe, allora principe ereditario, ma, secondo lui, sarebbe stato di nuovo l'amante di Letizia anche dopo il 2004, quando lei era già sposata con Felipe, oggi re di Spagna. Alla richiesta di una dichiarazione ufficiale da parte del Daily Mail, che - come come gran parte della stampa europea si è dimostrato interessato alla storia - la casa reale ha risposto: "Non abbiamo commenti da fare al riguardo".
La portata delle dichiarazioni dell’uomo va perfino oltre l’accusa di tradimento di Letizia; del Burgo sostiene infatti che Letizia gli avesse proposto di fare un figlio insieme con madre surrogata. Ma facciamo un passo indietro per inquadrare i personaggi e ricostruire la vicenda.
Chi è l’ex presunto amante della regina Letizia
Jaime del Burgo Aspíroz, nato a Pamplona nel 1970, è figlio del político Jaime Ignacio del Burgoun e a oggi si definisce imprenditore e investitore. Ha incontrato Letizia Ortiz nel 2000, quando lei lavorava come giornalista per la CNN+. Ufficialmente i due strinsero amicizia e a un certo punto del Burgo iniziò a frequentare Telma Ortiz, sorella di Letizia; i due si sono sposati nel 2012 e hanno divorziato nel 2014, quindi è stato cognato della regina per due anni. La presunta relazione con Letizia, sarebbe stata precedente: intervistato da El Cierre Digitial, l’autore del libro Jaime Peñafiel ha detto che la regina è stata il "grande amore" di del Burgo e che la relazione tra i due si è trasformata in "grande amicizia" quando lei si è innamorata del principe ereditario Felipe.
Il racconto del presunto amante e quella foto che prova la relazione (poi cancellata)
Per confermare la storia della relazione con Letizia, del Burgo ha condiviso su Twitter un'immagine come "prova”: un selfie in cui l’allora giornalista si ritraeva in ascensore con addosso una sciarpa che lui le aveva regalato, accompagnato da un messaggio: “Amore. Indosso la tua pashmina. È come sentirti al mio fianco. Si prende cura di me. Mi protegge. Conto le ore in attesa di rivederti. Ti amo”. Molti utenti hanno subito messo in dubbio la veridicità delle affermazioni, dato che non vi era alcuna prova che quelle fossero davvero le parole di Letizia e, travolto dai commenti, l'uomo lo ha rimosso.
La storia che il libro scandalo racconta: Jaime del Burgo avrebbe incontrato Letizia prima del 2000 e iniziato una relazione durante un viaggio a Venezia: "Sognavamo di scappare sieme". Sarebbe stato sul punto di farle una proposta di matrimonio nel 2002, quando lei durante una cena all'hotel Ritz di Madrid lo avrebbe lasciato perché aveva iniziato a uscire con un misterioso "diplomatico". L'autore del libro Jaime Peñafiel, già autore di altri libri sulla famiglia reale spagnola, sostiene che quella sera del Burgo avesse "un anello di fidanzamento in tasca". Letizia gli avrebbe detto di aver "incontrato qualcuno che l'avrebbe presto costretta a lasciare la sua professione", e da lì si è dedotto che il partner misterioso fosse il principe ereditario Felipe di Spagna.
Letizia - lo ricordiamo - aveva divorziato dal primo marito nel 1999. L’annuncio del fidanzamento con il principe arrivò nel 2003 e lei, stando a quanto scritto nel libro, avrebbe chiesto a Jaime di fare da testimone. L’uomo afferma perfino di essersi occupato in veste di legale dell'accordo prematrimoniale e di aver contribuito a coprire i costi della boda real (matrimonio reale): “Ho dovuto pagare le spese della famiglia di Letizia perché [l'ex re] Juan Carlos si è rifiutato di pagare o di fare a metà con me. Così, con l'aiuto del mio amico Felipe Varela, ho vestito sua madre, sua nonna e le sue sorelle. E con l'aiuto di Jaime Jason, suo padre, i nonni e un cugino”.
Ma c’è di più: sostiene che Letizia abbia voluto vederlo la sera prima del matrimonio nell'esclusivo ristorante El Latigazo di Madrid: “Quando ci siamo visti, lei mi ha preso la mano e mi ha chiesto perché non le avevo mai chiesto di sposarmi. Ovviamente non ho risposto. L'ho incoraggiata come meglio potevo. L'ultima cosa che mi disse prima di salutarci in quel ristorante fu una richiesta: "Non lasciarmi mai".
Quanto al principe, del Burgo lo descrive come un "uomo dal grande cuore": lui e Letizia avrebbero avuto una "relazione difficile” e Felipe lo avrebbe “usato come tramite perché si sentiva incapace di calmarla". Dice anche che Letizia entrò nella famiglia reale come una "volpe in un pollaio" poiché era "più intelligente di tutti loro".
Poi, sgancia la bomba: l’uomo afferma di aver avuto una relazione romantica con Letizia anche dopo il matrimonio reale, nel 2004. E di aver conservato fotografie, video e messaggi di testo come prove. La fotografia che ha condiviso su Twitter sarebbe stata scattata perfino quando Letizia era incinta, tra il 2005 e il 2007, e l’uomo afferma che Letizia gli disse di amarlo ancora una sera, mentre erano sdraiati su un'amaca vicino alla piscina di casa sua, dopo la nascita della principessa Leonor. L’uomo sostiene che la regina Letizia gli abbia suggerito di avere un figlio insieme utilizzando una madre surrogata a Los Angeles.
“’È stato un periodo bellissimo. Non avevo figli e quelle ragazze (le principesse) mi rendevano felice. Durante le mie visite a Madrid andavo spesso al cinema con Felipe, Letizia e alcuni amici. Io e Letizia sedevamo sempre insieme, tenendoci per mano”. Poi, nell'agosto 2011, del Burgo racconta che Letizia avrebbe interrotto bruscamente la loro relazione: "Non possiamo continuare a vederci”. Un'amica comune gli avrebbe detto di mettersi in contatto con la sorella di lei, Telma; l'aveva conosciuta poco tempo prima, durante una serata al cinema trascorsa assieme a Letizia e Felipe. Del Burgo e Telma iniziano a frequentarsi e si fidanzano ufficialmente dopo soli due mesi. L’uomo racconta che la regina sarebbe stata gelosa: “Quando gli ospiti si congratularono con noi, al matrimonio, venne il turno di Letizia che baciandomi sulla guancia mi sussurrò all'orecchio: 'Staremo di nuovo insieme’. Nel 2012 la coppia si trasferisce a New York ma Telma torna presto a Barcellona e annuncia la loro separazione definitiva nel 2014. Negli anni successivi Telma si è risposata e così anche del Burgo, con l'avvocatessa svedese Lucía Díaz Liljestrom da cui ha avuto una figlia, Ulla.
Le conseguenze delle illazioni sulla famiglia reale
Il racconto di del Burgo contenuto all'interno del libro in uscita, "Letizia & I" fa parlare, ma non è stato preso seriamente dalla famiglia reale. Che ha scelto di non commentare alcuna delle affermazioni.
Stessa linea ha mantenuto (per ora) anche la sorella della regina, Telma Ortiz; la donna peraltro ha un trascorso burrascoso con la stampa spagnola, perché negli anni successivi al fidanzamento di Letizia con il principe delle Asturie, la sua vita sentimentale e lavorativa aveva iniziato a riempire le pagine dei tabloid un po’ come accaduto nel Regno Unito a Pippa Middleton, la sorella di Kate, quando è stato annunciato il fidanzamento con il principe William. La persecuzione da parte paparazzi è stata tanto stressante che nel maggio 2008 Telma ha denunciato 57 organi di stampa chiedendo si astenessero dal “catturare, pubblicare, distribuire, diffondere, trasmettere o riprodurre immagini di lei o del suo partner”. Quanto alla famiglia Ortiz, si è sempre tenuta lontano dalla stampa, anche per via di una tragedia vissuta nel 2007, quando Erika, sorella minore di Letizia e di Telma, era morta suicida. Il suo corpo venne trovato senza vita nell’appartamento in cui la ragazza, allora 31enne, viveva: quello lasciato dalla sorella quando si era sposata con il principe Felipe.
Estratto dell’articolo di Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” giovedì 7 dicembre 2023.
L’opinione pubblica spagnola, stavolta, sembra meno disposta a scandalizzarsi di eventuali scappatelle extraconiugali in Casa Borbone; e si schiera massicciamente con la fedifraga, o presunta tale: la regina Letizia. A pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo libro di Jaime Peñafiel, giornalista di lungo corso, specializzato in biografie reali, tocca a Jaime del Burgo, sedicente amante segreto della consorte di Felipe VI, nonché «gola profonda» dell’autore, finire alla gogna sulle reti sociali.
Tanto da aver dovuto abbassare, almeno momentaneamente, la saracinesca su alcuni dei suoi profili online, bersagliati da accuse di machismo e violenza sessista.
Di certo c’è solo che l’esuberante protagonista delle rivelazioni contenute nel libro Letizia y yo , Letizia ed io, è il cognato uscente della sovrana, ex marito della sorella minore, Telma Ortiz Rocasolano. […] vent’anni fa […] Jaime del Burgo, attualmente installato a Londra con moglie svedese, assicura di aver avuto una travolgente storia d’amore con Letizia, quando era ancora una rampante giornalista televisiva divorziata e non aveva incontrato il suo principe delle Asturie.
Ma soprattutto di aver condiviso con lei qualche clandestino ritorno di fiamma quando le nozze reali erano già state celebrate; e, peggio ancora, quando l’allora principessa delle Asturie era in attesa della primogenita, Leonor, oggi diciottenne e, da poco più di un mese, ufficialmente investita del titolo di erede al trono di Spagna.
Per convincere gli increduli, i due Jaime hanno documentato la loro versione con video e messaggi oculatamente archiviati dal destinatario. Tra i più compromettenti, anche se non ancora di certificata autenticità, c’è un selfie allo specchio di Letizia Ortiz, ormai coniugata Borbone di Spagna, avviluppata in uno scialle nero. Testo: «Amore. Indosso la tua pashmina. È come sentirti al mio fianco. Si prende cura di me. Mi protegge. Conto le ore finché non ci rivedremo».
[…] Jaime del Burgo ricostruisce quello che l’autore del libro definisce il «grande amore» della regina, la quale sarebbe rimasta una vivace borghese e l’avrebbe forse sposato se, al momento della proposta, non avesse appena conosciuto il figlio di Juan Carlos I di Borbone, nel 2003. Da allora, assicura il marito mancato, una cordiale amicizia si sarebbe instaurata fra i tre, tanto da essere invitato al matrimonio di Felipe e Letizia. Fino al risveglio dei sentimenti repressi, tra il 2004 e il 2010 o 2011.
Nel 2012 Jaime del Burgo, oggi 53 enne, ha sposato la sorella minore della perduta fidanzata, Telma, dalla quale ha divorziato due anni dopo.
[…] In ogni caso, intervistato da El Cierre Digital , lo scrittore, Jaime Peñafiel, garantisce di aver pubblicato solo l’1% di quanto l’ex cognato reale gli ha confessato: e che non divulgherà il restante 99%, a meno di esserci costretto. Un velato avvertimento ai portavoce della Casa Reale che, in ogni caso, hanno totalmente ignorato la bagarre scatenata da Letizia y yo . Chi non arretra è il loquace amante deluso, ma non pentito, che twitta (sempre che non sia stato hackerato): «Non cambio una virgola dei miei post precedenti. Non serbo rancore a quanti mi hanno minacciato di morte. Però la verità è quella che è. Io riconosco un solo re, sta in Cielo e si chiama Gesù di Nazareth. Lui mi giudicherà». Sempre che anche Lui sia interessato ai gossip di Casa Borbone.
Jaime del Burgo, chi è il cognato e presunto amante della Regina Letizia di Spagna. Le rivelazioni online e in un libro scritto da Jaime Peñafiel dell'ex marito di Telma Ortiz Rocasolano, sorella della sovrana. Andrea Aversa su L'Unità il 7 Dicembre 2023
Terremoto a Madrid, in particolare dentro la famiglia reale spagnola. Jaime del Burgo, cognato della regina Letizia, ha rivelato si essere stato suo amante, prima e dopo il suo matrimonio con Re Felipe. Burgo è l’ex marito di Telma Ortiz Rocasolano, sorella della sovrana e sarebbe stato la fonte del giornalista Jaime Peñafiel che ha scritto e pubblicato il libro Letizia y yo (Letizia ed io). L’autore è un esperto di biografie delle case reali e il suo ultimo scritto ha scatenato la gogna mediatica contro Burgo. Quest’ultimo è stato persino costretto a sospendere l’utilizzo dei suoi profili social, attaccati dagli haters.
Jaime del Burgo: chi è il cognato e presunto amante della Regina Letizia di Spagna
Le accuse sono state di machismo e violenza sessista. Tuttavia, Peñafiel è anche noto per non essere un estimatore della Regina di Spagna. Quest’ultima secondo i racconti sentimentali ed erotici di Burgo, avrebbe avuto con lui un’intensa, focosa e passionale relazione quando ancora non conosceva Felipe VI. Storia che sarebbe stata ripresa in diverse fasi anche quando Letizia e il Re erano sposati e in attesa della nascita della primogenita ed erede al trono Leonor (ovvero nel 2004, nel 2010 e nel 2011). Ciò che è stato raccontato, scritto e pubblicato, è stato a sua volta documentato con video, foto e messaggi. Una corrispondenza che avrebbe avuto per protagonista i due amanti.
“Amore. Indosso la tua pashmina. È come sentirti al mio fianco. Si prende cura di me. Mi protegge. Conto le ore finché non ci rivedremo“, questo il testo che ha accompagnato un’immagine diventata virale sui social: Letizia di Spagna con il capo avvolto, appunto, in una pashmina. Fotografia che per molti sarebbe falsa e che sarebbe stata sviluppata tramite l’intelligenza artificiale. Per Burgo è sempre stato lui il vero amore di Letizia. Lui sarebbe stato anche pronto a sposarla se nel 2001 l’ex giornalista non avesse conosciuto il figlio di Re Carlos I di Borbone. Nel tempo il rapporto ‘a tre’, tra Felipe, la moglie e Burgo è stato caratterizzato dall’amicizia, tanto che la ‘gola profonda’ dello scandalo è stato anche invitato al matrimonio reale.
Burgo, 53 anni e nato a Pamplona, è figlio del politico Jaime Ignacio del Burgoun. Si definisce imprenditore e investitore. Oggi vive a Londra ed è nuovamente sposato con l’avvocatessa svedese Lucía Díaz Liljestrom da cui ha avuto una figlia, Ulla. Il primo matrimonio è stato proprio con Telma Ortiz Rocasolano celebrato nel 2012 e finito due anni dopo. Il rapporto tra le due sorelle è sempre stato al centro delle attenzioni dei media scandalistici spagnola. L’autore del libro, Peñafiel ha dichiarato di aver dato in stampa solo l’1% di ciò che Burgo ha raccontato. Il restante 99% dei segreti dell’ex cognato di corte, resterà tale. Per ora la Casa Reale non ha replicato. Burgo ha invece twittato: “Non cambio una virgola dei miei post precedenti. Non serbo rancore a quanti mi hanno minacciato di morte. Però la verità è quella che è. Io riconosco un solo re, sta in Cielo e si chiama Gesù di Nazareth. Lui mi giudicherà“.
Andrea Aversa 7 Dicembre 2023
Il giuramento dell’erede di Spagna Leonor di Borbone. Le sue parole: «Darò il migliore esempio». Enrica Roddolo su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.
Davanti alle Cortes, ma senza re Juan Carlos, alle 11.37 ha pronunciato la formula della Carta Magna. Poi al Palazzo Reale. Solennità e protocollo come per papà Felipe VI 37 anni fa. «Il consenso al 63% per l’erede aiuterà la monarchia spagnola»
Voce sicura, tailleur pantalone bianco, capelli legati indietro, Leonor ha giurato sulla Costituzione, la Carta Magna della Spagna. Oggi a Madrid, Leonor di Borbone giurando davanti alle Cortes riunite in sessione solenne, applaudita dai deputati, ha abbracciato il suo destino. Il destino della figlia di re Felipe VI e Letizia che le hanno dato un bacio affettuoso, dopo il giuramento.
Leonor che più tardi al Palazzo d’Oriente, l’antico palazzo reale della monarchia spagnola, ha pronunciato le sue prime parole da erede: «He contraído una gran responsabilidad con España ante las Cortes Generales, que espero corresponder con la mayor dignidad y el mejor ejemplo». «Assumo una grande responsabilità, spero di farlo con la massima dignità e dando il migliore esempio». Parole che non possono non rimandare alla mente i recenti scandali della monarchia spagnola.
Poi Leonor ha aggiunto: «Chiedo agli spagnoli di fidarsi di me come io ho fiducia nel futuro della Spagna». A rassicurarla le parole del padre re Felipe VI: «Cara Leonor, non sarai sola nel tuo percorso (verso la Corona)».
La giovane principessa da oggi potrà sostituirsi (temporaneamente al padre). E le Cortes Generales sono state generose negli applausi. Lunghi e vigorosi. Applausi dei quali la monarchia spagnola ha grande bisogno dopo gli scandali e in un Paese attraversato da pulsioni repubblicane e indipendentiste.
E mentre la giovane principessa giurava — nell’emiciclo parlamentare gli ex primi ministri Jose Luis rodriguez Zapatero , Jose Maria Aznar , Mariano Rajoy e Felipe Gonzalez — la Guardia Real ha intonato l’inno nazionale mentre davanti alla cattedrale de la Almudena, 19 colpi di cannone hanno segnato il momento storico per la Spagna. Dopo il giuramento, l’erede ha ricevuto le medaglie del Congresso e del Senato.
Poi, su una Rolls Royce Phamton IV, scortata dall’Escaudròn de Escolta Real a Caballo, con misure di sicurezza eccezionali ( 900 agenti della Polizia nazionale e 400 di quella municipale) la famiglia reale ha attraversato Madrid per recarsi al Palazzo d’Oriente, il vecchio palazzo reale che Juan Carlos come pure Felipe VI non hanno mai voluto abitare. Qui la giovane erede riceve il Collar de Carlos III.
Una cerimonia, quella del Collare di Carlo III, che si svolge in presenza dei tre poteri dello Stato: il governo rappresentato da Pedro Sànchez e i ministri (salvo quelli che hanno scelto di non esserci oggi al giuramento), il presidente del Tribunal Supremo e del Consiglio generale del potere giudiziario.
Tutto si è svolto sotto il quadro di re Carlo III, con re Felipe che ha posto al collo della figlia l’onorificenza, prima di dirigersi con gli invitati alla sala del Trono, quindi al pranzo ufficiale.
Il Collare di Carlo III risale al 1771 ed è, con il Toson d’Oro del quale Leonor è già stata insignita nel 2015, la più importante onorificenza spagnola che riconosce cittadini che abbiano svolto «eminentes y extraordinarios servicios a la Nación». Oltre alla famiglia reale, il Collare, può essere attribuito solo a 25 cittadini spagnoli meritevoli.
La principessa Leonor era arrivata stamane alle Cortes al giuramento sulla Rolls con la sorella, l’Infanta Sofia. Preceduta dal re e dalla regina Letizia scortati dalla guardia a cavallo. Accolta alle Cortes da scrosci di lunghi applausi.
«Un giuramento che è espressione pubblica del rispetto alla nostra Costituzione da parte della Corona. Un giuramento che cade nel 45mo anno dall’approvazione della Costituzione da parte delle Cortes Generales», ha detto la p residentessa del Congreso, Francina Armengol, ricordando i «tempi moderni e convulsi».
«Lo stesso giuramento fatto dal padre Felipe il 30 gennaio 1986 quando la Spagna guardava al futuro, nell’Unione europea. Oggi siamo una Spagna con un peso nel mondo, con la presidenza dell’Unione europea. Un Paese rispettoso delle sue diversità, aperto e prospero», ha detto Armengol, evocando un poeta basco, con citazioni anche in catalano e galiziano.
Quasi a voler ricomprendere nel momento solenne dell’erede al trono anche quelle forze indipendentiste che invece hanno scelto di non essere presenti nell’emiciclo delle Cortes riunite in sessione straordinaria. Alla vigilia del giuramento i partiti ERC, Bildu e BNG, dicendo di interpretare il «sentimento di milioni di persone che non riconoscono il sistema monarchico spagnolo» non avevano infatti risparmiato le sferzate alla monarchia colpevole secondo le forze politiche di aver «amaparado sistematicamente la corrupciòn».
Così oggi è «nata» una futura regina, al compimento del suo diciottesimo. Una futura regina che dovrà portare nuova simpatia alla giovane monarchia spagnola. Come quando giurò il padre Felipe, nel 1986 davanti al Parlamento e sotto gli occhi di re Juan Carlos. E la formula del giuramento della figlia di Felipe e Letizia, secondo l’articolo 61 della Carta Magna, è stata la stessa seguita da Felipe: «Juro desempeñar fielmente mis funciones, guardar y hacer guardar la Constitución», giuro di svolgere con lealtà le mie funzioni, preservare la Costituzione.
«Il consenso della principessa è salito al 63%: con la sua giovinezza,gli occhi azzurri, i capelli biondi, complice l’ingresso all’Accademia militare di Zaragoza per il percorso di formazione nell’esercito, Leonor può essere la chiave del rilancio della monarchia. Tanto più in un momento difficile per il governo spagnolo», dice al Corriere, da Madrid, l’ex eurocommissario a Bruxelles con Jacques Delors nei‘90 (e poi ambasciatore a Madrid) Raniero Vanni d’Archirafi.
Rilancio dopo l’esilio volontario dell’ex re Juan Carlos negli Emirati dopo gli scandali finanziari e sentimentali per la relazione con Corinna zu Sayn-Wittgenstein-Sayn.
Da oggi, Leonor potrà sostituirsi al padre, Felipe VI, come reggente. «Accadde nell’agosto 1974, quando il nonno Juan Carlos per 43 giorni si sostituì come reggente a Francisco Franco ricoverato per problemi di salute. Mentre non si è mai presentata l’occasione per l’erede al trono Felipe», ricorda d’Archirafi. «Proprio l’ex re Juan Carlos è il grande assente alle Cortes, e non ci sarà pure al ricevimento al Palazzo reale dove Leonor riceverà il Collar de la Orden de Carlos III».
Ma ci sarà alla cena dei Borbone per i 18 anni di Leonor al palazzo del Pardo, l’ex residenza di Franco ora proprietà statale dove sono ospitati i dignitari stranieri. «E non ci saranno al giuramento di Leonor, i partiti indipendentisti, né basco, né catalano e Podemos — nota d’Archirafi —. Indizio del clima complesso in cui si inserisce il giuramento».
Mentre la Casa reale svela foto inedite dall’album di famiglia: Leonor cullata da Letizia; Leonor che nel 2014 segue papà Felipe all’Accademia di San Javier: primo atto militare della bimba destinata al trono. Un mese dopo Juan Carlos avrebbe abdicato. «Nessuna foto per raccontare i 12 anni di scuola al collegio di Santa Maria de los Rosales della principessa», nota d’Archirafi. Poi Leonor ha studiato all’Atlantic College in Galles, il «collegio dei futuri sovrani».
Ora Leonor è pronta con la sua freschezza a incarnare il futuro di un Paese attraversato da venti repubblicani e indipendentisti.
A 18 anni. Chi è la principessa di Spagna: Leonor di Borbone giura da erede di un trono amato e avversato da indipendentisti e repubblicani. La cerimonia di investitura della figlia di Re Felipe VI e della Regina Letizia davanti alle Cortes riunite. Ha chiesto agli spagnoli "di fidarvi di me, perché ho riposto tutta la mia fiducia nel nostro futuro". La protesta dei partiti indipendentisti e di Podemos. Redazione Web su L'Unità il 31 Ottobre 2023
Leonor di Borbone, principessa delle Asturie e primogenita di Re Felipe VI e della Regina Letizia, ha giurato sulla Costituzione Spagnola davanti alle Cortes riunite in una sessione solenne. È l’erede al trono: potrebbe diventare la seconda Regina della storia della Spagna unificata, l’ultima è stata Isabella II, che regnò dal 1833 al 1868. La principessa ha compiuto proprio oggi 18 anni, ha suscitato un vivace entusiasmo presso una grande parte dei cittadini tanto che si è cominciato a parlare di “Leonor-mania”. Ha chiesto agli spagnoli “che confidino in me, così come io confido pienamente nel nostro futuro”.
La cerimonia di giuramento si è tenuta al Congresso davanti a tutti i deputati e senatori, ex capi di governo e presidenti delle Comunità Autonome ed è stata seguita da decine di persone a Puerta del Sol sui maxischermi. Grandi assenti Juan Carlos, padre di Felipe e re fino all’abdicazione nel 2014, al momento in “esilio volontario” negli Emirati dopo gli scandali finanziari e per la relazione con Corinna zu Sayn-Wittgenstein-Sayn, e doña Sofía. Indizio che l’erede di Spagna avrà l’arduo compito di rivitalizzare un’istituzione molto amata ma anche molto avversata da impulsi repubblicani e indipendentisti.
La cerimonia
Al momento il feedback sulla popolarità della principessa sembra positivo per la Casa Reale. Almeno a giudicare dai social e dai sondaggi ma erano assenti al giuramento proprio i partiti indipendentisti, quelli basco e catalano – IU, ERC, Junts, Bildu, PNV e BNG -, e Podemos. Assenti anche i presidenti autonomi di Catalogna e Paesi Baschi. Le forze indipendentiste catalane, basche e galiziane hanno diffuso un manifesto in cui si afferma che la monarchia costituisce uno dei “massimi simboli della negazione dei diritti civili, politici e nazionali” e la “massima espressione di disuguaglianza, privilegi e impunità contro il resto del mondo”.
In tailleur e pantalone bianchi, capelli legati indietro, Leonor ha giurato davanti ai genitori e alla presidente del Congresso dei Deputati, Francina Armengol. La formula è stata la stessa pronunciata dal padre Felipe nel 1986: “Giuro di svolgere fedelmente le mie funzioni, di preservare e di far rispettare la Costituzione”. Gli applausi al giuramento delle Cortes sono stati generosi. La Guardia Real ha intonato l’inno nazionale, 19 colpi di cannone sono stati esplosi davanti alla cattedrale de la Almudena, l’erede ha ricevuto infine le medaglie del Congresso e del Senato.
Le parole della principessa
Leonor era arrivata alle Cortes con la sorella, l’Infanta Sofia, a bordo di una Rolls Royce Phamton IV. Con la stessa è stata scortata dall’Escuadron de Escolta Real a Caballo verso il Palazzo d’Oriente. Impiegati 900 agenti della Polizia Nazionale e 400 di quella municipale per il servizio di sicurezza. “He contraído una gran responsabilidad con España ante las Cortes Generales, que espero corresponder con la mayor dignidad y el mejor ejemplo”, le sue prime parole da erede al trono al Palazzo d’Oriente, l’antico palazzo reale della monarchia spagnola. “Ho assunto una grande responsabilità con la Spagna, davanti alle Corti Generali, che spero corrisponderò con la massima dignità e il miglior esempio”. Leonor da oggi potrà sostituirsi al padre come reggente.
“Condurrò le mie azioni in tutti gli ambiti della mia vita, tenendo sempre conto degli interessi generali della nostra nazione; osserverò comportamenti che meritano il riconoscimento e l’apprezzamento dei cittadini e adempirò ai miei obblighi con dedizione totale e incondizionata, cercando sempre di crescere come persona con l’amore e il sostegno della mia famiglia”, ha detto la Principessa. “Da oggi sono in debito con tutti gli spagnoli, che servirò in ogni momento con rispetto e lealtà. Non esiste orgoglio più grande. In questo giorno così importante – che ricorderò sempre con emozione – vi chiedo di fidarvi di me, perché ho riposto tutta la mia fiducia nel nostro futuro, nel futuro della Spagna. Grazie mille”.
Il grande assente alla cerimonia di giuramento e alla consegna del Collar de la Orden de Carlos III – davanti al premier Pedro Sanchez, i ministri e il presidente del Tribunale Supremo e del Consiglio generale del potere giudiziario – , Juan Carlos, parteciperà tuttavia alla cena dei Borboni per i 18 anni della nipote al Palazzo del Pardo. I commentatori hanno fatto notare come la cerimonia sia stata caratterizzata da una maggiore austerità rispetto a quella che aveva designato il padre dell’erede.
Chi è Leonor
Leonor è cresciuta al collegio di Santa Maria de los Rosales e ha studiato all’Atlantic College in Galles, il “collegio dei sovrani”. Suona il violoncello, si interessa di moda mentre le voci di gossip a proposito di una sua relazione sentimentale con il centrocampista del Barcellona Gavi sono cadute nel vuoto. Ha tenuto il suo primo discorso pubblico nel 2018, quando aveva 13 anni, in occasione del 40esimo anniversario della Costituzione spagnola. Ai Premi della Fondazione Principessa di Girona a Barcellona, nel 2019, ha parlato in quattro lingue: spagnolo, catalano, inglese e arabo. Ha consegnato il premio Principessa delle Asturie a Meryl Streep e celebrato l’attrice per come nella sua carriera sia riuscita a “spogliarsi della propria personalità per assumere i più diversi ruoli nel corso di una carriera impeccabile, con libertà, coraggio e sensibilità verso le sfide del nostro tempo”. Redazione Web 31 Ottobre 2023
Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” sabato 15 luglio 2023.
Fatevi un appunto mentale con questo nome: Ardilla. E’ il toro che ha cercato di incornarmi (ma bisogna ammettere che aveva molte buone ragioni per provarci). Ardilla, in castigliano, significa “scoiattolo”. Non dovete meravigliarvi, perché gli allevatori spagnoli danno ai tori i nomi più bizzarri. Comunque ad Ardilla ci arriveremo tra un po’. Ora seguitemi.
E’ una bella mattina e ci sono alte nuvole bianche sopra le montagne. La notte è piovuto e l’aria è fresca e pulita e lo sguardo scorre sui bastioni di Pamplona, l’antica capitale del regno di Navarra, […] la città che Gertrude Stein - nel 1923 - consigliò di visitare a Ernest Hemingway, facendogli così scoprire la festa di San Firmino e scrivere il suo primo romanzo, che resta anche il più famoso, “Fiesta”, con dentro otto giorni di corride e di corse insieme ai tori, uomini e donne in una rocambolesca gara con la morte e con i tori nei vicoli del centro storico. Un rito medioevale, tragico, spettacolare, misterioso, che trasuda sangue e resiste ancora adesso.
[…] La liturgia è precisa e immutabile. Anche molto coinvolgente. Migliaia di persone indossano l’abito tradizionale, sono vestite di bianco, con pantaloni e camicie bianche e poi, a scelta, ciascuno di loro sfoggia un fazzoletto, una cinta di stoffa, un berretto di colore rosso. Tutti sono vestiti così. I tassisti e i baristi, le anziane signore che escono dall’ufficio postale, gli addetti alla nettezza urbana, gli autisti dei bus e, ovviamente, i turisti.
La prima […] sensazione è che ci siano molti americani, qualche francese, pochissimi italiani, tantissimi spagnoli. Di ogni età. Comitive di sedicenni marciano verso la città vecchia insieme a coppie di ottantenni: a questi spagnoli piace la morte o, meglio, il rischio mortale. Se morendo non si morisse sul serio, morirebbero tutti i giorni.
Li vedi eccitati e compiaciuti e con quella certa allegria provocata da un elevato tasso di alcol nelle vene. Acquistano e vuotano bottiglioni di plastica pieni di un liquido rossastro che assomiglia alla sangria, certi preferiscono la birra nei bicchieri di plastica, chiunque sbevazza qualcosa mentre si attraversa Plaza del Castillo, dove ci sono ancora due classici luoghi di culto hemingwiano: il Café Iruna, il preferito dallo scrittore, e il Gran Hotel La Perla, con le sue foto alle pareti e la sua stanza meta di pellegrinaggio devoto, la 217; dormì lì anche l’ultima volta che venne in visita, nel 1959, due anni prima di infilarsi le canne della doppietta in bocca.
Il lancio del “chupinazo” è atteso in un’atmosfera febbrile. C’è gente persino sui balconi e alle finestre (affittate fino a 1500 euro). Il colpo arriva puntuale. La folla ondeggia, si stringe, si gonfia, poi esplode in una strepitosa sarabanda. I più giovani decidono di annaffiarci con il vino rosso. Euforia diffusa e abbracci e baci. […] Si balla ovunque. Comincia la lunga attesa che ci porterà alle 8 di domani mattina, quando partirà la prima corsa: l’”encierro”.
Colpisce che, ancora oggi, i partecipanti a questa “fiesta” si comportino in modo molto simile ai protagonisti del racconto di Hemingway: non fanno niente di fondamentale, non parlano della loro anima, non svelano i loro sentimenti. No: ordinano solo da bere e da mangiare, e se la spassano sotto una cappa mortale, in attesa di vedere qualcuno sbudellato.
[…] Il percorso si snoda lungo le stradine del centro storico: 850 metri totali, con partenza dalla salita di Santo Domingo per finire la corsa nell’arena di Plaza de Toros. La mandria è composta da sei tori e otto manzi, che hanno il compito di guidare i tori. I quali cambiano ogni giorno, perché la mattanza di una corrida non sai mai come può finire. I tori selvaggi vengono allevati soprattutto tra Andalusia ed Estremadura e vicino a Salamanca.
[…] Quando arrivano qui, trasportati a bordo di camion, sono nel pieno della forza e del nervosismo. Osservarli la sera prima, sentirli sbattere le corna contro le gabbie di ferro, imprigionati, repressi, costretti a caricarsi di cieca cattiveria, e quindi di fatto torturati dentro un destino di primordiale e stupida tauromachia, scatena un istinto battente: tifare per loro. Per i tori. Un sentimento che, all’alba, è ancora più forte.
[…] L’encierro dura, in media, tre minuti. Ma sono minuti piuttosto lunghi. I tori non muoiono mai durante la corsa: la morte va ad aspettarli nell’arena, e li affida ai toreri. Qui, a lasciarci la pelle, sono gli uomini. Dal 1922 al 2009, le vittime sono state 15. Il toro Semillero, il 10 luglio del 1947, fece secche due persone a distanza di pochi secondi. Il 13 luglio del 1980, Antioquio lo emulò. Il 9 luglio 1994 si contò il record dei feriti: 107.
[…] per i giornalisti e i fotografi ci sarebbe una postazione riservata tra via Mercaderes e via Estafeta. Lì c’è una curva a gomito. E in discesa. I tori tendono a scivolare verso l’esterno, andando a schiantarsi contro le barriere di legno. Possono arrivare a pesare anche 700 chili. La raccomandazione, per gli umani che hanno deciso di correre, è di tagliare la curva all’interno.
Qualunque persona abbia compiuto 18 anni può partecipare alla corsa. Il numero dei corridori oscilla tra i 2 mila e i 3500, come oggi. Al varco di accesso sotto il Museo di Navarra c’è la fila. Impediscono l’ingresso solo a chi è ubriaco, o zoppica, o ha troppi chili addosso. […]
Da un altoparlante, una voce ricorda, in spagnolo, quanto pericoloso sia partecipare. I più esperti […] spiegano a noi pivelli la regola principale per portare a casa la pelle: se cadi, assumi subito una posizione fetale con le mani in testa. Del rischio di essere incornati, non si parla. E’ un rischio. Punto.
La decisione di stare qui, all’inizio del tracciato, si rivela giusta. Cogli bene tutta l’assurda paura che i partecipanti desiderano sentirsi addosso. Vedi quello che saltella concentrato, per scaldare i muscoli. E quell’altro con la felpa rossa, che progetta di correre davanti ai tori, provocandoli. […] Un ragazzo che indossa la maglia del Barcellona, dove giocava da ragazzo, si fa il segno della Croce per tre volte. Bernard mi abbraccia e indica Camille, che da lassù ci manda un bacio. Molti si scattano selfie. Certi osservano le foto di mogli e fidanzate sul cellulare. Da Roma, pochi minuti fa, è entrato un whatsapp: “Non fare il cretino. Non ti vengo a raccogliere”.
Adesso, c’è un gran silenzio. Tutti si rivolgono a una immagine di San Firmino, incastonata nel muro. E ripetono: “A San Firmino/ nostro patrono/ chiediamo che ci guidi nell’encierro/ dandoci la sua benedizione”. Gli spari saranno quattro: il primo annuncia che le porte della fattoria di Santo Domingo sono state aperte; il secondo avverte che tutti i tori sono usciti e stanno arrivando; il terzo segnalerà che la mandria è entrata nell’arena; e il quarto che gli animali si trovano nei recinti e che la corsa è terminata.
Avvertenza: il pubblico che aspetta a Plaza de Toros, di solito, accoglie con bordate di fischi chiunque entri nell’arena con troppo anticipo rispetto ai tori. Vabbè, fate un po’ come vi pare. Il problema non si pone.
Laggiù, sulla destra, a cinquanta passi, c’è l’ingresso di un ristorante: la rientranza appare perfetta per schiacciarcisi dentro e veder sfilare la mandria con la piccola folla di sfidanti. Un’ottima tana da dove poter fare il tifo per i bestioni con le corna. Fiato sospeso. Primo sparo. Secondo sparo. Ma già si sente il rullante rumore degli zoccoli e il din don dei campanacci che i manzi tengono appesi al collo. Eccoli. Ci siamo.
Un gruppone di corridori è pronto a scattare avanti. Bernard è uno di quelli che cincischia spavaldo. Solo che la mandria, giungendo in velocità, quando avvista la muraglia umanoide di forsennati spacconi, decide di purissimo istinto: e, per aggirarla, si divide. Un congruo numero di animali si butta a sinistra. Un paio di manzi e un toro color cioccolato al latte preferiscono cercarsi un corridoio a destra.
Cioè: scorrono esattamente davanti alla nicchia dove siamo schiacciati. Le corna roteanti del toro ci sfiorano, è possibile sentire il suo odore aspro, scorgere da vicino il suo sguardo più che inferocito, terrorizzato. Nemmeno un secondo, la frazione di un secondo. “Madre de Dios!” - esclama con una punta di eccitazione il tizio qui accanto, un americano con i capelli ricci.
Arrivano correndo i cosiddetti pastori. Gente che, brandendo corti bastoni, ha il compito di non far restare indietro nessun toro. Hanno l’aria d’essere capacissimi di prenderli per le corna, se solo servisse. L’ultimo pastore è affetto da pinguedine, s’avvicina ansimando, tossisce, ha visto la scena, vede noi ancora impietriti e allora ridacchia divertito: “Ardilla! Ardilla!”. Il toro proviene dall’allevamento La Palmosilla, vicino Cadice. Un toro agile, scattante, imprevedibile. Ma non tra i più cattivi. Buona fortuna, Ardilla, amico mio.
I volti di Psyco. Le "voci" dietro gli omicidi efferati: il serial killer "nato per soffrire". Mendicanti squartati e mutilati, prostitute uccise barbaramente, sesso con i cadaveri: quello del serial killer spagnolo Francisco Escalero è uno dei casi di omicidio seriale più agghiaccianti. Massimo Balsamo il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'infanzia problematica
I primi guai con la giustizia
La nascita del Matamendigos
Violenza efferata
La confessione e la fine
Nell’elenco dei serial killer più famosi di Spagna rientrano sicuramente José Antonio Rodríguez Vega, Joan Vila Dilmé e Enriqueta Martí. Ma il caso di assassino seriale più agghiacciante è sicuramente quello di Francisco Escalero, attivo tra il 1987 e il 1994: un totale di undici omicidi ufficiali, ma il conto potrebbe essere più alto. Gli esperti, in realtà, non hanno dubbi: il numero è sicuramente più elevato.
Soprannominato dalla stampa Matamendigos, Francisco Escalero ha ucciso mendicanti e prostitute con metodi sempre diversi: strangolamenti, aggressioni con pietre o accoltellamenti. Una brutalità impressionante, seguita da decapitazioni, squartamenti e mutilazioni. E ancora il serial killer madrileno ha confessato con una certa soddisfazione atti di cannibalismo e necrofilia.
L'infanzia problematica
Francisco Escalero nasce a Madrid il 24 maggio 1954 da una famiglia di umili origini. Cresciuto in un ambiente di estrema povertà in un quartiere della capitale, il futuro mendigo asesino sviluppa un quadro psicologico disastrato: è riservato e solitario, ama visitare i cimiteri di notte – a partire dal vicino cimitero dell’Almudena – e si fa notare per stravaganze e scontrosità. Sin da adolescente, manifesta pulsioni suicide: più di una volta prova a buttarsi sotto le auto in corsa.
Taciturno e isolato, Francisco Escalero ama trascorrere le notti tra le tombe e trascorre il resto delle giornate immerso nella depressione. Il suo comportamento provoca le ire del padre, un uomo violento, che spesso ricorre a pesanti rimproveri e percosse. Esasperato dalla situazione, a quattordici anni scappa di casa e inizia a fare uso di alcol, arrivando a bere un litro di vino al giorno. Nel 1970, all’età di 16 anni, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico.
I primi guai con la giustizia
Già dedito a furti e rapine, Francisco Escalero nel 1973 viene spedito in riformatorio per aver rubato una moto. Ma si tratta solo del primo di una seria lunga serie di reati. Poco più tardi, nel 1975, insieme a un amico aggredisce una coppia nei pressi di un cimitero e violenta la ragazza davanti agli occhi del fidanzato. Individuato e arrestato dalle forze dell’ordine, viene condannato a dodici anni di carcere.
La depressione aumenta esponenzialmente nel periodo trascorso dietro le sbarre e Francisco Escalero si fa coprire il corpo di tatuaggi. “Sei nato per soffrire”, recita una delle scritte. Nel 1984 esce di prigione ma non c’è nessuno ad aspettarlo: né la famiglia, né gli amici gli tendono la mano. A trent’anni si ritrova solo e inizia a vagabondare nei pressi della parrocchia di Nostra Signora di Fatima a Madrid, consumando numerose quantità di Roipnol e alcol.
Il madrileno diventa sempre più aggressivo e violento, ma non solo. È in quel periodo che inizia ad accusare le allucinazioni uditive, delle voci che gli chiedono di commettere nuovi crimini e di profanare i cimiteri, e che si aggiungono ai problemi psichici presenti fin dall’infanzia. Soffre inoltre di percezioni alterate del corpo e spesso prova la sensazione di non esistere.
La nascita del Matamendigos
Spinto dalle incontrollabili voci, Francisco Escalero inizia a uccidere nel 1987. La prima vittima è Paula Martínez, una prostituta tossicodipendente conosciuta in Calle Capitàn Haya a Madrid: la trentenne viene decapitata e poi il cadavere viene bruciato. La testa verrà rinvenuta nei pressi del cumulo di cenere e ossa.
Nel marzo del 1988 il secondo omicidio, vittima un mendicante chiamato Juan: Francisco Escalero lo coglie di sorpresa e lo colpisce alle spalle con un coltello, per poi spaccargli la testa con una pietra. Un mese dopo, nella sua rete cade un altro senzatetto: il suo corpo viene ritrovato semicarbonizzato nel cimitero di Aluche.
Violenza efferata
La violenza cresce sempre di più, una truculenza senza limiti che si riversa negli omicidi successivi. Stordito da alcol e droghe, Francisco Escalero decapita, mutila e brucia le vittime per cancellare le tracce, portando via anche le dita. Alcuni cadaveri si contraddistinguono per il cuore e le viscere asportate, mentre a un mendicante – Julio, ucciso nel maggio del 1989 – vengono amputati i genitali.
Contemporaneamente, il Matamendingos continua le sue incursioni nei cimiteri per compiere atti di necrofilia sui cadaveri. Ed Escalero riesce sempre a farla franca: la polizia accende i riflettori su presunte sette sataniche, senza prendere in considerazione piste alternative. Il madrileno continua a uccidere indisturbato: tra la fine del 1989 e il 1993 assassina altre cinque persone, sempre con mutilazioni, decapitazioni e bruciando i corpi.
La confessione e la fine
Nel 1993 Francisco Escalero viene ricoverato in un ospedale psichiatrico della capitale insieme a un altro senzatetto, Víctor Luis Criado. I due riescono a fuggire dalla struttura e passano qualche giorno ad ubriacarsi. Poi, di punto in bianco, Escalero uccide Criado: cranio sfondato e corpo carbonizzato. Si tratta dell’ultimo omicidio firmato dal serial killer.
Storia di David Berkowitz, il "figlio di Sam" che terrorizzò New York
Dopo averlo spinto ad ammazzare prostitute e mendicanti, le voci chiedono a Francisco Escalero di suicidarsi. L’uomo si piazza dunque al centro di una trafficata strada di Madrid e si fa investire da una macchina, rimediando “solo” una gamba fratturata. In un momento di lucidità in ospedale, decide di confessare i suoi crimini a un infermiere: “Non voglio continuare a uccidere”, la sua preghiera.
Interrogato dalle autorità, confessa quattordici omicidi. Schizofrenia, alcolismo cronico, dipendenza da benzodiazepine, perversioni multiple quali promiscuità sessuale, necrofilia, cannibalismo: secondo i periti, Escalero è affetto da tutto ciò, senza dimenticare la cecità pressoché totale da un occhio.
Processato nel febbraio del 1995, viene riconosciuto colpevole di undici omicidi ma non responsabile per i suoi atti in quanto affetto da gravi patologie mentali. Francisco Escalero viene dunque ricoverato nel manicomio criminale di Fontcalent (Alicante), dove non mostra alcun segno di aggressività. Il 19 agosto del 2014 il Matamendigos muore nella sua cella soffocato dal nocciolo di una prugna.
Pedro Sánchez tra Machiavelli e rischi calcolati: da baby prodigio a statista. Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023
Pedro il perseverante, Pedro il bugiardo, il furbo, il sopravvissuto, el guapo . Gli aggettivi si sprecano quando si parla del premier spagnolo. La sinistra europea, da oggi, dovrebbe chiamarlo Pedro il salvatore. Perché Sánchez, stavolta, non ha evitato il peggio solo a se stesso e al suo Partito socialista — usciti con le ossa rotte dalle amministrative di maggio e ancora al governo, seppur zoppicanti —: grazie al suo istinto machiavellico ha tolto dai guai pure il fronte che governa a Bruxelles, e che rischiava di veder scivolare gli alleati popolari verso l’abbraccio dei conservatori.
Sánchez oggi non è più il giovane politico belloccio e scamiciato — con laurea e doppio master in Economia e Leadership pubblica — che da attivista semi-sconosciuto ai più, protetto dell’ex premier José Zapatero, riuscì a farsi eleggere segretario generale del Psoe nel 2014. Lo chiamavano «il candidato della strada» perché percorse migliaia di chilometri in macchina per farsi conoscere dalla base. Con lui alla guida, però, il Psoe iniziò il declino, travolto dall’irruzione del populismo di sinistra, e nel 2016 fece il record negativo alle elezioni. Il leader ex enfant prodige rifiutò di astenersi al voto di investitura del popolare Mariano Rajoy e si dimise. Finito? Macché. Con astuzia riuscì a riprendersi il partito, sconfiggendo i baroni dell’Andalusia che lo volevano per sempre fuori dai giochi. Primo presidente del governo eletto dopo una mozione di censura nel 2018, l’anno dopo riportò il Psoe alla vittoria elettorale.
« El superviviente», il sopravvissuto sale ora su quella che forse sarà la sua ultima montagna russa. Anche stavolta ha giocato d’azzardo, convocando a sorpresa le elezioni anticipate all’indomani della batosta delle sinistre al voto locale del 28 maggio. Tutti lo diedero per morto, politicamente. Il Machiavelli del XXI secolo, invece, ce l’ha fatta ancora. Alle politiche del 23 luglio ha perso ma non abbastanza per farsi sfilare la premiership dal popolare Alberto Núñez Feijóo, che controvoglia ha dovuto allearsi con l’estrema destra di Vox.
Il combattente Sánchez oggi veste i panni dello statista con i capelli sapientemente ingrigiti, ma il corpo mai bolso. Ha scritto un saggio per confermare la sua fama, «Manuale di resistenza», e forse ipoteca un posto di prima fila nell’Unione europea. Sa che il suo governo — fragile, in coalizione con una sinistra divisa, appoggiato da un esercito di piccoli alleati di convenienza, sempre pronti a pugnalarlo — potrebbe non durare a lungo. Durante le estenuanti trattative per formarlo, ha pensato bene di restare nell’ombra delegando ad altri il compito di tessitori. Se avessero fallito, non si sarebbe sporcato troppo le mani. Alla fine, a lui è bastato accettare l’amnistia che aveva sempre rifiutato, scendendo a patti con i catalani. Anche la flessibilità è una dote politica, se il popolo può perdonarti.
Quasi quattro anni fa, ha formato il primo governo di coalizione con Unidas Podemos, con un margine di appena due voti. Da ieri, basta che un deputato gli volti le spalle e il suo esecutivo rischia di cadere. I catalani hanno già cominciato a punzecchiarlo. Alle Cortes, lui ha risposto con un saluto in quattro lingue a chi gli ha permesso di restare in sella. Moita grazas (galiziano). Moltes gràcies (catalano). Eskerrik asko (basco). Muchas gracias (castigliano).
«Mentirei se dicessi che non ho ambizioni, la politica si porta nel sangue», dice di sé Sánchez. Sposato dal 2006 con la docente universitaria Maria Begoña Gómez Fernandez, e padre di due figlie, Ainhoa e Carlota, ama ancora giocare a basket come ai tempi del liceo. E ogni mattina corre, come nella vita politica. Il traguardo non si sa ancora bene dove sarà.
L'accordo più forte delle tensioni. Amnistia in Spagna e proteste, alle Camere il testo della legge che cristallizza l’intesa tra Sanchez e gli indipendentisti. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 14 Novembre 2023
Dopo un weekend di fuoco, che ha visto sfilare a Madrid e in altre città spagnole mezzo milione di persone secondo gli organizzatori (infinitamente di meno secondo le autorità locali), il primo testo della legge sull’amnistia è circolato nella giornata di ieri e oggi o domani sarà presentato alle Camere. Questo passaggio è condizione necessaria e sufficiente affinché la settimana prossima i partiti indipendentisti catalani possano fornire a Pedro Sanchez i voti che gli servono per ottenere la fiducia in Parlamento, evitando così nuove elezioni come previsto dalla Costituzione.
La legge cancellerebbe ogni “responsabilità penale, amministrativa e contabile” per i crimini associati al movimento indipendentista catalano durante oltre un decennio, tra il 1° gennaio 2012 e il 13 novembre 2023 e coinvolgerebbe circa 300 indipendentisti e 73 poliziotti attualmente sotto processo o condannati. Tra i beneficiari dell’amnistia ci sarebbero ad esempio sia i presidi delle scuole dove furono installati i seggi del referendum per l’autodeterminazione della Catalogna del 1° ottobre 2017 ma anche i 73 poliziotti attualmente accusati prevalentemente di lesioni o di reati contro l’integrità morale durante gli interventi di ordine pubblico contro gli indipendentisti. Ma l’amnistia riguarderebbe ovviamente tutti i responsabili politici di quel referendum, ad iniziare da Carles Puigdemont, al tempo presidente della Catalogna ed attualmente eurodeputato costretto all’esilio a Bruxelles per evitare di essere arrestato e dal suo vice, Oriol Junqueras, condannato alla interdizione dai pubblici uffici per 13 anni.
Nonostante quotidiani anche progressisti come El Pais invitino Sanchez a prestare ascolto agli umori del paese, il premier uscente tira dritto, consapevole che l’amnistia è per lui l’unica possibilità di vedersi riconfermato l’incarico, e denuncia semmai l’escalation di aggressioni ed il clima d’odio contro il suo partito fomentata dall’estrema destra ed in particolare dalla piattaforma online “Revuelta”, un’associazione non iscritta a nessun albo e contigua a Vox che sta organizzando le manifestazioni di questi giorni. “Traditore” e “morte a Sanchez” sono solo i più innocenti degli slogan urlati nelle piazze e nella manifestazione che ogni sera da una settimana si tiene a Madrid davanti alla sede del PSOE, in un clima d’odio che fa preoccupare molti. Non stupisce molto che da questo clima il Partito Popolare, teoricamente moderato, stenti a differenziarsi: è evidente infatti quanto il leader Alberto Núñez Feijóo sia incalzato a destra dalla agguerrita Isabel Díaz Ayuso, governatrice di Madrid, secondo molti pronta a sostituirlo alla guida del partito una volta chiusa questa pagina.
Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva
Breve storia dell'ex Premier spagnolo. Pedro Sanchez, dal “miracolo” del 2019, alle dimissioni del 2023. Una carriera fatta di alti e bassi. Cristina Cucciniello su Il Riformista il 29 Maggio 2023
«Abbiamo mostrato all’Europa e al mondo che si può fare, la Spagna ha fatto vedere a tutti, in questo voto, che le idee e le proposte dei progressisti possono battere il totalitarismo, il razzismo e la destra. Il Partito socialista ha vinto le elezioni e con noi hanno vinto la democrazia e l’Europa, ha vinto il futuro. Mentre il passato e la restaurazione sono stati sconfitti»: 4 anni fa, aprile 2019. Il PSOE di Pedro Sanchez ottiene il 28% dei voti, 123 deputati e 123 senatori, diventando il primo partito spagnolo e assicurandosi la maggioranza assoluta nel Senato di Spagna e diventando il primo gruppo parlamentare del Congresso dei Deputati.
Sanchez viene incaricato dal Re Felipe VI di formare un nuovo governo. La Spagna, in quel momento, proviene da un tour de force elettorale, fatto di 3 elezioni generali in meno di 4 anni, e si avvia verso il “superdomingo” elettorale del mese successivo, la combo fra elezioni europee ed elezioni locali – le stesse svoltesi ieri, domenica 28 maggio 2023. In quell’aprile, la stampa spagnola parla del “miracolo” di Pedro: la vittoria elettorale, la sinistra al governo, faro per le sinistre europee. Sanchez, certo, parte da un innegabile vantaggio: dinanzi ha un centro-destra spaccato – i Popolari del giovane Pablo Casado, il delfino di José Maria Aznar; Ciudadanos che ha virato verso destra, mancando l’obiettivo del governo; Vox, l’ultradestra, che prende il 10% dei consensi ed entra in Parlamento per la prima volta, dalla fine del franchismo.
Pedro Sanchez – che in quel momento ha 47 anni – prova a formare un governo, cercando l’accordo con il leader di Podemos Pablo Iglesias Turrión. Va tutto a monte: salta l’accordo, salta il governo, altro giro, altra corsa, la Spagna affronta nuove elezioni nel novembre 2019. Sanchez e Iglesias, stavolta, trovano l’accordo, creando il primo governo di coalizione della democrazia spagnola.
Sanchez giura a gennaio 2020: non lo sa, ma l’Europa sta per affrontare la catastrofe della pandemia. La Spagna diverrà il quarto paese in Europa per numero di casi, il 12esimo al mondo, con un totale di oltre 13milioni di contagi.
Il Governo Sanchez II vede una giostra di cambi ai vertici dei Ministeri non da poco: a luglio 2021 le sostituzioni dei ministri in carica sono ben sette, in un colpo solo. Su diritti e diseguaglianze diviene uno dei governi più progressisti d’Europa. La logica dei numeri gli ha imposto un’alleanza con una sinistra molto ideologica, un accordo dal quale nascono misure – in tema di diritti – che si riveleranno molto discusse
Inoltre, misure come la possibilità di un contributo di solidarietà – da richiedere ai cittadini più abbienti tra 2023 e 2024 – gli alienano il consenso di una fetta di elettorato. Negli ultimi tempi, Sanchez tenta di virare verso il centro: ma probabilmente il cambio di rotta arriva troppo tardi.
Quattro anni dopo l’aprile dei miracoli, la situazione si ribalta. Le elezioni locali in Spagna vedono la vittoria del centrodestra: Popolari e Vox ottengono roccaforti importanti, da Madrid a Siviglia. A Sanchez non resta che sventolare bandiera bianca: arrivano le dimissioni e una nuova tornata elettorale. “Ho appena avuto una riunione con sua maestà il Re, nel corso della quale ho comunicato al capo dello Stato la decisione di convocare un Consiglio dei ministri oggi pomeriggio per sciogliere le Corti e convocare elezioni generali”, ha spiegato, annunciando la data per le prossime elezioni: 23 luglio. Una data che si preannuncia infuocata, mentre dal fronte popolare sale l’astro di Isabel Natividad Díaz Ayuso, trionfatrice a Madrid, e – soprattutto – mentre il paese si avvia verso un impegno non da poco: la Presidenza del Consiglio Ue nella seconda metà del 2023. Cristina Cucciniello
Estratto da Marco Santopadre per "il Manifesto" il 22 febbraio 2023.
Lunedì in Spagna sono cadute le teste di Isabel Pardo de Vera e Isaías Táboas. La segretaria di Stato ai Trasporti e il presidente di Renfe (l’impresa ferroviaria pubblica, dipendente dal dicastero competente) hanno dovuto dimettersi a causa delle polemiche suscitate da un contratto per l’acquisto di 31 nuovi treni destinati alle reti regionali a scartamento ridotto (le ex Feve) della Cantabria e delle Asturie, nel nord della Spagna. La consegna dei convogli è infatti saltata visto che, a causa di una serie di errori, i treni commissionati non potevano passare nei tunnel della cosiddetta «Spagna verde».
I massimi responsabili delle ferrovie, pur avendo comunicato la necessità di un posticipo della consegna, avevano lungamente taciuto sulla natura del problema. Il 25 gennaio, però, un’inchiesta giornalistica aveva rivelato che la gara realizzata nel giugno del 2020, che aveva affidato la commessa da 258 milioni all’impresa basca Caf, si basava su misure sbagliate.
I treni realizzati sulla base delle indicazioni di Renfe, quindi, non sarebbero mai passati all’interno delle vetuste gallerie che costellano la lunga – e lenta, a causa della natura montuosa del territorio attraversato – tratta ferroviaria risalente al XIX secolo frequentata per lo più da lavoratori e studenti pendolari.
A informare Renfe del fatto che le misure fornite per la realizzazione dei convogli erano inesatte, erano stati nel 2021 i tecnici della Caf di Beasain: i treni ordinati erano troppo alti. Una volta che lo scandalo è venuto fuori, poche settimane fa, il ministero dei Trasporti ha aperto un’inchiesta che si è conclusa con la destituzione – ma non con il licenziamento, reclamato da molti – di due dirigenti tecnici intermedi di Renfe e dell’Adif, la società che amministra l’infrastruttura ferroviaria. […]
Estratto dell'articolo di Riccardo Canaletti per mowmag.it il 22 febbraio 2023.
In Spagna hanno progettato e iniziato a produrre dei treni troppo grandi per le gallerie del Paese e ora hanno 31 nuovi convogli del tutto inutilizzabili. Napoli ha comprato dei nuovi treni metropolitani, ma sono troppo lunghi e non sanno come calarli nelle gallerie sotterranee. Mentre si pensa a una soluzione (smontarli tutti?), in Spagna una sottosegretaria ai Trasporti si dimette mentre in Italia si fa finta di nulla
Quei razzisti come i francesi.
La Storia.
Le Banche.
Gli Scioperi.
Il Colonialismo.
Il Razzismo.
Il Terrorismo.
I Politici.
(ANSA martedì 7 novembre 2023) - Oltre 100 lettere d'amore inviate ai marinai francesi dalle loro fidanzate e mogli, ma anche da genitori e fratelli, sono state aperte e studiate per la prima volta dopo 265 anni. Scritte fra il 1757 e il 1758, erano state sequestrate dalla Marina militare britannica durante la Guerra dei Sette Anni. Lo studio di Renaud Morieux, dell'Università di Cambridge, pubblicato sulla rivista Annales Histoire Sciences Sociales permette di entrare nell'intimità di vite di quasi tre secoli fa e capirne molti aspetti sociali.
"Potrei passare tutta la notte a scriverti", così iniziava una lettera scritta da Marie Dubosc a suo marito Louis Chambrelan ufficiale della nave militare francese Galatée. Marie non poteva sapere però che la nave era stata catturata dagli inglesi e l'intero equipaggio portato in prigionia in Inghilterra; i due poterono mai più vedersi perché Marie morì l'anno successivo, prima che Louis venisse rilasciato e potesse tornare in Francia. Quella tra Marie e Louis è una delle tante storie che sono emerse grazie al lungo lavoro di Morieux, che ha analizzato un pacco di lettere che era conservato negli archivi della Marina britannica e non era mai stato aperto.
Al suo interno c'erano oltre 100 lettere spedite da parenti e amici all'equipaggio della Galatée, lettere che dopo un lungo girovagare tra diversi porti erano infine state recapitate alla Marina militare britannica, che aveva catturato l'equipaggio. Leggerle adesso permette di gettare uno sguardo nella vita più intima di un centinaio di famiglie di quasi 300 anni fa: erano cariche di affetto ma anche, a volte, di classiche questioni familiari come quella della mamma di Nicolas Quesnel, che si lamenta con suo figlio di non ricevere mai sue notizie se non attraverso la fidanzata Marianne.
Anche Marianne scrive a Nicolas chiedendo al fidanzato di scrivere qualche volta alla mamma, che la incolpa spesso per i silenzi del figlio. Dinamiche sociali di amori, gelosie e delusioni che sono rimaste intrappolate nel tempo per una serie di casualità, chiuse in archivio e dimenticate, che ora tornano in vita.
Enrico Franceschini per repubblica.it - Estratti venerdì 10 novembre 2023.
“Non vedo l’ora di possederti”, scrive la moglie al marito. Siamo nella Francia del Settecento. Il marito è un marinaio, impegnato nella guerra dei sette anni, come venne poi ribattezzata, contro l’Inghilterra. La lettera inviata dalla consorte non arriva al destinatario: viene confiscata dalla Marina militare di Sua Maestà britannica, dopo una vittoria nella battaglia navale in cui il malcapitato marinaio francese è stato catturato.
Da allora, questa e altre missive di mogli e donne dei marinai di Francia sono rimaste chiuse per quasi tre secoli in un cassetto degli archivi di stato, a Londra. Poi uno storico ha avuto il permesso di esaminarle. E il loro contenuto rivela che i messaggi d’amore di trecento anni or sono erano più piccanti, più liberi, più spregiudicati, di quanto alcuni si sarebbero aspettati.
Una donna che dice al suo uomo “vorrei possederti”, frase che molti tendono a considerare più tipicamente maschile, se non oggi, certamente nel Settecento. La prosa di un’altra è più romantica che sessuale, ma egualmente degna di nota: “Potrei stare qui a scriverti tutta la notte quanto ti amo, ma non ci sarebbe spazio per la firma in fondo al foglio”, parole che sembrano quasi evocare il famoso verso di Shakespeare in cui Romeo dice a Giulietta, “lasciarti è dolore così dolce che direi buona notte fino a giorno”.
Una terza rimprovera il coniuge: “Io ti penso più di quanto tu pensi a me”, pregandolo poi di portare i suoi saluti a un compagno d’armi, “visto che io ho tue notizie soltanto da sua moglie”: e viene da immaginare un gioco a quattro, uno scambio delle coppie.
Le lettere sono state scoperte per caso nel 2004 da Renaud Moriuex, docente di storia europea all’università di Cambridge, mentre faceva ricerche su un altro argomento nei National Archives di Londra. Soltanto tre fra le decine e decine di missive erano state aperte, le altre ancora chiuse con un sigillo di ceralacca rossa: evidentemente il funzionario inglese che le aveva sequestrate le giudicava poco interessanti o il suo francese non era abbastanza buono.
(...)
Traduzione dell’articolo di Grant Rollings per thesun.co.uk domenica 19 novembre 2023.
Seduto sul trono della cattedrale di Notre Dame, Napoleone Bonaparte teneva in alto una corona d'alloro dorata come quella di Cesare mentre si proclamava imperatore di Francia.
Ma come dimostrerà il nuovo film “Napoleone” del regista de “Il Gladiatore”, Sir Ridley Scott, questo "amante, tiranno, leggenda" che ispirò una serie di straordinarie vittorie in tutta Europa, fu infine sconfitto, quando si trattò della donna che amava.
La prima moglie del dittatore, Josephine de Beauharnais, lo tradì a poche settimane dal matrimonio, ma Napoleone si rifiutò di rinunciare a lei.
Anche mentre guidava i suoi uomini in battaglia, la sua lussuria per la bella dell'alta società non si affievoliva e le scriveva un flusso di "lettere sconce", invitandola a non lavarsi per tre giorni fino al suo ritorno da una campagna.
Parlava del talento di Giuseppina per un atto sessuale indefinito chiamato zig-zag, e aveva un nomignolo per le parti intime della sua amata, che aveva soprannominato “Barone di Kepen”.
Vanessa Kirby, 35 anni, interpreta Giuseppina in questo film epico e rischioso e dice che era lei il vero potere dietro al trono, oltre che una "incredibile forza della natura". La coppia "era profondamente legata l'una all'altra", spiega l'attrice.
Vanessa, che ha interpretato anche la Principessa Margaret in The Crown, ha trovato "compassione" per Josephine "perché era un periodo brutale e lui era brutale da frequentare". Il film non lesina sulla rappresentazione della tumultuosa storia d'amore, ricca di sesso, e alcune scene hanno già suscitato polemiche.
Il protagonista Joaquin Phoenix, 49 anni, è stato messo sotto tiro dopo che è emerso che ha schiaffeggiato spontaneamente Vanessa durante una scena di lotta perché voleva "sorprenderla". Vanessa ribadisce di essersi sentita "al sicuro" e che la passione tra Napoleone e sua moglie ha fatto sì che gli attori si siano spinti insieme in "luoghi oscuri".
Napoleone non era certo nato per essere il leader della Francia. Proveniva dalla nobiltà italiana e il francese era la sua terza lingua, dopo l'italiano e il corso. Alto 1,65 m, era anche vittima di bullismo a scuola. Ma la sua avversione per la monarchia lo mise dalla parte giusta della storia quando ci fu la rivoluzione alla fine del XVIII secolo.
Napoleone si distinse contro le forze realiste nell'assedio di Tolone del 1793 e, due anni dopo, nelle strade di Parigi. Sconfiggere i sostenitori del re gli valse la fama e l'attenzione di Giuseppina, di sei anni più anziana e già sposata.
Vanessa Kirby racconta: "Non era una persona che tutti avrebbero voluto sposare. Era una vedova con due figli e aveva sei anni più di lui". "Ma lei lo affascinava. C'era qualcosa che avevano in comune. Si capivano a vicenda in quanto outsider".
Mentre Napoleone, spesso geloso e insicuro, ebbe più di 20 relazioni durante il suo matrimonio, le sue prime esperienze sessuali furono umilianti quanto la sua sconfitta finale nella battaglia di Waterloo nel 1815. Perse la verginità in un bordello di Parigi, che lo storico Andrew Roberts, che ha presentato una serie della BBC su Napoleone, ha definito "un'esperienza particolarmente sporca".
Il duro militare non riuscì ad avere rapporti sessuali con tre prostitute prima di riuscirci finalmente con la quarta. Quando sposò Giuseppina nel 1796, lui aveva meno esperienza sessuale della donna, il cui primo marito Alexandre de Beauharnais era stato ghigliottinato dai rivoluzionari francesi prima che lei diventasse l'amante preferita del nuovo leader Paul Barras.
Ma due giorni dopo il matrimonio Napoleone fu inviato in Italia per comandare l'esercito francese e, nel giro di un paio di settimane, la sua sposa aveva trovato un nuovo amante. Il professor Michael Broers, accademico dell'Università di Oxford che ha scritto una biografia di Napoleone, racconta al The Sun: "Nei primi anni lei lo trattava come un rifiuto. Aveva relazioni sotto il suo naso. Quando lui torna dalla campagna d'Egitto, lei ha una relazione con un altro uomo. Lui deve andare al bar in fondo alla strada per avere la chiave di riserva per entrare nella loro casa".
Contrariamente alla sua famosa frase con cui avrebbe respinto le avances della moglie, "Non stasera, Giuseppina", Napoleone rimase infatuato da lei. Nonostante le relazioni di entrambi, scrisse lettere appassionate a Giuseppina. Una, apparentemente scritta il 21 novembre 1796, mentre era lontano per la prima campagna d'Italia, faceva riferimento al suo famoso stile “generoso” nel fare l'amore: "Come sarei felice di poterti assistere nella tua svestizione, il piccolo seno bianco e sodo, il viso adorabile, i capelli legati in un foulard alla creola". "Non dimenticherò mai le piccole visite, sai, la piccola foresta nera. . . La bacio mille volte e aspetto con impazienza il momento in cui ci sarò dentro. Vivere in Josephine è come vivere nei campi elisi".
Ridley Scott dice: "Le sue lettere a lei sono comicamente scortesi e giovanili, eccessivamente romantiche e persino piuttosto sporche". Ma il regista pensa che Giuseppina non fosse impressionata dagli scarabocchi romantici di Napoleone, e dice: "Non li ha mai letti". Il professor Broers, consulente storico del film, ritiene che alcune delle lettere "davvero sporche" siano state falsificate. Ciò che è indubbio, tuttavia, è quanto Napoleone fosse combattuto dal suo amore per Giuseppina.
Incoronato imperatore di Francia nel 1804, desiderava ardentemente avere un erede che potesse portare avanti la sua dinastia. Il problema era che la moglie non era in grado di dare alla luce un figlio. Evitò di porre fine al matrimonio finché non schivò la morte durante la sconfitta delle forze austriache nel 1809.
Ciò rese Napoleone determinato a trovare una nuova moglie che potesse dargli un figlio prima di morire, e la gravidanza di un'amante, la contessa Walewska, lo convinse che il problema della fertilità non era alla sua porta. Il Prof. Broers afferma: "In Austria, è molto malato e qualcuno tenta di assassinarlo. Sopravvive e allora decide che deve farlo. Napoleone chiese ad altri di dare la cattiva notizia a Giuseppina, ma questi si rifiutarono.
Il professore spiega: "Può guidare gli uomini in battaglia, viene ferito, qualcuno cerca di ucciderlo, ma dire a sua moglie che vuole il divorzio? Non vuole farlo".
Quando Josephine venne finalmente informata, nel dicembre 1809, le sue urla si sentirono in tutto il palazzo delle Tuileries. Si accasciò a terra e Napoleone e un altro uomo dovettero trasportarla nei suoi appartamenti. Anche durante la procedura di divorzio, nel gennaio del 1810, stava per cambiare idea. Ma Napoleone non perse tempo a trovare una nuova sposa e tre mesi dopo sposò Maria Luisa, la figlia diciottenne dell'imperatore d'Austria.
L'anno successivo ebbero un figlio, Napoleone II. Tutte le speranze che il suo erede potesse prendere il potere furono vanificate dall'ambizione sfrenata di Napoleone. Nel 1812 decise di invadere la Russia, una campagna che si concluse con la perdita della maggior parte dei suoi 400.000 uomini.
Nel 1813 Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria, Svezia, Spagna e Portogallo unirono le forze per affrontare la Francia. Alla fine di marzo del 1814, le forze alleate marciarono su Parigi e, la settimana successiva, Napoleone fu costretto ad abdicare. Tuttavia, nemmeno l'esilio all'isola d'Elba riuscì a porre fine al terribile spargimento di sangue. Napoleone riuscì a fuggire, a riprendere il controllo dell'esercito francese e a marciare sulle forze britanniche comandate dal Duca di Wellington nel giugno 1815.
Il Prof. Broers dice: "È sempre stato convinto che Wellington non fosse un grande generale". Gli uomini di Wellington, sostenuti in ritardo dalle forze prussiane, gli diedero torto uscendo vittoriosi da Waterloo. Questa volta gli inglesi si assicurarono che Napoleone non potesse fuggire, mandandolo sull'isola di Sant'Elena, a migliaia di chilometri di distanza nell'Oceano Atlantico. Napoleone morì su questa roccia spazzata dal vento all'età di 51 anni nel maggio del 1821.
Si stima che durante le guerre napoleoniche siano morte tra i cinque e i sette milioni di persone. Tali sofferenze hanno portato alcuni storici e Sir Ridley a paragonare Napoleone ai despoti più assassini della storia europea: Adolf Hitler in Germania e Joseph Stalin in Russia. Ma il Prof. Broers non mette il dittatore francese in una compagnia così vituperata. Dice: "Era un soldato, non si preoccupava delle perdite, poteva essere spietato, ma non era un sadico". Napoleone II morì a 21 anni nel 1832 a causa della tubercolosi e non ebbe eredi. Quindi la decisione del padre di porre fine al matrimonio con Giuseppina era stata inutile.
In una strana nota a piè di pagina della storia, il pene di Napoleone sarebbe stato amputato durante un'autopsia ed è passato attraverso diversi proprietari. Ora risiede nel New Jersey presso Evan Lattimer, il cui padre John, rinomato urologo, lo acquistò a un'asta parigina per 3.000 dollari nel 1977. "È molto piccolo, ma è famosa per essere piccolo. È perfettaodal punto di vista strutturale", ha dichiarato Evan.
Josephine, nel frattempo, ricevette una generosa pensione e visse a Malmaison, fuori Parigi, fino alla sua morte, avvenuta all'età di 50 anni nel 1814.
Ridley Scott ha dichiarato: "Napoleone mi ha sempre affascinato. È sbucato dal nulla per governare tutto, ma nel frattempo conduceva una guerra romantica con la moglie adultera. Ha conquistato il mondo per cercare di conquistare il suo amore e, quando non ci è riuscito, lo ha conquistato per distruggerla. E nel frattempo distrusse se stesso".
Quando a Napoleone fu detto che Giuseppina era morta di crepacuore, fu contento e disse: "Mi amava davvero, non è vero?". A Sant'Elena, raccontò agli altri ciò che lei significava per lui.
Napoleone forever. Storia di un vero mito. Giuseppe Conte il 25 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Escono due saggi sull'imperatore. Ci affascina perché non voleva il potere ma la grandezza
Che cosa vuol dire provare ancora oggi una irriducibile passione per la figura di Napoleone? Due libri rispondono a questa domanda, Napoleone. L'uomo del destino, di Jean-Marie Rouart, (Giunti, pagg.303, euro 14,90) e Essere Napoleone. Letteratura,cinema e metaverso, di Carlo Miccichè (Edizioni Ares,pagg. 306, 20). Diversissimi tra loro, i due autori, Accademico di Francia il primo, dirigente televisivo il secondo, sanno entrambi farsi leggere, pagina dopo pagina, con veri momenti di felicità, e condividono un assioma: Napoleone è una figura eminentemente letteraria, romanzesca, poetica persino. Ha alimentato fantasie di grandi scrittori prima (Tolstoj, Hugo, Stendhal, Balzac, Foscolo, Manzoni, Calvino...) e poi di innumerevoli registi cinematografici, tra cui alcuni grandissimi, da Abel Gance a Stanley Kubrick, autore di una sceneggiatura per un film su Napoleone mai realizzato, e continua a farlo, se pensiamo all'uscita in questi giorni del kolossal di Ridley Scott.
La parabola umana di Napoleone ha qualcosa di fatale, intessuta com'è di trionfi e di rovesci, di gloria e di disperazione, di visionarietà e di disincanto. Il suo eroismo è quello della sconfitta, il più nobile. E le sue passioni non sono per la ricchezza e il potere in sé, ma manifestano qualcosa di cui oggi si è perso la nozione, l'insofferenza verso la mediocrità, e la fascinazione per tutto ciò che innalza, per quello che Jean-Marie Rouart chiama «l'amore sconsolato per la grandezza». Il giovane Bonaparte è figlio di Letizia -l'uomo forte della famiglia - , della Corsica e dei Lumi. È un formidabile lettore, di Voltaire, Rousseau (il suo preferito), Corneille, Racine, Plutarco, Tito Livio, Cesare, Cicerone. Ma saranno la passione giovanile fervidissima e ancora priva di un oggetto (farà lo scrittore? combatterà per la sua isola?) e il sangue che per sua stessa ammissione gli scorre nelle vene potente come il Rodano a determinarne il destino. Respinto da Pasquale Paoli, il ribelle sostenitore dell'indipendenza della Corsica, il giovane Bonaparte, nato per sua buna sorte proprio l'anno dopo che la Corsica è passata dalla repubblica di Genova alla Francia, sposta lì, nel grande tumulto della Rivoluzione, nell'unico Paese che ha la letteratura come momento costitutivo, il suo raggio d'azione. È sostenitore di Robespierre, scrive persino un pamphlet in suo favore. Letterato ma cultore della matematica e della scienza, diventa un genio dell'artiglieria, e sconfigge gli Inglesi che assediano Tolone.
Scala i gradi militari con la rapidità possibile soltanto durante le rivoluzioni, giovanissimo è già generale. Poi viene la campagna d'Italia, le vittorie fulminee, gli entusiasmi per un portatore di libertà, quando comincia a sentirsi non più soltanto un generale, ma un uomo chiamato a influire sulla sorte dei popoli. Si vede per la prima volta nella storia. Intanto sposa Joséphine de Beauharneis, creola mondana, sensuale e infedele, e lui, l'eroico e freddo uomo d'armi, piange per lei, come Achille per Briseide. Conquisterà il mondo, ma non avrà mai la certezza dell'amore dell' unica donna per cui ha nutrito una vera passione. Anche se per qualcuno l'unica donna della sua vita è stata Madame Mère, Letizia, sotto la cui ala è cresciuto. La successiva campagna d'Egitto è condotta e vissuta nella sfera del sogno. Napoleone sconfigge i mamelucchi, porta in terra d'Islam la scienza e i Lumi, progetta il passaggio in India, poi fugge avventurosamente in un Mediterraneo su cui signoreggiano i nemici inglesi. Diventa membro dell'Institut de France, e proprio in quanto tale, fedele alle istanze di libertà della Rivoluzione e dei Lumi, non usa le armi per prendere il potere. E mostrerà un volto da pacificatore, con gli aristocratici emigrati, con i cattolici, lasciando che le campane delle chiese risuonino di nuovo per le città della Francia. Non è ateo, non gli piacciono la incredulità e le certezze materialiste. Ma a ogni trionfo succede il disincanto, la sfiducia, nella famiglia, in chi gli sta intorno. Scampa quasi miracolosamente ad attentati e congiure.
Si proclama Imperatore con una cerimonia dal fasto teatrale e tronfio, lui che nella vita ha abitudini spartane, e il cui piatto preferito rimangono le patate con le cipolle divise con i soldati tra le tende degli accampamenti. Il suo potere sconvolge gli equilibri della vecchia Europa: e dunque è legittimato dalla guerra. Ad Austerlitz sconfigge Alessandro I di Russia e Francesco II d'Austria. Padrone dell'Europa, attua il blocco continentale per strozzare l'Inghilterra. Ottiene in sposa Maria Luisa d'Austria. Confessa a Goethe di aver letto sette volte il Werther, ma gli contesta il finale del romanzo, e dibatte su Tacito, che non ama. «Impossibile? è una parola che non conosco» dice ai suoi uomini. È il generale dell'esercito dei sogni. Muove guerra alla Russia, e da lì comincia la parabola discendente della sua avventura, sino all'Elba, dove vive come un Prometeo incatenato, e alla battaglia di Waterloo, una sconfitta definitiva che Victor Hugo, magnificando il grido di «merde» del generale Cambronne impegnato nell'estrema vana resistenza agli Inglesi, trasforma in qualcosa di glorioso, di infinito. Confinato a Sant'Elena, alla mercé di un carceriere volgare come Hudson Lowe, riesce ancora a colpire la fantasia di una ragazzina, Betsy Balcombe, autrice in seguito di Il mio amico Napoleone. Memorie di una ragazza inglese a Sant'Elena. Pare che amasse giocare e scherzare con lei. Lui che aveva sconvolto il mondo con i suoi eserciti e le sue visioni. Quasi un secolo e mezzo dopo, il generale De Gaulle, sconfitto e ormai fuori dalla scena politica, parla di Napoleone con Malraux, il che gli consente di toccare i suoi argomenti preferiti: l'esercito, la Francia, la grandezza. Oggi nessuno parla più di grandezza in una Europa immeschinita, rassegnata alla propria fine. L'unica occasione è ancora celebrare Napoleone.
Misteri Reali. I dolori, le messe nere, i tribunali speciali: cosa fu l'Affare dei Veleni del Re Sole. Avvelenamenti, omicidi, messe nere. Sono questi gli elementi inquietanti di uno degli scandali più terribili della Storia, capace di macchiare in modo indelebile il regno di Luigi XIV, gettando ombre sinistre perfino sui personaggi più in vista alla corte di Versailles. Francesca Rossi il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Prima dell’inizio: la morte di Enrichetta d’Inghilterra
Il Vaso di Pandora
Veleni e messe nere
Accuse alla favorita del Re
La fine dell’intrigo
L’Affare dei Veleni (1679-1682) è una di quelle pagine del passato agghiaccianti che, pur essendo di grande interesse storico, di solito non vengono studiate a scuola. Eppure, oltre a essere uno scandalo senza precedenti alla corte di Luigi XIV, poiché coinvolse diversi membri altolocati della corte, fece emergere tutte le debolezze del mondo dorato creato dal Re Sole per controllare i nobili francesi. In un certo senso l’Affare dei Veleni fu un fallimento politico e personale del sovrano.
Prima dell’inizio: la morte di Enrichetta d’Inghilterra
Nella primavera del 1670 Enrichetta Anna d’Inghilterra (1644-1670), cognata di Luigi XIV (aveva sposato il fratello del Re, Filippo duca d’Orléans), iniziò a lamentarsi a causa di strani dolori al fianco. Con il passare del tempo questi fastidi si estesero all’apparato digerente, tanto da renderle molto difficile mangiare. Il 29 giugno di quell’anno, dicono gli storici, durante il suo soggiorno a Saint Cloud, Enrichetta bevve un bicchiere d’acqua di cicoria fredda.
Non sappiamo se e in che misura quest’ultimo dettaglio abbia influito o meno su ciò che accadde subito dopo, ma è bene tenerlo a mente. Dopo aver bevuto, infatti, la cognata del Re si sentì malissimo. Sosteneva di avere dolori al fianco ed era convinta che qualcuno l’avesse avvelenata. I medici di corte tentarono di curarla, ma non vi fu niente da fare: Enrichetta morì il 30 giugno 1670. Tra i cortigiani si mormorava che fosse stata assassinata dal Cavaliere di Lorena, amante del duca d’Orléans e, per questo, nemico giurato della duchessa, che era riuscita anche a farlo esiliare per un periodo. I dubbi e i pettegolezzi non si indebolirono neppure quando l’autopsia rivelò che la morte era da imputare a una gastroenterite.
Stando alle ricostruzioni il Re Sole avrebbe interrogato di persona il maggiordomo del fratello, il quale gli avrebbe rivelato che Enrichetta era stata davvero avvelenata dal cavaliere di Lorena. Benché quest’ultimo avesse un movente molto forte, non possiamo dire con certezza che avvelenò Enrichetta d’Inghilterra. Anzi, non possiamo affatto sostenere che la duchessa fu uccisa. Secondo gli studi più recenti la cognata del Re potrebbe essere morta di peritonite. C’è anche chi sostiene che fosse malata da molto tempo. Perché, allora, Enrichetta gridò di essere stata avvelenata? Potrebbe essere stata una semplice suggestione. La nobildonna sapeva di avere dei nemici e di doversi guardare le spalle.
Anche i cortigiani insistettero sulla tesi dell’avvelenamento, ma non certo perché avessero delle prove. In quell’epoca, infatti, non era raro che invidie, gelosie, vendette venissero risolte, “aiutate”, per così dire, dall’omicidio. Dall’avvelenamento in particolare. Forse la morte di Enrichetta d’Inghilterra non ha nulla a che vedere con tutto questo, ma rende bene il clima sospettoso, di pericolo di quegli anni e per questo può essere una specie di preludio a quello che accadde tra il 1679 e il 1682.
Il Vaso di Pandora
Paradossalmente fu una morte accidentale e non un avvelenamento ad aprire il Vaso di Pandora. Il 31 luglio 1672, infatti, l’avventuriero appassionato di alchimia Jean Baptiste Godin de Sainte Croix morì nel suo laboratorio, forse a causa di un esperimento malriuscito. L’uomo aveva così tanti debiti che i suoi creditori chiesero un inventario dei beni, sperando di riuscire a recuperare il loro denaro. Tra i suoi oggetti venne trovato uno scrigno di pelle rossa accompagnato da un biglietto su cui era stato scritto: “Da aprire solo in caso di morte precedente a quella della marchesa”.
Gli ispettori incaricati dell’inventario scoprirono che l’aristocratica a cui si riferiva Saint Croix era Marie Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers. Nel cofanetto, infatti, erano custodite delle lettera inviate da quest’ultima all’alchimista, di cui era amante. Ma la scoperta vera fu un’altra: in quelle missive la marchesa ammetteva di aver ucciso il padre, due fratelli con l’acqua tofana, per prendersi la loro eredità. Non solo: accanto alle lettere vi era anche una fiala di veleno.
Marie Madeleine, condannata in contumacia nel 1673 e braccata dalla polizia, fuggì in Inghilterra, ma poi decise di nascondersi in un convento di Liegi nel 1673 (all’epoca non c’era estradizione nei luoghi di culto). Servì a poco. Nel 1676 venne catturata con uno stratagemma, torturata e decapitata il 16 luglio 1676. Era stato Saint Croix a insegnare alla marchesa "l’arte dei veleni", da lui appresa durante la sua reclusione alla Bastiglia, quando si era ritrovato in cella con un italiano esperto in materia, un certo Exili.
Forse questa vicenda non avrebbe avuto grande eco se la Brinvilliers, prima di morire, non avesse confessato di non essere la sola a fare commercio di veleni. La marchesa affermò che molti erano coinvolti, perfino persone dalla reputazione apparentemente immacolata. Il Re Sole, turbato da quanto accaduto e ben consapevole del fatto che nel suo regno il veleno fosse un’arma usata con eccessiva frequenza, decise di aprire un’inchiesta, affidata al luogotenente generale di polizia Gabriel Nicolas de la Reynie. Ciò che l’uomo scoprì è a dir poco tremendo.
Veleni e messe nere
Nel gennaio del 1679 le indagini arrivarono a una svolta con l’arresto di Marie Bosse, chiromante e nota avvelenatrice che si era vantata in pubblico di aver venduto rimedi “fatali” a molti personaggi di spicco della nobiltà francese. Prima di finire al rogo, l’8 maggio 1679, Marie fece il nome di un’altra maga, Catherine Deshayes, vedova Montvoisin, detta La Voisin (1640-1680).
Con l’arresto de La Voisin, avvenuto il 12 marzo 1679, l’Affare dei Veleni entrò in una fase cruciale: la donna si era reinventata come chiaroveggente e ostetrica dopo la bancarotta del marito gioielliere, ma non ci aveva messo molto a capire che vendendo pozioni fatte con polvere di ossa umane e veleni i suoi guadagni sarebbero stati molto più lauti. In fondo gli uomini e le donne che la contattavano chiedevano, sostanzialmente, due cose: trovare l’amore, essere ricchi e potenti. E per farlo erano disposti a “rimuovere” qualunque tipo di ostacoli.
Poco importava se la persona che volevano conquistare era già sposata, se il denaro che pretendevano apparteneva ai loro genitori, se la posizione che bramavano era già stata conquistata da un altro. Nessuno avrebbe avuto sospetti se un genitore avaro avesse reso l’anima prima del tempo, o un rivale in amore fosse morto in circostanze apparentemente naturali. In fondo poteva capitare. Questi erano i macabri, terrificanti ragionamenti della Deshayes e delle persone che si rivolgevano a lei.
La perquisizione in casa de La Voisin aggiunse altro orrore a quello già visto e ascoltato da La Reynie: i poliziotti vi trovarono un forno crematorio dove sarebbero stati bruciati dei feti dopo gli aborti condotti clandestinamente proprio dalla “maga”. Dagli interrogatori venne fuori che la Deshayes aveva amicizie tra loschi personaggi che per anni avevano organizzato delle messe nere, durante le quali venivano sacrificati dei neonati. La donna venne condannata al rogo in Piazza de Gréve, dove morì il 22 febbraio 1680.
Accuse alla favorita del Re
Il Re Sole, deluso, furioso, incredulo di fronte allo scandalo, istituì un tribunale speciale, la Camera Ardente (il nome venne scelto per via delle torce che illuminavano la sala), che lavorò al caso dall’aprile 1679 al luglio 1682. La Camera Ardente nacque per tentare di mantenere il più possibile la riservatezza sull’Affare dei Veleni, dato il rango di molti degli accusati. Dopo tre anni, però, Luigi XIV ordinò, di punto in bianco, di chiudere l’inchiesta. Il motivo di tanta fretta era semplice: la viglia di Catherine Deshayes, Marguerite, aveva fatto il nome della marchesa De Montespan, all’epoca favorita del Re.
La donna si sarebbe rivolta molte volte a La Voisin, chiedendole di organizzare messe nere, con tanto di sacrifici umani, che le “assicurassero” l’amore del sovrano. Quando la Montespan capì che il regale amante cominciava a stancarsi di lei, avrebbe addirittura tramato con la “maga” per ucciderlo. Luigi XIV venne anche a sapere che la sua favorita lo avrebbe drogato con un afrodisiaco. Disgustato, cercò un modo per allontanarla da sé e, nello stesso tempo, proteggerla dal processo. Del resto rimaneva la madre dei suoi figli. Le accuse contro di lei avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la monarchia.
Il Re Sole fece bruciare i documenti che riportavano il nome della sua amante (non sapendo che la Reynie aveva fatto delle copie), ma non la perdonò mai. La Montespan cadde in disgrazia, ma non pagò per i suoi presunti crimini. Nel 1691 si ritirò in convento e morì il 27 maggio 1707.
La fine dell’intrigo
La Camera Ardente ascoltò 442 imputati, emise 319 ordini di cattura, 36 condanne a morte e 30 verdetti di assoluzione. Per la politica di Luigi XIV l’Affare dei Veleni fu un fallimento, perché dimostrò l’incapacità del Re di controllare quella stessa nobiltà che aveva tramato contro di lui all’epoca delle Fronte, quando aveva solo 10 anni. Non era riuscito davvero ad asservirla al potere assoluto. Nemmeno la gabbia dorata che aveva creato per i nobili a Versailles, residenza in cui la corte si trasferì nel 1682, in concomitanza con la fine ufficiale dell'Affare dei Veleni, cambiò la situazione. Versailles, con i suoi riti immutabili, la sue gerarchie e i privilegi tanto ambiti assecondò, in un certo senso, la brama dei cortigiani più malvagi e disonesti, continuando a "istigarli" nella ricerca spasmodica di titoli, favori, ricchezze e potere a qualunque prezzo.
L’intrigo dei diamanti: Richelieu e il complotto contro Anna d’Austria. Dei puntali di diamanti sono al centro di un mistero diventato materiale per uno dei più celebri romanzi di Alexandre Dumas. Francesca Rossi il 12 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Un matrimonio male assortito
Un giorno ad Amiens
Sull’orlo della disgrazia
Un Re indifferente, un cardinale spietato e astuto, una Regina straniera, un duca innamorato e dei meravigliosi diamanti sono i protagonisti di uno scandalo che avrebbe potuto cambiare le sorti del regno di Francia. Una vicenda realmente accaduta e così rocambolesca da diventare la trama di un romanzo famosissimo, “I Tre Moschettieri” (1844), di Dumas.
Un matrimonio male assortito
Donna, straniera, non manipolabile. Anna d’Asburgo (conosciuta anche come Anna d’Austria, 1601-1666) aveva tutte le carte in regola per essere considerata una traditrice nel suo nuovo regno, la Francia e, soprattutto, per diventare una spina nel fianco del potente cardinale Richelieu (1585-1642). Figlia di Filippo III di Spagna, Anna andò in sposa a Luigi XIII di Francia (1601-1643) nel 1615.
Il matrimonio non fu felice. Il sovrano provava solo indifferenza nei confronti della moglie, preferendo trascorrere il suo tempo con l'allora primo ministro Charles-Albert de Luynes. Questa situazione, però, era intollerabile per il regno: se il Re non si degnava di avvicinarsi alla moglie, non vi era alcuna speranza che nascesse un erede al trono. Fu proprio de Luynes a convincere Luigi XIII a cambiare atteggiamento, ma le cose non migliorarono. Anna ebbe diversi aborti e ciò non fece che inasprire il rapporto tra i coniugi. Il sovrano disprezzava la moglie e pare non fosse particolarmente interessato alle questioni attinenti al talamo nuziale.
Un erede, però, era necessario. Doveva nascere a qualunque costo, anche se ciò voleva dire convincere la Regina a mettere al mondo il figlio di un altro uomo. Proprio in questo frangente entrò in gioco George Villiers, duca di Buckingham (1592-1628), personaggio fondamentale di questo intrigo. Fu Marie de Rohan-Montbazon, ovvero la duchessa di Chevreuse (1600-1679), donna affascinante, intrigante e dal carattere forse fin troppo spensierato, a presentare il duca ad Anna d’Austria.
Per la verità i due si conoscevano già, poiché si erano incontrati alla corte spagnola quando la futura Regina di Francia era ancora una ragazzina. Sembra che George Villiers si fosse innamorato di lei al primo incontro, colpito dalla sua bellezza eterea, delicata, dai capelli biondi e dagli occhi chiari della giovane. In ogni caso non l’aveva dimenticata, perché quando la rivide in Francia iniziò a corteggiarla in modo insistente. Questo nuovo incontro segnò l’inizio dell’intrigo dei puntali di diamanti.
Un giorno ad Amiens
Il duca di Buckingham era arrivato alla corte di Luigi XIII nel 1624, per accompagnare in Inghilterra la sorella del Re, Enrichetta Maria, promessa sposa di Carlo I. Quale migliore occasione, deve aver pensato la duchessa di Chevreuse, per favorire l’amicizia e magari qualche cosa in più, tra il nobile inglese e la sovrana di Francia? Anna d’Austria accettò le attenzioni del duca, ma non aveva alcuna intenzione di tradire il marito e tantomeno di far sedere sul trono di Francia il figlio di un altro.
Nonostante la scarsa, anzi nulla, considerazione che Luigi XIII aveva nei suoi confronti e che non si preoccupava neppure di nascondere per salvare le apparenze, Anna non avrebbe mai pensato di ricambiarlo in questo modo. In lei era più forte il senso del dovere e la completa abnegazione al suo ruolo di sovrana. Gli storici sono quasi certi che tra lei e George non vi sia stata alcuna relazione. Forse per la Regina quel corteggiamento rappresentava la maniera più rapida per dimenticare le tensioni con il marito, una fuga dalle pressioni della corte e del popolo, che chiedevano con insistenza un Delfino e, per dirla tutta, quasi non ci speravano più.
Nella primavera del 1625 accadde un fatto increscioso per Anna, un evento che cambiò la natura della suo rapporto affettuoso con il duca di Buckingham, ma anche la dimostrazione del carattere e dei propositi della monarca. I due si ritrovarono, in segreto, per una passeggiata nel parco della residenza reale di Amiens. All’improvviso la Regina iniziò a urlare: il duca, raccontò la scrittrice Madame de Motteville, si sarebbe lanciato in “qualche manifestazione troppo appassionata” che Anna avrebbe rifiutato, gridando per richiamare l’attenzione. Tuttavia non è ben chiaro cosa accadde, se Buckingham abbia detto qualcosa di sconveniente, o se si sia spinto oltre le parole.
Il piano della duchessa di Chevreuse era fallito miseramente e George Villiers si rese conto che il suo amore non aveva alcuna speranza. Tuttavia la Regina non portò rancore. Al contrario, per dimostrare al duca che lo aveva perdonato e in segno di amicizia incaricò la duchessa di Chevreuse di portargli in dono i puntali di diamanti che indossava proprio il giorno in cui si erano conosciuti. Anna non lo sapeva ancora, ma quei gioielli meravigliosi stavano per diventare un’arma rivolta contro di lei.
Sull’orlo della disgrazia
Richelieu, nominato primo ministro nel 1624, cercava da tempo un modo per mettere fuori gioco una volta per tutte la Regina. Il cardinale, infatti, detestava Anna d’Austria per un motivo preciso: non poteva controllarla. La Rochefoucauld, che ha riportato l’aneddoto dell’intrigo dei puntali (e forse ne era a conoscenza poiché amante della duchessa di Chevreuse), scrisse: “Quello che non era soggetto alla sua volontà era esposto al suo odio”. Anna era, appunto, “esposta” a tutto il suo “odio” più feroce a causa della sua intelligenza, del suo acume politico, della sua personalità non manovrabile. Il cardinale, poi, era convinto che la Regina tramasse nell’ombra per favorire la Spagna. Motivo in più per renderla inoffensiva.
Fu un’alleata del cardinale, Lucy Percy contessa di Carlisle (la Milady de Winter de “I Tre Moschettieri”), a concretizzare il famoso intrigo dei puntali di diamanti, poi ripreso da Dumas nella sua opera, sebbene con alcune "licenze poetiche". Durante un ballo a Londra, infatti, il duca di Buckingham commise l’imprudenza di sfoggiare i gioielli, sistemandoli accuratamente sul suo abito. All’evento era presente anche la contessa la quale, notando i puntali, pensò subito che dovessero essere un regalo della regina Anna, magari un pegno d’amore. Pare non fosse solo l’obbedienza nei confronti di Richelieu a muovere Lucy, ma anche la gelosia. La nobildonna sarebbe stata amante di George Villiers, ma questi le avrebbe preferito Anna. Ora poteva vendicarsi di entrambi.
Durante il ballo la contessa di Carlisle, con incredibile destrezza, riuscì a rubare alcuni dei puntali proprio sotto al naso del duca, allo scopo di inviarli a Richelieu. A quest’ultimo non sembrava vero di avere in pugno la nemica: era certo che Anna sarebbe caduta in disgrazia a causa della sua eccessiva generosità. George Villiers, però, non ci mise molto a rendersi conto dell’accaduto e a correre ai ripari in maniera rocambolesca. In una corsa contro il tempo diede ordine a un gioielliere di ricreare una copia esatta dei puntali.
Contemporaneamente rispedì i gioielli originali alla regina Anna, giustificando il suo gesto in un biglietto in cui raccontava il suo “timore” che quel regalo facesse “nascere qualche voce che possa pregiudicarla”. Forse il duca di Buckingham aveva intuito che il Re avrebbe chiesto alla moglie di mostrargli i puntali come prova della sua lealtà. Così accadde. Istigato da Richelieu, Luigi XIII disse alla moglie che sapeva del suo tradimento e dei puntali. Spettava ad Anna dimostrare la sua innocenza.
La sovrana, che aveva già ricevuto i diamanti dal duca di Buckingham, non dovette fare altro che aprire il suo scrigno, spiegando al marito che le sue accuse erano infondate. Nel romanzo Anna indossa i puntali, una scelta letteraria di maggiore effetto. Il risultato, però, fu lo stesso: Richelieu perse la faccia e venne duramente contestato dal Re.
La Regina aveva vinto una battaglia, ma non la guerra contro il cardinale. La sua vera vittoria sarebbe stata la nascita di un bambino sano, il futuro Luigi XIV, il 5 settembre 1638. Il Delfino venne concepito in una notte di tempesta, quando ormai nessuno credeva più alla possibilità di un erede. I Re, diretto a Saint Maur, dovette fermarsi al Louvre a causa di un violento temporale. Non aveva a disposizione mobilio e lenzuola, così dovette dormire con la Regina.
A 37 anni, un’età ragguardevole per l’epoca e dopo 23 anni di matrimonio, Anna diede alla Francia un sovrano la cui fama avrebbe attraversato i secoli. Non rivide più il duca di Buckingham, ma si dice che questi non l’abbia mai dimenticata.
La vera storia dell’uomo dalla Maschera di Ferro: un mistero rimasto irrisolto per secoli. Per secoli studiosi e scrittori si sono interrogati sull’enigma riguardante la vera identità dell’uomo dalla Maschera di Ferro, senza giungere mai a una soluzione definitiva. Francesca Rossi il 5 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Da Santa Margherita alla Bastiglia
Un parente del Re?
Il capo della Fronda
La Maschera di Ferro secondo Voltaire
Nicolas Fouquet o Eustache Dauger?
Il mistero della Maschera di Ferro non ha mai smesso di appassionare storici, scrittori, registi e persone comuni. La mancanza di una soluzione certa ha dato origine a innumerevoli supposizioni, teorie e leggende, la più famosa delle quali potrebbe essere quella descritta da Alexandre Dumas nel romanzo “Il Visconte di Bragelonne” (1847), ultimo atto della trilogia “Il Ciclo dei Moschettieri”: dietro la Maschera di Ferro sarebbe stato nascosto il fratello gemello di Luigi XIV. Una possibilità forse molto fantasiosa a cui, nei secoli, se ne aggiunsero altre più o meno attendibili, ma tutte dettate da un’unica opinione: se davvero il Re Sole ritenne opportuno celare, anzi, cancellare l’identità di quest’uomo attraverso una maschera di ferro, molto probabilmente doveva temerlo e reputare che fosse un pericolo per la stabilità del suo potere.
Da Santa Margherita alla Bastiglia
Nel 1687 iniziò a circolare la notizia secondo cui un misterioso detenuto, con il volto coperto da una maschera di ferro, era stato trasferito nel carcere Fort Royal dell’isola di Santa Margherita, non lontano da Cannes. Con lui vi era l’ex moschettiere Benigne Dauvergne de Saint-Mars. Non era la prima volta che quest’uomo senza volto, con ogni probabilità arrestato tra il 1669 e il 1670, veniva destinato ad altre prigioni e non sarebbe stata l’ultima. Aveva già “soggiornato” nelle fortezze di Pinerolo ed Exilles e nel 1698, quando il suo custode divenne governatore della Bastiglia, si aprirono per lui anche le porte di questa tristemente celebre prigione.
Saint-Mars non si rivolgeva mai al prigioniero chiamandolo per nome e quest’ultimo non aveva il permesso di parlare ad anima viva, eccezion fatta per il confessore e per il medico, tenuti al massimo riserbo. Gli venivano forniti abiti lussuosi, cibo di qualità e libri, ma doveva rispettare il divieto assoluto di togliere la maschera di fronte ad altre persone. Poteva farlo solo per mangiare e dormire. A tal proposito le fonti riportano un particolare importante: la maschera non sarebbe stata di ferro, bensì di velluto, tenuta ferma da cinghie di metallo.
L’uomo misterioso morì nel novembre 1703, dopo 34 anni di prigionia. Venne sepolto il 19 di quel mese con il nome di Marchiali o Marchioly (ma altre fonti dicono anche Marchiergues) nel cimitero di Saint-Paul-Des-Champs (Parigi), alla presenza di Saint-Mars. I suoi effetti personali vennero dati alle fiamme e la sua cella fu ripulita. Gesti minuziosi per tentare di nascondere fino all’ultimo, persino rimuovere non solo l’identità, ma l’esistenza stessa dell’Uomo dalla Maschera di Ferro. Come se non fosse mai nato.
Le condizioni di vita del detenuto furono molto difficili, ma anche molto interessanti per chi si avvicina a questo giallo storico: lo sfarzo non compensava, naturalmente, la perdita della libertà e la tortura della maschera. Tuttavia il fatto che il Re avesse dato ordine alle guardie e a Saint-Mars di prendersi cura di lui, facendolo vivere in una relativa agiatezza, potrebbe far pensare che provasse nei suoi confronti un certo rispetto alternato a timore, qualcosa che gli impediva perfino di prendere in considerazine l'opzione dell'assassinio. Per qualche motivo ancora oggi ignoto il sovrano teneva alla sorte dell’uomo misterioso.
Un parente del Re?
Durante la Guerra dei Nove Anni (o Guerra della Grande Alleanza, 1688-1697), che vide Luigi XIV fronteggiare il suo acerrimo nemico, Guglielmo III d’Orange, la propaganda antifrancese sfruttò la storia della Maschera di Ferro per destabilizzare il potere del Re Sole, minandolo alle fondamenta. Si diffuse, infatti, la voce secondo la quale la madre del sovrano, Anna d’Austria, in gioventù avrebbe avuto una relazione con il detenuto da cui sarebbe nato proprio Luigi. La maschera avrebbe nascosto la somiglianza tra padre e figlio. Oggi la ricostruzione appare piuttosto inverosimile, ma all’epoca destò scalpore, poiché mise in discussione la validità della successione al trono di Francia.
Inoltre non nacque per caso: Luigi XIII e Anna d’Austria misero al mondo il primo figlio, il futuro Luigi XIV, solo 23 anni dopo le loro nozze. L’unione fu infelice, segnata da 4 aborti e questo alimentò anche un altro sospetto, secondo cui il cardinale Richelieu avrebbe consigliato al Re di farsi “sostituire” nel letto della Regina, in modo da mettere al mondo un erede ed evitare che il trono finisse nelle mani del fratello di Luigi XIII. Supposizione per nulla credibile: 2 anni dopo la nascita di Luigi, Anna e il marito misero al mondo un altro bambino, Filippo, duca d’Orléans.
Si ipotizzò anche che l’uomo dalla Maschera di Ferro fosse uno dei figli naturali di Anna d’Austria e di uno dei suoi amanti, forse legittimato da Luigi XIII con la complicità di Richelieu. Anche questa storia, però, sembra piuttosto strana: solo se vi fosse stata una forte somiglianza tra il prigioniero e Luigi XIV la maschera avrebbe avuto, in un certo senso, una “giustificazione”: evitare che si diffondesse la notizia dell’esistenza di fratellastro del monarca. L’ipotetica presenza del parente non avrebbe influito sulla legittimità del potere del sovrano e tantomeno sulla stabilità della monarchia. Inoltre tutte le attenzioni riservate alla Maschera di Ferro, il muro impenetrabile che è stato costruito attorno a quest’uomo, farebbero pensare a una personalità molto più potente.
Accanto a questa teoria ne comparve un’altra: l’uomo misterioso sarebbe stato Luigi di Borbone, conte di Vermandois, figlio del Re e della sua amante Louise de la Vallière. Il giovane sarebbe stato allontanato dalla corte per una presunta omosessualità. Anche questa supposizione non è attendibile: Luigi morì a soli 16 anni, nel 1683, durante l’assedio di Courtray e venne sepolto nella Cattedrale di Arras.
Il capo della Fronda
Qualcuno pensò addirittura che dietro la Maschera di Ferro si nascondesse Francesco di Borbone, duca di Beaufort e cugino di Luigi XIV. Il motivo era semplice: Francesco fu uno dei capi delle Fronde, ovvero le rivolte contro il cardinale Mazzarino e Anna d’Austria, all’epoca reggente di Luigi XIV (che aveva solo 10 anni quando iniziarono i disordini).
Alla Fronda del Parlamento, che minacciò il potere del giovanissimo Re tra il 1648 e il 1649, seguì la Fronda dei Principi (1650-1653), ancora più cruenta. Entrambi gli eventi segnarono in maniera indelebile la personalità di Luigi. Tutte le sue scelte politiche, a cominciare dall’accentramento del potere (e dalla costruzione di Versailles per isolare i nobili in un mondo dorato, in modo da renderli inoffensivi) avranno origine proprio da quegli anni traumatici.
Francesco di Borbone, però, chiese perdono per il suo tradimento e si riconciliò con Luigi XIV nel 1653. Da quel momento trascorse la sua vita al servizio della Francia guidandone la flotta. Morì nel 1669 a Candia, durante la battaglia contro l’Impero Ottomano. Circostanze, queste, che farebbero vacillare la teoria secondo cui l’uomo dalla Maschera di Ferro sarebbe stato Francesco di Borbone.
La Maschera di Ferro secondo Voltaire
Nel 1717 Voltaire finì alla Bastiglia con l’accusa di aver scritto dei versi satirici contro il reggente di Luigi XV, cioè Filippo d’Orléans. Nella prigione sarebbe venuto a conoscenza della vera identità dell’uomo dalla Maschera di Ferro, rivelata nel libro “Il secolo di Luigi XIV” (1751): il detenuto sarebbe stato il gemello del Re Sole: “[La maschera] aveva molle di ferro che gli permettevano di mangiare…[l’uomo] era di statura più alta rispetto alla media, giovane, dalla figura nobile e bella”, scrisse il filosofo.
Riprendendo questa versione Dumas scrisse “Il Visconte di Bragelonne”, ipotizzando che l’uomo dalla Maschera di Ferro fosse nato pochi minuti prima del Re e, per questo, rappresentasse la “contestazione vivente”, diciamo così, al trono di Luigi XIV. Anche questa è un’ipotesi da scartare: all’epoca i parti delle Regine non erano eventi privati. Nell’appartamento della partoriente entravano medici, infermieri, servitori, nobili. Sarebbe stato impossibile nascondere un gemello del Re Sole.
Nicolas Fouquet o Eustache Dauger?
Dietro la Maschera di Ferro poteva esserci il sovrintendente delle Finanze Nicolas Fouquet, caduto in disgrazia nel 1661? Fouquet venne rinchiuso, con l’accusa di corruzione e tradimento, nella Fortezza di Pinerolo in cui trascorse 12 anni anche il detenuto con la Maschera di Ferro, ma le similitudini finiscono qui. Troppo poco per pensare che l’ipotesi sia fondata, anche perché il sovrintendente morì nel 1680. Certo, la sua morte potrebbe essere stata simulata, come propongono alcuni, ma non vi sono prove in merito. Inoltre nascondere le fattezze di Fouquet non avrebbe avuto senso.
Invece è davvero intrigante la teoria che identifica nella Maschera di Ferro Eustache Dauger, valletto di Luigi XIV. Dauger avrebbe messo le mani su documenti riservati riguardanti accordi diplomatici tra Francia e Inghilterra nel 1669 (anno in cui, presumibilmente, iniziò la prigionia della Maschera di Ferro). Per evitare che raccontasse quanto scoperto, il Re lo avrebbe fatto rinchiudere a Pinerolo. Proprio in questa fortezza Eustache avrebbe conosciuto Fouquet, di cui sarebbe diventato servitore. Quando il sovrintendente morì, il sovrano avrebbe ordinato di far credere che il valletto fosse stato liberato e di oscurarne l’identità con la maschera. Eustache Dauger avrebbe seguito Saint-Mars sia all’isola di Santa Margherita sia alla Bastiglia.
Queste sono solo alcune delle supposizioni sul nome della Maschera di Ferro. Per la verità nessuno sa nemmeno se il prigioniero sia esistito. La sua vita rimarrà, forse per sempre, sospesa tra verità e leggenda.
Caterina De’ Medici, la storia della "strega" alla corte di Francia. Caterina De’ Medici era davvero una donna malvagia e senza scrupoli, una strega dedita allo studio dei veleni? La sua leggenda nera ha attraversato il tempo, arrivando fino a noi, ma forse sarebbe ora di rivalutare una figura chiave della storia di Francia. Francesca Rossi il 14 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Una giovinezza vissuta tra gli intrighi
La Notte di San Bartolomeo
La leggenda nera
Per secoli il nome di Caterina De’ Medici è stato avvolto da un’aura oscura di mistero e perfidia. A questa italianissima Regina di Francia sono stati imputati crimini terribili e una mente superstiziosa, malevola, contorta, machiavellica nel senso più negativo del termine. Caterina l’assassina, Caterina l’avvelenatrice, Caterina l’avida fattucchiera. Questi sono solo alcuni degli epiteti che la Storia ha associato a questa sovrana, costruendole intorno una leggenda nera che ancora oggi gli studiosi faticano a separare dalla sua biografia. Caterina De’ Medici fu davvero la despota dedita alla magia nera che molti hanno descritto, oppure fu una mente politica, molto colta, dotata di una personalità fortissima, in grado di imprimere un’impronta indelebile sulla Francia, ma anche di una spregiudicatezza che la portò a commettere errori madornali?
Una giovinezza vissuta tra gli intrighi
Caterina De’ Medici (1519-1589) fu, suo malgrado, protagonista delle peripezie politiche del suo tempo. Perse i genitori quando era ancora in fasce: la madre, Maddalena De La Tour D’Auvergne per una febbre puerperale il 28 aprile 1519, il padre, Lorenzo II De’ Medici forse per sifilide il 4 maggio dello stesso anno. Caterina era l’unica erede della potente famiglia Medici e venne allevata prima a Roma dalla nonna paterna e poi a Firenze dalle zie paterne. Nel 1525 papa Clemente VII, che era cugino del nonno di Caterina, si alleò con la Francia e contro Carlo V d’Asburgo (1500-1558). Andò molto male: la sconfitta francese nella Battaglia di Pavia aprì le porte ai lanzichenecchi e al Sacco di Roma del 1527.
Clemente VII e Carlo V stipularono un armistizio, ma nel 1529 Firenze, amministrata da un uomo del Vaticano, si sollevò contro il pontefice. L’imperatore, ora alleato di Clemente VII, fece assediare la città, che capitolò nel 1530. Quel periodo fu molto duro per Caterina. La sua parentela con il papa la espose più di una volta a pericoli mortali. Alla fine, però, riuscì a tornare a Roma. Clemente VII riuscì a combinare il matrimonio tra la nipote e il secondogenito del Re francese Francesco I di Valois, Enrico. Il matrimonio avvenne nel 1533.
Il pontefice, però, morì nel 1534 e il suo successore, Paolo III, si rifiutò di allearsi con i francesi e pagare la dote di Caterina. Uno scherzo del destino che avrebbe potuto mettere in serio pericolo l’intera esistenza della ragazza. Ma non fu così: sebbene a corte la giovane sposa fosse appena tollerata, chiamata con disprezzo “la figlia dei banchieri”, seppe farsi amare dalla famiglia reale, che ammirava la sua cultura, la sua vivacità intellettuale, il suo carattere tranquillo. Caterina parlava perfettamente francese, ma conosceva anche il latino, il greco, leggeva testi di ogni tipo, dalla matematica alla teologia, dall’alchimia all’astronomia. Era un portento e riuscì ad affascinare i suoi parenti acquisiti.
Sembra sia stata proprio lei a inventare la cavalcatura all’amazzone, che le consentiva di cavalcare velocemente, mantenendo una postura decorosa per l’epoca. Non fu l’unica novità introdotta a corte da questa intrepida italiana: Caterina avrebbe insegnato ai francesi l’uso della forchetta e portato in Francia molti piatti tipici della sua terra che oggi sono considerati francesi (i cugini d’Oltralpe non dovrebbero dimenticarlo).
Nel 1536 il Delfino di Francia Francesco di Valois morì all’improvviso. Enrico e Caterina divennero i nuovi eredi al trono. Proprio in questo frangente iniziò a nascere la leggenda nera della futura Regina. Qualcuno ipotizzò che Francesco fosse stato ucciso proprio dalla delfina perché l’avvelenamento sarebbe stato “un’arte”, diciamo così, tutta italiana. Caterina fu vittima del pregiudizio, un male trasversale. Il Re, molto affezionato a lei, non fece caso alle dicerie.
Alla giovane Delfina non interessavano i commenti malevoli. Il suo vero problema era un altro: non riusciva a dare un erede al marito. Enrico non l’amava: i suoi sentimenti erano per la cortigiana Diana di Poitiers, che aveva 20 anni più di lui (sembra addirittura che la relazione tra i due fosse iniziata quando lui aveva circa 15 anni e lei 35). Diana avrebbe spinto Enrico a dormire con la moglie (del resto Caterina era meno pericolosa di un’altra possibile amante più giovane che avrebbe potuto strappare il futuro sovrano all’influenza della cortigiana). Caterina ed Enrico ebbero 10 figli e salirono al trono di Francia nel 1547. Il nuovo monarca, però, morì dopo 10 giorni di agonia nel 1559, durante un torneo cavalleresco. Caterina prese il lutto a vita, ma non si vestì di bianco, colore tradizionale delle Regine vedove, bensì di nero, inaugurando una nuova tradizione.
La Notte di San Bartolomeo
Caterina divenne una Regina Madre e una reggente. Il trono passò al figlio Francesco II che, però, morì nel 1560 a causa della sua salute cagionevole. Il potere finì nelle mani dell’altro figlio, Carlo IX. Anche quest’ultimo, malato di tubercolosi, spirò nel 1574. Caterina, che non si era mai ritirata dalla vita politica, con gli anni accentrò su di sé sempre più potere e nel 1562 promulgò l’editto di Saint Germain, concedendo libertà di culto ai protestanti. Una misura basata sulla tolleranza e con cui la sovrana tentò, invano, di evitare le guerre di religione.
Il culmine della lotta venne raggiunto durante la tristemente famosa Notte di San Bartolomeo, tra il 23 e il 24 agosto 1572. Doveva essere un momento di festa, stava per sposarsi la figlia di Caterina, Margherita (la Regina Margot di Dumas), con il principe Enrico III di Navarra. Invece si trasformò in un massacro: doveva essere una vendetta contro i capi ugonotti e il loro crescente potere nella società, ma la situazione sfuggì di mano: gli storici stimano che vennero uccise tra le 5mila e le 30mila persone a Parigi. I contemporanei e i posteri, almeno fino alla Rivoluzione francese, diedero la colpa della strage alla sola Caterina. Lei avrebbe premeditato l’assalto, attirando gli ugonotti nella capitale. Non sarebbe andata proprio così: gli studi più recenti, che rivalutano la figura della sovrana, sottolineano che sarebbe stato Carlo IX il principale responsabile di quell’evento.
Ci sono diverse interpretazioni sul vero ruolo di Caterina De’ Medici, ma sembra proprio che non sia stata la mandante della repressione. Commise comunque diversi errori fatali, non ribellandosi all’idea degli omicidi mirati dei capi ugonotti che sarebbe partita dal Re (sembra anche che fosse, almeno in parte, d’accordo) e sottovalutando la portata di ciò che stava accadendo. Quando, insieme a Carlo IX, avrebbe tentato di fermare il massacro, era troppo tardi. La Notte di San Bartolomeo macchiò in modo indelebile il suo nome, contribuendo al consolidamento della sua leggenda nera.
La leggenda nera
Per secoli storici e scrittori (perfino Dumas nella già citata “Regina Margot”) hanno perpetuato l’immagine oscura di Caterina De’ Medici: assassina, strega dedita a pratiche occulte, avvelenatrice. La leggenda vuole che sia stata lei a far uccidere Giovanna d’Albret, Regina di Navarra (mamma di Enrico II di Navarra), inviandole dei guanti profumati e avvelenati dal suo profumiere personale, Renato Bianco. Molto romanzesco, ma falso. Giovanna morì per cause naturali. Per qualcuno Caterina avrebbe avvelenato pure il figlio, Carlo IX, ma abbiamo visto che in realtà il sovrano morì di tubercolosi.
Sono certi, invece, gli incontri tra la monarca e Nostradamus, il quale avrebbe predetto la fine della dinastia dei Valois in modo molto particolare: la Regina si sarebbe seduta in una stanza, di spalle alla porta, guardando in uno specchio “magico”. Da lì avrebbe visto entrare nella camera, a uno a uno, il riflesso dei suoi figli, ognuno dei quali avrebbe compiuto un numero di giri della stanza pari agli anni di regno che gli erano destinati.
Molto probabilmente il "veggente" non predisse proprio nulla: Caterina sapeva che il casato era al tramonto, era afflitta e stanca, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, a causa delle guerre di religione. Forse interpretò le parole di Nostradamus e ciò che credeva di aver visto nel modo più funesto perché era consapevole della sorte che attendeva i suoi figli e il suo regno. Inutile dire che la fama sinistra della Regina Madre arrivò fino alla Rivoluzione francese, durante la quale venne accentuata proprio per dimostrare una presunta decadenza morale dei reali francesi.
Per la verità non esiste neanche una prova dei presunti omicidi di Caterina, né del fatto che fosse una donna sadica e sanguinaria. Ma allora perché tutto questo accanimento nei suoi confronti? La risposta potrebbe essere molto semplice, almeno in parte: la Regina era una donna, una straniera che raggiunse l’apice del potere, diventando Regina di un Paese che non era il suo. Non le venne perdonata l’ascendenza italiana. Per di più Caterina era intelligente, curiosa, molto più abile e istruita di tanti suoi contemporanei uomini.
Il fatto che la sovrana conoscesse alcuni tra i più importanti astrologi dell’epoca, non vuol dire che avesse la mania dell’occultismo. Per prima cosa va sottolineato che astrologia ed esoterismo sono due cose diverse. Poi va anche ricordato che nel Cinquecento non era strano ritenere che gli astri influissero nella vita degli uomini. Il confine tra l’astrologia e la scienza che oggi chiamiamo astronomia non esisteva: le conoscenze riguardanti i corpi celesti si mescolavano con quelle che oggi sono delle superstizioni. In questo Caterina era solo figlia del suo tempo.
Inoltre, già tra i contemporanei della sovrana, si rafforzò uno strano binomio: profumo/veleno. Ovvero, se una persona crea profumi o è interessata alla materia, deve sapere per forza creare anche veleni. Non era un pensiero originale e all’epoca neanche del tutto errato, ma rimaneva un pregiudizio che offrì un appiglio ai detrattori di Caterina.
A Firenze il profumiere Renato Bianco (per qualcuno anche alchimista, creatore di profumi e sostanze mortali), realizzò per la De’ Medici un’essenza a base di agrumi, unico esempio del suo lavoro giunto fino a noi: l’Acqua della Regina, da cui avrebbe avuto origine l’Acqua di Colonia. La Francia vanta una lunga tradizione profumiera, ma spesso dimentica che quella consuetudine nacque grazie all’italiana Caterina, poiché la quotidianità della Firenze dell’epoca e della famiglia Medici era normalmente impreziosita dalle essenze. Profumi, non veleni. Forse è ora di rivalutare seriamente la figura di Caterina De’ Medici, ammettendo anche i debiti di riconoscenza nei suoi confronti.
(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus il 29 Marzo 2023) – Da questa mattina sono in corso una serie di perquisizioni nell'ambito di una inchiesta per frode fiscale presso le sedi di cinque banche a Parigi e a La Defense. Lo ha indicato la procura nazionale finanziaria (Parquet national financier, Pnf), confermando indiscrezioni riportate dal quotidiano Le Monde.
Le banche oggetto delle perquisizioni, come scritto da Le Monde, sono Societe' Generale, Bnp Paribas, Exane (gruppo Bnp Paribas), Natixis e Hsbc. Un portavoce di SocGen ha confermato all'Afp che ci sono state delle perquisizioni senza specificarne il motivo, le altre banche non hanno commentato. Come specificato dalla procura, le operazioni in corso rientrano nel quadro di 'cinque istruttorie aperte il 16 e 17 dicembre 2021 per riciclaggio aggravato dalla evasione fiscale aggravata, e per evasione fiscale aggravata, relative alla cosiddetta truffa CumCum', un regime fiscale sui dividendi.
'Le operazioni in corso, che hanno avuto bisogno di molti mesi di preparazione, sono condotte da 16 magistrati del Pnf e da oltre 150 uomini del servizio giudiziario finanziario (Sejf), con la presenza di sei procuratori tedeschi della procura di Colonia, nell'ambito della cooperazione giudiziaria europea', e' stato aggiunto, spiegando che queste inchieste nascono da una serie di denunce depositate alla fine del 2018 da un collettivo di cittadini, riuniti intorno al deputato Boris Vallaud, o da un esposto obbligatorio dell'amministrazione fiscale che, secondo Le Monde, risale alla fine del 2021.
Il quotidiano afferma anche che la Direzione generale della finanza pubblica (Dgfip) 'ha effettuato i primi conguagli fiscali alla fine del 2021' nei confronti di alcune di queste banche 'per somme conteggiate in decine e centinaia di milioni di euro'. Nel 2018, un gruppo di media aveva rivelato attraverso i "CumEx Files" i sospetti relativi a una enorme frode fiscale il cui controvalore era stato stimato prima in 55 miliardi di euro e poi nel 2021 in 140 miliardi di euro nell'arco di 20 anni.
La pratica denominata "CumCum" in gergo finanziario consiste nell'eludere l'imposta sui dividendi che deve essere pagata dai possessori stranieri di azioni di societa' francesi quotate. Per usufruire del regime piu' conveniente, questi possessori di azioni, piccoli risparmiatori o grandi fondi di investimento, affidano le loro quote a una banca al momento della riscossione dell'imposta, sfuggendo cosi' alla tassazione. Le banche avrebbero svolto un ruolo di intermediazione, addebitando una commissione ai possessori di azioni.
FRANCIA IN SCIOPERO. Ernesto Ferrante su L’Identità il 29 Marzo 2023
Sono circa 450mila i manifestanti scesi in piazza ieri a Parigi per la decima giornata di protesta contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente francese Emmanuel Macron. A fornire le cifre della partecipazione sono stati i sindacati.
Da Parigi a Nizza, da Lione a Bordeaux, da Nantes a Montpellier, sono state 240 le iniziative di lotta. A Le Havre migliaia di cittadini hanno marcianto già dal mattino. Decine di camionisti guidati dai sindacati degli autotrasporti hanno bloccato all’alba parte della tangenziale della città di Caen. Diverse decine di studenti si sono assiepati davanti all’ingresso alla facoltà di Lettere dell’Università di Nizza.
Il 30 per cento degli insegnanti ha aderito allo sciopero. Disagi negli aeroporti, dove hanno incrociato le braccia i controllori di volo. Per domani e dopodomani è previsto un 20 per cento in meno dei collegamenti aerei nell’aeroporto di Parigi-Orly, Marsiglia-Provence, Bordeaux e Tolosa. Nella capitale è garantita solo una corsa su due della metropolitana.
Il governo non è intenzionato a fare passi indietro. “Non sospenderemo la riforma”, hanno riferito a Bfmtv persone vicine alla premier Elisabeth Borne dopo che il leader sindacale Laurent Berger (Cfdt) ha fatto un invito “a sospendere il provvedimento dei 64 anni” e ad avviare “una mediazione” per “trovare una via di uscita” alla crisi sociale.
Un’apertura è possibile solo su “altre strade”, hanno precisato le stesse fonti, ricordando che la premier aveva già detto di auspicare “una ripresa del dialogo con le organizzazioni sindacali e datori di lavoro sui temi della qualità della vita sul lavoro, sulla formazione, la riconversione e sulla messa a punto di un’agenda sociale condivisa”. L’esecutivo resterà “il baluardo contro violenze illegittime e pericolose”, ma anche contro “lo smantellamento delle istituzioni” e “l’indebolimento della Repubblica”. Lo ha assicurato il portavoce del governo francese Olivier Veran al termine di una riunione del Consiglio dei ministri.
“Rispettiamo gli scioperi e le manifestazioni, ma rimaniamo vigili di fronte a sconfinamenti. C’è una forte mobilitazione della polizia che accogliamo con favore”, ha aggiunto Veran. “Non abbiamo necessariamente bisogno di mediazioni per parlarci. Possiamo parlarci direttamente. Il Presidente della Repubblica è pronto a ricevere i sindacati non appena il Consiglio si pronuncerà sulla conformità del nostro testo di legge”, ha spiegato il portavoce.
Il ministro dell’Interno francese, Gerald Darmanin, ha annunciato di volere lo scioglimento del movimento ambientalista “Soulèvements de la terre”, considerato dal ministro “all’origine delle azioni violente” dello scorso fine settimana a Sainte-Soline. Rispondendo alle interrogazioni al governo in Assemblea nazionale, Darmanin ha denunciato eventi “inqualificabili” e “violenze inaccettabili contro la proprietà e soprattutto contro le persone” avvenuti a Deux-Sèvres a margine di una protesta contro i bacini idrici.
Continua a crollare il gradimento per l’inquilino dell’Eliseo. Solo il 28% dei francesi ha una “buona opinione” del presidente. E’ quanto emerge da un sondaggio Bva per Rtl, secondo cui il tasso di popolarità di Macron è solo di poco superiore a quel 26% raggiunto in piena crisi dei gilet gialli. A picco anche la premier Borne.
Estratto da rainews.it – articolo del 28 marzo 2023
Passa in archivio anche la nuova giornata di mobilitazione in Francia, la decima, che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone in tutto il Paese per protestare contro la riforma delle pensioni voluta dal governo.
I numeri dell'adesione oscillano tra i 740mila manifestanti registrati dal ministero dell'Interno, e gli oltre 2 milioni riferiti dal sindacato Cgt. Dati comunque in calo rispetto alla mobilitazione di giovedì scorso in cui i sindacati avevano contato 3,5 milioni di partecipanti. Ma […] una nuova mobilitazione è stata già annunciata per il 6 aprile.
Già dal mattino le attese manifestazioni avevano riacceso i timori di nuove violenze, tanto da spingere il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, a schierare 13mila agenti, di cui quasi la metà nella sola Parigi, un record dall'inizio delle mobilitazioni.
Proprio nella capitale, […] alcuni cassonetti sono stati dati alla fiamme in boulevard Voltaire, mentre un gruppo di facinorosi ha assaltato e saccheggiato i magazzini Leclerc. La polizia è intervenuta e ha fermato almeno 27 persone. Risultano anche 2 feriti.
Tensioni si sono registrate anche a Nantes, dove i manifestanti hanno lanciato oggetti contro la polizia che ha risposto con gas lacrimogeni. La filiale di una banca e i cassonetti davanti al tribunale sono stati dati alle fiamme. A Rennes invece, dove si sono radunate circa 22mila persone, un'agenzia di assicurazioni è stata saccheggiata.
[…] Decine di lavoratori delle ferrovie hanno invaso e bloccato a Parigi i binari dei treni di Gare de Lyon a Parigi. Mentre perfino l'attrazione più famosa del Paese, la Tour Eiffel, ha chiuso ai visitatori, come già aveva fatto il Museo del Louvre appena il giorno prima. Ma sono stati bloccati gli accessi anche all'Arco di Trionfo e alla Reggia di Versailles.
Torneranno invece da mercoledì al lavoro nella capitale i netturbini che dal 6 marzo non hanno più ripulito le strade della città e riprenderanno a funzionare gli inceneritori. […]
Estratto dell’articolo di Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 29 Marzo 2023
[…] Accanto ai ragazzi che sfilano sempre più numerosi, il segretario generale della Cfdt, Laurent Berger, è al centro del movimento: se il leader della Cgt massimalista, Philippe Martinez, sta per lasciare l'incarico e un sindacato indebolito, il riformista Berger ha accresciuto la sua influenza.
Perché la presenza della sua Cfdt in piazza assieme agli altri sindacati mette in difficoltà il governo, e perché allo stesso tempo la sua moderazione potrebbe rappresentare una possibile via di uscita per tutti.
Così Berger ieri mattina ha rilanciato il dialogo proponendo al presidente Emmanuel Macron una mediazione, che però è stata rapidamente respinta dal portavoce del governo Olivier Véran: non c’è alcun bisogno di mediatori, la premier Elisabeth Borne è pronta a parlare con i sindacati anche per mettere a punto i decreti attuativi della legge, senza però sottostare alla condizione di sospendere la riforma.
«D’accordo, continueremo a essere responsabili per due, ma c’è irritazione», ha commentato Berger. In serata la premier Borne ha comunque invitato i sindacati a un incontro lunedì o martedì prossimo, un primo segnale di disponibilità che Berger ha subito accolto accettando l’invito.
Il conflitto […] è in una fase di stallo, nessuno vuole cedere, almeno in attesa del parere del Consiglio costituzionale che potrebbe chiedere un riesame parziale della legge e riaprire così i giochi. La scontro è politico ma anche fisico, nelle strade e nelle campagne di Francia. Dopo i gravissimi incidenti di sabato scorso nei campi di Saint-Soline, dove due manifestanti contro la costruzione di un bacino di irrigazione sono finiti in coma, le scene di violenza si sono ripetute ieri in molte città di Francia, da Rennes a Lille a Parigi […]
La questione della violenza […] è ormai centrale. Da una parte, ci sono gli attacchi dei black bloc, che arrivano alle manifestazioni preparati (maschere antigas, spranghe, protezioni) per colpire i poliziotti. Dall’altra ci sono gli eccessi ormai abituali degli agenti anche contro manifestanti pacifici. […]
Folla e popolo. Storia di due piazze, una populista in Francia e una democratica in Israele. Carlo Panella su L’Inkiesta il 29 Marzo 2023
La manifestazione nonviolenta contro Netanyhau ha avuto successo perché difende il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico. Mentre la violenza diffusa a Parigi per protestare contro la riforma delle pensioni è all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio
LaPresse
La piazza di Israele ha vinto, si è imposta e ha costretto Bibi Netanyhau a cedere. La piazza della Francia invece non vincerà ed Emmanuel Macron non annullerà affatto la sua riforma delle pensioni. È di importanza fondamentale mettere a fuoco le ragioni che hanno portato a risultati così divergenti su un tema cruciale: quanto la democrazia rappresentativa, il Parlamento, il governo debbano e possano oggi cedere alla piazza, alla protesta di massa.
Le ragioni della vittoria – temporanea – della piazza israeliana su Bibi Netanyhau sono complesse. La prima e determinante è che la piazza israeliana non solo è immensa – poco meno del 10 per cento della popolazione ebraica – ma che le sue ragioni e i suoi obbiettivi hanno spaccato il Palazzo, addirittura hanno convinto buona parte delle Forze Armate e di Sicurezza, alla base e ai vertici. Questo, nell’unico paese al mondo, Israele, in cui non c’è alcuna distinzione tra esercito e popolo, perché tutti – tranne gli ortodossi – le donne in prima fila, si fanno carico in prima persona della sicurezza armata della comunità nazionale.
La seconda ragione della vittoria della piazza israeliana, che è tutt’uno con la prima, è l’obbiettivo della mobilitazione: difendere il carattere laico, democratico e liberale dello Stato ebraico contro un Netanyhau che in preda alla brama di potere – e per salvarsi dalle sentenze – ha dato legittimità, voce, potere, addirittura controllo sulle forze di polizia, a una minoranza para-fascista, razzista, che intende sottomettere i laici israeliani e gli arabi tramite la contestata riforma della giustizia a un potere ebraico-religioso arrogante e totalitario.
La terza ragione è che questa immensa mobilitazione è non violenta – insignificanti gli scontri con la polizia – nel paese che più al mondo conosce la violenza di una guerra con gli arabi e di un terrorismo jihadista che si trascinano da un secolo.
Così, con questa forza, la mobilitazione attiva di metà e più del paese (molti sono i manifestanti che hanno votato Likud) ha spaccato il governo, la maggioranza, ha convinto i vertici militari, del Mossad e dello Shin Bet e addirittura il ministro della Difesa, braccio destro di Netanyhau e persino l’avvocato che difende Bibi in tribunale.
Determinante la minaccia di non presentarsi per protesta alla chiamata di addestramento di 37 sui 40 piloti della squadriglia aerea 69, il cuore dell’aviazione israeliana, determinante per la difesa e l’offesa bellica, a cui può essere affidata la missione di attaccare i reattori nucleari iraniani.
Da qui il successo della mobilitazione israeliana, anche se il prezzo che Netanyhau ha pagato alla destra estrema di governo per farle accettare la sospensione della riforma della giustizia è enorme – la formazione di una Guardia Nazionale civile agli ordini di Itamar ben Gvir – che rischia di incubare una violenza sfrenata contro la piazza stessa e contro gli arabi.
Non troviamo nessuna di queste caratteristiche invece nella infiammata piazza francese. Innanzitutto perché l’obbiettivo, la gestione e la sua stessa violenza diffusa sono all’insegna del populismo più sfrenato e declamatorio. Si rifiuta la riforma delle pensioni in nome di principi astratti e velleitari – incluso il rifiuto del valore positivo ed emancipatorio del lavoro – in spregio voluto e dichiarato di ogni principio di realtà.
Il sistema pensionistico francese attuale è semplicemente insostenibile dal punto di vista economico, questo è il punto centrale, ma questa viene considerata una inezia ininfluente dalla piazza, da sindacati e da Jean Luc Mélenchon. Per costoro, che difendono i 62 anni di età pensionabile non conta nulla che la Francia spenda per le pensioni il doppio della media dei paesi OCSE e che la media europea pensionabile sia di 64,4 anni. Populismo puro di sinistra, verbalismo, velleitarismo.
Non solo, pesa nella sconfitta della piazza francese la complicità implicita (da parte dei sindacati) ma anche esplicita da parte di alcuni sindacalisti, come il popolare Olivier Mateu, con una esagitata violenza di piazza volutamente eccitata da un Jean Luc Mélenchon che incita apertamente all’insurrezione e che sbraita «la République c’est moi!».
Non stupisce dunque che al rifiuto maggioritario della riforma espresso dai sondaggi, non corrisponda affatto una spaccatura del Palazzo, del governo, della Presidenza. Quando Emmanuel Macron dice con fermezza «la folla non ha alcuna legittimità» sa di avere con sé tutte le istituzioni, senza incrinature: un governo compatto, i poteri forti della Francia, le forze di sicurezza e le Forze Armate con lui, contro la piazza incendiaria. Per questo può dire «assumo la mia impopolarità», perché non una delle istituzioni della République si è incrinata a fronte della violenza di piazza. Risultato: la mobilitazione proseguirà sotto la guida dei sindacati Cfdt e Cgt e di un Jean Luc Mélenchon ebbri di velleitarismo populista, ma è destinata a esaurirsi a fronte di nessun risultato ottenuto.
Il tutto, va detto, mentre l’unica a conquistare un dividendo politico dalle follie della piazza francese è Marine Le Pen, sempre più forte per le difficoltà e l’impopolarità di Emmanuel Macron e per la reazione di buona parte dell’opinione pubblica alle follie gauchistes dei sindacati e delle migliaia di casseurs di piazza, Black Bloc, in testa.
Al contrario, in Israele, le difficoltà e la battuta d’arresto subite ora da Netanyhau incrinano la sua maggioranza parlamentare, indeboliscono il suo esecutivo, lo isolano sulla scena internazionale (ha dovuto subire umilianti richiami dall’Amministrazione Biden) e possono addirittura sfociare – si vedrà, il quadro è ancora fluido – in elezioni anticipate.
Due piazze, due paesi, ma un unico tratto comune: il populismo di sinistra e di destra. Impotente quanto violento il primo in Francia, sconfitto il secondo in Israele.
Le ex colonie si ribellano a Parigi: anche il Burkina Faso caccia l’esercito francese. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 25 Gennaio 2023.
Il Burkina Faso, colonia francese fino al 1960, ha deciso di estinguere l’accordo militare raggiunto nel 2018 con Parigi che autorizzava la presenza di circa 400 militari francesi sul territorio burkinabé. La forza “Sabre” aveva il compito di affiancare l’esercito nazionale nella lotta ai militari jihadisti, particolarmente attivi nel Paese dell’Africa occidentale dal 2015. Il portavoce del governo, Jean-Emmanuel Ouedraogo, ha invece dichiarato che «il Burkina conta sui propri mezzi per vincere la guerra», dando a Parigi un mese di tempo per ritirare le truppe dal Paese. «Quello che estinguiamo è l’accordo che consente alle forze francesi di essere presenti in Burkina Faso. Non si tratta della fine delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi», ha chiarito Ouedraogo. Il Paese guidato da Ibrahim Traoré, in carica a seguito di un colpo di Stato, sta seguendo le orme del vicino Mali, che nel 2022 ha ordinato il ritiro dei militari francesi e si è alleato con la Russia nella lotta al terrorismo. Nei giorni scorsi, durante una manifestazione a Ouagadougou – capitale burkinabé – centinaia di persone hanno sventolato bandiere russe e cartelloni che recitavano “No alla Francia/Ladro d’Africa”.
La decisione del nuovo governo, insediatosi lo scorso settembre con un golpe, arriva da lontano. A gennaio 2022, il primo colpo di Stato dell’anno ha portato alla destituzione del presidente Christian Kaboré, eletto nel 2015. Durante il suo mandato, sono aumentati i casi di violenza e si sono moltiplicate le manifestazioni anti-governative, alimentando così un clima di costante insicurezza. La scarsa efficacia dell’azione governativa (supportata dal 2018 dai militari francesi) contro le forze jihadiste, che oggi controllano circa due terzi del Paese, ha incrementato il malcontento della popolazione civile nonché dell’esercito, bersaglio principale delle mire terroristiche. Così, dopo l’arresto di Kaboré, la giunta militare guidata da Paul Henri Sandaogo Damiba ha sospeso la Costituzione, chiuso le frontiere e sciolto il Parlamento. Il mancato ripristino della sicurezza e della protezione nei confronti dei cittadini ha portato al secondo colpo di Stato, per mano del capitano dell’esercito Ibrahim Traoré. Con quest’ultimo, le relazioni tra Francia e Burkina Faso si sono deteriorate. Traoré ha innanzitutto accusato Parigi di ospitare il presidente deposto, provocando l’assalto dei manifestanti all’ambasciata francese. Successivamente, ha rivendicato il diritto a cercare nuovi alleati per la lotta al terrorismo, recandosi dunque a Mosca per incontrare il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov.
Il Burkina Faso sta seguendo le orme del vicino Mali, tra golpe e cacciata delle truppe francesi dal proprio territorio. Il 17 febbraio scorso, il presidente Emmanuel Macron ha infatti annunciato il ritiro delle truppe francesi dal Mali. Tre settimane prima, i militari maliani (al potere dal 2020) avevano “invitato”, con 72 ore di preavviso, l’ambasciatore francese a lasciare il Paese. La decisione era giunta a furor di popolo, al culmine di settimane di mobilitazioni oceaniche contro l’ex colonizzatore. A sgretolare il rapporto tra i due Paesi è stata poi la scelta del governo militare maliano di dispiegare nel proprio territorio i mercenari russi del gruppo Wagner.
Le truppe francesi erano in Mali dal 2013. Inizialmente su richiesta del governo locale, che si rivolse a Parigi per contrastare i ribelli Tuareg e i gruppi armati legati ad al-Qaeda che, dopo aver conquistato le regioni del nord, stavano marciando sulla capitale Bamako. Si sono susseguite così diverse operazioni, alcune di queste con il supporto di altre nazioni e delle Nazioni Unite (come l’operazione MINUSMA). Nonostante la presenza massiccia di truppe, le potenze europee e internazionali hanno avuto scarso successo in Mali e, in generale, nella regione del Sahel, non riuscendo a limitare insicurezza e terrorismo. Tali risultati si sono tradotti sul piano sociale in un progressivo aumento del malcontento popolare e della sfiducia nella presenza europea, in particolare quella francese a causa del suo passato coloniale nella regione. [di Salvatore Toscano]
Quando una missione fallisce: tutti gli errori della Francia nel Sahel. Mauro Indelicato il 26 Gennaio 2023 su Inside Over.
Parigi nel 2013 ha avviato una delle più delicate operazioni militari degli ultimi anni. Inviando importanti contingenti nel nord del Mali, Paese sconvolto dall’avanzata dei gruppi jihadisti, l’obiettivo dell’Eliseo era quello di sgominare i gruppi islamisti in grado di imporre la propria legge nel cuore del Sahara. La prima operazione è stata chiamata Serval, poi nel 2014 si è passati alla missione Barkhane. Una missione oramai prossima alla chiusura. Non senza strascichi sia a Bamako che a Parigi.
Il Mali è ancora oggi preda dei gruppi jihadisti e la situazione della sicurezza è nettamente peggiorata. La Francia ha quindi fallito il suo intento, dopo aver inviato circa cinquemila uomini e aver lasciato sul campo 59 caduti. A pesare sul fallimento di Parigi sono stati errori tattici, strategici e politici. Una recente inchiesta di Mediapart ha svelato come la Francia non è riuscita a tutelare nemmeno gli alleati nella regione, finendo sotto accusa per comportamenti “neo coloniali”. E così, nonostante l’avanzata jihadista, i cittadini del Mali e del vicino Burkina Faso hanno iniziato a chiedere la fine di ogni presenza francese nel Sahel.
Le vicende francesi nella regione potrebbero rappresentare un monito per il futuro: una missione non può svilupparsi solo con dei piani militari. Al contrario, deve avere una chiara visione politica ed essere attenta alle dinamiche del territorio in cui si opera.
L’avvio dell’operazione Serval
Il 2012 è stato un anno cruciale per il Mali. A marzo un colpo di Stato ha portato alla deposizione del presidente Amadou Toumani Touré, avviando una fase di forte instabilità per il Paese. Nelle regioni settentrionali, a maggioranza tuareg, ha iniziato a prendere sempre più forza il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (Mnla).
Si tratta di una formazione indipendentista tuareg che nel giro di poche settimane dalla sua sollevazione ha proclamato, approfittando dell’instabilità delle istituzioni centrali, l’indipendenza delle province a maggioranza tuareg. A trarre giovamento da questa situazione sono stati i gruppi islamisti presenti nelle aree settentrionali del Mali. Nel giro di poche settimane, sigle jihadiste quali Aqim (Al Qaeda nel Magreb Islamico) e Ansar Dine hanno preso il controllo di città quali Gao e Timbuctu.
Considerando che la nascita dello Stato Islamico tra Siria e Iraq si è avuta nel 2014, quanto accaduto in territorio maliano ha rappresentato di fatto il primo caso di un controllo diretto di una regione da parte dei gruppi islamisti. Sul finire del 2012, i miliziani hanno minacciato la stessa capitale Bamako avanzando verso sud. Da qui la richiesta di intervento del governo maliano alla Francia, proclamata durante un discorso alla nazione dal nuovo presidente Dioncounda Traoré.
Parigi così, nel gennaio del 2013, ha deciso l’inizio di una missione volta ad aiutare il Mali a riprendere il territorio. Con l’intento, più generale, di bloccare l’emersione del fenomeno jihadista nel Sahel e nell’Africa occidentale.
La difficoltà di arginare i gruppi jihadisti
L’operazione Serval è durata poco più di un anno. Il suo obiettivo minimo lo ha raggiunto in poche settimane: i francesi sono arrivati in Mali a metà gennaio 2013, un mese dopo le città di Goa e Timbuctu sono risultate nuovamente nelle mani del governo centrale. Bamako ha ripreso il controllo dei propri territori, così come previsto dai piani militari redatti da Parigi. L’esercito francese è intervenuto dall’alto con dei raid specifici contro le basi jihadiste, ma anche via terra. In questa fase dell’operazione, sono morti almeno 7 soldati transalpini.
La sconfitta militare dei gruppi islamisti, non ha però corrisposto con il loro definitivo indietreggiamento. Al contrario, paradossalmente per la Francia i problemi sono iniziati subito dopo la riconquista delle città finite in mano jihadista. Il controllo del territorio è risultato molto difficile, le azioni dell’esercito di Parigi non hanno condotto all’eradicazione dei gruppi più pericolosi e anzi hanno aumentato sentimenti di ostilità verso i soldati.
Al tempo stesso, non si è mai pervenuta a una vera intesa tra l’Lmna e il governo maliano nonostante gli stessi tuareg nel 2013 hanno deciso di collaborare con la Francia. L’operazione Serval ha cambiato nome nel 2014 e si è trasformata in Barkhane. L’Eliseo non ha però assistito a un vero capovolgimento della situazione. Il presidente Emmanuel Macron, in carica dal 2017 (quando già le operazioni nel Mali erano iniziate), ha annunciato nei mesi scorsi la fine anche di Barkhane. Il tutto però proprio mentre le sigle legate al terrorismo islamico sono molto più forti non solo nel Mali, ma anche in Burkina Faso e nel Niger. A distanza di dieci anni dall’operazione Serval, l’islamismo nel Sahel è ancora più forte.
Le accuse contro Parigi
Con i soldati francesi oramai prossimi a lasciare definitivamente il Mali, sulla stampa transalpina si stanno avanzando diverse analisi sulle recenti missioni africane. In un reportage di Mediapart, è stato pubblicato un passaggio di un libro che il giornalista Rémi Carayol ha dedicato alle operazioni francesi. “Serval prima, Barkhane poi – si legge nella prefazione – hanno permesso in un primo tempo di respingere i jihadisti e di limitarne l’espansione. Ma questa presenza militare ha anche rappresentato un freno alla ricerca di soluzioni alternative, in grado di riportare la pace“.
Secondo Carayol quindi è mancata ogni prospettiva successiva alle operazioni militari. L’unica opzione messa in campo da Parigi, ha riguardato l’appoggio a leader locali spesso autori, come sottolineato dal giornalista, di “scelte discutibili”. Non solo, ma i comandi militari francesi avrebbero anche disatteso le istanze degli stessi alleati. Come nel caso dei tuareg. L’Lmna, alleato dell’Eliseo dopo l’avanzata islamista nel nord del Mali, ha collaborato con i soldati transalpini. Successivamente però alcuni gruppi si sono sentiti traditi. C’è un episodio, raccontato a Carayol da un cittadino tuareg, emblematico in tal senso. Nel 2017, in particolare, un comando islamista ha assaltato un campo della divisione anti terrorismo dell’Lmna. Sono morti trenta militanti tuareg, il capo della divisione ha chiesto l’aiuto francese: “L’aiuto è arrivato – si legge nella testimonianza raccolta dal giornalista – ma cinque giorni dopo”.
E ci sarebbero altri episodi in cui Parigi ha lasciato indietro gli alleati nella lotta contro i jihadisti. Come nel caso degli informatori civili, adesso in preda a minacce terroristiche e a possibili esecuzioni condotte dagli integralisti una volta scoperti.
Il fallimento dell’Eliseo
La strategia messa in atto dalla Francia ha quindi contribuito a un progressivo distacco tra il proprio contingente e il territorio. Le persone che in teoria dovevano essere protette e aiutate nella lotta al terrorismo, hanno percepito la presenza francese più come un danno che come un’opportunità positiva. “La presenza francese – ha scritto ancora Carayol – è stata progressivamente vissuta come un’ingerenza neo coloniale e ha fatto emergere il paternalismo e la condiscendenza dei dirigenti francesi nei confronti degli africani, alimentando il crescente rifiuto dell’ex potenza coloniale”.
L’eredità di Parigi nel Mali è caratterizzata non solo da gruppi terroristici più forti, ma anche da una popolazione sempre più anti francese. Altri due golpe si sono succeduti nel Paese dal 2020 in poi, in entrambi i casi le giunte militari al potere hanno promesso una minore ingerenza francese nei propri affari. Progressivamente Bamako ha riposizionato la sua politica estera, avvicinandosi a Mosca e chiedendo l’intervento del Cremlino in funzione anti terrorismo. Nel Paese oggi sarebbero presenti, anche se sul punto non sono mai arrivate conferme ufficiali tra le parti, i contractors dell’agenzia russa Wagner.
Sentimenti anti francesi sono molto diffusi anche nel vicino Burkina Faso, dove più del 40% del territorio è ormai in mano jihadista, e nel Niger. Il governo di Ouagadougou ha ufficialmente chiesto all’Eliseo, lo scorso 23 gennaio, di lasciare il Paese. Il portavoce dell’esecutivo burkinabé ha confermato che è stato dato un mese di tempo a Parigi per andare via dal proprio territorio.
L’importanza di un chiaro piano politico
L’esperienza francese dimostra come i piani militari, non supportati da piani di natura politica, rischiano di avere poco valore. Parigi inizialmente è riuscita a respingere i jihadisti, ma la gestione della situazione successiva al conflitto ha contribuito a far avanzare i gruppi islamisti e a far percepire in chiave negativa la propria presenza sul territorio.
Se da un lato è vero che la Francia poco o nulla ha potuto fare a proposito dei due golpe che hanno interessato il Mali nel giro di poco tempo, è altrettanto vero però dall’altro lato che l’Eliseo ha messo gli scarponi sulle dune del Sahara senza avere idee chiare su come gestire politicamente la propria missione.
Nello specifico, Parigi non è riuscita a ricucire gli strappi tra Bamako e i tuareg, venendo quindi meno una soluzione definitiva alla gestione del territorio riconquistato. Non solo, ma si è affidata a leader locali tramite accordi specifici senza curare una linea politica di più ampio respiro. Infine, l’astio dimostrato dalla popolazione nei confronti del proprio contingente ha palesato tutti i limiti derivanti da una poca conoscenza del territorio.
Errori, quelli francesi, che potrebbero essere preziosi per capire meglio la gestione di eventuali future missioni. E capire meglio soprattutto l’importanza di doversi misurare con le realtà e le peculiarità di un territorio per raggiungere un obiettivo. Parigi, come emerso anche nelle inchieste della stampa locale, ha usato un piglio da ex potenza coloniale ad oggi inadeguato ad affrontare le sfide del nuovo secolo.
MAURO INDELICATO
Esportazione migranti! Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 16 settembre 2023.
Vedere le realtà da vicino aiuta. Ho fatto un viaggio in camper in Bretagna di circa un mese. Non dico nulla sugli spettacoli naturali, sulla cucina, sulle attrazioni turistiche, sugli eccellenti prodotti gastronomici ecc. Ma gli aspetti inquietanti sono numerosi, a cominciare dalla assoluta mancanza di fiducia verso noi italiani e dalle situazioni paradossali, ad esempio i pericolosi ostacoli che si incontrano lungo le strade, ostacoli fisici messi per fare rallentare e arroganza provocatrice di chi è al volante. Ostacoli inoltre per limitare al minimo la circolazione dei camper e per convogliare la loro sosta tutta nei campeggi. È una regione che nutre uno spirito di xenofobia assoluto, pretese anacronistiche, accenti identitari arcaici fuori dal tempo, una diffidenza difficilmente superabile, anche se incontri molte persone gentili e disponibili che ti appaiono quasi angeliche.
Il tutto ti dà l’impressione di essere tornati indietro di mezzo secolo ma anche di trovarti tu, italiano, europeo, oggetto di discriminazione. Mi è venuta un’idea. Manca una scuola di attualità. A parte Brest, la città principale, dove circolano anche indiani e pakistani, nei paesi e nelle piccole città non incontri quasi mai africani, arabi, sud-americani, orientali, nulli i cinesi. Qualcuno per favore non cominci a provare invidia!
Comincio invece a pensare che la Bretagna abbia bisogno di una bella immigrazione forzata per aggiornare i suoi parametri e per poter cogliere la realtà che in Europa molti vivono quotidianamente. Altro che redistribuire i migranti, i rifugiati ecc. ecc., queste sono impostazioni ipocrite, ci vogliono veri ultimatum a Bruxelles!
Se deve circolare la moneta unica in Europa è bene che circolino anche le persone fuggite dall’Africa o dai regimi o dalle guerre.
Non ci servono in Europa giardinetti pieni di nevrotici o di isterici che ce l’hanno con il mondo.
In Bretagna come in altre contrade di Europa bisogna adottare una bella terapia multietnica che ovviamente può anche non piacere ma che tutta l’Europa deve condividere.
Certo è che se si affermano i sovranismi, c’è posto anche per quello bretone. Ma l’Italia come intende ripensare il problema?
Fa tanto comodo ai Bretoni, come ai Norvegesi, farci passare per quelli che non siamo.
Noi pensiamo di dover essere solidali e fraterni mentre molti ci dicono semplicemente che siamo fessi e in più che la colpa è soltanto nostra. Mi sogno tanti bei pullman, del tipo di quelli che vanno a Lourdes pieni di canti. Pullman questa volta di africani che sbarchino festosi nelle contrade austere della nostra amata Europa che ancora non li conosce.
E anche qui in Bretagna che ha un gran bisogno di accettare e condividere. E di distribuire biscottini burrosi a tante bambine e bambini che non li conoscono! [di Gian Paolo Caprettini]
Record di omicidi a Marsiglia. La città in mano alle gang del narcotraffico. Marco Valle il 16 Settembre 2023 su Inside Over.
Marsiglia supera quota 44. È il bilancio provvisorio degli omicidi per fatti di droga registrati in città dall’inizio dell’anno (cifra a cui vanno aggiunti anche 109 ferimenti). Un tragico record che supera persino quello del già sanguinoso 2022: l’anno scorso la funera contabilità si era fermata “solo” a quota 39 cadaveri.
Ad arrotondare il macabro calcolo domenica 10 settembre una giovane donna di 24 anni è stata uccisa da una pallottola vagante rimbalzata dalla strada sino al suo appartamento al terzo piano. Per le gang che quella notte si affrontavano sui marciapiedi per il controllo di una piazza di spaccio solo un danno collaterale, un semplice fastidio. La mattanza non si è infatti fermata. Il giorno dopo sul lungomare un uomo è stato falciato da una raffica di mitra. Morto stecchito. Per l’impaurita Marsiglia la conferma che la feroce guerra in atto tra i narcotrafficanti locali non risparmia nessuno e nessuno qui è al sicuro.
La situazione, come ammettono le stesse autorità, è ormai fuori controllo: bande di ragazzini minorenni — reclutati e gestiti dai terminali dei vari boss legati ai cartelli nordafricani o sudamericani — sciamano ogni sera dalle periferie degradate verso tutti gli angoli della città per contendersi a colpi di pistola o di kalashnikov i punti dello spaccio, i cosiddetti “chouf”. Con risultati devastanti. Come in un assurdo videogioco i “minots”, per lo più giovanissimi immigrati arabi di seconda o terza generazione reclutati nei quartieri più poveri, impiegano fucili d’assalto che faticano ad imbracciare e poi sparano nel mucchio. Spesso senza nemmeno mirare. Terrorizzando, ferendo, uccidendo.
La media è ormai una sparatoria ogni tre giorni, insomma un’atmosfera in tutto simile ai cupi scenari proposti delle serie televisive dedicate ai narcos. Una follia senza fine che la procuratrice della Repubblica, Dominique Laurens, definisce “narchomicides” (narco-omicidi). Uno tsunami di violenza che ha travolto anche le assai demotivate forze dell’ordine transalpine. Non a caso. I procedimenti interni avviati dal ministro degli Interni Gerald Darminin dopo le rivolte dello scorso luglio culminate con gli arresti proprio a Marsiglia di quattro agenti — colpevoli di essersi opposti con risolutezza ai saccheggi e alle devastazioni —, hanno fortemente scosso gli uomini in divisa. Da quest’estate poliziotti e gendarmi — la prima linea della sicurezza sul territorio — si limitano, quando va bene, al “minimo sindacale” o si danno malati o consumano le ferie arretrate.
Pochi, pochissimi hanno voglia di rischiare la vita in una guerra che lo Stato sembra non aver voglia di combattere e tra quel pugno d’irriducibili rimasti in trincea scorre lo sconforto. Gli uffici della polizia giudiziaria e della brigata criminale sono intasati di denunce, il personale è insufficiente, le indagini languono al punto, come rivela il quotidiano Le Monde, che oltre trecento pratiche su sospetti già identificati come legati al narcotraffico restano inevase: mancano persino gli agenti necessari per poterli interrogare.
Stessa triste musica sul fronte della magistratura. Nelle scorse settimane l’associazione civica “Coscience” ha chiesto al tribunale amministrativo di imporre al prefetto l’attuazione di alcune misure d’urgenza per limitare, almeno parzialmente, la violenza e migliorare la vivibilità nelle zone a rischio. Una piccola lista di cose buon senso come servizi e trasporti pubblici efficienti e poliziotti di quartiere. Nulla da fare. Il 7 settembre i giudici hanno respinto la richiesta dei cittadini poiché “le misure sollecitate sono d’ordine strutturale e non possono essere attuate a breve”. Insomma, sono fatti vostri e non rompeteci le scatole. Marsiglia è sempre più sola. MARCO VALLE
Un tuffo nel pianeta Marsiglia, la città meno francese di Francia, bella come un film. Burkini e topless. Cous cous e quiche. Yoga e berè. Istruzioni per l’uso della Planète Mars, dove quasi una persona su cinque arriva dall’altra parte del Mediterraneo. Valeria Palermi su L'Espresso il 21 Agosto 2023
Mashallah, mi dice ogni volta Fatima, quando la incontro sulle scale. Fa le pulizie nello stabile, sempre allegra. «Non ti preoccupare di aspirare l’acca, tu dillo come ti viene». Tanto è il senso che conta: «Come Dio ha voluto», in sostanza «Stai bene, grazie a Dio», o «Ben fatto», o ancora «Sono contento per te». Le prime volte non capivo, credevo fosse una storpiatura di Inshallah - ho imparato dopo che questa invece riguarda il futuro, «Se Dio vorrà».
Si imparano parole che col francese hanno poco a che fare, a vivere a Marsiglia. Hookah e kif, per esempio (entrambi si fumano). «Cagnard» l’ho letto sull’insegna di un fotografo, e anche qui avevo frainteso, pensavo fosse il cognome. Invece vuol dire Sole implacabile, Posto assolato, o Canicola: «Quel cagnard!».
Veniamo da tutti gli orizzonti, ti dicono i marsigliesi. Non è una spacconata, basta guardare i cognomi sulle cassette della posta: quelli armeni si mischiano agli arabi, gli italiani si sprecano, rari gli inglesi, qualche polacco. I nomi francesi sono in minoranza, però nel mio palazzo vantiamo uno Chopin.
Annie, che incontro a un raduno di motard, mi racconta del nonno, di Gallipoli. Negli anni del fascismo voleva portare la famiglia via dall’Italia, per motivi politici. Intendeva emigrare a New York, ma Ellis Island non la vide mai. Arrivato a Marsiglia, dove dovevano imbarcarsi, si lasciò attrarre dalle bische del Vieux Port e non partì più. Non diede un sogno americano ai suoi figli, ma il Mistral e le Calanques, e più mare di quanto potessero desiderare. Non un Paese solo, ma tutto il Mediterraneo.
Sono venuti da tutti gli orizzonti e sono sbarcati qui, sulla Planète Mars, come i rapper del gruppo Iam chiamano Marsiglia. Perché questo è davvero un altro pianeta. Niente a che fare con la Douce France, ancora meno con Parigi, chic e intellò, per non parlare della deliziosa-leziosa Provenza di cui pure è capoluogo. Aix e Arles, colte, eleganti, sono vicine ma lontanissime.
Marseille somiglia più a Napoli, Palermo, Tangeri, sa di cous cous e panisse, così simile alla torta di ceci di Livorno o alla panissa ligure. La città che ha dato il nome all’inno nazionale è la meno francese di tutte e la più snobbata dai connazionali: non ce la fanno proprio, a riconoscersi in una città dove quasi una persona su cinque arriva dall’altra parte del Mediterraneo, da Algeria, Tunisia, Marocco. Dove il Marché du soleil, alla Porte d’Aix, e quello des Capucins, nel quartiere di Noailles, vendono datteri e salsa piccante harissa, brick (fagottini ripieni) e merguez (salsicce di agnello o capra).
Però li attira, come sempre fanno le città malfamate, piene di storie e promesse: nessuno sogna di perdersi a Zurigo. Questa è la città più filmata di Francia dopo Parigi, con 1200 giorni di riprese l’anno. Non si tratta solo di fare il verso a Hollywood con la scritta gigante “Marseille” che svetta sulle colline fuori città: il governo vuole davvero farne la capitale mediterranea del cinema, con un’iniezione di oltre 22 milioni di euro nella filiera, e quattro progetti tra formazione e produzione.
Ci mettono tre ore, i parigini, ad arrivarci in Tgv, il treno ad alta velocità, e qualche volta non se ne vanno più. Nascono anche per loro posti come il Tuba, hotel e ristorante super cool semi nascosto all’entrata delle Goudes - dove Marsiglia si fa villaggio di pescatori - pensato per «amateurs de farniente, puristes du bleu de Jacques Mayol». Si gentrifica, come tutto, Marsiglia. Declina il pastis, impazza lo Spritz. Tanto, il rischio di «chichi», smancerie, non è mai eccessivo, qui. Mai visti tanti materassi per strada, o vecchi sofà - una volta persino un wc. Certo che si potrebbe chiamare il Comune, per il ritiro «des encombrants», ma è più semplice buttare tutto vicino ai cassonetti.
Sporcizia e criminalità fanno parte del suo mito e sono la sua realtà. Una volta ci siamo persi. Volevamo fare un giro nei dintorni pittoreschi, invece siamo finiti in un quartiere dello spaccio a nord, in una delle Cité. L’ingresso della strada era sorvegliato da guardiani, giovani ninja neri con il viso coperto dal passamontagna, ma nessuno ci ha torto un capello. Eravamo chiaramente due sprovveduti che avevano sbagliato strada, niente di cui preoccuparsi, nemmeno il cenno di andar via, abbiamo fatto inversione da soli.
Ce ne siamo tornati al Septième. Un quartiere da cui capisci tutta la città, perché la condensa. Ci trovi i ricchi e i poveri, la città e il mare aperto, i turisti e i marsigliesi che la sera vanno a pique-niquer in spiaggia con tapenade e quiche lorraine. Sulla Plage des Catalans convivono i condomini del Sea One, firmatissimo (è di Rudy Ricciotti, architetto del museo Mucem) dove dicono abbia comprato un appartamento Christine Lagarde, e le barbone che passano la giornata sulle panchine davanti al mare, circondate da sacche di plastica in cui tengono ciò che possiedono; il runner con gli auricolari da 300 euro e chi piscia la sera sotto l’hotel Les bords de mer.
Alla Plage, Nicolas viene di mattina, a suonare la fisarmonica. All’inizio sospettavo fosse pagato dall’ufficio del turismo tanto è un cliché, invece gli piace e basta. Sotto la Tour du Lazaret del 1558, in restauro, scendono in acqua francesi sui 60 e più in topless, arabe in burkini o tutte vestite, le nere africane con le treccine. Tutte le mattine fa il bagno Marie, 94enne, bikini turchese. Traballa un po’ e chiede di essere aiutata a uscire se ci sono le onde forti, però viene sempre.
Aux Catalans c’è la rivincita spettacolare dei boomer (e oltre): la settantenne che fa Wing Chun e la Forma del Tai Chi; la tipa sui 60 che fa yoga presto sulla rotonda, davanti al mare; quelli che marciano a lungo in acqua o nuotano oltre il Cercle des Nageurs, fino al Musée Subaquatique con le sue dieci statue sommerse. È lo spettacolo del mattino, questo. Al pomeriggio la scena la prendono i giovani senegalesi che fanno la lotta berè, i teenager francesi che si allenano per il parkour, e Irina la kirghiza. È la star della squadra di volley beach locale e quando non gioca allena maschi che non riescono a starle dietro. Implacabile: di solito dopo un quarto d’ora lui è morto o quasi, in affanno, sconfitto, lei continua a saltare, a mostrargli come si dovrebbe fare. La sua pelle slava si è abbronzata di Mediterraneo, ma le resta la durezza delle origini. Anche lei qui ha trovato il suo orizzonte. Nella Ville più antica di Francia, e più povera anche, che a modo suo resta sempre un villaggio.
Il giorno che rientriamo alla Plage des Catalans da un giro in kayak e ci mettiamo a ripulirlo da sabbia e acqua, tutta la spiaggia ha un’opinione su come dovremmo fare. Dice la sua la signora serenamente enorme col bikini arancione totalmente inadatto al suo compito; una coppia un po’ âgée, fanno sport anche loro; ci consiglia pure la Police, che sorveglia la spiaggia: serve la vaselina per sfilare senza fatica le pinnette del kayak. Un capannello curioso e bonario osserva i nostri sforzi, di dare una mano non se ne parla, ma un consiglio non ce lo nega nessuno.
Ci faremo un aperò più tardi, in un baretto sulla Corniche Kennedy, che parte da qui: un trionfo di mare a perdita d’occhio, l’arcipelago delle Frioul appena al largo, tornanti che corrono verso la pietra bianca delle Calanques. Bisogna farla col bus 83, quello “delle spiagge”: Prophète, Roucas-Blanc, Prado: sei in città, ma totalmente dentro il Grande Blu.
Corniche Kennedy è anche il titolo di un romanzo di Maylis de Kerengal, nota in Italia soprattutto per “Riparare i viventi”, su un gruppo di adolescenti marsigliesi che sfidano la sorte tuffandosi dai promontori della Corniche, ogni sera un tuffo più dall’alto, più pericoloso. Li tiene d’occhio un commissario, Sylvestre Opéra, che sorveglia la zona, cruciale per il traffico di droga. Il romanzo è stato poi adattato per il cinema dalla regista Dominique Cabrera, e come stupirsene? Marsiglia è un film. Ogni giorno, ogni tornante, ogni faccia una scena - e il bello è che non paghi mai il biglietto.
Estratti dell’articolo Francesco De Remigis per “il Giornale” domenica 30 luglio 2023.
Non sono stati ancora raccolti tutti i cocci della crisi delle banlieue, né stilato un piano per le periferie con nuove politiche di integrazione per i figli minorenni di immigrati nordafricani […]che centinaia di famiglie di origine algerina lanciano un altro segnale di sfilacciamento, rispetto al tentativo francese di assimilazione: si cerca la fuga dall’Esagono. Altro che integrazione. Meglio il primo volo disponibile Parigi-Algeri.
L’ultima moda dei giovanissimi musulmani d’Oltralpe sono infatti le colonie estive nel Paese d’origine, con gli imam pronti a facilitare il percorso di riavvicinamento a quella che in moltissimi (e crescenti) casi viene considerata prima e unica «patria». Non c’è solo la rivendicazione religiosa […] C’è un richiamo storico-politico, una rivendicazione, foraggiata da certi predicatori ma pure da politici algerini.
[…] Il 17 luglio un primo gruppo di 160 bambini è arrivato a Orano per una vacanza al mare di 12 giorni a Mostaganem. Ne partiranno altri. Nel complesso, 900 ragazzini. L’iniziativa affonda nella crescente tensione Francia-Algeria, che neppure il parziale mea culpa di Macron sul colonialismo, né l’indagine storica commissionata sui misfatti francesi, ha risolto. Anzi, il risentimento è cresciuto.
Il presidente algerino in persona, Abdelmadjid Tebboune, sostiene l’operazione «vacanze in Algeria» mediata dal rettore della Grande Moschea di Parigi, Chems-Eddine Hafiz (lo stesso che criticava l’Eliseo perché non si era scusato per i crimini del colonialismo e che ha recentemente minacciato di denunciare Michel Houellebecq per istigazione all’odio contro i musulmani).
Tebboune giovedì ha perfino telefonato all’imam per ringraziarlo. E non a Macron. E in un comunicato chiama i ragazzini «i nostri figli che vivono in Francia», felice di far loro «scoprire l’Algeria». Che in molti già sognano. L’idea di organizzare campi estivi è l’ennesimo guanto di sfida. Scava nei nervi scoperti di una Francia che ha poco di invitante da offrire ai suoi giovani figli di immigrati, e le cui famiglie non riescono a pagare vacanze. La rivolta delle banlieue ha mostrato la fragilità di un Paese che non è riuscito a intercettare la rabbia mescolata a scontento crescente.
Col collante della religione.
L’essere musulmani svolge infatti un ruolo: i 900 bambini sono stati invitati dalle moschee a trascorrere l’estate in «patria». Gli imam dicono che così si permetterà alle famiglie algerine con redditi modesti di mandare i figli in vacanza. Per il presidente della Federazione del nord della Francia della Grande Moschea di Parigi, Abdelkader Aoussedj, l’operazione «rafforza i legami delle nuove generazioni della comunità con il loro Paese».
È l’ultima tessera del mosaico: di un islam che riempie vuoti istituzionali fino a deflagrare nel «separatismo» più volte denunciato da Macron. E di un’Algeria che cavalca la mancata assimilazione dei figli degli immigrati certificandone il fallimento; indisponibile a collaborare al rimpatrio di clandestini, ma pronta a ospitare bambini francesi per preservarne le radici. Una crisi all’ombra del campeggio.
DAGONEWS domenica 30 luglio 2023.
La Francia, si sa, ha un problema serio con l’integrazione e il suo passato coloniale. Molti immigrati di seconda generazione non si sono mai integrati, e restano confinati nelle banlieue parigine, enormi ghetti dove si cova il risentimento verso il Paese, con esiti a volte nefasti (basti pensare alle rivolte cicliche o agli attentati terroristici del 2015 e del 2017.
Chi si integra, invece, resta comunque ancorato a una visione polarizzata della realtà: da un lato, i colonialisti-imperialisti bianchi, dall’altro le ex colonie, sfruttate, drenate, in una parola, vittime.
A volte, però, per manifestare una comprensibile rivendicazione, capita di farsi prendere la mano ed esagerare. È quello che è successo con lo spettacolo “Carte noire nommée désir” (“Una carta nera chiamata desiderio”), andato in scena con la regia di Rébecca Chaillon martedì 25 luglio, al Festival della città di Avignone.
Lo spettacolo viene descritto così sul sito ufficiale del Festival: “Otto donne sul palco. Sono artiste e di colore.
Ci guardano prima di parlare e, con la massima sincerità, ci raccontano la loro vita in una serie di numeri usciti da un racconto afro-futurista. Il loro tema? La figura della donna nera come oggetto di fantasia. Un'immagine lontana dalla loro vita quotidiana in una società francese che permette loro di essere solo al servizio degli altri.
Insieme, in un caos gioioso, costruiscono uno spettacolo di verità che manda magistralmente in frantumi l'immaginario coloniale e la sua scia di cliché. Cliché che sono tenaci, razzisti, sessisti... Ma non c'è nulla di rassicurante o di moralizzante in loro. Questi otto guerrieri della performance irradiano la loro incredibile presenza in questo brillante e feroce slam che fa saltare i nostri punti di riferimento dominanti.
Dalla danza frenetica alle acrobazie aeree o a una frenetica sessione di twerking, Rébecca Chaillon, regista, autrice e performer afro-militante nera nata a Montreuil, ha scelto un registro completamente diverso per scuotere i nostri punti di riferimento: umorismo barocco, appropriazione indebita carnevalesca e, soprattutto, sorellanza”
Per 2 ore e 45 minuti, otto donne nere si esibiscono per sottolineare, tra le altre cose, gli stereotipi e le fantasie che i bianchi hanno sui corpi dei neri.
Quello che l’organizzazione non dice è che nelle 2 ore e 45 minuti di durata le signore per manifestare la loro “sorellanza” afro e sottolineare gli stereotipi sui corpi dei neri, mettono in piedi performance quantomeno discutibili.
Una su tutte? A un certo punto prendono dei bambolotti che rappresentano dei bebè e li infilzano. Ovvio che lo spettacolo non sia passato inosservato, e abbia scatenato numerose polemiche.
Anche – ed è la cosa davvero incredibile – tra gli spettatori paganti, che sapevano cosa sarebbero andati a vedere e non sono certo pericolosi sovranisti come Le Pen o Zemmour. Ebbene, alcuni di loro hanno ripetutamente aggredito gli interpreti nella palestra del Lycée Aubanel, dove lo spettacolo era in corso, e successivamente nelle strade di Avignone, all’urlo di “Questa è casa nostra”.
Secondo la Compagnie Dans le Ventre, che ha prodotto la piece, si sono verificate violenze durante almeno tre delle cinque repliche, al festival di Avignone. Una sera, dal pubblico hanno alzato il dito medio quando le attrici hanno parlato della violenza della polizia. Durante la penultima rappresentazione di lunedì 24 luglio, uno spettatore ha colpito uno degli interpreti durante un gioco di mimo alla fine dello spettacolo.
La compagnia sottolinea che questa parte dello spettacolo prevede un protocollo specifico: prima dell'inizio dello spettacolo, le luci vengono accese e al pubblico viene detto che quello che sta per succedere è un gioco. Utilizzando dei mimi, gli artisti cercano di far indovinare al pubblico delle parole. Per far indovinare al pubblico la parola "colonizzazione", gli artisti prendono le borse degli spettatori in platea. È stato in quello specifico passaggio che uno spettatore bianco ha colpito uno degli artisti.
Tiago Rodriges, direttore del Festival, si è detto scioccato da questi attacchi a sfondo razziale. A suo avviso, "gesti violenti e razzisti non sono accettabili al Festival di Avignone e questo comportamento non rappresenta il pubblico del Festival". Ma forse, con il clima di scontro razziale che si respira nel Paese almeno dalla morte del giovane Nahel a Nanterre, il 27 giugno, potevano aspettarselo.
Estratto dell’articolo di Mauro Zanon per “Libero quotidiano” lunedì 7 agosto 2023.
Il Festival di Avignone è la manifestazione teatrale più importante di Francia. Fondato nel 1947 dal regista, attore e direttore di teatro Jean Vilar, si svolge ogni anno nel mese di luglio ed è composto da due parti: la sezione In e la sezione Off.
La prima è organizzata da un’associazione non profit il cui consiglio di amministrazione è composto dallo Stato francese, la città di Avignone, il dipartimento del Vaucluse, la Regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra e un direttivo di sette personaggi pubblici competenti in materia di teatro.
Alcuni spettacoli del Festival In si svolgono nel cortile d’onore del Palazzo dei Papi, luogo di residenza del papato durante la cattività avignonese nel Trecento. La sezione Off, invece, è gestita da un’organizzazione non profit composta principalmente da compagnie teatrali e invade strade e piazze in tutta la città durante l’intera durata della kermesse.
[…] Il Festival […] è finito spesso al centro della cronaca in ragione del vulcanico ex direttore, Olivier Py, un habitué della provocazione, che nel 2014 minacciò di abbandonare il suo ruolo nel caso in cui alle elezioni comunali avesse vinto il candidato sindaco del Front national Philippe Lottiaux.
Da quest’anno, 77esima edizione, il direttore è il portoghese Tiago Rodrigues, e la situazione […] è degenerata. Nel quadro della sezione In è stata infatti scelta una pièce diretta dalla femminista di origini martinichesi Rébecca Chaillon e intitolata “Carte noire nommée désir”, che ha oltrepassato ogni limite di decenza, dove dei bambolotti bianchi vengono infilzati da otto attrici nere, e dove queste ultime aggrediscono gli spettatori bianchi presenti tra il pubblico dando loro dei «fascisti», «razzisti» e «colonizzatori».
[…] Prima dell’inizio dello spettacolo, andato in scena per la prima volta lo scorso 20 luglio nella palestra del liceo avignonese Aubanel, le attrici hanno separato gli spettatori in base al colore della pelle: le donne nere sono state invitate a sedersi su dei divanetti Vip per assistere alla pièce, mentre i bianchi sono stati fatti accomodare su dei semplici gradini.
[…] Una giornalista del magazine di centrosinistra Franc-Tireur ha raccontato l’esperienza in prima persona: lei, Mina Boto, in quanto nera, ha avuto accesso allo spazio vip.
«Lo spettacolo instaura le ingiustizie che dovrebbe denunciare, fino a quando non si verifica l’incidente. Durante una scena volta a dimostrare il “privilegio bianco”, le attrici nere avanzano verso i gradini dei bianchi per “rubare” i loro zaini e le loro borse. Quando uno si rifiuta di dare il suo, si fa fischiare, urlare, trattare da colonizzatore. Un vero linciaggio. Un vigile (dispiaciuto) viene chiamato per farlo allontanare», ha riportato la giornalista di Franc-Tireur.
Alcuni spettatori hanno espresso il loro sdegno dinanzi alle attrici, mostrando anche il dito medio durante la performance e urlando “On est chez nous” (siamo a casa nostra). Ma molti altri sono stati contenti di farsi insultare in quanto bianchi, di essere trattati da razzisti, hanno applaudito e gridato a più riprese «on t’aime Rébecca», ti amiamo Rébecca.
Tiago Rodriges, chiamato a reagire alle polemiche, ha denunciato «i gesti violenti e razzisti» di una parte del pubblico (bianco) presente. Lo spettacolo, durato 2 ore e 45, verrà ripreso a Parigi a partire dal 28 novembre al théâtre de l’Odéon, uno dei teatri più prestigiosi della capitale francese.
"Non voglio neri". Galtier (Psg) arrestato per discriminazione razziale. L'allenatore francese (in uscita dal Psg) si trova in custodia presso la polizia di Nizza con il figlio. Lo scorso aprile era stata aperta un'inchiesta per accuse di razzismo ai tempi dell'esperienza col Nizza. Antonio Prisco il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.
L'allenatore francesce Christophe Galtier, che sta per lasciare il Paris Saint-Germain, e suo figlio sono "in custodia presso la polizia giudiziaria di Nizza dalle 8.45 di oggi" nell'ambito di un'inchiesta su sospetti di discriminazione. Lo ha dichiarato all'agenzia France Press il procuratore di Nizza, Xavier Bonhomme. A metà aprile è stata aperta un'indagine preliminare sui sospetti di "discriminazione di razza o affiliazione religiosa", dopo le accuse rivolte a Galtier, quando siedeva sulla panchina del Nizza.
Ora dovrà rispondere agli investigatori della polizia giudiziaria di Nizza. Il fermo di polizia, una misura limitativa della libertà personale, consente agli inquirenti di avere la persona a disposizione per un periodo limitato (24 ore). Al termine di questo periodo di custodia di polizia, la persona può essere rilasciata o portata in tribunale per decidere quale azione legale intraprendere.
Continua quindi il momento no per Galtier, che da settimana prossima non sarà più ufficialmente l'allenatore del Psg (al suo posto arriverà Luis Enrique) e che nelle settimane scorse era stato vicinissimo alla panchina del Napoli, prima che la scelta del presidente De Laurentiis ricadesse sull'altro francese Rudi Garcia.
Tutto è nato da una mail
Galtier era stato accusato diinsulti razzisti nei confronti dei giocatori del Nizza quando aveva allenato il club della Costa Azzurra nella stagione 21/22. A metà aprile era stata aperta un’indagine preliminare per sospetti di "discriminazione basata su una presunta razza o affiliazione religiosa". Tutto sarebbe partito da una email resa pubblica da Rmc Sport e scritta dal direttore generale del club, Julien Fournier, indirizzata alla dirigenza del Nizza.
"(Galtier) è venuto nel mio ufficio e mi ha detto che dovevo tenere conto della realtà della città. Mi ha detto che non avremmo dovuto avere tanti giocatori di colore e musulmani in squadra. Mi ha detto che era andato al ristorante e che tanti gli avevano fatto notare che il Nizza è una squadra di neri", questo il contenuto della comunicazione. A quel punto il Nizza aveva aperto un'indagine interna e, evidentemente, sporto denuncia.
Lo scorso anno lo stesso Fournier si era espresso così si era espresso così sull'addio al Nizza del tecnico marsigliese: "Se spiego i veri motivi per i quali ci siamo picchiati, perché questa è la vera parola, Galtier non tornerà mai più in uno spogliatoio né in Francia né in Europa". Ma non svelò i motivi. Adesso però sembra arrivato il momento di fare luce su questa sgradevole vicenda.
Estratto dell’articolo di Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” l'1 luglio 2023.
«Troppi neri e arabi in squadra», di questo si sarebbe lamentato il coach Christophe Galtier (in via formale ancora al Psg) quando allenava l’Ogc Nice, due stagioni fa, raccomandando al direttore sportivo di tenere in conto l’anima della città. […]
In ogni caso l’arresto ieri per sospetta «discriminazione razziale» arriva nel peggiore momento possibile per Galtier e per la Francia, attraversata dalla rabbia dopo che martedì il 17enne Nahel, francese di origine algerina, è stato ucciso da un poliziotto durante un controllo stradale. […] Galtier e il suo figlio adottivo e agente John Valovic sono stati arrestati e interrogati ieri dalla polizia di Nizza. In serata il figlio è stato poi rilasciato. Già fissata la data del processo per il tecnico: il 15 dicembre. […]
Christophe Galtier ha sempre negato fermamente le accuse e ha anche presentato denuncia per diffamazione. Diversi giocatori e dirigenti del Nizza sono già stati interrogati. […] È stata diffusa l’email che l’ex direttore sportivo della squadra Julien Fournier aveva inviato alla direzione di Ineos (la società britannica proprietaria dell’Ogc Nice) e in particolare al nuovo capo Dave Brailsford, per lamentarsi di Galtier e Valovic quanto alla loro gestione dei giocatori «neri e musulmani» in squadra, che secondo Galtier erano troppi.
Già non era piaciuto che l’allenatore avesse chiesto ai giocatori musulmani di non rispettare il Ramadan, ma nell’email Fournier accusa apertamente Galtier e il figlio di discriminazione.
In un estratto reso noto da Rmc Sport, si legge: «Christophe Galtier è arrivato nel mio ufficio e ha salutato suo figlio, che mi ha detto di verificare con lui quello che mi aveva appena detto (sui troppi giocatori neri e arabi, ndr ). Una volta che il figlio-agente Valovic se n’è andato, ho raccontato a Christophe la discussione che avevo appena avuto con lui e gli ho chiesto se fosse tutto vero. Mi ha risposto di sì, che dovevo tenere conto della realtà della città e che non potevamo avere così tanti neri e musulmani in squadra». […]
Discriminazioni razziali, arrestato il tecnico Psg Galtier. Cristiana Flaminio su L'Identità il 30 Giugno 2023
Dalla panchina alle manette, fermato l’allenatore del Paris Saint Germain Cristophe Galtier. Il caso è legato allo scandalo delle presunte discriminazioni razziali e religiose delle quali il tecnico, con il figlio John Valovic-Galtier, si sarebbe reso protagonista all’epoca della sua esperienza in panchina al Nizza. Galtier era stato accusato, nei mesi scorsi, da un ex dirigente nizzardo, il direttore tecnico Julien Fournier. Che aveva scatenato un putiferio accusando il suo ex amico di avergli scritto una mail precisa in termini di mercato. Non indicazioni tecniche ma precise scelte legate a religione dei calciatori che il Nizza avrebbe dovuto ingaggiare. Il contenuto della mail fu pubblicato da Rmc Sport. Secondo il racconto di Fournier, Galtier avrebbe chiesto di “non avere tanti calciatori di colore o musulmani” dal momento che, al ristorante alcuni tifosi gli avrebbero fatto notare che la loro era “una squadra di neri”.
Lo scandalo risale ad aprile. E aveva innescato una valanga di polemiche. Con gran parte del tifo Psg, che spopola nelle banlieue, a chiedere la testa di Galtier. Che, peraltro, viaggia a un passo dall’esonero. O meglio, dato già per vicino al Napoli (che poi ha scelto un altro francese, cioè Rudi Garcia), avrebbe ventilato l’ipotesi di concedersi un anno sabbatico.
La polizia di Parigi ha posto in stato di fermo Galtier e il figlio. Ci rimarranno per non più di 24 ore. Al termine delle quali si deciderà se saranno rilasciati o se finiranno da subito davanti ai giudici per rispondere delle accuse a loro rivolte. Il fermo del tecnico parigino arriva in un momento delicatissimo per la Francia. Che è in subbuglio per la morte di un 17enne, ucciso a un posto di blocco a Nanterre.
(ANSA il 29 giugno 2023) - La Procura che indaga sull'omicidio del diciassettenne Nahel a Nanterre non ha ravvisato "condizioni legali per l'uso dell'arma da fuoco" da parte del poliziotto che ha ucciso Nahel 2 giorni fa a Nanterre ed ha chiesto l'arresto dell'agente, tuttora in stato di fermo.
Il poliziotto che ha sparato a Nahel, il diciassettenne di Nanterre, è stato denunciato ed è indagato ufficialmente per omicidio volontario. Per il procuratore di Nanterre, "non c'erano le condizioni legali per l'uso dell'arma" e la detenzione è necessaria "in relazione ai fatti e alla necessità di proteggere le indagini".
Il procuratore ha riferito che l'imputato ha dichiarato durante gli interrogatori di aver avuto "paura che altri potessero essere investiti" dall'auto del ragazzo che stava ripartendo contravvenendo all'ordine di fermarsi. Ha aggiunto di aver avuto egli stesso "timore di essere urtato" e paura che il suo collega "rimanesse ferito". La versione continua ad essere in contraddizione con il video che circola sui social network in cui si vede il poliziotto che apre il fuoco mentre è sul fianco del veicolo e non di fronte.
(ANSA il 29 giugno 2023) - Nella notte di violenze che hanno colpito tutta la Francia, e che si sono concluse con 150 fermi, è stato attaccato da una ventina di persone col passamontagna anche la postazione all'ingresso del carcere di massima sicurezza di Fresnes, vicino a Parigi. Lo si è appreso da fonti della polizia, secondo le quali il gruppo ha fatto uso di mortai per fuochi d'artificio nella sua offensiva.
Le violenze hanno contrassegnato la seconda notte di proteste per l'uccisione di Nahel, un diciassettenne che non aveva ottemperato alle ingiunzioni della polizia durante un controllo sulla strada, a Nanterre. La postazione attaccata da accesso alle residenze dei sorveglianti del carcere, alla sezione femminile e alla zona infermeria del penitenziario. Appena sferrato l'attacco è risuonato l'allarme, secondo quanto si vede su diversi video postati sui social. "Nessuno è entrato nel recinto della prigione - hanno assicurato le fonti - sono state subito chiamate le forze dell'ordine". I video in rete mostrano anche incendi appiccati lungo il percorso che conduce alla prigione.
(ANSA il 29 giugno 2023) - Sono "rinviati tutti i movimenti non essenziali dei ministri previsti per oggi": lo ha deciso il governo francese di fronte alla rivolta della banlieue per l'uccisione del diciassettenne Nahel a Nanterre da parte di un poliziotto, 2 giorni fa.
La sospensione dei movimenti dei ministri è una decisione trapelata da fonti del governo e riferita dalla tv BFM. E' stata adottata stamattina dopo le gravi violenze di questa notte, con tiri di razzi con mortai da fuochi d'artificio contro un carcere, incendi appiccati a scuole e palazzi, danneggiamenti gravi di municipi e di altri edifici pubblici. Tutto questo ha condotto all'annullamento di una visita della premier, Elisabeth Borne in Vandea, in programma stamattina, e al rinvio di tutti gli altri impegni che comportano spostamenti.
(ANSA il 29 giugno 2023) - Il presidente francese, Emmanuel Macron, denuncia "scene di violenza" contro le "istituzioni della Repubblica" che sono "ingiustificabili", dopo una nuova notte di scontri e rivolte nelle banlieue di Francia per la morte di Nael, il diciassettenne ucciso dalla polizia a Nanterre, alle porte di Parigi. Aprendo i lavori della cellula interministeriale di crisi convocata dal presidente, Macron ha auspicato che "le prossime ore" siano quelle del "rispetto" e del "raccoglimento". La madre della giovane vittima ha organizzato per le ore 14:00 una marcia bianca a Nanterre in omaggio al figlio ucciso durante un controllo stradale.
"Le violenze contro dei commissariati, delle scuole, dei municipi, contro la Repubblica, sono ingiustificabili", deplora Macron in un tweet pubblicato in mattinata. Il presidente francese ringrazia quindi "poliziotti, gendarmi, pompieri e rappresentanti politici mobilitati" per fronteggiare la situazione. "Il raccoglimento, la giustizia, la calma devono farci da guida nelle prossime ore", conclude Macron.
(ANSA il 29 giugno 202) - "Sento dolore per la mia Francia": anche Kylian Mbappé ha reagito, con un tweet, alla morte del giovane Nael, ucciso ieri ad un controllo stradale alla periferia di Parigi da un agente di polizia, arrestato con l'accusa di omicidio. "E' una situazione inaccettabile - continua il centravanti del PSG e della nazionale, in predicato di trasferirsi al Real Madrid - tutti i miei pensieri vanno agli amici e alla famiglia di Nael, piccolo angelo che se n'è andato troppo presto". A Nanterre, alle porte della capitale, incidenti sono andati avanti tutta la notte fra giovani e polizia dopo la morte del giovane, che era alla guida di un SUV Mercedes noleggiato e si è ribellato ad un controllo della polizia che lo aveva fermato sulla strada.
Estratto dell’articolo di Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 29 giugno 2023.
Gli apparati di sicurezza francesi temono un “effetto Zyed e Bouna”, dal nome dei due adolescenti che nel 2005 morirono fulminati in una cabina elettrica a Clichy-sous-Bois, dopo un inseguimento con la polizia: il dramma provocò settimane di proteste nelle banlieue, mettendo a ferro e fuoco il Paese e facendo traballare la presidenza Chirac.
La morte di Nahel M., 17 anni, durante un controllo di polizia avvenuto martedì mattina alle 8.30 a Nanterre, a ovest di Parigi, sta suscitando reazioni tumultuose nelle periferie francesi, che rischiano di protrarsi nei prossimi giorni e settimane. Nella notte tra martedì e mercoledì, proprio a Nanterre, si sono verificati gli scontri più violenti, con diversi edifici pubblici e privati che hanno subìto gravi danni, con incendi di auto e cassonetti, e sassaiole contro i Crs, la polizia antisommossa. I disordini sono iniziati nel tardo pomeriggio e sono finiti attorno alle 3.30 di notte, prima di esten dersi ad altre città.
A Mantes-la-Jolie, nel dipartimento delle Yvelines, il municipio del distretto di Val-Fourré è stato dato alle fiamme, e atti di vandalismo si sono verificati anche a Mulhouse, Digione e Bordeaux. Il bilancio della prima notte di rivolte dopo il dramma di Nanterre è di 31 persone arrestate, 24 agenti leggermente feriti e una quarantina di vetture incendiate, stando ai dati del ministero dell’Interno.
Ma cos’è successo veramente martedì mattina? Secondo la prima versione della polizia, Nahel, a bordo di una Mercedes gialla noleggiata, non avrebbe rispettato gli ordini degli agenti che lo avevano fermato in seguito a diverse violazioni del codice della strada. E avrebbe pigiato sull’acceleratore: l’auto rischiava di travolgere l’agente che quindi avrebbe sparato per legittima difesa. Ma un video registrato da una passante contraddice la versione dei flics.
Le immagini mostrano infatti che il poliziotto che ha aperto il fuoco non era posizionato davanti al mezzo ma all’altezza della portiera anteriore sinistra e impugnava già la pistola. Nello stesso filmato, si sente anche uno dei due agenti, con tutta probabilità colui che ha sparato il colpo fatale sul petto di Nahel, gridare: «Ti sparo un pallottola in testa». «È un gesto assolutamente illegittimo e che non rientra assolutamente in un quadro di autodifesa poiché è chiaro che il poliziotto si trovava a lato del veicolo che era fermo», ha reagito uno degli avvocati della famiglia di Nahel.
Mounia, la madre del diciassettenne, ha lanciato un appello su Tik Tok a riunirsi giovedì alle 14 davanti alla prefettura per una “marcia bianca” in onore del figlio. «Un adolescente ucciso è inspiegabile, ingiustificabile», ha dichiarato il capo dello Stato francese, Emmanuel Macron, auspicando «che la giustizia operi con celerità». Il primo ministro, Élisabeth Borne, ha reagito con così durante il question time al Senato: «Indossare l’uniforme significa rispondere a un dovere di esemplarità. L’intervento non era chiaramente conforme alle regole. […]
L'AGENTE CHE HA UCCISO NAHEL INDAGATO PER OMICIDIO VOLONTARIO
(ANSA il 29 giugno 2023) - Il poliziotto che ha aperto il fuoco contro Nahel, il ragazzo di 17 anni ucciso l'altro ieri a Nanterre, alle porte di Parigi, è stato indagato per "omicidio volontario" e piazzato in detenzione provvisoria: è quanto riferito dalla procura di Nanterre in un comunicato. (ANSA).
Estratto dell'articolo da ansa.it il 29 giugno 2023.
Tensioni alla "marcia bianca" guidata dalla madre del ragazzo ucciso da un poliziotto due giorni fa a Nanterre. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni. Dopo la conclusione della marcia per Nahel, il diciassettenne di Nanterre al quale un poliziotto ha sparato durante un controllo stradale, sono stati incendiati cassonetti e altro materiale.
Gli scontri tra manifestanti e polizia sono diventati sempre più violenti dopo la fine della 'marcia bianca' guidata dalla madre del ragazzo ucciso da un poliziotto due giorni fa a Nanterre, alla quale hanno partecipato fra le 5.000 e le 6.000 persone. Diversi poliziotti sono stati feriti, molte le auto date alle fiamme. Gli scontri sono esplosi all'arrivo della marcia davanti al tribunale di Nanterre.
La "marcia bianca" era stata chiesta dalla mamma di Nahel M. Erano presenti nel corteo alcuni membri del municipio di Nanterre, tutti con una t-shirt rossa. Il vescovo, monsignor Matthieu Rougé, ha lanciato "un appello alla pacificazione in nome della fraternità tra le religioni".
Le misure del governo
Il governo ha annunciato che schiererà un totale di 40.000 poliziotti e gendarmi questa sera, di cui 5.000 soltanto a Parigi e nella banlieue, di fronte al rischio di nuovi disordini legati all'uccisione di un diciassettenne di Nanterre, due giorni fa, da parte di un agente.
Le forze dell'ordine - ha indicato il ministro dell'Interno, Gérald Darmanin - saranno "il quadruplo" rispetto alla notte scorsa, durante le quali scontri e danneggiamenti si sono estesi a tutto il Paese e in alcuni casi sono stati particolarmente gravi.
"Tutti quelli che sputano sulla polizia e sulla giustizia sono i complici morali di quello che sta succedendo": lo ha detto oggi il ministro della Giustizia, Eric Dupond Moretti, in visita al tribunale di Asnières-sur-Seine, vicino a Parigi, danneggiato questa notte durante gli scontri. […]
Parigi è in rivolta dopo l’uccisione di un diciassettenne da parte della polizia. Monica Cillerai su L'Indipendente il 28 giugno 2023.
Rabbia e dolore sono esplose questa notte in diverse zone della regione parigina in seguito alla morte di Naël M., 17 anni, ucciso con un colpo di pistola sparato a bruciapelo, dritto sul petto, da un poliziotto durante un fermo stradale. Inizialmente limitati ai dintorni del quartiere Vieux-Pont, di cui la vittima era originaria, gli scontri si sono diffusi in altri comuni dell’Hauts-de-Seine, come Asnières e Colombes, Suresnes, Aubervilliers, ma anche in numerosi dipartimenti vicini, in particolare Clichy-sous-Bois (Senna-Saint-Denis) e Mantes-la-Jolie (Yvelines). Scene di vera e propria rivolta urbana, con assalti alle caserme, sassi e roghi di auto della polizia e assalti contro palazzi comunali.
Un video girato da un passante che registra la morte in diretta del giovane adolescente ha fatto il giro del web, innescando la scintilla che ha incendiato la notte in numerosi quartieri parigini.
Nel filmato, di una cinquantina di secondi, si vede una Mercedes AMG gialla ferma a un blocco con due agenti in motocicletta appoggiati alla portiera del guidatore. La macchina é ferma e uno degli agenti tiene il fucile puntato sul ragazzo alla guida. «Ti spareranno in testa», grida qualcuno, forse proprio uno dei poliziotti, con la pistola a pochi centimetri dal conducente del veicolo. Il giovane parte con l’auto, il poliziotto spara. La macchina esce poco dopo di strada e sbatte contro un pilone. Naël M. é morto, con un proiettile nel petto. Un altro dei giovani in macchina viene messo in stato di fermo, un terzo si é dato alla fuga ed é tutt’ora ricercato.
Il video ha letteralmente spazzato via la versione divulgata da fonti della polizia e ripresa da alcuni media, che parlavano di un veicolo che correva verso due agenti di polizia con l’intenzione di investirli, di un giovane già segnalato alle forze dell’ordine e di autodifesa degli agenti. Sembra proprio invece si tratti di omicidio a sangue freddo, una dinamica ormai sempre più frequente in Francia, dove l’anno scorso sono state uccise ben 13 persone durante dei controlli stradali finiti in spari da parte delle forze dell’ordine. Naël é la seconda vittima quest’anno. Due settimane fa, un ragazzo di 19 anni è stato ucciso dalla polizia nella città di Angouleme, nella Francia occidentale, dopo aver – secondo la versione degli agenti – “colpito” un poliziotto alle gambe durante un controllo stradale.
Probabilmente, senza video anche quella di Naël sarebbe rimasta un’altra morte senza responsabili. Invece le immagini hanno scatenato la ricerca di giustizia e il dolore di amici, famigliari e non solo.
Nella notte la rivolta: fuochi d’artificio contro stazioni di polizia, cassonetti in fiamme e circa quarantadue veicoli incendiati. Sassi contro macchine della polizia e blocchi anche sulla linea RERA, la ferrovia suburbana parigina. Bruciato l’edificio del Comune di Val Fourré, a Mantes-la-Jolie. La polizia antisommossa ha usato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, alcuni dei quali hanno costruito barricate per tutta la notte.
Gli appelli alla calma del sindaco della città, Patrick Jarry, non sono bastati a evitare gli scoppi di rabbia prevedibili date le circostanze della morte del giovane, immortalate dallo smartphone di un passante intorno alle 8.15 di martedì mattina ed esplose nella notte dopo anche un presidio spontaneo di famigliari e conoscenti nel pomeriggio sul luogo della tragedia. Sembra che trentuno persone siano state arrestate, secondo un rapporto aggiornato alle 08:30 di mercoledì. La polizia denuncia 24 poliziotti e gendarmi feriti.
Il poliziotto che ha sparato é stato arrestato. Le autorità hanno aperto due indagini separate in seguito alla morte dell’adolescente: una su un possibile omicidio da parte di un pubblico ufficiale e l’altra sul mancato arresto del veicolo da parte del conducente e sul presunto tentativo di uccidere un agente di polizia.
L’avvocato della famiglia del diciassettenne, Yassine Bouzrou, ha affermato che il video «mostra chiaramente un poliziotto che uccide un giovane a sangue freddo». Ha aggiunto che la famiglia ha presentato una denuncia contro la polizia per aver mentito, dicendo inizialmente che l’auto aveva cercato di investire gli agenti. Un altro avvocato che rappresenta la famiglia della vittima, Jennifer Cambla, ha dichiarato ai media locali che nulla può giustificare quanto accaduto e ha descritto la morte come una «esecuzione».
Anche una parte della politica ha preso parola: «Sì, il rifiuto di obbedire è contro la legge, ma la morte non è una delle pene previste dal codice penale», ha twittato il coordinatore de La France insoumise, Manuel Bompard.
Il 2022 é stato un anno record come numero di morti per “refus d’obtempérer “, la non osservanza di un fermo stradale. Cinque agenti di polizia sono stati incriminati in questi casi, mentre gli altri sono stati rilasciati senza essere perseguiti. Le autorità e i sindacati di polizia attribuiscono i 13 morti uccisi del 2022 a un comportamento di guida più pericoloso che in passato, ma ricercatori danno la colpa a una legge del 2017 che modifica l’uso delle armi da parte degli agenti di polizia. Non ci sono video degli altri fermi terminati con la morte del guidatore.
Dopo il dispiegamento di «1.200 poliziotti e gendarmi» ieri sera, il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin ha annunciato che questo mercoledì sera «saranno mobilitati 2.000 agenti di polizia e gendarmi per mantenere l’ordine pubblico» nel dipartimento della Hauts-de-Seine, nel tentativo di contenere eventuali disordini.
[di Monica Cillerai]
Rabbia senza fine in Francia, un morto in Normandia. L’appello di Macron a genitori e ragazzi: “State a casa”. Ancora una notte di rivolte per la morte del 17enne Nahel. Il presidente lascia il vertice di Bruxelles: blindati in strada e coprifuoco. su Il Dubbio il 30 giugno 2023
Sarà sepolto domani Nahel M, il 17enne ucciso martedì dagli spari di un poliziotto a Nanterre, nella cintura periferica di Parigi, perché non si era fermato a un posto di blocco e aveva cercato di fuggire in auto. Una morte che ha scatenato un'ondata di rivolte non solo a Parigi. Da giorni la Francia è messa a ferro e fuoco: in un clima esplosivo, le violenze pongono una nuova sfida per l'Eliseo, ad appena un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, il segno di una frattura profonda nella società ma anche di sfiducia nelle autorità e nelle forze di sicurezza. Quella tra giovedì e venerdì è stata la terza notte di disordini: edifici pubblici deturpati, auto alle fiamme, negozi saccheggiati, nonostante fossero stati mobilitati 40mila poliziotti per mantenere la calma. È l'ennesima esplosione di rabbia dopo le proteste dei gilet gialli e quella per la riforma delle pensioni. Negli scontri, sono rimasti feriti quasi 300 tra poliziotti e gendarmi ed effettuati 875 arresti. Le scene di violenza ricordano la rivolte delle banlieu del 2005; e i video che circolano sui social network, con l'hashtag 'Nahel' fanno impressione: adolescenti fuori controllo che corrono, fanno irruzione nei negozi, danno fuoco ai bidoni della spazzatura e alle auto.
Stamattina si è tenuta un gabinetto di crisi presieduto dal presidente Emmanuel Macron, rientrato precipitosamente dal Consiglio europeo e che successivamente ha rivolto un appello al senso di "responsabilita'" dei genitori, chiedendo loro di tenere i ragazzi a casa e non farli partecipare alle rivolte. Macron ha fatto presente che un terzo degli arrestati sono minorenni (buona parte ha tra i 14 e i 18 anni), preannunciato maggiore presenza della polizia nelle strade e ha anche esortato le piattaforme che gestiscono i social network ad assumersi la loro parte di responsabilità
E adesso il Paese si prepara alla prossima notte. Il ministro dell'Interno, Ge'rald Darmanin, ha chiesto a tutte le prefetture di sospendere la circolazione di autobus e tram a partire dalle 21 di questa sera. Il governo ha anche preannunciato che saranno schierati i blindati della gendarmeria. Quando le è stato chiesto se il governo pensi anche allo stato di emergenza, la premier, Elisabeth Borne, ha risposto che "tutte le opzioni" sono sul tavolo.
Intanto l'agente che ha sparato a Nahel si è scusato con la famiglia: è stato accusato di omicidio volontario e il suo avvocato ha raccontato che è "devastato". Una mano pietosa ha lasciato un biglietto struggente sul luogo dove il ragazzino è stato ucciso: "Pace a Nahel, che la terra ti sia lieve".
Banlieue francesi, quarant’anni di scontri e rivolte tra i dimenticati della République. La rivolta seguita all’uccisione del 17enne Nahel è solo l’ultimo capitolo della guerra esistenziale e a bassa intensità tra i giovani dei ghetti urbani e la polizia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 30 giugno 2023
“The French Intifada” titola il britannico The Guardian commentando i furibondi scontri tra i giovani delle banlieue e la polizia francese, una frase ad effetto che però illumina bene i tratti di un conflitto quasi esistenziale tra la République e quei milioni di ragazzi che si sentono un corpo estraneo e come tale vengono trattati.
Sono in larghissima parte i figli, anzi i nipoti e i bisnipoti dell’immigrazione degli anni ‘60, quando la Francia importa manodopera dal Nordafrica, moltissimi gli edili che costruiscono i casermoni di periferia dove andranno a vivere con le loro famiglie, una generazione che si è integrata, anche se a fatica e ai livelli più bassi della scala sociale. E comunque sempre all’interno di un recinto impossibile da scavalcare. In pochi decenni le banlieue, concepite per offrire appartamenti a basso costo alle classi popolari, sono diventate un ghetto, un ricettacolo di esclusione e marginalità dove regna l’economia parallela del racket e dello spaccio di stupefacenti, dove la propaganda radicale islamista riesce ad aver facile presa ma anche un laboratorio della repressione di Stato e un redditizio terreno di campagna elettorale.
L’uccisione del 17enne Nahel da parte di un poliziotto con gli oltre 700 arresti è solo l’ultimo di una lunga catena di eventi che hanno segnato la storia recente della Francia. Da più di quarant’anni le banlieue vivono infatti una guerra a bassa intensità che, come un bubbone, esplode a intervalli regolari, spesso innescato dalla morte di un giovane per mano delle forze dell’ordine, a volte dalle decisioni di un sindaco o dalle dichiarazioni incendiarie di qualche politico irresponsabile, una guerra alimentata in modo endemico dalla povertà e dalla disoccupazione.
Il primo episodio di scontri organizzati risale al 1979, alla Grapiniere, quartiere-dormitorio ai margini di Lione, centinaia di giovani di origine maghrebina protestano contro la demolizione di alcune case popolari e affrontano la polizia. Tutta la regione lionese conosce un’ondata di violenze che prosegue lungo i primi anni 80, con i telegiornali delle 20.00 che mostrano le carcasse delle auto incendiate e scene da guerra civile libanese. Nel 1983 nella cité delle Minguettes, sempre nell’area lionese, Toumi Djaïdja presidente di un’associazione antirazzista è ucciso da un agente: stava soccorrendo un ragazzo aggredito da un cane poliziotto. Seguono settimane di tumulti ma anche di manifestazioni e marce bianche contro gli abusi delle forze dell’ordine. Le rivolte però contagiano tutto il Paese, il nord operaio, l’est, il sud e soprattutto l’Ille de France, la regione parigina, autentica polveriera sociale.
In quel periodo peraltro comincia a lievitare il consenso del Front National di Jean Marie Le Pen, specialmente nell’elettorato bianco che vive in banlieue, un’altra combinazione esplosiva, un’altra dolorosa frattura sociale e culturale.
Non basterebbe un’enciclopedia per raccontare tutte le rivolte metropolitane dell’ultimo mezzo secolo in Francia, di certo una delle più importanti e mediatizzate fu quella del 2005, provocata dall’allora ministro dell’interno Sarkozy che durante una visita a Clichy sous bois un quartiere “difficile” della capitale esclama: «Vi libereremo da questa feccia!». Anche in quel caso la guerriglia è durata per intere settimane con bilanci pesantissimi per l’ordine pubblico, ma Sarko vinse pienamente la sua scommessa, approdando due anni dopo all’Eliseo sulle ali della sua politica del pugno di ferro. Oggi il testimone viene raccolto da Marine Le Pen che alle prossime elezioni europee senz’altro utilizzerà tutti i ferri del mestiere per sfruttare l’ennesima emergenza nelle banlieue.
Ora basta buonismo. Storia di Francesco Maria Del Vigo Il Giornale il 2 luglio 2023.
Se i vocabolari non avessero deciso da anni di genuflettersi alla dittatura del politicamente corretto il termine «banlieue» dovrebbe essere tradotto con «ghetto per migranti» e la locuzione «stranieri di seconda generazione» come «emarginati». E sono entrambi il frutto avvelenato di un immigrazionismo scriteriato.
Lo dimostra con ogni evidenza quello che sta accadendo in Francia in questi giorni, cioè il collasso disastroso di una cultura dell'accoglienza obbligata e del multiculturalismo a tutti i costi che nel nome dell'integrazione hanno disintegrato la società. Integrazione che non è mai avvenuta perché i figli e i nipoti degli immigrati arrivati nel periodo post coloniale non si sentono cittadini francesi e, pur avendone gli stessi diritti, di fatto non lo sono, chiusi nei loro ghetti che a loro volta hanno contribuito a edificare e blindare (a Marsiglia mettono pure le sentinelle abusive per controllare gli accessi).
L'implosione della dottrina francese sugli immigrati deve essere però di lezione a chi, come l'Italia, si trova in questi anni a gestire da sola enormi flussi migratori. Un ammonimento che, almeno fino a oggi, non è stato raccolto dai vessilliferi italiani dei porti spalancati e dalle vestali del buonismo che vede in ogni sbarco non una tragedia umana della disperazione, ma una «risorsa». E i primi segnali di cedimento non sono arrivati martedì scorso a Nanterre con la barbara e ingiustificabile uccisione di Nahel da parte delle forze dell'ordine, ma nel lontano 2005 a Clichy-sous-Bois, dove due ragazzi morirono fulminati all'interno di una centralina elettrica nella quale si erano rifugiati per sfuggire alla polizia, dando il là a due settimane di scontri. La rivolta dei minorenni, dunque, è maggiorenne, ma in questi diciott'anni nessun governo francese ha fatto nulla per porvi rimedio e in Italia la questione migratoria, posta regolarmente sul tavolo dal centrodestra, è stata sempre sbertucciata e derubricata dalla sinistra come una bagatella elettorale o, peggio ancora, come una paranoia piccolo borghese. Ignorando che la pentola a pressione che sta esplodendo oltre confine non è null'altro che il trailer di quello che potrebbe succedere tra qualche anno ai bordi delle nostre città, laddove la povertà e la disperazione - di qualunque nazionalità - si integrano (questa volta sì) in una miscela esplosiva. Per questo il cortocircuito dei talebani del multiculturalismo riguarda tutti noi e, oggi più che mai, c'è bisogno di una gestione della sicurezza e dell'immigrazione chiara, che non abbia paura di abbattere quel muro sinistro di ipocrisia che, come ci spiega la lezione francese, finisce per crollare addosso agli uni e agli altri, senza alcuna discriminazione, dimostrando che è proprio la strada del buonismo che porta ai risultati peggiori, che sfiorano addirittura il cattivismo.
Estratto dell’articolo di Danilo Ceccarelli per “la Stampa” l'1 luglio 2023.
«Banlieue in Francia è diventato sinonimo di ghetto per immigrati, le politiche di integrazione hanno fallito, i figli e i nipoti dei primi migranti non mai diventati francesi a pieno titolo».
Bernard Guetta, giornalista ed eurodeputato del gruppo Renew, sintetizza così i problemi sociali legati alle periferie in fiamme.
[…] «[…] abbiamo un problema che si pone ormai da diversi decenni con i figli, i nipoti e i pronipoti degli immigrati arrivati nel dopoguerra e nel periodo post-coloniale. […] non è stata perseguita la politica di integrazione francese, che ad esempio è molto diversa da quella britannica. È un progetto portato avanti solo a metà, forse tre quarti. Chi viene dall'immigrazione oggi frequenta la scuola della Repubblica, ha gli stessi diritti degli altri francesi perché sono nati sul territorio nazionale, spesso come i genitori. Ma non sono mai stati visto come dei francesi a pieno titolo perché con o senza consapevolezza, la maggior parte di loro è stata lasciata all'interno di ghetti, che sono le banlieue. E quando si crea un ghetto, ci sono dei problemi che nascono di conseguenza».
Per esempio?
«Da un punto di vista sociale, nascere in un quartiere difficile è un segno. Prendo il caso del mondo del lavoro, dove una persona nata da una famiglia di origini straniere in una banlieue riscontra spesso delle difficoltà legate più all'indirizzo che figura sul curriculum che al nome. Se viene da una periferia che ha la fama di essere un ghetto, il datore di lavoro ha il riflesso di farsi delle domande sul fatto che il candidato è una possibile fonte di problemi e preoccupazioni».
[…] «Da una trentina di anni si è instaurato un gioco deleterio di cowboy e indiani tra poliziotti e ragazzini. Utilizzo questo termine perché stiamo parlando di giovani che arrivano ad un massimo di 22 o 23 anni. Per la maggior parte sono adolescenti. Si crea quindi una tensione permanente di cui sono vittime anche gli agenti, non solamente i ragazzi. […]».
Pensa che l'eventuale applicazione dello stato di emergenza di cui si sta parlando in questi giorni possa risolvere la situazione?
«Potrebbe diventare una necessità politica nel momento in cui lo Stato dovrà compiere un gesto forte optando per una misura volta a colpire l'attenzione. […] Le forze dell'ordine al momento sono mobilitate sul territorio, è non credo che si comportino in modo tenero o lassista. Le manifestazioni continueranno anche con lo stato di emergenza. Certe volte, però, la politica è fatta anche di parole e simboli». […]
Estratto da repubblica.it il 2 luglio 2023.
La Francia è tremendamente spaccata e la conferma arriva da un’altra “battaglia", come qualcuno l’ha ribattezzata, quelle delle collette online. Una per la madre di Nahel, il 17enne ucciso a Nanterre il 27 giugno scorso da un poliziotto dopo esser scappato a un posto di blocco alla periferia di Parigi. E l’altra a favore di Florian M., proprio l’agente che ha sparato al ragazzino di famiglia musulmana.
Se la colletta sul sito Leetchi per la “maman" di Nahel ha raggiunto nel primo pomeriggio di domenica la cifra di 82mila euro, quella che invece si intitola “Soutien pour la familie du policier de Nanterre” sulla piattaforma Go Fund Me ha invece sfondato la soglia di 550mila euro in offerte a favore della famiglia del poliziotto Florian M.
[…] Per l’agente, ci sono stati però sinora oltre 27.500 donatori (contro 5.200 circa per la madre di Nahel) e la massima offerta è stata di 3mila euro. […]
C’è poi da sottolineare che la colletta per l’agente è stata creata da Jean Messiha, un ex sostenitore del candidato presidenziale di estrema destra Éric Zemmour e opinionista del canale CNews. Sui suoi social, Messiha ha scritto che aveva inizialmente postato la “catena” di finanziamento sul sito Leetchi, la stessa di quella per i familiari di Nahel. Poi però, secondo la sua ricostruzione, "dopo aver raggiunto 5mila euro in pochi minuti, la colletta è stata chiusa dalla piattaforma. Per questo l’abbiamo aperta successivamente su Go Fund Me”.
“I collaborazionisti di sinistra stanno fallendo”, ha aggiunto Messiha su Twitter, “la colletta che ho creato per il poliziotto Florian M ha superato quella per la madre di Nahel, e molti utenti sono sconvolti. Davvero siete sconvolti? Non io. Se siete troppo pavidi, allora i cittadini agiranno al vostro posto”.
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 2 luglio 2023.
“Voglio che finisca, ovunque”. Per cercare di riportare la calma in Francia arriva anche l’appello lanciato dalla nonna di Nahel, il ragazzo ucciso durante un controllo stradale a Nanterre: “Io dico a quelli che stanno facendo danni, fermatevi! Non rompete le scuole e gli autobus. Sono le mamme che prendono gli autobus!”, ha aggiunto la donna. Per il quinto giorno consecutivo la Francia, , infatti, è stata protagonista di un’altra notte di scontri. […]
Assalto alla casa del sindaco – A L’Haÿ-les-Rose, alle porte di Parigi, i manifestanti hanno lanciato un’auto in corsa contro l’abitazione del sindaco, ferendo la moglie e uno dei suoi figli piccoli […] mentre lui si trovava in municipio impegnato nell’emergenza. […]
Spari contro un agente – Nella notte tra venerdì e sabato è stato, invece, aperto il fuoco contro un agente di polizia che si è salvato grazie al suo giubbotto antiproiettile. A riferire l’episodio, avvenuto a Nîmes, è stata oggi la procuratrice della Repubblica, Cecile Gensac, che ha aperto l’inchiesta. “Il fatto che indossasse il giubbotto ha permesso all’agente di non rimanere gravemente ferito”, ha dichiarato. Una radiografia ha confermato la presenza di un proiettile all’interno del giubbotto.
Gli scontri e gli arresti – Sono 719 le persone fermate tra sabato e domenica per i disordini che hanno toccato diverse città, da Parigi a Rennes fino a Brest. Secondo il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, che ha seguito l’evoluzione della situazione dal centro di comando della capitale, si è tratta di “una notte più tranquilla grazie all’azione decisiva delle forze dell’ordine”.
[…]
Le contromisure – Emmanuel Macron farà il punto della situazione sulle rivolte in corso nel Paese al Palazzo dell’Eliseo nel tardo pomeriggio, nel corso di una riunione alla quale parteciperanno il primo ministro, il ministro dell’Interno e il Guardasigilli. Lo riporta Bfm Tv. Un decreto prefettizio, intanto, autorizza l’uso di droni a Parigi per acquisire immagini nel quadro della situazione di violenze ed incidenti. Il decreto autorizza l’acquisizione, la registrazione e la trasmissione di immagini mediante droni a Parigi e in alcuni comuni dei Hauts-de-Seine e in tutti i comuni di Seine-Saint-Denis a partire da questa sera alle 18 e fino a lunedì alle 6.
Le raccolte fondi – Intanto in tre giorni di raccolta fondi, la colletta organizzata dall’ex portavoce del Rassemblement National (l’estrema destra di Marine Le Pen) Jean Messiha (ora con Reconquete di Eric Zemmour) in favore del poliziotto di Nanterre responsabile della morte di Nahel, ha totalizzato già oltre 645mila euro. Una cifra molto più alta rispetto all’altra raccolta fondi: quella in favore della mamma di Nahel. In questo caso la colletta online è ferma a poco più di 96mila euro.
Gli scontri per Nahel M. Cosa sono le “flash ball”, i proiettili in plastica in dotazione alla polizia francese: morto 27enne a Marsiglia. Gli scontri per la morte di Nahel M. riaccendono il dibattito in Francia. Il 27enne ucciso alla guida del motorino, ha sofferto uno "shock violento al torace". La commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa ha chiesto a Macron di sospendere l'uso. Antonio Lamorte su L'Unità il 5 Luglio 2023
È morto a causa di uno “shock violento al torace” il ragazzo raggiunto a Marsiglia da una flash-ball esplosa dalla polizia. Aveva 27 anni, impossibile dire al momento se fosse coinvolto negli scontri scatenati dall’uccisione, martedì scorso, del 17enne Nahel M. da un agente di polizia a un posto di blocco in una banlieue parigina. Le flash ball sono proiettili di gomma molto grossi che possono provocare morti e feriti. La tragedia di Marsiglia li ha rimessi di nuovo al centro del dibattito. La commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic ha scritto una lettera al governo francese e al Presidente della Repubblica Emmanuel Macron con la richiesta di sospenderne l’uso.
Il 27enne è stato colpito mentre era alla guida di un motorino. Si è accasciato sul manubrio. A rendere noto l’omicidio, soltanto ieri sera, la Procura di Marsiglia che ha precisato come “disordini e saccheggi si registravano nella zona quella notte, anche se non è possibile determinare se la vittima vi partecipasse o se stesse solo circolando nei paraggi”. La moglie della vittima, incinta del secondo figlio, ha raccontato a Rtl che il marito non stava partecipando alle proteste, “faceva fotografie”. Sul caso è stata aperta un’inchiesta per ferite mortali provocate da uso o minaccia di un’arma”.
Le flash-ball hanno una dimensione di 40 millimetri di diametro, pesano 28 grammi e dal 2022 vengono sparate dal lanciatore a una velocità di 419 chilometri orari. Sono sparate da fucili LBD (Lanceur de Balle de Défense), progettati dal produttore francese di armi Verney Carron. Sono utilizzati dalla polizia antisommossa e da società di sicurezza private in alternativa alle armi da fuoco e ai proiettili di plastica. L’arma esiste in due versioni di calibro 44/83. Canne sovrapposte o affiancate a doppietta, da non usare alla corta distanza ma almeno a 15 metri di lontananza.
I fucili esistono dal 1990, sono in dotazione alla polizia dal 2002. Già durante le proteste dei Gilet Gialli nel 2019 il collettivo “Dèsarmons-les” aveva denunciato le violenze della polizia e l’utilizzo di flash-ball e LBD da parte degli agenti. Segnalavano 94 persone che in totale erano rimaste ferite negli scontri, 71 proprio a causa delle flash-ball. Cifre confermate anche dalle statistiche dell’Ispettorato generale della polizia nazionale, che segnalava come quell’anno fossero state esplose oltre 19.070 cartucce LBD contro le 6.357 dell’anno precedente, con un aumento record di oltre il 200%. La polizia ha sempre sostenuto come quelle armi vengano usate solo in casi eccezionali e quando non ci sono altri modi per difendersi, sparando solo al torso o agli arti.
“Gli elementi dell’inchiesta – precisa una fonte della procura di Marsiglia confermando le notizie diffuse dal quotidiano regionale La Marseillaise e dal settimanale Marianne – permettono di considerare come probabile un decesso causato da uno shock violento al livello del torace provocato da un proiettile di ‘tipo flash-ball’”. L’impatto del proiettile “ha provocato un arresto cardiaco e quindi la morte in un intervallo breve”. La morte del 27enne si è consumata proprio mentre le proteste sembravano scendere di intensità dopo il picco raggiunto lo scorso fine settimana. A Marsiglia come in altre città nel weekend si erano verificati gravi saccheggi e danneggiamenti. Sabato e domenica era stato schierato in città un numero massiccio di agenti dopo che gli scontri erano stati particolarmente violenti la notte precedente.
Antonio Lamorte 5 Luglio 2023
"Truffa organizzata". La famiglia di Nahel contro la colletta per il poliziotto. Storia di Massimo Balsamo da Il Giornale il 4 Luglio 2023.
Sono giorni di tensione in Francia dopo la morte di Nahel, diciassettenne ucciso durante un controllo stradale a Nanterre. La rivolta sta attanagliando il Paese e nelle ultime ore si è aperto un altro fronte: quello delle collette. È stata infatti organizzata una raccolta fondi per la famiglia della vittima, ma anche una per il poliziotto che ha sparato al minorenne. Quest'ultima colletta è stata organizzata da Jean Messiha, un politico vicino all'esponente di estrema destra Eric Zemmour, e ha raggiunto quota 1,5 milioni di euro. La reazione della famiglia di Nahel non s'è fatta attendere: l'avvocato della madre ha reso noto di aver sporto denuncia contro Messiha per truffa organizzata.
Secondo quanto riportato da RMC, i cari del diciassettenne hanno denunciato il promotore della colletta per il poliziotto presso la Procura di Parigi: il legale Yassine Bouzrou ha spiegato che Messiha avrebbe utilizzato"manovre fraudolente" per incitare i contributori a fare le loro donazioni. In particolare, avrebbe utilizzato "la fedina penale di Nahel per criminalizzarlo e creare un movimento di sostegno all'agente di polizia che lo ha ucciso".
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L'avvocato ha aggiunto che Messiha "ha presentato pubblicamente e falsamente Nahel come un plurirecidivo e ha utilizzato una fotografia dell'intervento della polizia senza autorizzazione". Inoltre, secondo Bouzrou il promotore"ha affermato che i fondi raccolti sarebbero stati devoluti alla famiglia del poliziotto, senza dimostrare che il beneficiario fosse effettivamente un parente dell'agente". Il beneficiario è al momento anonimo. Sono tre i reati menzionati, comprese la truffa organizzata e l'appropriazione indebita di atti di polizia.
La raccolta fondi terminerà alla mezzanotte di martedì 4 luglio, ha annunciato Messiha: "Ma questo slancio nazionale deve continuare, ed è per questo che Viva la Francia e Viva il popolo francese!". Ma lo scontro è apertissimo, nel dibattito è intervenuta anche la prima ministra Elisabeth Borne: "Il fatto che all'origine di questa colletta vi sia una persona vicina all'estrema destra non contribuisce alla pacificazione". Tante le critiche arrivate da sinistra, i deputati Mathilde Panot (LFI) e Arthur Delaporte (PS) hanno annunciato un'azione legale: "Non ci sono dubbi sulle intenzioni del promotore di questo fondo, che sta usando la tragedia di Nanterre per stabilire e trasmettere idee politiche che invitano all'odio". La Panot ha rincarato la dose su Twitter, definendo la colletta "un insulto alla famiglia di Nahel".
L’avvocato di Nahel: «La polizia in Francia da sempre impunita». Yassine Bouzrou, penalista, esperto di abusi commessi dalle forze dell’ordine su Le monde accusa le procure. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 5 luglio 2023
L’avvocato Yassine Bouzrou, 44 anni, è un massimo esperto di violenze commesse dalla polizia francese, dossier di cui si occupa da quasi vent’anni durante i quali ha preso le parti di decine e decine di giovani, sia come difensore che come rappresentante della parte civile, ma anche dei “gillet gialli” rimasti vittime degli eccessi di poliziotti e gendarmi e della “deriva americana” che da tempo affligge i nostri vicini.
Molto noto al grande pubblico per aver interpretato se stesso nel profetico film Les Miserables e per aver seguito cause molto mediatiche (l’attentato di Nizza, il disastro del volo Rio-Parigi) oggi è il legale della famiglia di Nahel, il 17enne ucciso con un colpo alla tasta da un agente a Nanterre, periferia calda della capitale.
La morte, insensata, di Nahel ha riacceso la miccia della rivolta, alimentando l’odio atavico dei ragazzi marginalizzati delle banlieue, francesi di terza e quarta generazione, ma mai realmente integrati nella società. Migliaia di arresti, di auto date alle fiamme, di strutture pubbliche distrutte e centinaia di milioni di danni, in quella che sembra una guerra civile in filigrana.
In una lunga intervista rilasciata a Le Monde, Bouzrou sostiene che la polizia in Francia goda di una storica impunità sostanziata dalla protezione della magistratura che raramente rinvia a giudizio un agente se non di fronte a fatti gravissimi e flagranti. Anche per morte di Nahel, se non fosse spuntato il video di una residente che ha ripreso tutta la sequenza, sarebbe passata la linea della legittima difesa; «Due ore dopo i fatti, quando il video aveva iniziato a circolare sul web la famiglia apprende dai media che loro figlio è morto e che era un delinquente, mentre il poliziotto non era stato nemmeno indagato. Peggio ancora: il procuratore annuncia un inchiesta per tentato omicidio ai danni dell’agente, la sua priorità è criminalizzare la vittima. Un comportamento scandaloso che ha reso i parenti del ragazzo folli di rabbia e sconforto».
Secondo Bouzrou al di là della cultura autoritaria che caratterizza alcuni reparti della police nationale, in particolare tra i celerini (Crs) e tra gli agenti della Brigata anti-criminalità Bac (la Digos transalpina), il problema è di natura giudiziaria: «Poiché l’immunità giudiziaria è quasi completa, è logico che aumentino abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine. Negli ultimi anni il fenomeno si è aggravato, basti pensare alle centinaia di denunce da parte dei manifestanti dei “Gillet gialli” feriti dai proiettili di gomma che non hanno sortito nessuna condanna. Il penalista di origine marocchina cita il caso di una 80enne di Marsiglia che nel 2018 ha perso la vita perché colpita da una granata lacrimogena lanciata dalla polizia durante un corteo dei “Gillet gialli”, per tre anni nessuno è mai riuscito a individuare l’arma e l’agente che ha sparato il colpo ad altezza d’uomo: «Quando l’Ispettorato generale della polizia ha chiesto di ottenere l’arma gli ufficiali dei Crs si sono rifiutati di consegnarla, spiegando che in quel momenti ne avevano bisogno. Poi non è successo più nulla. Oggi sappiamo chi è l’agente che sparò il colpo il quale non ha subito nemmeno una sanzione amministrativa».
Anche da parte del mondo politico e in modo del tutto trasversale, dalla destra post gollista, ai socialisti, fino ai centristi di Emmanuel Macron, secondo Bouzrou non c’è mai stata una vera assunzione di responsabilità sulla protezione sistemica di cui beneficiano polizia e gendarmeria, anzi, i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno spesso agito spesso in direzione contraria, ampliando cioè la rete di protezione e omertà intorno agli abusi dei poliziotti: «Nel 2020 c’è stato un tentativo da parte governo di impedire la pubblicazione di video che mostrano le forze dell’ordine, per fortuna c’è stata una marcia indietro, ma aveva senso: impedire l’apertura di inchieste giudiziarie».
Bouzrou infine punta il dito sulla legge del 2017 che permetterebbe ai poliziotti di sparare contro un veicolo che non si ferma all’alt. Fu approvata in tutta fretta dal governo del macroniano Edouard Philippe in seguito al ferimento di due agenti colpiti da bottiglie molotov a Viry-Châtillon sempre nella banlieue parigina: «L’anno successivo all’entrata in vigore della norma sui controlli stradali i casi di colpi d’arma da fuoco contro automobili in movimento sono praticamente raddoppiati, passando da 119 a 202. Nessuna legge dovrebbe in tal senso mai violare il principio di proporzionalità e di stretta necessità, ma i sindacati di polizia vorrebbero abolire questi limiti e sostituirli con il vago principio della “legittima difesa preventiva”».
L’odio. Il fiasco dell’assimilazione e l’inesorabile separatismo dei francesi musulmani. Carlo Panella su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023
Le tensioni in Francia sono il frutto del rapporto irrisolto tra Islam e modernità europea. Da una parte ci sono i giovani di fede islamica che non si riconoscono nei valori della società laica e si sentono emarginati, dall’altra parte c'è una polizia violenta formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto
La rivolta che ha bruciato la Francia, con scintille sino in Belgio e persino in Svizzera, ci obbliga a porci una domanda che è tanto semplice quanto esplosiva. L’Italia, indietro di decenni nello sviluppo del fenomeno immigratorio, farà la stessa fine? È inutile elencare tutte le differenze tra Italia e Francia. La lista è lunga: una immigrazione stanziale di massa iniziata decenni e decenni dopo, quindi una presenza enormemente minore di immigrati divenuti cittadini italiani e quindi di seconda o terza generazione (in Francia secondo l’istituto di statistica nazionale Insee questi e gli immigrati superano largamente i dieci milioni) una immigrazione non proveniente, se non del tutto marginalmente, da ex colonie, soprattutto non influenzata dal ricordo storico di feroci guerre coloniali come in Algeria e Marocco; una presenza quasi maggioritaria in Italia di immigrati europei, il 30 per cento addirittura comunitari; una polizia e dei carabinieri ben integrati nel tessuto sociale e molto impegnati nelle politiche di prossimità e integrazione, per lo più alieni da comportamenti violenti. Infine, ma non per ultimo, l’assenza del fenomeno delle banlieues.
In Francia, nel 1962, André Malraux varò una legge che investì nel risanamento dei centri storici, diventati così scelta preferenziale della media e alta borghesia, mentre gli immigrati, grazie anche a successive e precise scelte urbanistiche, vennero ammassati nelle periferie e nelle città satelliti, le banlieues. In Italia, al contrario, nessuna, assolutamente nessuna, politica urbanistica a fronte dell’arrivo in quindici anni di cinque milioni di immigrati regolari, col risultato di una loro caotica e casuale concentrazione determinata solo dal mercato degli affitti privati, vuoi nei centri storici, vuoi nelle periferie.
Questo non toglie che in Italia vi siano a macchia di leopardo, nelle città e nelle periferie, concentrazioni di immigrati che superano il venti-trenta per cento , con forti tensioni sociali e politiche. Un caso per tutti, ma ce ne sono molti simili: Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, ha visto nel 2017 la sconfitta della sinistra dopo sessant’anni di governo locale e dopo una campagna elettorale nella quale ha avuto un ruolo centrale la polemica sulla costruzione di una nuova, grande moschea. Così pure al Lagaccio, il quartiere dei portuali di Genova.
Molti in Italia i casi di rivolta dei residenti contro la concentrazione di immigrati irregolari. Molti i casi a livello individuale, non politico o di grande rilevanza sociale, di separatismo (vedremo più avanti l’esplosiva realtà in Francia di questo termine) di famiglie di immigrati musulmani che impongono la sharia su mogli e figlie in spregio delle leggi italiane.
Non pochi i casi di violenze shariatiche gravi, sempre su donne, inclusi alcuni assassinii con motivazioni shariatiche come quelli di Hina Saleem e Saman Abbas. Il ventisette per cento dei femminicidi compiuti in Italia nel 2021 vedono come responsabile un immigrato. E non mancano i tentati stupri di gruppo da parte di giovani immigrati islamici come quello del capodanno 2022 in piazza Duomo a Milano.
A uno sguardo d’insieme – non esistono ancora analisi serie in Italia – siamo ancora nella fase in cui la mancata integrazione delle prime, ma soprattutto delle seconde generazioni si esprime in comportamenti criminali, non ancora di corale rivolta politico sociale. Deviazioni criminali molto preoccupanti che in genere si esprimono non tanto individualmente ma per bande. Ancora più inquietanti i dati dei minori immigrati tra i quattordici e i diciassette anni che sono il nove per cento di tutta la popolazione, ma compiono il sessantacinque per cento degli scippi, il 50,2 per cento dei furti, il 48,1 per cento delle rapine, il 47,7 per cento delle violenze sessuali e il 40,4 per cento delle percosse.
Dunque, fenomeni carsici indiscutibili, ma che ancora sono ben lontani dal livello d’allarme e dall’intensità eversiva delle rivolte delle banlieues francesi. Ma un domani? Tra tre, cinque, dieci anni, quando maturerà una situazione dell’immigrazione regolare uguale a quella francese, è escluso che in Italia si possano replicare? Non credo. Troppi sono i segnali di mancata integrazione degli immigrati regolari, specie musulmani.
Con buona pace dei buonisti che in Italia pensano che concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati abbia un effetto di salvifica integrazione, la rivolta francese dimostra che questa è una cosmica falsità. L’ennesima di una visione irenistica dell’uomo e della cittadinanza di una sinistra crepuscolare. Sono infatti cittadini francesi da una, due, tre generazioni le decine di migliaia di giovani che in questi giorni hanno incendiato e saccheggiato non solo le periferie, ma anche i centri città di tutta la Francia, duecentoventi i comuni con incidenti gravi, muniti di eccellenti app che indicavano dove era in corso il saccheggio del più vicino grande magazzino o negozio di Nike.
Il trenta per cento dei più di tremila arrestati era minorenne, che semplicemente si sentono “altri” e soprattutto contro, di fatto non si sentono parte di una comunità nazionale, di un patto sociale. Sono cittadini francesi ma non si sentono francesi. Odiano la Francia e non solo saccheggiano, ma anche distruggono scuole e edifici pubblici. Sono il prodotto di una decomposizione identitaria e di una deriva comunitaria in atto da decenni in Francia evidenziata già nel 2003 dal poderoso lavoro di inchiesta sociale e sociologica sulla base di migliaia di interviste e analisi sviluppata dalla Commissione Stasi voluta da Jacques Chirac, che tra l’altro sottolineò tra le sue caratteristiche un diffuso antisemitismo di matrice islamica. Un antisemitismo che ha prodotto, soprattutto dopo gli attentati del 2015, una fuga verso Israele di migliaia di ebrei francesi. La rivolta delle banlieues del 2005 confermò in pieno quella analisi.
Questa stessa deriva comunitaria e decomposizione identitaria ha inoltre incubato quel «separatismo» di matrice islamica denunciato da Emmanuel Macron nel suo famoso discorso di Mureaux nell’ottobre del 2020. I cui punti salienti sono:
– L’integrazione e soprattutto l’assimilazione degli immigrati musulmani e dei musulmani con cittadinanza francese è fallita in componenti non marginali a causa del «separatismo islamico» che mira «a costruire una contro società». Infatti, come evidenzia una inchiesta Ifop del 2020, il cinquantasette per cento dei giovani musulmani in Francia «considera la sharia più importante delle leggi della Repubblica».
– Questo fallimento deriva essenzialmente da una crisi dell’Islam da cui è emersa una corrente politica che pretende di sostituire le leggi della Repubblica con quelle della Sharia. I Fratelli Musulmani, i salafiti e i wahabiti hanno promosso e innervato questa corrente con un progetto politico e una ideologia strutturata.
– Per contrastare questo fenomeno che, letteralmente, «incancrenisce la Repubblica» e mette in pericolo il patto sociale e nazionale, vanno attuati nuovi e rigidi strumenti legislativi e amministrativi.
Dunque, in Francia deflagra oggi una miscela esplosiva composta da più componenti: una emarginazione sociale dei giovani immigrati di seconda, terza generazione, un rifiuto di massa di sentirsi parte della comunità nazionale francese, la chiusura in contesti comunitari omogenei, con un proprio linguaggio e propri valori antagonisti al patto sociale e anche, per molti, il riferimento a una legge “altra”, la sharia, che è quella dei padri, delle proprie radici, che deve regolare i rapporti sociali, familiari e con le donne in senso opposto a quello dei francesi, della Repubblica.
Un separatismo che conferma la previsione del cardinale Giacomo Biffi che fece scandalo nel 2000 nel pronunciare queste parole che si sono rivelate profetiche: «Gli islamici – nella stragrande maggioranza, con qualche eccezione- vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità” individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più preziosa, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare sostanzialmente come loro. Hanno (…) un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (sino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli Stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo riguardo».
Dunque, non la sostituzione etnica è il vero problema, non il Grand rémplacement, che più del sessanta per cento dei francesi è convinto sia in atto, ma il rapporto irrisolto tra Islam e modernità e quello ancora più confuso e incerto tra gli Stati europei e il radicarsi dell’Islam sui loro territori e nelle loro comunità.
Peraltro, va detto che l’innesco che fa esplodere questa miscela sociale, identitaria e culturale, in Francia nel 2005 come oggi, non a caso è la violenza della polizia: il poliziotto, il gendarme incarna il volto dello Stato, più vicino, più presente. Ed è una polizia, quella francese, con un patrimonio storico di violenza e di durezza che non ha pari in Europa. L’opposto della polizia di prossimità, attrezzata e formata non alla mediazione sociale, ma al conflitto. Una polizia peraltro apprezzata nel suo ruolo violento da una massiccia minoranza silenziosa di francesi che si sentono minacciati. Non è un caso che la sottoscrizione a favore del poliziotto che ha ucciso a freddo e senza alcuna giustificazione il giovane Nahel, immigrato di terza generazione, abbia ricevuto otto volte più fondi della raccolta fondi a favore della madre di Nahel, più di un milione e mezzo di euro.
Questo il rebus francese oggi. La crisi di un paese che esplode nella violenza provocata da un fallimento totale dell’integrazione o della assimilazione dei suoi milioni e milioni di immigrati e dei loro figli. Una crisi apparentemente insolubile. Da destra come da sinistra, da Chirac, da Nicolas Sarkozy, come da François Hollande e oggi da Emmanuel Macron.
La cancellazione delle identità religiose e nazionali. La rivolta dei francesi, che si sentono algerini e tunisini, è il fallimento del modello assimilazionista. Benedetta Frucci su Il Riformista il 4 Luglio 2023
Da giorni la Francia brucia. La prima risposta non può che essere repressiva e ferma, perché garantire la sicurezza è uno dei compiti primari dello Stato. E Macron non può che essere applaudito per questo. Occorre però anche interrogarsi sulle cause della rivolta.
Il che non vuol dire giustificare o elaborare balzane teorie colpevoliste, ispirate dalla cancel culture americana e dal movimento Black Lives Matters, che vorrebbero vedere i francesi di oggi processati per il colonialismo dei nonni, come sembra suggerire l’estrema sinistra di Melenchon. Nè lasciare spazio d’altro canto all’opposto populismo di Zemmour e Le Pen.
Non è facile trovare una risposta alle cause della violenza che sta sconvolgendo il Paese:
certo è che i rivoltosi sono ragazzi giovani, talvolta giovanissimi. Non parliamo solo di seconde generazioni di immigrati, ma di terze. Francesi, sulla carta, a tutti gli effetti. Francesi che si sentono algerini, tunisini, molto più dei loro nonni e genitori. Che magari scelgono di indossare abaya e velo, contrariamente a ciò che vorrebbero i loro stessi genitori.
E allora un possibile colpevole, più che nel multiculturalismo, può forse essere individuato nel modello assimilazionista. La società francese, ha detto Manuel Valls, già primo ministro del governo Hollande, ha perso i suoi punti di riferimento. Sono crollate la Chiesa, il partito comunista, i sindacati. E l’Islam radicale ha dilagato. Nella forma dell’estremismo, e le aggressioni con movente religioso delle cronache francesi, gli attacchi antisemiti e anticristiani, ne sono un esempio, ma anche in un’ottica puramente identitaria.
Eh già, perché il grande fallimento dell’assimilazionismo e in generale delle nostre società sta tutto nella pretesa che l’uomo possa vivere senza la ricerca delle proprie radici, che la religione possa essere sostituita dal mercato o dallo Stato. Non è un caso se ad essere colpite sono state proprio le istituzioni.
Il punto è che le identità non si possono cancellare con un colpo di spugna. Nel tentativo di farlo, si apre semmai la strada al radicalismo.
Quelli che commettono violenze, non fraintendiamoci, sono delinquenti. E sicuramente il tema economico fomenta la rabbia: i loro nonni avevano speranze che i giovani non possono più coltivare. L’ascensore sociale si è rotto e difficilmente si aggiusterà a breve termine.
Ma al contempo, quella rabbia ci mette davanti al fallimento del modello di cancellazione delle identità religiose e nazionali che certe élite culturali portano avanti da decenni in Occidente.
Recuperare un nuovo umanesimo, che passi dalla visione dell’identità occidentale non come una colpa ma come una ricchezza e poi, dal confronto con le altre culture, appare un’esigenza non più rimandabile.
Integrazione delle identità, non cancellazione. Benedetta Frucci
Estratto dell’articolo di Marina Valensise per “il Messaggero” lunedì 3 luglio 2023.
Cinque giorni di sommosse in Francia testimoniano che l'autorità costituita è in affanno. La polizia prova a limitare i danni, arresta centinaia di adolescenti salvo poi rilasciarli l'indomani. E Patrice Gueniffey, storico della Rivoluzione francese […] non è affatto ottimista.
La sommossa in Francia è un effetto della crisi di autorità?
«Per contenere la violenza il governo avrebbe potuto ricorre alla repressione, il che implica il ricorso all'uso della forza legittima. Ma il presidente Macron scommette sullo sfinimento dei rivoltosi, che intanto hanno fatto shopping nei negozi saccheggiati, facendo incetta di computer, telefonini, abiti firmati. Ma la polizia non interviene, temendo il secondo morto. Arresta più di 700 persone, sapendo che il giorno dopo verranno rimesse in liberà».
[…] «[…] il governo è talmente paralizzato dal timore di un incendio generale che preferisce adottare una strategia di contenimento […] la sensazione di debolezza incoraggia le sommosse a venire […]».
[…] «Non è né una rivoluzione, né una guerra civile, ma lo scontro tra una parte della popolazione non giuridicamente straniera, ma che si sente culturalmente tale nel paese in cui è nata o è venuta a vivere. […] Oggi una parte importante della popolazione che per ragioni etniche religiose o forse sociali non si sente di appartenere al paese in cui vive, detesta la Francia, la cultura, la tradizione, la storia e il modo di vivere francese».
È la prima volta, nella patria dell'universalismo.
«È la prima volta nella storia di Francia che ci troviamo di fronte una minaccia di tale dimensioni. Quarant'anni di politiche di immigrazione permissive hanno importato in Francia, nel cuore dell'Europa, un'altra cultura e un'altra civiltà. Succede anche in altri paesi, ma in Francia più che altrove il fenomeno comporta un attacco interno, con la diffusione della moda woke, e un attacco esterno con l'immigrazione arabo musulmana.
In più la Francia, in balia del pentimento permanente per le sue colpe storiche, incoraggia coloro che la detestano e vogliono distruggerla».
[…] Dunque le sommosse rappresentano il rovescio della politica democratica dell'inclusione e delle pari opportunità?
«Il rovescio o la conseguenza di una concezione falsa e astratta di universalismo. L'universalismo è un modo di illustrare la vocazione universale dell'Occidente, e in particolare il suo dominio politico, culturale e tecnico sul resto del mondo. Ma non ha mai voluto dire che tutte le culture sono uguali.
Ora la negazione dei valori occidentali ha preso piede nel cuore dell'Europa, e ormai l'universalismo si è rovesciato in un principio di pentimento permanente in nome dei nostri crimini e delle nostre colpe. Questo ha portato a una critica dei valori, e al rigetto dei valori universali. Tant'è che non c'è più assimilazione: viviamo tutti nello stesso paese, su uno stesso territorio, ma in mondi separati».
[…] «[…] esiste una popolazione arrivata coi suoi costumi, i suoi valori, che detesta la Francia, anche se ne approfitta grazie alle prestazioni sociali, agli assegni di disoccupazione, alle allocazioni familiari. Ma resta una popolazione che non si sente francese. […]». […] «Siamo di fronte allo scontro tra due culture, due popoli, due civiltà, quella musulmana e la nostra. La linea di demarcazione passa tra persone che coabitano sullo stesso territorio, ma si percepiscono come popoli diversi, come succede in Israele con i palestinesi. […]». […]
La povertà non c’entra. Ecco perché gli immigrati stanno incendiando la Francia. Francesca Salvatore su Inside Over il 5 Luglio 2023
Sono trascorsi otto giorni dallo scoppio delle proteste in Francia a seguito alla morte del giovane Nahel in quel di Nanterre. Dopo giorni di violenze e devastazioni, più di qualcuno era pronto a scommettere sul ritorno alla calma: tuttavia, la morte di un 27enne a Marsiglia, sabato sera, nel pieno dei disordini, rischia di accendere una seconda, immediata, ondata di scontri. Sono numerosi gli analisti e gli studiosi che in questi giorni si sono interrogati sui malesseri della generazione di Nahel e sul fallimento del modello assimilazionista francese, spesso non accontentandosi dei refrain sulla vita nelle banlieue. Annie Fourcaut è docente di storia contemporanea all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne. Concentrando il suo lavoro sulla città contemporanea e l’urbanistica, ha dedicato molti dei suoi saggi proprio alle banlieue come Paris/banlieues Conflits et solidarités, historiographie, anthologie, chronologie, 1788-2006 (Créaphis, 2007, con Emmanuel Bellanger et Mathieu Flonneau) e La banlieue en morceaux. La crise des lotissements défectueux en France entre l’entre-deux-guerres (Créaphis, 2000). In questi giorni, i suoi studi sono stati spesso citati per provare a dare un’interpretazione dei fatti che stanno scuotendo la Francia. Sebbene – come ama ricordare – sia impossibile per uno storico compiere un’analisi a caldo, ha acconsentito a rispondere ad alcune delle nostre domande.
Professoressa, secondo la sua opinione le rivolte di questi giorni sono molto diverse da quelle del 2005. Perché?
Nel 2005 e nel 2007, gli studi sociologici successivi hanno dimostrato che le rivolte corrispondevano alle zone più povere delle periferie in difficoltà, correlate al tasso di disoccupazione e alle famiglie molto numerose. Nel 2023 non c’è questa correlazione. Sono stati colpiti i sobborghi poveri di Sevran, Grigny e Trappes ma anche Nanterre e Montreuil, sobborghi ricchi (Nanterre è un’estensione de La Défense, un quartiere d’affari di livello europeo, e Montreuil è in fase di gentrificazione, abitato da artisti, designer, quasi un arrondissement chic parigino). Nanterre e Motreuil sono stati saccheggiati, così come Hay les roses, un altro sobborgo ricco e solitamente tranquillo. La grande differenza rispetto al 2005 è che sono stati colpiti anche i centri cittadini, mentre nel 2005, nella regione parigina, i rivoltosi non hanno attraversato la tangenziale, né il centro di Marsiglia o quello di Lione. I quartieri residenziali del nord di Marsiglia sono tranquilli perché le rivolte sono negative per il traffico di droga, come lo erano nel 2005. Oggi non c’è più grande differenza tra i centri delle grandi metropoli e le loro periferie povere o benestanti: le rivolte si verificano ovunque. Anche nelle più tranquille città di medie dimensioni: Saint Quentin nell’Aisne, Mons en Bareuil nel Nord, Marommes in Normandia ecc. Per capire la nuova mappa delle rivolte, che ovviamente non è completa perché il movimento non è finito e perché non ho tutte le informazioni, bisogna incrociarla con la mappa della densità dell’immigrazione (Ile de France, Paca, Hauts de France). Le regioni occidentali, dove c’è stata meno immigrazione, sono meno colpite. Le città che hanno subito disordini hanno tutte grandi concentrazioni di edilizia pubblica, e lo stesso vale per il nord-est di Parigi: il 18°, il 19° e il 20° arrondissement (il 19°, che ha il 42% di edilizia pubblica, ha visto una serie di disordini e saccheggi, e lo stesso vale per il 20°); Nanterre ha il 52% di edilizia pubblica. Le case popolari, spesso sotto forma di grandi palazzi a torre e bar, ospitano principalmente gli strati successivi di immigrati anziani i cui membri sono francesi o immigrati recenti. Nanterre è una città algerina, Sarcelles conta 40 o 50 nazionalità provenienti da ogni dove: tamil, curdi, assiro-caldei, turchi, asiatici. I nuclei familiari degli impiegati francesi, ad eccezione dei più poveri, si sono da tempo trasferiti in periferia, dove acquistano le proprie case unifamiliari grazie ai sussidi statali. Un’altra differenza è che nel 2005 nessun partito politico sosteneva i rivoltosi, mentre nel 2023 la France Insoumise giustifica le violenze e le rivolte. L’Assemblea Nazionale ha dato un esempio di disordine totale con le manifestazioni di Nupes, la crisi della democrazia rappresentativa, un tasso di astensione molto alto, i sindaci, che non sono più rispettati: sono eletti con il 10% degli iscritti; i giovani non votano e i rivoltosi arrestati sono minorenni. La maggior parte dei sociologi (non degli storici), dei politici, dei media pubblici, degli artisti, cineasti ecc. parlano tutti di scuse e di pentimento (i poveri giovani immigrati stigmatizzati). Questo era vero negli anni Ottanta e Novanta, ma non corrisponde più alla realtà delle rivolte del 2023, opera di una minoranza giovanile, o addirittura adolescenziale, di origine immigrata, ma francese; fuori dalla scuola, violenta, perfettamente integrata nella società dei consumi (vedi il saccheggio dei negozi di marca), talvolta accompagnata da militanti radicali di estrema sinistra. La sinistra culturale è diffusa nei media, nelle università, nella ricerca (il Cnrs) e nelle radio del servizio pubblico, e crea un’atmosfera di apologia sociologica o decoloniale, che giustifica le rivolte.
Nella sua visione, la povertà non è sufficiente a spiegare certe reazioni. Perché?
Una lunga tradizione di manifestazioni violente in Francia, dall’inizio del XXI secolo, che sfociano in saccheggi, oltre ai black bloc, estremisti violenti (come le Brigate rosse negli anni Settanta in Italia) che vogliono uccidere i poliziotti: la legge sul lavoro sotto Hollande, i gilet gialli, il caos allo Stade de France quando le bande dei ’93 hanno spogliato gli inglesi durante la partita di calcio, la lotta contro i bacini di Sainte Soline, le manifestazioni contro le pensioni, le manifestazioni contro i vaccini sono tutte sfociate in violenze e saccheggi dei negozi del centro della città o sul percorso. Quanto alla polizia: generalmente molto repubblicana, molto disciplinata, anche se una minoranza è razzista. 28mila rifiuti di obbedienza nel 2022: gli scontri tra giovani e polizia in occasione dei controlli stradali sono costanti e sempre violenti (tre poliziotti uccisi a Roubaix durante un controllo stradale, molti poliziotti feriti o trascinati dalle auto). Numerosi commissariati e posti di polizia vengono regolarmente attaccati e bersagliati da colpi. Il 2023 è solo il culmine di un ciclo di violenza che dura da almeno venti anni. Gli attivisti radicali vogliono importare il movimento Black Lives Matter in Francia, anche se i due Paesi hanno storie radicalmente diverse. Rispetto al 2005, le reti di droga si sono radicate e diffuse in tutti i quartieri di edilizia popolare, gestiti dagli spacciatori e dalle loro reti, con armi ovunque, morti e sparatorie regolari tra bande; la droga esisteva nel 2005, ma era meno diffusa, oggi è ovunque, e Marsiglia è l’equivalente di Baltimora nella serie The Wire: la droga ha preso il sopravvento in ogni settore; le scuole hanno dovuto essere chiuse perché gli spacciatori si sparavano nei parchi giochi. Lo stesso accade nella regione di Parigi: Saint Ouen è gestita dagli spacciatori che controllano la città; Nanterre è una città il cui traffici di droga, che è molto presente, è stato ostacolato da un grande programma di rinnovamento urbano che stava per essere completato; è possibile che questo abbia avuto un ruolo nei disordini. Non appena c’è un programma di rinnovamento urbano che disturba le loro abitudini, le reti di spacciatori causano problemi. Saccheggio puramente opportunistico dei negozi delle marche che piacciono ai giovani senza alcun messaggio politico: disordini.
Secondo Lei, lo Stato ha fallito nelle banlieue?
Dal 2003 l’Anru ha investito 40 miliardi nel rinnovamento urbano, demolendo palazzi e torri, costruendo piccoli condomini con case di proprietà, per creare un mix sociale, quindi non si può dire che lo Stato abbia abbandonato questi quartieri. Sono stati fatti molti sforzi anche nelle scuole e nel sistema educativo: raddoppio delle classi, inizio della scuola a 2 o a 3 anni (si veda quanto proposto da Macron per Marsiglia nel suo piano Marseille en grand). La Francia è il Paese dell’Ocse con il più alto livello di trasferimenti sociali, in particolare per le famiglie di immigrati che ricevono l’Rsa non appena hanno lo status, gli assegni familiari, l’istruzione gratuita, le cure mediche gratuite e il sostegno dei fondi per gli assegni familiari. Inoltre, l’approccio “whatever it takes” durante la crisi del Covid, ha sostenuto tutti. Il problema dell’immigrazione clandestina permane: nella regione 93, ci sono presumibilmente 3 o 400mila immigrati clandestini che non hanno documenti ma vivono nella zona, e che sono gradualemnte regolarizzati e trasferiti in case popolari. Molti appartamenti sono sovraffollati perchè occupati da più famiglie, tra cui anche immigrati clandestini in attesa di regolarizzazione.
Prendiamo il caso di Nanterre, dove viveva il giovane Nahel. Quali sono i problemi di quest’area?
Nanterre è una città ricca, popolata da algerini. Il sindaco Patrick Jarry, ex-Pc, è stato rieletto con il sostegno delle lobby musulmane. Aveva promesso un terreno a basso costo per una seconda moschea, ma il prefetto ne ha vietato la vendita. C’è molta droga, il piano di rinnovamento urbano ostacola gli spacciatori, e c’è molta pressione sui terreni nell’estensione de La Défense.
Cosa sta fallendo, dunque? Il macronismo o l’assimilazionismo?
Macron non ha mai fatto una dichiarazione chiara su questi temi: a volte parla di Repubblica, altre volte è più multiculturalista e comunitario. Fondamentalmente, è un liberale puro che pensa che se si riduce la disoccupazione e tutti i giovani hanno un lavoro, tutti i problemi saranno risolti. Macron ha avuto un grande successo economico, con un’enorme riduzione della disoccupazione, la creazione di nuove imprese, la liberalizzazione del mercato del lavoro e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma le rivolte di questi giorni non sono legate a cause economiche, non sono affatto rivolte di povertà o miseria, il problema è la mancanza di rispetto per le istituzioni dello Stato, la polizia, la giustizia, il senso di impunità di questi giovani è assoluto.
Che ruolo ha avuto l’incapacità di Parigi di fare pace con il suo passato coloniale nei disordini di questi anni?
Guardi il Musée de l’histoire de l’immigration a Porte Dorée. Un bel museo sulla storia dell’immigrazione, il cui ex presidente è l’attuale ministro dell’Istruzione Pap N’ Diaye: la dimensione coloniale è prese in considerazione. L’odio per la Francia e il risentimento sono alimentati dall’Algeria, i cui leader conoscono solo quello che Macron ha giustamente definito “la rente mémorielle“. Stessa cosa dicasi per il Mali.
Perché questa generazione non si è “innamorata” della Francia?
Non hanno assolutamente nostalgia del loro Paese d’origine, che non conoscono e nel quale non vorrebbero andare a vivere a nessun costo; inoltre sono francesi, tranne gli immigrati clandestini senza documenti. Per punire i loro figli difficili, i genitori nordafricani mandano i figli in “bled“, per insegnare loro a vivere in condizioni complesse, ma è una punizione e loro hanno una sola idea: tornare in Francia. L’orgoglio in Algeria è totalmente immaginato e sfruttato dalle autorità algerine. Le famiglie vanno in vacanza nel Magreb, ma tornano sempre indietro. La grande ossessione dell’Algeria è ottenere il maggior numero possibile di visti per la Francia.
Quale ricetta ritiene che la République debba seguire per prevenire la violenza e il separatismo, facendo in modo che questi giovani si “innamorino” del sistema francese?
Cosa c’è di nuovo in quello che stiamo vivendo nel 2023? Attacchi mirati ai singoli individui, in particolare ai sindaci che impediscono la tratta, saccheggi, depoliticizzazione, estensione dei piccoli centri, mancanza di correlazione con la variabile della disoccupazione, scollamento trai i giovani e i loro genitori, sensazione di impunità e di onnipotenza, anche dei giovanissimi. E sono unicamente maschi quelli coinvolti nelle rivolte violente, sebbene donne e ragazze poi traggono profitto dai saccheggi. Come storico, sono incapace di predire il futuro.
FRANCESCA SALVATORE
Estratto dell’articolo di Cesare Martinetti per “la Stampa” lunedì 3 luglio 2023.
Pascal Bruckner, filosofo e polemista, ha sulla rivolta francese uno sguardo crudo e non accomodante. […]
Monsieur Bruckner, cos'è cambiato dalla rivolta delle banlieue del 2005?
«Il cambiamento più grande è che la grande maggioranza dell'opinione pubblica è ostile ai manifestanti».
Si vede con la colletta a favore del poliziotto che ha sparato. Perché?
«Le violenze e i saccheggi intollerabili. Dal 2005 lo Stato ha speso miliardi di euro nelle banlieue e si raccontano menzogne colossali. Vengono assaltati persino gli asili nido, le scuole, le mediateche, gli ospedali, i servizi sociali, come se si volessero distruggere gli aiuti arrivati nei quartieri».
Non è certo la maggioranza della popolazione che assalta e saccheggia. Chi manovra tutto questo?
«Ci sono bande molto organizzate, armate e finanziate da narcotrafficanti che alimentano la narrazione del razzismo e della segregazione per tenere il potere nei quartieri, condominio per condominio».
Chi sono i violenti?
«Vandali, piccoli ladri e i grandi svaligiatori, che hanno assaltato metodicamente i centri commerciali rubando apparecchi elettronici, computer, telefoni, ma anche abiti. Poi ci sono le gang criminali che approfittano della situazione per attaccare commissariati di polizia e municipi. E poi c'è un terzo gruppo: i terroristi ecologici di estrema sinistra alleati con i ragazzi di banlieue che attaccano i simboli del potere, come le caserme dei pompieri o la Gendarmerie».
E questo succede da molti anni nei quartieri.
«La cosa preoccupante è che la Francia è un Paese veramente malato perché tutti i conflitti sociali diventano rivolte. È un Paese che ha da sempre la tradizione della violenza, […] dalle guerre di religione, alle "dragonate" nel regno di Luigi XV, alla Rivoluzione, al 1870… È un Paese fondato sulla violenza. Oggi però penso che sia dovuto alla mancanza di autorità dello Stato».
Ma come, è un sistema presidenziale con un presidente accusato di autoritarismo.
«Viviamo da cinquant'anni le dimissioni dello Stato. Dopo De Gaulle, tutti i poteri pubblici, di destra e di sinistra hanno distolto lo sguardo dalle banlieue, dall'islam radicale, dall'immigrazione e adesso paghiamo il conto di questo abbandono. Macron ha ereditato una situazione deteriorata da molto tempo».
Quindi il modello francese dell'integrazione è fallito?
«[…] si parla solo di banlieue ma c'è tutta una borghesia di origine magrebina o africana che si è affermata molto bene. […] Le banlieue sono soprattutto un problema sociale di relegazione. […]».
Ma cos'ha fatto Macron per i giovani delle banlieue?
«Una scommessa non assurda e cioè avviare l'integrazione attraverso l'economia promuovendo Uber e piccoli lavori che hanno funzionato. Il problema è che il traffico di droga permette un'ascensione sociale molto più rapida. Le sentinelle o gli spacciatori guadagnano in un giorno come una chauffeur in un mese. Il narcotraffico diffuso sta conquistando i quartieri in tutta l'Europa, Belgio, Olanda…».
C'è un Paese europeo che secondo lei ha saputo affrontare meglio l'immigrazione?
«La Germania è meglio come sempre. E poi ha un modello sociale di concertazione che è la sua forza economica: sindacati molto potenti che discutono e fanno sciopero solo eccezionalmente. In Francia per prima cosa si fa sciopero, si manifesta, si spacca tutto e poi si dialoga. […]».
Chi è stato il presidente migliore?
«Chirac perché non ha fatto niente. Era molto popolare, mangiava, stringeva le mani, sorrideva. Macron soffre di un deficit di empatia, è molto distante, è un banchiere che pensa razionalmente, ma le passioni francesi sono totalmente irrazionali. […]».
[…] «[…] il suo bilancio è molto negativo, io ho votato per lui e me ne sono pentito. […] Macron […] è molto bravo in economia, infatti la Francia va molto bene[…]».
In questa situazione si avvantaggia molto Marine Le Pen. Lei pensa che possa vincere nel 2027?
«Sì, può vincere, non ha nemmeno bisogno di fare campagna. Sarebbe una soluzione cattiva per la Francia, ha pochissima competenza in economia e in diplomazia e poi è molto vicina a Putin, che in questo momento è imbarazzante. L'estrema sinistra di Mélenchon è insurrezionale[…] ». […]
Estratto dell’articolo di Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” martedì 4 luglio 2023.
Secondo gli ultimi dati ufficiali dell’Insee, l’Istat francese, il 10,3% delle persone che vivono in Francia sono da considerare “immigrati”, ovvero “nati da stranieri in un Paese straniero”.
Si tratta di 7 milioni di persone. Tale dato diventa enormemente più alto se si considerano i francesi figli e nipoti di “immigrati”, l’Insee ritiene che almeno «un terzo della popolazione francese ha un legame con l’immigrazione da tre generazioni». In questo caso parliamo di oltre 22 milioni di persone.
Questi numeri tuttavia risalgono al 2021 e di sicuro non rappresentano un quadro completo della della struttura demografica del Paese. Andrebbero aggiunti quantomeno i dati dei rifugiati le cui domande di asilo sono state accettate lo scorso anno, 56mila per l’esattezza, per un totale di 547mila registrati nel 2022.
Lo scorso anno, per il quinto consecutivo, le maggiori richieste di asilo sono arrivate da cittadini afghani, seguono bengalesi e turchi. A questi vanno aggiunti i rifugiati in attesa e gli immigrati clandestini: un numero difficile da calcolare, ma secondo alcune stime si tratterebbe di qualcosa compreso tra i 300 e le 400mila individui, perlopiù nordafricani. […]
[…] La maggior parte di loro vive nelle grosse città, in particolare nelle periferie di esse, ed è proprio qui che nel 2020 il Dgsi, l’intelligence interna francese, aveva individuato almeno 150 banlieue in mano all’islam radicale. Il risultato più eclatante di questa invasione è infatti che la Francia non sta cambiando solo i suoi connotati demografici ma anche quelli religiosi e culturali.
Sempre l’Insee attesta che in Francia ci sono più musulmani che in qualsiasi altro Paese d’Europa, si parla di oltre 6 milioni di persone, il 9% dell’intera popolazione. Ed è un dato assolutamente parziale. Secondo un vecchio e noto calcolo in Francia nel 2030 ci saranno più musulmani che cristiani, ma il sorpasso è già di fatto realtà, ufficialmente registrato dallo stesso istituto di statistica secondo il quale il 5,8% della popolazione francese si professa musulmana praticante, contro il 4,3% dei cattolici che vanno regolarmente in chiesa.
Sebbene con il 29% la religione cattolica rimanga la prima religione dichiarata, questa cifra è in costante calo, mentre quella dei musulmani è in costante crescita. […] Il 91% delle persone cresciute da genitori musulmani si considera musulmano, mentre solo il 67% delle persone cresciute da genitori cattolici si dichiara cattolico.
[…] Nel 2019 il 21.53% di tutti i nuovi nati in Francia avevano un nome arabo. Secondo uno studio dell’Istituto nazionale per gli studi demografici il 97% dei discendenti di un solo genitore immigrato dichiara di sentirsi francese, che di per sé sembra un dato sorprendente se rapportato agli altri che abbiamo riportato, ma tale percentuale cala all’89% quando si parla di discendenti di due genitori immigrati, al 76% quando l’immigrato è arrivato da bambino e al 52% quando è arrivato da adulto.
L’85% degli immigrati musulmani di età compresa tra i 17 ei 25 anni afferma che la religione gioca un ruolo importante nella loro vita.
[…] Da un sondaggio Ifop di un paio di anni fa è emerso che il 45% dei musulmani sotto i 25 anni pensa che l’islam sia incompatibile con i valori della società francese, mentre secondo 74% le convinzioni religiose vengono prima dei valori della Repubblica. Nessuna sorpresa dunque, quello che sta accadendo in Francia era già scritto nei freddi dati statistici ufficiali.
Numeri che peraltro giustificano quelli di un’altra ricerca, stavolta dell’Ipsos, secondo cui il 66% dei francesi è convinto che gli immigrati non hanno nessuna intenzione di integrarsi, mentre il 64% “non si sente più a casa sua”. Sarà anche per questo che lo scorso anno il ministero per l'Europa e gli Affari Esteri ha registrato oltre 2,5 milioni di expat, una cifra record perla Francia.
Estratto dell'articolo di Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” martedì 4 luglio 2023.
Brigadiere Florian M., 38 anni, sposato, un figlio, esperienza da militare in Afghanistan poi dieci anni impeccabili nella polizia, decorato con due medaglie di bronzo, stimato dai colleghi che lo definiscono «tutto fuorché una testa calda», stipendio di circa duemila euro al mese.
Se la sua carriera fosse proseguita senza strappi, avrebbe dovuto lavorare 41 anni mettendo da parte tutta la busta paga senza spendere un centesimo, per arrivare a un milione. Invece martedì 27 giugno, a Nanterre, alle 8 e 19 Florian M. ha sparato un colpo a bruciapelo: la pallottola ha colpito il braccio sinistro e poi il torace di Nahel Merzouk, 17enne francese di origine algerina fermato perché stava facendo un giro senza patente (come altre volte in passato). [...]
[...] Il poliziotto Florian M., in carcere con l’accusa di omicidio volontario, ha chiesto perdono alla famiglia di Nahel. Ma oggi, una settimana dopo, Florian M. è praticamente milionario.
Oltre ai municipi e alle biblioteche dati alle fiamme, oltre ai negozi saccheggiati e ai sindaci attaccati, se c’è un’altra cosa capace di mostrare quanto odio e quanta divisione allignino nella società francese, è il successo di massa della colletta «in sostegno della famiglia del poliziotto di Nanterre, Florian M., che ha fatto il suo lavoro e che oggi la paga cara».
Florian M. non ha chiesto nulla, ma è già diventato un eroe per almeno cinquantamila francesi, che si sono presi la briga di andare sulla piattaforma online GoFundMe e fare un dono in suo favore.
L’obiettivo di partenza era molto più contenuto, raccogliere 50 mila euro per aiutare moglie e figlio compensando la perdita dello stipendio in attesa del processo e della sentenza. Ma ieri sera alle 19 il totale era già un milione 151 mila 160 euro, e la cifra aumenta ogni minuto.
Il promotore della raccolta è Jean Messiha, personaggio noto in Francia per la capacità mediatica e le convinzioni di estrema destra. Cristiano copto nato al Cairo, figlio di diplomatico, naturalizzato francese a vent’anni, Messiha milita a lungo per Marine Le Pen ma poi la giudica troppo morbida e alle presidenziali 2022 fa il portavoce del più intransigente Eric Zemmour.
[...] La morte di Nahel non giustifica certo le devastazioni di questi giorni, ovviamente, sono cose che non c’entrano nulla. Ma in risposta a queste devastazioni, oltre cinquantamila francesi preferiscono dare soldi a chi lo ha ucciso. In tante città, da Lione a Lorient, da Angers a Chambéry, sono comparse ronde di picchiatori di estrema destra con mazze da baseball e spranghe pronti a farsi giustizia da soli [...]
Estratto dell'articolo di Danilo Ceccarelli per “la Stampa” martedì 4 luglio 2023.
«La Francia ai francesi!», «Siamo a casa nostra», «Bleu, blanc rouges!». Pochi minuti per sciorinare i grandi classici del repertorio dell'estrema destra prima dell'arrivo della polizia, che domenica sera ha sloggiato dai gradini del municipio di Lione un centinaio di giovani a colpi di lacrimogeni.
Militanti del movimento Les Remparts, un gruppetto locale nato dalle ceneri del ben più noto Génération Identitaire, sciolto nel 2021 dal governo, scesi in piazza mentre in Francia continuano, seppur con minore intensità, le violenze scoppiate dopo la morte di Nahel, il 17enne ucciso durante un controllo stradale a Nanterre, fuori Parigi. Adesso ci sono anche loro la sera nelle strade francesi.
Proprio mentre la tensione comincia a calare dopo giorni di saccheggi, roghi e incendi, gruppetti di giovani si riuniscono in ronde per pattugliare le città per difenderle dalla racaille delle banlieue. La teppaglia, a loro dire, figlia di quell'immigrazione tanto odiata che ora, ai loro occhi, mette in pericolo il Paese uscendo dalle periferie. Così, queste piccole formazioni di estrema destra si organizzano per passare all'azione. C'è chi parla di milizie, qualcuno di ronde: nei video amatoriali che circolano sui social si vedono sfilare compatti uno affianco all'altro, con cappucci in testa e scaldacollo alzati fino a coprire il viso, mentre vanno a caccia dei casseurs cantando cori razzisti.
Al momento si tratta di incursioni sporadiche, ma sempre molto violente. Come quella ad Angers, dove la procura ha aperto un'inchiesta dopo che alcuni membri dell'Alvarium, altro gruppo di stampo nazi-fascista, venerdì hanno aggredito con mazze da baseball dei manifestanti di sinistra che passavano davanti al loro locale con un corteo organizzato contro le violenze della polizia. Scene simili a Chambéry, mentre qualche giorno fa a Lorient, secondo quanto riporta il quotidiano locale Le Télégramme, una trentina di persone a volto coperto ha catturato dei facinorosi legandogli i polsi con fascette di plastica prima di consegnarli alla polizia.
Il risultato è uno scontro tra due France contrapposte: da una parte quella che si definisce de souche, ovvero bianchi che possiedono la nazionalità da generazioni, dall'altra i figli o i nipoti di immigrati. Tutti francesi, a dimostrazione dell'ennesima frattura che spacca il Paese.
Come quella che si è aperta in queste ultime ore sul caso della colletta lanciata on line per aiutare la famiglia del poliziotto sospettato di aver ucciso Nahel, al momento indagato e in stato di arresto.
(...)
«È la democrazia stessa ad essere attaccata», ha detto Jeanbrun, mentre domani mattina il presidente Macron riceverà all'Eliseo i sindaci delle 220 città che hanno subito le violenze degli ultimi giorni. Un modo per voltare pagina, dimostrato anche dalla volontà di aprire con le parti politiche un dialogo, al momento complicato: all'incontro avvenuto ieri mattina su invito della premier Borne, Marine Le Pen non si è presentata mentre la rappresentante della sinistra radicale della France Insoumise, Mathilde Panot, ha lasciato in anticipo l'incontro.
E mentre la Francia riprende fiato, comincia la conta dei danni. Più di 200 negozi saccheggiati, 300 banche distrutte, 250 tabaccai attaccati, senza contare il mobilio urbano incendiato o distrutto: una guerriglia da un miliardo di euro secondo Geoffroy Roux de Bezieux, presidente del Medef, l'equivalente della Confindustria d'Oltralpe. Solamente nella regione di Parigi, l'Île-de-France, i danni per i trasporti pubblici ammontano a 20 milioni. Le stime, però, sono ancora provvisorie, come la calma che sta lentamente tornando in tutto il Paese.
Il vero volto dei quartieri francesi in rivolta: cosa sono davvero le banlieue. Storia di Federico Giuliani lunedì 3 luglio 2023 su Il Giornale.
Può essere tradotta in italiano come "quartiere" o "sobborgo". Il più delle volte viene però lasciata nella sua forma originale, sottolineando come questa parola sia ormai entrata nel vocabolario mondiale. "Banlieue" è un termine francese oggi utilizzato per indicare i sobborghi economicamente svantaggiati della Francia, quelli caratterizzati da progetti di alloggi a basso reddito e che ospitano grandi popolazioni di immigrati. Negli ultimi giorni, le cronache giornalistiche si sono concentrate sulle Banlieue in quanto centri nevralgici dei violenti scontri che hanno travolto l'intero Paese. Scontri, per la cronaca, scaturiti in seguito alla morte di Nahel, un 17enne ucciso il 27 giugno da un agente di polizia nel sobborgo occidentale di Parigi, a Nanterre, durante un controllo stradale di routine che il ragazzo avrebbe cercato di evitare.
Cosa significa Banlieue
Alla lettera Banlieue significa "periferia", anche se nel lessico comune utilizziamo questa parola in riferimento ai sobborghi, svantaggiati e a basso reddito, che circondano le più grandi città francesi. In teoria, le Banlieue sono divise in entità amministrative autonome e non fanno parte della città vera e propria. È a partire all'incirca dagli anni '70 che il termine ha perso il suo connotato neutrale-amministrativo per acquistarne uno prettamente socio-economico, ad indicare le località più povere e problematiche della Francia. In generale, il termine dovrebbe desiegnare la zona urbanizzata situata intorno al centro di una città. Giusto per fare un esempio, nell'area metropolitana di Parigi, il ricco sobborgo di Neuilly-sur-Seine è tecnicamente una Banlieue, così come il povero sobborgo di La Courneuve. Il primo rientra tra le cosiddette Banlieues aisée, i sobborghi confortevoli, mentre il secondo tra le Banlieues défavorisée, i sobborghi svantaggiati.
Cosa sono le Banlieues di Parigi
A Parigi, ad una quindicina di chilometri dalla Tour Eiffel e dagli Champs-Elysses, sorgono alcune delle Banlieue più problematiche della Francia. I sobborghi della capitale sono vere e proprie polveriere pronte ad esplodere da un momento all'altro, come abbiamo constatato in questi giorni. Giusto per fare un esempio, Grigny, che si trova a sud di Parigi, è il sobborgo più povero della Francia con un tasso di povertà del 45%, ovvero tre volte più alto rispetto alla media nazionale. Queste aree, un tempo paludi popolate da banditi fuorilegge che lavoravano fuori dalle mura delle città, ospitano milioni di persone, molte delle quali provenienti dal Nord Africa e dalle antiche colonie francesi, stabilitesi in tali sobborghi al termine della Seconda Guerra Mondiale. Inizialmente le Banlieue erano luoghi adibiti per ospitare le famiglie della classe meno abbiente, dei pendolari francesi chiamati a spostarsi dal centro alla periferia. A partire dagli anni '70, le Banlieue hanno iniziato ad attrarre problemi quali disoccupazione e tensioni razziali, aggravati dallo stabilimento in loco di immigrati provenienti dalle ex colonie francesi, poveri e in cerca di un futuro. I vari governi francesi non sono sempre riusciti a finanziare a dovere aree del genere, ritrovandosi in seno aree ad alto rischio a pochi passi dai principali centri del potere.
In quale parte della città si trovano i quartieri "Banlieues"
Le Banlieue costeggiano le grandi città come se fossero delle cinture. La regione di Parigi può essere suddivisa in diverse zone. Nel nord-ovest e nel nord-est, molte aree sono ex zone operaie e industriali, come nel caso di Seine-Saint-Denis e Val-d'Oise. Ad ovest, la popolazione è invece tendenzialmente di classe superiore. In generale, nei pressi della capitale troviamo molte comunità considerate "sensibili" o insicure, come Bagneux, Malakoff, Massy, Cachan e Les Ulis. Anche le Banlieue di Lione e Marsiglia hanno gradualmente acquisito una reputazione negativa.
Quanti abitanti ci vivono
È difficile fare una stima esatta, visto che, come detto, praticamente ogni città francese di dimensioni significative ne ha una. La Banlieue parigina – che considera tutti i sobborghi, sia ricchi che poveri - è tuttavia l'archetipo raffigurato in film popolari e serie televisive. Ci vivono circa 10 milioni di persone, rispetto ai circa due milioni della stessa Parigi. I quartieri più poveri - ora etichettati come "quartiers prioritaires" - ospitano più di cinque milioni di persone. Molti sono immigrati o francesi di terza o quarta generazione. Circa il 57% dei bambini che vivono in queste comunità vive in condizioni di povertà, contro il 21% dell'intera popolazione francese. Secondo l'Institut Montaigne, un think tank, i residenti di questi quartieri hanno tre volte più probabilità di essere disoccupati.
Cosa sta succedendo nelle Banlieues in Francia
Come ha ben sintetizzato la Bbc, quando i poveri sobborghi francesi attirano l'attenzione dei media, di solito è perché sono in fiamme. È quanto sta accadendo dallo scorso 27 giugno, giorno dell'uccisione del giovane Nahel da parte di un agente di polizia. Da quel momento in poi, nelle principali città della Francia è esplosa la rabbia cieca degli abitanti delle Banlieue. In cinque notti sono state arrestate 3.300 persone e date alle fiamme 4.500 automobili e 800 edifici, tra cui municipi, scuole e commissariati. Le aree più critiche coincidono con Lione, Grenoble e Marsiglia, ma neppure la capitale è stata risparmiata dalla violenza dei dimostranti, spesso giovani e adolescenti.
Etnie, religione, ricchezza; la Francia brucia di un odio che ha ragioni diverse. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 4 Luglio 2023
Una popolazione sempre più di origine africana, musulmana, povera. E la cosa ai francesi da generazioni piace sempre meno
Quando le povere periferie francesi attirano l’attenzione dei media, di solito è perché sono in fiamme. È questo un velenoso modo di dire nordeuropeo, che purtroppo rende sin troppo bene l’idea di ciò che sta accadendo in Francia negli ultimi giorni. Una guerriglia quotidiana a bassa intensità che conosce notorietà durante quei picchi di violenza che puntualmente si verificano non appena ci scappa il morto. L’ultima di queste rivolte è stata innescata dall’uccisione di Nahel Merzouk, diciassettenne di origini algerine che non ha rispettato l’ordine di fermare la sua auto durante un posto di blocco a Nanterre, vicino Parigi. La polizia spara, il ragazzo muore, gli abitanti delle banlieues - le periferie misere e dimenticate - trovano un pretesto per devastare la capitale e molti altri centri francesi, verso i cui abitanti ricchi e agiati covano un odio atavico. Ma da dove deriva tutto questo odio? C’è chi dice dal razzismo e dalla ghettizzazione propria dei francesi, essendo gli abitanti delle banlieues per lo più immigrati di seconda e terza generazione, neri e/o musulmani. Ed ecco allora i semi dell’intolleranza, in questo caso resa ancor più evidente dal fatto che i francesi abbiano fatto una gara di solidarietà per Florian M., il poliziotto responsabile dell’omicidio del giovane algerino, riuscendo a donare alla famiglia oltre 1 milione di euro; mentre i familiari di Nahel Mezouk hanno raccolto meno di un quarto di quel denaro. Anche se varrebbe la pena sottolineare come, da un lato, i francesi sono esasperati dalle manifestazioni di protesta violente, indipendentemente dalle loro ragioni (vedi i Gilet gialli), e vedono nella solidarietà a un poliziotto una maniera per condannare le violenze di piazza; dall’altro lato, è naturale che la colletta per la famiglia di Mezouk provenga anzitutto da chi si sente a loro più vicino, e dunque da chi ha minori disponibilità economiche rispetto ai ricchi parigini, indifferenti agli argomenti della piazza e attenti solo al proprio cortile di casa. Curioso, in tutto ciò, che il promotore della raccolta di denaro per il poliziotto sia stato Jean Messiha, personaggio ben noto in Francia per le inclinazioni di estrema destra eppure di origini egiziane: è un cristiano copto nato al Cairo, naturalizzato francese a vent’anni.
Messiha ha militato prima per Marine Le Pen per poi avvicinarsi alle presidenziali 2022 alle idee ancor più intransigenti di Eric Zemmour, di cui è stato il portavoce. Dunque, se è vero che l’umiliazione del razzismo è una molla sufficiente per accendere la miccia, il fuoco che divampa da anni in Francia si alimenta anche di molti altri fattori: anzitutto lo scontro religioso, reso manifesto dalle ondate di attentati che si sono concentrati in Francia soprattutto tra il 2014 e il 2016, all’epoca dell’ISIS, che hanno reso evidente come per molti seguaci di Allah la legge di Dio sia superiore (o addirittura alternativa) a quella dello Stato francese, e che uccidere gli «infedeli» è una priorità. Della serie, noi contro loro. La forza del portato generazionale di quella rabbia ha lasciato dietro sé un’indignazione diffusa, che ha diviso la società francese ancor più nettamente. C’è, però, chi sostiene che tutto dipenda semmai dalla violenza in sé, risultato della povertà e della frustrazione di cui sono vittime gli immigrati, relegati in ghetti senza assistenza sociale e senza investimenti che permettano loro di uscire dalla condizione di «invisibili». Anche se negli ultimi vent’anni sono stati spesi più di 60 miliardi di euro per ristrutturare i blocchi abitativi e costruire nuove case, oltre a migliorare le strutture e le infrastrutture nelle banlieues, collegando ad esempio le periferie al centro, lo sforzo dello Stato non sembra essere bastato pressoché a niente. Forse perché i numeri restano soltanto numeri, mentre la società è viva e in continua evoluzione. C’è chi dice ancora che il problema sia in realtà storico, e che vada fatto risalire direttamente alle relazioni bilaterali tra la Francia e l’Algeria (su 7 milioni di immigrati, 4 sono di origine algerina), segnate da una storica dominazione coloniale di Parigi, che si concluse nel peggiore dei modi: con una guerra sanguinosa e traumatica durata dal 1954 al 1962, dove la Francia conobbe il proprio Vietnam, arrivando a perdere quasi 25 mila soldati per poi cedere all’indipendenza dei pieds-noirs. Una lunga scia di sangue e soprusi che gli algerini non hanno dimenticato: al punto che, allo scoppio dei disordini di giugno, il governo dell’Algeria si è sentito in dovere di scrivere al Governo francese comunicazioni in cui intimava a Parigi: «Dovete prendervi cura dei nostri cittadini».
Come a dire che gli algerini in Francia restano algerini e non francesi. Un fatto quantomeno curioso, che tuttavia dice molto dell’approccio nordafricano al problema. Alcuni, infine, ritengono che i disordini siano esclusivamente un problema di gestione dell’ordine pubblico e di mancanza di piani adeguati per amministrare i ghetti: «Sono solo bande di piccoli criminali che usano la rabbia per una tragica morte come scusa per seminare il caos» accusano poliziotti e operatori del settore, abbandonati a se stessi non meno degli immigrati. Vero è che i quartieri più poveri di Francia - ribattezzati amministrativamente «quartieri prioritari» - ospitano complessivamente più di cinque milioni di persone, dunque la maggior parte delle fasce più sfortunate del Paese, di cui la stragrande maggioranza sono appunto nuovi immigrati o francesi da tre, quattro generazioni. In queste polveriere, la disoccupazione è doppia (quando non tripla) rispetto al resto del Paese, e le statistiche indicano un 57% del tasso medio di povertà contro il 21% degli altri centri urbani. A queste latitudini, né la scuola pubblica né il lavoro regolare sono concepiti ormai dai giovani – i protagonisti delle proteste di questi giorni sono al 95% sotto i trent’anni, di età compresa per lo più tra i 16 e i 25 – come un modo per migliorare la propria vita, mentre il traffico di droga e l’affiliazione alle frange più estreme dell’Islam sono lo sbocco più veloce ed efficace cui affidarsi per chi vuole campare. Le gang criminali e le scuole coraniche hanno dunque gioco facile nel reclutare i «nuovi francesi» (che poi francesi non si sentono poi molto, considerato che il 22% di tutti i nuovi nati in Francia porta un nome arabo), fornendo loro una sorta di assistenza sociale privata e scollegata dal corpo dello Stato da cui poi è difficile staccarsi. I mali sociali della Francia sono dunque così evidenti nei quartieri poveri e talmente radicati, che le tragedie qui sono all’ordine del giorno: tra il 2012 e il 2020, 36 membri delle forze dell’ordine sono stati uccisi in Francia mentre erano in servizio in queste aree, e ogni anno 5.000 sono i feriti. Mentre secondo i dati della polizia, sono 13 le persone uccise da agenti per non aver rispettato l’ordine di fermarsi alla guida, e questo soltanto nel 2021. Gli immigrati e loro discendenti hanno una probabilità da due a tre volte superiore rispetto agli altri francesi di avere a che fare con le forze dell’ordine, e con i loro abusi. Tutto ciò sta a significare che i problemi sono non soltanto endemici ma da lungo tempo riconosciuti e analizzati dalle autorità, anche se poco o nulla si riesce a fare in proposito. Il primo piano di riqualificazione dei quartieri residenziali risale addirittura al 1977, quando l’allora primo ministro Raymond Barre lanciò un primo progetto, nella consapevolezza che le periferie altrimenti si sarebbero trasformate in ghetti. Tolto il periodo della guerra algerina, i disordini peggiori si sono verificati nel 1990, nel 1993 e nel 2005, quando due adolescenti morirono in una sottostazione elettrica vicino a Parigi mentre si nascondevano dalla polizia, facendo scattare lo stato di emergenza per tre settimane. Nel corso del tempo, ogni sforzo e ogni forma di attivismo governativo, welfare compreso, hanno sortito l’effetto contrario: gli obiettivi principali delle proteste sono sempre più spesso i municipi, le stazioni di polizia, le scuole, qualsiasi edificio associato allo Stato francese e persino i presepi durante il Natale. Si potrebbe dunque essere tentati di concludere che gli sforzi per portare le periferie nel mainstream sociale ed economico siano stati un costoso fallimento durato decenni. E che dunque è tempo di cambiare approccio. Al tempo stesso, l’ortodossia repubblicana francese è inconcepibile per le vecchie colonie, che si sentono un corpo estraneo e che, in ragione di ciò, approfittano di ogni occasione per sottolinearlo. Ma l’ortodossia repubblicana per sua impostazione non può dare dignità politica ad alcun corpo intermedio tra gli individui liberi - resi uguali e spogliati di ogni settarismo dallo Stato - e la nazione sovrana. È un principio granitico cui si attengono tutti gli Stati laici. A meno che qualcuno (a cominciare dagli intellettuali francesi) non abbia confuso il multiculturalismo per una deroga a tale stato di diritto, creando una pericolosa ferita che sanguina nel cuore della Francia contemporanea.
Il fallimento dell'integrazione sta disintegrando la Francia. Lorenzo Castellani su Panorama il 3 Luglio 2023
Cosa ci raccontano le violenze di questi giorni con un paese che si è scoperto fragile e colpevole
Disintegrazione è la parola chiave della società francese. Il paese è oramai un arcipelago, innestato da pezzi di società di fede islamica e illegalità che respingono diritti, libertà e regole fondamentali dello Stato francese. Ma questa volta c’è di più: non soltanto l’Islamismo che spinge le comunità a vivere con proprio regole e a rifiutare interi pezzi della costituzione, ma anche un banditismo generalizzato che spinge al saccheggio e al vandalismo. C’è chi sostiene che tutto sia imputabile alla disuguaglianza sociale, ma quanti sussidi ricevono i rivoltosi e le loro famiglie? E non ricevono forse istruzione, sanità e servizi pubblici come tutti gli altri cittadini francesi? Nessuno nega che ci sia anche del disagio socio-economico nella rivolta, ma la questione è più profonda e culturale. Essa attiene all’integrazione fallita di migranti di prima e seconda generazione nella società e nello Stato francese. Sono comunità che si sono stabilite come corpi estranei nelle città, autosegregandosi spesso in periferie dove la legge islamica conta più di quella francese. È un moto anti-istituzionale quello che ci si presenta davanti in questi giorni espresso in forme multiple, fondamentalismo, banditismo, nichilismo. Secondo documenti ufficiali dell’intelligence francese ci sono oltre 150 enclave di questo tipo sparse su tutto il territorio francese. Un mosaico pronto ad esplodere come reazione o come azione violenta. Eppure la politica francese non sembra riuscire ad approntare alcuna soluzione. Da dieci anni la Francia subisce attentati e rivolte che scuotono non soltanto il paese ma l’Europa. La paura dell’immigrazione è cresciuta ovunque anche per i disastrosi risultati dell’integrazione francese. Sono passati quasi dieci anni dalla strage del Bataclan eppure ci sono ancora i quartieri ghetto, aree assoggettate alla sharia, scuole islamizzate. Anche di fronte alla devastazione di questi giorni Macron fatica a dichiarare lo Stato di emergenza e a schierare l’esercito. Una politica troppo debole per contrastare tale radicalità unita a fenomeni di gangsterismo che coinvolgono i giovanissimi. Urgerebbe invece una reazione dura da parte dello Stato e progetti di lungo periodo: repressione, arresti e presidio del territorio per riportare l’ordine, ma anche politiche che evitino i fenomeni di autoconfinanmento delle comunità islamiche. Politiche urbanistiche che “spezzino” le banlieu, laicità della scuola senza eccezioni per le minoranze, progetti di educazione civica, politiche sociali e del lavoro per rafforzare l’integrazione dei più giovani e delle seconde generazioni. E, naturalmente, visti gli enormi problemi che si hanno davanti, una politica europea di governo dell’immigrazione illegale più rigida ed efficace che limiti le ondate migratorie. È possibile farlo? Forse si, ma è difficile affidarsi per questa missione alla stessa politica che ha già fallito.
Sbarchi, ius soli e ideologia. Neanche l'Italia è al sicuro. I fatti francesi anticipano ciò che può accadere nel nostro Paese: i nodi di immigrazione e accoglienza. Gian Micalessin il 4 Luglio 2023 su Il Giornale.
Noi italiani, governo compreso, faremmo meglio a non guardare con compiaciuta soddisfazione ai disordini delle periferie francesi. Quanto accade nelle «banlieue» di Macron rischia, infatti di rivelarsi solo l’anticipazione, o il presagio, di un male pronto a contagiare anche noi entro pochi anni. All’origine dell’incendio francese vi è lo stesso innesco ideologico disseminato, al di qua e al di là delle Alpi, da una cultura di sinistra, cara al Pd di Elly Schlein, in cui il neo-marxismo si mescola con globalismo e pensiero, politicamente corretto, di Ong e organizzazioni umanitarie. Un contesto ideologico in cui l’accoglienza senza limiti è un dogma che non prevede né l’integrazione dei migranti, né la distinzione tra chi ha diritto ad esser aiutato e chi viene solo a cercare fortuna. O, peggio, a delinquere.
Ma in Francia, come Italia, si è anche fatta strada la complicità contro-natura tra la sinistra dei diritti e un islamismo radicale deciso a negare i diritti delle donne e a recintare i fedeli in comunità separate, impermeabili alle leggi Stato e alle forze di sicurezza. Di seguito è arrivato il tentativo, riuscito in Francia, bloccato qui da noi, d’imporre quello «ius soli» che trasforma in cittadini a pieno titolo i figli dei migranti nati nella Repubblica. Una legge diventata la filiera dei cosiddetti «francesi sulla carta» ovvero quei ragazzini delle «banlieue» privi, nonostante la cittadinanza, di qualsiasi identità nazionale, ma carichi di risentimento verso lo Stato e i suoi simboli. Fin qui, fortunatamente per noi, questi capisaldi del pensiero «liberal» si sono innescati su contesti sociali diversi. In Francia la massiccia migrazione dalle ex-colonie ha creato, fin dagli anni 90, un contesto multiculturale di difficile gestione nelle periferie urbane diventate enclavi dell’Islam radicale. In questo magma persino le mosse più decise, come le leggi varate dopo il 2004 per vietare l’hijab nelle scuole hanno finito, con il fare il gioco dell’Islam radicale favorendo - con l’avallo della sinistra - la nascita di comunità separate diventate oggi i «territori perduti della Repubblica».
Territori dove, permissivismo ed egemonia delle gang islamiste hanno impedito la presenza delle forze dell’ordine e sviluppato sottoboschi criminali alimentati dai traffici di droga. A far da detonatore finale s’è aggiunto quello ius soli che ha regalato, dopo il 1998, la cittadinanza a milioni di giovani nati in quartieri ghetto dove lo Stato è sostituito dai predicatori delle moschee, dalle scuole illegali islamiste e dalle bande criminali.
Quartieri dove la «legge della strada» è preminente rispetto all’insegnamento familiare e dove gli insegnanti delle scuole pubbliche sono più preoccupati di evitare lo scontro con genitori e «rais» locali che non trasmettere gli ideali repubblicani. In questo sinistro contesto crescono le generazioni dei «territori perduti». Generazioni per cui la morte del coetaneo Nahel, ucciso da un poliziotto mentre guidava senza patente, è solo il pretesto per scagliarsi contro i simboli dello Stato e darsi al saccheggio. Ma in Italia faremmo meglio a non considerarci alieni da tutto questo. Gran parte dei flussi migratori del Mediterraneo puntano verso le nostre coste. Solo nei primi sei mesi di quest’anno 65mila migranti si sono uniti ai 600mila irregolari presenti nel nostro paese. Il tutto mentre alcune tragedie come quella di Saman Abbas, la ragazza pakistana uccisa dalla famiglia, o quella di Michelle Causo assassinata da un coetaneo originario dello Sri Lanka a Primavalle fanno emergere il drammatico problema delle comunità separate e del degrado delle periferie in mano alla criminalità. Problemi ben conosciuti alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che rivolgendosi al Parlamento ha messo sbarchi e regolamentazione dell’accoglienza tra le questioni più urgenti. Questioni capaci, se continueremo ad ascoltare la sinistra, di ricreare anche da noi le dinamiche che sconvolgono la Francia. Riportando d’attualità il pensiero di un Lenin pronto a «vendere ai capitalisti la corda con cui li impiccheremo».
Uguaglianza reale. Perché la Francia ha bisogno di un Osservatorio nazionale sulle discriminazioni. Thomas Piketty su L’Inkiesta il 13 Gennaio 2023.
In “Misurare il razzismo”, Thomas Piketty spiega che è possibile discutere concretamente il modo migliore di combattere il razzismo e permettere la convivenza civile anche all’interno di un Paese multietnico e multiculturale
Il problema è che non abbiamo un vero Osservatorio nazionale sulle discriminazioni, con il compito di rilevare e aggiornare ogni anno la situazione. Il Difensore dei diritti, che nel 2011 ha sostituito la Halde (Haute Autorité de lutte contre les discriminations et pour l’égalité), evidenzia nei suoi rapporti periodici l’ampiezza della discriminazione rispetto all’accesso al lavoro o all’abitazione basandosi proprio sulle ricerche svolte in tal senso. Purtroppo, questa autorità indipendente, che a seguito della riforma costituzionale del 2008 beneficia di uno status riconosciuto dalla Costituzione (art. 71), non dispone delle risorse materiali e umane che le permetterebbero di effettuare indagini in proprio e un monitoraggio sistematico e periodico della situazione.
Un Osservatorio nazionale sulle discriminazioni – che potrebbe essere posto sotto l’autorità del Difensore dei diritti – avrebbe come prima missione quella di analizzare in modo strutturato e con cadenza annuale in quale misura le percentuali di ottenimento di un colloquio di lavoro variano a seconda delle origini etniche presunte dei richiedenti (sulla base dei dati anagrafici e delle informazioni riportate nei curricula).
Si tratta di un quesito fondamentale e ben preciso, al quale è possibile rispondere solo organizzando sondaggi omogenei nel tempo e su campioni di adeguate dimensioni. Questi studi permetterebbero anche di conoscere in quale misura si concentri la discriminazione all’interno di un particolare segmento di datori di lavoro. Non tutte le imprese, e i responsabili delle risorse umane, hanno il medesimo comportamento: è importante saperlo e misurarlo oggettivamente. Ciò è possibile; tuttavia, garantire che i risultati ottenuti siano statisticamente attendibili su base annua richiederebbe un impegno oneroso e mezzi adeguati allo scopo.
Prima di attribuirgli compiti più complessi, è essenziale assicurare che l’Osservatorio sia in grado di centrare un tale obiettivo e di rispondere a questi interrogativi basilari. Oltre a questa attività iniziale, dovrebbero essere definite altre operazioni annuali di sondaggio. Una, particolarmente importante, riguarda i controlli de visu (au faciès) effettuati dalla polizia, difficili da rilevare in modo rigoroso. Nel 2012, un gruppo di ricercatori del Cnrs (Centre national de la recherche scientifique), specializzato in Istituzioni di diritto e procedura penale, ha sviluppato un protocollo che ha permesso di ordinare, in un abaco etnico strutturato in cinque tipologie (bianco, arabo, nero, indopakistano, asiatico), i circa 35.000 viaggiatori che in una giornata sono transitati nelle stazioni della metropolitana parigina di Gare-du-Nord e Châtelet-Les-Halles, per individuare quali tipologie siano state sottoposte a controllo negli oltre 500 accertamenti effettuati.
Il monitoraggio è stato effettuato all’insaputa dei presenti (viaggiatori e poliziotti) e in modo del tutto anonimo. I risultati hanno evidenziato una pratica massiccia dei controlli de visu, con una probabilità tra 5 e 10 volte superiore di essere fermati per i “neri” e gli “arabi” rispetto ai “bianchi”. Il divario aumenta per procedure come la perquisizione tramite palpazioni. Purtroppo, lo studio non è stato ripetuto con le stesse modalità, per cui non è possibile affermare se queste pratiche discriminatorie siano aumentate o diminuite a partire dal 2012.
Su questo l’Osservatorio nazionale sulle discriminazioni dovrebbe avere l’incarico di definire protocolli che permettano di effettuare indagini regolari e omogenee, per mettere a disposizione dati annuali affidabili e trasparenti. In assenza di questi, è impossibile chiedere una riforma delle procedure di polizia e valutare se i cambiamenti auspicati abbiano avuto luogo. L’Osservatorio potrebbe anche occuparsi di altri temi.
Nel 2021, l’associazione sos Racisme ha realizzato un’ampia campagna di sondaggi sulle dieci più importanti aziende di offerta di lavoro interinale, documentando che il 45% delle relative agenzie sul territorio era disposto ad accettare istruzioni inequivocabilmente discriminatorie rispetto ai propri clienti (a condizione che queste fossero date per telefono e non per iscritto), ad esempio dando la priorità ai “profili europei” a scapito delle altre “comunità”. Una indagine di questo tipo non era mai stata realizzata in precedenza, per cui è impossibile dire se dieci anni fa la situazione fosse peggiore o migliore.
Sempre nel 2021, il collettivo Cinégalités ha prodotto uno studio innovativo sui pregiudizi nella rappresentazione cinematografica in Francia, in relazione all’origine etnica e alle differenze di genere e di età. Non spetta a me stilare qui una lista completa delle campagne di indagine e dei sondaggi di cui dovrebbe farsi carico l’Osservatorio nazionale sulle discriminazioni. La questione, infatti, dovrebbe essere oggetto di un’ampia deliberazione democratica – soprattutto in occasione delle scadenze elettorali e dei dibattiti parlamentari – e di un’importante partecipazione collettiva da parte dell’associazionismo e dei sindacati. Ovviamente, l’attività dell’Osservatorio non impedirebbe in alcun modo il proseguimento dei lavori specialistici di ricercatori e associazioni né la nascita di esperienze locali, come l’Osservatorio sulle discriminazioni istituito nel 2021 dal Consiglio dipartimentale Seine-Saint-Denis.
Rispetto a questi, la prima funzione dell’Osservatorio nazionale dovrebbe essere quella di rilevare le discriminazioni su scala nazionale e comunicare ufficialmente e quantitativamente la loro crescita o diminuzione. In questo senso, è fondamentale che l’Osservatorio documenti le origini etniche e le caratteristiche culturali e religiose oggetto di possibili discriminazioni: razzismo anti-arabo o anti-africano, islamofobia, anti-semitismo ecc. Come hanno dimostrato gli studi effettuati, è possibile farlo variando i curricula in modo casuale e valutando l’effetto dei diversi contenuti di questi sui tassi di ottenimento di un colloquio di lavoro. Va notato come alcuni ricercatori non accettino il termine “islamofobia”, preferendo “razzismo anti-islamico” oppure “anti-musulmano”. Il dibattito sui termini è importante, ma a condizione che non si perda di vista la questione di fondo.
Inoltre, sarebbe utile che l’Osservatorio misurasse anche l’eventuale presenza di un “razzismo contro i bianchi”, che potrebbe benissimo esistere, anche se quasi impossibile da individuare dal punto di vista statistico in quanto marginale e localizzato solo in alcuni luoghi o territori. In ogni caso, è necessario che l’Osservatorio nazionale si ponga come obiettivo la quantificazione (e il confronto) delle diverse forme di discriminazione così come le si riscontra nella società, divenendo il barometro ufficiale e incontestabile delle pratiche discriminatorie.
Da “Misurare il razzismo. Vincere le discriminazioni”, di Thomas Piketty (La Nave di Teseo), 95 pagine, 9,50 euro
La strage di Stato. La strage negata di Parigi del 1962, quando la polizia francese uccise e gettò nella Senna centinaia di algerini. David Romoli su Il Riformista il 27 Dicembre 2022
Non si saprà mai quanti algerini morirono il 17 ottobre 1962 sotto gli occhi dei parigini, nel centro della ville lumière, abbattuti a colpi di fucile, soffocati sotto i corpi di altre vittime, annegati nella Senna, strangolati nei commissariati della Goutte d’Or, nelle cui cantine le torture erano già all’ordine del giorno, o di Vincennes. Ufficialmente si parla oggi di 43 vittime.
La versione bugiarda della polizia, che ha resistito per decenni, si limitava a tre persone uccise, 2 algerini e un francese, inseguito a un attacco armato del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. In un rapporto segreto inviato 10 giorni dopo il massacro al presidente De Gaulle dal responsabile per gli affari algerini Bernad Tricot, scoperto solo quest’anno dopo la decisione di Macron di aprire parzialmente gli archivi segreti, si contano 54 vittime. Furono molte di più: certamente oltre 200, più di 300 secondo lo storico e archivista Jean-Luc Einaudi, scomparso nel 2014 dopo essere riuscito a impedire, impegnandosi più di chiunque altro, che il silenzio calasse sul giorno della vergogna della Francia: la più orrenda e sanguinosa strage razzista di Stato nell’occidente dopo la guerra mondiale.
Ma quantificare precisamente è impossibile: i rapporti sui cadaveri ripescati dalla Senna, dove erano rimasti a galleggiare per giorni, sono stati fatti sparire dall’allora prefetto di Parigi Maurice Papon, principale ma non unico responsabile della mattanza, condannato nel 1998 per crimini contro gli ebrei durante l’occupazione tedesca negli anni ‘40. In Francia vivevano all’inizio degli anni ‘60 circa 350mila algerini, ammassati in bidonville tra cui la principale era quella di Nanterre, alle porte di Parigi. La guerra d’Algeria si combatteva ormai anche sul suolo francese. La Federazione francese del Fln, a partire dal 1958, aveva portato la guerra anche nel cuore della potenza coloniale, prima con una serie di sabotaggi, poi, prendendo di mira anche le forze polizia.
L’Organisation Armée Secrète (Oas), il gruppo terrorista interno alle forze armate contrario all’indipendenza algerina e che considerava De Gaulle un traditore, massacrava algerini e francesi, con 2700 vittime di cui 2400 algerine in due anni, aveva tentato un golpe fallito nell’aprile 1961 e cercato di uccidere De Gaulle. La tensione era dunque altissima. Pochi giorni prima del massacro Papon, dopo l’uccisione di 11 agenti in un attentato, si era rivolto alla polizia promettendo che “per ogni colpo che riceviamo ne restituiremo dieci” e la frase era stata interpretata come una sorta di licenza di uccidere. Nella Senna nell’ultimo mese erano stati trovati più volte corpi di algerini uccisi, forse dall’Oas, forse da “squadroni della morte” all’interno delle forze di polizia. Ma la manifestazione del 17 ottobre era assolutamente pacifica. L’ordine del Fln era stato tassativo: nessuno doveva portare neppure un temperino o un spilla da balia.
Gli stessi militanti della Federazione francese del Fln aveva controllato che dalla bidonville di Nanterre nessuno uscisse anche solo armi improprie. Circa 30mila persone, quasi tutti nordafricani, si mossero così verso il centro di Parigi vestiti a festa, portando l’intera famiglia, anche i bambini, per protestare contro il coprifuoco che, dal 5 ottobre, vietava a tutti i “francesi musulmani d’Algeria” l’uscita da casa dalle 20.30 della sera alle 5.30 del mattino e imponeva la chiusura alle 19 ai bar frequentati dagli algerini. La manifestazione non sarebbe mai partita. Alle 18, alla fermata della metropolitana dell’Opera, iniziarono i rastrellamenti. I manifestanti che arrivavano con la metro o in autobus vennero arrestati e trasportati nei commissariati o nei centri di detenzione, dove potevano essere internati senza mandato del magistrato. I manifestanti a piedi furono affrontati sui ponti, bastonati con i bidules, i bastoni di legno lunghi un metro in dotazione alla polizia, falcidiati con le armi da fuoco, buttati nella Senna a decine e centinaia.
I mezzi delle forze dell’ordine non bastarono per trasportare nei commissariati e nei centri di detenzione tutti gli oltre 11mila arrestati. Fu necessario requisire i mezzi pubblici, come non succedeva dai tempi dell’occupazione nazista. Le violenze e gli omicidi a freddo continuarono anche dopo gli arresti, a Vincennes e negli altri commissariati. Il 17 ottobre 1962 non fu un caso particolarmente violento di repressione. Fu un pogrom. La guerra d’Algeria infuriava da ormai 7 anni. De Gaulle, tornato al potere in nome dell’Algeria francese, aveva già intavolato con il Fln le trattative che avrebbero portato agli accordi di Evian del marzo 1962 e poi, il 5 luglio, alla nascita dell’Algeria indipendente. Il suo primo ministro Michel Debré era invece contrario all’indipendenza, dunque alle trattative, e così il ministro degli Interni da lui nominato Roger Frey. Prefetto di polizia di Parigi era dal marzo 1958 Maurice Papon: sottoprefetto a Bordeaux e Parigi durante l’occupazione, era stato poi segretario generale del protettorato del Marocco a metà anni ‘50 e poi prefetto nell’est dell’Algeria.
Qui aveva creato un servizio segreto composto da algerini contrari all’Fln, gli harkis, e una struttura coordinata composta dagli harkis, dai Crs, i corpi speciali della polizia francese, e da gendarmi, specializzata nella ricerca e cattura dei militanti del Fln, il Centre de Reinsegnements et d’Action (Cra). A Parigi Papon ripropose il Cra e riunì gli harkis in una Forza di polizia ausiliaria che rispondeva solo a lui. Usò con i “francesi musulmani d’Algeria” gli stessi metodi sperimentati in Nord Africa. Le sue responsabilità nella strage sono enormi e indiscutibili. La sera del 17 ottobre, mentre la furia della polizia raggiungeva livelli inimmaginabili, le radio delle forze dell’ordine continuavano a dare false informazioni, parlavano di poliziotti uccisi in varie zone della città rendendo così la furia degli agenti sempre più incontrollabile. Papon non fece nulla per smentire quelle voci e per riportare sotto controllo la violenza della polizia. E tuttavia sarebbe sbagliato fare del prefetto il solo colpevole dell’orrenda strage, come ancora oggi le autorità francesi, pur avendo infine ammesso il crimine di Stato, continuano a fare. Responsabili o complici furono quasi tutti.
Il giorno dopo il massacro i fotografi provarono a vendere le immagini di quel che era successo davvero, mentre i tg trasmettevano solo i filmati degli arresti di massa e la stampa riportava la versione ufficiale dei fatti, quella con le tre vittime in seguito a un attacco dell’Fln. Nessuno volle pubblicare quelle immagini come nessuno volle vedere i cadaveri che galleggiavano sulla Senna. De Gaulle fu messo al corrente della realtà dei fatti solo 10 giorni dopo. Rispose con una nota scritta in cui chiedeva di fare piena luce sugli eventi e di perseguire i colpevoli e che il ministro degli Interni Frey “desse prova di autorità” riprendendo il controllo sulle forze di polizia. Però non successe niente. La versione dei 3 morti rimase quella ufficiale. Papon restò al suo posto fino al 1966, due anni dopo fu eletto deputato e lo rimase fino al 1981. Nel 1978 fu fatto anche ministro nel governo Barre, con Giscard d’Estaing presidente.
Nei giorni seguenti la strage non ci furono reazioni rilevanti e nessuna manifestazione di protesta fu convocata. L’8 febbraio 1962 una manifestazione organizzata dalla Cgt e dal Partito comunista dopo una nuova raffica di attentati dell’Oas fu repressa di nuovo con tanta brutalità da provocare 9 morti, tutti iscritti alla Cgt o al Pcf, tra quanti avevano cercato rifugio nella stazione metro di Charonne. Tra l’esigenza di fare luce sul massacro e quella di tenersi buone le forze di polizia e impedire che si schierassero con l’Oas, De Gaulle scelse la seconda via.
Fino agli anni ‘80, di quell’orrore era stata sepolta ogni memoria. A scavare per contrastare la rimozione furono nel decennio seguente alcuni storici, sopratutto Einaudi, e negli anni ‘90 il processo contro Papon per i crimini contro gli ebrei fece riemergere in pieno anche il pogrom dell’ottobre 1961. L’ex prefetto ammise solo che i morti erano dieci volte più di quanto affermato allora, 20 invece di 2, ma assicurò che si erano ammazzati tra loro in un regolamento di conti interno all’Fln. Solo nel 2012 Hollande parlò apertamente di “repressione sanguinosa” e di “manifestanti uccisi”. Solo nel 2021 Macron, presso il ponte di Bezons dove un tempo sorgeva la bidonville di Nanterre, ha reso omaggio agli algerini trucidati quel giorno ammettendo che fu “un crimine imperdonabile per la Repubblica”. Un pogrom razzista di Stato. David Romoli
Perché a Parigi sono scoppiati scontri dopo la strage di curdi. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2022
Tre persone sono morte e diverse persone sono rimaste ferite in una sparatoria avvenuta per strada a Parigi, nel X arrondissement. Secondo fonti della polizia, citate del sito di Le Parisien, un uomo è stato fermato. Su Twitter la prefettura parigina invita i cittadini a “evitare il settore” della città ed a “lasciare che siano i servizi di soccorso ad intervenire”.
La sparatoria è avvenuta di fronte a un centro culturale curdo, Ahmet-Kaya. Lo riferiscono fonti della polizia parigina, riportate dal Le Parisien. L’uomo considerato responsabile della sparatoria era uscito di prigione il 12 dicembre ed era sottoposto a controllo giudiziario. Gli era inoltre stato imposto il divieto di possedere armi. Un anno fa era stato fermato in relazione a un attacco con una scimitarra contro un campo di migranti situato nell’XI arrondissement. Lo riporta Bfmtv, precisando che l’uomo era oggetto di un’azione giudiziaria per violenze a sfondo razziale commesse con armi.
«Non è sicuro che l’aggressore che ha voluto assassinare queste persone lo abbia fatto in particolare perché curde. Ha voluto chiaramente prendersela con degli stranieri». A dichiararlo è stato il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, giunto sul luogo della sparatoria. Il sospetto era noto alla polizia, ma non ai servizi, non era schedato per radicalizzazione e non era un militante di uno dei gruppuscoli di estrema destra recentemente sciolti. «Non è sicuro che fosse in qualche modo impegnato politicamente anche se chiaramente le sue motivazioni erano quelle di compiere un attacco contro gli stranieri, ma questo lo confermeranno le indagini».
I dimostranti curdi hanno acceso diversi fuochi lungo rue du Faubourg Saint-Denis, nelle vicinanze del centro curdo dove oggi tre militanti sono stati uccisi. Secondo quanto riporta Le Parisien, vi sono anche auto che sono rimaste danneggiate negli scontri tra i dimostranti, che scandivano slogan contro la Turchia di Erdogan e lanciavano oggetti contro gli agenti, e la polizia che ha risposto con i lacrimogeni. “Si ricomincia, non ci proteggete, ci uccidono”. A gridarlo agli agenti della polizia sono stati alcuni membri del centro culturale Ahmed Kaya, preso di mira ieri mattina. Nello stesso arrondissement della capitale, il 9 gennaio 2013 tre militanti curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) erano stati assassinati.
L’inchiesta giudiziaria in Francia, tuttora in corso – ricorda Le Parisien – aveva rivelato “l’implicazione” di membri dei servizi segreti turchi, senza designare i mandanti. «Considerato il profilo dell’assalitore, la vicenda non è per forza legata agli eventi del 2013. Ma per la comunità curda, che si è riunita pacificamente, è difficile da credere», ha commentato Julien Bayou, deputato del X arrondissement, sul posto.
Un ex ferroviere razzista fa fuoco sui curdi: tre vittime. Attaccato un centro culturale. L'uomo scarcerato solo da 11 giorni dopo l'assalto con sciabola al campo profughi. Francesco De Remigis il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Non è neppure mezzogiorno, quando nel centro di Parigi, a poche centinaia di metri da Place de la République, un pensionato 69enne francese, armato di pistola, spara davanti al centro culturale curdo «Ahmet Kaya»: tre morti, tutti attivisti. Una donna e due uomini; altri due feriti gravissimi, un terzo lievemente. Parigi ripiomba nell'incubo del terrorismo, con l'uomo che fugge dalla scena del crimine e si rifugia in un parrucchiere. Lì viene disarmato e ferito da lavoratori e clienti. «Sette, otto spari in strada», raccontano, «il panico totale».
Servono quasi 15 minuti alla polizia chiamata dai residenti per arrivare e arrestare il sospettato. Portato via con una ferita sul volto, interrogato. Si tratta di un ex dipendente della Sncf, la società che gestisce le ferrovie francesi. Si scopre che quest'ex macchinista era uscito di galera appena 11 giorni prima (il 12 dicembre). E che era già stato protagonista di raid punitivi contro stranieri, mai però finiti nel sangue. William M. - questo il nome filtrato dagli inquirenti che hanno aperto un'inchiesta per omicidio volontario e violenze aggravate - era noto per due tentati omicidi a sfondo razzista, uno nel 2016 (condanna a sei mesi con la condizionale nel 2017) e nel 2021, quando a Parigi, sempre a dicembre, assaltò con una sciabola un campo per migranti mentre dormivano. Per quest'azione, era stato detenuto nella prigione della Santé. Ma l'ordinamento bleu blanc rouge tiene conto della pena, più che della pericolosità del soggetto: e per reati che prevedono fino a 10 anni di carcere la legge dice sostanzialmente che non si può tenere dietro le sbarre più di 1 anno chi è in attesa di giudizio. Era quindi fuori, «sotto controllo giudiziario», non schedato dagli 007 ma col divieto di imbracciare armi. Intanto, a Rue d'Enghien, scoppia il caos.
Il presidente Emmanuel Macron condanna «l'odioso attacco nel cuore di Parigi» che ha preso di mira «i curdi di Francia». Si dice «vicino alle famiglie delle vittime», ma cresce la tensione nel quartiere che pullula di comunità straniere. L'Eliseo fa sapere d'aver chiesto al ministro dell'Interno - fuori città - di correre sulla scena del crimine. Gérald Darmanin arriva solo alle 16, scortato e fra le polemiche: perché non c'era protezione al centro culturale. Il ministro minimizza, dice che non si conoscono «i moventi esatti» del sospettato, che «ha agito da solo». E che ha «deliberatamente» colpito stranieri. «Sparava in un club sportivo e aveva molte armi dichiarate», ammette poi Darmanin.
La sinistra non aspetta altri chiarimenti. La sindaca socialista di Parigi ha già condannato una parte politica dichiarando che la comunità curda è stata «presa di mira dall'estrema destra», accusando «un militante». Lo stesso hanno già fatto Jean-Luc Mélenchon (che invoca la «rabbia» per «un attacco terrorista») e Yannick Jadot, rispettivamente leader della sinistra e dei verdi. Marine Le Pen si dice colpita dal «terribile dramma, il nostro pensiero va alle vittime e alle famiglie». Il governo resta però cauto sul gesto, e solo Isabelle Rome, titolare del dicastero per le Pari opportunità, lo circoscrive a «odio xenofobo e razzista». Tranchant, il Consiglio democratico curdo (Cdkf) parla di attacco «terroristico», invitando parigini e comunità straniere a scendere in piazza oggi stesso per protestare: contro una Francia che «non ci protegge a sufficienza». Chiedono di «fermare la collaborazione con le autorità turche e con i Servizi», dice un leader del Cdkf in conferenza stampa. L'appartamento dei genitori del pensionato, dove risiedeva, è a quindici minuti dal suo bersaglio «curdo». Perquisito. Si cercano prove per incriminarlo, rivendicazioni. Ascoltati i vicini, per ora si escludono complici. Ma c'è una strana nebbia attorno all'accaduto.
Arrestato estremista di destra. Guerriglia a Parigi dopo la sparatoria, scontri tra comunità curda e polizia: incendi e barricate. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Dicembre 2022
Dopo i momenti di panico nelle vie del cuore di Parigi, le stesse vie si sono trasformate in scenario di guerriglia. Tutto è successo una manciata di ore. William M., 69enne francese ha sparato contro il centro culturale curdo Ahmet-Kayat in rue d’Enghien, nel X arrondissement di Parigi provocando tre morti e quattro feriti di cui uno grave. Subito dopo l’arrivo del ministro in rue d’Enghien, nel pomeriggio, sono iniziati i tafferugli tra i residenti curdi del quartiere e gli agenti di polizia, con lancio di pietre da parte dei contestatori e lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine.
Nella zona i membri della comunità curda si sono riuniti per gridare la loro rabbia. Una parte della manifestazione spontanea è degenerata in scontri con la polizia che sta lanciando lacrimogeni. L’uomo che ha aperto il fuoco stamattina nel 10° arrondissement di Parigi “voleva ovviamente attaccare gli stranieri”. Lo ha detto il ministro dell’Interno francese, Gerald Darmanin, giunto sul luogo della sparatoria a Parigi. “Non è certo che il killer che voleva uccidere queste persone lo abbia fatto specificamente per i curdi. Ovviamente voleva prendere di mira gli stranieri”, ha detto Darmanin. “Non è certo che questa persona avesse un qualsiasi impegno politico, anche se le sue motivazioni erano chiaramente un attacco agli stranieri”, ha detto ancora Darmanin, concludendo che “questo sarà verificato dall’indagine giudiziaria”. Nel tardo pomeriggio è emerso che le tre vittime della sparatoria di oggi nel centro di Parigi erano “tutti membri militanti del Consiglio democratico curdo (Cdkf) di Francia”: è quanto afferma BFM-TV, precisando che lo stesso Cdkf denuncia “un attentato terroristico”. Sempre secondo fonti citate dalla prima rete all news di Francia, tra le persone uccise ci sono una donna e due uomini. Quanto ai feriti, sono tre uomini di cui uno in condizioni gravi. Si ignora, al momento, la nazionalità delle vittime.
“I curdi di Francia sono stati l’obiettivo di un odioso attacco nel cuore di Parigi. Pensieri alle vittime e alle persone che lottano per la vita, alle loro famiglie e ai loro cari. Riconoscenza alle nostre forze dell’ordine per il loro coraggio e il loro sangue freddo”: lo scrive in un tweet il presidente francese, Emmanuel Macron.
I manifestanti, che probabilmente non sono rimasti soddisfatti dalle parole del ministro e non si sentono protetti, hanno cantato canzoni di solidarietà curde e contro la Turchia. La protesta per chiedere protezione per la comunità curda era cominciata in modo pacifico, ma è degenerata in scontri violenti con lancio di oggetti. Roghi in strada, auto danneggiate e fischi. Non è chiaro quale sia il motivo degli scontri. Le strade si sono presto riempite di barricate e montagne di oggetti a cui è stato dato fuoco. Molte le macchine distrutte.
Alcuni membri della comunità curda urlano slogan contro il governo della Turchia. Dei bidoni della spazzatura sono stati dati alle fiamme. Stasera Darmanin terrà una riunione speciale per valutare le minacce sulla comunità curda in Francia. Membri sotto shock della comunità curda a Parigi hanno riferito che erano stati recentemente avvertiti dalla polizia di minacce su obiettivi curdi e hanno chiesto giustizia a seguito della sparatoria. Poco dopo la sparatoria, mentre la responsabile del 10° arrondissement Alexandra Cordebard aggiornava i giornalisti e riferiva che gli spari erano avvenuti in prossimità di un centro culturale curdo, di un ristorante e un negozio di parrucchiere, sullo sfondo si sentiva una folla che cantava ‘Erdogan terrorisita’, in riferimento al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, e ‘Stato turco assassino’.
Nel quartiere del Fabourg Saint-Denis -a un centinaio di metri dalla rue d’Enghien, la zona dalla sparatoria di questa mattina sono arrivate pattuglie in tenuta antisommossa a rafforzare le forze di polizia in azione per sedare le proteste scoppiate dopo l’arrivo nel quartiere del ministro dell’Intero, Gérald Darmanin. Secondo diversi testimoni sul posto, la tensione è scoppiata dopo che la polizia ha fatto allontanare la folla, per consentire l’accesso di Darmanin nella zona del crimine. La folla è entrata in contatto con il cordone di sicurezza eretto intorno all’esponente governativo. La tensione è salita alle stelle, con lancio di lacrimogeni da parte della polizia mentre i manifestanti hanno lanciato oggetti contro gli agenti, bruciato cestini e un albero di Natale, eretto barricate in strada. Secondo BFM-TV, durante le proteste, è stata anche presa di mira un’auto della polizia, con il parabrezza distrutto da un palo in ferro. La zona centralissima di Parigi è completamente blindata mentre i militanti pro-curdi continuano ad intonare cori, fischi e slogan di protesta tra i roghi appiccati in strada.
Almeno cinque agenti francesi sono rimasti feriti durante i violenti scontri con i manifestanti nel quartiere del Faubourg Saint-Denis, nel cuore di Parigi, nei dintorni del luogo della sparatoria di questa mattina contro la comunità curda: è quanto riferiscono fonti della polizia citate da Bfmtv. Nella zona la tensione resta altissima, con gli agenti in tenuta antisommossa che cercano di disperdere i manifestanti tra cariche e gas lacrimogeni dopo la visita sul posto del ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. I manifestanti accusano lo Stato di non aver sufficientemente protetto la comunità curda e di aver lasciato a piede libero l’uomo di 69 anni che questa mattina ha ucciso tre persone dinanzi al centro culturale curdo.
Un’altra manifestazione è stata convocata dai curdi per domani. «A seguito dell’attacco terroristico alla nostra sede oggi, in tarda mattinata, in cui sono stati uccisi tre attivisti curdi, chiediamo una grande manifestazione domani, sabato, alle 12, in Place de la République/Parigi». Lo scrive su Twitter l’organizzazione curda Conseil Démocratique Kurde en France (CDKF).
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Il cittadino francese di 69 anni ha ucciso tre persone a colpi di pistola. Carneficina a Parigi, il killer del Centro Culturale Curdo William M.: “Ho agito per razzismo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Dicembre 2022
Ha ucciso tre persone, le ha finite a colpi di pistola, due uomini e una donna, e lo ha fatto per razzismo. William M., cittadino francese di 69 anni, ha raccontato durante il suo arresto del perché avrebbe aperto il fuoco in Centro Culturale curdo a Parigi ieri poco prima di mezzogiorno. Perché “razzista”, ha detto il sospettato secondo una fonte vicino al dossier citata dal Journal de dimanche. A morire sotto i colpi di pistola anche Emine Kara, una leader del movimento delle donne curde in Francia. E poteva essere una strage dalle dimensioni molto più grandi.
Il Centro Culturale Curdo “Ahmet Kaya” si trova su rue d’Enghien, nel decimo arrondissement, zona abitata da folte comunità turche, siriane e curde. È un punto di riferimento e di ritrovo, dove vengono organizzati eventi culturali e dove si offre assistenza per le procedure di immigrazione per chi vuole trasferirsi in Francia. All’interno la base operativa del Centro Democratico curdo di Francia (CDKF) e id un gruppo di simpatizzanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione politica e paramilitare di estrema sinistra che la Turchia e alcuni Paesi occidentali ritengono un’organizzazione terroristica.
L’uomo di 69 anni, francese, ex macchinista in pensione, avrebbe aperto il fuoco nel Centro Culturale, senza dire una parola, almeno sette otto colpi tutti andati a segno, inseguito una vittima fin dentro un ristorante dall’altra parte della strada dove voleva rifugiarsi. Avrebbe sparato anche nel negozio di un parrucchiere e ferito almeno un’altra persona. È stato disarmato dai clienti del salone, che hanno poi chiamato la polizia.
Emine Kara aveva combattuto per trent’anni tra Turchia, Siria e Iran. Aveva preso parte anche alla liberazione di Raqqa, la città in Siria che il sedicente Stato Islamico (ISIS) aveva reso sua capitale nel Paese dilaniato dalla guerra civile. Aveva chiesto asilo politico in Francia. Un’altra vittima era un cantante curdo, a Parigi con lo status di rifugiato politico. La Procura di Parigi ha aperto un’inchiesta per omicidio e tentato omicidio. Il ministro degli Interni Gérald Darmanin sul posto ha tenuto un discorso pubblico, espresso le sue condoglianze e ammesso di non essere certo che l’uomo abbia attaccato “specificamente per colpire i curdi, ma piuttosto ‘gli stranieri’”.
Sul posto sono esplosi scontri tra la comunità curda e la polizia con sassaiole e gas lacrimogeno. William M. in passato aveva ricevuto una pena detentiva di sei anni per “detenzione vietata di armi di categoria A, B e C” nel 2017, poi sospesa, era stato condannato nel giugno 2022 a dodici mesi di reclusione per atti di violenza con armi commessi nel 2016 – un procedimento ancora in corso, a dicembre 2021 con una sciabola aveva distrutto diverse tende in un accampamento di migranti a Parigi ed era stato incriminato per “violenza con un’arma, premeditata e di natura razzista”. Era in custodia cautelare da un anno circa ed era stato messo sotto controllo giudiziario con il divieto di uscire dal territorio e di portare armi.
Al momento dall’inchiesta non è emersa alcuna appartenenza dell’uomo a organizzazioni estremiste di qualche tipo. M. avrebbe aperto il fuoco poco prima di mezzogiorno. Con se aveva una valigetta contenente altri caricatori carichi, una scatola di cartucce calibro 45 con almeno 25 cartucce all’interno. L’arma con la quale ha sparato è una 1911 Colt 45 dell’esercito americano “dall’aspetto logoro”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
“Allah Akbar” a Parigi: uccide un turista a coltellate e ne ferisce un altro a martellate. Era nella lista delle persone pericolose, voleva morire da martire. Angelo Vitolo su L'Identità il 3 Dicembre 2023
Ha gridato “Allah Akbar” uccidendo una persona e ferendone un’altra. L’assalitore, ha detto il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, è stato arrestato. Il fatto è avvenuto nei pressi del Quai de Grenelle, nl 15esimo arrondissement. La vittima dell’aggressione è un turista con doppia nazionalità tedesca e filippina, ed è stata trovata in arresto cardiorespiratorio sul ponte Bir-Hakeim, poco prima delle 22.00 di sabato. L’arresto cardiocircolatorio e la morte, a causa delle ferite ricevute alla schiena e alla spalla.
Una seconda vittima, un turista inglese, è stato ferito dallo stesso aggressore alla testa con un martello in Avenue du Président de l’Avenue Kennedy mentre passeggiava in compagnia della moglie e del figlio, raggkiunto alle spalle dall’uomo poi arrestato. Anche nelle fasi del fermo l’uomo ha brandito il martello contro gli agenti continuando a gridare “Allah Akbar”. Per immobilizzarlo, gli agenti lo hanno colpito per due volte con le scariche dei taser dopo averlo raggiunto in Avenue du Parc de Passy.
Dopo aver annunciato l’arresto dell’aggressore sui social network, il ministro dell’Interno ha annunciato che si sarebbe recato immediatamente sul posto.
L’arrestato è stato identificato per un uomo nato in Francia ed è di nazionalità francese pur essendo di origine iraniana. Si chiama Armand R., ha 26 anni, ed era stato inserito nella lista S, quella che registra tutte le persone considerate pericolose dalla Francia per la sicurezza dello Stato, anche residenti fuori del territorio nazionale. Dopo il fermo, avrebbe detto alla polizia che non sopportava che “gli arabi venissero uccisi in tutto il mondo” e che voleva morire da martire. Secondo le prime informazioni, pare che soffrisse di problemi psichici.
La lista della “fiche S” è una delle 21 categorie create dal governo francese nel 1969. Le Monde, già nel 2016, scriveva che la lista comprendesse 20mila individui, 2mila dei quali legati all’islamismo radicale. Una registrazione che non prevede abitualmente misure o azioni di polizia rivolte ai loro iscritti, ma che serve principalmente per favorirne le ricerche e il rintraccio.
Urla "Allah Akbar" e attacca i passanti col coltello. Torna il terrore a Parigi: un morto. Federico Garau il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.
Un uomo armato di coltello avrebbe aggredito una coppia vicino alla Tour Eiffel. Attimi di terrore a Parigi: le forze dell'ordine hanno fermato il presunto responsabile. C'è un morto
Parigi piomba di nuovo nel terrore. Questa sera un uomo armato di coltello ha assalito una coppia nei pressi della Tour Eiffel, scatenando il panico. Sulla vicenda si conosce ancora poco, ma secondo quanto riferiscono le autorità francesi, il soggetto sarebbe già stato catturato dalla polizia attorno al Quai de Grenelle (15° arrondissement di Parigi).
Cosa è successo
Stando a quanto dichiarato dal ministro degli Interni Gérald Darmanin, accorso sul posto, la brutale aggressione si è verificata nel corso della serata di oggi, sabato 2 dicembre, intorno alle 21.45. Un uomo armato di coltello ha gridato "Allah Akbar" per poi scagliarsi contro una coppia che passeggiava nei pressi della Tour Eiffel. L'uomo, raggiunto da un fendente, è stato ucciso, mentre la donna, rimasta ferita, è stata trasportata in ospedale, ma le sue condizioni non sarebbero gravi.
"La polizia ha appena coraggiosamente arrestato un aggressore che aggrediva dei passanti a Parigi, intorno al Quai de Grenelle", ha dichiarato su X il ministro degli Interni Darmanin. "Una persona deceduta e un ferito assistiti dai vigili del fuoco di Parigi. Si prega di evitare la zona".
A quanto pare il bilancio è di un morto e due feriti. Tutti turisti. Il primo, un uomo con doppia nazionalità tedesca e filippina, è morto dopo aver ricevuto una coltellata alla schiena e alla spalla. I soccorritori lo hanno trovato già in arresto cardiorespiratorio sul ponte Bir-Hakeim, tra il 15° e il 16° arrondissement di Parigi. Uno dei feriti, invece, un inglese, è stato colpito con un martello in Avenue du Président de l'Avenue Kennedy. A seguito dell'aggressione ha riportato una ferita alla testa. L'uomo stava passeggiando con la moglie e il figlio quando è stato aggredito.
Gli agenti della polizia francese hanno affrontato con coraggio l'aggressore, che ha opposto resistenza, minacciando gli uomini in divisa. Questi sono ricorsi all'uso del taser per fermarlo, riuscendo infine ad arrestarlo in Avenue du Parc de Passy. Le autorità locali non escludono che possano esserci altri feriti.
Chi è l'aggressore
Sarebbe un 26enne nato in Francia e di nazionalità francese, ma di origini iraniane, il soggetto fermato a Quai de Grenelle. Il ragazzo, stando a quanto riferito da Le Parisien, si chiama Armand Rajabpour-Miyandoab, è nato a Neuilly-sur-Seine, periferia residenziale e chic di Parigi, ma risiederebbe nella vicina Puteaux. Nella sua fedina penale, oltre alla schedatura in categoria "S" come individuo a rischio radicalizzazione islamica, c'è anche un precedente arresto nel 2016 con conseguente condanna a 4 anni di carcere per il fatto che stesse preparando un attentato simile a quello di stasera alla Défense, il quartiere degli affari di Parigi. A parte il grave rischio di radicalizzazione, comunque, Armand Rajabpour-Miyandoab era stato già segnalato per "problemi psicologici". Nell'affrontare i poliziotti, riferiscono i quotidiani francesi, avrebbe urlato: "Basta veder morire i musulmani!".
Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha contattato telefonicamente da Doha, dove si trova in visita dopo la Cop28, il ministro dell'Interno Gérald Darmanin per avere aggiornamenti sulla situazione a Parigi.
L'inchiesta, inizialmente presa in carico in via esclusiva dalla polizia criminale di Parigi, è stata ora affidata alla procura nazionale antiterrorismo: questo hanno riferito nella notte fonti molto vicine agli inquirenti. Federico Garau
La rabbia (e la paura) della Francia: le
coltellate che frantumano l’idea di convivenza con l’Islam. Storia di
Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.
L’uomo che sabato sera intorno alle 21 ha ucciso a coltellate un turista davanti
alla Tour Eiffel gridando «Allah Akbar» è un terrorista islamico affiliato
all’Isis che da mesi aveva smesso di prendere i farmaci per i suoi problemi
psichiatrici. Islamista e malato allo stesso tempo: ma più islamista, o più
malato, a seconda dell’appartenenza politica di chi reagisce all’ennesimo
attentato che riporta la paura in Francia. Il procuratore antiterrorismo Jean
Francois Richard ha precisato che l’uomo aveva giurato fedeltà all’Isis con un
video di rivendicazione.
Le coltellate di Armand Rajabpour-Miyandoab, nato 26 anni fa a Neuilly sur Seine (sobborgo chic di Parigi) in una famiglia di iraniani fuggiti dal regime degli ayatollah, arrivano in un contesto sociale al limite della rottura, perché sta accadendo quel che tutti temevano dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre: l’importazione in Francia del conflitto mediorientale, con gli estremisti islamici che colgono l’occasione per imitare i terroristi palestinesi di Hamas attaccando gli ebrei o più in generale gli occidentali, e che proclamano — come ha fatto l’attentatore della Tour Eiffel — di voler vendicare i fratelli musulmani vittime della reazione israeliana a Gaza.
Appena scoppiato il conflitto in Israele e Gaza, due mesi fa, un terrorista ventenne di origini cecene, noto alle forze dell’ordine, ha accoltellato a morte il professore Dominique Bernard nel liceo di Arras. Dopo centinaia di atti di antisemitismo, due settimane fa un altro episodio ha sconvolto la Francia: un adolescente di 16 anni, Thomas Perotto, è stato accoltellato a morte alla fine di una festa di paese a Crépol, piccolo villaggio di campagna non lontano da Grenoble, da un piccolo delinquente di periferia, Chaïd Akabli, nato in Francia ma di origine maghrebina.
Ne sono seguite spedizioni punitive e manifestazioni di piazza di militanti di estrema destra, che venerdì sera non hanno esitato a riempire la piazza del Pantheon a Parigi scandendo slogan anti-Islam e in qualche caso esibendo saluti nazisti. Tutti questi casi, che si tratti di attentati commessi in nome dell’Isis (come quello della Tour Eiffel) o episodi di ultra-violenza slegati dall’ideologia islamista (come l’uccisione di Thomas) sono accomunati dall’origine arabo-musulmana degli assalitori. Un’origine che le autorità danno l’impressione di riconoscere malvolentieri e in ritardo, quando proprio non se ne può più fare a meno, prestandosi all’accusa di negare almeno in parte la realtà nella speranza di risolvere il problema, minimizzandolo.
Così, dopo l’attentato di sabato sera, a sinistra ci sono stati momenti di sollievo quando ha circolato solo il nome proprio dell’attentatore — Armand —, prova che non tutti coloro che accoltellano appartengono al mondo islamico. Sollievo svanito quando si è saputo che Armand Rajabpour-Miyandoab aveva prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico e che alla nascita si chiamava Iman.
Nella giusta preoccupazione di non stigmatizzare tutti i musulmani di Francia — che sono oltre cinque milioni —, vengono però accusati di chiudere gli occhi alcuni deputati come Manuel Bompard, coordinatore della France Insoumise (il partito di Jean-Luc Mélenchon, sinistra radicale), che chiede di «non dare un significato generale a un atto che è soprattutto l’atto di una persona squilibrata», o come Sandrine Rousseau, che sottolinea «il problema di come sono seguite le persone che hanno problemi psichici». Per loro, appunto, l’attentatore è un malato psichiatrico più che un islamista.
La pensa all’opposto Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national, il partito di Marine Le Pen, che deplora il fatto «i drammi si ripetono, gli uni dopo gli altri, sistematicamente, con le stesse situazioni, gli stessi individui, gli stessi profili».
Gli fa eco sul Figaro il vicedirettore del giornale, Vincent Trémolet de Villers: «Il partito di chi rifiuta la realtà, di chi si rifugia nei meandri delle turbe psichiatriche, di chi si aggrappa, in modo francamente patetico, alla denuncia dell’ultra-destra come a un salvagente, questo partito deve comprendere che i tentativi di falsificazione sono inutili e più ancora contro-producenti. I francesi conoscono l’incubo francese, perché lo vivono. (...) Questo rifiuto di Stato della realtà aggiunge, alla mancanza di sicurezza fisica e culturale, una mancanza di sicurezza politica che non è meno allarmante».
Per rispondere a questo bisogno di sicurezza, il presidente Emmanuel Macron ha chiesto alla premier Elisabeth Borne di tenere una riunione straordinaria con i ministri dell’Interno Gérald Darmanin, della Giustizia Éric Dupond-Moretti e della Salute Aurélien Rousseau. Il Consiglio musulmano francese ha chiesto «vigilanza» da parte dei «musulmani in Francia», temendo che l’attacco mortale vicino alla Torre Eiffel possa essere «sfruttato da gruppi di estrema destra».
«C’è da temere che anche questa tragedia venga sfruttata da gruppi di estrema destra per esacerbare le tensioni e mettere all’indice un’intera comunità», ha dichiarato l’organismo di rappresentanza dei musulmani in un comunicato, portando a esempio ciò che è avvenuto dopo l’uccisione del sedicenne Thomas. «Molte moschee in Francia sono già state vittime di scritte razziste e vandalismi. Le donne che indossano il velo vengono attaccate e insultate per strada», denuncia l’organizzazione.
Il governo francese è chiamato alla difficile impresa di proteggere i cittadini, senza negare che la minaccia terroristica proviene dal fanatismo islamista e che certi atti di delinquenza comune si avvicinano a un razzismo anti-bianchi; e allo stesso tempo fare il possibile per evitare lo scontro tra comunità e i pregiudizi contro tutti i musulmani di Francia.
"Era di destra". In Francia l'ultra-sinistra oltraggia il 16enne ucciso. Storia di Marco Leardi su Il Giornale lunedì 27 novembre 2023
Accoltellato al torace e morto mentre un'auto lo stava portando in ospedale. Thomas, il 16enne francese ucciso a seguito del raid "anti-bianchi" avvenuto nei giorni scorsi a Crépol, è stato oltraggiato due volte. Prima dagli autori di quella terribile spedizione punitiva, poi dagli estremisti di sinistra che faticano a esprimere cordoglio. E anzi, arrivano in alcuni casi a giustificare quanto accaduto. In Francia il terribile episodio ha alimentato un forte dibattito che sta ha assunto una forte connotazione politica: la destra transalpina ha infatti evidenziato come l'azione omicidiaria sia stata perpetrata nelle banlieue, luogo simbolo delle problematiche causate da un'immigrazione senza regole e da una mancata integrazione.
Tutti o quasi gli assalitori provenivano da quel contesto: a rivelare i loro nomi è stato l'esponente del partito sovranista Reconquête, Damien Rie. In particolare, l'attenzione dell'opinione pubblica si è concentrata nelle ultime ore sul ventunenne principale indiziato per l'omicidio di Thomas: Chaïd Akabli, pregiudicato di origini magrebine (come i suoi compagni d'assalto) arrestato in un piccolo hotel di Tolosa mentre progettava una fuga in Spagna. Nel Paese transalpino, tuttavia, l'indignazione per quel raid si sta scontrando con una non troppo tacita reazione contraria e raccapricciante, manifestatasi sui social.
Il sito Fdsouche.com ha infatti pubblicato i messaggi di alcuni utenti che in rete si rallegrano per la morte di Thomas, dal momento che il 16enne su TikTok condivideva pubblicazioni patriottiche o riconducibili alle idee della destra francese. Il ragazzo rilanciava anche interventi televisivi di Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national. Tanto è bastato ad annullare qualsiasi sentimento di pietas nei suoi confronti da parte di certi frequentatori dei social con simpatie progressiste.
Leoni da tastiera o semplici troll, obietterà qualcuno. Peccato però che simili e riprovevoli atteggiamenti si siano ripetuti anche fuori dalla dimensione virtuale e in particolare a Sciences Po Paris, università ultra-chic nonché prestigioso vivaio di rampolli di area socialista. Il movimento studentesco Uni, vicino alla destra, aveva affisso nell'istituto accademico alcuni manifesti in ricordo di Thomas, innocente "vittima della selvatichezza e del lassismo". Come documentato sui social da alcuni video, tuttavia, alcuni militanti della sinistra universitaria hanno strappato quei manifesti dai muri, sfregiando così la memoria del 16enne accoltellato e ucciso a Crépol. "La sinistra ha strappato e buttato via i manifesti in meno di un'ora. Per loro, solo la feccia merita omaggio", ha denunciato il movimento Uni.
E nel Paese d'oltralpe le polemiche stanno travolgendo anche i rappresentanti politici di sinistra, a cominciare da Jean-Luc Mélenchon. Questi ultimi, infatti, invece di porre l'attenzione su quanto accaduto e sul raid "anti-bianchi" stanno puntando il dito contro la destra per alcune manifestazioni avvenute nelle ultime ore in reazione ai drammatici fatti di Crépol.
Omicidio Thomas, in Francia bruciano le piazze: “Ucciso da musulmani a Crépol perché bianco ed europeo” Redazione su Il Riformista il 28 Novembre 2023
Una settimana dopo l’uccisione del sedicenne Thomas pugnalato a una festa a Crepol, un piccolo comune francese nel dipartimento della Drone, nove sospetti attualmente in stato di fermo compariranno al tribunale di Valenza.
Lo riferisce ‘Le Figaro’. Thomas è stato ucciso nella notte tra sabato 18 e domenica 19 novembre in occasione di un raid di ragazzi di quartieri difficili provenienti da un comune nei pressi di Crepol. Sette sospettati sono stati fermati dalle forze dell’ordine a Tolosa mentre altri due sono stati arrestati nei pressi di Crepol.
Tre sospetti sono minori con un età superiore ai 16 anni mentre gli altri sei sono maggiorenni. Il sospetto principale Chaid ha 20 anni ma smentisce di essere il responsabile della morte di Thomas.
Oggi studenti romani, dall’Augusto al Visconti, si sono mossi in solidarietà alle mobilitazioni francesi che in questi giorni hanno riempito le strade per chiedere giustizia per la morte di Thomas, 16 anni, il liceale ucciso una settimana fa alla fine di una festa di paese.
La nota del blocco Studentesco e la solidarietà per Thomas
“Così come difendiamo l’identità di tutti i popoli presso di loro – spiega il Blocco Studentesco in una nota – ci ribelliamo al contempo contro il crimine che mira al rimpiazzo delle nostre popolazioni per mano di una classe dirigente progressista, di destra e di sinistra, asservita alle peggiori logiche di sfruttamento capitalistico”.
Basta parlare di blocchi navali ed espulsioni
“È ora di smetterla di parlare di blocchi navali ed espulsioni: quello che ci vuole è un piano di reimmigrazione di concerto con i paesi di provenienza e un intervento sociale europeo sulle fasce di popolazione rimaste impoverite dalla globalizzazione. Solo così potremo eliminare ansie e terrore che ormai da decenni attanagliano i popoli d’Europa”.
Francia: Darmanin chiede mobilitazione su violenze ultradestra
Il ministro francese dell’Interno, Gérald Darmanin, si appella ai prefetti e ai responsabili delle forze dell’ordine affinché si mobilitino per prevenire ogni forma di raduno che possa sfociare in azioni violente, in particolare, da parte di gruppi dell’ultradestra.
In una nota diffusa dopo i raduni violenti di componenti della destra radicale lo scorso fine settimana a Romans-sur-Isère – una forma di ‘rappreseglia’ dopo l’uccisione del giovane Thomas durante una festa popolare a Crépol – Darmanin invita polizia e gendarmi a “rimanere pienamente mobilitati per prevenire ogni forma di raduno o manifestazione non dichiarata che punti a perpetrare azioni violente contro persone e beni”.
In piazza militanti di estrema destra
Sabato, un centinaio di militanti della destra radicale provenienti da diverse città della Francia hanno sfilato, incappucciati, per le strade di Romas-sur-Isère con l’obiettivo di “battersi” con i giovani del quartiere La Monnaie, da cui provengono diversi giovani indagati nell’inchiesta legata all’uccisione di Thomas. I facinorosi hanno inscenato botte e tafferugli anche con le forze dell’ordine.
La notte dell’omicidio a Crépol
Thomas è stato brutalmente ucciso durante una maxirissa, scoppiata nella notte tra sabato e domenica scorsa. Una scena mai vista, un assalto con i coltelli, i machete, le mannaie, contro la sala da ballo di un paesino di 500 abitanti, Crépol, fra Lione e Grenoble.
Dentro c’era quasi tutto il paese, fuori 10 persone che hanno tentato di entrare e hanno scatenato il finimondo: Thomas, ragazzino del liceo locale, è rimasto ucciso da una coltellata al petto. Due giovani sono ancora in prognosi riservata, altri 15 sono stati feriti.
Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa. Andrea Soglio su Panorama il 22 Novembre 2023
Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa È durata poche ore la vicenda del giovane vittima dell'assalto razzista di un gruppo di nordafricani a Crépol. Ed anche sull'ultimo tentato stupro a Milano si tace sulla provenienza dell'aggressore 14 ore. È quanto è durata sui siti di informazione italiani la vicenda di Crépol, piccolo villaggio francese dove due sere fa una banda di ragazzi ha organizzato quella che (lo hanno gridato loro stessi) è stata una vera e propria «caccia al bianco». Gli aggressori identificati sono tutti nordafricani di origine e provenienti da quelle che ormai abbiamo imparato anche noi a conoscere con il termine francese di «banlieu», quei quartieri ghetto di periferia trasformati dagli immigrati in continuazione dei loro paesi di origine. Con tanti saluti all’idea di integrazione. L’aggressione a colpi di coltello e machete è costata la vita ad un ragazzo, bianco, di 16 anni; si chiamava Thomas, amava il rugby e stava partecipando con altri ragazzi ad una festa di paese. Ma il colore della sua pelle ne he fatto un bersaglio per chi cercava il sangue della sua razza. Il Ministro dell’Interno francese, Darmanin, quello che diverse volte ci ha fatto la morale sull’accoglienza dei migranti, dicendo che il governo di destra di Giorgia Meloni era tendenzialmente razzista ed incapace di gestire la situazione, ieri ha commentato l’aggressione razzista ed omicida di Crépol ammettendo che «È il fallimento generale della nostra società». Ripetiamo: fallimento generale della nostra società. Certo, non è accaduto in Italia, anche se Crépol dista un’ora di macchina dal confine con il Piemonte, ma davanti ad un’aggressione così violenta, razzista e crudele ci saremmo aspettati dalla stampa nostrana e dagli opinionisti un po’ più di attenzione. Invece nulla. Dopo i primi lanci, qualche taglio alto sugli online dalla tarda mattinata di oggi la notizia dall’ora di pranzo è sparita dai radar. È invece ben visibile la news della violenza sessuale subita da una ragazza in pieno centro a Milano, nella centralissima Piazza della Scala. Vi invitiamo a leggerla un po’ dappertutto. Troverete la dinamica raccontata in 20 o 30 righe. Si parla tanto del fatto che a salvarla sia stato il famoso gesto delle mani con cui in codice si chiede aiuto in caso di stupro. In tutti gli articoli della vittima ci dicono subito essere una «bergamasca»; l’autore, poi arrestato, dell’aggressione viene invece presentato come «giovane», poi «ragazzo», ma anche «l’arrestato», e persino la «persona». Poi, solo nell’ultimo capoverso alcuni, non tutti, aggiungono che si tratta di un nordafricano, senza documenti. Insomma, un clandestino extracomunitario. Crépol non c’entra nulla con Milan ad eccezione del fatto che i responsabili di un omicidio e di un tentato stupro (dopo le molestie che, quelle si, la ragazza le ha subite prima di riuscire a chiedere ed avere aiuto) sono extracomunitari e che la cosa viene o fatta sparire in fretta o tenuta nascosta. Certo, perché non bisogna soffiare sulla brace dei razzisti, sempre pronta a riaccendersi. Non bisogna raccontare cose che confermino le loro preoccupazioni. Bisogna quindi nascondere o cancellare. Ma se fosse stato il contrario? Mettiamo il caso che a Crépol ad armarsi, colpire ed uccidere fossero stati dei francesi «bianchi» al grido di «a morte i neri»… cosa sarebbe successo? La notizia sarebbe scomparsa dai radar in poche ore? No, proprio no. Avremmo visto il via alla solita litania del «clima d’odio causato dalla destra», della «cultura salviniana razzista» etc etc etc. D’altronde Lilli Gruber ci ha raccontato due giorni fa che tutto è colpa del governo Meloni e della destra, persino il femminicidio di Giulia. La morte, la violenza non fanno distinguo. Thomas merita la stessa attenzione di Giulia Cecchettin. Per la giovane da 72 ore il paese si sta interrogando, discutendo, dividendo sulle ragioni sociali e culturali di questo femminicidio. Forse dovremmo trovare modo di ragionare senza vergogna su quello che non molto lontano da noi è il «fallimento generale della nostra società (dell’accoglienza e dell’inclusione indiscriminata, aggiungiamo noi). Invece no. Si nascondono le cose, certe cose, sotto la sabbia, senza vergogna.
L'"infermiere" Abdalmasih e l'asilo concesso dall'Italia. Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Francesco De Remigis il 9 Giugno 2023 su Il Giornale.
Il rischio era di ritrovarselo a lavorare come infermiere in qualche ospedale d'Europa. Perché il 31enne siriano che ieri ha assalito il gruppo di bambini ad Annecy, con un coltello in mano e una kefiah in testa, stava studiando per diventarlo. Fino all'anno scorso, faceva un corso insieme alla moglie in Svezia, lasciata però nel Paese dove ha vissuto con lei per anni. E dove ha ricevuto il suo primo documento di rifugiato politico, nel 2013. «Aveva seguìto tutte le procedure lì», spiega la portavoce del ministero dell'Interno francese, rimbalzando su Stoccolma il passato (e il profilo) dell'uomo, e ribadendo che le leggi Ue non prevedono un bis della domanda. Se già accolta da uno dei Paesi membri, Schengen è in sostanza casa sua.
Non avrebbe senso cumulare le stesse richieste di asilo. Ma lui lo ha fatto. E la Francia gliel'ha bocciata giusto domenica scorsa, il 4 giugno. Nel dossier, presentato il 28 novembre, si era dichiarato ancora una volta «cristiano siriano». Come in Svezia, dov'era arrivato una decina d'anni fa e aveva messo su famiglia: moglie, una figlia nata lì che oggi ha tre anni. La piccola è rimasta con la madre. Lui è diventato un fantasma: otto mesi fa, quando si sono separati. «Non gli piaceva la Svezia», rivela lei. Ha quindi apparentemente intrapreso una sorta di road trip. Svizzera, Italia. Paesi che per BfmTv avevano già accettato le sue domande di asilo (inutili).
Infine è arrivato in Francia, puntando forse alla cittadinanza. La prefettura francese ha fatto il suo lavoro, spiegano Oltralpe, non prendendo in considerazione la richiesta d'asilo perché già in tasca. La moglie, da 4 mesi, non aveva più sue notizie. Abdalmasih Hanoun è quindi ancora un enigma: originario di Hassaké, la città del Kurdistan siriano strappata poi all'Isis. Folle, posseduto, feroce e spietato assassino o solo un persona in crisi d'identità con un passato traumatico? Difficile stabilire la premeditazione, secondo gli analisti. La pista psicologica viene tenuta in alta considerazione per carpire i segreti dietro questo rifugiato che prima di azionare la furia contro i passeggini aveva fatto il giro di mezza Europa. Era senza fissa dimora, ad Annecy, si appoggiava in una chiesa per dormire. Nel commissariato, in arresto, ieri gridava: «Uccidetemi, uccidetemi». Ai poliziotti non ha detto granché. Niente precedenti psichiatrici, né schedato per reati. Sconosciuto agli 007. Dopo l'arresto - che durerà al massimo 48 ore se non ci saranno sviluppi nell'inchiesta - si rotolava per terra. Tatuaggi sulle gambe, i bermuda con cui era andato nel parco. Deliri mistici o cosa? Per alcuni testimoni, da almeno tre giorni si vedeva in zona. Era entrato legalmente in Francia. In tasca un documento. Per ora ha avuto il «merito» di mettere in evidenza certe apparenti lacune Ue: e procedure di rilascio di «doppioni» talvolta troppo automatiche.
Per la ex moglie, «non era capace di colpire, era una brava persona». In Francia non conosceva nessuno, non aveva contatti, insiste ignara di tutto. Ma in quattro mesi di buco tra i due può essere cambiato qualcosa. Deluso dal «No» francese? Ieri aveva con sé uno zaino e un coltello e un paio di occhiali da sole indosso; sufficienti per seminare il terrore e far ripiombare la Francia nell'incubo attentati. L'ex moglie ricorda che abitavano insieme a Trollhättan nella Svezia occidentale, e che si erano incontrati 5 anni fa in Turchia. La Svezia è il Paese Ue che riceve più cristiani d'oriente. Dà titoli di soggiorno permanenti. Era «gentile», dice lei. «Si occupava molto di sua figlia». Ma tutto è ancora da decifrare. Fatti, dichiarazioni, e perfino le testimonianze.
Estratto dell’articolo di Lodovico Poletto per “la Stampa” il 9 giugno 2023.
Che cosa passa per la testa di un essere umano che si inginocchia davanti ad un passeggino, tira fuori il coltello e colpisce un piccolo uomo di appena 22 mesi?
Una, due, forse tre volte. Se c'è un'immagine che immortala la follia senza perché è proprio quella: un frammento di quattro secondi di un video girato con un telefonino, in un microscopico parco giochi, davanti al lago di Annecy.
Quel bambino è uno dei quattro che, ieri mattina, un ragazzo siriano di 31 anni ha tentato di ammazzare in questo luogo che sembra un dipinto di Monet. Erano le 9,45. Quel ragazzone – che adesso dicono essere in possesso di un permesso di protezione internazionale rilasciato in Svezia 10 anni fa - entra lì dentro urlando frasi in francese o forse in inglese «in name of god» nel nome di Dio.
E per un minuto, lui che invoca Dio, si trasforma in un portatore di male. Conficca la lama nei corpi di quattro bambini, tra cui fratello e sorella di 2 e 3 anni. Si scaglia contro due adulti e li ferisce. Urla. O forse ride. O forse dà sfogo soltanto ad un demone che è dentro di lui, che ha covato per mesi, seduto ai tavoli di legno che ci sono poco lontano da lì.
[…] «Se ne stava laggiù, da solo, dal mattino alla sera», sussurrano agli imbarchi. Muto.
Sempre vestito di nero. Lo avevano capito tutti che era straniero. Beveva acqua, e guardava i battelli entrare ed uscire dal piccolo porto. Nessun amico. Nessun contatto.
Alle 9,45 mentre lui accoltellava, la gente gridava. La polizia accorreva. Rapida, sì, ma inefficace.
L'inseguimento: un colpo di pistola sparato per fermarlo che va a piantarsi addosso ad un uomo di 78 anni. Lo placcano e c'è una lotta che dura a lungo. È tutto nei video. Da principio hanno tutti pensato al terrorismo, in una fin troppo scontata associazione di idee. Hanno detto anche erano in due, e il parco è stato blindato. La città messa sotto assedio con gendarmi, poliziotti e i ragazzi dell'esercito, quelli con il basco nero schiacciato sulla testa e il mitra enorme: gli Chasseur alpin.
[…] Questa è una storia di disperazione che si mescola alla follia. E servirebbe uno psichiatra a spiegarne i contorni. Oppure qualcuno che in questi mesi abbia perso del tempo a parlare con l'uomo che ieri conficcava il coltello nella carne dei bambini. Invece nessuno ha mai parlato ad Abdalmasih Hanoun, origini siriane, un matrimonio finito in Svezia, un bambino di tre anni che non vedeva da mesi e che vive in un paesino vicino a Goteborg, con la mamma. Abdalmasih non sa cosa siano il Fentanyl oppure la marijuna.
Non beve alcol, solo acqua. E prega. E la notte, racconta: «Vado a dormire in una chiesa». L'ultimo rifugio, l'ennesimo […]
Parla la procuratrice: «Non è terrorismo, ma ci sono dettagli da chiarire». Al chiosco di Annecy tacos, Moustapha, un omone turco che da vent'anni vive qui, allarga le braccia: «Te lo avevo detto che il razzismo non c'entra. Questa è una città che digerisce tutti». […]
"Stupri, aggressioni e accoltellamenti: ecco i crimini degli immigrati in Francia". Matteo Carnieletto l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.
Il caso del siriano che ha accoltellato i bambini in Alta Savoia torna a far puntare i riflettori sul fallimento del modello francese sull'immigrazione
Laurent Obertone traccia pennellate ampie e fosche per descrivere ciò che sta accadendo in Francia. Lo ha fatto nei primi due volumi di Guerriglia (Signs publishing) - Il giorno in cui tutto si incendiò e Il tempo dei barbari - e pure nel terzo volume che uscirà a dicembre. Lo scenario è semplice e drammatico allo stesso tempo (e soprattutto inquietante perché basato su alcuni report dei servizi segreti francesi): in un giorno come tanti altri, una serie di azioni provoca la ribellione degli immigrati presenti sul suolo di Francia. È l'inizio della rivolta. Della guerriglia, appunto. Della violenza senza freni. Degli omicidi impuniti. Dei furti liberi. Dello stupro come arma. Obertone conosce bene la Francia. E conosce bene ciò che un'immigrazione incontrollata sta provocando ai francesi. Dopo l'aggressione di un siriano contro alcuni bambini ad Annecy, in alta Savoia, abbiamo deciso di intervistarlo.
In Francia c'è stato un altro reato commesso da un immigrato. Quello che aveva predetto nei suoi libri si è avverato?
Sfortunatamente, questo accade ogni giorno da anni. Ma è di cattivo gusto parlarne, come se il problema fosse un solo caso, come se le nostre parole - quando invece si tratta di azioni criminali commesse da immigrati - sconfiggessero la "convivenza", questa fantasia delirante delle nostre élite, a cui dobbiamo il crollo del nostro modo di vivere e del nostro capitale sociale.
Si dice che l'uomo che ha aggredito i bambini sia un siriano venuto in Europa affermando di essere cristiano. Secondo lei è possibile o era una scusa per avere più facilmente il diritto d'asilo?
Non ne ho idea, so solo che è un "rifugiato", che ha accoltellato bambini nei passeggini, che non ha affari sul nostro suolo, che nel 2022 sono state presentate più di 137mila prime domande di asilo, che quest'anno abbiamo battuto il record di permessi di soggiorno rilasciati (oltre 320mila), senza contare 1,7 milioni di visti. E sto parlando solo dell'immigrazione legale, che è stata imposta alla nostra gente, completamente contro la sua volontà, per decenni.
Il caso Lola sembra dimenticato. Ci sono stati altri crimini efferati che hanno scosso la Francia negli ultimi mesi?
Ce ne sono alcuni ogni giorno. Ogni giorno più di 200 donne vengono abusate o stuprate. Migliaia di cittadini vengono attaccati. Ci sono 120 colpi e coltellate al giorno. Questo sordo terrore è la norma. Ma secondo i nostri leader l'insicurezza è solo un sentimento e parlarne farebbe il gioco dell'estrema destra. Quindi è vietato farlo, pena l'accusa di “recupero”.
Quello che sta accadendo in Francia potrebbe accadere anche in Italia?
Assolutamente, ovunque, le stesse cause producono gli stessi effetti. E questo è solo l'inizio, finché le nostre élite si rifiutano di prenderne atto.
Quale futuro per l'Europa?
Per ora sembra decisa a uccidersi, a distruggere la sua coesione, ad assecondare tutti i pazzi della terra. Le mie parole sono forti, ma la passività generale, la negazione di questa realtà che da anni denuncio tende a infastidirmi, a rimanere educato. Perché oggi un profugo ha accoltellato dei bambini nei passeggini, in una piazza, e tra qualche giorno nessuno ne parlerà, né se ne ricorderà, e nulla cambierà. Fino al prossimo episodio.
Annecy ci dice che l'allarme terrorismo esiste, anche se non lo vogliamo vedere. Stefano Piazza su Panorama l'8 Giugno 2023
Distratti dalla guerra in Ucraina e dalle politiche pro accoglienza abbiamo sottovalutato o non visto le decine di attacchi di un terrorismo islamico che ha ripreso forza. Anche grazie a noi
L'errore principale che potremmo fare nel commentare il barbaro attentato contro i bambini nel parco giochi di Annecy è pensare sia il gesto isolato, di un lupo solitario. I segnali, non colti dalla massa anche perché troppo poco resi pubblici dalla stampa, arrivati negli ultimi mesi in Europa raccontano infatti una realtà ben diversa: il terrorismo islamico è più vivo che mai. Questa mattina intorno alle 9.45 un uomo armato di coltello ha ferito almeno 9 persone in un parco di Annecy, in Alta Savoia (Francia). Almeno un adulto e quattro bambini sarebbero «in assoluta emergenza» secondo un primo rapporto provvisorio. I bambini feriti, secondo fonti della prefettura, hanno circa tre anni e sarebbero alunni di una scuola materna che si trova nelle vicinanze del parco. A colpire è stato un cittadino siriano Abdalmasih H., 31 anni, che aveva presentato domanda di asilo all'Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (Ofpra) il 28 novembre 2022 e che nel frattempo aveva ottenuto lo status di rifugiato in Svezia (sempre generosa in questi casi) con provvedimento del 26 aprile 2023. L’uomo fino ad oggi era sconosciuto dalla polizia e all’intelligence francese. Gli agenti hanno sparato all’uomo e lo hanno colpito a più riprese, soprattutto alle gambe, ha detto un testimone all’emittente Bfmtv. Il premier francese Elizabeth Borne e il ministro dell’Interno Gérald Darmanin sono arrivati sul posto, mentre il presidente francese Emmamnuel Macron in un tweet ha espresso il suo sdegno: «È un attacco di una vigliaccheria assoluta. Dei bambini e un adulto sono tra la vita e la morte. La nazione è sotto shock». Secondo alcuni testimoni oculari «l’aggressore è saltato, si è messo a urlare, si è avvicinato ai passeggini e ha iniziato a pugnalare ripetutamente i piccoli». Poi quando ha visto che era circondato dalla polizia è andato da una coppia e ha accoltellato l'anziano. È andato dritto da un nonno che era con sua moglie e l'ha accoltellato. Si tratta dell’ennesimo attacco compiuto da un richiedente asilo nei confronti di civili ed in tal senso la memoria va ad Anis Amri, l'autore dell'attacco terroristico del 19 dicembre 2016 (12 morti 56 feriti) a Berlino, poi neutralizzato a Sesto San Giovanni il 23 dello stesso mese; a Muhammad Usman e Osama Krayem che erano nel commando delle stragi del 13 novembre 2015 che hanno provocato 137 vittime (7 attentatori); oppure a Rakhmat Akilov, 39 anni, un richiedente asilo uzbeko che il 7 aprile 2017 alla guida di un cammion travolse la folla a Stoccolma ( 5 morti e 15 feriti). Infinita la serie di attacchi con arma bianca compiuti da rifugiati, ad esempio quello del 18 agosto 2017 a Turku, città del sudovest della Finlandia, dove diverse persone vennero accoltellate nella Piazza del Mercato da un assalitore successivamente identificato come un giovane richiedente asilo. Dopo aver accoltellato dieci persone, attaccando delle donne e ferendo due uomini accorsi a prestare aiuto, l'attentatore fu colpito alle gambe dalla polizia e arrestato. Stessa dinamica ha usato il 25 settembre 2020 Ali H., giovane pakistano, arrivato nel 2017 nella capitale francese come minore non accompagnato, che ha ferito a colpi di mannaia due collaboratori dell'agenzia di stampa Premieres Lignes, la stessa che il 7 gennaio 2015 mostrò le immagini dei fratelli Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly prima del loro ingresso nella redazione di Charlie Hebdo, dove uccisero 12 persone. Altro attacco quello del 27 giugno 2021 Wurzburg, in Baviera (Germania) dove un un uomo di nazionalità somala ha accoltellato a morte tre persone ferendone almeno alte dieci per poi essere fermato dalla polizia. Sempre in Germania, il 7 novembre 2021, un 27enne siriano armato di coltello aveva attaccato i passeggeri del treno ad alta velocità che collega Ratisbona a Norimberga, ferendo in maniera grave tre persone prima di essere fermato. Sul treno al momento dell'attacco c'erano 300 passeggeri che sono vennero fatti scendere a Seubersdorf (distretto di Neumarkt). In precedenza il 13 ottobre 2021 il 37enne Espen Andersen Brathen, convertito all'islam nel 2017, uccise cinque persone e ne ferì altre due a Kongsberg, una piccola città vicino a Oslo (Norvegia), due giorni dopo a Londra a cadere sotto i colpi di Ali Harbi Ali, un 25enne britannico di origine somala nel Regno Unito dal '90, era stato il parlamentare britannico Sir David Amess, 69 anni, deputato conservatore di Southend West, assassinato con 17 coltellate mentre incontrava i suoi gli elettori in una chiesa nell'Essex. Episodi che hanno convinto le intelligence e le strutture anti terrorismo di tutta Europa che l'Isis si è riorganizzato, che il terrorismo islamico ha sfruttato la distrazione dell'occidente da più di un anno con gli occhi rivolti solo all'Ucraina; tutto questo in un momento politico che predilige l'accoglienza indiscriminata alla sicurezza. Per questo la certezza è che dopo Annecy ci saranno altro attacchi, altri terroristi, altri morti in Europa con tutti i rischi che corriamo ogni giorno. Anche portando i nostri figli e nipoti al parco.
Gli Scandali.
Macron.
Sarkozy.
Nuovo scandalo al Parlamento UE: francesi indagati per appropriazione di fondi pubblici. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 2 febbraio 2023.
Piove sul bagnato a Strasburgo, sede del Parlamento Europeo. Dopo lo scandalo del Qatargate, 13 ex eurodeputati francesi sono finiti nel mirino della Procura di Parigi che, dopo cinque anni di indagini, li ha accusati di assunzione irregolare di assistenti parlamentari e appropriazione di fondi pubblici. In poche parole, i funzionari appartenenti al Partito Democratico Europeo (EDP) avrebbero usato i fondi comunitari per assumere assistenti e portaborse e metterli a servizio del proprio partito nazionale, il Movimento Democratico (MoDem), che oggi occupa 48 seggi (su 577) nella Camera più importante del Parlamento francese, l’Assemblée nationale. Coinvolto nello scandalo anche François Bayrou, fondatore e presidente delle due formazioni politiche, nonché più volte ministro negli ultimi esecutivi e alleato di Emmanuel Macron. La Procura parigina ha chiesto di dare seguito alle indagini e avviare dunque il processo contro i 13 funzionari.
L’uragano che si è abbattuto sul Parlamento Europeo, istituzione rappresentativa per eccellenza, non accenna a lasciare Strasburgo. Tra il 2009 e il 2014, 13 eurodeputati francesi avrebbero fatto uso di fondi pubblici indebitamente, per un danno alle casse comunitarie pari a 1,4 milioni di euro. Tra le persone coinvolte nelle indagini, oltre a François Bayrou, figurano anche l’ex ministro della Giustizia Michel Mercier, ai tempi del governo Sarkozy, e l’attuale vice governatore della Banca di Francia Sylvie Goulard. Il MoDem non è nuovo a episodi di illegalità; nel 2017, un’inchiesta giornalistica travolse il partito e, per motivi simili all’attuale scandalo, i politici centristi Jean-Luc Bennhamias e Nathalie Griesbeck furono condannati a versare un indennizzo di 45 e 100 mila euro al Parlamento Europeo. [di Salvatore Toscano]
Estratto dell’articolo di Anais Ginori per repubblica.it giovedì 16 novembre 2023
Brigitte Macron, di solito molto riservata, appare sulla copertina dell'ultimo Paris Match. "Esercito l'influenza che una moglie può avere sul marito", racconta la première dame che si è confidata con la cronista politica Catherine Nay.
In Francia, dove non esiste un vero e proprio statuto per la moglie del capo dello Stato, c'è sempre un alone di sospetti e polemiche per le donne che occupano l'ala Madame nel palazzo presidenziale. A far discutere è anche la storia di questa coppia moderna, con un'importante differenza d'età (lei ha 24 anni di più di lui) e un incontro avvenuto a scuola, quando la professoressa Trogneux insegnava letteratura e organizzava un laboratorio di teatro al liceo cattolico Providence di Amiens.
"C'era tanta confusione nella mia testa. Per me, un ragazzo così giovane era qualcosa di proibito”, ricorda la première dame a proposito dell'inizio della loro storia d'amore. Lei era sposata, con tre figli. "L'unico ostacolo erano i miei figli. Mi sono presa del tempo per non rovinare la loro vita. Ci sono voluti dieci anni per rimetterli in carreggiata. Potete immaginare cosa hanno sentito", continua Brigitte Macron, aggiungendo di non aver esitato a lungo.
La relazione è continuata quando il giovane Emmanuel è stato mandato a studiare a Parigi dai genitori. “Pensavo che si sarebbe innamorato di una coetanea. Non è successo. Per quanto mi riguarda, non sono più andata a teatro a Providence".
Nonostante la curiosità che li circonda, la première dame assicura: “Siamo una coppia normale. A volte non siamo d'accordo. Esercito l'influenza che una moglie può avere sul marito. O è troppa o è nulla. Il fatto che sia Presidente non ha cambiato niente. A parte il fatto che siamo sui giornali”.
I momenti privati sono pochi, al mattino e la sera tardi. “Quando sento che è disponibile, faccio domande e gli dico quello che penso”. Si è parlato molto del ruolo che svolge la première dame su alcuni ministeri, a cominciare da quello dell'Istruzione, per ovvie ragioni professionali. “Quando interagisco con i ministri, glielo dico. Lo stesso vale per le mogli degli capi di Stato, le associazioni e le persone che mi mandano messaggi”.
[…]
"In 27 anni che ci conosciamo, non c'è stato giorno in cui non mi abbia sorpreso”, prosegue ancora Brigitte Macron a proposito del giovane marito, rieletto per un secondo mandato nell'aprile 2022. “Non ho mai visto una tale memoria, visiva e uditiva. Una tale capacità di archiviazione intellettuale. Ho avuto tanti studenti molto brillanti, ma nessuno con le sue capacità. L'ho sempre ammirato".
Non appena diventato Presidente, Macron ha deciso di comunicare una serie di missioni ufficiali affidate alla moglie attraverso una «carta di trasparenza» […]
Le missioni svolte dalla première dame sono regolarmente comunicate sul sito dell'Eliseo e poi sottoposte a un periodico controllo della Corte dei Conti. L'anno scorso per lei è stato stanziato lo 0,28% del bilancio della presidenza della Repubblica, pari a 315mila euro, in gran parte per gli stipendi dei suoi consiglieri.
"Era proibito...". La confessione choc di Brigitte Macron sul marito. Storia di Massimo Balsamo si Il Giornale giovedì 16 novembre 2023
La differenza di età, il lato proibito, le problematiche in famiglia. Protagonista della copertina dell’ultimo Paris Match, Brigitte Macron ha parlato senza filtri dell’amore con il presidente della Repubblica francese, senza dribblare le domande sugli aspetti più personali. A partire dai ventiquattro anni di differenza, senza dimenticare il primo incontro a scuola, lei insegnante di letteratura al Liceo cattolico Providence di Amiens e lui studente. “C’era tanta confusione nella mia testa. Al momento della morte di mio padre, fui travolto da un uragano interiore. Per me, un ragazzo così giovane era qualcosa di proibito”, la confessione della première dame, all’epoca sposata e madre di tre figli.
Il primo incontro, poi la conoscenza e la passione. Brigitte ed Emmanuel Macron hanno coltivato la relazione anche dopo la partenza – destinazione Parigi – dell’attuale capo dell’Eliseo: “Pensavo che si sarebbe innamorato di una persona della sua età. Non è successo. Non ho mai più insegnato teatro al liceo La Providence di Amiens”. Travolta dall’amore per il suo giovane amante, la professoressa ha parlato dell’unico vero ostacolo nella sua testa, ossia i suoi figli: “Mi sono presa il mio tempo per non rovinare le loro vite. Ci sono voluti dieci anni, il tempo che ci è voluto per rimettere tutto a posto. Potete immaginare cosa hanno dovuto sentire”.
Nonostante le tante criticità, Brigitte ha creduto in quell’amore proibito, decisa a non mettere da parte la sua vita: “Non so come i miei genitori, che sono stati l'esempio della fedeltà e dell'educazione, avrebbero vissuto il nostro matrimonio”. Oggi il presidente francese e la sua première dame formano una coppia “normale” e in ventisette anni non sono mai venute meno le sorprese, ha aggiunto: “Non ho mai conosciuto qualcuno con una memoria così, con una così grande capacità di archiviazione intellettuale. Ho avuto molti studenti molto brillanti, nessuno di loro aveva le sue capacità. L'ho sempre ammirato”.
Spesso al centro di voci e indiscrezioni giornalistiche sul suo presunto ruolo di potere, Brigitte Macron ha ammesso di esercitare l’influenza che una moglie può avere sul marito: “O è troppa o è nulla. Il fatto che sia presidente non ha cambiato niente. A parte il fatto che siamo sui giornali”. Nel lungo dialogo con il noto media transalpino, l’ex docente ha spiegato che i momenti privati in famiglia sono pochi, principalmente al mattino e la sera tardi. Quando possibile, gli dice quello che pensa: “Quando interagisco con i ministri, glielo dico. Lo stesso vale per le mogli degli capi di Stato, le associazioni e le persone che mi mandano messaggi”.
Estratto dell'articolo di Francesco De Remigis per “il Giornale” giovedì 20 luglio 2023.
Trecentoquindicimilaottocentootto euro. Tanto ha speso Brigitte Trogneux, moglie di Emmanuel Macron, nel 2022: 865 euro al giorno, e cioè la cifra che molti francesi riescono a guadagnare in un mese. Un fiume di denaro pubblico uscito dalle casse di Palazzo, dettagliato nell’ultima relazione della Corte dei Conti: quella (temutissima dagli inquilini dell’Eliseo) sulle spese e sulla gestione dei servizi della presidenza della Repubblica francese in cui si «pesano» i coniugi.
Il conto è salato, e in aumento rispetto all’anno precedente (292.454 euro) e al 2020 (291.826). E ha fatto saltare la mosca al naso ai francesi già alle prese con inflazione e carovita […]Lei, invece, […] non si è fatta problemi ad attingere al «fondo» dell’Eliseo. E tra assistenti, viaggi e serate ha fatto di nuovo infuriare la Francia profonda.
[…] Un francese su tre ha ammesso di non potersi permettere vacanze. È invece emerso che Brigitte si è mossa, e parecchio, lo scorso anno: 14 viaggi ufficiali da first lady, metà all’estero, al seguito del presidente.
Ma si contano pure 16 tappe in Francia della sola Brigitte, in aumento rispetto al 2019, anno di paragone rispetto al biennio Covid. Oltre a viaggi «in treno o in macchina», gran parte delle spese Brigitte l’ha poi destinata alla remunerazione dei dipendenti […]
Dal 2017, quello di première dame non è più un ruolo ufficioso, ma disciplinato dalla «Carta di trasparenza» che attribuisce incarichi: di rappresentanza nei vertici e negli incontri internazionali; risponde alle richieste delle personalità d’Oltralpe e straniere che desiderano incontrarla; sovrintende ai ricevimenti all'Eliseo; sponsorizza eventi di beneficenza[…]
La «Carta» esiste solo da sei anni, ma un’interrogazione all'Assemblée del 2013 consente paragoni anche con chi ha preceduto Brigitte. Con 5 collaboratori, Valérie Trierweiler, compagna di Hollande, fece per esempio sborsare ai francesi «solo» 236.904 euro l’anno; ben al di sotto di Brigitte. Spendacciona fu bollata Carla Bruni: accanto a Sarkoy riuscì a spendere 720mila euro l’anno, tra 8 dipendenti e chi s’occupava del suo sito dall’Eliseo.
Ma per i giudizi contano anche le circostanze. E quella in cui si trova Macron non è favorevole. Il costo della moglie influenza l’opinione pubblica. L’atteggiamento dell’ex insegnante, con i 30 minuti di sport al giorno rivendicati in un’intervista, e la vantata attenzione per costose pratiche salutiste, cardio-training, aerobica e pesi, è quello di una donna privilegiata; mentre nel Paese c’è chi fatica ad arrivare a fine mese. […]
Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 6 gennaio 2023.
Al posto della guglia di Viollet-le-Duc, distrutta durante l'incendio che ha colpito la cattedrale gotica di Notre-Dame de Paris il 15 aprile 2019, una guglia a forma di pene in erezione.
È questo il progetto che Brigitte Macron, la première dame di Francia, avrebbe presentato all'ex ministra della Cultura, Roselyne Bachelot. A raccontare il succoso aneddoto è stata la stessa Bachelot nel libro "682 jours" (Plon), uscito ieri in Francia e consacrato ai due anni da lei trascorsi a rue de Valois, sede del ministero della Cultura (da luglio 2020 a maggio 2022).
Il testo della Bachelot è ricco di storie intriganti sulla macronia, sui vizi e i vezzi dei ministri con cui ha lavorato, ma l'episodio che coinvolge la moglie dell'inquilino dell'Eliseo è sicuramente il più saporito.
«Non mi sono dimenticata della prima riunione della Commissione nazionale dell'architettura e del patrimonio durante la quale affermo, fin dal 9 luglio, che la guglia deve essere ricostruita identica a com' era prima per rispettare la Carta di Venezia», scrive l'ex ministra della Cultura di Macron nel suo libro.
Ma mentre la Bachelot difende con ostinazione il rispetto ossequioso della Carta di Venezia, testo sacro perla conservazione e il restauro del patrimonio monumentale, all'Eliseo il presidente della Repubblica, e soprattutto la sua Signora, hanno altre ambizioni: sognano, parole testuali, «un gesto architettonico moderno».
All'epoca, Macron e il suo entourage sono infastiditi dal carattere indomito della Bachelot, e la accusano di fare tutto di testa propria, senza dialogare con i piani alti. Ma l'ex ministra della Cultura resiste: anzi, rivendica la sua autonomia.
«Non mi pento di quella insubordinazione», dice oggi. Soprattutto quando, pranzando con Brigitte Macron, si è vista presentare un progetto, per il rifacimento della guglia, «che culminava con una sorta di sesso in erezione, con alla base delle palle dorate».
Sì, avete letto bene: al posto della guglia simbolo di Notre-Dame, il «gesto architettonico moderno» sognato dalla première dame era una guglia a forma di pene.
a Bachelot manifestò la sua contrarietà a quel progetto e si oppose anche all'ipotesi di sperimentazioni moderniste all'interno della cattedrale. Il rischio per i parigini e per i turisti di ritrovarsi alla fine dei lavori di fronte a una guglia diversa da quella di Viollet-le-Duc è stato molto alto, ma alla fine è la linea Bachelot ad averla spuntata.
Lo scorso settembre, sono iniziati i lavori di ricostruzione della guglia, e tre giorni fa, a Libération, il responsabile del cantiere Philippe Villeneuve ha dichiarato: «Ritroveremo Notre-Dame de Paris così come l'ha lasciata Viollet-le-Duc».
La Francia riarma, Macron investe 400 miliardi in armi. Basteranno? Marco Valle su Inside Over il 2 Gennaio 2023
In questi giorni all’Eliseo ma anche ai Ministeri della Difesa e delle Finanze vi è molto fermento (e qualche segreto imbarazzo…). Nonostante il clima festivo le riunioni si intrecciano e si sovrappongono senza requie. Entro gennaio il presidente Emmanuel Macron dovrà presentare la nuova “Loi de programmation militare” (LPM), ovvero il piano d’investimenti 2024-2030 per le forze armate transalpine, e sottoporlo a marzo al Parlamento.
Un puzzle complicato. I nuovi scenari bellici ad Est hanno bruscamente interrotto la lunga, sonnacchiosa (e assai sparagnina) routine governativa — un susseguirsi costante di tagli al budget della Difesa con disastrose conseguenze sui mezzi e i sistemi d’arma convenzionali— che tanto aveva fatto brontolare i generali col kepì. Un caso su tutti. Nel luglio 2017 l’allora capo di stato maggiore, il generale Pierre de Villiers, si dimise clamorosamente in aperta polemica con l’appena nominato Macron per protestare contro l’ennesimo colpo basso. Il neo presidente, dimentico delle tante promesse fatte in campagna elettorale, sforbiciò di colpo 850 milioni di euro il già risicato bilancio delle forze armate causando uno scontro durissimo con l’istituzione militare.
Torniamo all’oggi. Il conflitto ucraino, sommato alle difficoltà crescenti nell’ex Africa francese e alla penuria estrema degli arsenali — ormai quasi completamente svuotati dopo anni di lesina e dai troppo generosi aiuti a Kiev —, impone ormai un radicale cambio di paradigma politico e strategico e soprattutto tanti, tantissimi quattrini. Se la Francia vuole restare una potenza militare credibile sono necessari almeno 400 miliardi di euro spalmati su sette anni: cento miliardi e rotti in più della precedente LPM 2019-2025. Un investimento pesantissimo ma già insidiato dall’inflazione, dai costi dell’energia oltre che dalla corsa mondiale agli armamenti. Dunque si prospetta un percorso disseminato d’imprevisti e infinite variabili che costringerà i legislatori a scelte difficili.
Come si legge nella “Revue national stratégique”, il documento preparatorio alla LPM presentato da Macron a Tolone lo scorso 8 novembre, la Francia investirà non solo nelle nuove tecnologie (difesa cibernetica e sicurezza spaziale) ma cercherà di forgiare nuovamente un dispositivo capace di condurre operazioni convenzionali ad alta intensità privilegiando artiglieria e carri armati — drasticamente ridotti nell’ultimo trentennio — e si doterà, alla luce delle lezioni ucraine, di droni d’ultima generazione. Uno sforzo industriale importante che necessita però di munizionamento adeguato e ingenti stock di pezzi di ricambio e, dato non secondario, anzi — di personale più giovane e meglio addestrato. Sul terreno servono soldati giovani e motivati.
Da qui, anche in vista dei Giochi olimpici dell’estate 2024, il bisogno di rimpolpare, raddoppiando i 40 mila effettivi oggi disponibili, i ranghi della Riserva dell’Esercito (CESR) composta da ex militari e destinati per lo più alla sorveglianza del territorio nazionale nell’operazione “Sentinelle” e compiti similari.
A fare le spese della nuova LPM saranno i programmi ritenuti meno urgenti posticipando (o cancellando) la consegna di nuove fregate e sommergibili, di altri jet Rafale e di veicoli blindati leggeri. Ma la vittima più illustre rischia d’essere la tanto attesa nuova portaerei. Gli analisti considerano ormai defunto il progetto PANG — la portaerei di nuova generazione a propulsione nucleare, che doveva sostituire nel prossimo decennio l’ormai acciaccata “Charles de Gaulle” ormai in linea dal 1994 e sempre più spesso ormeggiata in cantiere per continui lavori di manutenzione. Per la vecchia signora dei mari la pensione è sempre più lontana.
MARCO VALLE
Estratto dell'articolo di Marco Palombi per “il Fatto quotidiano” giovedì 24 agosto 2023.
[…] la nuova puntata delle memorie di Nicolas Sarkozy, Le temp des combats, nella parte in cui il condannato per corruzione e traffico di influenza francese parla del pregiudicato per frode fiscale italiano e, segnatamente, di come lui e Angela Merkel – a margine del G20 a Cannes del 3 novembre del 2011, l’autunno dello spread – decisero “di convocare Berlusconi” (sic) per dirgli che doveva dimettersi.
Niente di nuovo, ma è la prima volta che la scena viene descritta da uno dei partecipanti: “Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro.
Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico… L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou (ex premier greco, nda) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami… I mercati hanno capito che noi auspicavamo le sue dimissioni. È stato crudele, ma necessario”.
Com’è noto, il fu Cavaliere si dimise nove giorni dopo. Ora, a parte che fino a che non ha parlato la Bce (luglio 2012) lo tsunami non si era fermato affatto e dunque non era Berlusconi il premio di rischio, come d’altronde non lo era Papandreou, ma non suona un po’ inquietante che i leader di due Paesi pensino di poter “sacrificare” il capo del governo di un Paese terzo, democraticamente indicato a quel ruolo, sulla base di loro (legittime ancorché fallaci) convinzioni?
E non è ancor più inquietante che pensino di poterlo raccontare in pubblico spiegando agli elettori di quel Paese quale ridicola sciarada sia ormai la “sovranità popolare”? Ma soprattutto: ve lo immaginate un premier italiano che dice a un presidente francese che si deve dimettere? Ah no?
La prefazione di Silvio Berlusconi al libro “Berlusconi deve cadere”, di Renato Brunetta (Il Giornale, maggio 2014)
Il sangue è il mio. Il complotto era contro di me. Contro l’Italia, contro la sovranità del popolo italiano che mi aveva scelto con il voto per essere il capo del suo governo. Nel leggere la parola “sangue” ho pensato per un attimo che si fosse trattato proprio di eliminarmi fisicamente. Sarebbe interessante a questo punto sapere i particolari del “piano”.
Obama disse comunque di no, di qualunque cosa si trattasse, come conferma anche un’inchiesta del Financial Times, uscita anch’essa a maggio 2014, che gli fa pronunciare le parole: «I think Silvio is right», penso che Silvio abbia ragione. Grazie. Lo penso ancora.
Avevo ed ho ragione. Non è con l’austerità, non è schiacciando il tallone sul collo della gente che si esce dalla crisi. Soprattutto, il bene della democrazia non è negoziabile, a nessun costo.
Quella volta Obama per due volte disse di no. E il complotto non riuscì. Ma il golpe fu soltanto rimandato. Dovevo essere punito, e con me il popolo italiano che mi aveva scelto.
Era successo che in quell’estate-autunno del 2011, mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fondo monetario internazionale. Non intendevo – anche se lasciato solo dal capo dello Stato – rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale.
Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread.
Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave. Lo prova il fatto che, come ha riconosciuto nell’autunno 2013 il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, la morsa dello spread non si è allentata con l’austerità imposta dal governo Monti, ma solo quando a luglio 2012 Draghi ha promesso che avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per difendere l’euro. Perché queste due parole non sono state pronunciate prima che l’Italia adottasse le riforme di Monti, ingiuste e rabberciate?
Questi ulteriori elementi di prova confermano in modo indiscutibile l’intuizione che il professor Renato Brunetta mi espose sin da allora, e che documenta con una narrazione stringente in queste pagine: e che cioè l’Italia sia stata oggetto, attraverso lo spread e ricatti finanziari di ogni genere, ad un “grande imbroglio” e che Mario Monti fosse il terminale di interessi che poco avevano a che fare con l’interesse nazionale.
I primi mesi del 2014 hanno visto la fioritura di una serie di testimonianze convergenti.
Sin dal giugno del 2011, quando ancora lo spread era ai minimi, Mario Monti era già stato oggetto di un profetico sondaggio da parte del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, così che si tenesse pronto al gran salto a Palazzo Chigi.
Lo ha confessato lo stesso Monti ad Alan Friedman, e lo hanno confermato al medesimo giornalista americano Carlo De Benedetti e Romano Prodi. Addirittura Corrado Passera – si viene a sapere – aveva confezionato un programma economico ad uso di Mario Monti sin da quell’estate. Già nel novembre del 2013, l’ex premier spagnolo Luis Zapatero, nel suo libro Il Dilemma, aveva raccontato che Monti era stato di fatto nominato premier durante il G20 di Cannes da Merkel, Sarkozy, dai burocrati di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale.
La stessa cosa venne confermata poi da Lorenzo Bini Smaghi, allora alla BCE, nel suo libro Morire d’austerità. Brunetta racconta i fatti del 2011 con dovizia di particolari inediti, ma va oltre. E documenta come il colpo di Stato, non pienamente portato a compimento con Monti, abbia poi trovato il suo coronamento con la mia estromissione dal Senato e con la mia incandidabilità per 6 anni. Un’infamia perseguita sulla base di una legge ambigua, applicata retroattivamente a seguito di una condanna infondata e ingiusta (e che sono sicuro sarà capovolta dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo e dalla revisione del processo).
Come si vede gli elementi sono troppi per fingere non sia accaduto nulla di anomalo, e che la democrazia italiana abbia avuto un andamento ligio alla Costituzione. Sono stupefatto che, dinanzi a questa sequenza di avvenimenti per lo meno strana, nessuna procura abbia – almeno nel momento in cui scrivo queste righe – aperto alcun fascicolo con scritto sopra “Estate - autunno 2011: Attentato alla Costituzione”.
Quello che è successo è davvero troppo grave per non determinare conseguenze giudiziarie, perché, oltre ad aver colpito il sottoscritto, ha causato due fatti gravissimi: la sospensione della democrazia nel nostro Paese e l’accettazione supina da parte dei governi venuti dopo il mio delle politiche imposte dall’Europa che hanno prodotto per tanti italiani disoccupazione, tasse, impoverimento e disperazione. Si sta ora discutendo di riforme istituzionali. Direi però che la prima riforma deve essere il ripristino della democrazia. Da quel 2011 in Italia non ci sono più presidenti del Consiglio e governi eletti dai cittadini. La prima riforma dunque deve essere quella di riconoscere la verità e di rimediare ai torti che l’Italia ha subito.
La verità di Sarkozy. «Io e Angela Merkel chiedemmo a Silvio di dimettersi». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2023.
Cannes, 3 novembre 2011, vertice del G20. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel cercano di convincere Silvio Berlusconi «a lasciare la guida del governo». Cosa che poi avverrà pochi giorni dopo, il 12 novembre. Sarkozy aveva già raccontato questo passaggio cruciale. Ma non nei termini e con i particolari ripresi nel suo libro, «Le temps des combats», il tempo delle battaglie, in uscita oggi in Francia, per l’editore Frayard.
L’ex presidente si dice «rattristato per la scomparsa di Berlusconi», poi ricostruisce gli eventi, partendo dal 26 aprile 2011, quando arriva a Roma per un bilaterale franco-italiano. In quell’occasione si mescolano i giudizi su Berlusconi e su Mario Draghi. Scrive Sarkozy: «Le nostre relazioni avevano iniziato a peggiorare. Berlusconi stava diventando la caricatura di se stesso. L’imprenditore brillante, l’uomo politico dall’energia indomabile, non era più che un lontano ricordo. Il triste episodio del “Bunga-Bunga” aveva annunciato una fine poco gloriosa...Ho approfittato di quel viaggio romano per sostenere la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea… Draghi era competente, aperto e simpatico… La sua lunga collaborazione con Goldman Sachs ci avrebbe garantito un approccio più “americano” che “tedesco”. Aspetto decisivo ai miei occhi».
Sarkozy ricorda la micidiale crisi finanziaria, alimentata dalla sfiducia delle Borse. L’allarme in Europa era generale. In questo clima si arriva a novembre, al G20 di Cannes. Anche il presidente americano Barack Obama e il leader cinese Hu Jintao «erano molto preoccupati».
Il summit si era occupato del collasso greco, ma, nota Sarkozy, «a questo punto si trattava di salvare la terza economia dell’eurozona: l’Italia». I tassi di interesse sul debito pubblico avevano raggiunto il 6,4%, un livello considerato insostenibile.
«Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto». Il premier italiano «cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante».
L’incontro diventò sempre più aspro, nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera «con qualche battuta delle sue», che Sarkozy giudicò «completamente fuori luogo».
Epilogo drammatico: «Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro. Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico...L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreu (all’epoca premier greco) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami...I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario».
Fi insorge contro il libro di Sarkozy. Storia di Matteo Marcelli su Avvenire martedì 22 agosto 2023.
Forza Italia insorge contro le rivelazioni dell’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, colpevole di aver infangato la memoria dell’amato fondatore con la sua recente autobiografia, Le temps des combats, da due giorni disponibile nelle librerie d’oltralpe. In effetti il ritratto di Silvio Berlusconi che ne esce fuori non è dei migliori. In particolare per quanto riguarda il racconto di quel terribile 2011, l’anno della caduta più fragorosa dell’ex premier. Sarkò scrive di un Cav. ormai diventato «la caricatura di se stesso», rievoca la triste vicenda del “bunga-bunga”, e rivela un particolare scottante sulla fine del governo italiano dell’epoca: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto», lui «cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto era abbastanza delirante». Poi le parole più dure: «Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico…L’ora era grave. È stato crudele, ma necessario».
Davvero troppo per gli azzurri, per giunta a soli due mesi dalla scomparsa del “presidente per sempre”. «Berlusconi rispetto a Sarkozy ha saputo resistere sulla scena più a lungo, molto più apprezzato e rispettato – è la replica di Maurizio Gasparri –. Sarkozy riversa in questi suoi scritti il livore di un politico fallito». Per Licia Ronzulli invece il libro dell’ex inquilino dlel’Eliseo non è la prova «che la caduta del governo Berlusconi fu il risultato di un complotto internazionale contro l'Italia e gli italiani, di cui egli fu protagonista per sua stessa ammissione, con ben note complicità nel nostro Paese, anche di alto livello». «Sono scritti da chi ha vissuto una parabola discendente fino a scomparire del tutto – chiosa caustico il capogruppo di Forza Italia al Parlamento europeo, Fulvio Martusciello –, ed ora con il libro punta a sbarcare il lunario».
Sarkozy, la reazione di Forza Italia al libro: "Livore di un politico fallito". Il Tempo il 22 agosto 2023
Come era prevedibile la biografia dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha scatenato il dibattito anche in Italia vista l’ammissione del suo ruolo nel "complotto" che portò alla caduta del governo Berlusconi. Da Forza Italia non si sono fatte attendere le reazioni. Licia Ronzulli, presidente dei senatori forzisti, si è chiesta se «Sarkozy avrà dedicato spazio anche alle beghe giudiziarie che lo riguardano tuttora. Invece di denigrare e offendere un grande leader come il presidente Berlusconi che oggi non è più fra noi e non può difendersi».
Maurizio Gasparri, senatore di FI, ha dichiarato: «Sarkozy riversa in questi suoi scritti il livore di un politico fallito, sconfitto sul piano del consenso e sul piano morale. Con queste sue ricostruzioni conferma il suo scarso valore. Aveva illuso tanti, è un fallimento clamoroso».
Per Maria Tripodi, sottosegretario agli Esteri, in una nota ha scritto: «Ci sono leader che rimangono nella storia, altri di cui si dimentica a volte persino il nome. Il signor Sarkozy è probabilmente in cerca di gloria postuma, riscrive gli eventi in maniera grossolana e approssimativa, al limite dell’insulto».
Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto dà una testimonianza di quei giorni convulsi: «Ero ministro in quel governo, considero quella una brutta pagina, non penso che altri governi possano incidere o determinare la caduta di un governo sovrano eletto dal proprio Paese a prescindere non va bene». Anche Maurizio Lupi c’era in quel governo 2011. «Ero vicepresidente della Camera, quella notte eravamo tutti col presidente Berlusconi a Palazzo Grazioli quando prese la decisione di dimettersi; lo avevamo detto: c’era un clima internazionale che spingeva in quella direzione e oggi quelle rivelazioni confermano ovviamente quanto dicevamo noi in quel momento».
Per Tullio Ferrante, deputato di Forza Italia e sottosegretario alle Infrastrutture, «occorre qualche precisazione». Va chiarito «che le sue dimissioni (Berlusconi) non furono dettate dai poco diplomatici ed eleganti sorrisini suoi e della cancelliera Merkel o da presunte opere di convincimento dagli stessi esercitate, ma da un gesto di concordia nazionale che Silvio Berlusconi fu costretto a fare a fronte di un ampio blocco istituzionale, politico, economico/finanziario, mediatico che, non avendolo sconfitto nelle urne, provò a farlo con una manovra spericolata, aiutato da pericolosi speculatori con la minatoria leva dello spread, che si concluse con un poco onorevole governo tecnico».
La vera storia del golpe che fermò Berlusconi nel 2011
Per descrivere la catena di eventi che nel 2011 portarono alla caduta del governo Berlusconi c’è un pamphlet scritto nel 1931 da Curzio Malaparte che calza a pennello, perché spiega lucidamente la tecnica di prendere il potere: con la nomina-lampo a senatore a vita, Monti poté infatti legittimarsi come espressione dello stesso Parlamento in cui era stato paracadutato da Napolitano, e così il massimo tempio della sovranità popolare divenne complice del disegno quirinalizio, accettando il fatto compiuto e legalizzandolo formalmente. Il tutto giustificato dallo «stato di necessità».
Se non fu un golpe nel senso tradizionale del termine, con i militari nelle piazze, si trattò comunque di un colpo di Stato moderno di cui la storia è colma, ma nella democraticissima Europa non era mai accaduto che un governo eletto – traballante ma mai sfiduciato dalle Camere - fosse destituito così, attraverso una congiura combinata tra attori interni ed ingerenze straniere: dal punto di vista costituzionale, una cosa gravissima.
Sono le rivelazioni contenute nel nuovo libro di Nicolas Sarkozy, "Le temps des combats", a confermare che la congiura ci fu, con l’Italia condannata a seguire il destino della Grecia attraverso una studiata combinazione di manovre politiche e di tempeste finanziarie, attraverso l’uso sapiente degli spread, per imporre ai due Paesi l’austerità a trazione franco-tedesca. Ma mentre il governo socialista di Atene aveva truccato i conti dello Stato, in tre anni e mezzo il governo Berlusconi aveva varato quattro manovre finanziarie per un impatto complessivo sui conti pubblici, nel periodo 2008-2014, di 265 miliardi, con l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, come attestato dalle considerazioni finali di Bankitalia del 31 maggio: «La gestione della crisi è stata prudente, il pareggio di bilancio appropriato, la correzione richiesta all’Italia inferiore rispetto a quella necessaria per altri Paesi». E lo stesso tipo di considerazioni positive ci fu a fine luglio 2011, nel consiglio dei capi di Stato e di governo europei. Ma una settimana dopo arrivò la lettera-diktat della Bce che ordinava al governo italiano di varare, per decreto, una manovra bis da 65 miliardi che si sommava a quella da 80 miliardi decisa appena un mese prima. Com’era possibile che un grande Paese come l’Italia (too big to fail) fosse precipitato nel giro di pochi giorni in una crisi così profonda?
Eppure Sarkozy accomuna incredibilmente la situazione dei due Paesi: «L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami [...]I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario». E ancora: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto», cercando di convincerlo «a lasciare la guida del governo». In realtà, i governi affidati nelle mani di due tecnocrati non abbassarono affatto la febbre degli spread, e la crisi sarebbe stata superata solo nel 2012 col famoso "Whatever it takes" della Bce di Draghi.
La ricostruzione di quei mesi è nota, con il Quirinale sempre più interventista nella politica parlamentare, e con una serie impressionante di anomalie: le consultazioni continue al Colle, le lettere e i richiami della Bce e della Commissione europea scritti da manine italiane, l’attacco speculativo ai titoli Mediaset, la frettolosa vendita di sette miliardi di titoli di Stato da parte di Deutsche Bank, le risatine della Merkel e di Sarkozy diffuse e amplificate dai media italiani e stranieri.
Fu poi il Wall Street Journal a scrivere che la cancelliera Merkel «incoraggiò gentilmente» Napolitano «a cambiare il primo ministro se Berlusconi non fosse riuscito a cambiare l’Italia». Tesi poi confermata dall’ex segretario al Tesoro americano Tim Geithner, il quale, nel suo libro di memorie, rivelò di quando «alcuni funzionari europei» chiesero senza successo all’amministrazione Obama di impegnarsi per far uscire Berlusconi di scena. Nel frattempo sul Corriere della Sera usciva un editoriale intitolato "Il podestà straniero" scritto da Mario Monti che censurava l’incapacità del governo di prendere serie decisioni. Un’autocandidatura a premier già di fatto concordata col Quirinale prima ancora che esplodesse lo spread.
Ma il golpe strisciante aveva radici più lontane, ed era stato sventato nel dicembre precedente quando Fini dopo la scissione con Fli tentò la spallata al governo fallita grazie ai Responsabili, e chi frequentava i Palazzi conosceva bene la sintonia fra il Quirinale e il presidente della Camera. Il quale, come altri, non vedeva l’ora di disarcionare Berlusconi nell’illusione di prenderne il posto, senza sapere che Napolitano aveva in mente la svolta tecnica.
Lo sparo di Sarajevo fu il voto sul rendiconto dello Stato, nel quale la maggioranza si fermò a 308 voti, con Berlusconi che annotò su un foglietto gli «otto traditori». Ma i malpancisti erano molti di più dentro Forza Italia, e gli echi del vertice di Cannes del 3 novembre, solo qualche giorno prima, avevano alimentato le fibrillazioni.
A livello internazionale l’immagine di Berlusconi era stata compromessa dai gossip personali, ma anche dalle fregole di qualche suo ministro che ne diceva peste e corna nei consessi oltre confine.
A Palazzo Grazioli il clima era di massima allerta, con lo stato maggiore del partito riunito quasi in permanenza. Quando Napolitano chiamò Berlusconi per informarlo della volontà di nominare Monti senatore a vita, non tutti compresero subito che quello era il segnale della fine. Si alzò però una voce concitata che disse: «Presidente, cosa ci stai dicendo, capisci che questo è il primo passo per farti fuori? Il Colle ti sta chiedendo di accettare un senatore a vita nominato in 48 ore, il Ppe che è casa nostra lo sta benedicendo, questo è un golpe vero e proprio». Berlusconi era molto provato, ma non voleva assolutamente mollare: Napolitano aveva chiesto un nuovo voto sul rendiconto, una verifica parlamentare della maggioranza insomma, ma nessuno era in grado di garantire al premier – che chiedeva se ci fossero numeri certi alla Camera – il rientro nei ranghi dei malpancisti. Da fuori la spinta di Merkel e Sarkozy era fortissima, come quella delle agenzie di rating e dei mercati finanziari. Nel cerchio ristretto berlusconiano cominciava a farsi spazio la rassegnazione e serpeggiavano i dubbi: ma i nostri all’Europarlamento cosa fanno? Chi tiene i contatti col Partito Popolare non si è accorto di nulla, non ha visto che Doll sta orchestrando il complotto? Gli sono passati gli aeroplani sopra la testa? Anche se Berlusconi aveva assicurato a tutti di aver risposto colpo su colpo a Merkel e Sarkozy, Gianni Letta era il più preoccupato di tutti per l’atteggiamento ostile della strana coppia che comandava l’Europa che ormai riteneva il Cavaliere «imbarazzante». Mentre Brunetta rumoreggiava chiedendo di rispondere in modo durissimo alla lettera della Bce.
Alla fine Berlusconi gettò la spugna e si dimise: «Era successo – avrebbe rivelato anni dopo - che in quell’estate-autunno 2011 mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Merkel e Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fmi. Non intendevo - anche se lasciato solo dal capo dello Stato - rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread. Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave».
Eccola la vera storia. Una storia da tecnica di colpo di Stato, in cui ebbero un ruolo cancellerie, poteri forti, avversari politici ma anche amici che si voltarono dall’altra parte.
Sarkozy, la prova del golpe anti-Cav: "Così lo abbiamo fatto dimettere". Roberto Tortora su Libero Quotidiano il 22 agosto 2023
Per Nicolas Sarkozy è “Il Tempo delle Battaglie”, il che non significa che ritorna a candidarsi alla presidenza della Francia, bensì che esce il suo nuovo libro, edito da Frayard, che s’intitola appunto “Le temps des combats”. E sono tante le rivelazioni in esso contenute, una su tutte che riguarda l’Italia e Silvio Berlusconi, recentemente scomparso. Cannes, 3 novembre 2011, vertice del G20: l’ex-premier francese e Angela Merkel cercano di convincere Silvio Berlusconi "a lasciare la guida del governo". Cosa che poi avverrà pochi giorni dopo, il 12 novembre. Sarkozy racconta l’evolversi della vicenda, a partire dal 26 Aprile 2011, quando arriva a Roma per un bilaterale franco-italiano: “Le nostre relazioni avevano iniziato a peggiorare. Berlusconi stava diventando la caricatura di se stesso. L’imprenditore brillante, l’uomo politico dall’energia indomabile, non era più che un lontano ricordo. Il triste episodio del “Bunga-Bunga” – racconta Sarkozy - aveva annunciato una fine poco gloriosa...Ho approfittato di quel viaggio romano per sostenere la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea… Draghi era competente, aperto e simpatico… La sua lunga collaborazione con Goldman Sachs ci avrebbe garantito un approccio più “americano” che “tedesco”. Aspetto decisivo ai miei occhi”.
Sarkozy ricorda la micidiale crisi finanziaria e l’allarme in Europa era generale. Anche il presidente americano Barack Obama e il leader cinese Hu Jintao erano preoccupati. Il G20 di Cannes si era occupato del collasso greco, ma, sempre su rivelazioni del marito di Carla Bruni, “a questo punto si trattava di salvare la terza economia dell’eurozona: l’Italia”. Da lì, l’iniziativa con l’ex-cancelliera tedesca su Berlusconi: “Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto. Il premier italiano cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante. L’incontro diventò sempre più aspro – racconta Sarkozy - nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera con qualche battuta delle sue, completamente fuori luogo”.
Fino all’epilogo drammatico: “Ci fu tra di noi un momento di grande tensione, quando ho dovuto spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela e io eravamo convinti che era diventato il premio per il rischio che il Paese doveva pagare ai sottoscrittori dei titoli del Tesoro. Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico...L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreu (all’epoca premier greco) e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami...I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario”. Se questa non è la prova di un golpe...
Estratto dell’articolo di Mauro Zanon per “Libero Quotidiano” mercoledì 23 agosto 2023.
A Parigi non si parla d’altro in questa estate che volge al termine: Le Temps des combats (Fayard), il nuovo libro di Nicolas Sarkozy, opera fiume di 592 pagine dove l’ex presidente della Repubblica francese ripercorre i suoi anni all’Eliseo (2007-2012), distribuendo voti, giudizi e cattiverie ai leader politici che ha incrociato […]
Il volume, corredato da una raccolta di fotografie pubbliche e private dell’ex inquilino dell’Eliseo, è il terzo tomo dei suoi mémoires, dopo Passions e Le Temps des tempêtes, ed è ricco di aneddoti saporiti. Come quel terribile pranzo all’Eliseo con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, con cui non era d’accordo su nulla, sotto lo sguardo costernato dei diplomatici francesi.
O come le sue sbuffate ripetute verso Angela Merkel, di cui critica la «pusillanimità» e l’avversione al rischio. «Accettava di seguire, ma era soltanto una perdita di energia e di tempo», scrive Sarkozy, che con la cancelliera si era reso protagonista di uno degli episodi più infelici del suo mandato, le risatine su Berlusconi e l’affidabilità del suo governo. […]
Nel novembre 2020, l’ex presidente americano Barack Obama aveva emesso un giudizio sprezzante contro il suo omologo francese, definendolo «un galletto che gonfia il petto» e niente più, paragonandolo a «un personaggio uscito da un quadro di Toulouse-Lautrec».
Sarkozy, […]evidentemente ancora risentito dal comportamento obamiano, ha definito il premio Nobel per la pace 2009 un tipo «freddo, introverso e che manifesta uno scarso interesse verso tutti quelli che lo attorniano», e descritto nel dettaglio il loro rapporto a mezze tinte, rievocando tra gli altri l’episodio della designazione del danese Anders Fogh Rasmussen come nuovo segretario generale della Nato.
La decisione di nominare Rasmussen, all’epoca, rischiò di saltare a causa della Turchia, indispettita dalla pubblicazione delle caricature di Maometto sul Jyllands-Posten in Danimarca. «Quell’episodio mi ha aiutato ad aprire gli occhi sull’importanza che gli americani davano alla Turchia, e fino a che punto erano pronti ad aiutare il loro amico (Recep Tayyip Erdogan, ndr).
Barack Obama era disposto a cedere o quantomeno... a lasciar passare un po’ di tempo. Io e Angela Merkel ci siamo opposti con un fronte unito fino a tarda notte perché eravamo certi che fosse una questione di civiltà dalla portata simbolica. Né lei né io eravamo disposti a cedere alla minaccia. Rinunciare a quella nomina significava accettare il diktat delle fatwa. Il campo della ragione ebbe la meglio», scrive Sarkozy nelle sue memorie.
Secondo l’ex presidente francese, le relazioni con Obama, che già non erano eccellenti, si degradarono dopo quell’episodio. «Da quel giorno, i miei rapporti con Obama non furono più gli stessi. Facevo fatica a perdonargli una tale mancanza di convinzione su un tema così grave», afferma Sarkò.
Condannato in appello a tre annidi prigione per corruzione e abuso d’ufficio lo scorso maggio, fatto senza precedenti per un presidente della Repubblica francese, Sarkozy si è espresso anche sulla guerra in Ucraina, dicendo che la Francia sbaglia a consegnare «armi a flusso continuo a uno dei belligeranti» e prendendo di mira «le posture di convenienza» di quelli che invitano a sostenere l’Ucraina «fino alla fine».
«È ragionevole fare la guerra senza farla e portare avanti un conflitto senza preoccuparsi di precisare quali sono gli obiettivi che si cerca di raggiungere?», si interroga Sarkò, giudicando illusorio qualsiasi passo indietro sul piano territoriale, che si tratti della Crimea e del Donbass.
[…] E Marine Le Pen? «Ha fatto molti progressi e conosce meglio i suoi dossier», ma secondo Sarkozy soffre ancora di una «mancanza di cultura».
Berlusconi, "chi e perché mi ha fatto fuori". L'atto di accusa del 2014. Silvio Berlusconi su Libero Quotidiano il 24 agosto 2023
Pubblichiamo la prefazione di Silvio Berlusconi al libro di Renato Brunetta Berlusconi deve cadere (Il Giornale, maggio 2014) nel quale racconta i momenti che hanno preceduto le sue dimissioni da premier nel 2011.
Il sangue è il mio. Il complotto era contro di me. Contro l’Italia, contro la sovranità del popolo italiano che mi aveva scelto con il voto per essere il capo del suo governo. Nel leggere la parola “sangue” ho pensato per un attimo che si fosse trattato proprio di eliminarmi fisicamente. Sarebbe interessante a questo punto sapere i particolari del “piano”. Obama disse comunque di no, di qualunque cosa si trattasse, come conferma anche un’inchiesta del Financial Times, uscita anch’essa a maggio 2014, che gli fa pronunciare le parole: «I think Silvio is right», penso che Silvio abbia ragione. Grazie. Lo penso ancora. Avevo ed ho ragione. Non è con l’austerità, non è schiacciando il tallone sul collo della gente che si esce dalla crisi. Soprattutto, il bene della democrazia non è negoziabile, a nessun costo. Quella volta Obama per due volte disse di no. E il complotto non riuscì. Ma il golpe fu soltanto rimandato. Dovevo essere punito, e con me il popolo italiano che mi aveva scelto.
NO ALL’AUSTERITÀ
Era successo che in quell’estate-autunno del 2011, mi ero opposto in ogni modo alla politica di austerità che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fondo monetario internazionale. Non intendevo – anche se lasciato solo dal capo dello Stato – rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread. Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave. Lo prova il fatto che, come ha riconosciuto nell’autunno 2013 il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, la morsa dello spread non si è allentata con l’austerità imposta dal governo Monti, ma solo quando a luglio 2012 Draghi ha promesso che avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per difendere l’euro. Perché queste due parole non sono state pronunciate prima che l’Italia adottasse le riforme di Monti, ingiuste e rabberciate?
Questi ulteriori elementi di prova confermano in modo indiscutibile l’intuizione che il professor Renato Brunetta mi espose sin da allora, e che documenta con una narrazione stringente in queste pagine: e che cioè l’Italia sia stata oggetto, attraverso lo spread e ricatti finanziari di ogni genere, ad un “grande imbroglio” e che Mario Monti fosse il terminale di interessi che poco avevano a che fare con l’interesse nazionale. I primi mesi del 2014 hanno visto la fioritura di una serie di testimonianze convergenti. Sin dal giugno del 2011, quando ancora lo spread era ai minimi, Mario Monti era già stato oggetto di un profetico sondaggio da parte del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, così che si tenesse pronto al gran salto a Palazzo Chigi.
I SONDAGGI DEL COLLE
Lo ha confessato lo stesso Monti ad Alan Friedman, e lo hanno confermato al medesimo giornalista americano Carlo De Benedetti e Romano Prodi. Addirittura Corrado Passera – si viene a sapere – aveva confezionato un programma economico ad uso di Mario Monti sin da quell’estate. Già nel novembre del 2013, l’ex premier spagnolo Luis Zapatero, nel suo libro Il Dilemma, aveva raccontato che Monti era stato di fatto nominato premier durante il G20 di Cannes da Merkel, Sarkozy, dai burocrati di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. La stessa cosa venne confermata poi da Lorenzo Bini Smaghi, allora alla BCE, nel suo libro Morire d’austerità. Brunetta racconta i fatti del 2011 con dovizia di particolari inediti, ma va oltre. E documenta come il colpo di Stato, non pienamente portato a compimento con Monti, abbia poi trovato il suo coronamento con la mia estromissione dal Senato e con la mia incandidabilità per 6 anni. Un’infamia perseguita sulla base di una legge ambigua, applicata retroattivamente a seguito di una condanna infondata e ingiusta (e che sono sicuro sarà capovolta dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo e dalla revisione del processo). Come si vede gli elementi sono troppi per fingere non sia accaduto nulla di anomalo, e che la democrazia italiana abbia avuto un andamento ligio alla Costituzione. Sono stupefatto che, dinanzi a questa sequenza di avvenimenti per lo meno strana, nessuna procura abbia – almeno nel momento in cui scrivo queste righe – aperto alcun fascicolo con scritto sopra “Estate - autunno 2011: Attentato alla Costituzione”. Quello che è successo è davvero troppo grave per non determinare conseguenze giudiziarie, perché, oltre ad aver colpito il sottoscritto, ha causato due fatti gravissimi: la sospensione della democrazia nel nostro Paese e l’accettazione supina da parte dei governi venuti dopo il mio delle politiche imposte dall’Europa che hanno prodotto per tanti italiani disoccupazione, tasse, impoverimento e disperazione. Si sta ora discutendo di riforme istituzionali. Direi però che la prima riforma deve essere il ripristino della democrazia. Da quel 2011 in Italia non ci sono più presidenti del Consiglio e governi eletti dai cittadini. La prima riforma dunque deve essere quella di riconoscere la verità e di rimediare ai torti che l’Italia ha subito.
Tradimenti e lezioni. In questo Paese il libro di un generale ha scandalizzato molti benpensanti, ma se c'è un libro che dovrebbe turbare tutti gli italiani, o almeno quelli animati da un minimo di patriottismo (e non credo di sconfinare nella retorica), sono le memorie dell'ex presidente francese, Nicolas Sarkozy. Augusto Minzolini il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
In questo Paese il libro di un generale ha scandalizzato molti benpensanti, ma se c'è un libro che dovrebbe turbare tutti gli italiani, o almeno quelli animati da un minimo di patriottismo (e non credo di sconfinare nella retorica), sono le memorie dell'ex presidente francese, Nicolas Sarkozy. L'illustre personaggio, che prese soldi da Gheddafi e scatenò una guerra per non restituirli, regalandoci quella terra di nessuno che è la Libia di oggi, racconta come se fosse il comportamento più lecito del mondo che al G20 di Cannes del novembre 2011 lui e la Merkel «convocarono» l'allora premier Silvio Berlusconi per chiedergli di «dimettersi» visto che, secondo entrambi, il problema della crisi sui mercati «era lui». Naturalmente uno degli argomenti, scrive Sarkozy, fu la vicenda del «bunga bunga», per la quale il Cav - qui la memoria dell'ex presidente fa cilecca, forse per via del braccialetto elettronico a cui la giustizia francese lo ha sottoposto - poi fu assolto.
Sarkò e la Merkel dovrebbero vergognarsi, visto che quello è stato il momento più basso toccato dall'Unione. Anzi, è l'emblema del motivo per cui l'Europa stenta a decollare: la totale assenza di solidarietà (a parte la breve parentesi del Covid). Unita, in quell'occasione, ad una concezione della democrazia e del rispetto della volontà popolare da brivido: è come se oggi la Meloni e il cancelliere Scholz convocassero Macron al prossimo G7 in Puglia per intimargli di dimettersi per sedare le rivolte sociali in Francia.
Colpiscono la superficialità e la tracotanza con cui Sarkozy rivendica pubblicamente quella scelta, specie se si tiene conto che in quei giorni, quando i due, il gatto e la volpe, chiesero per vie traverse al presidente Usa Barack Obama di unirsi al complotto, ricevettero un «no» scandalizzato e categorico: «Non possiamo avere il sangue di Berlusconi sulle nostre mani». Una concezione diversa della democrazia. Del resto, al tempo, mentre a Washington si predicava la politica dello sviluppo per uscire dalla crisi, in Europa, grazie a Berlino e Parigi, si praticava il credo del rigore. Anzi, addirittura si individuarono due capri espiatori, la Grecia e l'Italia. Al punto che i tedeschi sponsorizzarono quella specie di «viceré» che fu Mario Monti per imporre la loro linea. E pensare che se il whatever it takes di Draghi fosse stato messo in atto un anno prima, l'Europa non avrebbe pagato, com'è avvenuto, cara la crisi. Una dimostrazione dei limiti della classe dirigente della Ue.
Ma le rivelazioni di Sarkò mettono sotto i riflettori anche i limiti della sinistra italiana, che all'epoca assunse il ruolo di quinta colonna del complotto (vedi l'inquilino del Quirinale di quegli anni), mettendo in atto una campagna di delegittimazione del governo e di Berlusconi. L'apoteosi di quel limite della sinistra che il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, lamenta ancora oggi per il tipo di opposizione praticata nei confronti del governo Meloni: «La fatica ad abbracciare il patriottismo». Ormai stiamo parlando di storia, ma quelle vicende vanno ricordate per rispetto al personaggio Berlusconi, perché da lì partì il suo calvario. E con un occhio anche al presente, per evitare che quell'attentato alla democrazia e quello sfregio alla volontà popolare si ripetano.
La via obbligata verso la Francia. Marco Gervasoni il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.
Poniamoci subito un interrogativo scomodo. Siamo sicuri che, quel che accadde nell'autunno 2011, raccontato dal libro di memorie di Nicolas Sarkozy, non potrebbe succedere ancora? Cioè che il presidente francese e il cancelliere tedesco non domandino più a un premier italiano di lasciare? La formula, usata dall'ex presidente francese, «chiedemmo a Berlusconi di dimettersi», è infatti diplomatica; è molto probabile che Francia e Germania imposero al Cavaliere di rimettere l'incarico. Naturalmente, essi si permisero una tale forzatura, perché sapevano che la maggioranza era stata pesantemente falcidiata dall'azione del presidente della Camera, Gianfranco Fini. E perché la zona euro era sull'orlo del collasso. Si tratta, quindi, di un fatto assai grave, ma la cui eccezionalità farebbe pensare che non possa mai più accadere. E invece, su questo, non saremmo del tutto certi. Per una serie di ragioni. La prima, per come si è costituita storicamente l'Europa: in essa l'Italia, nonostante la sua importanza e il suo essere tra i fondatori nel 1957, riveste un ruolo di secondo piano. Giocano fattori storici: abbiamo perso la seconda guerra mondiale, come la Germania, certo, che però ha saputo costruire un sistema paese coeso e inattaccabile, sul piano dei fondamentali economici e finanziari: l'Italia invece, dopo la breve parentesi degli anni Cinquanta e Sessanta, è riprecipitata nella maledizione storica del debito pubblico e della eterna conflittualità interna. La seconda, per fattori geopolitici: Germania e Francia costituiscono spazialmente il centro dell'Europa, quello che confina idealmente da un lato con il blocco atlantico inglese e poi anglo americano e ad est con quello eurasiatico, costituito da Russia e, nel XX secolo, Cina. L'Italia insomma, già nell'Ottocento, nonostante i sogni e, a volte, i deliri di grandezza imperiali della classe politica post risorgimentale, è sempre rimasta una media potenza. Tutto questo per dire che la storia, la geografia e l'economia, ci rendono un attore debole all'interno della Ue, e soprattutto »continuamente attaccabile per via dell'abnorme debito pubblico. Un attore che, per forza di cose, ha dovuto aggiornare nella Ue la pratica dei cosiddetti giri di valzer della diplomazia dei primi decenni post unitari: a volte ballando con la Germania, a volte con la Francia. Quando prevale l'asse franco-tedesco, come si vide nell'autunno 2011, per noi sono dolori. Ora, di fronte alla nuova versione del «patto di stabilità», l'unica possibilità che il nostro paese ha di non essere stritolato, è quello di ballare questo giro con la Francia di Macron. È questo il senso del Patto dell'Eliseo, voluto dal presidente della Repubblica e da Mario Draghi, proprio perché consci che solo uno stretto rapporto con Parigi consentirebbe all'Italia di non finire nelle maglie dell'austerità tedesca.
La Francia non ha ovviamente i nostri stessi problemi, non cade sulle sue spalle lo stesso nostro debito pubblico ma, per citare il primo ministro di Sarkozy, Fillon, è pure «uno Stato in fallimento», come egli ammise candidamente da Matignon proprio nel novembre 2011. E più volte l'attuale ministro della Economia, Le Maire, anch'egli ex uomo di Sarko, ha mosso critiche al nuovo patto di stabilità sub specie tedesca e nordica. Insomma, questa è una porta stretta, ma l'unica da cui però passare.
"Quella grave interferenza che trovò complici interni". Il ministro degli Esteri e leader Fi: «Molte imprecisioni nel racconto di Sarkozy, irrispettoso verso Berlusconi». Gabriele Barberis il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
«Oggi mi sono dedicato alla famiglia a Fiuggi», confida Antonio Tajani tra la presentazione del libro di Andrea Riccardi a Fondi e la trasferta odierna in Emilia Romagna per partecipare al Meeting di Rimini e poi visitare le zone alluvionate a Forlì. Ma per il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia la giornata di relax è stata guastata dalle memorie velenose dell'ex presidente francese Sarkozy, che si è vantato di avere fatto cadere il governo Berlusconi nel 2011. Tajani all'epoca era commissario Ue all'Industria e già uno dei maggiorenti del Ppe. È una vicenda che ha vissuto da protagonista delle relazioni internazionali e che desidera ricostruire in questa intervista al Giornale.
La confessione tardiva del vostro ex alleato gollista è una ricostruzione molto velenosa nei confronti di Berlusconi. Quali sentimenti suscita in lei quasi dodici anni dopo?
«Mi pare ci siano due fatti gravi. Il primo: in democrazia un Paese non può interferire nella vita di un altro, per lo più amico e alleato, per modificarne il governo. Che diritto aveva Sarkozy di fare dimettere il presidente del Consiglio italiano? Fu un'operazione scorretta e illegittima. Come seconda conseguenza, fare cadere un esecutivo riconducibile al Ppe ha significato aprire le porte agli avversari in Italia».
E nel merito della narrazione di Sarkozy come controbatte? Andò veramente così?
«Ci sono molte imprecisioni. Sarkozy non racconta che in quell'incontro c'era anche il presidente Usa Obama che invece difese Berlusconi, dicendo che non si sarebbe sporcato con il suo sangue. Anche il passaggio sul debito pubblico italiano è scorretto: non si ricorda che il valore del patrimonio privato italiano era superiore all'esposizione e che c'erano i soldi nelle banche. Quindi non c'era quell'emergenza usata come operazione politica contro il Paese. È la dimostrazione che aveva ragione Berlusconi, che oltretutto rifiutò i 40 miliardi proposti dal Fmi paragonandoli a un'elemosina. Anche in quell'occasione lui tutelò il proprio Paese, ma forse per Sarkozy quell'Italia contava troppo sulla scena internazionale. Sono sbagliati pure i riferimenti a Draghi: era Berlusconi a volerlo capo della Bce e non lui, oltre a ad altre incongruenze sulle date dei fatti narrati».
La foto di Sarkozy e Merkel che deridono il presidente del Consiglio italiano resta nella storia del Paese. L'ex presidente francese coinvolge pienamente nella defenestrazione di Berlusconi anche l'ex cancelliera tedesca. Ebbero un ruolo paritario in quel golpe contro l'Italia?
«Più Sarkozy di Merkel. C'era la questione libica legata anche agli interessi petroliferi: la Francia contava molto poco e mal sopportava la presenza italiana in Nord Africa».
Lei ha avuto negli anni molte occasioni per parlare in privato con la Merkel. Quale fu la sua versione dei fatti?
«Berlusconi ricucì i rapporti con Merkel, ma con Sarkozy non ci furono più contatti. Ero presente all'incontro tra Berlusconi e Merkel al congresso Ppe di Malta del 2017, dove l'ex cancelliera tedesca capì quanto fossero importanti l'Italia e Forza Italia. Infatti lei con si arrivò al chiarimento».
La caduta del 2011 resta una ferita aperta. Ci furono quinte colonne italiane, non solo a sinistra, che remarono contro il Paese soltanto per sovvertire il voto degli elettori a favore del centrodestra?
«Sicuramente ci furono complici interni tra chi tramava contro Berlusconi, oltre a parecchi settori della vita pubblica che interloquivano con altri. La sua personalità forte dava fastidio a molti. E così, non riuscendo a batterlo alle urne, trovarono altri modi per spodestarlo, prima da presidente del Consiglio e poi dal Senato».
Fervono le trattative per le alleanze nel centrodestra europeo per le elezioni del 2024. Potranno ancora pesare i veleni interni del passato o la vicenda del 2011 è un capitolo chiuso?
«Vicenda chiusa e legata solo a quel momento. Sarkozy non ha più rilievo in Francia e in Europa, problema superato. Restano purtroppo i modi non rispettoso di rivolgersi a un grande protagonista che è stato anche invitato a intervenire al congresso Usa».
Oggi sono ancora ipotizzabili manovre internazionali così invasive da mettere a rischio il governo Meloni?
«Mi auguro che questo non accada mai più, è contro ogni fondamento democratico il voler interferire nella vita di altri Paesi. Di tutta la vicenda, resta l'occasione per ricordare come Berlusconi abbia sempre difeso in ogni modo l'interesse nazionale dell'Italia».
Sarkozy ammette il golpe morbido contro Berlusconi nel 2011: “fu crudele ma necessario”. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 23 Agosto 2023
L’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, nel suo ultimo libro “Il tempo delle battaglie”, ha confermato ciò che molti osservatori politici sostenevano da tempo: la caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011 fu ordita dall’asse franco-tedesco per imporre l’austerità all’Italia, utilizzando l’arma finanziaria come strumento, in particolare la leva dello spread e la relativa crisi dei debiti pubblici. In altre parole, si è trattato di colpo di stato mascherato, in quanto difficile da classificare come tale. È stato, infatti, utilizzato l’espediente della necessità di evitare un presunto fallimento per destituire un governo democraticamente eletto e sostituirlo con un governo tecnico. Parallelamente al golpe finanziario italiano, fu portato avanti anche quello in Grecia, che comportò la caduta del premier socialista Giorgos Papandreu. Tuttavia, come ha indirettamente ammesso Sarkozy, furono proprio le manovre di Francia e Germania ad agitare i mercati portando all’aumento dello spread e alle pressioni politiche per far dimettere Berlusconi: «L’ora era grave. Abbiamo dovuto sacrificare Papandreou e Berlusconi per tentare di contenere lo tsunami […] I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario», scrive l’ex presidente francese nel suo libro.
Il contesto era quello della crisi dei debiti sovrani seguita alla recessione economica del 2008: privi di un prestatore di ultima istanza che garantisse i titoli del debito pubblico – nell’impianto economico-finanziario comunitario la BCE non svolge questo ruolo se non in casi di emergenza come avvenuto durante il periodo pandemico con il Pandemic Emergence Purchase Program – gli Stati si sono trovati esposti alle speculazioni degli investitori internazionali – i famigerati “mercati” – che possono influenzare il tasso di interesse sui titoli sovrani attraverso, ad esempio, il credit default swap, swap che ha la funzione di trasferire il rischio di credito, aumentando il differenziale con i bond tedeschi. Le intenzioni dichiarate da Sarkozy erano quelle di evitare un peggioramento dei conti pubblici e il conseguente presunto default. Tuttavia, furono proprio le operazioni messe in atto dalla Deutsche Bank e dalla BCE – dietro la regia dell’asse franco-tedesco – a decretare l’aumento del differenziale con i titoli di stato tedeschi (il cosiddetto spread): il 30 giugno 2011 la Banca centrale tedesca mise in vendita scientemente 8 miliardi di euro di titoli di Stato italiani su 9 che ne aveva in portafoglio scatenando il panico tra gli investitori che chiesero così rendimenti più alti facendo lievitare lo spread. Successivamente, ad agosto la BCE annunciò che per supportare i titoli di Stato italiani, il governo di Roma doveva approvare una nuova manovra che soddisfacesse le richieste degli organismi internazionali. Ciò, nonostante pochi mesi prima, Bruxelles avesse approvato la finanziaria stilata dal governo italiano.
L’intento della manovra ordita ai danni dell’allora governo italiano era quello di imporre un regime di austerità all’Italia non tanto per abbassare il debito pubblico e contenere l’aumento dello spread – cosa che non avvenne fino al celebre “Wathever it takes” di Mario Draghi – quanto per rallentare lo sviluppo economico della penisola e iniziare a smantellarne lo Stato sociale. Berlusconi era particolarmente inviso agli ambienti comunitari non solo perché contrario a una politica di eccessivo rigore e più propenso ad una politica economica espansiva, ma anche perché si era rivelato critico nei confronti dell’intervento in Libia, sostenuto innanzitutto proprio dall’Eliseo. Nel suo libro autobiografico, “Il dilemma”, l’ex premier spagnolo José Luiz Zapatero ha parlato di un’offensiva contro l’Italia premeditata e «condotta per terra, aria e mare». Sarkozy, invece, nel suo ultimo libro, raccontando l’ultimo incontro col Cavaliere a Cannes, lo descrive come «patetico e delirante»: «Angela Merkel e io decidemmo di convocare Berlusconi per convincerlo a prendere ulteriori misure per provare a calmare la tempesta in atto. Il premier italiano cominciò a spiegare che non avevamo capito che non c’erano rischi sui mercati internazionali, perché il debito pubblico italiano era nelle mani degli italiani. Voleva creare altro debito da mettere sulle spalle solo dei suoi compatrioti. Tutto ciò era abbastanza delirante. L’incontro diventò sempre più aspro nonostante Berlusconi cercasse di alleggerire l’atmosfera con qualche battuta delle sue, completamente fuori luogo».
Gli artefici della “strategia” franco-tedesca a livello comunitario furono l’allora governatrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde e il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, entrambi francesi: quest’ultimo in piena fase di crisi dei debiti procedette a due incauti rialzi del tasso di sconto, che crebbe dall’1% all’1,50%, nell’estate 2011; la Lagarde, invece, propose a Roma di accettare una linea di credito forzosa da 80 miliardi di euro che avrebbe messo Roma sotto il controllo della Troika costituita da Ue, Fmi e Bce. In seguito al rifiuto del Cavaliere, vennero messe in atto le manovre finanziarie che portarono alla crisi dello spread: il governo di Berlusconi cadde il 16 novembre 2011, cinque giorni dopo quello di Papandreou.
La classe politica italiana non fece quadrato contro l’attacco di Stati stranieri, ma approfittò per regolare i conti interni in una logica che affligge da sempre la storia d’Italia, anche con la complicità dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il tutto fu favorito dall’architettura finanziaria europea nella quale gli Stati sono esposti alle speculazioni finanziarie. La crisi dello spread, infatti, si risolse solo con l’intervento della BCE disposto dall’allora governatore Mario Draghi: «Ho un messaggio chiaro da darvi: nell’ambito del nostro mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza» furono le ormai celebri parole di Draghi. Da quel momento, con la copertura della BCE, i tassi d’interesse sui titoli scesero velocemente.
Il golpe finanziario del 2011, ammesso dallo stesso Sarkozy, è l’esempio più nitido di come la finanza sia in grado di avere il sopravvento sugli Stati portando alla destituzione di governi legittimi scelti dai cittadini, spazzando via così i processi e la stessa sostanza della democrazia, messa a rischio non tanto da presunti governi autoritari, bensì dalla logica dei mercati e della speculazione finanziaria, con la complicità delle lotte di potere interne agli Stati dell’Unione europea. [di Giorgia Audiello]
Estratto dell’articolo di lastampa.it venerdì 25 agosto 2023.
Nicolas Sarkozy sarà processato per il caso dei presunti fondi elettorali provenienti dalla Libia. Lo hanno annunciato i pubblici ministeri, che inizieranno il processo contro l'ex presidente francese e altri 12 imputati nel gennaio del 2025.
Sarkozy è accusato di finanziamento illegale della campagna elettorale, appropriazione indebita di fondi pubblici e corruzione. L'affare Libia ruota attorno alle accuse secondo cui i soldi per la campagna di Sarkozy del 2007 provenivano illegalmente dal regime dell'allora dittatore libico Muammar Gheddafi.
Un testimone aveva dichiarato di aver trasportato alla fine del 2006 o all'inizio del 2007 diverse valigie contenenti fondi per un totale di 5 milioni di euro al ministero degli Interni di Parigi, a capo del quale all'epoca c'era Sarkozy. L'ex presidente […] ha sempre negato le accuse.
(ANSA il 17 maggio 2023) – L'ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, è stato condannato in appello a tre anni di carcere, uno dei quali da scontare ai domiciliari, nell'ambito del processo sullo scandalo delle intercettazioni.
Sarkozy, 68 anni, si è sempre dichiarato innocente in questo scandalo nel quale è stato imputato e condannato per corruzione e traffico di influenza. Nessun presidente della Repubblica francese aveva mai subito una condanna così pesante. Stesse pene dell'ex presidente per il suo avvocato storico, Thierry Herzog, e per l'ex alto magistrato Gilbert Azibert.
Per Sarkozy, il tribunale ha anche pronunciato l'interdizione dai diritti civili per 3 anni, con l'impossibilità quindi di candidarsi a cariche politiche. Anche per l'avvocato Herzog, divieto di esercitare la professione per 3 anni. Identica condanna era stata pronunciata dal tribunale in primo grado.
Sarkozy è stato giudicato colpevole di essersi impegnato, nel 2014 attraverso l'avvocato Herzog, a sostenere la candidatura di Azibert ad una prestigiosa carica nel Principato di Monaco (che il magistrato non ha mai ottenuto, ndr) in cambio di interventi e comunicazioni riservate riguardanti un caso allora all'esame della Cassazione.
"Sono un ex presidente della Repubblica - aveva detto Sarkozy in tribunale nel processo di prima istanza - non ho mai corrotto nessuno e dovremmo poi aggiungere che si tratterebbe di una corruzione ben strana, senza denaro, neppure un centesimo per nessuno, senza vantaggi, nessuno ne ha avuti, e senza vittime, poiché non ci sono persone lese"
Estratto dell’articolo di Cesare Martinetti per “la Stampa” il 18 maggio 2023.
La condanna a tre anni, di cui uno da scontarsi con un braccialetto elettronico, chiude probabilmente la carriera politica di Nicolas Sarkozy, 68 anni, il leader più brillante e controverso della destra francese […].
Il ricorso in Cassazione ha sospeso per ora l'umiliazione del braccialetto che si stringe per la prima volta al polso di un ex presidente della République. Ma lo scacco è cocente. Anche perché sul capo di Sarkò pendono ben altre inchieste. La più importante è quella che riguarda il presunto finanziamento della sua campagna presidenziale del 2007 da parte di Muammar Gheddafi.
Indagine dalle molteplici implicazioni, […] potrebbe riscrivere la storia della rivoluzione libica e anche della misteriosa morte di Gheddafi, unico leader arabo ucciso della stagione delle "primavere" del 2011. Sarkozy fu all'epoca il più caldo sostenitore della guerra, appoggiato dal premier britannico Cameron e con molta riluttanza da Barack Obama che lo considera tuttora il suo più grande errore.
Nelle memorie, l'ex presidente americano ha lasciato un velenoso ritratto del collega francese: "Un gallo da combattimento che voleva trovarsi sempre al centro dell'attenzione e prendersi sempre il merito di qualsiasi cosa valesse la pena intestarsi".
Sulla fine di Gheddafi, l'insinuazione più velenosa, l'ha consegnata qualche anno dopo Vladimir Putin all'ex primo ministro francese François Fillon: "Ho sentito dire che gli ha sparato un agente francese…”. Tutto questo per dire che la sentenza di ieri apre scenari che vanno al cuore dei torbidi di stato.
Sarkozy è stato condannato insieme al suo storico avvocato Thierry Herzog per traffico di influenze e corruzione di un giudice della Corte di Cassazione. Inchiesta condotta grazie a intercettazioni telefoniche sull'utenza di un certo Paul Bismuth (uno pseudonimo) attraverso le quali avveniva lo scambio di informazioni. Sarkò voleva sapere tutto sulle indagini che lo riguardavano.
[…] Due volte condannato, due volte prosciolto, tuttora sotto indagine su vari dossier, Nicolas Sarkozy […] non è mai stato sospettato di un guadagno privato, di conflitti di interesse o di falsi in bilancio. Lo scenario di queste inchieste è sempre tutto politico, spietati intrighi di palazzo e servizi segreti, una "house of cards" sulle note della Marsigliese e all'ombra dell'Eliseo.
[…] Sarkozy è stato anche il leader più emblematico della mutazione della destra repubblicana sotto l'incalzare del populismo sovranista. Era entrato ventenne nel Rassemblement pour la République, con il quale Jacques Chirac nel 1976 ha rilanciato un movimento di ispirazione gollista.
Fedelissimo del leader, è poi stato accolto anche nell'intimità della famiglia, dove veniva chiamato affettuosamente "le petit Nicolas" da Madame Chirac […]. Sarkò è cresciuto fino a quando, nella presidenziale 1995, ha compiuto il più classico dei tradimenti appoggiando il rivale di Chirac Edouard Balladur. Scelta sbagliata. Mentre il suo antico mèntore saliva all'Eliseo, lui era condannato ai margini del partito. È stato poi Chirac […] a richiamarlo in servizio nell'aprile 2002, per la campagna elettorale contro Jean-Marie Le Pen […].
Vinte le elezioni, Sarkò fu messo da Chirac al ministero dell'Interno […]. La divorante energia di Sarkozy ha spostato il partito a destra, slogan efficaci come quello contro la "racaille" (la spazzatura umana) delle banlieues lo hanno portato nel 2007 all'Eliseo. Ma nel 2012 è stato il socialista François Hollande a […] metterlo fuori gioco. Il matrimonio con Carla Bruni (il suo terzo) gli ha restituito un po' di lustro pop, ma il declino politico è stato inarrestabile. Le inchieste giudiziarie di oggi ne sono la crudele sanzione.
Sarkozy, Feltri senza pietà: rideva di Berlusconi? Ancora oggi paghiamo i suoi danni. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 maggio 2023
Succede spesso ai bulli, si danno tante arie, sfo**o questo e quello, poi vengono fo**ti loro e allora piangono, gridano all’ingiustizia e si disperano. La storia di Sarkozy rientra in tale quadro. L’ex presidente della Francia che si dava tante arie e si sentiva un padreterno, al punto di ridere in faccia a Berlusconi impegnato in un discorso tutt’altro che cretino, è stato ora condannato a tre anni di reclusione per corruzione, un reato che per un politico, specialmente di vertice, è un’onta benché meritata. L’ex caput dei transalpiniprobabilmente eviterà il carcere in ossequio a norme generose in vigore ormai in vari Paesi, Italia compresa. Tuttavia egli dovrà mettersi il famoso bracciale almeno per 12 mesi, come un delinquente qualunque, il che è un duro colpo perla sua reputazione. Quando un uomo subisce i rigori della legge, noi non gioiamo, anzi ne siamo addolorati in quanto consideriamo la prigione, anche virtuale, una punizione degradante per tutti.
Ma nel caso di specie ci viene quasi da ridere se pensiamo alla spocchia del parigino manifestata durante il suo approccio a Berlusconi, durante il quale prese per i fondelli il Cavaliere nel corso di un colloquio istituzionale. Come, tu osi spernacchiare un tuo collega di una nazione amica, e solo un po’ di tempo dopo vieni spernacchiato in un tribunale che ti manda dietro le sbarre o comunque ti considera un mariuolo. Si dà il caso che il nostro Silvio sia un signore che ancora conta parecchio nel nostro Paese, mentre tu bullo - e ripeto bullo - devi contare i mesi di carcere che devi scontare avendo commesso delle scorrettezze gravi e imperdonabili.
La fama di Sarkozy non è mai stata un esempio di limpidezza. Non dimentichiamo che fu lui, con l’appoggio degli americani- altra gente che ti raccomando - che andò in armi in Libia, per ragioni petrolifere allo scopo di stecchire Gheddafi per impadronirsi del suo oro nero. Cosicché l’Italia si trovò in brache di tela, non soltanto per il deficit di carburante, ma pure a causa dell’aumento spaventoso, di cui soffriamo tutt’ora, degli immigrati. Tra l’altro adesso per noi non è facile avere rapporti fraterni con i francesi, visto che ogni due per tre ci accusano di non gestire gli stranieri provenienti non solamente dall’Africa, polemizzano con la nostra Giorgia Meloni, quando loro sono protagonisti di indicibili crudeltà nei confronti degli extracomunitari che tentano di entrare nei loro territori. Non per questo noi odiamo i nostri cugini nei confronti dei quali abbiamo rispetto e spesso ammirazione, però ci piacerebbe che smettessero di trattarci quali pari quando proprio loro sono tali e quindi indegni di essere lodati. Nonostante tutto auguriamo a Sarkozy di tornare presto in libertà pregandolo di tenere la bocca chiusa e di chiedere scusa per aver provocato la morte del colonnello libico.
Caso dei finanziamenti libici, Sarkozy rinviato a giudizio per corruzione. Fra le altre 12 persone a giudizio figurano l'ex braccio destro di Sarkozy, Claude Guéant, il tesoriere della campagna presidenziale, Eric Woerth, e Brice Hortefeux. Federico Giuliani su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Tabella dei contenuti
Chiesto il rinvio a giudizio per Sarkozy
Indagine decennale
Le altre grane dell’ex leader francese
La Procura nazionale finanziaria (PNF) francese ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, e per altre 12 persone nel caso dei sospetti finanziamenti libici della campagna presidenziale del 2007 che portò Sarkozy all'Eliseo. Il PNF ha chiesto, inoltre, che l'ex capo dell’Eliseo, che contesta i fatti, sia processato per corruzione passiva, associazione a delinquere, finanziamento illecito di campagna elettorale e occultamento di appropriazione indebita pubblica libica. La decisione finale su un processo spetta ai giudici istruttori competenti sul dossier aperto nel 2013.
Chiesto il rinvio a giudizio per Sarkozy
Secondo quanto si apprende da fonti giudiziarie, in particolare, il reato di associazione a delinquere ipotizzerebbe che Sarkozy abbia coscientemente lasciato che i propri collaboratori, i suoi sostenitori e alcuni intermediari "agissero al fine di ottenere o tentare di ottenere" dal regime di Muammar Gheddafi "appoggi finanziari in vista del finanziamento della sua campagna elettorale del 2007".
Fra le altre 12 persone, figurano l'ex braccio destro di Sarkozy, Claude Guéant, il tesoriere della campagna presidenziale, Eric Woerth, e l'uomo di fiducia nonché ex ministro di Sarkozy, Brice Hortefeux.
Franceinfo ha scritto che il PNF vuole che Brice Hortefeux sia processato per "associazione a delinquere finalizzata alla commissione di un reato punibile con 10 anni di reclusione e complicità nel finanziamento di una campagna elettorale", mentre Eric Woerth per "complicità nel finanziamento illegale di una campagna elettorale".
Quanto a Claude Guéant, i capi di imputazione per revocazione sono più numerosi: "Uso di falso, riciclaggio di evasione fiscale in banda organizzata, traffico di influenza passiva, riciclaggio di corruzione passiva, concorso in finanziamento illecito di campagna elettorale, occultamento di corruzione passiva e associazioni di delinquenti allo scopo di commettere un reato punito con la reclusione fino a 10 anni".
Indagine decennale
L’atto d'accusa finale è arrivato dopo dieci anni di indagini. Questa inchiesta, infatti, è partita da un documento pubblicato dal sito Mediapart nel 2012, con una nota scritta a mano, in arabo, attribuita al capo dell'intelligence straniera libica. Il documento suggeriva che nel 2006 il regime di Muammar Gheddafi avesse accettato di finanziare la campagna di Sarkozy per un importo di 50 milioni di euro.
Le indagini hanno portato i magistrati in Libia, Arabia Saudita, Svizzera, Malesia, solo per citare alcuni Paesi. Sono state scritte decine di migliaia di pagine di procedimenti e 13 persone, quelle elencate sopra, sono state incriminate.
Nicolas Sarkozy è stato incriminato per la prima volta nel marzo 2018 per "corruzione passiva, finanziamento illegale di campagne elettorali e occultamento di fondi pubblici libici". È stato incriminato una seconda volta nel 2020 per associazione a delinquere.
L'ex capo dello Stato ha impugnato la sua incriminazione, ma alla fine del 2021 la Corte di Cassazione ha respinto l'ultimo ricorso processuale presentato da Sarkozy e dai suoi familiari. L'ex presidente della Repubblica ha sempre negato i fatti di cui è sospettato.
Le altre grane dell’ex leader francese
Come ha scritto Liberation, spetta adesso ai due giudici istruttori incaricati di questo caso tentacolare ordinare o meno un processo davanti al tribunale penale e, se necessario, determinare quali reati trattenere.
Per il resto, sul caso "intercettazioni" la Corte d'appello di Parigi si pronuncerà il 17 maggio. Sarkozy, il suo avvocato Thierry Hergog e l'ex magistrato Gilbert Azibert sono sotto processo per corruzione e traffico d'influenza. L'accusa ha chiesto una pena detentiva sospesa di tre anni per i tre imputati.
Per quanto riguarda il caso Bygmalion, il processo d'appello dell’ex presidente francese si terrà dall'8 novembre 2023. Sarkozy aveva impugnato la condanna a un anno di reclusione.
Soldi, lusinghe e ambiguità tra Sarkozy e Putin. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 12 gennaio 2023
Un assegno da 200mila euro e uno da 100mila, prima e dopo quella serata in cui Sarkozy elogiava Putin e la Russia «potenza mondiale». Questo episodio che risale al 2018 e che viene alla luce oggi è solo uno dei tasselli di una relazione a dir poco particolare
Gli elementi di opacità nei rapporti tra l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy e il Cremlino aumentano, e non possono essere accantonati come un episodio del passato: Sarkozy non è più presidente, in Francia, ma ha tuttora un ruolo influente nella politica francese e soprattutto è in grado di condizionare il presidente attuale, che lui e i suoi fedelissimi supportano. Lo stesso ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, proviene dalla galassia dell’ex presidente.
ASSEGNI E LUSINGHE
L’ultimo caso riguarda due assegni del valore complessivo di 300mila euro e alcune dichiarazioni lusinghiere di Sarkozy verso Putin. I fatti in questione si svolgono tra il 2018 e il 2019, e assieme agli assegni vengono ora portati alla luce da Fabrice Arfi e Yann Philippin di Mediapart. A novembre 2018 il fondo sovrano della federazione russa ha invitato Sarkozy al galà di fine anno, serata nella quale l’ex presidente francese se n’è uscito con lusinghe pubbliche verso il regime putiniano: «Sono sempre stato un amico di Putin; anche quando non eravamo d’accordo, con lui si poteva parlare. La Russia è diventata una potenza mondiale, ed è questo il suo destino». Prima dell’evento, a ottobre 2018, a Sarkozy è arrivato un assegno da 200mila euro; e dopo, a febbraio 2019, un altro da 100mila. A trasmettere il denaro è stata la Rs Capital Limited, e coincidenza vuole che il fondo sovrano russo abbia una filiale che porta lo stesso nome. Quei soldi erano forse il compenso per le belle parole?
UN LEGAME DURATURO
Non è l’unico episodio anomalo. Sarkozy, che ai tempi della presidenza di turno in Ue, nel 2008, aveva vestito i panni di mediatore con Mosca nella crisi georgiana, dal 2019 è stato ingaggiato dai fratelli Sarkisov con un contratto di consulenza pluriennale da tre milioni di euro. Stando allo staff dell’ex presidente, il suo accordo economico con la compagnia assicurativa russa Reso-Garantia è terminato nel 2021. L’anno seguente, è da Sarkozy che Viktor Orbán è passato, prima di raggiungere Putin al Cremlino. Pochi giorni dopo, la Russia ha aggredito l’Ucraina; gli incontri tra il premier ungherese, cavallo di Troia della Russia in Ue, e Sarkozy sono proseguiti.
DAGONEWS il 26 gennaio 2023.
Nel raccontare la ricca consulenza da oltre 3 milioni di euro incassata da Sarkozy per la vendita di “Ntv” al fondo americano GIP, “il Fatto quotidiano” ha omesso un dettaglio: quando aveva le chiappe all’Eliseo, Sarkozy concesse numerose regalie fiscali al Qatar e agli Emirati Arabi Uniti.
I due Paesi, pur odiandosi, lo “ricompensarono” finanziando, nel 2016, il fondo londinese “Peninsula capital”, su cui negli anni hanno investito la Qatar Investment Authority e alcune holding riconducibili a Dubai.
Al “signor Bruni” i guadagni sarebbero arrivati passando sui conti del suo studio legale, in cui lavora il figlio Jean, a sua volta managing director di Peninsula.
Come presidente del fondo Peninsula, fu scelto Borja Prado Eulate, ex capo di Mediobanca Spagna e di Endesa. Fu Prado a chiamare come partner l’italiano Stefano Marsaglia, oggi membro del cda di Generali (quota Caltagirone).
Come scrive Stefano Vergine, oggi sul “Fatto quotidiano”, “Peninsula Capital è stata creata nel marzo del 2016 da Marsaglia insieme a due manager spagnoli che conoscono bene l’Italia: Borja Prado e Javier de la Rica. […]
Il registro commerciale lussemburghese dice che l’11 dicembre 2018, poco dopo aver concluso l’affare Ntv, Marsaglia e de la Rica cedono le quote detenute in quattro società di gestione del gruppo Peninsula […] a due imprese costituite nella zona franca di Sharjah, che oltre ad essere uno dei sette Emirati Arabi è anche un paradiso fiscale, dove non si pagano imposte sugli utili societari né sul rimpatrio dei capitali.
Le due società si chiamano Casan Holding e Mbb Holding. Il prezzo della compravendita non viene pubblicato sul registro commerciale.
Sempre l’11 dicembre 2018, i due veicoli emiratini rivendono queste azioni alla lussemburghese Peninsula Holding, controllata con quote uguali dalle stesse società emiratine.
Prezzo pagato: 19,2 milioni di euro, di cui 16,5 milioni versati cash.
L’operazione sembra non avere senso economico, a meno che si tratti di uno schema di ottimizzazione fiscale il cui obiettivo è spostare nell’emirato di Sharjah parte dei profitti realizzati con Peninsula.
È così? Casan Holding e Mbb Holding sono di proprietà rispettivamente di Marsaglia e De la Rica? […] Di sicuro c’è il fatto che il 28 luglio del 2021 Marsaglia ha lasciato il suo ruolo di amministratore di Peninsula, e lo stesso giorno l’emiratina Casan Holding ha venduto tutte le sue azioni di Peninsula.
Ora Marsaglia è un consigliere d’amministrazione di Generali. Ha creato un nuovo fondo d’investimento, chiamato Azzurra Capital e registrato a Dubai. Secondo un documento presente sul registro del commercio britannico, da aprile del 2019 risiede negli Emirati”.
Ps. Italo – NTV oggi è sotto osservazione di Aponte, che avrebbe come consulente Jean Sarkozy.
Stefano Vergine per il “Fatto quotidiano” il 26 gennaio 2023.
Finora si sapeva che la vendita di Ntv al fondo americano Gip, avvenuta nel 2018, aveva fatto arricchire i vecchi azionisti della compagnia dei treni Italo: soprattutto Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Gianni Punzo. Grazie a un’inchiesta realizzata dal Fatto insieme al consorzio Eic, ora sappiamo che a ricevere parecchi soldi collegati a quell’affare è stato anche Nicolas Sarkozy. Tre milioni e 300 mila euro: è quanto incassato dall’ex presidente francese per una consulenza nella vendita di Ntv.
Il problema? Documenti e testimonianze raccolte mettono in dubbio che Sarkozy abbia davvero lavorato all’operazione. Per comprendere la vicenda dobbiamo partire da Peninsula Capital, un fondo di private equity che a giugno 2017 sborsa 66 milioni per comprare il 12,8% di Ntv. Ad aprile 2018 il fondo americano Gip compra il 100% di Ntv per 1,98 miliardi. La plusvalenza realizzata da Peninsula è di 181 milioni. Peninsula incassa il denaro da Gip in due bonifici, tra aprile e luglio 2018.
Dieci giorni dopo l’ultimo pagamento, due società del gruppo Peninsula versano 3,15 milioni a Sarkozy, sul suo conto nella filiale parigina della banca Rothschild, che diventeranno 3,3 grazie a un ulteriore pagamento datato aprile 2019, come scritto negli estratti conto della banca. A dire che quei soldi sono collegati all’operazione Ntv è uno studio legale.
Per giustificare il pagamento, lo studio lussemburghese Van Campen Liem, consulente di Peninsula, scrive una lettera a Rothschild: “Dal 2018 – si legge – Nicolas Sarkozy è stato un consulente esperto di Peninsula Capital II”, la società che ha gestito l’affare Ntv. Nella lettera si legge poi che “all’uscita dall’investimento in Ntv, il consulente esperto ha ricevuto parte degli interessi ai quali ha diritto”. Insomma, i 3,3 milioni derivano dal ruolo che Sarkozy ha svolto per Peninsula nell’operazione Ntv. Nella lettera, però, gli avvocati aggiungono un’avvertenza: “Non ci assumiamo alcuna responsabilità sull’accuratezza di queste informazioni... ricevute da Peninsula Capital II”.
Di strano c’è che Sarkozy è diventato consulente di Peninsula nel 2018, mentre l’investimento in Ntv è del giugno 2017. Inoltre Borja Prado, uno dei fondatori di Peninsula, ha negato che l’ex capo dell’Eliseo abbia mai lavorato per il fondo: “Sarkozy non ha mai fatto da advisor per Peninsula. Noi non abbiamo mai ingaggiato alcun advisor per questa né per altre operazioni, dato che il fondo ha un comitato per gli investimenti che verifica le transazioni”, ha detto Prado al telefono, aggiungendo che “nessuno ha pagato Sarkozy”.
All’epoca, insieme a due suoi colleghi, Prado era sia proprietario che amministratore di Peninsula Capital II, la società che avrebbe ingaggiato Sarkozy come consulente. Significa dunque che Prado e colleghi hanno fornito informazioni false allo studio legale Van Campen Liem?
Alle domande su questo e su altri punti, Peninsula, Prado e gli altri due manager e azionisti del fondo non hanno risposto. Secondo due fonti che hanno partecipato all’affare, e che ci hanno parlato a condizione di anonimato, a finanziare l’operazione Ntv e a pagare Sarkozy sono stati principalmente gli Emirati Arabi. “Dovevamo comprare una quota maggiore di Ntv, ma alla fine il Qatar si è sfilato e abbiamo acquistato metà della quota a cui puntavamo”, ha detto un dirigente di Peninsula. Se non il Qatar, chi ha investito allora in Peninsula Partners II? “Gli Emirati Arabi Uniti e altri della zona”, ha risposto lo stesso dirigente.
Secondo una seconda fonte informata sull’operazione, “i soldi sono arrivati dagli Emirati, in particolare dal family office dello sceicco Mohammed bin Zayed”: è il sovrano di Abu Dhabi e presidente degli Emirati Arabi Uniti, conosciuto con la sigla di Mbz.
Coincidenza: Sarkozy è stato due volte ad Abu Dhabi nel 2018. Invitato a un evento nel marzo 2018, ha fatto un discorso in cui ha elogiato vari autocrati tra cui quello degli Emirati: “Chi sono oggi i grandi leader mondiali? Il presidente Xi, il presidente Putin, il Gran Principe Mohammed bin Salman. E cosa sarebbero oggi gli Emirati senza la leadership di Mbz?”, ha detto l’ex presidente francese. A dicembre dello stesso anno è tornato nella Capitale degli Emirati per un un seminario a porte chiuse.
È però improbabile che i 3,3 milioni siano stati pagati per remunerare la sua presenza a questi eventi. Secondo gli estratti conto, infatti, Sarkozy non ha mai ottenuto ufficialmente più di 147 mila euro per un discorso. Perché dunque ha ricevuto tutti questi soldi?
E come mai il pagamento è stato motivato con una consulenza a Peninsula sull’operazione Ntv? Alle domande di Eic, né Sarkozy né il governo degli Emirati né Peninsula hanno risposto.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Il crac della Credit Suisse. (ANSA il 15 marzo 2023) - Le autorità svizzere e Credit Suisse stanno valutando le opzioni per stabilizzare la banca. Lo riporta l'agenzia Bloomberg citando alcune fonti, secondo le quali fra le ipotesi allo studio c'è un potenziale sostegno alla liquidità ma anche una separazione della divisione svizzera della banca per procedere a un'unione con Ubs. Nessuna decisione al momento è stata ancora presa.
Estratto dell’articolo di Andrea Rinaldi per corriere.it il 15 marzo 2023.
Cosa succede ai risparmiatori di Credit Suisse in caso di fallimento? Anche in Svizzera, al pari dell’Italia, esiste un cordone di salvataggio per chi ha denaro custodito in una banca in dissesto. Ad attivarlo è Esisuisse, associazione fondata a Basilea nel 2005 di cui fanno parte tutti gli istituti di credito con filiali sul territorio svizzero.
Se la Finma, cioè l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari in Svizzera, apre un procedimento di liquidazione fallimentare per una banca (ma anche per una società di intermediazione mobiliare), per rimborsare immediatamente i depositi privilegiati si attinge in prima battuta agli attivi liquidi disponibili dell’istituto.
Esisuisse interviene solamente nel caso gli attivi liquidi disponibili non siano bastanti a rimborsare direttamente i depositi garantiti dei clienti: l’associazione delle banche a quel punto raccoglier risorse tra i propri membri e li inoltra entro 20 giorni feriali alla Finma che procede a trasferirli ai titolari di conti.
Se la banca ha sufficiente liquidità, ai clienti vengono rimborsati fino a un massimo di 100 mila franchi svizzeri. Nel caso non sia sufficiente, Esisuisse copre la differenza. Il massimo che l’associazione può stanziare è 6 miliardi di franchi.
C’è la corsa a ritirare i depositi dalla banca svizzera?
Il timore ora è che si registri una corsa agli sportelli per ritirare i depositi dalla banca svizzera in difficoltà: gli esperti di Activetrades hanno ad ogni modo sottolineato che per Credit Suisse non si è determinata la corsa agli sportelli, a differenza di quanto successo per l’istituto californiano Svb. La stessa Credit Suisse ha chiesto alla Borsa di Zurigo e alla Banca centrale svizzera di fornire rassicurazioni alla clientela, tanto è vero che le azioni del gruppo hanno in qualche modo ridotto il crollo, pur chiudendo giù del 24,24%.
In Italia
In Italia il sistema di assicurazione per i fondi dei risparmiatori è simile: il Fondo interbancario copre fino a 100 mila euro (102 mila franchi svizzeri). La soglia si applica per ogni depositante, per singola banca. Se un depositante ha più depositi intestati presso la stessa banca, i conti sono cumulati e sull’importo complessivo si applica il limite di garanzia di 100.000 euro. […]
Estratto dell’articolo di Alessandro Barbera per “la Stampa” il 16 marzo 2023.
[…] Il quasi fallimento della seconda banca svizzera, prima vittima in Europa della nuova crisi iniziata in California, non è un caso di contagio sistemico. […] Il presidente dell'autorità di vigilanza europea Andrea Enria ha dato mandato ai funzionari dell'Eurotower di raccogliere più informazioni possibili sulle esposizioni della banca svizzera in tutta Europa, ed evitare che il contagio si produca adesso. Sulle cause del crollo negli ambienti finanziari invece pochi hanno dubbi: Credit Suisse era una banca gestita malissimo.
Ieri i credit default swap sul titolo – il termometro del rischio di fallimento – hanno raggiunto i massimi di sempre, più alti persino di quelli di Lehman Brothers alla vigilia del fallimento. Il panico prodotto dal fallimento di Silicon Valley Bank ha iniziato a colpire Zurigo venerdì scorso, quando il titolo aveva perso il 12 per cento. Ieri ne ha persi altri venti, costringendo la banca centrale di Berna ad una linea di credito di emergenza. Giocando sull'assonanza, qualcuno l'ha ribattezzata Debit Suisse.
Eppure a mandare a picco la banca nata a Zurigo nel 1856 non sono i debiti, bensì la fine della sua credibilità. […] Tutto quel che poteva accadere, negli ultimi tre anni a Credit Suisse è accaduto. A febbraio del 2020 l'allora amministratore delegato Tidjane Thiam è costretto a dimettersi per aver fatto spiare un ex dirigente. La faccenda scuote l'opinione pubblica svizzera, anche per via del suicidio di uno degli agenti. Un anno dopo – è il marzo del 2021 – crollano due fondi controllati dalla banca. Il primo è americano, si chiama Archegos, ed è trascinato nel baratro dal crollo in Borsa del gigante dei media Viacom.
Secondo alcuni è costretto a sbarazzarsi di venti miliardi di dollari di asset, altri stimano il doppio. Pochi giorni prima la banca elvetica era stata costretta a liquidare altri quattro fondi gestiti insieme a una società australiana, Greensill Capital. Ad aprile si dimette il presidente del consiglio di amministrazione, a ottobre la banca deve pagare una multa da quasi mezzo miliardo di dollari per aver contribuito ad alimentare un caso di corruzione in Mozambico.
[…] nel 2022. A gennaio si dimette Horta-Osorio. Nemmeno un mese dopo scoppia lo scandalo «Suisse secret»: un informatore vende i dati di diciottomila clienti della banca. A giugno arriva la condanna per riciclaggio di denaro in Svizzera, il primo caso nella storia per una banca locale: sui conti erano transitati senza colpo ferire i soldi di un'organizzazione di trafficanti di droga bulgari.
Dopo le dimissioni di due presidenti, a luglio arrivano quelle di un altro amministratore delegato, Thomas Gottstein. Il resto è cronaca di pochi mesi fa: all'inizio dell'autunno i nuovi vertici presentano un piano di tagli da diecimila posti di lavoro e un aumento di capitale da quattro miliardi di franchi: solo l'anno scorso la banca aveva accumulato perdite per sette. Secondo l'opinione prevalente degli esperti, i vertici non sono stati in grado di gestire nemmeno il piano di ristrutturazione, che procedeva a rilento. […]
Credit Suisse, cosa succede ai risparmiatori e ai conti in caso di fallimento. Andrea Rinaldi su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023
Cosa succede ai risparmiatori di Credit Suisse in caso di fallimento? Anche in Svizzera, al pari dell’Italia, esiste un cordone di salvataggio per chi ha denaro custodito in una banca in dissesto. Ad attivarlo è Esisuisse, associazione fondata a Basilea nel 2005 di cui fanno parte tutti gli istituti di credito con filiali sul territorio svizzero. Se la Finma, cioè l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari in Svizzera, apre un procedimento di liquidazione fallimentare per una banca (ma anche per una società di intermediazione mobiliare), per rimborsare immediatamente i depositi privilegiati si attinge in prima battuta agli attivi liquidi disponibili dell’istituto. Esisuisse interviene solamente nel caso gli attivi liquidi disponibili non siano bastanti a rimborsare direttamente i depositi garantiti dei clienti: l’associazione delle banche a quel punto raccoglier risorse tra i propri membri e li inoltra entro 20 giorni feriali alla Finma che procede a trasferirli ai titolari di conti. Se la banca ha sufficiente liquidità, ai clienti vengono rimborsati fino a un massimo di 100 mila franchi svizzeri. Nel caso non sia sufficiente, Esisuisse copre la differenza. Il massimo che l’associazione può stanziare è 6 miliardi di franchi.
C’è la corsa a ritirare i depositi dalla banca svizzera?
Il timore ora è che si registri una corsa agli sportelli per ritirare i depositi dalla banca svizzera in difficoltà: gli esperti di Activetrades hanno ad ogni modo sottolineato che per Credit Suisse non si è determinata la corsa agli sportelli, a differenza di quanto successo per l’istituto californiano Svb. La stessa Credit Suisse ha chiesto alla Borsa di Zurigo e alla Banca centrale svizzera di fornire rassicurazioni alla clientela, tanto è vero che le azioni del gruppo hanno in qualche modo ridotto il crollo, pur chiudendo giù del 24,24%.
In Italia
In Italia il sistema di assicurazione per i fondi dei risparmiatori è simile: il Fondo interbancario copre fino a 100 mila euro (102 mila franchi svizzeri). La soglia si applica per ogni depositante, per singola banca. Se un depositante ha più depositi intestati presso la stessa banca, i conti sono cumulati e sull’importo complessivo si applica il limite di garanzia di 100.000 euro.
Classi, previdenza e estero
Il denaro oltre i 100 mila euro non è coperto dalla garanzia dei depositi e viene perciò assegnato alla cosiddetta «terza classe fallimentare», ovvero vengono rimborsati almeno in parte al termine della procedura di liquidazione della banca. Prima si rifondono tutti i correntisti fino a 100 mila franchi e quelli con depositi in ambito previdenziale (pilastro 3a) cioè la «previdenza vincolata», il capitale versato e vincolato fino al pensionamento A beneficiare della garanzia è «ogni persona fisica o giuridica (eccetto gli istituti) titolare di depositi contabilizzati presso le succursali di banche e società di intermediazione mobiliare in Svizzera», a prescindere dal fatto che tale persona sia domiciliata in Svizzera o all’estero. I depositi tutelati contemplano il denaro su conti privati, di risparmio, d’investimento, per il versamento di salari, cifrati, di deposito e congiunti nonché conti correnti, per associazioni e per cauzioni di affitti. Anche le obbligazioni di cassa depositate a nome del portatore all’istituto emittente rientrano in questa casistica.
Estratto dell'articolo di Francesco Bonazzi per “Panorama” il 29 Marzo 2023
[…] Il crollo del Crédit Suisse, controllato per un quinto da capitali arabi, ha fatto tremare le borse mondiali. E nell'ultimo anno, a causa della mancata neutralità sulla guerra in Ucraina, la confederazione ha visto andare via parecchi capitali. I legami con Emirati, Arabia Saudita e Qatar restano tuttavia molto solidi.
Crédit Suisse è (era) la seconda banca della Svizzera e nei giorni della grande paura si è fatta un po' di confusione sui capitali arabi. Si è detto che non hanno voluto salvare l'istituto di credito, ma le cose non sono andate esattamente così e non c'è stato alcun tradimento. Anzi. Un anno e mezzo fa sono stati proprio quei capitali a salvare la baracca, permettendo di sottoscrivere un mega aumento di capitale. Alla vigilia del crollo, Saudi National Bank (partecipata al 37 per cento dal fondo sovrano del Regno) era il primo azionista con una quota del 9,9 per cento.
Alle sue spalle, sono entrati con il 5 per cento ciascuno anche gli altri sauditi di Olayan Group e il fondo sovrano Qatar Holding. Tutti quei soldi, a cominciare dal miliardo e mezzo di euro versato da Saudi National, non sono però bastati. Alla nuova richiesta di liquidità del management svizzero la risposta è stata un no, ma era un diniego obbligato.
[…] Semplicemente, la banca saudita non ha e non aveva l'autorizzazione delle autorità svizzere a salire oltre il 10 per cento del capitale di Crédit Suisse. Non solo, ma come aveva dichiarato in occasione del suo ingresso a libro soci, Saudi National voleva soltanto fare un investimento finanziario e non aveva alcuna intenzione di comandare. Un investimento ben protetto, perché la decisione delle autorità svizzere di privilegiare la tutela degli azionisti rispetto agli obbligazionisti in sede di salvataggio è un bel favore ai capitali arabi.
Per l'economia svizzera, il settore dei servizi bancari, assicurativi e delle licenze rappresenta un quarto delle esportazioni e un terzo delle importazioni totali. In termini di consumi interni, secondo i dati del governo confederale, il comparto vale addirittura il 70 per cento del Pil. In questo quadro, l'Arabia Saudita è il secondo partner commerciale nel Medio Oriente, con esportazioni che nel 2021 valevano 2,3 miliardi di euro, mentre le importazioni in Svizzera erano praticamente nulle.
A Riyad sono presenti le principali banche elvetiche, specie da quando il segreto bancario svizzero ha perso colpi, e nel regno lavorano mezzo migliaio di svizzeri. Inutile dire che mestiere fanno. Mentre a Ginevra e nei suoi splendidi dintorni si trovano varie residenze e proprietà dell'immensa famiglia reale saudita, che nei decenni scorsi spesso ha risolto proprio in Svizzera le sue molte contese.
A testimonianza del particolare rapporto tra i due governi, c'è anche il fatto che dal 2017 la Svizzera è potenza protettrice (mandatario, in sostanza) per rappresentare gli interessi sauditi in Iran e viceversa. Tuttavia Riad ha appena riaperto i canali diplomatici diretti con Teheran, grazie alla mediazione della Cina. I nuovi accordi tra iraniani e sauditi sono ancora tutti da scrivere e i problemi da risolvere, a cominciare dal nucleare, sono parecchi, ma in Svizzera è suonato un campanello d'allarme. Di sicuro, ora Berna rischia di essere meno importante.
[…] Gli Emirati sono oggi il primo partner commerciale della Svizzera nella regione araba con 4,2 miliardi di euro di esportazioni e 7,9 di importazioni. Anche qui le banche elvetiche sono presenti in forza, gli investimenti diretti nel paese del Golfo rappresentano il 10 per cento del totale e i cittadini svizzeri residenti sono circa tremila.
[…] Meno vistosi i rapporti tra la Svizzera e la finanza del Qatar, a parte quel 5 per cento del Crédit Suisse nelle mani del fondo sovrano di Doha, il medesimo che in Italia ha immobili valutati oltre cinque miliardi (a cominciare dalla maggioranza di Porta Nuova a Milano). Con poco meno di 800 milioni di interscambio annuo, il Qatar è il quinto partner commerciale della Svizzera nel Medio Oriente.
Ma per il Paese della famiglia Al Thani la Svizzera è uno snodo fondamentale delle proprie attività di lobbying, portate avanti con metodo in tutte le organizzazioni internazionali legate allo sport in vista dei Mondiali di calcio dello scorso novembre. Il cip puntato sul Crédit Suisse non è stata una mossa molto fortunata, ma i rapporti tra i due governi sono ottimi e non mancheranno occasioni di riscossa. […]
Kiyosaki e la «profezia» su Credit Suisse (dopo quella sul crac di Lehman Brothers). Giuseppe Benedini su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023
«La prossima banca a crollare sarà Credit Suisse».
Robert Kiyosaki si ripete. L’autore del best seller «Papà ricco, papà povero», che aveva predetto il crac di Lehman Brothers nel 2008, sembra essere riuscito a confermare il ruolo di oracolo di sfortune finanziarie.
Interpellato dall’emittente tv americana Fox News lunedì, pochi giorni dopo il fallimento della Svb Bank, Kiyosaki sosteneva che Credit Suisse sarebbe stata la prossima a cadere: «È la mia previsione, perché il mercato obbligazionario sta andando a picco».
La Borsa e la crisi di Credit Suisse, in diretta
E infatti Credit Suisse è affondata, portandosi dietro tutte le borse europee, dopo aver rivelato «debolezze materiali» nel suo rapporto annuale e una perdita di 8 miliardi di dollari per il 2022 — un annuncio arrivato in ritardo a causa della revisione dei libri contabili. Debolezze dovute alla «mancata progettazione di un’efficace valutazione di rischio per identificare e analizzare il rischio di inesattezze materiali», sostiene la banca con sede a Zurigo.
Secondo Kiyosaki non si ripeterà una situazione disastrosa per l’economia globale come quella del 2008, ma la sua nuova previsione è che il fallimento di queste banche provocherà una grave stretta creditizia che renderà complicatissimo, per imprese e persone, avere soldi in prestito.
«Comprate più oro, argento e bitcoin. Crollo in vista», aveva twittato il guru della finanza lunedì, un giorno prima delle rivelazioni negative di Credit Suisse.
I vertici della settima banca d’investimenti del mondo assicurano di essere «posizionati in maniera conservativa contro i rischi sui tassi d’interesse» e al momento non sarebbe in atto una corsa dei creditori e dei depositanti al ritiro delle proprie esposizioni.
Kiyosaki, il profeta del crac Lehman: “Banche ko, è la fine di mutui e prestiti”.Giovanni Vasso su L’Identità il 17 Marzo 2023
La Banca centrale svizzera apre il portafogli e Credit Suisse si riprende facendo segnare un rimbalzo in borsa al limite del clamoroso. I dirigenti della banca avevano chiesto un segnale, tendendo la mano. È arrivata la risposta: 50 miliardi di franchi, in prestito, al secondo istituto bancario della Confederazione fanno volare il titolo e sembrano allontanare, almeno per un po’, i dubbi, le ombre, le paure. Tutto risolto, dunque. Le azioni hanno recuperato terreno, segnando aumenti nelle contrattazioni fino al 30%, stabilizzatosi ieri al 18%, dopo aver inanellato record (negativi) per settimane, tornando sopra i due franchi svizzeri ad azione. L’economia e la finanza possono tirare un sospiro di sollievo. Forse no. Perché i problemi di Credit Suisse, così come quelli che stanno venendo fuori dalla crisi che attraversa il sistema bancario tra Usa ed Europa, sono strutturali.
Robert Kiyosaki, che ha fatto una fortuna con i libri di auto-aiuto e di educazione finanziaria, aveva profetizzato la caduta di Credit Suisse. Le sue parole hanno un senso, e soprattutto un’eco, perché Kiyosaki, nel 2008, aveva previsto il tracollo di Lehman Brothers quando tutti consideravano la banca newyorkese più che salda. Per l’economista, il problema è legato al crollo del mercato obbligazionario. Che è dovuto, come accaduto per Silicon Valley Bank, anche alle strette sui tassi operate dalle banche centrali di tutto il mondo, dagli Usa fino all’Ue, passando per il Regno Unito. Secondo Kiyosaki, che teme si sia arrivati al punto in cui chiedere prestiti e mutui sarà praticamente impossibile, è giunto il momento di rifugiarsi altrove, di investire – come ha scritto su Twitter a poche ore di distanza dal crollo in Borsa di Credit Suisse – in oro, bitcoin o argento.
Se a livello globale il dibattito tra gli esperti è già innescato, in Svizzera i dubbi – più che diradarsi – si sono moltiplicati. John Plassard di Mirabaud Banqu non è sicuro che l’emergenza sia rientrata: “Credit Suisse rimane un’istituzione finanziaria globale, il che solleva preoccupazioni per il rischio sistemico e ha portato il costo dei certificati di assicurazione contro le insolvenze a breve termine a livelli allarmanti. Questo forte calo e l’aumento dello stress si sono materializzati nonostante il messaggio (apparentemente) rassicurante di Axel Lehmann, presidente del consiglio di amministrazione. Egli aveva affermato che la banca non sta prendendo in considerazione l’assistenza governativa e che sarebbe inesatto tracciare paralleli tra le sue attuali difficoltà e il crollo di Silicon Valley Bank”. Jochen Stanzl di Cmc Markets riporta dubbi e incertezze che continuano a creare turbolenze sui mercati: “Molti investitori temono che le notizie negative su Credit Suisse possano non essere le ultime. Lo spettro di un altro fallimento come quello della banca d’investimento statunitense Lehman Brothers incombe sui mercati. I dubbi al riguardo stanno contagiando una banca dopo l’altra: prima Silvergate e Svb, poi First Republik Bank. E ora Credit Suisse potrebbe essere la prossima vittima”. Finita qui? Macché. Dz Bank rivendica di aver “raccomandato la vendita del titolo dall’estate del 2021” si conferma scettica “sul successo a lungo termine della ristrutturazione della banca. Sarebbe già un compito immane in tempi normali, ora c’è anche un generale scetticismo del mercato nei confronti delle banche”. Tuttavia, gli analisti ritengono che “il sostegno fornito dalla Bnse dalla Finma va comunque accolto con favore”.
Arthur Jurus, Oddo Bhf, pone l’accento sul fatto che “il credit default swap (Cds), che riflette il rischio di default, è raddoppiato in una settimana a 820 punti base da 370 punti base. Il mercato stima quindi una probabilità di insolvenza superiore al 50% in cinque anni. I mercati sono preoccupati”. I cittadini svizzeri, specialmente quelli che hanno acceso un conto presso Credit Suisse, seguono con apprensione la situazione. L’opinione pubblica è divisa. L’intervento della Banca nazionale svizzera sembra aver confermato la posizione di chi sosteneva che le istituzioni si sarebbero mosse. In ossequio all’adagio finanziario del “too big to fail”, della necessità, quindi, di salvare a tutti i costi il colosso creditizio per evitare guai peggiori.
Intanto Bruxelles sta continuando a monitorare “con attenzione” gli sviluppi nel settore bancario e un portavoce della Commissione Ue ha spiegato all’agenzia Adn Kronos che le istituzioni comunitarie sono “in contatto con le autorità competenti europee e nazionali che hanno la responsabilità di vigilare sulle banche”. Dagli Usa arrivano dichiarazioni d’intenti analoghe. Ciò accade mentre Ammar Al Khudairy, presidente della Saudi National Bank, ha parlato all’emittente americana della Cnbc minimizzando la situazione: “Se si guarda a come è crollato l’intero settore bancario, sfortunatamente, molti hanno solo cercato scuse. È panico, un po’ di panico. Credo del tutto immotivato, sia per il Credit Suisse che per l’intero mercato”. Ma il crollo dei titoli della banca svizzera è arrivato proprio con la chiusura degli arabi a ogni ipotesi di un aumento della loro quota di capitale: “Non ci sono state discussioni con Credit Suisse sulla fornitura di assistenza. Non so da dove venga la parola assistenza, non ci sono state discussioni di sorta da ottobre. Il messaggio non è cambiato, è lo stesso da ottobre: anche se lo desiderassimo, ci sono troppe complicazioni dal punto di vista normativo”. Per il banchiere saudita, in netta controtendenza, è tutto sotto controllo e non ci si deve far prendere dal panico: “Abbiamo avuto un fallimento (Silicon Valley Bank ndr) la scorsa settimana, ma non è neanche lontanamente paragonabile a quello che abbiamo visto nel 2008. Questo è solo un incidente isolato, le autorità di regolamentazione hanno escluso ogni possibilità di ricaduta”.
L’effetto Credit Suisse manda al tappeto le Borse. Ecco perché l’ondata di sfiducia ora colpisce le banche. Gli investitori temono che l’istituto svizzero da tempo in crisi non riesca a raccogliere i capitali necessari per il rilancio. Ma l’ondata di vendite si spiega soprattutto con le ipotetiche potenziali perdite nei bilanci degli istituti causate dalle minusvalenze sui titoli di stato. Vittorio Malagutti su L’Espresso il 15 Marzo 2023
Effetto Credit Suisse sulle Borse. A soli due giorni dallo scossone innescato dal fallimento dell’americana Silicon Valley bank, i listini europei sono travolti da un’altra ondata di vendite. E questa volta sono le traversie del colosso elvetico a scatenare una tempesta finanziaria che ha coinvolto tutti i titoli degli istituti di credito. Non fanno eccezione le grandi banche italiane, con Intesa e Unicredit che nel primo pomeriggio viaggiano in ribasso del 7 per cento circa, così come Banco Bpm e Bper. Perdono quota anche tutte le società più importanti del listino milanese, tanto che l’indice Ftse Mib fa segnare da ore una perdita che oscilla intorno al 4 per cento.
Il detonatore della crisi si trova nella Paradeplatz di Zurigo, sede di Credit Suisse, in difficoltà ormai da un anno, per effetto di una serie di scandali e pessimi affari che hanno provocato perdite miliardarie in bilancio. Il piano di rilancio, con vendite di attività e un aumento di capitale da 4 miliardi di franchi (circa 4,1 miliardi di euro) varato nell’autunno scorso, sembrava sufficiente quantomeno a evitare guai peggiori, compresi un clamoroso crack di uno dei marchi bancari più famosi al mondo.
Nei giorni scorsi però si è saputo che la Sec, l’organo di controllo sulla Borsa Usa, aveva chiesto alcune integrazioni al bilancio dell’istituto, giudicato poco chiaro. E ad affossare i titoli questa mattina sono arrivate anche le dichiarazioni di Ammar Alkhudairy, presidente della Saudi National Bank, l’istituto saudita che qualche mese fa ha comprato il 10 per cento del Credit Suisse. Intervistato da Bloomberg Tv, Alkhudairy ha smentito che la quota controllata dalla banca araba possa essere incrementata, come invece da tempo si vociferava sul mercato. Le parole del banchiere sono suonate come una esplicita dichiarazione di sfiducia sulle possibilità di rilancio del grande gruppo svizzero. Gli investitori ne hanno preso atto, vendendo a più non posso le azioni Credit Suisse.
La crisi appare tanto grave che sul mercato sono tornate circolare indiscrezioni su un possibile prossimo salvataggio pilotato dalla Banca nazionale svizzera. «Questa ipotesi non esiste», ha tagliato corto ieri sera Axel Lehmann, presidente di Credit Suisse, che nell’arco di un anno ha perso quasi l’80 per cento del suo valore borsistico e oggi, dopo quattro ore di contrattazioni faceva segnare un ribasso del 28 per cento.
L’incertezza sul destino della grande banca elvetica ha rafforzato il clima di sfiducia nei confronti dell’intero settore bancario, che pure era reduce da sei mesi di grandi rialzi. Il cambio repentino di umore viene spiegato con le minusvalenze potenziali nei conti degli istituti legate al calo delle quotazioni dei titoli di stato, presenti in grandi quantità negli attivi delle banche. In sostanza gli investitori temono che l’aumento repentino dei tassi d’interesse, cominciato nell’estate scorsa, possa in qualche modo alimentare una spirale di perdite nei conti degli istituti di credito. A tal punto che potrebbero rivelarsi una protezione insufficiente anche i requisiti patrimoniali imposti dalla vigilanza europea, molto rafforzati dopo la grande crisi finanziaria di una decina di anni fa. Va detto che tutte le maggiori banche italiane hanno appena reso noti i conti del 2022 con profitti in netto aumento rispetto al 2021 e che i titoli di stato sono per oltre la metà iscritti a bilancio in un’apposita sezione dell’attivo (held to collect) in modo da sterilizzare eventuali perdite.
Dopo mesi all’insegna dell’ottimismo, con le banche che venivano descritte come le principali beneficiarie degli aumenti dei tassi decisi dalla Bce, ora il mercato ha bruscamente cambiato parere e si interroga se i continui rialzi non possano alla fine innescare sui mercati finanziari una spirale difficile da controllare, di cui le banche sarebbero le prime vittime. Basterà la tempesta di questi giorni per convincere la Banca centrale di Francoforte a rallentare il passo? Lo sapremo giovedì prossimo, quando il Consiglio direttivo della Bce si riunirà per decidere un nuovo aumento dei tassi. L’attesa era per una manovra da mezzo punto percentuale, ma l’opinione prevalente sul mercato è che non si andrà oltre un incremento di 0,25 punti. Vedremo.
Con il tracollo di Credit Suisse la crisi bancaria diventa globale. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 15 marzo 2023
Il titolo di Credit Suisse, banca sistemica di rilevanza globale, è arrivata a perdere il 28 per cento in Borsa, dopo che la Saudi National Bank, principale azionista del colosso finanziario, ha escluso ulteriore supporto finanziario all’istituto di credito.
Nel suo crollo, il colosso del credito, ha trascinato tutti i mercati europei.
La Bce ha chiesto alle banche sistemiche di fornire i dati sulla esposizione al gruppo svizzero, in una fase in cui già il settore è in estrema difficoltà
Il titolo di Credit Suisse, banca sistemica di rilevanza globale, è arrivato a a perdere il 28 per cento ieri in Borsa, dopo che la Saudi National Bank, principale azionista del colosso finanziario, ha escluso ulteriore supporto finanziario all’istituto di credito. E nel suo crollo, ridotto (se così si può dire) della metà a fine giornata, ha trascinato tutti i mercati europei, e allertato la Bce che si è trovata costretta a chiedere le cifre dell’esposizione delle banche europee allo storico istituto elvetico.
Credit Suisse ha chiuso cinque trimestri consecutivi in perdita e il bilancio 2022 con un buco da 7,5 miliardi, il peggior risultato dal 2008, e soprattutto con una fuga di fondi pari a 126 miliardi. La Saudi National Bank è diventata primo azionista del gruppo a fine ottobre, quando è stato lanciato un aumento di capitale in due fasi da 4 miliardi, con i quali gli investitori istituzionali come i sauditi hanno salvato la banca, e un piano di ristrutturazione che prevede in totale 9mila esuberi.
SALVATAGGIO SAUDITA
Giovedì la Saudi National Bank, partecipata dal fondo sovrano di Riad, detiene il 9,9 per cento del capitale dell’istituto di credito ma il suo presidente, Ammar Al Khudairy, ha spiegato a Bloomberg TV che ci sono ostacoli regolatori che impediscono di andare oltre la partecipazione del 10 per cento e quando l’intervista rilasciata all’emittente americana è stata diffusa, il titolo della banca ha iniziato una caduta in picchiata che l’ha portata al minimo storico.
Considerata la sua rilevanza, Credit Suisse ha trascinato con sé le borse europee che avevano sperato in una giornata di minori tensioni, dopo le ripercussioni dei fallimenti americani di Svb e Signature Bank. Già martedì i credit default swap a un anno su Credit Suisse, cioè i derivati che assicurano dal rischio fallimento, hanno toccato 835,9 punti base avvicinandosi alla soglia che indica la messa in discussione della continuità aziendale, cioè il possibile fallimento. Si tratta di un livello pari a diciotto volte quello di Ubs e nove volte quello di Deutsche Bank.
L’amministratore di Credit Suisse delegato Ulrich Koerner ha cercato di rassicurare sulla liquidità della banca. Ma la sfiducia dipende anche dal fatto che dopo anni di scandali ripetuti e conti in rosso, il rendiconto 2022 registra «debolezze sostanziali» nella attività di controllo dei dati finanziari e che, al contrario di quanto dichiarato appena a dicembre, la fuga dei clienti non si è arrestata. Il rendiconto è stato pubblicato con una settimana di ritardo, dopo che la Sec, l’autorità di Borsa americana ha sollevato dubbi sulla revisione dei conti sui bilanci 2019 e 2020.
Cioè ancora prima dell’inizio delle grosse perdite. Nel 2021 investimenti miliardari e speculativi sono sfumati con il fallimento in serie della finanziaria britannica Greensill Capital e dell’hedge fund Archegos Capital. Ed è arrivata una multa da circa mezzo miliardo per aver partecipato a uno schema di corruzione e tangenti per uomini della stessa Credit Suisse, celato sotto un prestito allo stato del Mozambico. Nel 2022 poi è stata la volta della fuga di notizie su 18mila clienti dell’istituto, tra loro criminali e protagonisti di scandali di corruzione.
E ancora nel giugno del 2022 Credit Suisse ha segnato un record: prima banca condannata in Svizzera per riciclaggio di denaro. A luglio si è insediato il nuovo amministratore delegato Koerner, con la responsabilità di recuperare reputazione e fiducia. Eppure l’assemblea di ottobre è stata tenuta a porte chiuse. Per far fronte alle critiche, e alle azioni legali dei clienti in corso anche negli Stati Uniti, la banca ritoccato la politica di remunerazione: ha ridotto nel 2022 le retribuzioni dei primi 18 dirigenti da 38 milioni di franchi a 32,2 milioni (32,7 milioni di euro) e senza distribuzione di bonus.
Il presidente Alex Lehman ha rinunciato a un terzo della sua remunerazione, accontentandosi di 3 milioni, l’ad di 2 milioni. Peccato che i problemi di trasparenza siano rimasti: a dicembre infatti Credit Suisse ha annunciato che il ritiro dei fondi dei clienti era finito, addirittura che la rotta si era parzialmente invertita. Non era vero, anzi, l’abbandono ha superato le stime degli analisti.
La crisi della seconda banca elvetica apre un altro, enorme, fronte di debolezza del settore del credito: le Borse europee ieri hanno bruciato 355 miliardi di euro, con ribassi del tre per cento e la maglia nera di Milano a - 4. I rendimenti dei titoli di stato sono in discesa ripida – sotto pressione per il rialzo dei tassi e il disvelamento sulle perdite non realizzate portato dalla vicenda Svb – in discesa ripida. Mentre è chiaro che non ci sono banche troppo grandi per fallire, ma cattivi manager anche nelle grandi banche.
GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.
Un nuovo 'bubbone' dopo Silicon Valley Bank. Credit Suisse nella bufera, altra tempesta sulle banche: crollano le Borse dopo il ‘no’ saudita al salvataggio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Marzo 2023
La breve ripresa dei principali listini internazionali di martedì è già un ricordo. Le Borse sono nuovamente crollate nella giornata odierna di fronte ai timori riguardanti l’ennesima banca, col ‘bubbone’ del fallimento della Silicon Valley Bank, la più grande a chiudere i battenti negli Stati Uniti dalla crisi finanziaria del 2008, e la successiva decisione del governo americano di chiudere un’altra banca particolarmente a rischio, ancora freschissimo.
Questa volta a trascinare giù i mercati finanziari sono le ‘condizioni di salute’ della banca Credit Suisse, i cui titoli stanno perdendo molto valore da vari giorni e trascinano al ribasso anche quelli delle altre banche europee.
Tecnicamente non si può parlare di crisi dello storico istituto finanziario elvetico, ma i pericoli sono paradossalmente maggiori di quelli della già fallita Silicon Valley Bank: a differenza della ‘piccola’ banca regionale della California specializzata nel settore tech, Credit Suisse è ben più interconnessa a livello internazionale e i timori sulle sue condizioni potrebbe spingere gli investitori a proiettare la debolezza di un singolo istituto sull’intero settore.
I problemi di Credit Suisse, il cui titolo in borsa andava male già da giorni, sono stati amplificati dalla comunicazione avvenuta da parte del presidente della Banca nazionale saudita, Ammar Al Khudairy, primo azionista della banca elvetica, di escludere ulteriore assistenza e in particolare richieste di liquidità alla banca a causa di problemi normativi.
La Saudi National Bank, partecipata per il 37% dal fondo sovrano saudita, è diventata il maggior azionista del Credit Suisse alla fine dello scorso anno, dopo aver acquistato una partecipazione del 9,9% dell’istituto di credito svizzero.
Tanto è bastato perché il titolo della banca di Paradeplatz crollasse: per la prima volta le sue azioni valgono meno di due franchi svizzeri, un crollo 70%, rispetto a un anno fa e una perdita di oltre il 25% a metà giornata, rispetto alla chiusura di ieri alla borsa di Zurigo, toccando così il minimo storica. Un tonfo tale da comportare anche la temporanea sospensione della quotazione del titolo stesso.
Inutili anche le rassicurazioni di Axel Lehman, presidente dell’istituto elvetico, sulla solidità della banca svizzera. “Abbiamo una ristrutturazione in corso approvata e il nostro tasso di liquidità è attualmente superiore al 150%”, ha garantito Lehman, che però si è scontrato col panico dei mercati internazionali.
I numeri, purtroppo per Credit Suisse, mandano segnali forti. I certificati di assicurazione sull’insolvenza della banca, i cosiddetti credit default swap, si stanno avvicinando alla soglia critica dei mille punti, che indica un serio pericolo per la continuità aziendale del gruppo. In particolare i certificati a un anno si sono portati ieri a 835,9 punti base, secondo la piattaforma Cmaq, sui massimi di sempre, e valgono 18 volte gli analoghi titoli derivati della rivale Ubs e circa nove volte quelli di Deutsche Bank.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Estratto dell’articolo di Giuliana Ferraino per corriere.it il 17 marzo 20223.
Il Credit Suisse sprofonda di nuovo in Borsa a Zurigo, dove in primo pomeriggio è arrivato a perdere quasi il 12% a 1,79 franchi. È durato solo un giorno il rimbalzo favorito dal sostegno della Swiss Nation Bank, la banca centrale svizzera, che ha messo a disposizione dell’istituto di credito 50 miliardi di franchi di liquidità. Uno scudo offerto dopo il crollo del 24.25% registrato martedì, ma durante la seduta la banca elvetica era arrivata a perdere oltre il 30%.
Il tonfo di Credit Suisse manda in rosso i listini europei. La Borsa di Zurigo cede lo 0,86%, il Cac 40 di Parigi l’1,01%, il Dax 30 di Francoforte lo 0,87% e il Ftse 100 di Londra lo 0,71%. In decisa flessione dell’1,21% l’Ibex 35 di Madrid. Vendite più contenute sull’Aex di Amsterdam, che cede lo 0,27%.
[…] Come ha dichiarato in un intervista al Corriere della SeraMohamed El-Erian, presidente del Queens’ College a Cambridge e advisor di Allianz, la liquidità messa a disposizione della SNB «dovrebbe essere sufficiente per gestire lo stress da liquidità. Non risolve però le questioni relative al modello di business del Credit Suisse».
Per calmare i mercati, oltre al ricorso alla liquidità della banca centrale, il Credit Suisse potrebbe far leva sugli altri investitori strategici, che affiancano la Saudi National Bank nell’azionariato, tra cui la Qatar Holding che il 5,03% e l’asset manager Olayan Group con il 4,93%. Durante la crisi del 2008, per rafforzare la propria posizione, la rivale Ubs aprì il capitale al fondo sovrano di Singapore Gic. In alternativa, […] potrebbe decidere vendere alcuni delle sue attività […].
Estratto dell’articolo di Francesco Bertolino per “la Stampa” il 17 marzo 20223.
[…] In apparenza […] a Zurigo la vita scorre placida come sempre: non ci sono code dinanzi agli sportelli della banca né si percepisce preoccupazione fra i passanti. Nelle stanze dei bottoni, però, si avverte ancora l'eco della tensione che ha spinto le assicurazioni sul fallimento di Credit Suisse a 1000 punti base. Tale livello equivale a una probabilità di default a cinque anni del 50%. Eccessi della speculazione? È la tesi di molti zurighesi e di Credit Suisse che ieri ha ribadito la propria solidità patrimoniale e capacità di far fronte a eventuali riscatti.
[…] La convinzione diffusa è però che sia presto per celebrare: l'istituto ha ancora una lunga strada per ritrovare il profitto e chissà se mai tornerà ai 44 miliardi di capitalizzazione del 2017 (ieri erano 8,1, meno di un quinto). Prova ne sia che, dopo una breve pausa, ieri i credit default swap di Credit Suisse hanno ripreso a salire e i prezzi dei bond a scendere.
Nubi di sfiducia che preannunciano nuovi rovesci.
«Le autorità hanno aspettato troppo a intervenire e ora la reputazione del sistema finanziario elvetico è in pericolo», sostiene un consulente che ha lavorato a lungo per Credit Suisse. «La fuga dei depositi dalla banca era in atto da tempo», sottolinea, «la clientela di Credit Suisse non è composta da impiegati, ma da gente che di soldi se ne intende e ha fiutato subito il pericolo».
Poiché le difficoltà erano note da mesi, però, il banchiere non si spiega il tracollo improvviso delle azioni. O meglio, trova delle ragioni che nulla hanno a che fare con i fondamentali economici della banca.
«Le dichiarazioni del presidente di Saudi National Bank, primo azionista al 10%, sono state una mazzata […]: non è compito suo ma del cda discutere eventuali aumenti di capitale», prosegue Il riferimento è all'«assolutamente no» pronunciato mercoledì da Ammar Alkhudairy in risposta a chi chiedeva se sarebbe stato disponibile a fornire altri fondi a Credit Suisse. Il manager saudita ha poi corretto il tiro, chiarendo che citava limiti regolamentari e che comunque l'istituto era solido. Ma ormai era tardi: il mercato aveva già venduto a piene mani le azioni europee, dimenticando d'un tratto il collasso di Silicon Valley Bank e Signature Bank negli Stati Uniti.
Qualcuno maligna che sia in fondo questa la ragione della "gaffe" saudita e dell'accanimento borsistico sugli istituti del Vecchio Continente: un diversivo per distogliere l'attenzione dal secondo e terzo crac bancario per dimensione nella storia americana. «Non è un segreto che gli anglosassoni non amino la nostra neutralità diplomatica», soggiunge un altro ex Credit Suisse, rammentando la repentina uscita dall'azionariato della banca del fondo Usa Harris Associates. Pur riconoscendo gli errori di Credit Suisse, dunque, nella comunità finanziaria svizzera si va a caccia del cui prodest, con esiti più o meno credibili. Di certo, seppur involontariamente, la rivale Ubs sta traendo vantaggio dai tormenti della concorrente. […]
Estratto dell’articolo di Filippo Santelli per “la Repubblica” il 17 marzo 20223.
[…] «Trasferirò il conto da Ubs, per sicurezza », dice Lars, 29 anni, che lavora nelle risorse umane e ha appena prelevato. Del resto, il secondo colosso nazionale del credito è lì a 50 metri, all’altro lato della piazza simbolo della finanza elvetica. «Se tanti clienti facoltosi hanno perso fiducia e portato via i soldi, perché dovrei averla io?».
Già, la fiducia: il termine torna spesso. Stringi stringi, è quella a tenere in piedi una banca. Una banca svizzera a maggior ragione. E il suo capitale di fiducia – dei mercati, dei patrimoni, e, si scopre a Zurigo, pure dei correntisti – Credit Suisse sembra averlo bruciato. Operazioni di finanza spericolata con perdite miliardarie, manager strapagati che fanno spiare i collaboratori, una galleria di clienti poco raccomandabili.
«Da ieri ha passato un punto di non ritorno», sentenzia Lukas Hässig, cane sciolto del giornalismo finanziario, che per gli articoli al vetriolo sul suo blog Inside Paradeplatz si è beccato una causa dalla banca. «Dentro Credit Suisse convivevano due mondi: da un lato quello americano della banca di investimento, dei profitti ad ogni costo, dall’altro quello svizzero e più terreno della gestione dei patrimoni e del credito tradizionale».
L’equilibrio a un certo punto si è rotto: «I manager svizzeri non conoscevano il gioco, quelli di Wall Street sì, e hanno usato i fondi della parte solida per finanziare le loro operazioni». Risultato: le perdite al casinò della finanza hanno intaccato il ramo sano e i grandi patrimoni, capito che i soldi non erano in cassaforte, hanno iniziato a scappare.
[…] «Al di là dei miti, le banche svizzere hanno sempre vissuto crisi». Vero: non più di 15 anni fa era Ubs che voleva far l’americana, finì nel gorgo dei mutui subprime. Il governo e la Banca centrale orchestrarono un salvataggio da manuale. Nel frattempo, le pressioni americane spingevano Berna a smantellare il segreto bancario, aprendo – in teoria – una nuova era di trasparenza. E invece rieccoci qui: «La fiducia si può recuperare – ribadisce Leutenegger – basta liberarsi da questi rischi inutili e smettere di fare errori». Solo che Credit Suisse di errori continua a farne. […]
Estratto da ilsole24ore.com il 17 marzo 20223.
Nonostante gli interventi per mettere in sicurezza Credit Suisse in Europa e First Republic Bank negli Stati Uniti, i mercati finanziari hanno vissuto una nuova seduta all'insegna delle vendite e le Borse europee hanno chiuso la settimana con un altro netto calo: Piazza Affari (FTSE MIB -1,55%) è stata tra le peggiori e la performance odierna porta a -6,5% il bilancio di una settimana nera segnata prima dal crack di Silicon Valley Bank e delle banche regionali Usa e poi dal caso dell'istituto elvetico. Madrid (IBEX 35 -1,92%) ha perso quasi il 2%, gli altri indici almeno un punto percentuale.
"Anche con tutte le misure intraprese dalla Fed, dal Tesoro americano, dalla BoE, dalla Banca nazionale svizzera e dalle banche Usa per stabilizzare la situazione, stiamo vedendo che i mercati sono in difficoltà" commenta Craig Erlam di Oanda davanti al -8% di Credit Suisse, per il quale si ragiona su un riassetto che coinvolga Ubs, e al -24% di First Republic nonostante i 30 miliardi di dollari messi a disposizione da 11 banche americane.
Sull'andamento della sessione ha pesato anche la volatilità innescata dalle cosiddette «tre streghe», la scadenza trimestrale dei future sugli indici e delle opzioni su indici e azioni.
A Milano banche sotto pressione, ma sono Iveco e Tim le peggiori
Il comparto bancario è stato il più penalizzato: -2,6% il sottoindice Stoxx600. A Milano Finecobank -4,06%,Unicredit -3,27% e Banca Mediolanum -2,90% le più colpite dalle vendite. Cadute superiori al 4% per Santander a Madrid e Ing ad Amsterdam. Sul listino milanese, da segnalare la caduta di Iveco Group -3,90% e di Telecom Italia -3,86%, quest'ultima con buoni volumi di scambio (270 milioni di pezzi trattati) poiche' il contesto finanziario in deterioramento, i tassi in rialzo e i tempi ancora lunghi per il dossier rete contribuiscono a far scendere l'appeal per gli investitori. […]
In rosso Wall Street, dove permangono le preoccupazioni sulla stabilità del sistema bancario. Il titolo di First Republic Bank cede il 18% dopo il recupero della vigilia dovuto al piano di salvataggio da parte di un consorzio formato da undici banche, che hanno garantito 30 miliardi di dollari di liquidità; l'istituto ha però sospeso la distribuzione dei dividendi. Il calo di First Republic si ripercuote sugli altri titoli delle banche regionali, come Zions Bancorp, Comerica e KeyCorp. […]
Intanto, Svb Financial Group, la holding a cui faceva capo Silicon Valley Bank, ha presentato a New York la richiesta per il Chapter 11, ovvero l'amministrazione controllata. La società ha comunicato di avere circa 2,2 miliardi di dollari di liquidità e che sta valutando alternative strategiche per Svb Capital, Svb Securities e gli altri asset e investimenti, che hanno già attirato un significativo interesse.
Estratto dell’articolo di Angelo Allegri per “il Giornale” il 17 marzo 20223.
A far scoppiare la bufera sul Credit Suisse e sulle altre banche europee è stato un tranquillo signore dal sorriso ironico e dall’inglese impeccabile. In un’intervista a Bloomberg Tv, un paio di giorni fa, Ammar Abdul Wahed Al Khudairy si è limitato a dire che la banca di cui è presidente, la Saudi National Bank, non avrebbe messo altri soldi nell’istituto elvetico in difficoltà: «Abbiamo quasi il 10% del capitale, se si supera questa quota bisogna affrontare una serie di complicazioni regolatorie. Quindi non lo faremo».
[…] Nell’autunno scorso, quando l’istituto di credito saudita aveva deciso di dare una mano ai banchieri svizzeri investendo nel gruppo zurighese più di un miliardo di dollari, la stampa internazionale aveva scritto che uno dei simboli della Confederazione era stato salvato dagli sceicchi. Ma gli sceicchi, come gli investitori di tutto il mondo, si comportano secondo la propria convenienza.
Tanto più se sanno di avere il coltello dalla parte del manico. E mai come in questo momento gli investitori del Medio Oriente viaggiano sulla cresta dell’onda, visto che sono in grado di mettere in campo colossali quantità di denaro.
La Saudi National Bank, prima azionista del Credit Suisse, è nonostante il nome una banca di diritto privato, anche se è controllata dal Public Investment Fund (fondo statale saudita) e personalmente dal Principe ereditario Mohammed Bin Salman.
Nonostante si tratti del più grande istituto di credito del Medio Oriente, le sue dimensioni impallidiscono di fronte a quelle del già citato Public Investment Fund, che ha un patrimonio di oltre 600 miliardi di dollari. […] Complessivamente una potenza di fuoco finanziaria impressionante, che con l’invasione dell’Ucraina è cresciuta giorno dopo giorno, con prospettive ancora migliori per il futuro.
L’aumento dei prezzi energetici successivo allo scoppio del conflitto è stato una manna per i produttori di petrolio e di gas naturale; l’esclusione dal mercato internazionale, via sanzioni, di un concorrente importante come la Russia, una garanzia di utili copiosi nei prossimi anni.
La nuova ricchezza araba ha un simbolo: Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, al 98% di proprietà del governo saudita. Pochi giorni fa ha annunciato i suoi utili per il 2022: 161 miliardi di dollari. Un record assoluto […]
Credit Suisse, la mano dello sceicco Al Khudairy dietro al crollo. Libero Quotidiano il 17 marzo 2023
Dietro la bufera su Credit Suisse e altre banche europee c'è un imprenditore. L'uomo, uno sceicco, ha un nome e un cognome: Ammar Abdul Wahed Al Khudairy. "Abbiamo quasi il 10 per cento del capitale, se si supera questa quota bisogna affrontare una serie di complicazioni regolatorie. Quindi non lo faremo", diceva prima del disastro spiegando che la sua Saudi National Bank non avrebbe messo altri soldi nell’istituto elvetico in difficoltà. E così, quelle parole riferite a Bloomberg, hanno mandato nel pallone gli investitori che spaventati hanno subito aperto una crisi.
D'altronde i finanziatori del Medio Oriente sono in grado di mettere in campo colossali quantità di denaro. La Saudi National Bank, è la prima azionista del Credit Suisse ed è controllata dal Public Investment Fund (fondo statale saudita). A gestirla personalmente il Principe ereditario Mohammed Bin Salman. Insomma, quella che il Giornale definisce "una potenza di fuoco finanziaria impressionante". Potenza che con l’invasione dell’Ucraina, e l'aumento dei prezzi per l'energia, è cresciuta.
Intanto dopo un piccolo miglioramento con l'annuncio del salvataggio della First Republic Bank, le Borse europee virano in territorio negativo. E sulla scia del nuovo tonfo di Credit Suisse che cede circa l'11 per cento a metà seduta e torna sotto quota 2 franchi. Il crollo in Borsa della banca svizzera frena così l’entusiasmo dei mercati. Parigi cede lo 0,50 per cento. Francoforteil 0,73 e Londra lo 0,49. Stesso discorso per il Ftse Mib che a Piazza Affari lascia lo 0,85.
Credit Suisse, accordo per il salvataggio. Sì alla fusione con la rivale Ubs. Storia di Marco Sabella su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023.
Con un finale da thriller hollywoodiano, a poche ore dall’apertura della Borsa Tokyo — si è conclusa ieri verso le 19 e 30, dopo un week end di trattative febbrili, la complessa vicenda del . La seconda banca elvetica da anni è in difficoltà ed è stata colpita da un colossale deflusso di depositi (10 miliardi di franchi al giorno) dopo il fallimento di tre banche statunitensi, prima fra tutte la Silicon Valley Bank. Il colosso bancario svizzero Ubs, 60 miliardi di franchi di capitalizzazione e prima banca del Paese è stato chiamato a salvare la banca concorrente dalle stesse autorità di governo e regolamentari elvetiche. Dopo un primo rifiuto da parte del Consiglio di Credit Suisse di un’offerta di un miliardo di franchi per rilevare la banca e un successivo rilancio a 2 miliardi, l’accordo è stato infine trovato per un controvalore di 3 miliardi di franchi. Poco più di 3 miliardi di euro a fronte di una capitalizzazione del titolo Credit Suisse che venerdì scorso, alla chiusura dei mercati, si aggirava intorno ai 7,4 miliardi di franchi. In pratica Ubs pagherà le azioni del Credit Suisse 0,76 franchi ciascuna (l’offerta iniziale era di 0,25 franchi). Trattandosi di un’operazione «carta su carta» non vi sarà un esborso monetario diretto da parte di Ubs, ma tutti gli azionisti del Credit Suisse riceveranno una azione Ubs ogni 22,48 azioni del Credit Suisse come corrispettivo della fusione.
Il salvataggio del Credit Suisse si è concluso con il pieno sostegno del governo e della Banca centrale svizzera, la Bns, entrambi parti attivissime nella ricerca e nel raggiungimento dell’accordo. La Bns si è detta disponibile ad aprire una linea di credito di 150 miliardi di franchi svizzeri al nuovo colosso bancario che rappresenta ormai la spina dorsale del sistema finanziario elvetico. Il Consiglio federale svizzero ha annunciato l’accordo sottolineando che «Ubs è la migliore soluzione per ripristinare la fiducia e rassicurare i mercati». «La piazza finanziaria doveva essere protetta e anche la nostra economia. Un crollo di Credit Suisse avrebbe avuto delle conseguenze molto gravi per la Svizzera e per il mondo», ha sottolineato il ministro delle finanze elvetico Karin Keller-Sutter.
Dello stesso tenore il commento di Washington e di Francoforte. Il Tesoro americano e la Fed danno il benvenuto all’accordo fra Credit Suisse e Ubs, si legge in una nota congiunta. «Accolgo con favore la rapidità dell’azione e le decisioni prese dalle autorità svizzere. Esse sono fondamentali per ripristinare condizioni di mercato ordinate e garantire la stabilità finanziaria», ha affermato in una nota Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, dopo l’annuncio della fusione. Si apre adesso la partita dell’integrazione tra le due banche, fino alla settimana scorsa concorrenti. «Saranno tempi difficili per i dipendenti. Cercheremo di risolvere questo periodo di incertezza nel più breve tempo possibile», ha dichiarato il presidente di Ubs, Colm Kelleher. La banca ha più di 50.000 dipendenti in tutto il mondo, 17.000 dei quali in Svizzera. Nessuno in conferenza stampa ha fornito una stima del numero di lavoratori a rischio ma si parla di 10mila possibili esuberi. Kelleher ha detto che saranno ridotte le dimensioni dell’unità di investment banking del Credit Suisse, che è stata quella che ha dato più problemi negli ultimi anni e che è stata coinvolta in diversi scandali. L’investment banking «non rappresenterà più del 25% delle attività della banca», ha concluso.
Estratto dell’articolo di Franco Zantonelli per “la Repubblica” il 20 marzo 2023.
[…] Come una sorta di nemesi storica, l’acquisizione di Credit Suisse, da parte di Ubs, avviene a 30 anni dall’integrazione dell’allora Banca Popolare Svizzera in quello che, fino alla tempesta finanziaria degli ultimi giorni, è stato il numero due del sistema bancario elvetico.
In difficoltà per una crisi immobiliare, la Banca Popolare venne corteggiata sia da Ubs sia da Credit Suisse. Con un colpo d’ingegno, fu il presidente di quest’ultimo, Rainer E. Gut, ad avere la meglio. Il 6 gennaio del 1993 Gut annunciò l’avvenuta integrazione dell’istituto in difficoltà, con grave scorno della rivale Ubs.
Un’operazione costosa, visto che comportò un esborso di 2,6 miliardi di franchi, oltre al sacrificio di 2000 posti di lavoro. Il colosso Credit Suisse nacque allora, sulle ceneri della Banca Popolare. L’anno successivo nuova vittoria su Ubs, con l’acquisizione della Neue Aargauer Bank, il principale istituto bancario regionale svizzero. Ubs si prese la rivincita nel ’97, quando fece propria la SBS, Società di Banca Svizzera.
Da allora i due istituti, che si fronteggiano anche fisicamente, avendo le sedi una di fronte all’altra in Paradeplatz a Zurigo, hanno iniziato il loro cammino di istituti “too big to fail”, esportando il savoir faire bancario svizzero, non sempre eticamente cristallino, in tutto il mondo.
Sembrava una sorta di età dell’oro. Eppure, almeno per Credit Suisse, dal 2015 iniziò un lento declino, accelerato da affari miliardari sballati e dall’avidità di dirigenti non all’altezza. Due esempi su tutti: il ceo Tidjame Thiam, in carica dal 2015 al 2020, si è intascato 70 milioni di franchi, tra stipendi e bonus, mentre Urs Rohner, presidente del cda nello stesso periodo, di milioni di franchi ne ha portati a casa 50.
Rohner, lo scorso anno, venne citato dal fondo pensioni della città statunitense di Providence, per il fallimento miliardario dell’hedge fund Archegos, uno dei motivi all’origine della discesa agli inferi di Credit Suisse. Fatto sta che è stato sotto la gestione di banchieri quali i sopracitati Thiam e Rohner, che l’affidabilità di Credit Suisse ha iniziato a vacillare.
[…] Una banca che, oltre un secolo dopo dalla sua nascita, ha avuto bisogno dell’intervento di quella che possiamo dire sia stata la sua rivale di sempre, per uscire da una tempesta che Ubs, sia pure su presupposti diversi, aveva già affrontato e superato.
Ubs, nata nel 1862 come Banca di Winterthur, […] iniziò l’attività finanziando l’industria locale che, in quegli anni, stava diventando fiorente. Dopo il 2000, insieme a Credit Suisse, Ubs aveva, intanto, messo stabilmente piede a Wall Street, dove drenò diversi miliardi in fuga dal fisco Usa. Il che costò a entrambe le banche un’altra batosta, in termini di multe a 9 zeri. E alla Svizzera la fine del segreto bancario. Nel 2008, poi, sempre tarantolata dal demone del guadagno facile, Ubs si imbottì di mutui ipotecari americani e solo un salvataggio da 60 miliardi di franchi, da parte della Confederazione, la salvò da una fine analoga a quella di Lehman Brothers. Dopo 15 anni, restituiti i 60 miliardi, le tocca restituire il favore, evitando la scomparsa di Credit Suisse. […]
Ubs-Credit Suisse: non è una fusione ma un salvataggio con soldi pubblici. E la Borsa apprezza. Storia di Rodolfo Parietti il 21 marzo 2023 su Il Giornale
Ci vorrà ancora del tempo prima di capire se il salvataggio di Credit Suisse sia stata solo una mossa disperata che, prima o poi, presenterà il conto a tutti. La reazione di ieri delle Borse non fa testo: seduta nervosa, partita malissimo con gli indici collassati di un paio di punti percentuali prima del recupero finale (+1,6% Milano, +1% lo Stoxx600) favorito dalle parole rassicuranti arrivate dai governi, dalla Bce e dalle autorità di regolamentazione. E, soprattutto, dall'abbondante liquidità fornita al sistema finanziario mondiale dalle principali banche centrali. Come da copione, le quotazioni dei titoli del Credit (-55%, a 0,82 franchi svizzeri) si sono allineate al prezzo strappato da Ubs (+1,26%, dopo un -12%) per mettere le mani sui rivali zurighesi di sempre per una cifra complessiva pari a tre miliardi di dollari.
Ubs-Credit Suisse: non è una fusione ma un salvataggio con soldi pubblici. E la Borsa apprezza© Fornito da Il Giornale
Poiché il diavolo si nasconde sempre nei dettagli, l'operazione presenta fin d'ora delle criticità che ne denunciano la fretta con cui il governo di Berna e la Banca nazionale svizzera hanno voluto mandarla in porto. A cominciare dai tappeti rossi stesi attorno a Ubs, il cui forte potere negoziale ha consentito di svendere per pochi spiccioli una banca con un patrimonio netto di 54 miliardi di dollari e con una sede centrale, all'8 di Paradeplatz, che vale probabilmente più della cifra complessiva del deal. Per non parlare della concessione di una linea di liquidità fino a 100 miliardi più altri 9 di garanzia sulle potenziali perdite di CS ottenute dall'ad di Ubs, Ralph Hamers.
Video correlato: Credit Suisse all'Ubs spesi 3 miliardi di euro (Mediaset)
Un accordo super-blindato su un solo versante e su cui né i soci del Credit, né quelli dell'acquirente hanno potuto mettere bocca dopo che sono state modificate ad hoc le norme che concedevano sei settimane di tempo agli azionisti per pronunciarsi su una fusione. Atto poco democratico che avrà un inevitabile strascico nelle aule dei tribunali, visto che la Fondazione Ethos, in rappresentanza dei fondi pensione svizzeri, ha già minacciato azioni legali.
Ma l'aspetto più controverso riguarda la decisione di ghigliottinare il valore di 16 miliardi di franchi (17,2 miliardi di dollari) delle cosiddette obbligazioni AT1 del Credit, la più grande perdita mai registrata in un mercato da 275 miliardi in Europa, creato dopo la crisi finanziaria per garantire che delle perdite si facessero carico soprattutto gli investitori e non i contribuenti. È vero: si tratta di strumenti rischiosi, e quindi ad alto rendimento, dal momento che in caso di fallimento l'azzeramento del loro valore è garantito. CS non è però fallita. Il problema, sollevato da molti analisti, è questo: con l'idea di rafforzare il capitale della banca, chi ha congegnato il salvataggio ha invertito la piramide in base alla quale i primi a pagare devono essere gli azionisti e solo in seconda battuta i bondholder. Nella sostanza, si è voluto replicare quanto fatto da Barack Obama 14 anni fa durante la crisi di General Motors e Chrysler.
Un colpo di mano così macroscopico da far imbufalire gli investitori. E mettere in allarme Bce, Eba e Comitato di risoluzione unico, che si sono subito attivati per sottolineare come nell'eurozona le regole siano diverse: «Gli strumenti di capitale ordinario sono i primi ad assorbire le perdite - si legge in un comunicato - e solo dopo il loro pieno utilizzo sarebbe necessario procedere alla svalutazione dell'Additional Tier 1». Reazione più che legittima alla luce dei crolli attorno al 10% che hanno coinvolto le obbligazioni AT1 di Deutsche Bank, Unicaja Banco, Raiffeisen Bank International e BNP Paribas. Picchiata che lascia prevedere tempi duri per questo mercato, con le nuove emissioni destinate a restare nel congelatore nel prossimo futuro.
La liaison forzata CS-Ubs non ha quindi dissolto i timori che sulla scena globale si ripresenti una grave crisi sistemica. Le decisioni che domani prenderà la Federal Reserve saranno sotto questo profilo cruciali. I mercati si aspettano un rialzo limitato a un quarto di punto e un'inversione di rotta già a partire da maggio, mese che potrebbe inaugurare una nuova stagione di tagli del costo del denaro.
Le polemiche sull'affare svizzero. Credit Suisse e “l’affare della vita” di Ubs, i punti oscuri dell’acquisizione: dai bond azzerati alle regole aggirate. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Marzo 2023
Secondo Davide Serra, founder e ceo di Algebris Investments, per Ubs l’acquisizione della Credit Suisse rappresenta “l’affare della vita”. E in effetti i principali analisti concordano: l’accordo tra i due istituti di credito, che diventerà operativo salvo imprevisti nei prossimi tre mesi, porterà alla creazione di un gigante con l’esborso da parte di Ubs, già prima banca del Paese elvetico, di “soli” tre miliardi di franchi svizzeri, circa 3,35 miliardi di euro.
Un prezzo conveniente per rilevare il suo principale competitor interno, le cui azioni nell’ultimo anno avevano perso oltre il 70% del loro valore, spinte giù da una gestione da anni caotica e fallimentare in particolare con spericolate quanto sbagliate operazioni nell’investment banking, che aveva spinto Credit Suisse a realizzare lo scorso anno la sua perdita più grande dalla crisi finanziaria del 2008, pari a 7,3 miliardi di dollari, di fatto erodendo i guadagni di un decennio.
Al di là dell’aspetto economico, l’acquisizione-fusione tra le due principali banche svizzere porta con sé interrogativi e critiche. A partire dalle regole aggirate per consentire l’accordo, in primis quelle antitrust. Come ricorda Federico Fubini, la nuova entità avrà in Svizzera una quota di mercato pari a due terzi dell’intero settore delle banche significative: “Nessuna autorità antitrust di un Paese democratico accetterebbe il formarsi di un potere economico così ampio nelle mani di una sola impresa”, sottolinea il giornalista sul Corriere della Sera.
Non è l’unica forzatura avvenuta per consentire l’acquisizione da parte di Ubs della sua concorrente. La fusione è infatti avvenuta senza passare da un voto di approvazione nelle assemblee degli azionisti, decisione presa con l’appoggio del governo svizzero, dai manager dei due istituti di credito e dai regolatori della Finma, l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari svizzeri.
C’è quindi il caso più scottante, ovvero la clamorosa decisione di far azzerare di valore di 16 miliardi di dollari di obbligazioni di Credit Suisse, le AT1 (Additional Tier 1, ndr), facendo perdere così ai loro detentori i soldi. In “tempi normali” alti rendimenti perché legate ad un alto rischio, non sono infatti tutelate in alcun modo dalle regole bancarie in caso di fallimento dell’istituto di credito: ed è proprio qui il problema, dato che la Credit Suisse non è realmente fallita, dunque non si spiega l’azzeramento del loro valore, se non per migliorare il bilancio di Credit Suisse prima di venire inglobata dalla rivale Ubs.
Ad approfittare di quanto deciso sulle obbligazioni AT1 sono paradossalmente gli azionisti, che solitamente dovrebbero al contrario rispondere in prima istanza della crisi di una azienda, sia una ‘normale’ impresa o una banca come nel caso di Credit Suisse. In questo caso, pur con una consistente perdita del valore dei loro titoli, gli azionisti di Credit Suisse si trovano ora soci di Ubs, mentre i detentori di obbligazioni AT1, ossia creditori, perdono tutto.
E c’è chi non manca di sottolineare come a guadarci, o quantomeno non perdere tutto da questa situazione, siano i due soci forti di Credit Suisse: da una parte la Saudi National Bank, dall’altra la Qatar Authority, in possesso rispettivamente del 10 e del sette per cento delle azioni dell’istituto di credito rilevato da Ubs.
Tutte decisioni che sono state avvertite, anche dai mercati, come un ribaltamento delle regole: per questo i titolari delle obbligazioni AT1 azzerate sarebbero pronti a fare causa. Spiega il Corriere della Sera che lo studio legale Quinn Emanuel Urquhart & Sullivan ha messo insieme un team di avvocati, provenienti dalla Svizzera, dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, che stanno già discutendo con alcuni detentori di bond del Credit Suisse sulle possibili azioni legali a loro disposizione
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
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Com’è struggente Berlino al tramonto, città dove tutto s’abbatte e tutto si ricostruisce. Nelle guide, la capitale tedesca s’identifica con l’angelo dorato, la porta di Brandeburgo, il viale dei tigli e l’antenna tv. Invece è bello stare dove c’è l’acqua: il fiume o uno dei suoi laghi. Con le spiagge, i bar, gli alberi. Viaggio d’autore per cambiare prospettiva. Mario Desiati su L'Espresso il 09 agosto 2023
Avverto finalmente un po’ di solitudine, non rara sensazione in una qualunque capitale. Respiro il fiume sulla spiaggetta sotto Jannowitzbrücke, il ponte di ferro e cemento sulla Sprea. È l’alba e i bassi del Golden Gate alle mie spalle tuoneranno fino a lunedì mattina. Il Golden Gate mi ha sempre affascinato perché sono due sale scavate dentro un pilastro della S-Bhan e si entra a qualunque ora del giorno e della notte dell’intero weekend. D’inverno uscivano nel tardo pomeriggio della sera i clubber più integralisti, di solito con la neve che cancella le strade e la nebbia fitta. Alle spalle c’era una ruota panoramica che funzionava con qualunque condizione meteorologica, e i reduci del Golden Gate ci salivano sparendo nelle nuvole bianche e lattiginose.
Oggi non c’è più il luna park, ma una serie di palazzi nuovi, hotel e ostelli con finti murales e photoautomat per i turisti che vivono la Berlino dei party, prenotando alberghi che assomigliano alla loro idea della città. Certo non si aspettano di potersi trovare sulla sabbia ai bordi del fiume. È straniante per chiunque starsene in spiaggia con dietro il rumore dei treni e delle gru. Il posto di giorno è un beer garten come gli altri, tavoli di legno, qualche sedia a sdraio, la sabbia sotto i piedi, piccolo, sparuto, esotismo e la Berliner a 2 euro.
Ma io esco solo all’alba o al tramonto, quando i colori della città sono argentati o azzurri, è estate, il tramonto comincia alle otto e termina alle dieci. Un mozzico di crepuscolo si scorge guardando a Ovest, andando su un qualunque ponte della città, si osserva questo fenomeno tipico di tutte le grandi città del Nord, come se il cielo avesse una ferita e perdesse un sangue giallo scuro.
Da un mese sono tornato a Berlino e chi pensa di conoscermi mi manda messaggi chiedendo consigli sulle cose da fare. Ma io sono la persona più sbagliata al mondo, perché le mie dritte nei casi migliori deludono, o altrimenti turbano. I più pigri li mando sull’autobus 100, mettersi sul secondo piano e far partire una qualunque guida della città su YouTube. Una folla di pagine social vi racconteranno quanto si sente ancora il senso della storia, come si mangia bene nei ristoranti vietnamiti, l’outfit giusto per non farsi rimbalzare dai club più esclusivi e le malie dell’isola dei Musei con i suoi tesori. Rimanendo sul secondo piano di uno degli autobus gialli, il 100 appunto, che unisce lo Zoo ad Alexander Platz.
Berlino nelle guide è soprattutto quella, dall’angelo dorato della vittoria, passando dalla porta di Brandeburgo, percorrendo il viale dei tigli sino all’immensa antenna della televisione con il suo “discoball” d’argento.
E invece a me piace stare dove c’è l’acqua, può essere il fiume, oppure uno dei suoi laghi di città, Weissensee a Pankow, Plotzensee a Wedding, o Litzensee a Charlottembourg. Si tratta di alcuni dei tanti bacini all’interno della città, con le loro spiagge, i bar, le piccole escursioni e le folte e rigogliose selve di tigli, aceri, castani. Sono fratture dentro lo scorrere inesorabile del cemento e del calcestruzzo, oppure di pietra nobile con facciate primo Novecento, tutte in ordine nei quartieri più centrali, abitazioni che odorano di legno e stucco, dove le scale cigolano e l’architettura richiama l’anteguerra. Case in stile, ricostruite simili a com’erano. È una forma di identità.
Così come il nuovo Schloss, il castello residenza del re di Prussia. Raso al suolo nel 1950 è stato ricostruito in questi anni uguale a com’era ottant’anni fa. È un simbolo della città dove si abbatte e si ricostruisce continuamente. Ci sono cantieri, ovunque c’è un palazzo ridotto in macerie, e accanto laminati e blocchi di calcestruzzo, gru altissime, escavatori.
Se hai paura dei fantasmi e li rimuovi, meglio stare lontano da qui, se hai paura delle persone, se hai paura dei soffitti bassi e dei cunicoli, se hai paura della gente che si spoglia, dei maschi che limonano e le donne che sulla metro ammiccano, se guardi male chi è vestito da zebra, o porta un’armatura di lattice, o gira a piedi nudi e suona i secchi di latta.
La U-bahn, ossia la metropolitana sotterranea (diversa dalla S-bahn che invece sono i treni che uniscono il centro con la periferia) è l’orgoglio dei berlinesi. Innanzitutto il suo colore giallo, l’odore di affumicato e gomma, l’inconfondibile fantasia rosso azzurra blu e nera dei sedili, il popolo che la vive. Ogni fermata ha una sua storia, i suoi amatori, e la piccola folla che la vive, senzatetto, qualche sbandato, o semplicemente chi si vuol attaccare al wifi della BVG, libera isola di soste durante escursioni oppure riparo improvviso durante un temporale o una bufera di neve.
Una vecchia pubblicità della metropolitana berlinese lanciò lo slogan con un gergale Is mir egal cantato dal rapper Kazim Akpoga (scomparso poi prematuramente), che nella U-bahn si può grattugiare il formaggio, tagliare una cipolla, baciarsi a tre, vestire eccentrici, suonare in un concerto con abiti tradizionali e stare su un cavallo, tanto Is mir egal, ossia non importa. Ma c’è una cosa che invece è importante, ossia Is mir nicht egal, ed è quella di farsi sorprendere sul metro senza biglietto. Questa idea che la U-bhan sia il vero simbolo della città campeggia non solo nelle campagne pubblicitarie, ma anche nell’immaginario di chi vive la città. In fondo com’è scritto in uno dei tanti manifesti dentro la u-bahn, “Noi amiamo quel che tu senti di essere”.
Il posto di questa sensazione allegra e inquietante, ipnotica, è sulle linee numero 7 e numero 8, e per essere precisi nella fermata di Hermannplatz dove si congiungono e si scambiano i reciproci mondi, immagine pulsante della città multietnica con le sue diverse anime, il Medio Oriente, l’Africa, gli accenti delle due Americhe, e poi il colore di Istanbul con le sue cupole dorate, perché Berlino è tanti Paesi, ma soprattutto Turchia, visto che quasi un terzo dei suoi residenti ha origini turche. Percorrendo la Karl Marx Strasse (da non confondere con la Karl Marx Alle su a Est) ti imbatti in gruppi di maschi con lo stesso disegno della barba, i figli delle generazioni emigrate alla fine degli anni Cinquanta, i loro barbieri, i negozi di telefonia, le bancarelle di frutta fresca, le auto potenti che ruggiscono ai semafori.
Un detto dice che Parigi è città dell’amore e Berlino delle separazioni, certo in un posto dove una separazione c’è stata dentro con il suo muro, ma anche una città che ha saputo ricostruire tutto dopo aver fatto cadere il muro, è sempre un ottimo posto per le persone che devono far cadere i loro muri interiori. Ma per me Berlino è sempre separazione, culla di amori folgoranti e separazioni brucianti. Quando sei triste affondi completamente, quando sei felice, l’euforia si potenzia.
Me ne sto dove scorre la Spree, accanto alla passeggiata che accompagna il tratto che va da Jannowitzbrücke sino al ponte moderno di Modersohnbrücke, da cui si vedono le stazioni di Ostkreuz e Warshauer e in lontananza il ponte di mattoni rossi Oberbaum. Il Modersohn non attraversa un fiume, ma solo binari, è un ponte caro ai berlinesi e a coloro che vivono in città da un po’, c’è una pensilina su cui quando c’è da struggersi per una separazione puoi ubriacarti in santa pace aspettando che il sole tramonti, guardando i treni oro e amaranto che scivolano via.
Di posti così ce ne sono tanti, mettono assieme poesia metropolitana e nostalgia, una sensazione che sembrerebbe inaccettabile ovunque, ma che invece aderisce all’anima di Berlino, e quel che succede può essere filtrato dai bassi roboanti dei club che funzionano nel weekend, o dai silenzi improvvisi, che interrompono la città nei suoi laghi urbani, oppure in quei piccoli cimiteri che appaiono nei parchi pubblici. Cimiteri protestanti, ebraici, laici, i sepolcri si palesano improvvisi nei grandi parchi “come pasticcini” scrive il poeta Jan Wagner, la voce lirica della Berlino di questo tempo, ponte tra aspirazioni e paure, tra memoria e futuro.
Quando lascio il posto dal fiume s’affaccia sulla riva palustre la testa verde smeraldo di un germano reale, nel Medioevo simbolo di promiscuità maschile, in alcune culture orientali di fedeltà coniugale.
Traduzione dell’articolo di Matthew Karnitschnig per politico.eu il 27 Novembre 2023
I tedeschi hanno dato al mondo la schadenfreude per un motivo. E l'Europa meridionale non potrebbe essere più soddisfatta. Per i Paesi che hanno passato anni a subire l'Inquisizione fiscale di ispirazione tedesca, non c'è spettacolo più dolce che vedere la Germania stesa sull'altare della parsimonia teutonica.
L'ironia è che la Germania si è messa lì di proposito e non ha la minima idea di come potrà trovare redenzione. Una sentenza sbalorditiva della Corte costituzionale all'inizio di questo mese, che ha reso di fatto nullo il nucleo del programma legislativo del governo tedesco, ha lasciato il Paese in uno shock collettivo.
Per aggirare i vincoli di deficit autoimposti dalla Germania, che danno ai governi poco spazio per spendere più di quanto incassano in tasse, la coalizione del Cancelliere Olaf Scholz si è affidata a una rete di "fondi speciali" al di fuori del bilancio principale. Scholz era convinto che il governo potesse attingere a questi fondi senza violare il cosiddetto freno al debito.
La Corte, senza mezzi termini, non è d'accordo. La sentenza solleva dubbi sulla capacità del governo di accedere a un totale di 869 miliardi di euro parcheggiati fuori dal bilancio federale in 29 "fondi speciali". La decisione della Corte ha costretto il governo a congelare le nuove spese e a sospendere l'approvazione del bilancio del prossimo anno.
A quasi due settimane dalla decisione, sono diventate sempre più chiare sia la portata della sentenza sia la realtà che non c'è una facile via d'uscita. Sebbene Scholz abbia promesso di presentare un nuovo piano "molto rapidamente", pochi vedono una soluzione senza imporre l'austerità.
L'aspettativa nel Bundestag è che Scholz trovi tagli sufficienti per far fronte all'immediato buco di 20 miliardi di euro che la decisione ha creato nel bilancio del prossimo anno, ma non molto di più.
Nel frattempo, il suo governo è in fibrillazione. Mentre il ministro dell'Economia Robert Habeck, un verde, ha detto a tutti i microfoni che il futuro economico della Germania è in bilico, il ministro delle Finanze Christian Lindner ha scatenato il panico e la confusione annunciando una serie di blocchi di spesa mal definiti.
Giovedì il governo è stato costretto a smentire una notizia secondo cui un fondo speciale creato per sostenere le forze armate tedesche dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia sarebbe stato colpito dai tagli.
In una conferenza stampa con il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, mercoledì scorso, Scholz ha subito l'umiliazione di un giornalista che ha chiesto alla sua ospite se considerasse la Germania un partner affidabile data la sua crisi di bilancio. Una Meloni magnanima, il cui Paese è esperto di contabilità creativa, ha dato a Scholz un'iniezione di fiducia, rispondendo che secondo la sua esperienza era "molto affidabile".
Contabilità greca
Tra le righe, i giudici della Corte costituzionale tedesca hanno suggerito che l'uso dei fondi ombra da parte della coalizione di Scholz equivale a un gioco di prestigio contabile - lo stesso tipo di alchimia contabile per cui Berlino ha rimproverato la Grecia più di dieci anni fa. Forse inconsapevolmente, la sentenza del tribunale ha riecheggiato il consiglio non richiesto dell'allora cancelliere Angela Merkel ad Atene durante la crisi del debito greco: "È il momento di fare i compiti a casa!".
Per i Paesi dell'eurozona con una storia recente di problemi di debito - un gruppo che oltre alla Grecia comprende Spagna, Portogallo e Italia - la situazione finanziaria della Germania deve sembrare un déjà vu. Dal 2010 in poi, si sono trovati nella poco invidiabile posizione di dover spiegare a Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze della Merkel, come intendevano tornare sulla strada della rettitudine fiscale. Su sollecitazione di Schäuble, la Grecia ha quasi abbandonato l'euro.
Negli ultimi mesi, la Germania ha assunto di nuovo il ruolo di brontolone fiscale a Bruxelles, dove i funzionari stanno negoziando un nuovo quadro per il regolamento della zona euro sulla spesa pubblica, noto come Patto di Stabilità e Crescita. Il patto, che risale al 1997, è stato sospeso dopo la pandemia, ma dovrebbe entrare nuovamente in vigore l'anno prossimo. Molti Paesi vogliono allentare le regole, viste le enormi pressioni di bilancio che hanno fatto seguito alle molteplici crisi degli ultimi anni. Berlino è aperta alla riforma, ma è scettica sul fatto di concedere ai paesi dell'euro un margine di manovra troppo ampio sulla spesa. L'ultimo pasticcio di bilancio non aiuterà certo i tedeschi a far valere le loro ragioni.
Semplice arroganza
L'attrattiva della strategia che la Corte ha ora giudicato illegale era che il governo pensava di poter spendere i soldi messi da parte nei fondi speciali senza violare il freno al debito costituzionale della Germania, che limita il deficit federale allo 0,35% del PIL, tranne che nei momenti di emergenza.
In parole povere, la coalizione di Scholz voleva avere la botte piena e la moglie ubriaca, creando una parvenza di disciplina fiscale e spendendo liberamente per finanziare un programma ambizioso.
Nonostante gli esperti legali avessero ampiamente avvertito che il piano del governo di riutilizzare un'enorme fetta di fondi per l'emergenza pandemica non avrebbe potuto resistere a una sfida giudiziaria, Scholz e i suoi partner sono andati avanti lo stesso. Inoltre, hanno puntato la loro intera agenda politica sul presupposto che la strategia sarebbe andata in porto senza problemi.
La decisione del tribunale della scorsa settimana è l'equivalente nazionale di un bambino ricco a cui viene tagliato il fondo fiduciario: I soldi di papà sono ancora lì, ma il ragazzo non può toccarli e deve cambiare la sua Porsche con una Opel.
Tuttavia, la ragione principale di quello che molti a Berlino chiamano der Schlamassel (il fiasco) è la semplice arroganza. Il carattere mite di Scholz in pubblico nasconde un approccio da saputello al governo. Avvocato di formazione che ha lavorato per decenni ai vertici del governo tedesco, Scholz, almeno nella sua mente, è generalmente la persona più intelligente nella stanza.
Durante i negoziati di coalizione del 2021, Scholz ha venduto l'idea del trucco di bilancio ai suoi futuri partner - i liberaldemocratici conservatori (FDP) e i Verdi - come un modo per far quadrare il cerchio tra il programma di welfare dei suoi socialdemocratici (SPD), il costoso programma climatico dei Verdi e le richieste di rigore fiscale (o almeno la sua apparenza) dell'FDP.
In effetti, è dubbio che la coalizione si sarebbe mai formata senza il piano. I Verdi e l'FDP hanno accettato di buon grado; dopo tutto Scholz, ministro delle Finanze tedesco dal 2018 al 2021, sapeva cosa stava facendo. O almeno così pensavano.
Ministro delle Finanze o "cazzaro"?
A prescindere dal ruolo di Scholz, il suo successore come ministro delle Finanze, il leader dell'FDP Christian Lindner, condivide gran parte della responsabilità per il pasticcio, per il semplice motivo che è stato il suo ministero a supervisionare la strategia.
Durante i colloqui di coalizione del 2021, Lindner era combattuto tra il desiderio di governare e le restrizioni fiscali a lungo sostenute dal suo partito. Scholz gli ha offerto quello che sembrava essere un modo elegante per fare entrambe le cose.
Quando Lindner, che non aveva mai ricoperto un ruolo di governo esecutivo, era in procinto di ottenere il ministero delle Finanze, alcuni critici hanno messo in dubbio le sue qualifiche per guidare gli affari finanziari della più grande economia europea. POLITICO ha posto la domanda in modo più diretto: "Ministro delle Finanze o 'cazzaro'?". Molti tedeschi si sono senza dubbio dati le loro risposte nelle ultime settimane.
Macchina verde
A differenza dell'FDP, i Verdi non si sono fatti scrupoli ad appoggiare i trucchi contabili di Scholz. Quando si tratta di realizzare gli obiettivi ambientali dei Verdi, i fini giustificano da tempo i mezzi. Nei primi anni 2000, ad esempio, i leader del partito hanno convinto i tedeschi a spegnere le centrali nucleari del Paese e a passare alle energie rinnovabili.
Hanno vinto la discussione promettendo che i sussidi che i consumatori sarebbero stati costretti a finanziare per pagare il lancio dell'energia solare ed eolica non sarebbero costati ogni mese più di una "pallina di gelato". Alla fine, la bolletta annuale collettiva per le famiglie tedesche è stata di 25 miliardi di euro, abbastanza da aver messo all'angolo il mercato globale dei gelati molte volte.
La strategia dei Verdi per il gelato - assicurare impegni legislativi difficili da revocare e preoccuparsi dei dettagli finanziari in un secondo momento - ha anche informato il loro approccio a quella che chiamano la "trasformazione sociale ed ecologica", un piano per rendere l'economia tedesca neutrale dal punto di vista del carbonio.
Ecco perché lo shock della decisione del tribunale ha colpito più duramente i Verdi. Dopo oltre 15 anni di opposizione, i Verdi vedevano l'alleanza con Scholz e Lindner come il culmine del loro sforzo per convincere i tedeschi ad abbracciare la loro visione ecologica del futuro. Proprio quando la rivoluzione sperata era a portata di mano, è sfuggita alla loro portata.
Habeck, il volto della trasformazione dei Verdi, negli ultimi giorni ha dato l'impressione di essere un uomo allo stremo delle forze e ha fatto previsioni disastrose sull'imminente Armageddon economico.
"Questo segna un punto di svolta sia per l'economia tedesca che per il mercato del lavoro", ha dichiarato Habeck alla televisione pubblica tedesca questa settimana, prevedendo che diventerà molto più difficile per il Paese mantenere il livello di prosperità di cui ha goduto per decenni.
Strada verso la perdizione
Con tutta la sua franchezza, Habeck non ha affrontato l'elefante nella stanza: È una finta crisi del debito.
Non c'è alcuna ragione oggettiva per cui la Germania si trovi in questo dilemma. Un rating creditizio di prim'ordine significa che Berlino può prendere in prestito denaro a condizioni migliori di quasi tutti i Paesi del pianeta. Con un deficit di bilancio del 2,6% del PIL l'anno scorso e un carico di debito totale pari al 66% del PIL, la Germania è anche ben al di sopra della media rispetto ai suoi coetanei della zona euro in termini di disciplina fiscale - anche contando il debito raccolto per i fondi speciali.
L'unica ragione per cui la Germania non può spendere il denaro dei fondi speciali non è perché non se lo possa permettere, ma piuttosto perché rimane legata a un'ortodossia fiscale quasi religiosa che considera il debito in deficit come la strada per la perdizione.
Questa convinzione ha spinto la Germania ad ancorare il cosiddetto freno al debito nella sua costituzione nel 2009, consentendo così al governo di gestire solo un deficit minore, a meno che non si verifichi un disastro naturale o un'altra emergenza, come una guerra.
L'emendamento costituzionale è passato con un comodo margine e con un ampio sostegno sia da parte dei cristiano-democratici (CDU) che della SPD, che condividono il potere in una grande coalizione guidata dalla Merkel. All'epoca, la Germania si stava ancora riprendendo dallo shock provocato dal crollo della banca d'investimento Lehman Brothers nel 2008 e doveva impegnare miliardi per sostenere il settore bancario.
Il governo federale e gli Stati del Paese avevano iniziato a pianificare una riforma delle regole fiscali già prima della crisi. L'emergenza ha dato loro ulteriore slancio nel perseguire un freno al debito sancito dalla Costituzione come modo per ripristinare la fiducia dei cittadini.
Da questo punto di vista, ha funzionato come previsto. Mentre Paesi come la Grecia e la Spagna lottavano con le loro finanze pubbliche negli anni successivi, il freno al debito della Germania sembrava preveggente.
Anche se l'Europa meridionale era in difficoltà, l'economia tedesca ha ingranato la marcia più alta grazie alla forte domanda di prodotti asiatici e nordamericani, consentendo al governo non solo di raggiungere il pareggio di bilancio, ma anche di registrare una serie di avanzi, con un picco nel 2018 di 58 miliardi di euro.
Addio a tutto questo
I bei tempi finirono con la pandemia. La Germania, insieme al resto del mondo, è stata costretta a scavare a fondo. Tuttavia, aveva la capacità fiscale per farlo, poiché la pandemia ha giustificato l'abolizione del freno al debito sia nel 2020 che nel 2021. Le conseguenze dell'attacco russo all'Ucraina hanno costretto il governo a farlo nuovamente nel 2022.
Attingendo ai fondi speciali, Scholz e Lindner ritenevano di poter evitare una replica nel 2023. Ma la sentenza della Corte ha mandato all'aria questo piano. Molto prima della crisi attuale, era diventato chiaro alla maggior parte dei membri del governo - sia conservatori che di sinistra - che il freno al debito ostacolava gli investimenti nelle infrastrutture pubbliche (la coalizione della Merkel ha enfatizzato il pagamento del debito invece di investire le eccedenze) e, per estensione, la competitività economica della Germania. Da qui l'uso liberale della scappatoia dei fondi speciali, ora chiusa.
Il problema è che, anche se molti politici si sono resi conto dei pericoli del freno al debito, l'opinione pubblica rimane fortemente favorevole. Quasi due terzi dei tedeschi continuano a sostenere la misura, secondo un sondaggio pubblicato questa settimana da Der Spiegel.
Abrogare o anche solo riformare il freno richiederebbe alla classe politica tedesca non solo di convincerli del contrario, ma anche di raccogliere una super maggioranza in parlamento, cosa che al momento è improbabile.
Giovedì scorso, il ministro delle Finanze ha segnalato che il freno al debito dovrà cadere anche per il 2023. Ciò significa che il governo dovrà dichiarare retroattivamente un'emergenza - probabilmente in relazione alla guerra in Ucraina - e sperare che la Corte costituzionale la accetti.
"Bilancio truccato". I rigoristi tedeschi stroncati dalla Corte dei conti. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale lunedì 4 settembre 2023.
Rigoristi ma con i conti sballati. La stessa Germania che si appresta ad issare la bandiera del rigore in vista della battaglia sul Patto di stabilità, prevista in autunno, è alle prese con conti interni a dir poco ballerini. La Corte dei conti tedesca ritiene infatti che Berlino abbia truccato i propri conti pubblici. La vicenda non può che generare imbarazzi per il governo guidato da Olaf Scholz, che dovrà adesso risolvere il problema collegato ai veicoli finanziari (Sondervermoegen) con i quali la locomotiva d'Europa auspicava di alimentare spese fuori bilancio.
I conti della Germania non tornano
Secondo quanto riportato da Repubblica, i magistrati contabili tedeschi ritengono che il ministro delle Finanze, Christian Lindner, non sarà in grado di mantenere la promessa di raggiungere un pareggio di bilancio e di porre un freno al debito. L'effetto diretto degli imbarazzi generati dai suddetti veicoli finanziari è che il deficit reale del Paese è schizzato dai 16,6 miliardi di euro preventivati agli 85,7 miliardi, ovvero una cifra cinque volte superiore rispetto alle aspettative. Un'altra cifra nel mirino degli analisti è il disavanzo del pil, che raggiungerà il 2,4% e non lo 0,4%.
Ebbene, di tutto questo la Corte dei conti ha messo nel mirino Lindner, la cui longa manus avrebbe spostato nei veicoli finanziari della discordia impegni straordinari extra pluriennali, come i 100 miliardi per la Bundeswehr e i 212 miliardi per la lotta ai cambiamenti climatici, presumibilmente auspicando di bypassare il freno al debito e offuscare lo stato dei conti di Berlino. Adesso tutti i nodi stanno arrivando al pettine. E per la Germania non tira una buona aria.
Berlino nella bufera
Il giudizio della Corte dei Conti è emblematico: “Le misure decise per il bilancio constano essenzialmente in uno spostamento di spese in ‘fondi speciali’, nella cancellazione di sussidi e in poste senza coperture”. Per quanto riguarda il modus operandi adottato da Lindner, questo è stato definito “problematico” e in grado di compromettere la credibilità dei conti. “Attraverso varie misure decise dal 2020 il freno al debito è stato progressivamente indebolito sempre di più nella sua efficacia”, proseguono le autorità.
La normalità delle finanze pubbliche sbandierata dal ministro sembra essere lontana, mentre le spese e l'indebitamento, aggiungono i magistrati contabili, “continuano ad essere fortemente espansivi”. Per la cronaca, il prossimo anno la spesa pubblica lieviterà di 90 miliardi di euro, rispetto al 2019. “Se si contano le spese dei ‘fondi speciali’, la distanza tra i piani per il 2024 e l’anno di riferimento scelto dal governo, il 2019, aumenta ulteriormente a 177 miliardi di euro”, è il proseguo della valutazione.
Il “malato d'Europa”
Le opposizioni sono scatenate. “Cristian si vanta di rispettare il freno al debito e di ritornare alla normalità delle finanze pubbliche. Purtroppo nessuna delle due cose è vera”, ha dichiarato il vicecapogruppo della Cdu, Mathias Middelberg. È bizzarro pensare che il ministro accusato sia sempre stato orgoglioso della sua fede rigorista.
La Germania è ancora una volta il “malato d’Europa”, secondo Hans-Werner Sinn, presidente emerito dell’istituto Ifo. L’appellativo in questione è riemerso nelle ultime settimane mentre la produzione manifatturiera continua a balbettare nella più grande economia della regione e il Paese è alle prese con gli alti prezzi dell’energia. Per la Germania, è proprio il caso di ribadirlo, non tira una bella aria.
Estratto dell’articolo di Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” giovedì 17 agosto 2023.
«In Svizzera hanno avuto cinquecento anni di pace e democrazia. E cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù», diceva Orson Welles in una memorabile scena di «Il Terzo Uomo». E sarà anche vero, ma è un fatto che gli svizzeri alla precisione dei loro orologi ci tengono molto.
Così come, per transitiva, tengono molto alla precisione e puntualità dei loro treni. Ci tengono così tanto, da non sopportare quelli dei Paesi dove sono costantemente in ritardo. Al punto che hanno deciso di non farli più circolare sulla loro rete ferroviaria, quando accumulano più di 16 minuti di ritardo.
Sorpresa. Non stiamo parlando dei treni italiani, ma di quelli tedeschi. In base alle nuove regole dell’autorità ferroviaria elvetica, i treni provenienti dalla Germania che sono in ritardo vengono fermati a Basilea, a ridosso del confine. Anzi, quando il ritardo diventa troppo pesante, li fermano anche prima, a Basel Bad, costringendo i passeggeri a scendere e usare un servizio di bus alternativo per raggiungere il centro della città. [….]
«Metà dei treni internazionali dalla Germania arriva in ritardo a Basilea — ha spiegato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung Peter Füglistaler, capo delle ferrovie svizzere —. Se li facessimo proseguire, incasinerebbero anche gli orari della nostra circolazione» Füglistaler ha definito la misura una «sveglia» per Deutsche Bahn, dominus della rete tedesca, e non ha escluso ulteriori restrizioni.
Delle tante disfunzioni del sistema Germania, quella delle ferrovie è sicuramente la più clamorosa. Nel 2022, il 34,8% dei treni a lunga distanza ha portato ritardi superiori a 6 minuti, con punte del 40% tra giugno e luglio. Quest’anno, nei primi sei mesi, sono stati il 31,2%, ma manca ancora il dato estivo.
In realtà è peggio di così, le statistiche infatti tacciono sulle decine di treni che ogni giorno vengono cancellati in tutta la Germania, senza preavviso e senza che ai passeggeri venga fornita alcuna spiegazione. Si aggiunga che l’alta velocità nella Repubblica Federale è ferma ai tempi del nostro Pendolino.
Un solo esempio: il treno più veloce da Berlino a Monaco, più o meno la stessa distanza che c’è tra Roma e Milano, ci mette 4 ore, ma ce ne sono uno o due al giorno, gli altri impiegano mediamente mezz’ora in più. Sempre che arrivino in orario o che arrivino tout court.
Alla base c’è un problema di fondo: negli ultimi vent’anni, la Germania ha investito poco e male nelle sue infrastrutture e in particolare in quella ferroviaria. Con 38 mila chilometri, la rete tedesca è la più lunga d’Europa, ma è molto vecchia, in alcune aree i binari sono ancora quelli di cento anni fa e richiedono continue riparazioni, con l’apertura di cantieri che rallentano il traffico. […
Estratto dell’articolo di Francesco Guidotti per “Domani” domenica 30 luglio 2023.
[…] La Bild è un tabloid, l’unico che è riuscito ad affermarsi in Germania, diversamente dal Regno Unito, dove invece questo genere ha una tradizione consolidata. Sono giornali che hanno un’edizione cartacea più piccola e compatta, sono riccamente illustrati e contengono un gran numero di pagine.
I contenuti sono presentati con toni sensazionalistici e aggressivi, riportano molte notizie di gossip e scandalistiche, spesso strumentalizzano il corpo della donna o hanno anche atteggiamenti misogini e razzisti.
Nel Regno Unito tra i più noti ci sono il Sun e il Daily Mail, che hanno posizioni conservatrici e di destra. Anche la Bild ha assunto sin dalla nascita nel 1952 posizioni conservatrici, ma originariamente è nata ispirandosi al Daily Mirror che è uno storico tabloid britannico di sinistra.
La Bild è stata fondata dall’allora 34enne editore tedesco Axel Springer, che ha poi dato vita all’omonima azienda editoriale: Springer è morto nel 1985 e oggi la sua azienda è diventata la multinazionale dei media più grande in Europa e sta espandendo con forza i suoi interessi negli Stati Uniti.
[…] La Bild (il nome per esteso è Bild Zeitung, Bild significa immagine che in tedesco ha genere neutro, Zeitung invece sta per giornale che ha genere femminile, per questo si usa l’articolo femminile) è stata per anni il prodotto principale dell’azienda: nonostante la crisi dell’industria dell’editoria, è ancora il singolo giornale che vende più copie in tutta Europa.
Ancora nel 2022 ha venduto oltre un milione nel giorno medio e vendeva intorno alle cinque milioni di copie durante gli anni Ottanta. Ma Axel Springer ha interessi molto diffusi.
Infatti la società possiede, oltre alla Bild, Die Welt, quotidiano tra i più letti in Germania e anche più autorevole e rispettabile, il tabloid Fakt tra i più diffusi in Polonia e il sito statistico di calcio Transfermarkt e numerose pubblicazioni verticali (che coprono temi come sport, tecnologia, automobili, musica). Complessivamente la multinazionale possiede 140 media in oltre 40 paesi.
Axel Springer sta cercando di diventare un colosso anche negli Stati Uniti, investendo soprattutto in media digitali. Nel 2015 l’azienda ha speso una cifra intorno ai 400 milioni di dollari per rilevare il sito di notizie Business Insider (oggi si chiama solo Insider), nel 2021 invece ha completato l’acquisto di Politico, un sito che si occupa in modo molto approfondito di politica, per una cifra superiore al miliardo di dollari.
Queste manovre sono probabilmente collegate a tagli, vendite e licenziamenti: azioni utili per poter risparmiare e investire denaro altrove. Recentemente in Germania la Bild ha annunciato che 200 dipendenti saranno licenziati e i loro ruoli verranno ricoperti dall'intelligenza artificiale, in Italia e in altri paesi il sito di notizie e di aggregazione upday (testata digitale fondata da Axel Springer) ha visto licenziare un terzo delle persone impiegate, tutto questo è avvenuto spesso con poche spiegazioni o preavviso.
[…] La decisione di espansione negli Stati Uniti è da accreditare principalmente alle intenzioni dell’amministratore delegato Mathias Döpfner. Döpfner in questo momento, dopo alcuni cambiamenti societari, è anche il parziale proprietario di Axel Springer.
Infatti Friede Springer, vedova di Axel Springer, ha ceduto a lui le sue quote nella società, che ammontavano al 22 per cento: Döpfner adesso controlla il 44 per cento delle quote.
Il ceo ha quindi buoni margini di manovra e, come riporta il giornalista tedesco Paul Hockenos su Foreign Policy, è possibile che Döpfner abbia intravisto in Politico il sito autorevole con cui arrivare nel mercato americano e far conoscere e attuare le sue intenzioni oltreoceano.
[…] Non è facile capire se al di fuori della Germania o dell’Europa Axel Springer adotterà un metodo diverso da quello che lo ha contraddistinto fino a questo momento. Le pubblicazioni europee della multinazionale hanno spesso una linea conservatrice e di destra populista, e questo sin dalla sua nascita nel secondo dopoguerra.
Ad esempio, lo stile della Bild è fatto di titoli a tutta pagina, editoriali provocatori, una forma di pornografia soft (ha rimosso foto di donne in topless in prima pagina solo nel 2012), storie sensazionalistiche e a volte campagne violente e aggressive.
Tanto che le versioni cartacea e online della Bild vengono regolarmente sanzionate dal Consiglio della Stampa tedesco, l’organo responsabile dell’applicazione del Codice della Stampa tedesco.
In Italia forse è difficile comprendere l’impatto dei tabloid e del loro modello nella società. Un esempio calzante è stato espresso durante il podcast del Post, Morning Weekend, dal giornalista Luca Misculin: «Con le dovute differenze pensate all’impatto che avrebbe sul dibattito italiano se Libero e La Verità vendessero un milione di copie da anni».
E a questo si aggiunge […] che la Bild in patria non ha mai avuto rivali. In Germania la fiducia verso l’informazione offerta dalla Bild è notevolmente bassa. L’autorevole istituto di ricerca sul giornalismo Reuters Institute, nel suo annuale Digital News Report, ha riportato che la Bild risulta il giornale ritenuto meno affidabile tra quelli presi in analisi.
Solo il 22 per cento delle persone intervistate dichiara di fidarsi, mentre il 54 per cento delle persone lo dichiara inaffidabile. I movimenti editoriali negli Stati Uniti sono ancora in divenire per Axel Springer, ma alcuni metodi non sembrano essere cambiati […]
La Germania nella morsa del terrorismo islamico. Stefano Piazza su Panorama l'8 Luglio 2023
I nove arrestati dell'ultima operazione della Polizia sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS»
Sono ancora in corso le indagini che sono all’origine dell’operazione antiterrorismo che ieri ha coinvolto alle prime luci dell’alba diverse località della Renania Settentrionale-Vestfalia (NRW). Il procuratore federale ha disposto gli arresti per nove persone provenienti da Tagikistan, Kirghizistan e Turkmenistan che sono accusate di aver fondato un'organizzazione terroristica in Germania, di aver pianificato attentati e di aver raccolto denaro per la "Provincia dello Stato islamico del Khorasan" (ISPK o Isis-K) ovvero la branca regionale dell’ISIS che opera principalmente in Afghanistan. Le persone arrestate sono cinque tagiki, un turkmeno e un kirghiso entrati in territorio tedesco nella primavera del 2022 fingendosi profughi ucraini. Il raid è avvenuto nel distretto di Ennepe-Ruhr, nel distretto di Rhein-Sieg, a Gelsenkirchen a Gladbeck, a Düsseldorf (capitale delle NRW) e nel distretto di Warendorf. Secondo il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul, gli uomini avevano tra i 20 ei 46 anni. Sono stati perquisiti in totale 15 luoghi. Un altro uomo tagiko e sua moglie kirghisa sono stati arrestati dalle autorità olandesi. Secondo la polizia olandese, la coppia è anche sospettata di aver preparato atti terroristici. Sono tre gli aspetti che devono preoccupare; in primo luogo, c’è lil fatto che l’operazione di ieri vede l’arresto di un’intera cellula terroristica e non più “lupi solitari” e lo stesso è avvenuto recentemente in Belgio, Francia, Olanda e Gran Bretagna. Altro aspetto a dir poco inquietante è che ad essere arrestata è stata una un’intera cellula dell’ISIS-K che quindi ora mira all’Europa come avevamo purtroppo previsto in precedenti approfondimenti. Infine, c’è il fatto che nessuno è in grado di sapere quanti sono i fondamentalisti arrivati nei Paesi europei dallo scoppio della guerra in Ucraina ma soprattutto quanti ne arriveranno ancora fingendosi profughi. Arrivati dopo l'inizio della guerra in Ucraina Come detto i nove sono arrivati in Germania come falsi rifugiati subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e secondo gli inquirenti hanno subito formato la cellula terroristica con l’obbiettivo «di perpetrare attacchi di alto profilo in Germania sulla falsariga dell'ISIS». Le indagini hanno accertato che il gruppo era in contatto con i membri dell’Isis-K e alcuni obbiettivi erano stati individuati e per questo i sette uomini erano alla ricerca di armi. Il ministro federale dell'Interno Nancy Faeser ha parlato di «un colpo significativo al terrorismo islamista. Oltre a possibili piani di attacco, è stato impedito anche il finanziamento del terrorismo. Stiamo continuando la nostra dura presa di posizione contro gli islamisti. I seguaci dello Stato islamico apparentemente credevano di poter svolgere qui il loro lavoro terroristico quotidiano senza essere disturbati. Ma le autorità di sicurezza hanno occhi vigili e possono vedere con precisione chi si muove e come». Il ministro dell'Interno della NRW Herbert Reul ha sottolineato che recentemente c'è stato un calo del numero di islamisti registrati presso l'Ufficio per la protezione della Costituzione nel Nord Reno-Westfalia una zona storicamente molto permeabile al fondamentalismo grazie all’attività e ai sermoni infuocati di molti predicatori salafiti come il convertito tedesco Pierre Vogel (Abu Hamza) Ahmad Armih alias Abul Baraa, Abul Hussain, Abu Jamal e Wisam Kouli solo per citane alcuni. Tuttavia, le continue perquisizioni e gli arresti mostrano che questo calo di numeri «non dà motivo di suonare il cessato allarme» visto che Il numero di minacce è di circa 200 all’anno. Un numero davvero enorme. «La Germania rimane un obiettivo del terrorismo islamico e la minaccia rimane acuta», ha affermato il ministro dell'Interno Nancy Faeser, rimarcando il lavoro che le autorità hanno fatto negli scorsi mesi nello sventare attacchi pianificati a Castrop-Rauxel, nell'Ovest del Paese, e ad Amburgo, nel Nord del paese.
Germania, tedeschi che si fingono ebrei: cosa c'è dietro un boom assurdo. Daniel Mosseri su Libero Quotidiano il 10 agosto 2023
Una storica nata nella Ddr ma con studi anche a Lione e a New York; uno degli editorialisti di punta della Süddeutsche Zeitung ossia uno dei più autorevoli quotidiani circolanti in Germania; ma anche un anonimo ex insegnante, ritiratosi sull’isola di Fehmarn, a un tiro di schioppo dalla Danimarca. Tre persone che fra loro hanno poco o nulla in comune salvo aver tutte e tre fatto finta di essere ebrei. Motivi politici, voglia di attenzione, senso di colpa per il passato nazista: difficile stabilire quali di questi motivi abbia spinto il giornalista 33enne Fabrian Wolff, il pensionato 67enne Frank Borner o la storica Marie Sophie Hingst a fingersi esponenti del popolo d’Israele. Di certo il tratto narcisista non è mancato in alcuno di loro, che, anzi, hanno fatto della loro “appartenenza” al mondo ebraico più o meno una pubblica professione. L’ultimo in ordine cronologico è il pensionato Borner che, senza che nessuno glielo abbia chiesto, si è fatto promotore a Fehmarn dell’iniziativa “Meet a Jew” (“Incontra un ebreo”) promossa dal Consiglio centrale degli ebrei in Germania.
Il motto del progetto è “Parlare l’uno con l’altro invece che l’uno dell'altro”. Meet a Jew serve a organizzare incontri fra volontari ebrei giovani e adulti in scuole, università, club sportivi e altre istituzioni e Borner ne ha approfittato per rendersi interessante agli occhi degli isolani, politici locali inclusi, invitati ad ascoltare la storia, inventata di sana pianta, di suo nonno “medico in una grande città”, già simpatizzante di Hitler e contro la cui famiglia le persecuzioni sono iniziate solo nel 1938. Boiate senza capo né coda – ma anche senza nomi né cognomi «perché alcune di queste persone sono ancora vive», spiegava premuroso il pensionato – messe alla berlina dal giornalista (ebreo) della Welt Henryk Broder. Triste che nessun non ebreo presente ai suoi incontri avesse le minime conoscenze storiche per far crollare il castello di castronerie che il baffuto 67enne infarciva di stereotipi antisemiti. La sua famiglia, raccontava, era emigrata in America «a New York e Hollywood, due posti saldamente in mano agli ebrei».
(ANSA il 20 aprile 2023) - Quasi un quarto delle persone che vivono in Germania ha origini migratorie. È quello che rivela uno studio dell'istituto di Statistica federale elaborato su dati del 2022. Secondo il dossier, 20,2 milioni di persone, ovvero il 24,3% della popolazione complessiva della Repubblica federale ha una storia di migrazione alle spalle.
In questa categoria rientrano le persone che si sono trasferite in Germania dal 1950, e i loro figli (la seconda generazione), spiega l'istituto sul suo portale richiamando la definizione della commissione tecnica sulle capacità di integrazione. Rispetto all'anno precedente si è registrato un aumento del 6,5% e cioè di 1,2 milioni di persone con queste origini. L'incremento dei migranti è dovuto in particolar modo al flusso di ucraini, arrivati dall'Ucraina a causa della guerra.
E le ragioni principali che spingono a lasciare le terre natie sono: fuga, asilo e protezione internazionale nel 27,9% dei casi; ricerca di lavoro nel 24,2%; e ricongiungimento familiare per il 23,9%. Dai dati risulta anche che, dei 15,3 milioni di immigrati registrati nel 2022, il 40% è arrivato a partire dal 2013 (6,1 milioni): nel 47% dei casi si tratta di donne, nel 53% di uomini. Un altro dato interessante è l'età: con una media di 29,9 anni questi immigrati sono decisamente più giovani della media del resto della popolazione (47 anni), spiega il rapporto.
I tre paesi principali di provenienza dei migranti dal 2013 sono stati la Siria (16%), la Romania (7%) e la Polonia (6%). L'Ucraina segue al quarto posto con un 5%, ma il rapporto aggiunge che il censimento degli arrivi dal Paese occupati dalla Russia non era ancora terminato quando sono stati rilevati i dati.
Dagospia il 14 aprile 2023.
"MERDA NERA" - A FAR SCOPPIARE LA MAXI RISSA TRA SADIO MANÉ E LEROY SANÉ, DOPO MANCHESTER CITY-BAYERN MONACO, SAREBBE STATA UNA FRASE RAZZISTA PRONUNCIATA DALL'ATTACCANTE TEDESCO (DI PADRE SENEGALESE) NEI CONFRONTI DELL'EX LIVERPOOL, ANCHE LUI DEL SENEGAL - UN CORTOCIRCUITO CHE VEDE DUE NERI INSULTARSI PER IL COLORE DELLA PELLE - DAVANTI ALL'OFFESA, MANÉ HA PERSO LA TESTA E HA TIRATO UN CAZZOTTO AL COMPAGNO DI SQUADRA - IL CLUB BAVARESE HA ESCLUSO MANÉ PER LA PROSSIMA PARTITA DI CAMPIONATO PER PUNIRLO…
Estratto da corrieredellosport.it il 14 aprile 2023.
Una brutta sconfitta porta sempre ad una tensione post gara, soprattutto se giochi nel Bayern Monaco e specialmente se ti chiami Sadio Mané. Il senegalese è infatti apparso visibilmente nervoso dopo il ko con il Manchester City per 3-0 subito in Champions League e, al termine della gara, avrebbe sferrato dei pugni in faccia al suo compagno di squadra Sané nello spogliatoio. […]
[…] Il cugino del senegalese, Pape Mahmoud Gueye, un giornalista per un quotidiano francese, ha svelato il retroscena raccontando di come il calciatore tedesco avrebbe definito il suo compagno di squadra una "m***a nera", scatenando la reazione del giocatore africano che lo ha poi colpito con dei pugni.
La Germania è attraversata dal più grande sciopero dei trasporti degli ultimi trent’anni. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 29 Marzo 2023
Lunedì in Germania si è svolto uno dei più grandi scioperi del settore dei trasporti degli ultimi trent’anni: centinaia di treni sono rimasti fermi nelle stazioni, voli locali e internazionali sono stati cancellati uno dopo l’altro, mentre i traghetti per il nord Europa sono rimasti ormeggiati alle banchine dei porti. L’obiettivo dello sciopero è quello di ottenere un adeguamento degli stipendi all’inflazione. Si tratta della più grande agitazione nel settore dei trasporti dal 1992, organizzata dalla seconda sigla sindacale tedesca – Ver.di – che rappresenta oltre 2,5 milioni di lavoratori e dal sindacato degli autoferrotranvieri Evg che hanno definito quello di lunedì come «sciopero di avvertimento» (Warnstreik): lunedì pomeriggio, infatti, è iniziato a Potsdam il terzo round negoziale per il rinnovo dei contratti di settore e le due sigle hanno chiesto rispettivamente l’aumento in busta paga del 10%, pari a 500 euro in più, e di 650 euro mensili, pari circa al 12% in più.
Lo sciopero aveva come principale obiettivo della protesta i comuni tedeschi, in quanto è da quest’ultimi che dipendono in gran parte i lavoratori dei trasporti pubblici. A riguardo, la ministra dell’Interno, Nancy Faeser, ha ricordato, durante i negoziati a Potsdam, che gli stipendi dei dipendenti pubblici sono pagati con le tasse e, di conseguenza, chi chiede troppo pesa sui contribuenti. Un tentativo malcelato di alienare le simpatie dei cittadini dalla protesta dei dipendenti pubblici. L’affermazione della ministra arriva solo pochi giorni dopo quella del ministro delle finanze Christian Lindner, secondo cui la «festa» degli aiuti a pioggia a cui i tedeschi si sono abituati prima per la pandemia e poi per il caro-energia è finita ed è giunto il momento di stringere la cinghia. Un monito respinto dai lavoratori tedeschi che pretendono di far valere i loro diritti: l’inflazione, infatti, nei primi due mesi del 2023 è schizzata a quota 8,7%, erodendo il potere d’acquisto dei lavoratori e delle fasce di reddito medio-basse, confermando altresì l’inutilità della decisione della BCE di aumentare i tassi d’interesse per contenere il carovita.
Lo sciopero dei voli di lunedì ha coinvolto almeno 380.000 passeggeri: mentre l’aeroporto BER ha funzionato regolarmente, gli aeroporti di Francoforte, Monaco, Amburgo, Hannover sono rimasti fermi e anche la stazione di Berlino era completamente deserta. Al contempo sono stati oltre 30.000 i ferrovieri che hanno fermato i convogli a breve e lunga percorrenza di Deutsche Bahn, comprese le reti locali. Secondo un sondaggio il 55% dei tedeschi sostiene i manifestanti e non sono mancati, infatti, casi di solidarietà e di sostegno da parte di alcuni cittadini che hanno subito in prima persona le conseguenze dello sciopero. Nella stazione berlinese di Ostkreuz semideserta, ad esempio, qualcuno ringraziava i ferrovieri per la «battaglia per il Lavoro» idealmente condivisa.
I sindacati si sono già dichiarati soddisfatti dei risultati ottenuti: «abbiamo portato a casa il primo fondamentale risultato. Grazie alle dimensioni dello sciopero i datori di lavoro si sono resi conto in modo inequivocabile che i dipendenti stanno in massa dalla nostra parte. Questo perché nel settore pubblico sono schiacciati dal peso degli aumenti di elettricità, gas e generi alimentari diventati insostenibili. E ciò coinvolge tutti, fino alle fasce di reddito medie», ha detto Frank Werneke, leader dei Ver.di. Dalla barricata opposta, invece, il numero uno dell’Associazione dei datori di lavoro (Bda) ha affermato che la quarta economia globale non dovrebbe fermarsi se si fermano gli autisti, invitando il governo ad evitare «a ogni costo uno scenario alla francese».
Alcune delle nazioni più importanti dell’UE dal punto di vista economico, come Francia e Germania, sono attraversate da importanti agitazioni sindacali in lotta contro le politiche di austerità dei governi e le misure insufficienti volte a contrastare il carovita. Il che mette in luce le differenze con quella che è la terza economia europea, l’Italia, dove, invece, non si accenna a scioperi o manifestazioni contro l’inflazione. Con i sindacati confederali che indicono solo sporadiche iniziative settoriali, alimentando l’idea di una opposizione di facciata e del tutto inefficace.
In Germania, invece, il conflitto sindacale è il più duro degli ultimi trent’anni e se qualcuno pensa che la situazione si possa risolvere con un compromesso tra lavoratori e enti pubblici, i sindacati sembrano intenzionati ad andare fino in fondo per ottenere l’aumento richiesto, sebbene non si preveda che lo sciopero prosegua anche durante il periodo pasquale. Nel frattempo, però, la politica è in difficoltà e ha dovuto indire l’ennesimo vertice di coalizione per appianare le divergenze tra Verdi e Liberali – soprattutto in materia energetica – sospeso dopo diverse ore e rimandato a data futura. Un clima generale di instabilità, incertezza e frustrazione delle classi lavoratrici sta, dunque, scuotendo il cuore dell’Europa. [di Giorgia Audiello]
Andrea Greco per “la Repubblica” il 29 Marzo 2023
Il massacro borsistico di Deutsche Bank di venerdì pare legato a una scommessa da 5 milioni di euro sui credit default swap dei suoi titoli subordinati. Si tratta di polizze che proteggono dal fallimento (qui dei bond) spesso usate per speculare. Perché sono illiquide e opache.
Le autorità europee provano a capire se qualcuno abbia venduto a termine azioni della banca tedesca dopo averne comprato Cds sui bond, attizzando un rogo che ha bruciato in Borsa 1,6 miliardi a Deutsche Bank e oltre 30 al settore europeo.
«I Cds sono un mercato troppo opaco, con pochi milioni puoi muovere gli spread e contaminare il prezzo delle azioni di una grande banca, e magari anche i deflussi dei suoi depositi», ha ammesso Andrea Enria, presidente della vigilanza Bce.
Presto il Fsb, che riunisce le autorità di mercato globali, potrebbe provare a esigere più trasparenza a questi strumenti. Ma più che fare inseguire ai regolatori l’ennesima manipolazione di mercato, è la politica che dovrebbe riprendersi la scena. Per stabilire se la progressione geometrica di tecnologie e capitali resti compatibile con i crismi di un mercato che dovrebbe indicare i prezzi corretti e veicolare fondi all’economia reale.
Andrea Rinaldi per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2023.
Un altro venerdì nero per le Borse europee. Ad affossare i listini ieri, già provati da Svb e Credit Suisse, è stato un lento crescendo iniziato giovedì in Germania. Deutsche Pfandbriefbank e Aareal Bank avevano annunciato di non rimborsare i bond Additional tier 1 che avevano il diritto di riacquisto in arrivo (gli stessi che Credit Suisse ha azzerato per 16 miliardi di dollari con le nozze con Ubs).
[…] la scelta di Deutsche Bank di rimborsare anticipatamente un’obbligazione subordinata di secondo livello (Additional tier 2) da 1,5 miliardi con scadenza al 2028 – mossa solitamente intesa a dare fiducia agli investitori – è stata vista come un segnale di debolezza. Risultato: i credit default swap dell’istituto tedesco, strumenti per proteggere gli obbligazionisti dal fallimento, sono arrivati a toccare i 203 punti base innescando una pioggia di vendite. Il titolo ha perso fino all’11%, chiudendo a -8,73 euro e bruciando circa 2 miliardi di capitalizzazione, seguito da Commerzbank: -6,5% a 8,8 euro.
[…] Deutsche Bank è una delle 30 banche mondiali considerate sistemiche, i problemi del 2015-18 sono alle spalle, la redditività è forte (5,7 miliardi di utili netti nel 2022), i coefficienti patrimoniali sono robusti (13,4% Cet1 ratio), il rapporto di copertura della liquidità è 142%, 64 miliardi sopra la soglia fissata dalle autorità di vigilanza europee. Morgan Stanley infatti si è raccomandata di focalizzarsi sui fondamentali della banca mentre Citi ha parlato di «conseguenza di un mercato irrazionale». Il titolo crollava.
Istituzioni monetarie e capi di Stato sono allora scesi in campo, come con Credit Suisse. «Il settore bancario della zona euro è resiliente perché ha posizioni solide in termini di capitale e liquidità», ha sottolineato la presidente della Bce, Christine Lagarde, all’Eurogruppo di Bruxelles. […] Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha assicurato: «Deutsche Bank è una banca molto redditizia. Non c’è motivo di preoccuparsi». […]
Antonio Giangrande: A proposito di, Garanzie, Sfiducia e Debito Pubblico. Parliamo della Germania.
La Germania non ha fiducia nell’Italia nell’onorare i suoi debiti. L’Italia è reputata indebitata, inaffidabile e senza garanzie.
La Germania è forte dei suoi artifici contabili e dell’irriconoscenza. I suoi debiti non li ha mai pagati come dopo la Prima Guerra Mondiale, o se li è visti in gran parte condonare come dopo la Seconda Guerra Mondiale. E gli sforamenti del 2003 del tetto del 3 % deficit/pil? Dimenticati?
Andrea Rinaldi per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2023.
Un altro venerdì nero per le Borse europee. Ad affossare i listini ieri, già provati da Svb e Credit Suisse, è stato un lento crescendo iniziato giovedì in Germania. Deutsche Pfandbriefbank e Aareal Bank avevano annunciato di non rimborsare i bond Additional tier 1 che avevano il diritto di riacquisto in arrivo (gli stessi che Credit Suisse ha azzerato per 16 miliardi di dollari con le nozze con Ubs).
[…] la scelta di Deutsche Bank di rimborsare anticipatamente un’obbligazione subordinata di secondo livello (Additional tier 2) da 1,5 miliardi con scadenza al 2028 – mossa solitamente intesa a dare fiducia agli investitori – è stata vista come un segnale di debolezza. Risultato: i credit default swap dell’istituto tedesco, strumenti per proteggere gli obbligazionisti dal fallimento, sono arrivati a toccare i 203 punti base innescando una pioggia di vendite. Il titolo ha perso fino all’11%, chiudendo a -8,73 euro e bruciando circa 2 miliardi di capitalizzazione, seguito da Commerzbank: -6,5% a 8,8 euro.
[…] Deutsche Bank è una delle 30 banche mondiali considerate sistemiche, i problemi del 2015-18 sono alle spalle, la redditività è forte (5,7 miliardi di utili netti nel 2022), i coefficienti patrimoniali sono robusti (13,4% Cet1 ratio), il rapporto di copertura della liquidità è 142%, 64 miliardi sopra la soglia fissata dalle autorità di vigilanza europee. Morgan Stanley infatti si è raccomandata di focalizzarsi sui fondamentali della banca mentre Citi ha parlato di «conseguenza di un mercato irrazionale». Il titolo crollava.
Istituzioni monetarie e capi di Stato sono allora scesi in campo, come con Credit Suisse. «Il settore bancario della zona euro è resiliente perché ha posizioni solide in termini di capitale e liquidità», ha sottolineato la presidente della Bce, Christine Lagarde, all’Eurogruppo di Bruxelles. […] Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha assicurato: «Deutsche Bank è una banca molto redditizia. Non c’è motivo di preoccuparsi». […]
Serial Killer.
Freudenberg.
Amburgo.
Stephan Letter.
Peter Nirsch.
Niels Högel.
L'angelo della morte che disse "Mi dispiace" quando prese l'ergastolo. Ribattezzato l'"angelo della morte di Sonthofen", Stephan Letter ha ucciso almeno 29 pazienti ma il bilancio potrebbe superare le 80 vittime. Massimo Balsamo il 14 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Una vita tranquilla
Stephan Letter diventa l'angelo della morte di Sonthofen
L'arresto
Il processo e la condanna
Gli angeli della morte rappresentano una categoria molto particolare di serial killer. Composta principalmente da medici e infermieri, l'espressione indica il personale sanitario che uccide i pazienti all'interno di ospedali, cliniche sanitarie, case di cura e così via. Gli obiettivi prediletti sono quasi sempre gli stessi: le persone in condizioni di estrema vulnerabilità, come bambini e anziani. Tra i casi più prolifici ma meno conosciuti a livello internazionale troviamo quello di Stephan Letter, assassino seriale tedesco che, tra il 2003 e il 2004, firmò almeno 29 omicidi a Sonthofen, in Germania. Ma in realtà il bilancio potrebbe superare quota 80 vittime.
Una vita tranquilla
Stephan Letter nasce il 17 settembre 1978 a Herdecke, nella Renania Settentrionale-Vestfalia. Nessuna criticità particolare durante l'infanzia e l'adolescenza, una vita tutto sommato tranquilla e serena. Al termine di un percorso scolastico soddisfacente, prende il diploma e inizia immediatamente il percorso di formazione per diventare infermiere, sua passione sin da bambino.
Secondo quanto ricostruito dalla stampa tedesca, Stephan Letter tra il 1998 e il 1999 completa la formazione come paramedico presso l'associazione distrettuale Drk a Ludwigsburg nell'ambito del suo servizio comunitario. Successivamente finalizza la formazione come infermiere presso la Clinica Ludwigsburg.
Insieme a Daniela, la donna della sua vita, Stephan Letter si trasferisce in una bella casa in Allgäu alla fine del 2002: è lì che trova impiego presso la clinica Kempten. Poi, all'inizio del 2003, si sposta a Sonthofen - sud-ovest della Baviera - dove inizia a lavorare come infermiere nell'ospedale cittadino. Il lavoro dei sogni e ben retribuito: 1500 euro di stipendio e 500 euro di indennità. Ma la bella stagione della vita di Letter finisce qui.
Stephan Letter diventa l'angelo della morte di Sonthofen
Animato dalla voglia di aiutare il prossimo, Stephan Letter si fa conoscere da colleghi e pazienti come una persona amichevole, affidabile e soprattutto professionale. Ma in realtà è nel 2003 che si trasforma nell'angelo della morte di Sonthofen, uno dei serial killer più prolifici della storia della Germania. L'uomo, venticinquenne, inizia a uccidere i pazienti dell'ospedale bavarese attraverso un'iniezione letale di alte dosi di farmaci tranquillanti.
Stephan Letter adotta sempre lo stesso modus operandi: pochi milligrammi di un farmaco anestetico (quasi sempre l'Etomidato o il Midazolam) per fare perdere conoscenza alla sua vittima e una dose del farmaco Lysthenon per ottenere il soffocamento. Il risultato è soddisfacente per l'infermiere killer: i pazienti muoiono nel giro di tre minuti senza provare la minima sofferenza. Tutti i farmaci vengono rubati di nascosto direttamente nell'ospedale, senza destare il minimo sospetto.
Una delle prime vittime è un uomo di oltre 90 anni, che era tenuto in vita dalle macchine. Discorso totalmente diverso per la 79enne Gertrud S. di Immenstadt, ricoverata per problemi alla cistifellea, certamente non in pericolo di vita. Poche ore prima di morire, la donna chiama il fratello urlando: "Vogliono uccidermi, voglio uscire di qui". Nessuno la prende sul serio, la sua fine è firmata da Stephan Letter. Un omicidio che dà adrenalina all'angelo della morte, disposto a correre sempre più rischi.
L'arresto
L'età delle vittime di Stephan Letter va dai 40 ai 94 anni, anche se la maggior parte ha più di 75 anni. Alcuni in pericolo di vita, altri pressoché sani. Morti inspiegabili che non passano inosservate nell'ospedale di Sonthofen, così come la scomparsa di molte fiale di medicinali negli armadietti della corsia interna. Alla fine del maggio del 2004, un dipendente nota la mancanza di un anestetico e l'infermiere finisce subito nel mirino: "Ho rubato i sedativi per la mia fidanzata", la sua scusa totalmente improvvisata.
Ma non è tutto. I vertici del nosocomio confrontano i turni di servizio di Stephan Letter con la scomparsa delle fiale e la conclusione è chiara: è lui il colpevole. Fino a quando i suoi superiori non cercano delle risposte per le morti improvvise di diversi pazienti, il sospetto si fa sempre più pressante: Letter ha ucciso davanti ai loro occhi? Sì secondo Wolfgang Huber, capo delle indagini presso il dipartimento omicidi della polizia di Kempten, che il 29 luglio lo arresta per omicidio e furto di medicinali.
Sonya Caleffi, la storia dell'angelo della morte di Lecco
Il processo e la condanna
Stephan Letter confessa subito alcuni omicidi e gli investigatori riescono a collegarlo ad altre morti sospette, sia grazie al confronto con gli orari dei suoi turni che attraverso la riesumazione di alcune vittime. In diversi cadaveri viene rintracciata un'alta dose dei farmaci utilizzati per uccidere. A confermare le responsabilità dell'infermiere, il ritrovamento di alcune fiale nel corso della perquisizione del suo appartamento.
Il 15 settembre 2005 la procura di Kempten presenta accuse di omicidio in 16 casi, omicidio colposo in 12 casi, omicidio su richiesta in un caso e tentato omicidio colposo in 2 casi. senza dimenticare lesioni personali gravi e furto. Stephan Letter afferma di aver ucciso perché non riusciva a sopportare le sofferenze dei pazienti, parlando di una sorta di missione per porre fine all'agonia di molte vittime. Giustificazioni poco convincenti, considerando che diverse persone erano assolutamente sulla via della guarigione. A smentire la versione di Letter, anche il suo modus operandi: il mix di farmaci provocava una morte lenta, paralizzando progressivamente i polmoni fino a bloccare la circolazione.
Nessun dubbio per il pubblico ministero Peter Koch: Stephan Letter ha ucciso per dolo. Il 20 novembre del 2004 il giudice Harry Rechner condanna l'angelo della morte di Sonthofen all'ergastolo. "Mi dispiace", la prima reazione, un primo vero segno di pentimento. Attualmente sta scontando la pena nel penitenziario di Straubing.
PETER NIRSCH: IL KILLER DIVORATORE DI FETI.
Mario Riolo il 7 Gennaio 2023 su nxwss.com
Quando la magia nera incontra lo spirito di un uomo meschino e brutale come Peter Nirsch le conseguenze possono andare oltre il limite concepito dall’essere umano.
Ci troviamo nella fine del XVI secolo, in Franconia: di li a breve avrebbe avuto inizio la storia del killer più cruento che l’umanità abbia mai conosciuto.
520 sono le vittime che i documenti del tempo attribuiscono all’uomo, seppur la stima superi persino le 600. Si tratta di corpi torturati, trucidati spesso di donne incinte, di feti divorati e utilizzati per rituali magici.
È il 1580, Peter Nirsch si trasferisce da un luogo ignoto in Franconia (regione tedesca), dove si sposa.
I primi mesi del matrimonio sembrano procedere bene: i due vivono insieme e la moglie rimane anche incinta. Basteranno pochi giorni però affinché Peter riveli la sua vera natura.
La donna si trova negli ultimi mesi di gravidanza. È in questo momento che il killer decide di entrare in azione squarciando il corpo della donna. Lo profanò, rimuovendone non solo il cuore ma anche il feto, divorandolo.
Fu il primo caso ufficiale attribuito all’assassino, nonché il primo di antropofagia. Si scoprirà solo in seguito che l’uomo era già stato artefice di molteplici omicidi.
L’apice della carriera del killer di feti
A partire dall’assassinio della moglie e del figlio, le autorità del tempo riuscirono a ricostruire i viaggi di Peter Nirsch, sempre accompagnati da un’intensa scia pregna di sangue.
L’uomo si spostò nella zona del fiume Reno, dando sfogo alla sua furia omicida: si contano circa 200 omicidi risalenti a quel periodo. Ma a mettere i brividi non fu solo il numero esorbitante di vittime.
In seguito alla positiva esperienza antropofaga, avvenuta poco tempo prima, l’uomo decide di dare sfogo alle sue pulsioni uccidendo ben 9 donne incinte. Si trattava quindi di nove feti, nove bambini, dilaniati e divorati durante rituali di magia nera diffusi in quel periodo.
Affinata l’arte dell’omicidio, Peter continua i suoi viaggi spinti dalla sete di sangue, che lo portarono a sud-Ovest della Germania. Qui ebbe modo di spostarsi tra le regioni tedesche del Württemberg, dell’Ulm e dell’Augsburg, tutte zone importanti dell’allora Impero asburgico, che al tempo – già stremate da una lunga serie di guerre e carestie – rimasero sconvolte dalle 123 morti causate dall’assassino.
Non ancora appagato si sposta dalla Germania, dove si era ormai diffusa la sua caccia, per arrivare in Austria e successivamente a Praga e in Boemia. In queste città si intensifica la persecuzione alle donne incinte: sono 13 le madri a patire la furia del killer, insieme ad altre 127 vittime.
Peter Nirsch: i rituali di magia nera
Quello che contraddistingue Peter Nirsch da altri killer e che fu anche la chiave per mascherarlo è sicuramente il controverso rapporto tra i suoi omicidi e i rituali di magia nera.
La ricerca di donne in gravidanza, come rivelato dall’uomo stesso, era finalizzata alla realizzazione di rituali satanici.
Per questo fu possibile per le autorità del tempo riconoscere l’esistenza di un killer artefice dei moltissimi omicidi: tutte le vittime erano accomunate da segni comuni ed evidenti di torture, di tagli. Tutti i casi accomunati da corpi dilaniati, profanati e divorati.
La ripetizione di queste brutali modalità di omicidio è probabile costituisse per Nirsch un rituale capace non solo di proteggerlo dal mondo, ma anche di recare benessere alla propria persona.
In questi riti ruolo fondamentale era costituto dall’oggetto sacrificale: il cuore del feto, divorato dopo essere stato strappato dal grembo della madre.
La confessione e la condanna a morte di Nirsch
Fu però dopo il ritorno in Germania, nella cittadina di Neumarkt, che il mito dell’invincibilità di Peter Nirsch si sgretolò una volta per tutte.
È l’estate del 1581. Il Killer si trova a soggiornare in una locanda in attesa di poter ripartire per Norimberga. Ormai sicuro di sé stesso e delle sue capacità fuori dal comune si sposta tranquillamente tra le stanze della struttura, dirigendosi verso i bagni per lavarsi.
È proprio in questo luogo che l’uomo sente parlare i presenti di un presunto assassino che avrebbe ucciso un numero elevato di vittime nelle zone circostanti. Nonostante il tentativo di nascondere qualsiasi segno di coinvolgimento, quello fu l’istante in cui nacquero i primi sospetti. Alcuni lividi sulla pelle e una cicatrice sulla mascella, insieme a una strana deformazione delle dita in una mano, catturano l’attenzione di un’uomo, che dice addirittura di riconoscerlo.
Peter cerca di mantenere un aspetto sereno, dirigendosi in modo disinvolto nella locanda. Quello che non sa è che due uomini lo stanno seguendo.
Arrivati sul posto, i due riescono a costringere il proprietario della locanda a mostrare loro la sacca lasciata dall’assassino. All’interno trovano alcuni strani oggetti che sembravano ricondurre esattamente ai rituali praticati da Nirsch durante gli omicidi delle sue vittime.
Si trattò di uno scacco matto: avvisate le autorità della città arrivarono ben 8 guardie, che lo arrestarono portandolo in un luogo adibito alla tortura per interrogarlo.
A partire dal 16 settembre 1581 l’uomo venne torturato per due giorni di fila. Fratture agli arti, ustioni del corpo: queste le torture che dovette subire. Pare addirittura che il boia gli inflisse delle grandi incisioni lungo il corpo ricoprendole di olio bollente.
Un dolore da sopportare talmente grande che Nirsch decise di confessare, rivelando gli omicidi effettuati a partire dal 1575. Si trattava di 520 vittime accertate, nonostante la stime fosse addirittura maggiore.
Il 18 settembre 1581 il mondo assistette pubblicamente alla morte del più violento assassino che l’umanità abbia mai conosciuto. Peter Nirsch venne ucciso, fatto a pezzi e appeso su dei pali lungo tutta la città.
Era la fine di un incubo, la storia di una strage umana che si può raccontare solo di SaturDie.
Scritto da Mario Riolo
MARIO RIOLO. 18 anni, studente presso il Liceo Classico N. Spedalieri di Catania. Da anni admin della pagina, coltiva le passioni del giornalismo e della lettura. È amante della storia e della filosofia, ma anche dello sport, della musica e dell’astrofisica.
Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.
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Niels Högel.
"Ho smesso di contare alla 50esima vittima": l'angelo della morte che terrorizzò la Germania. Condannato per 85 commessi tra il 2000 e il 2005, Niels Högel, l’angelo della morte della Bassa Sassonia potrebbe aver ucciso più di 300 persone. Massimo Balsamo il 27 Aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La nascita dell'angelo della morte
Una follia senza precedenti
L'inizio della fine
La follia di un infermiere serial killer, un uomo privo di scrupoli pronto a tutto per soddisfare i suoi bisogni psicologici. Conosciuto anche come il mostro di Oldenburg, Niels Högel è il più prolifico assassino seriale tedesco dal dopoguerra in poi: condannato per 85 omicidi commessi tra il 2000 e il 2005, potrebbe in realtà aver ucciso più di 300 innocenti. La stima infatti è cresciuta esponenzialmente con il passare degli anni e con le indagini, che sono riuscite a inchiodarlo: per suscitare l’apprezzamento dei colleghi per l’abilita professionale, prima causava un arresto cardiaco o un collasso circolatorio, per poi cercare di rianimare il malcapitato. Nessuna preferenza per le vittime – scelte a caso, spesso tra quelle nelle condizioni più critiche – così come nessuna pietà: una storia scabrosa.
La nascita dell'angelo della morte
Niels Högel nasce il 30 dicembre del 1976 nella città costiera di Wilhelmshaven, nella Bassa Sassonia, ex Germania Ovest. Suo padre, come sua nonna, è un infermiere, mentre la madre lavora come avvocato. Nessun trauma significativo nel corso dell’infanzia, anzi: trascorre i primi anni di vita protetto e coccolato, senza alcun tipo di violenza fisica o psicologica. Stesso discorso per l’adolescenza, vissuta in gioia e serenità.
Terminato il periodo scolastico, Niels Högel intraprende il percorso per diventare infermiere e nel 1997 completa l’addestramento professionale al Sankt-Willehad-Hospital, dove aveva lavorato anche il padre. Due anni più tardi passa all’unità di terapia intensiva di cardiochirurgia della clinica Oldenburg. In quel periodo inizia a sviluppare le sue ossessioni, vuole farsi apprezzare da tutti e porre l’accento sulle sue abilità da infermiere.
Niels Högel utilizza cinque differenti droghe - Ajmalina, Sotalolo, Lidocaina, Amiodarone e cloruro di calcio – per provocare aritmia cardiaca e un brusco calo della pressione sanguigna, così da decretare un brusco deterioramento fisico in pazienti già malati. L’obiettivo non è quello di porre fine alle loro vite, ma mettersi in mostra con i colleghi e ricevere complimenti per l’ottimo lavoro svolto nel corso delle operazioni di rianimazione.
Una follia senza precedenti
Niels Högel continua indisturbato a giocare con le vite dei pazienti ricoverati fino all’agosto del 2001, quando medici e responsabili del padiglione 211 della clinica Oldenburg notano un picco di pazienti in rianimazione e un enorme numero di decessi. Preoccupato per i possibili risvolti, l’infermiere si mette in malattia per un mese e il numero di vittime cala drasticamente: appena due. E le statistiche sono impietose: il 58% dei decessi è avvenuto quando lui era in servizio.
Finito nel mirino dei superiori ma senza alcuna prova, Niels Högel viene “invitato” a trasferirsi nel reparto di anestesia. Anche qui, però, si trova quasi sempre coinvolto in situazioni di emergenza. Nel 2002 viene dunque costretto a rassegnare le dimissioni, guadagnando una lettera di referenza del direttore della clinica Oldenburg ricca di elogi. Alla fine dello stesso anno viene assunto nella clinica Delmenhorst e riprende la sua attività brutale, con una clamorosa impennata di morti improvvise.
Troppe stranezze, eccessive coincidenze, qualcosa che non torna. L’angelo della morte viene osservato con sospetto dai colleghi, ma non è tutto. Gli impulsi di Niels Högel sono ormai irrefrenabili e per soddisfarli il più possibile inizia a lavorare come volontario per la Croce Rossa tedesca a Ganderksee. Nonostante i maggiori rischi, riesce sempre a farla franca. Nel 2004 inoltre si sposa e diventa padre di una bambina.
L'inizio della fine
Il 2005 è l’ultimo anno di attività criminale per Niels Högel. Il 22 giugno viene pizzicato a iniettare una sostanza contro l’aritmia a un paziente senza alcuna prescrizione. La vicenda finisce sotto l’attenzione delle forze dell’ordine: le autorità esaminano i decessi avvenuti nella clinica tra il 2003 e il 2005 e la conclusione è perentoria, il numero di vittime è raddoppiato da quando lui è stato assunto. Nei primi sei mesi del 2005 il 73% dei decessi è legato indissolubilmente ai suoi turni di servizio.
Il serial killer Thomas Quick e i 40 omicidi mai avvenuti in Svezia
L’inizio della fine del mostro di Oldenburg, un serial killer eccitato dal rischio e pronto a tutto per soddisfare l’ego. Nel dicembre del 2006 viene condannato a cinque anni di prigione e all’interdizione alla professione per il tentato omicidio colposo, pena aumentata a sette anni e mezzo in appello. Ma le indagini sono solo all’inizio. Nel 2014 l’ufficio della procura di Oldenburg accende i riflettori su una serie di morti sospette registrate nella clinica Delmenhorst - Niels Högel viene incriminato per altri tre omicidi e due tentati omicidi. Qui arriva la svolta: l’infermiere vuota il sacco e confessa altri trenta omicidi, oltre a sessanta rianimazioni effettuate con successo. Un anno più tardi la condanna tanto attesa dai parenti delle vittime: ergastolo.
Ma non finisce qui. Le investigazioni proseguono e nel novembre del 2014 viene istituita la commissione speciale Kardio per conoscere il vero numero di omicidi commessi da Niels Högel. Vengono riesumati oltre cento cadaveri tra Germania, Polonia e Turchia, ma la decomposizione non rende possibile individuare la presenza di qualsiasi droga. Altri cento corpi invece erano stati cremati. Il 6 giugno 2019 Niels Högel viene condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà anticipata per 85 omicidi e assolto per 15 casi. "Ho smesso di contare dopo la cinquantesima", confessa dietro le sbarre secondo quanto confidato un vicino di cella.
Germania sotto shock per l'omicidio di una 12enne: confessano le due coetanee che l'hanno uccisa. La Repubblica il 14 marzo 2023.
Luise F. era scomparsa vicino a Coblenza dopo essere stata da una amica, poi il suo corpo era stato ritrovato. Colpita da numerose coltellate
Svolta clamorosa nelle indagini sul caso di una dodicenne uccisa in Germania a Freudenberg, vicino a Coblenza. A confessare l'omicidio, compiuto con numerose coltellate, sono state due coetanee di 12 e 13 anni. Sui motivi dello scioccante omicidio non ci sono ancora informazioni. A causa della loro età, le due bambine non sarebbero incriminabili. Lo hanno comunicato gli inquirenti in conferenza stampa.
Il corpo senza vita di Luise F. è stato ritrovato in un bosco a pochi chilometri di distanza dal percorso che la bambina avrebbe dovuto fare attraverso un bosco per tornare a casa dopo essere stata da un'amica.
La dodicenne è stata vista l'ultima volta sabato scorso intorno alle 17:30 a Freudenberg. In serata, quando non ha fatto ritorno a casa, sono iniziate le ricerche da parte delle forze di polizia e dei vigili del fuoco.
Gli inquirenti stanno cercando anche di capire il motivo per cui il corpo della ragazza non sia stato trovato in direzione della strada di casa, ma nella direzione opposta e, quindi, nel territorio della Renania-Palatinato. Due le ipotesi degli investigatori: o che la ragazza avesse sbagliato strada o che sia stata portata con la forza nel luogo in cui è stata trovata. Ma l'ufficio del procuratore avverte: non è detto che il delitto sia avvenuto nello stesso luogo in cui il cadavere è stato trovato.
Il risultato dell'autopsia dovrebbe essere disponibile oggi. Secondo il pubblico ministero potrebbe essere ipotizzabile la violenza prima del delitto. Ma al momento non ce ne sono prove.
Nella scuola frequentata dalla 12enne a Freudenberg è stato offerto supporto psicologico ai ragazzi. "Siamo profondamente scossi a Freudenberg e i nostri pensieri sono con i parenti. Ho ordinato che le bandiere del lutto siano esposte per oggi", ha detto il sindaco Nicole Reschke.
Freudenberg, la 12enne Luise uccisa nel bosco da due amiche della sua età con «numerose coltellate». Irene Soave su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.
Il caso nel weekend a Freudenberg, in Nord-Reno Vestfalia. Le killer, dodicenni, non saranno imputabili. Indiscrezioni: forse l’hanno accoltellata per uno sfottò
La cittadina nel Nord-Reno Vestfalia dove tutto è accaduto si chiama Freudenberg: come dire Villa Serena, o Monte Gioia. Tetti d’ardesia, un posto da gemma sulla «Strada degli Orange», itinerario storico intitolato alla dinastia olandese, sindaca progressista, un castello trecentesco.
Eppure è qui che, come in una feroce fiaba dei Grimm, due ragazzine di 13 e 12 anni ne hanno ammazzata una di 12, «con numerose coltellate», nel bosco. Solo 11 giorni dopo l’omicidio, avvenuto sabato, hanno dovuto confessare: dopo una caccia all’uomo erano state scoperte.
Il solo nome e le sole fattezze note di questa vicenda — per la rigida normativa sulla privacy cui sono tenuti i giornali tedeschi nel riportare le vicende di cronaca, soprattutto nera — sono quelli della bambina morta: Luise, 12 anni. Lunghi capelli color fieno, sorriso incerto, magra, i lineamenti che stavano per cambiare e che rimarranno, adesso, permanentemente infantili. Il suo volto intasa i social tedeschi e le homepage dei siti; dalla famiglia non è arrivata una sillaba, e solo la scuola di Luise ha mandato un messaggio di addio. «Ci mancherai, Luise. Abbiamo perso in un fine settimana la nostra allieva, compagna di classe, amica. Ben troppo presto è stata strappata con la violenza alla sua famiglia, e a noi. I nostri pensieri ora sono con loro, con gli amici e le amiche di lei. Vi auguriamo molta forza». Del resto si sa poco.
Luise tornava da sola a casa, dopo la visita a un amico, attorno alle 17.30 di sabato. È stata l’ultima volta che è stata vista viva. Il corpo è stato ritrovato poi già domenica, oltre il confine regionale con la Renania-Palatinato (vicina a Freudenberg). A due chilometri da casa dell’amico; ma in direzione opposta a quella di casa. Lunedì l’autopsia ha confermato la sua identità e sono trapelate le prime notizie: non sarebbe stato un delitto a sfondo sessuale, la bambina sarebbe stata uccisa «con numerose coltellate» — coltello ritrovato poi non lontano — e secondo un’indiscrezione finita poi su Focus gli investigatori sarebbero stati su una pista. Luise, cioè, sarebbe stata uccisa da due coetanee per un movente spaventosamente adatto all’età: vendetta per una presa in giro di Luise nei confronti di una di loro. Non si ipotizza il coinvolgimento di adulti. Ieri la confessione: nemmeno subito, peraltro, ma solo dopo che l’interrogatorio le aveva messe alle strette su alcune contraddizioni.
Le due hanno 13 e 12 anni; sotto i 14 la magistratura non può nemmeno procedere. «Non significa che ora non accadrà loro nulla», ha detto il procuratore. «Stiamo affidando il caso alle autorità per i minori». Quindi anche psicologi, psichiatri ed esperti. Le due bambine sono ora in una struttura protetta. I loro nomi sono tutelati dalla legge. E questo fa infuriare gli abitanti dei social, e della zona, più di quanto la morte di Luise li commuova: all’hashtag #Freudenberg sono collegate decine di appelli a «abbassare l’età della responsabilità penale», anche a 10 anni; a «rendere noti i nomi delle ragazzine»; o «quelli dei genitori», ruggiscono in molti, «la cui educazione ha portato a questa tragedia».
Gli appelli: "Abbassare l'età imputabile, rendere noti i nomi". “Luise uccisa per vendicare uno sfottò”: Germania sconvolta per la 12enne assassinata da due coetanee. Vito Califano su Il Riformista il 15 Marzo 2023
Per giorni hanno nascosto quello che avevano fatto a Luise, una bambina loro coetanea di 12 anni, biondina e magra, uccisa “con numerose coltellate” in un bosco. La Germania è sconvolta da quello che è successo a Freudenberg, cittadina nel Nord-Reno Vestfalia, dove ieri due ragazzine di 13 e 12 anni – i cui nomi in vengono giustamente tutelati dalla legge – hanno confessato il brutale omicidio, a coltellate. Un massacro.
Luise stava tornando da sola a casa. Aveva fatto visita a un amico attorno alle 17:30 di sabato. Nessuno l’avrebbe vista più viva. Nessuno a parte le ragazzine che hanno confessato l’efferato omicidio. Il corpo era stato ritrovato a due chilometri da casa dell’amico, il giorno dopo, in direzione però opposta a quella che l’avrebbe portata a casa. L’autopsia aveva escluso la pista sessuale. Il coltello era stato ritrovato poco lontano.
Strettissimo il riserbo delle autorità tedesche come in ogni caso di cronaca nera. “A Freudenberg siamo profondamente scioccati e i nostri pensieri sono rivolti ai familiari”, aveva dichiarato la sindaca della cittadina, Nicole Reschke. La confessione delle due è arrivata ieri ma soltanto dopo che nell’interrogatorio erano emerse delle contraddizioni notevoli. Su Focus intanto è emersa un’indiscrezione: Luise sarebbe stata uccisa per vendetta, per una presa in giro nei confronti di una delle altre due ragazzine. Al momento non si ipotizza il coinvolgimento di adulti.
Le due ragazzine sono state trasferite presso una struttura protetta. I loro nomi restano giustamente protetti dalle autorità. Sui social in tantissimi non sono d’accordo. La vicenda ha scosso l’opinione pubblica tanto che sono partiti degli appelli ad “abbassare l’età della responsabilità penale” a 10 anni e a rendere noti sia i nomi delle ragazzine sia quelli dei genitori “la cui educazione ha portato a questa tragedia”. La magistratura non può procedere sotto i 14 anni. “Non significa che ora non accadrà loro nulla – ha spiegato il procuratore – Stiamo affidando il caso alle autorità per i minori”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro
Strage in una chiesa di Testimoni di Geova: sette morti ad Amburgo. L'uomo che ha sparato ha colpito nel corso di una cerimonia religiosa. Sul posto sono intervenute le forze speciali tedesche. Il Dubbio il 10 marzo 2023.
Sette morti e otto feriti, secondo la Bild, ad Amburgo. Attorno alle 21 di ieri sono stati sparati numerosi colpi in una Sala del Regno, luogo di culto dei testimoni di Geova, nel quartiere di Alsterdorf, come riferisce l'edizione online del quotidiano. Secondo Bild, la polizia avrebbe trovato il settimo corpo al piano superiore dell'edificio dopo che le forze di sicurezza intervenute nella chiesa hanno sentito uno sparo isolato. «Si può supporre» che si tratti del killer e «non ci sono indicazioni di un attentatore in fuga» ha spiegato il portavoce della polizia, anche se al momento non c'è ancora alcuna certezza.
Le forze dell'ordine, che hanno isolato la zona e segnalato ai cittadini una situazione di “pericolo estremo” invitandoli ad evitare l'area, hanno intanto precisato che tutte le vittime presentano i segni di ferite d'arma da fuoco. L'uomo che ha sparato ha colpito nel corso di una cerimonia religiosa, riferiscono fonti della polizia di Amburgo. «La prima telefonata è arrivata alle 21.15», spiega a Bild un portavoce. «Quando sono arrivati sul posto, i primi agenti hanno sentito esplodere un colpo», aggiunge il portavoce.
Nell'operazione di sicurezza sono state impiegate le forze speciali. La polizia di Amburgo è intervenuta nell'area «con un grande contingente, comprese forze speciali, per garantire la sicurezza e per chiarire in modo rapido e completo le circostanze dettagliate del crimine», ha scritto su Twitter il senatore Andy Grote.
(ANSA il 10 marzo 2023) - Secondo Bild l'autore della strage di Amburgo sarebbe un uomo di 35 anni, Philipp F. , notizia ancora non confermata dalla polizia. Secondo Spiegel si tratterebbe di un ex membro della comunità dei Testimoni di Geova. Secondo Bild il presunto killer non sarebbe noto alla polizia e avrebbe lavorato in un business-center.
Estratto dell’articolo di Paolo Salom per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2023
Una funzione pacifica di preghiera si è trasformata ieri sera in un inferno di spari, grida e sangue. Ad Amburgo, nel quartiere di Alsterdorf, un tempio dei Testimoni di Geova è stato preso di mira da un uomo armato che ha aperto il fuoco sui fedeli intorno alle nove di sera e poi si è suicidato.
La scena che si sono trovati di fronte i soccorritori è stata devastante: sangue ovunque, persone sotto shock o ferite che uscivano incerte sulla strada. Il bilancio provvisorio, che potrebbe aggravarsi con il passare delle ore, parla di otto morti — attentatore compreso — diciassette fedeli in condizioni serie e decine di altri con ferite più leggere e dunque non in pericolo immediato di vita.
Il terribile evento ha generato un’immediata reazione e il timore che fosse in corso un attentato terroristico di vasta portata. Che la situazione fosse estremamente seria lo si è capito dal fatto che la polizia, intervenuta in forze, ha di fatto sigillato il quartiere, chiedendo ai residenti di non uscire di casa nel timore che l’aggressore (in principio non se ne conosceva il numero) fosse ancora «attivo e pericoloso».
Soltanto dopo essere entrati nel tempio dei Testimoni di Geova i poliziotti, ispezionando i diversi piani della struttura, si sono resi conto che in realtà il killer si era sparato un colpo alla testa, mettendo fine alla strage. […] questo drammatico, sanguinoso episodio sconvolge un Paese intero, la Germania, teatro di numerosi attentati, negli anni scorsi, ad opera di cosiddetti «lupi solitari» o terroristi legati ad organizzazioni islamiste internazionali. […]
Estratto dell’articolo di Uski Audino per “la Stampa” l’11 marzo 2023
Aveva pubblicato un libro su Amazon nel 2022 - "La verità su Dio, Gesù Cristo e Satana" - ma non era né un letterato né un teologo. Si presentava sul suo sito web come consulente aziendale di successo con onorario da 250.000 euro al giorno più Iva. Ma poi si guadagnava da vivere con impieghi del tutto ordinari. Diceva di avere una laurea che non aveva, era senza lavoro da un anno e mezzo per quello che definiva un "periodo sabatico".
Un profilo da "impostore", scisso tra la realtà e la sua proiezione: sarebbe questo l'identikit che emerge dell'attentatore di Amburgo, il bavarese di 35 anni che giovedì sera ha aperto il fuoco durante una funzione dei testimoni di Geova ad Amburgo uccidendo sette persone e poi togliendosi la vita. […]
Philipp Fusz, cresciuto «in una rigida famiglia evangelica», era stato membro di una comunità dei testimoni di Geova da cui era uscito «non bene» 18 mesi fa, probabilmente in modo non consenziente, riportano le testimonianze[…]. A gennaio era stata inviata alle autorità una lettera anonima che informava della pericolosità di Fusz e della sua instabilità psicologica.
A scriverla era stata una persona che conosceva bene il giovane dell'Allgäu, il suo disagio mentale e in particolare la rabbia che covava per tutto ciò che riguarda la sfera religiosa, specialmente per i Testimoni di Geova, riporta Der Spiegel. […] Il futuro omicida aveva ricevuto la visita dell'autorità responsabile del controllo sulle armi lo scorso febbraio, ma durante la verifica non era emerso nulla che giustificasse la confisca dell'arma. […]
«Le possibilità legali delle autorità si erano quindi esaurite», ha concluso il capo della polizia. Si tratta dell'ennesimo buco nell'acqua dell'autorità di controllo. […] La ministra tedesca degli Interni, Nancy Faeser ieri ha è tornata a chiedere un inasprimento della legge sul porto d'armi. In particolare chiedendo esplicitamente un divieto delle armi semi-automatiche, […]e che il rilascio del porto d'armi sia accompagnato da un certificato medico. La bozza di legge di riforma sul controllo delle armi al momento è bloccata dall'opposizione dei liberali.
Bilancio provvisorio di 8 vittime. Sparatoria nella chiesa di testimoni di Geova, strage ad Amburgo: anche l’attentatore tra le vittime. Redazione su Il Riformista il 10 Marzo 2023
La polizia tedesca di Amburgo lo ha catalogato come “Amoktat”, ovvero il gesto di un folle. Ma è ancora mistero sulle motivazioni che hanno spinto un uomo nella serata di giovedì ad aprire il fuoco all’interno di una chiesa di testimoni di Geova nella città nel nord della Germania.
La mattanza è avvenuta intorno alle 21 nel corso delle celebrazioni di una cerimonia nel centro di culto di via Deelböge, nel quartiere di Alsterdorf. Il bilancio è drammatico: almeno otto le persone morte nell’assalto armato, otto quelle ferite gravemente. Tra le vittime, secondo quanto riferisce l’Hamburger Abendblatt, ci sarebbe anche l’attentatore: si sarebbe suicidato all’arrivo delle forze dell’ordine.
Ipotesi rafforzata dal ritrovamento da parte degli agenti, durante le perquisizioni degli spazi dell’edificio, di un uomo armato deceduto al secondo piano dell’edificio.
“Finora non ci sono informazioni attendibili sul movente del delitto”, ha reso noto la polizia di Amburgo su Twitter. “Vi chiediamo di non condividere supposizioni non accertate e/o diffondere voci. Non ci sono indizi che vi siano altre persone in fuga. Secondo i primi accertamenti, dei colpo sono stati sparati in una chiesa in via Deelböge nel quartiere GroßBorstel. Siamo sul posto con un grosso contingente di forze”.
Secondo quanto riferisce lo Spiegel, dietro la strage di sarebbe un ex membro della stessa comunità: la persona sospettata avrebbe fra i 30 e i 40 anni e non sarebbe nota come estremista alle forze dell’ordine. L’arma utilizzata sarebbe una pistola: .on è ancora chiaro se fosse detenuta legalmente
Un residente nell’area, che ha filmato le immagini con un telefonino dall’alto di un balcone, ha raccontato che ci sono state circa quattro raffiche di fuoco, intervallate da pause di una ventina di secondi o un minuto. “Poi ho guardato più attentamente e ho visto una persona che correva freneticamente dal piano terra al primo piano dei Testimoni di Geova. Non mi ero nemmeno reso conto di quello che stava succedendo. L’ho filmato con il cellulare e solo attraverso lo zoom mi sono accorto che qualcuno stava sparando. E mentre registravo le immagini, ho capito cosa stavo filmando. All’inizio ho pensato che fosse divertente, perché ho pensato, ok, forse un adolescente sta sparando in giro con una pistola a salve. Quando ho capito che morivano delle persone o erano gravemente ferite, mi è caduto il mondo addosso“.
La sparatoria nella chiesa dei testimoni di Geova ad Amburgo è crimine più sanguinoso avvenuto nella città tedesca da decenni, come ricorda ancora l’Hamburger Abendblatt: l’ultimo grave episodio risale a quasi 30 anni, quando il 10 novembre 1996 uno sfruttatore e i suoi complici fecero irruzione in una casa di appuntamenti in Budapester Strasse e aprirono il fuoco, con la morte di due persone e il ferimento di altre sei.
“I rapporti da Alsterdorf sono scioccanti. Le mie più sentite condoglianze ai familiari delle vittime. I servizi di emergenza stanno lavorando senza sosta per rintracciare il o i colpevoli e per chiarire la situazione”, è stato il messaggio di cordoglio affidato ai social dal sindaco di Amburgo Peter Tschentscher.
Anche l’arcidiocesi della città tedesca ha commentato su twitter le drammatiche notizie: “Siamo scossi. Preghiamo insieme. Siamo con chi è ferito e con chi è stato strappato alla vita”.
Schröder offre la cena, ma l’ospite iraniano spende 6mila euro: interviene la polizia dopo che l’ex cancelliere si rifiuta di pagare. Mara Gergolet su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.
È successo in un ristorante di Amburgo dopo che l’uomo d’affari di Teheran ha ordinato (e speso) più di quanto l’ex leader tedesco aveva previsto
Chi pagherà il conto dell’ex cancelliere Schröder? Anche perché, al ristorante è rimasta una bella somma da saldare: 6.117 euro.
Sabato scorso, Gerhard Schröder ha invitato un piccolo gruppo di amici e conoscenti al bistellato Lakeside, sulla riva dell’Alster, splendida vista sulle guglie di Amburgo: uno dei migliori ristoranti della Germania, nell’hotel The Fontenay. Ma sì sa, Schröder è sempre stato un bon vivant, e gran estimatore dei vini italiani e francesi. Chi invece facesse parte della compagnia, non è dato sapere.
L’ex cancelliere conduce una vita appartata, e separata dai compagni di un tempo, che l’hanno ripudiato e isolato per le sue posizioni pro-Putin, ribadite anche in questi mesi di guerra in Ucraina. Per forza gli amici di oggi ad Amburgo, dove vive con la moglie coreana So-yeong e va quotidianamente nell’ufficio dove ha appeso la targa Gerhard Schröder RA («Rechtsanswalt, avvocato») sono conoscenze nuove, e meno fidate.
Il menù — sulla lista il waygu bavarese e i limoni di Amalfi — era presumibilmente ricco. Secondo la complessa antropologia che regola gli inviti a cena in Germania, Schröder ha spiegato agli ospiti che avrebbe offerto lui la cena, bevande incluse. Ma che se qualcuno avesse voluto qualcosa di più o di diverso, avrebbe dovuto provvedere da sé. Qualcuno non ha capito, o ha finto di non capire. Si tratta di un ospite iraniano - Paese in cui l’antropologia degli inviti a cena è alquanto diversa - un uomo d’affari di 41 anni, che ha ordinato appunto bevande (vino?) per 6.117 euro. Quando è arrivato il conto, Schröder si è rifiutato di pagare. L’uomo d’affari anche. Tanto che è dovuta intervenire la polizia (ma l’iraniano si era già dileguato) ed è scattata un’accusa per truffa. Nell’hotel pare che abbiano già avuto esperienze sgradevoli con lui.
Notizia troppo gustosa, perché i cronisti amburghesi non la scovassero, e perché la Bild non la mettese bene in prima pagina. In realtà, c’è una certa nostalgia per Gerhard Schröder, e non solo alla Bild. Rinnegato dal suo partito per non dire da tutti gli altri, è diventato una specie di paria. Tolto l’ufficio e l’appannaggio. Perfino nelle occasioni ufficiali, quando viene invitato, appena entra in sala scende il gelo. A un recente funerale si è avvicinato a lui solo l’ex ministro verde Jürgen Trittin e gli ha stretto la mano, spiegando dopo: «Quello è un ex cancelliere! Io la penso in modo radicalmente diverso da lui sull’Ucraina, ma certo non comprometto le mie idee salutandolo».
Per tutto l’isolamento, per tutto il biasimo a cui è soggetto, nella Germania del laborioso Olaf Scholz che va in giro con due borse ventiquattr’ore, manca l’esuberanza di Schröder, il suo estro e genio politico, la capacità di fare le riforme da socialdemocratico, di opporsi agli americani come fece sull’Iraq, di rompere lo status quo. Un uomo morigerato e dentro i ranghi, il cancelliere «Basta e Brioni», come veniva chiamato per le riforme economiche e l’amore per i completi di gran marca (altrimenti detto anche «Genosse der Bosse», il compagno dei padroni) non lo è mai stato. Ma un politico di primo livello — e molto mediatico, altro epiteto molto usato, era il Medien-Kanzler — quello Schröder lo è stato certamente. Proprio 25 anni fa entrava in carica il suo governo.
Cinque anni fa, Schröder invitò tutti i compagni di quell’avventura a cena, in un’osteria. Se lo facesse stavolta, non verrebbe nessuno. Nel weekend è uscita una sua lunga intervista con la Süddeutsche Zeitung. «Non rinnego nulla», dice. Una solo cosa gli pesa, e lo confessa al cronista scendendo con lui in ascensore. «Quando Steinmeier (il presidente tedesco, ndr) ha detto: non farò più a Schröder gli auguri per il suo compleanno. Quello mi ha colpito. Perché?». Steinmeier è stato il capo di gabinetto di Schröder, quando questi era un semplice governatore. Impossibile, senza Schröder, immaginarlo presidente.
Il ritratto. Willy Brandt, il cancelliere soldato che indicò la strada per un’Europa Unita. A distanza di 31 anni dalla sua morte è oggi il momento più opportuno in questo confuso scenario internazionale per rispolverare e il coraggio della sua Ostpolitk. Salvatore Cappabianca su Il Riformista l'11 Ottobre 2023
Ci sono uomini che in vita hanno scritto delle pagine indelebili della storia europea ma che, troppo poco spesso, vengono ricordati. È il Dicembre del 1970 quando il mondo intero smette, per un attimo, di correre per guardare e immedesimarsi nell’inchino al Memoriale del Ghetto di Varsavia dell’allora cancelliere tedesco Occidentale Willy Brandt. Un giorno e un gesto destinati a segnare la storia, come riporta in quei giorni lo storico austriaco Hermann Schreiber sullo Spiegel: “Il Cancelliere Brandt con quel gesto confessa una colpa di cui non è responsabile e chiede un perdono di cui lui stesso non ha bisogno”. Un gesto emblematico che consacra Brandt come uomo di pace e che diventa la copertina della sua parabola politica culminata con il Premio Nobel per la pace del 1971.
L’azione e la voglia di pace e distensione di Brandt vengono, però, da molto più lontano. Vengono dagli anni della resistenza, prima in patria e poi in terra baltica con addosso i panni del soldato e, successivamente, nelle vesti istituzionali di politico socialdemocratico che diventa portavoce dello spirito di un’”altra Germania”; quell’”altra Germania” strenua oppositrice di Hitler e degli abomini del III reich. È lui a sopportare il peso di essere Borgomastro di Berlino Ovest nei giorni dell’erezione del Muro e della Crisi che colpisce la città nel 1961, dove, sin dalla posa delle prime pietre, cerca di “abbattere e superare” quel muro attraverso rapporti culturali, economici e umani tra le due parti; un pensiero che prende forma nella sua Ostpolitik che punta a distendere e normalizzare i rapporti con la parte del blocco orientale.
La politica di Brandt è una luce che si alimenta di diplomazia e lungimiranza e che riesce a vivere nel gelo di 2 blocchi continentali opposti e super armanti. E’ la sua lungimiranza che per anni rappresenta l’unico ponte di collegamento tra il mondo filoatlantista e quello filosovietico. Motivo per cui oggi, a distanza di anni, la sua Ostpolitik non può essere considerata una semplice e mera esternazione di vaghe intenzioni pacifiche, ma l’organizzazione di una effettiva politica di pace che prevede la non proliferazione delle armi atomiche, l’integrazione a Ovest e lo «smantellamento delle tensioni» a Est, come riporta e sottoscrive lo stesso cancelliere.
Questo pensiero universale, partorito e allevato nelle azioni della sua Ostpolitik, lo rende il baluardo e la voce della libertà e dell’atlantismo che combatte e pulsa ai piedi dell’imponente blocco sovietico. È Brandt ad accogliere JFK nella storica visita a Berlino del Giugno del 1963, dove, ad alta voce, rimarca la vicinanza degli USA alla Germania con la frase “Ich bin ein berliner”. E di lì a qualche anno, nel 1969, che Brandt si rende protagonista del governo di coalizione, che riesce a legare per la prima volta le anime del Partito Liberale Democratico della FDP a quelle della sua SPD; un governo che getta le basi per un dialogo con il blocco orientale e che auspica, sin dalla sua formazione, il ritorno di una Germania unita. Il sogno è quello della riunificazione che, passo dopo passo, sarebbe dovuta arrivare attraverso la bontà della Ostpolitk e delle sue innumerevoli azioni.
Rieletto cancelliere nel 1972, il suo secondo cancellierato termina con le sue dimissioni in seguito ad uno scandalo spionistico che vede coinvolto uno dei suoi segretari. Anche in questa occasione l’uomo e il politico Brandt scelgono la via della lealtà ed il rispetto verso quella popolazione e quella terra per cui ha combattuto giorno dopo giorno. Nonostante ciò, viene rieletto Presidente dell’Internazionale Socialista nel 1977 ed è tra i primi ad approdare nel Parlamento Europeo nel 1979.
Oggi, a distanza di 31 anni dalla sua morte, ci ritroviamo a ricordare le gesta di uno dei padri non dell’Europa ma dello spirito Europeo; capace di indicarci in maniera chiara e definita la via da intraprendere per far sì che ad ogni latitudine del continente si possa parlare di Europa e di Europei. Ed è, forse oggi, il momento più opportuno in questo confuso scenario internazionale per rispolverare e ricontestualizzare il coraggio della sua Ostpolitk. Salvatore Cappabianca
Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per “il Venerdì di Repubblica” venerdì 10 novembre 2023.
C'è vita dopo Angela Merkel? Da quando ha lasciato il timone della Germania, il mondo sembra precipitato nel caos. Dopo che la cancelliera più longeva della storia è andata in pensione, la Russia ha invaso l'Ucraina, il tintinnar di sciabole tra Cina e Stati Uniti è diventato assordante e ora Hamas ha scatenato un conflitto in Israele talmente grave da evocare scenari da Terza guerra mondiale.
[…] Merkel è nota per la sua proverbiale sobrietà ed è sempre sembrata immune alla hybris. Eppure, qualcuno come l'ex ministro degli Esteri socialdemocratico Sigmar Gabriel, continua a sospirare rumorosamente e a sostenere che con lei la guerra in Ucraina non ci sarebbe stata, che le sue politiche di contenimento di Putin avrebbero ibernato per sempre le velleità imperialistiche dello zar di Mosca. Una tesi in realtà assurda. Ma prima di entrare in argomento, cominciamo con temi più seri: Merkel continua a pettinarsi.
Non è affatto un dettaglio, è una notizia che riguarda un capitolo dolente. Associata all'esordio a Riccardo Cuor di Leone per anni di capigliature immonde, l'ex cancelliera si è imbattuta un bel giorno in uno stilista che le ha regalato il tipico caschetto che porta da una ventina d'anni. Con un'alzata di spalle, quel parrucchiere ha poi ammesso che «meglio di così non potevo fare».
Bene, se non fosse che uno dei rari scandali emersi da quando Merkel è andata in pensione (anzi, uno dei rari scandali emersi da sempre), riguarda proprio i suoi capelli. L' ex cancelliera continua a spendere 60 mila euro all'anno di soldi pubblici per le sue messimpieghe. A guardare bene, però, si scopre un fatto ancora più curioso. Anche il cancelliere attuale, Olaf Scholz spende decine di migliaia di euro per il barbiere. E non è Sansone.
[…] Dopo sedici anni di cancellierato, all'inizio dell'anno scorso Merkel si è concessa cinque settimane sul suo amato Mar Baltico. Da sola. […] Quando incrociava qualcuno, non temeva mai paparazzate o richieste di selfie. Si alzava il cappuccio sulla testa e via. «La gente sul Mar Baltico mi conosce. Ed è molto riservata», ha confessato più tardi. Del resto, in quel suo collegio, Merkel non ha mai perso un'elezione dal 1990 al 2015 (avete letto bene: mai in 25 anni). «E la mia assicurazione sulla vita», l'ha definito. Non esagera: uno dei suoi pochi tratti maniacali riguarda la sua vita privata.
[…] Merkel è passata da anni in cui le sue giornate cominciavano con un briefing alle sette di mattina e finivano spesso a mezzanotte, all'agenda vuota. Dal fatto di essere circondata da collaboratori e sherpa per dodici, quindici ore al giorno, a cinque settimane di solitudine assoluta e voluta sul Mar Baltico. «A volte è ancora un po' strano non avere impegni», ha detto. «Ma ora sono libera».
Libera anche […] di scrivere un'autobiografia con l'aiuto del suo storico braccio destro, Beate Baumann. L'unica persona al mondo che si è potuta permettere di riprenderla in pubblico quando era sull'orlo del pianto ere geologiche fa. E che da allora è considerata la sua Rasputin, per i troppo malevoli, o la sua Chateaubriand, per i troppo benevoli. In ogni caso, la sua ombra da trent'anni.
Di certo Merkel ha vissuto molte più ore con Baumann che con suo marito Joachim Bauer. Eppure le due continuano a darsi del lei. Per 'autobiografia, che uscirà nell'autunno del 2024 e si annuncia come l'evento letterario dell'anno, hanno fondato una società, "teaMBook": dove M sta per Merkel, B per Baumann. Per molti sarà interessante scoprire come l'ex cancelliera cresciuta dietro la Cortina di ferro parlerà dei primi trent'anni della sua vita.
Nella sua prima intervista televisiva da quando si è ritirata dalla vita politica, un paio di settimane fa, Merkel ha […] chiarito che per lei sulla "resistibile ascesa" dell'ultradestra Afd non può esserci alcuna indulgenza: «Non voglio mostrare alcuna comprensione per chi la vota». Altro che le ambiguità attuali del suo partito, la Cdu.
[…] Merkel si sente libera […]. Ma non è ancora abbastanza da potersi avventurare senza paparazzate e titoloni della Bild fuori dalla sua fidata Meclemburgo-Pomerania. Si sa, l'ex cancelliera ama l'Italia, e in particolare le passeggiate con Reinhold Messner sulle montagne del Tirolo e i bagni in primavera e in estate a Ischia. Nell'aprile dello scorso anno, ha avuto la malaugurata idea di intraprendere un viaggio col marito e con la sua antica confidente e amica Annette Schavan in Toscana.
Aveva già accennato in un'altra intervista non televisiva, di voler studiare meglio il Rinascimento: la Bild l'ha subito immortalata davanti al Duomo di Firenze dopo un tour all'Accademia e in altri musei. Infliggendole un titolo-bomba: "Invitata a Bucha, va a Firenze" Nel frattempo, infatti, è scoppiata la guerra in Ucraina.
E per Merkel, architetta degli accordi di Minsk, della fragile pace negoziata nel 2014 tra Mosca e Kiev, comincia un periodo difficile. Anche per chi l'ha sempre difesa cominciano mesi di puro tormento. Prima del suo viaggio in Toscana, l'ex cancelliera era stata invitata in Ucraina dal presidente Volodomyr Zelensky. Il massacro di Bucha è il più feroce eccidio che viene fuori in quei primi mesi di conflitto. E Merkel, invece di accettare l'invito di Zelensky, opta per Firenze.
È in questa occasione che comincia ad emergere il suo ostinato je ne regrette rien, la sua assoluta indisponibilità ad ammettere gli sbagli del passato. I politologi, gli analisti, i suoi avversari gliene rimproverano sostanzialmente due: aver abbeverato la potente industria tedesca al gas russo a prezzi stracciati, una vulnerabilità che esplode in pieno durante la crisi dell'Occidente con Mosca e la chiusura dei rubinetti siberiani.
E aver assecondato Putin dopo l'invasione della Crimea nel 2014. In un'intervista allo Spiegel, Merkel tira fuori persino una tesi inquietante. Sostiene che Monaco, il modestissimo film su Chamberlain con Jeremy Irons, sia una interessante rivalutazione del premier inglese che regalò la Cecoslovacchia ad Adolf Hitler nel tentativo ingenuo di fermarlo. Secondo Merkel, l'accordo con Hitler consenti al Regno Unito di guadagnare tempo per riarmarsi. Una tesi incredibile: erano già chiare la natura totalitaria della Germania di Hitler e la sua vocazione bellicista. Un anno dopo il Führer invase la Polonia e scatenò la Seconda guerra mondiale. E nella memoria collettiva Chamberlain è rimasto soltanto il simbolo di una brutta parola: appeasement. E triste pensare che Merkel tenti di assomigliargli.
Angela Merkel, 55 mila euro spesi da per trucco e parrucco (pagati dallo Stato). Paolo Valentino su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.
Polemiche per i costi in due anni per il look dell’ex cancelliera. Nessuno dei suoi predecessori ha presentato un conto così salato dopo aver lasciato l’incarico.
Anche quest’anno a fine luglio Angela Merkel non ha voluto rinunciare alla prima delle Bayreuther Festspiele, il festival wagneriano che si svolge ogni anno in Baviera sul mitico Grünen Hugel, nel teatro costruito secondo le direttive del grande compositore. Con lei, per il nuovo allestimento del Parsifal diretto da Pablo Heras-Casado, ministri in carica, imprenditori e celebrità tedesche. Come sempre accompagnata dal marito, Joachim Sauer, dal quale in realtà vive separata e che dei due è il vero melomane, l’ex cancelliera è apparsa di ottimo umore, fasciata in un deux pièces di seta turchese, blazer e gonna lunga, e soprattutto con perfetta acconciatura e luminoso make-up.
Tiene molto ai suoi capelli e al suo aspetto, la signora Merkel . Così tanto che da quando ha lasciato la cancelleria nel 2021 ha speso quasi 55 mila euro per parrucchiere e trucco. Non di tasca sua naturalmente, ma di quella del governo e in ultima analisi del contribuente tedesco.
Suscitano un po’ di sconcerto in Germania, le rivelazioni del quotidiano Tagesspiegel, che invocando il Freedom of Information Act ha costretto la cancelleria di Berlino a rendere noti i documenti relativi alle spese di Merkel, che per legge dispone di un ufficio con nove persone, auto di servizio, scorta e un bilancio che copre le spese di tutti i suoi impegni e viaggi, siano essi privati o pubblici. Nessun ex cancelliere, dice il giornale berlinese, ha speso tanto quanto Merkel dopo aver lasciato l’incarico.
Ma è soprattutto la voce coiffeur e make-up a destare scandalo. Il Kanzleramt, che è direttamente responsabile dei costi degli ex cancellieri, paga infatti a Merkel i servizi di una professionista berlinese, nota parrucchiera e designer di moda, che non solo la pettina e la trucca quando è a Berlino, ma la accompagna anche nei suoi appuntamenti in Germania e all’estero. Va da sé che anche le spese di viaggio e albergo dell’«assistente per il trucco e l’acconciatura» sono a carico dell’erario.
Il conto per il 2022 è stato di 37.780 euro, mentre nell’anno in corso la spesa è stata finora di 17.200 euro. In media fanno 3 mila euro mensili per quella che Tagesspiegel definisce «la bella presenza dell’ex cancelliera».
La Lega dei contribuenti tedeschi critica con forza i costi eccessivi per questi scopi. «È difficile spiegare a chi paga le tasse che deve accollarsi anche le spese per i visagisti e i parrucchieri dei politici», ha dichiarato il presidente Reiner Holznagel, secondo il quale queste voci «dovrebbero essere ridotte allo stretto necessario e nel dubbio pagate privatamente dagli interessati».
Merkel in realtà non è la sola a disporre di fondi pubblici per capelli e belletti. Anche il cancelliere Scholz non scherza, nonostante lui di capelli ne abbia invero pochi o punto. Secondo Tagesspiegel , nel 2022 «rappresentanti della cancelleria» hanno speso quasi 40 mila euro per capelli e trucco, mentre quest’anno sono già a 21.808 euro. Un’inchiesta parlamentare condotta qualche mese fa ha rivelato che nel primo anno del governo Scholz la spesa totale per fotografi, parrucchieri e visagisti è salita a 1,5 milioni di euro, l’80% in più rispetto al 2021, l’ultimo anno di Merkel al potere.
La morale luterana prevalente nei tedeschi è molto severa di fronte a questi comportamenti da parte di chi occupa cariche pubbliche. La scorsa settimana, ha fatto scandalo il ministro-presidente cristiano-sociale della Baviera, Markus Söder, che nel solo 2022 ha speso ben 180 mila euro per pagare i fotografi free-lance che lo seguivano in permanenza, nonostante il bilancio bavarese stanzi già 36 mila euro l’anno per un fotografo ufficiale che lavora in permanenza per il Land.
Feudo ereditario. L’ascesa di Afd e le (assurde) ragioni del pensiero anticapitalista di destra. La logica del mercato, Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023
La sintesi tra nazionalismo e socialismo esercita un forte fascino sugli elettori tedeschi, soprattutto nella Germania orientale, dove chi in passato votava per il partito radicale di sinistra Die Linke ora sostiene Alternative für Deutschland
Secondo gli ultimi sondaggi d’opinione, l’Alternativa per la Germania, o AfD, è attualmente la seconda forza politica più forte in Germania dopo la CDU, con circa il 19-20 per cento. Dalle elezioni federali del 2021, quando l’AfD aveva ottenuto il 10,3 per cento, il partito ha quasi raddoppiato il suo consenso nei sondaggi. L’AfD è particolarmente forte nella Germania orientale (cioè nell’ex DDR): in Turingia, ad esempio, l’AfD sta attualmente ottenendo circa il trenta per cento dei voti, risultando il primo tra tutti i partiti del Land.
Le ragioni del successo dell’AfD sono molteplici. Se si chiede agli elettori dell’AfD perché sostengono il partito, è chiaro che l’AfD tragga vantaggio soprattutto dall’insoddisfazione per le politiche sull’immigrazione del governo tedesco e per le politiche ambientali portate avanti dai Verdi. Le politiche di immigrazione di Angela Merkel, che hanno aperto le frontiere del Paese a milioni di immigrati (molti dei quali con motivazioni economiche), sono state a lungo una ragione dell’ascesa dell’AfD.
Ma anche sotto l’attuale Ampelkoalition (Coalizione Semaforo) che unisce i socialdemocratici dell’SPD, i Verdi e i liberali della FDP, milioni di migranti continuano a entrare nel Paese. E non solo dall’Ucraina, i cui rifugiati tendono a essere accettati in Germania in misura molto maggiore rispetto agli altri migranti, ma anche dall’Africa e dai Paesi arabi.
Un’altra causa di malcontento è la politica climatica della coalizione di governo che, nel confronto internazionale, è particolarmente radicale. Di recente, il ministro dell’Economia Robert Habeck, del partito dei Verdi, ha annunciato il suo piano che costerebbe ai cittadini centinaia di miliardi di euro. Il suo piano ha suscitato un enorme clamore in tutto il Paese. L’FDP è riuscita a evitare il peggio, ma in generale la politica per l’ambiente portata avanti dalla Germania è un’altra ragione dell’ascesa dell’AfD.
In molti Paesi europei sono emersi movimenti populisti di destra e di sinistra che, pur con tutte le loro differenze, sono accomunati dall’opposizione al liberalismo economico e al capitalismo. In alcuni casi, i partiti populisti di destra hanno iniziato promuovendo politiche economiche almeno parzialmente liberali, prima di trasformarsi in partiti anticapitalisti.
Questo è esattamente ciò che è accaduto in Germania, dove l’AfD è stata inizialmente fondata nel 2013 come partito con un programma economicamente liberale. Certo, ci sono ancora membri dell’AfD in Occidente che sono favorevoli al libero mercato. Ma rispetto a dieci anni fa, quando l’AfD è nata, ora sono i populisti e gli anticapitalisti a detenere il maggior peso, mentre molti membri un tempo influenti e pro-mercato hanno lasciato il partito, in preda alla frustrazione.
L’anticapitalismo è particolarmente forte nella Germania orientale, dove si nutre del concetto di patriottismo sociale e conquista così molti elettori che in precedenza votavano per il partito di estrema sinistra Die Linke (l’ultima incarnazione della SED, che in passato governava la Germania dell’Est e che ha cambiato nome diverse volte negli ultimi decenni).
L’anticapitalismo di destra ha anche una base teorica, ad esempio grazie ad autori come Benedikt Kaiser e Götz Kubitschek del think tank di destra Institut für Staatspolitik. Essi si rifanno a una lunga tradizione storica di anticapitalismo di destra in Germania, dalla cosiddetta “rivoluzione conservatrice” della Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo.
La critica della destra anticapitalista al capitalismo e alle sue politiche economiche differisce solo leggermente da quella della sinistra. Nei suoi scritti, Kaiser, il più noto teorico di questo movimento, cita ripetutamente autori di sinistra, da Karl Marx e Friedrich Engels a Thomas Piketty, Erich Fromm e Theodor Adorno. I nemici, invece, sono i radicali del mercato, i neoliberali e i libertari, tra cui Ludwig von Mises, Milton Friedman e Friedrich August von Hayek. Per inciso, Kaiser è assistente del deputato AfD Jürgen Pohl dal 2023.
La tesi centrale degli anticapitalisti tedeschi di destra è che gli ideologi multiculturali di sinistra e le grandi imprese sono in combutta. I veri beneficiari dell’immigrazione di massa, sostengono, sono i capitalisti, che beneficiano dell’accesso a un’ampia riserva di manodopera a basso costo. Gli ideologi di sinistra che chiedono frontiere aperte, secondo questa tesi, stanno in realtà perseguendo una politica nell’interesse del capitale. Non è «la sinistra a guidare la migrazione di massa, anche se la approva per motivi ideologici e la acclama nei media. A guidarla è soprattutto quello che una volta veniva chiamato il ’grande capitale’, sotto forma di federazioni industriali e imprenditoriali».
Su questo punto in particolare, però, rimangono degli interrogativi. Non si capisce perché l’immigrazione di massa dovrebbe essere nell’interesse delle grandi imprese. Certo, le imprese vogliono che specialisti qualificati si trasferiscano in Germania, e questo non è solo nell’interesse delle aziende, ma della società nel suo complesso, perché non è chiaro come i problemi demografici possano essere realisticamente superati in altro modo. Ma questa immigrazione di lavoratori qualificati, che i dirigenti d’azienda invocano ripetutamente, incontra molti ostacoli in Germania.
Gli ostacoli burocratici per i lavoratori qualificati sono innumerevoli, mentre l’immigrazione è relativamente molto più semplice per chi cerca di accedere ai benefici sociali: basta pronunciare la parola «richiesta d’asilo» alla frontiera. Per questo motivo, da anni in Germania si assiste a un’immigrazione di massa da parte di persone che cercano solo di sfruttare il sistema di welfare, il che ovviamente non è né nell’interesse delle grandi imprese né dei lavoratori – ed è anche qualcosa che la maggioranza dei cittadini tedeschi non vuole, come dimostrano tutti i sondaggi.
In effetti, l’immigrazione di massa da parte di persone che cercano solo di sfruttare il sistema di welfare rende ancora più difficile la necessaria immigrazione di lavoratori qualificati, perché i problemi culturali che ne derivano riducono l’accettazione dell’immigrazione da parte della popolazione nel suo complesso. Come rivela questo esempio, la tesi secondo cui gli ideologi multiculturali di sinistra e le grandi imprese condividerebbero gli stessi obiettivi è assurda perché non fa distinzione tra tipi di immigrazione. Non c’è dubbio che oggi i leader d’azienda si pieghino spesso e volentieri allo Zeitgeist della sinistra ambientalista, ma questo è un segno di opportunismo e non una prova che essi siano la vera forza trainante dello spostamento a sinistra.
Così come gli anticapitalisti di sinistra in Germania sono per l’economia sociale di mercato, gli anticapitalisti di destra dicono di opporsi al capitalismo ma non all’economia di mercato. Ma il loro impegno per l’economia di mercato non può essere preso sul serio, dal momento che le caratteristiche centrali dell’economia di mercato, come la proprietà privata, vengono rifiutate con forza. Naturalmente, sia gli anticapitalisti di sinistra che quelli di destra oggi professano spesso il loro sostegno alla proprietà privata, ma, in base al primato della politica, vogliono che lo Stato ponga limiti molto stretti alla proprietà.
Kaiser cita con favore Axel Honneth, un teorico della Scuola di Francoforte, che si chiedeva «perché la semplice proprietà dei mezzi di produzione dovrebbe giustificare qualsiasi pretesa sui rendimenti del capitale che genera». Di conseguenza, parti dell’economia dovrebbero essere nazionalizzate.
Götz Kubitschek, una delle menti della destra anticapitalista, ritiene che «lo Stato dovrebbe garantire la fornitura di servizi di base nei settori dei trasporti, delle banche, delle comunicazioni, dell’istruzione, della sanità, dell’energia, degli alloggi, della cultura e della sicurezza, e non limitarsi a creare un quadro normativo per i fornitori privati, che si preoccupano principalmente di spremere i settori più redditizi». Il compito dello Stato, secondo Kubitschek, è quindi quello di «nazionalizzare e contemporaneamente ridurre la burocrazia» – anche se non sembra capire che più lo Stato interferisce nell’economia, più la burocrazia inevitabilmente prolifera. Kaiser sostiene la nazionalizzazione di tutti i settori economici cruciali per lo sviluppo del Paese, come l’industria pesante, la chimica e i trasporti. Non vede inoltre alcuna giustificazione per le centrali elettriche e gli acquedotti gestiti privatamente, ecc. D’altra parte, concede generosamente che le industrie leggere e dei beni di consumo possano rimanere «campi di attività per l’iniziativa capitalistica cooperativa e privata».
Marx, Engels e Lenin, a cui anche gli anticapitalisti di destra fanno spesso riferimento, avrebbero bollato l’ideologia degli anticapitalisti di destra come una critica reazionaria piccolo-borghese del capitalismo. Tutte le grandi imprese e le corporazioni sono considerate problematiche, mentre vengono idealizzate «le comunità di consumatori, le locande cooperative dei villaggi, che emettono un dividendo sotto forma di festa comunitaria, e le fattorie, che forniscono ai loro piccoli investitori cibo gratuito (rendimento delle azioni)».
La Germania Est è stata scelta come terreno di prova per questi sogni anticapitalistici. Dopo tutto, sostiene Kaiser, i sondaggi mostrano che il settantacinque per cento dei tedeschi dell’Est è favorevole a un sistema socialista, ma ritiene che non sia mai stato attuato correttamente. Per Otto Strasser, il leader dei nazionalsocialisti di sinistra, Kaiser propone il concetto di «feudo ereditario» che potrebbe sostituire la proprietà privata. Di conseguenza, lo Stato rimarrebbe l’unico proprietario della terra e dei mezzi di produzione, lasciando la gestione all’individuo «in base alle capacità e al valore, come un feudo ereditario».
Sotto tutti gli altri aspetti, queste proposte di politica sociale sono strettamente allineate con quelle dei partiti di sinistra tedeschi. I ricchi devono essere maggiormente gravati sotto tutti i punti di vista, ad esempio aumentando le imposte sul reddito per chi guadagna di più e reintroducendo l’imposta sul patrimonio, che in Germania non è più stata applicata dal 1996.
L’immagine di una “regolamentata economia sociale di mercato” o “economia sociale di mercato regolamentata del XXI secolo” (Kaiser) ha in realtà ben poco a che fare con una vera economia di mercato. La speranza della destra anticapitalista è di riunire elementi nazionali e sociali in un unico movimento, con un odio per i ricchi comune a entrambi. Kaiser cita con favore la richiesta dell’ex Segretario del Lavoro statunitense Robert B. Reich: «Dobbiamo creare un movimento che unisca destra e sinistra per combattere l’élite dei ricchi». Gli anticapitalisti di destra hanno innanzitutto puntato a respingere gli elementi economici liberali dell’AfD per far posto al patriottismo sociale propagandato da Björn Höcke, leader dell’ala destra dell’AfD in Turingia (Germania orientale).
È importante non sottovalutare gli anticapitalisti di destra, perché hanno già sfiorato il loro obiettivo. La sintesi tra nazionalismo e socialismo esercita un forte fascino sugli elettori. Lo dimostrano non solo i recenti movimenti in Francia (come il Rassemblement National di destra o il movimento nazionalista di sinistra guidato da Jean-Luc Mélenchon), ma anche la storia tedesca, che mostra quanto possa diventare esplosiva questa miscela di nazionalismo e socialismo. Questo non significa che i nuovi anticapitalisti di destra siano nazionalsocialisti in senso tradizionale, ma il loro movimento combina certamente le ideologie del nazionalismo e del socialismo.
Questa strategia ha avuto particolare successo nella Germania orientale. Dopo oltre mezzo secolo di indottrinamento nazionalsocialista e socialista, l’anticapitalismo è molto più forte negli Stati orientali della Germania che in quelli occidentali, come confermano molti sondaggi. La miscela di anticapitalismo e nazionalismo, propagandata da Björn Höcke e da altri leader dell’AfD nella Germania orientale, ad esempio, ha avuto molto successo in tutta la regione. Molti elettori dell’est che prima votavano per il partito radicale di sinistra Die Linke ora votano AfD.
Die Linke e l’AfD hanno un’altra cosa in comune: l’antiamericanismo. E questo antiamericanismo è uno dei motivi principali per cui entrambi i partiti rifiutano il sostegno militare all’Ucraina e minimizzano l’imperialismo russo. L’amico di Putin, l’ex cancelliere della Germania Gerhard Schröder (SPD) e il leader dell’AfD Tino Chrupalla, hanno partecipato in modo dimostrativo a un ricevimento presso l’ambasciata russa a Berlino per celebrare l’anniversario della vittoria degli Alleati sulla Germania di Hitler.
Una netta maggioranza di tedeschi occidentali si schiera con l’Ucraina, ma nella Germania orientale il sostegno all’Ucraina è accolto con grande scetticismo. Questo è un altro fattore alla base della continua ascesa dell’AfD nell’Est.
Estratto dell'articolo da “Il Messaggero” il 6 aprile 2023.
Il Parlamento tedesco accende un faro su Olaf Scholz. Il cancelliere socialista della Repubblica Federale sarà infatti al centro di un'inchiesta del Bundestag, che punta ad appurare il suo livello di coinvolgimento in uno scandalo finanziario […]
L'accusa contro Scholz, formulata dall'opposizione dei cristiano-democratici della Cdu, è pesante: aver agevolato una frode fiscale miliardaria a danno dei contribuenti tedeschi.
La vicenda, riportata a galla da Politico, risale al 2017, quando Scholz era sindaco di Amburgo, ed è strettamente collegata con lo scandalo ribattezzato "Cum-Ex": una frode finanziaria da 30 miliardi di euro grazie alla quale alcune banche tedesche sarebbero riuscite a ottenere rimborsi a fronte di costi in realtà mai sostenuti.
[…] l'attuale cancelliere […] si sarebbe incontrato più volte con uno dei proprietari dell'istituto finanziario in questione, già sotto inchiesta per aver sottratto al fisco 47 milioni di euro.
[…]
Il cancelliere, in più occasioni, ha sostenuto di non ricordare il contenuto esatto degli incontri. E i suoi oppositori della Cdu hanno annunciato il varo di una commissione d'inchiesta sul caso.
Altro che locomotiva d’Europa la Germania se la passa male. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 20 Gennaio 2023
Altro che locomotiva d’Europa: la Germania non se la passa così bene. Per non parlare del governo guidato dal cancelliere Olaf Scholz, in caduta libera nelle preferenze. Mentre Scholz temporeggia sull’invio di ulteriori aiuti militari all’Ucraina (e nel frattempo perde sempre più popolarità), i numeri dell’economia tedesca sono in peggioramento. Tanto che Die Deutsche Wirtschaft lancia un allarme preoccupante: a causa degli effetti delle sanzioni contro la Russia, delle tasse e della burocrazia la Germania sta imboccando pericolosamente la strada della deindustrializzazione. La locomotiva dunque sta finendo il carbone (paradosso doppio, visto che proprio al carbone si sta tornando per sopperire ai rubinetti del gas russo chiusi).
A pesare, anche sulla fiducia dei cittadini, è la guerra russo-ucraina e tutto quello che comporta in termini di contraccolpi sull’economia nazionale. Non a caso, da un recente sondaggio condotto da Euroskopia emerge che il 60% dei tedeschi (a fronte del 50% degli italiani, per esempio) è favorevole a una rapida fine del conflitto in Ucraina, anche se Kiev dovesse cedere parte del proprio territorio alla Russia. In soldoni, la maggioranza dei tedeschi è disposta a prendere atto di una vittoria di Mosca (a dispetto di quanto vuole la Nato, che preme per l’invio dei tank di Berlino a Kiev) pur di vedere la fine della guerra.
Dal canto suo, il ministro delle Finanze Christian Lindner (Fdp, partito liberal democratico) è ottimista e prevede un calo dei tassi di inflazione per quest’anno e il prossimo. Tuttavia, precisa, i prezzi dell’energia non scenderanno, ma rimarranno costantemente elevati. “Sarà una nuova normalità. Il gas liquido che passa attraverso ri rigassificatori è più costoso del gas che arriva dai gasdotti russi solo per ragioni logistiche”, dice Lindner alla Bild am Sonntag. “Il livello dei prezzi rimane più alto, ma senza picchi rovinosi”. Per adesso l’inflazione è in aumento (7,2% a fronte di una previsione del 4,5%), come certifica la Bundesbank. E la crescita economica sarà più debole con una recessione il prossimo anno ormai certa.
Le previsioni di crescita confermano inoltre che la Germania sarà probabilmente uno dei Paesi con le performance più deboli il prossimo anno, in parte a causa della sua eccessiva dipendenza dal gas naturale russo. Nel 2023, l’economia dovrebbe subire una contrazione dello 0,5%, altro che crescita del 2,4% stimata a giugno.
Ma i problemi sono anche e soprattutto politici. L’improvviso viaggio del ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock in Ucraina è la prova di uno scontro tra le forze della maggioranza. Il partito Alleanza 90/Verdi, di cui la Baerbock fa parte, è attivamente sostenuto dagli Stati Uniti, ma non può certo decidere da solo per tutto il governo. In tale ottica dunque il viaggio della Baerbock serviva ad aumentare la pressione sul cancelliere Scholz per indurlo ad aumentare le forniture di aiuti militari all’Ucraina. Un nodo questo che è già costato le dimissioni del ministro della Difesa Christine Lambrecht, membro del Partito Socialdemocratico e, come Scholz, riluttante all’invio dei tank a Zelensky.
Intanto il malcontento sale. A oggi mezzo milione di cittadini hanno firmato una petizione al cancelliere Scholz, scritta da 28 intellettuali ed artisti e lanciata dal magazine femminista Emma, affinché la Germania cessi di inviare armamenti pesanti all’Ucraina e intraprenda un percorso diplomatico per un cessate il fuoco immediato. Un passaggio della petizione – sottoscritta da un numero sufficiente di cittadini per chiedere, almeno in Italia, un referendum – sintetizza in modo inoppugnabile il rischio che corre l’Europa, l’Occidente e forse il mondo intero. “Siamo convinti che due di queste linee di demarcazione siano ormai state raggiunte: in primo luogo, il divieto categorico di accettare un rischio manifesto che questa guerra degeneri in un conflitto nucleare. La consegna di grandi quantità di armi pesanti, tuttavia, potrebbe rendere la Germania stessa parte in guerra. Un contrattacco russo potrebbe quindi innescare la richiesta di assistenza ai sensi del trattato Nato e con essa il pericolo immediato di una guerra mondiale. La seconda linea di demarcazione è il livello di distruzione e sofferenza umana tra i civili ucraini. Anche la legittima resistenza a un aggressore a un certo punto può diventare di una sproporzione intollerabile”. Ancora, i firmatari mettono in guardia “contro un duplice errore: in primo luogo, ritenere che la responsabilità per il rischio di un’escalation di un conflitto nucleare ricada esclusivamente sull’aggressore originario e non anche su coloro che gli forniscono apertamente un motivo per un’eventuale azione criminale. E d’altra parte, che la decisione sulla responsabilità morale degli ulteriori costi in vite umane tra la popolazione civile ucraina ricada esclusivamente sotto la competenza del loro governo. Le norme moralmente vincolanti sono di natura universale”.
Un appello che, al di là di quanto potrà smuovere le coscienze dei governanti tedeschi (in tanti scommettono che alla fine Berlino farà come chiede Washington), dà il polso di una nazione che sta vivendo una crisi inedita. Per una guerra non voluta da sei tedeschi su dieci.
Uski Audino per “la Stampa” il 4 gennaio 2023.
Se in Italia il reddito di cittadinanza fa un passo indietro, in Germania fa un passo avanti. Dal primo gennaio è in vigore una versione riformata del sussidio che vedrà aumentare il contributo mensile di circa 50 euro, crescere le prestazioni e ridurre le sanzioni. In controtendenza con quanto accade in Italia, il governo del socialdemocratico Olaf Scholz ha deciso di spingere sull'acceleratore e riformare il vecchio sussidio introdotto dal governo Schroeder nel 2005 - il cosiddetto Hartz IV - e limarne le criticità.
Perché ora? Le ragioni sono molteplici. La prima è che la misura rientra in un disegno complessivo di sostegno al reddito in un anno caratterizzato da incertezza sul futuro per la guerra in Ucraina, aumento dei costi dell'energia e inflazione.
«Il reddito di cittadinanza riguarda uno Stato sociale all'altezza dei tempi», ha detto il ministro del Lavoro Hubertus Heil. «Si tratta di proteggere in modo affidabile le persone in stato di bisogno. È una questione di solidarietà sociale», ha commentato. Ed è proprio la solidarietà sociale una delle bandiere distintive del partito di maggioranza.
La seconda ragione è che la riforma del sostegno figura tra le principali promesse elettorali dell'Spd, insieme all'innalzamento del salario minimo a 12 euro/ora, entrato in vigore a ottobre. La terza e più prosaica motivazione è che una riforma era necessaria dopo i rilievi della Corte costituzionale.
Nel 2019 l'alta Corte aveva osservato che le multe ai percettori che non rispettavano gli accordi presi con i centri per l'impiego arrivavano a soglie talmente drastiche, con tagli ai contributi fino al 60-100%, da rendere vano il principio stesso del sussidio.
Ora, l'attuale riforma prevede ancora sanzioni ma in modo ridimensionato rispetto al passato. Se non si rispettano gli appuntamenti con il Job Center, se non si frequentano i corsi di formazione o si rifiuta di fare le domande di lavoro, c'è un sistema di richiami. Al primo richiamo si avrà una decurtazione dell'importo del 10% per un mese, al secondo del 20% per 2 mesi, al terzo del 30% per tre mesi.
Oltre non si va e i soldi per l'affitto e le spese accessorie non verranno toccati. Gli importi sono stati aumentati per tutte le categorie di percettori di circa 50 euro al mese, così che un single che prendeva al 31 dicembre 449 euro, dal primo gennaio ne prenderà 502.
La platea dei beneficiari del sussidio attuale è la stessa dei percettori dell'Hartz IV, che a fine 2021 era di circa 5 milioni, riporta Destatis.
Tra questi non solo chi non è in grado di lavorare ma anche i cosiddetti occupabili, senza lavoro o che guadagnano talmente poco da non riuscire a mantenersi. Anche per loro è previsto un sostegno, come l'aiuto di un coach per essere reintegrati nel mondo del lavoro. Il dibattito di questi mesi in Germania è stato uguale e contrario rispetto all'Italia: forti si sono levate le voci delle associazioni per dire che la platea era troppo ristretta o che l'aumento del contributo era troppo basso. Mentre chi sosteneva che con 502 euro al mese, piuttosto che con 449, si è scoraggiati a cercare lavoro ha avuto un'eco ben modesta in un Paese che vede nel 2022 crescere l'occupazione a livelli record con più 589.000 occupati in un anno.
Angela Merkel: «Kohl si approfittava di voce e corporatura. I tremori? Faceva caldo, era appena morta mia madre». Giovanni Di Lorenzo e Tina Hildebrandt su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022
La Cancelliera della Germania dal 2005 al 2021 ripercorre alcuni momenti importanti della sua vita, non solo politica: «Il mio motto in politica è sempre stato: ce la faremo. Perciò, da politica, non mi sono mai occupata di scenari catastrofici, ma ho sempre cercato soluzioni»
Il nuovo ufficio di Angela Merkel è lo stesso del suo predecessore Helmut Kohl da ex cancelliere. Si trova al quinto piano di un anonimo edificio della DDR, in cui risiedeva Margot Honecker in qualità di ministra dell’Istruzione, sulla Unter den Linden, tra l’Hotel Adlon e l’ambasciata russa. Per la nostra intervista ha scelto la sala riunioni sullo stesso piano, dalla quale si ha una bella vista sulla Pariser Platz e sulla Porta di Brandeburgo. La sua consulente politica, Beate Baumann, è con noi per tutta la durata del colloquio. Prima di iniziare si scattano delle foto; velocemente, perché Angela Merkel non ama essere fotografata. Il perché si capirà più avanti.
Sparite le macchine fotografiche, Merkel si rilassa. Da un anno non è più in carica. Prima, anche solo chiederle «Come sta?» la insospettiva. Oggi la ritiene opportuna, come constata lei stessa facendo una sua tipica smorfia ironica. «E risponderei anche che personalmente sto bene». Invece la situazione politica generale la opprime. Angela Merkel, come tutti gli ex cancellieri, ha diritto da protocollo all’appellativo di Cancelliera. Kohl, anche dopo la fine del suo mandato, amava farsi chiamare Cancelliere ed esigeva anche che venisse menzionato il suo titolo di Dottore. Lei preferisce Signora Merkel.
Angela Merkel è colta da tremore durante la visita di Zelensky nel 2019
Signora Merkel, anche se non è più cancelliera, non sembra cambiata.
«Pensavate che mi sarei presentata con la coda di cavallo? Questo tipo di abbigliamento è pratico per me e all’acconciatura mi ci sono abituata. Naturalmente vi incontro in veste di cancelliera a riposo. Ma ne potete trarre la conclusione inversa, che come cancelliera non interpretavo un ruolo, ma semplicemente me stessa. Ed è così anche oggi, in una versione un po’ meno formale, diciamo. Devo fare meno attenzione al trucco. Vi voglio rassicurare: sul divano di casa non sto seduta in tailleur. Mi metto un cardigan».
Nel 2019 davanti alla cancelleria di Berlino, proprio mentre accoglieva il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, è stata colta da un improvviso tremore, molto forte, che tutti hanno potuto notare. Era la signora Merkel che metteva i bastoni tra le ruote della cancelliera Merkel?
«In ogni caso è stato un momento difficile. In un certo senso è stato come perdere i sensi per un istante, per di più in un’occasione ufficiale, durante l’esecuzione degli inni nazionali. Probabilmente avevo accumulato molta tensione. Era morta mia madre e io avevo avuto troppo poco tempo per assisterla nelle sue ultime settimane di vita. Inoltre faceva molto caldo e come sempre gli obiettivi delle macchine fotografiche erano puntati su di me come canne di fucile. Improvvisamente hanno suscitato in me la sensazione di essere completamente trasparente».
La scrittrice americana Siri Hustvedt ha fatto esperienze simili, che ha raccontato in un libro, dal titolo La donna che trema , in cui si chiede: ho paura di qualcosa che mi è ignoto? Anche lei si è fatta la stessa domanda? «Io mi sono chiesta: cosa succede? Era qualcosa che non ero in grado di razionalizzare. Era già quasi la fine del mio mandato, avevo già deciso di non ricandidarmi. E tutto sommato era un altro segnale che la decisione era quella giusta». Crede che in Germania prima o poi si arriverà al punto in cui un politico di spicco, in una situazione del genere, potrà anche dire di aver fatto ricorso alla psicoterapia? «Per me non ce n’è stato bisogno, ma non mi sembrerebbe grave che un politico lo dicesse. Naturalmente sono stata dal medico per accertarmi che neurologicamente fosse tutto a posto. Ci tenevo e ci tengo alla mia salute».
Potrebbe affermare che, per natura o per dono di Dio, tendenzialmente non prova paura?
«Direi piuttosto che ho fede in Dio, o che sono ottimista».
Lei ha avuto dei dissidi con Helmut Kohl, di cui oggi occupa l’ufficio. Politicamente era un peso massimo e anche fisicamente un colosso. Ci voleva una certa dose di coraggio per rapportarsi con lui.
«L’ho sperimentato in politica con gli uomini anche in altre situazioni; la voce bassa, la corporatura molto più possente, approfittano di entrambe. L’ex ministro Rexrodt, ad esempio, anche se mi ero conquistata un posto in prima fila, riusciva a parlare nel microfono sopra la mia testa. Anche Helmut Kohl parlava a voce molto alta, quando si arrabbiava».
Intende che urlava?
«In quei casi diventava impetuoso e bisognava valutare se si voleva o si poteva opporgli resistenza. Il fatto che a volte dicessi cose insolite per le consuetudini politiche dipende dalle mie origini. Non sono stata plasmata fin dall’infanzia dalle associazioni dei giovani cristiano-democratici. Avevo il mio linguaggio personale e le mie idee. A volte dava nell’occhio e ad alcuni appariva coraggioso ma non lo era».
Lei ha detto più volte che da tutta la vita non riesce a togliersi dalla testa che la DDR sia collassata non tanto per una carenza di libertà democratiche quanto perché l’economia non funzionava. Il nostro precedente editore Helmut Schmidt, che aveva vissuto sotto una dittatura e non era rimasto del tutto senza peccato, affermava di aver maturato una certa sfiducia verso il proprio popolo. Anche lei prova qualcosa di simile?
«Non la definirei sfiducia verso il mio popolo, bensì in generale verso noi esseri umani, in quanto le persone sono capaci di cose inconcepibili. Sotto il Nazionalsocialismo, la Germania si è spinta all’estremo in modo terrificante. Perciò sono assolutamente convinta che l’impianto del nostro Stato e la sua Costituzione contengano una dose elevata di saggezza, in cui sono ampiamente ponderati l’indipendenza della stampa e della giustizia e i processi democratici. Si fa presto a mettere tutto in discussione e ad esempio a dichiarare le sentenze dei tribunali non trasparenti. Io stessa ho ricevuto una nota formale di biasimo dalla Corte Costituzionale per aver detto nel 2019 che il risultato delle elezioni del Primo Ministro del Land della Turingia a febbraio con i voti dell’AfD doveva essere annullato. Avrei potuto commentare questo verdetto della Corte, ma non l’ho fatto, perché dovevo e devo rispettarla. Su questo punto non dobbiamo mai mollare. Teme che il sistema possa rapidamente implodere? «Occorre la consapevolezza di ognuno, altrimenti il sistema può effettivamente implodere. Per questa ragione non mi piace sentir parlare di quelli della “bolla del quartiere Prenzlauer Berg”. Naturalmente non si parla di tutta la Germania, ma non dobbiamo mai considerare outsider una parte degli individui di un Paese e il resto della popolazione come i rappresentanti della vera democrazia. Non sortirà mai nulla di buono».
Il suo cancellierato è stato fortemente segnato da un tema, emerso relativamente tardi: la politica dei rifugiati a settembre 2015. In proposito, alle critiche che le venivano rivolte sulle conseguenze della sua politica liberale, lei ha affermato: «Se adesso cominciamo a doverci scusare anche per aver mostrato un volto umano in situazioni d’emergenza, allora questo non è più il mio Paese».
Molti hanno giudicato questa frase autoritaria e discriminatoria. Ad alcuni ha dato l’impressione che lei si arrogasse il diritto di decidere come deve essere il Paese. «Quando ho pronunciato quella frase, pensavo in particolare alle persone che avevano accolto i profughi alla stazione di Monaco. Consideravo la mia decisione di consentire ai rifugiati l’ingresso nel nostro Paese in sintonia con i nostri diritti e valori fondamentali. Ed erano questi valori fondamentali che intendevo sottolineare con quella frase».
La frase però aveva tutta l’aria di un annuncio al popolo.
«Non ho riflettuto per giorni prima di pronunciare quella frase. È stata una risposta molto emotiva, ma non casuale. Era sostenuta dalla mia convinzione che la dignità umana non sia un argomento puramente retorico, ma che abbia invece implicazioni pratiche. Etichettarla come autoritaria, dicendo: va be’, sono i tedeschi dell’Est, loro vivono in un altro Paese, l’ho trovato piuttosto azzardato».
Non le è mai capitato di pensare che con la sua politica in realtà ha contribuito alla spaccatura del Paese?
«Naturalmente ci ho pensato. E naturalmente, dal punto di vista politico, è sempre magnifico quando il 90% delle persone è della stessa opinione, meglio ancora se è la mia. Tuttavia ci sono situazioni in cui non è possibile evitare le controversie. Ho aiutato le persone che, per così dire, bussavano alla nostra porta e allo stesso tempo, tra l’altro, con l’accordo Ue-Turchia, ho contribuito ad affrontare le cause della fuga alla radice».
Come esponente politica, di cui si dice che pensa sempre alle conseguenze, ha immaginato e quindi ha tenuto conto del prezzo di questa controversia?
«Ho creduto che si potesse vincere questo confronto. Ed ero fermamente convinta di dover correre il rischio, perché non farlo avrebbe provocato una frattura all’interno della società».
Oggi agirebbe diversamente su qualche aspetto?
«No!»
Su nessun aspetto?
«Ovviamente imparo. Perciò, riflettendoci poi, interverrei decisamente prima, per evitare che possa crearsi una situazione come quella dell’estate 2015, ad esempio aumentando i fondi del World Food Programme per i campi profughi, soprattutto nei Paesi limitrofi particolarmente interessati dalla migrazione, come abbiamo fatto».
Durante il suo cancellierato, il numero delle crisi e la loro simultaneità sono aumentati di anno in anno...
«Nei miei ricordi, i primi due anni sono stati molto tranquilli, poi è iniziata la crisi finanziaria globale, c’è stata la crisi dell’euro, le notizie sul clima andavano via via peggiorando. Dopo la prima relazione del Club di Roma sembrava ancora che in realtà le cose andassero un po’ meglio del previsto. Ad ogni rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico IPCC, tuttavia, la situazione si faceva più allarmante, al punto da chiedersi se ci fosse e ci sia ancora il tempo di reagire adeguatamente. Forse però le crisi sono anche normali, abbiamo solo vissuto alcuni anni fuori dalla norma».
Si chiede se gli anni di relativa tranquillità siano stati anche anni di omissioni e lei non si sia limitata a gestire le crisi, ma le abbia in parte provocate?
«Non sarei un politico se non mi ponessi queste domande. Prendiamo la lotta ai cambiamenti climatici, nella quale in confronto ad altri Paesi la Germania ha fatto moltissimo. Ammetto che non è stato sufficiente. Oppure esaminiamo la mia politica verso Russia e Ucraina. Ne concludo che ho preso le mie decisioni di allora seguendo una logica che mi pare ancora ragionevole. Si trattava del tentativo di impedire proprio una guerra come quella attuale. Non esserci riusciti non significa che fosse sbagliato tentare».
Si può tuttavia considerare plausibile il comportamento adottato in precedenti circostanze e ciò nondimeno giudicarlo sbagliato alla luce dei risultati.
«Occorre però anche dire quali erano esattamente le alternative allora. L’avvio di una possibile adesione alla Nato dell’Ucraina e della Georgia, di cui si discuteva nel 2008, a mio parere era sbagliato. I due Paesi non avevano i requisiti e non si era nemmeno riflettuto a fondo su quali conseguenze avrebbe avuto una tale decisione, sia in termini di reazione della Russia contro Georgia e Ucraina sia per la Nato e le sue regole in materia di aiuto. E gli Accordi di Minsk del 2014 rappresentavano il tentativo di dare del tempo all’Ucraina. L’Ucraina ha sfruttato questo periodo per diventare più forte, come si vede oggi. Il Paese del 2014/15 non è quello di oggi. E dubito che la Nato avrebbe potuto fare molto per aiutare l’Ucraina, come fa oggi». (Gli accordi di Minsk prevedevano una serie di intese per le autoproclamate repubbliche di Donezk e Lugansk, sotto influenza russa, che avevano espresso la volontà di separarsi dall’Ucraina. L’obiettivo era guadagnare tempo tramite un armistizio, per poi giungere successivamente alla pace, ndr ).
Alla sua prima apparizione pubblica post cancelleria, ha dichiarato che già nel 2007 si era resa conto di ciò che Putin pensava dell’Europa e che l’unico linguaggio che capisce è la forza. Se aveva raggiunto questa consapevolezza così presto, perché poi ha adottato una politica energetica che ci ha resi tanto dipendenti dalla Russia?
«Tutti noi sapevamo che era un conflitto congelato, che il problema non era risolto, ma proprio questo ha dato all’Ucraina tempo prezioso. Naturalmente, oggi ci si può chiedere perché in una situazione simile sia stata approvata la costruzione del gasdotto Nord Stream 2».
Ecco, perché? Tanto più che già allora venivano mosse pesanti critiche, ad esempio dalla Polonia e dagli Usa.
«Sì, i pareri erano contrastanti. Di cosa si trattava? Da un lato l’Ucraina riteneva molto importante mantenere il proprio ruolo di Paese di transito per il gas russo. Voleva che il gas passasse attraverso il suo territorio e non attraverso il Mar Baltico. Oggi sembra che ogni molecola di gas russo sia il demonio. Allora non era così, il gas era conteso. Dall’altro non era stata la Repubblica federale tedesca a richiedere le autorizzazioni per Nord Stream 2, erano state le aziende. Per il governo e per me si trattava di decidere se, come atto politico, promulgare o meno una nuova legge per negare l’autorizzazione a Nord Stream2».
Cosa glielo ha impedito?
«Innanzitutto un rifiuto, abbinato agli Accordi di Minsk, avrebbe inasprito i rapporti con la Russia. D’altro canto la dipendenza energetica è nata perché c’era meno gas proveniente da Olanda e Gran Bretagna e le quantità estratte in Norvegia erano limitate».
E poi c’era l’uscita dal nucleare. Voluta anche da lei.
«Giusto, e inoltre la decisione, con l’assenso di tutte le forze politiche, di estrarre meno gas anche in Germania. Si sarebbe dovuto comprare il gas naturale liquefatto, più costoso, dal Qatar o dall’Arabia Saudita; la possibilità di importarlo dagli Stati Uniti è emersa solo successivamente. Una decisione di questo tipo avrebbe nettamente compromesso la nostra competitività. Oggi si agisce così sotto la pressione della guerra, cosa che io approvo, in quel momento sarebbe stata una decisione politica molto più pesante».
Avrebbe dovuto ugualmente prenderla, quella decisione?
«No, tanto più che non avrebbe trovato consenso. Se da me vuole un’autocritica, le faccio un altro esempio».
Tutto il mondo attende una parola di autocritica!
«Può essere, ma in molti punti non sono d’accordo con quanto sostengono i critici. Fare autocritica solo perché era ciò che ci si attendeva da me lo ritenevo semplicistico. Ci ho pensato tanto all’epoca! Sarebbe una prova di incapacità se ora, solo per quieto vivere e senza pensarlo veramente, dicessi: ah, è vero, ora che ci penso era sbagliato. Ma voglio parlarle di un aspetto che mi dà da pensare. È il fatto che la Guerra Fredda non è mai realmente finita, perché in fin dei conti la Russia non è mai stata pacificata. Quando nel 2014 Putin ha invaso la Crimea, è stato escluso dal G8. Inoltre la Nato ha dislocato delle truppe nella regione baltica, per dimostrare di essere pronta a intervenire. E anche noi abbiamo deciso di destinare il 2% del Pil alle spese militari per la difesa. Cdu e Csu erano le uniche ad averlo mantenuto nel programma di governo. Ma anche noi avremmo dovuto reagire più rapidamente all’aggressività della Russia. Malgrado l’aumento, la Germania non ha raggiunto l’obiettivo del 2%. E nemmeno io mi sono prodigata quotidianamente a sostegno di questa causa».
Perché segretamente pensava che non fosse necessario?
«No, perché ho agito secondo il principio di Kohl: ciò che conta è il risultato. Prodigarsi a favore di una causa per poi fallire non avrebbe aiutato il bilancio dello Stato. Ma, se cerco nella storia ricette di successo, trovo la doppia decisione della Nato...»
Su questo Helmut Schmidt ha perso il suo mandato.
«Vero, e questo ha aumentato ancora di più la mia stima per lui. L’aspetto intelligente nella doppia decisione della Nato era appunto il duplice approccio, che prevedeva il riarmo e la diplomazia. Riportato all’obiettivo del 2%, significa che l’aumento delle spese di difesa non è stato sufficiente come intimidazione».
Nell’intervista a Der Spiegel ha detto: «Affrontare le critiche fa parte della democrazia, ma mi pare che un presidente Usa sia trattato con più rispetto di un cancelliere tedesco».
«Intendevo in primo luogo che oggi si giudicano molto in fretta le decisioni del passato, senza ricordare il contesto e senza verificare in modo critico le alternative. In secondo luogo a volte mi si accusa, dopo 30 anni di politica e 16 da cancelliera, di essermi dimessa volontariamente dal mio incarico, alla tenera età di 67 anni, e di voler avere solo “colloqui rilassanti”. Per me significa non dovermi sempre giustificare, se ora desidero stabilire io la mia agenda. Non vorrei essere più spinta dall’esterno».
Si riferisce anche alla discussione sul suo ufficio? Ci sono state incomprensioni per il fatto che ha nove dipendenti.
«Quello magari è un effetto collaterale. Quali attestati devo presentare perché il mio personale sia giustificato?»
All’inizio del suo mandato, lei ha fatto notare che in passato esistevano civiltà progredite apparentemente invincibili, che sono decadute perché non hanno saputo trasformarsi. È possibile che l’umanità, nonostante tutte le informazioni di cui dispone sul surriscaldamento globale, non riesca a organizzare la propria sopravvivenza, perché non tutti vogliono procedere nella stessa direzione?
«Il mio motto in politica è sempre stato: ce la faremo. Perciò, da politica, non mi sono mai occupata di scenari catastrofici, ma ho sempre cercato soluzioni. Da cittadina, posso pormi la domanda, ma essendo io ancora in uno stadio intermedio, direi: dobbiamo fare di tutto affinché non accada». Ha un’idea di come possa finire la guerra in Ucraina? Ed è completamente escluso che lei possa assumere un ruolo? «La seconda questione non si pone. Riguardo alla prima, onestamente non lo so. Finirà un giorno con le trattative. Le guerre finiscono al tavolo delle trattative». Proprio perché questa guerra ha tante ripercussioni drammatiche, si può lasciare l’Ucraina da sola a decidere in quali circostanze iniziare i negoziati? «C’è differenza tra una pace imposta, che io come molti altri non voglio, e un colloquio aperto e amichevole. Non voglio aggiungere altro».
Si sarebbe mai immaginata che negli ultimi anni della sua cancelleria fino ad oggi le critiche più dure venissero proprio dal gruppo Springer?
«La libertà di stampa è un bene prezioso. (sorride)»
Accetta le critiche? Legge la Bild?
«Anche se non leggo le critiche, c’è sicuramente qualcuno che me le mette sotto il naso».
In occasione del suo commiato, un anno fa, come tutti i cancellieri uscenti, aveva la possibilità di scegliere tre canzoni. Lei ha scelto tra l’altro il pezzo Für mich soll’s rote Rosen regnen . Una strofa recita: «Non posso adeguarmi, non posso accontentarmi, voglio ancora vincere, voglio tutto o niente» e poi «Lontano dal vecchio, aprirmi al nuovo, mantenere tutte le mie speranze».
«Volevo dire che mi appresto con piacere ad affrontare una nuova fase della vita. Ho vissuto momenti meravigliosi, anche stancanti. Ma è stata un’esperienza fantastica: a chi capita di diventare Cancelliera? L’ho sempre fatto con gioia e oggi tuttavia c’è di nuovo una certa tensione che mi fa dire: che altro può succedere?»
Quei razzisti come i polacchi.
Il ritratto. Chi è Mateusz Jakub Morawiecki, il premier polacco razzista e omofobo. Il suo disprezzo verso l’”imperialismo Ue” è secondo solo a quello manifestato verso l’odiata Russia. Sui migranti poi, è il più grande innalzatore di muri nel vecchio continente. Umberto De Giovannangeli su L'Unità il 6 Luglio 2023
I toni sono suadenti, i modi garbati. Bella presenza. Ma sui contenuti, siamo alla destra più estrema. Di fronte a lui, anche il sodale di Budapest, e di Visegrad, Viktor Orban, appare uno statista moderato. Il suo disprezzo verso l’”imperialismo Ue” è secondo solo a quello manifestato verso l’odiata Russia. Sui migranti poi, è il più grande innalzatore di muri nel vecchio continente.
Ora, con accanto l’amica Giorgia, annuncia che i polacchi saranno chiamati a breve a decidere che fare con i migranti attraverso un referendum. Cacciarli o no. Il risultato è scontato. Mateusz Jakub Morawiecki, 55 anni, premier della Polonia e leader del partito Diritto e Giustizia, (Prawo i Sprawiedliwość, in polacco), del “diritto” e della “giustizia” ha idee molto chiare. Di destra. Estrema. Sulla guerra in Ucraina, così si è pronunciato in una intervista a Paolo Valentino del Corriere della Sera: “Consideriamo la guerra in Ucraina soprattutto una minaccia esistenziale per la Polonia e per tutta l’Europa. Se la Russia la vince, tutte le analisi geopolitiche possono essere gettate via. La Polonia non ha scelto il luogo in cui si trova sulla carta geografica, ma comprende perfettamente la responsabilità che questa posizione comporta. Sconfiggere la Russia è una ragion di Stato sia polacca che europea… Con i terroristi non si tratta. E la Russia è diventata oggi uno Stato terrorista…”. Punto.
Con Giorgia Meloni, Morawiecki condivide una passione particolare per i raduni di Vox, il partito sovranista spagnolo, pieno di nostalgici del franchismo. “Al giorno d’oggi, l’Ue vuole voltare le spalle alla tradizione e i burocrati di Bruxelles stanno ampliando i loro poteri sulla base di nessun trattato, non possiamo permetterlo”, ha tuonato il premier polacco intervenendo a Madrid alla conferenza di Vox (9 ottobre 2022). “L’Europa è fatta di nazioni, di nazioni libere e sovrane”, ha sottolineato il primo ministro polacco. E ancora: “Abbiamo a che fare con una democrazia formale e un’oligarchia de facto in cui i più forti detengono il comando”, aggiungendo che “l’imperialismo dell’Ue” deve essere combattuto così come l’imperialismo russo.
Razzista e anche omofobo. In campagna elettorale Morawiecki, schierandosi contro i matrimoni tra persone delle stesso sesso, disse che la difesa della famiglia tradizionale è una battaglia democratica, paragonandola a quella di Salamina, in cui i greci sconfissero i persiani: dunque uno scontro di civiltà. “Il primo ministro polacco è un antisemita di estrema destra che mette al bando le persone LGBT”. A esprimere questo non certo lusinghiero giudizio su di lui, è il presidente francese Emmanuel Macron in una intervista al quotidiano in un’intervista a Le Parisien (8 aprile 2022).
Sui migranti, poi… Morawiecki è alla guida di un governo che respinge i profughi in fuga dalla fame, dalle guerre e pure dagli apocalittici disastri del terremoto (6 febbraio 2023) che ha devastato Siria e Turchia. A bussare alle porte della Polonia per chiedere asilo sono soprattutto siriani e afgani. Ma entrano solo i profughi ucraini, gli altri no. Le guardie di frontiera li respingono con il fucile spianato. Dunque, prevalgono politiche xenofobe. Tanto che il governo polacco ha innalzato un muro nel cuore d’Europa, alla frontiera con la Bielorussia per cacciare i profughi, presentati all’opinione pubblica come una “minaccia”, nonostante si tratti di famiglie stremate, con donne, vecchi e bambini. Senza cibo, senza acqua, senza riparo dal gelo, senza medicine. Respinte da agenti armati che compiono rastrellamenti e che costantemente presidiano il muro, lungo più di 180 km.
E’ il nuovo muro della vergogna, una trappola per i disperati che fa pensare a Berlino. Una “barriera” di cemento e filo spinato frutto della propaganda sovranista, che paventa una possibile “invasione” di migranti. Morawiecki è al governo dal 2017. Ha contribuito alle leggi che (dal 2015) hanno limitato l’indipendenza della magistratura, ridotto lo stato di diritto e condizionato la libertà dei media. “La Polonia è il confine morale e materiale dell’Occidente”. Nientepopodimeno. A proclamarlo è Giorgia Meloni, parlando con i giornalisti, a conclusione della visita a Varsavia (13 marzo 2023). Cala il sipario. Nero.
Umberto De Giovannangeli 6 Luglio 2023
Quei razzisti come i slovacchi.
In Slovacchia vince il filorusso Fico contrario all'invio delle armi a Kiev. Robert Fico ha ottenuto il 23% delle preferenze e gli verrà affidata la formazione del prossimo governo slovacco: così cambieranno gli equilibri nell'Unione europea. Francesca Galici l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Le elezioni in Slovacchia hanno decretato la vittoria del partito populista Smer-Sd. Con il 100% dei seggi scrutinati, il risultato può dirsi acquisito con il 23% delle preferenze che è andato al candidato Robert Fico. Un risultato che sovverte le previsioni degli exit-poll, secondo le quali a vincere sarebbe dovuto essere il partito progressista che, invece, si è fermato al 18%. Poco dietro Hlas-Sd con il 15%.
Slovacchia al voto, Bruxelles trema. Putin tifa per l'impresentabile Fico
L'ex primo ministro slovacco ha condotto una campagna elettorale molto aggressiva e marcatamente schierata su posizioni filo-russe e anti-europeiste. Nei mesi scorsi ha garantito che in caso di vittoria, così com'è stato, la Slovacchia non invierà "un solo proiettile" all'Ucraina. In qualche tempo l'orientamento di Fico è cambiato radicalmente, perché se solo una manciata di anni fa ha salutato l'adozione dell'euro da parte della Slovacchia come una "decisione storica significativa", durante la campagna elettorale ha preso di mira l'Ue, la Nato e Kiev nel tentativo di corteggiare gli elettori di estrema sinistra e di estrema destra. Evidentemente, visti i risultati, è riuscito nel suo intento e ora potrebbero cambiare gli equilibri nel cuore dell'Europa.
"La guerra in Ucraina ha avuto origine nel 2014, quando i fascisti ucraini hanno cominciato a uccidere vittime civili di nazionalità russa", ha dichiarato Fico in un recente video, sottolineando che in caso di vittoria avrebbe cercato di intessere rapporti anche con la Federazione russa. A tal fine, sempre in campagna elettorale, ha garantito l'immunità a Vladimir Putin nel caso dovesse recarsi in Slovacchia, nonostante esista un mandato di cattura internazionale. Fico ha iniziato la sua carriera politica nel Partito comunista poco prima che la Rivoluzione di Velluto del 1989 dissolvesse l'ex Cecoslovacchia. È stato rappresentante della Slovacchia presso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dal 1994 al 2000.
Il comitato elettorale Smer ha annunciato che non rilascerà dichiarazioni fino a questa sera, in attesa del consolidamento dei risultati ma appare ormai chiara la direzione intrapresa dagli elettori slovacchi. Il presidente della Repubblica slovacco, Zuzana Caputova, ha dichiarato stamattina che affiderà la formazione del prossimo governo al leader del partito vincitore, indipendentemente dalle sue "preferenze personali".
Fico ha già ricoperto la carica di capo del governo in Slovacchia due volte, dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2018. Cinque anni fa Fico dovette dimettersi tre settimane dopo l'uccisione del giornalista investigativo Jan Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova. L'assassinio scatenò importanti manifestazioni antigovernative per le rivelazioni scomode di Kuciak, contenute negli ultimi articoli postumi, in merito a legami tra personalità dello Smer-SD, vicine a Fico, e la 'ndrangheta. L'elezione di Fico rischia di allontanare Bratislava dall'Unione europea e dai suoi valori, con implicazioni politiche significative e cambiamento radicale degli equilibri.
Il risultato delle elezioni slovacche, molto diverso da quello degli exit poll. In Slovacchia vincono la disinformazione ed il filorusso e antioccidentale Robert Fico. Alessio De Giorgi su Il Riformista l'1 Ottobre 2023
Ed alla fine andò come in tanti avevano temuto potesse andare. Come quanti avevano fatto suonare campanelli d’allarme, preoccupati da incessanti e massicce campagne di disinformazione, avevano preventivato. Ben peggio di come preannunciavano gli ultimi sondaggi, in modo completamente diverso da come sostenevano gli exit poll usciti 45 minuti dopo la chiusura dei seggi elettorali.
L’Europa ha un nuovo Orban. Robert Fico, l’ex premier slovacco dimessosi nel 2018 per una bruttissima vicenda riguardante il brutale assassinio del giornalista Ján Kuciak e della sua compagna la cui indagine – legata alla corruzione – lo lambì, crollato nei sondaggi, fondatore poi di SMER, questo nuovo partito che (tra le mille perplessità a Bruxelles) aderisce ancora al gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, è il grande vincitore delle elezioni slovacche. Porta a casa quasi il 24% dei voti e al momento 42 seggi dei 150 del Parlamento di Bratislava. 59 anni, l’ex premier slovacco ha promesso di fermare gli aiuti militari all’Ucraina, ha criticato più volte le sanzioni rivolte alla Russia e ha fatto una campagna contro i diritti LGBTQ+.
Michal Šimečka, il bravo europeista convinto di PS, Slovacchia Progressista, liberale, membro di Renew Europe, tra gli attuali Vicepresidenti del Parlamento europeo, è il grande sconfitto specie rispetto agli exit poll che lo davano sopra il 20%: a scrutinio pressoché ultimato, porta a casa il 16,9% dei voti e solo 31 seggi. Peter Pellegrini, leader dei socialdemocratici di Hlas, già primo ministro dal 2018 al 2020, è terzo con un ragguardevole 15% e ben 27 seggi. Sette in totale i partiti che entrano in parlamento: oltre ai tre sopra citati, i popolari e sulla carta europeisti di OL’aNO avrebbero 16 seggi, i cristiano democratici di KDH 13, i liberali di destra di SaS (gruppo dei conservatori ECR al Parlamento europeo, lo stesso della Meloni) 11 ed infine i conservatori di destra SNS (partito nazionale slovacco) ne avrebbero 10.
Certo, al momento la strada per portare Robert Fico alla guida della Slovacchia non è spianata, perché da solo non ha la maggioranza in parlamento e perché ora sarà costretto a fare i conti con una coperta che è abbastanza corta: se firmasse un’alleanza coi socialdemocratici di Hlas avrebbe la maggioranza ma taglierebbe i ponti con tutti gli altri partiti minori e sarebbe costretto a rivedere gran parte delle sue promesse elettorali, in particolare quella di togliere il sostegno all’Ucraina. Se al contrario decidesse di allearsi con la destra antioccidentale, questa sì che sarebbe una sorpresa per un partito che sulla carta è di sinistra ma non verrebbe meno alle sue promesse: è uno scenario questo che però molti commentatori sostengono non sia impossibile, tutt’altro. Ne verrebbe fuori una coalizione assai bizzarra, ma dal tristemente chiaro orientamento in politica internazionale.
Robert Fico in questi mesi, aiutato da forti campagne di disinformazione che più volte hanno attirato l’attenzione della Commissione Europea, ha cavalcato l’insoddisfazione del Paese per un governo di coalizione di centro-destra così litigioso da portare la Slovacchia alle elezioni anticipate. Nel corso della sua campagna elettorale, ha sottolineato spesso la preoccupazione per un aumento del numero di migranti che passano attraverso la Slovacchia verso l’Europa occidentale. Le opinioni di Fico riflettono sentimenti tradizionalmente vicini nei confronti della Russia nell’opinione pubblica slovacca, sentimenti particolarmente cresciuti sui social media e da questi alimentati. Si è anche impegnato a porre fine alle forniture militari all’Ucraina e a lottare per i colloqui di pace – una linea vicina a quella del leader ungherese, Viktor Orbán, ma respinta dall’Ucraina e dai suoi alleati, che dicono che incoraggerebbe solo la Russia.
Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva
Estratto dell’articolo di Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” lunedì 2 ottobre 2023.
Cinque anni fa sembrava un uomo politicamente finito. Dopo l’omicidio del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata, migliaia di persone scesero in piazza contro la corruzione dilagante, costringendolo a dimettersi.
Sembrava spacciato, il suo partito sconfitto per la prima volta in 15 anni, nel 2020. Invece Robert Fico è tornato, e ha vinto neppure di misura la sfida per il suo quarto mandato sfoderando toni apertamente filorussi e xenofobi.
[…] «Anche allora la Slovacchia era spaccata in due: quelli che credono nella democrazia liberale scesero in piazza, mentre rimasero a casa i fan dell’uomo forte che consideravano Kuciak soltanto un problema personale di Fico e non per il Paese» ci dice Peter Bárdy, direttore di Aktuality e autore di Fico — Ossessionato dal potere , biografia appena pubblicata.
È la storia del politico più influente e controverso della Slovacchia moderna: diventato parlamentare appena 28enne nel 1992, tra le fila della sinistra nata dalle ceneri del comunismo, poi fondatore di Smer, partito socialdemocratico, è stato già tre volte premier nel 2006, nel 2012 e nel 2016.
L’ultimo mandato interrotto sotto le pressioni della piazza e dei giudici. Le ragioni della sua rinascita si inseriscono nella sua audace parabola politica: da comunista a populista che cerca alleanze nell’estrema destra. «In realtà Fico non è mai cambiato, è sempre stato uomo pragmatico, cinico, assetato di potere», dice Peter Bárdy.
[…] Ora Fico sta diventando ancora più pericoloso perché non ha più bisogno di apparire accettabile agli occhi dell’Occidente: per questo ha accentuato i toni aggressivi e dispotici e «ora se andrà al governo diventerà un piccolo Orbán». Del resto, i due leader collaborano già da tempo.
«Due settimane fa in Slovacchia è esplosa la crisi dei migranti grazie all’aiuto di Orbán, che ha aperto la frontiera per creare il caso e permettere a Fico di giustificare uno dei punti cardine della sua campagna elettorale. E in passato quando la Ue ha attaccato Orbán, lui lo ha difeso» chiarisce Bárdy.
La frustrazione antisistema è via via cresciuta in Slovacchia negli ultimi tre anni.
L’instabilità politica (tre governi in tre anni) ha pesato sull’aumento del costo della vita. Così il diffuso malcontento e un’aggressiva campagna di disinformazione hanno rilanciato Fico: «Oggi insieme a partiti nazionalisti e di estrema destra raggiunge il 44-46% dei consensi. Ma è fondamentale che Hlas, formazione guidata dal suo ex compagno di partito Pellegrini, entri in coalizione».
[…] «A 19 anni si è iscritto al partito comunista, che negli anni ‘80 era un modo per fare carriera. Ha sposato Svetlana Ficová, figlia di un potente giudice comunista, ma il suo vero amore è Maria Troskova, ex fidanzata del calabrese Antonino Vadalà e sua consigliera prima delle sue dimissioni nel 2018.
Kuciak stava indagando sui legami di Vadalà e della ‘ndrangheta con le autorità slovacche quando è stato ucciso. L’assassinio ha segnato la fine della loro relazione». Diversi osservatori temono con lui al governo una svolta autoritaria e il progressivo smantellamento dello Stato di diritto: in prima linea nell’agenda di Fico ci sarebbe la fine delle indagini sulla corruzione che perseguitano lui e i suoi collaboratori.
La metamorfosi dell'ex comunista cacciato dalla piazza e rinato populista. Storia di Gaia Cesare su Il Giornale di domenica 1 ottobre 2023.
Dalle dimissioni alla vittoria in cinque anni. Dalle proteste di piazza del 2018 per la morte del giornalista d'inchiesta Ján Kuciak e della compagna Martina Kunírová, che indagavano sui legami fra la 'ndrangheta e le autorità slovacche, alla vittoria di ieri. Robert Fico, 59 anni, già tre volte premier della Slovacchia, sembrava finito e invece è risorto dalle ceneri e torna al centro della politica del suo Paese, ma anche dei delicati equilibri europei, nel pieno dello scontro con la Russia di Putin.
Figlio di una commessa e di un conducente di muletto in fabbrica, Fico si iscrive al Partito comunista a 19 anni. Era il 1986, il momento in cui conquista anche una laurea in legge. Uno dei suoi professori, Jozef Moravík, che poi diventerà primo ministro, lo descrive come «ambizioso, molto sicuro di sé e coinvolto nelle discussioni». Dopo la Rivoluzione di Velluto dell'89, Fico si iscrive al movimento che ne prende l'eredità, il Partito della Sinistra democratica Sdl. Viene eletto in Parlamento per la prima volta nel 1992, a 28 anni, e dal '94 al 2000 rappresenta la Slovacchia come consulente legale alla Corte europea dei diritti dell'uomo, perdendo tutti i 14 casi di cui si occupa. Dal '99 al 2002 lavora come deputato «indipendente». Fino alla fondazione di Smer, il partito che lo ha riportato alla vittoria e che lui definisce espressione della «terza via», «socialdemocratico con specifiche nazionaliste», ma che si rivela populista e strizza l'occhio alla destra. Così arriva alla guida del governo dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2018, fallendo il tentativo di farsi eleggere presidente della Slovacchia.
Sotto la sua leadership, il Paese - divenuto membro della Ue nel 2004, - entra nell'eurozona nel 2009 e Fico parla dell'ingresso come di «una storia di successo». Ma nel 2013, in occasione delle proteste di piazza Maidan, in Ucraina, emergono le sue tendenze filo-russe e le critiche a Bruxelles. «La Ue non è un obbligo religioso», dice allora. E accusa l'Unione «di essere così innamorata di sé» da essere convinta che non ci sia alternativa nel mondo. Nel 2017 prosegue con l'ambiguità, dicendo che i «fondamentali» del suo governo sono la vicinanza alla Francia e alla Germania, ma anche la cooperazione con i Paesi del gruppo Visegrad, i più critici e ostili con Bruxelles: Ungheria, Polonia e Repubblica ceca, oltre alla sua Slovacchia. Idem nel 2014, dopo l'invasione russa della Crimea, quando mentre lui sostiene che le sanzioni contro la Russia non funzionano, il suo ministro vota a favore. Copione che si è ripetuto con l'invasione dell'Ucraina, alla quale non vuole più inviare armi. «La Slovacchia sarà ora più vicina all'approccio ungherese che a quello della maggioranza dell'Europa», spiega Tomas Koziak, docente a Scienze Politiche di Kutna Hora, in Repubblica ceca. Fico appare sempre più come un piccolo Orbán, l'ultima spina nel fianco dell'Europa.
Quei razzisti come i belgi.
(ANSA il 14 aprile 2023) - Se il tasso d'occupazione femminile a Bruxelles rispetto al resto del Belgio è troppo basso è per il "modello di famiglia mediterranea" che ha radici nella capitale. A sostenerlo, in un'intervista alla tv Ln24, è stato il ministro del Lavoro della Regione di Bruxelles, Bernard Clerfayt.
"Molte donne sono ancora in un modello mediterraneo, che siano italiane, marocchine o turche di origine... È un modello di famiglia in cui l'uomo lavora e la donna resta a casa per occuparsi dei figli", ha affermato Clerfayt, scatenando l'ira innanzitutto dei Verdi e dei Socialisti e una pioggia di critiche sui social.
Il ministro belga: «Se le donne non lavorano, è colpa del ‘modello mediterraneo’ di origine italiana». Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.
Polemica per le frasi di Bernard Clerfayt, responsabile dell'occupazione nella Regione di Bruxelles-Capitale
Scoppia in Belgio la polemica per le frasi di Bernard Clerfayt, responsabile dell'occupazione nella Regione di Bruxelles-Capitale. Durante un'intervista rilasciata a una emittente televisiva, Clerfayt ha parlato di un "modello mediterraneo" secondo il quale le donne resterebbero a casa rinunciando alla propria emancipazione. «Ci sono ancora molte donne della regione di Bruxelles che, per spiegarlo con parole semplici, seguono un 'modello mediterraneo'. È il caso di chi è di origine italiana o marocchina. Si tratta di un modello mediterraneo delle famiglie in cui è l'uomo che lavora e la donna sta a casa» ha detto Clerfayt. «Credo che voi incoraggerete a cambiare questa mentalità» ha chiesto a quel punto l'interlocutore. «Certamente. Innanzitutto perché la coppia si trova meglio se lavorano entrambi e l'emancipazione femminile fa guadagnare loro diritti. Hanno diritto di avere un lavoro e l'emancipazione attraverso il lavoro» ha concluso Clerfayt. Le sue parole hanno scatenato aspre polemiche. (LaPresse)
Polemica sulle frasi del ministro belga Bernard Clerfayt: «Se a Bruxelles poche donne lavorano è a causa della “mentalità italiana”». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.
«Molte donne seguono ancora un modello mediterraneo, che siano di origine italiana, marocchina o turca... È un modello di famiglia in cui l’uomo lavora e la donna resta a casa per occuparsi dei figli», ha affermato Clerfayt
«Se il tasso di occupazione femminile a Bruxelles rispetto al resto del Belgio è troppo basso è per il “modello di famiglia mediterranea” che ha radici nella capitale». A sostenerlo, in un’intervista alla tv Ln24, è stato il ministro del Lavoro della Regione di Bruxelles, Bernard Clerfayt.
«Molte donne seguono ancora un modello mediterraneo, che siano di origine italiana, marocchina o turca... È un modello di famiglia in cui l’uomo lavora e la donna resta a casa per occuparsi dei figli», ha affermato Clerfayt, scatenando l’ira innanzitutto dei Verdi e dei Socialisti e una pioggia di critiche sui social.
Dichiarazioni che hanno subito innescato una feroce polemica politica, in una capitale dove le prime due comunità straniere sono proprio quella marocchina e quella italiana. «Sono sconvolta e indignata. Penso a tutte quelle donne che conosco e che cercano lavoro, ma che sono discriminate a causa delle loro origini, a tutte quelle donne madri single che hanno difficoltà a conciliare lavoro e vita familiare», ha twittato la deputata socialista Fadila Laanan, che fa parte della maggioranza di governo.
Critiche anche dalla ministra per l’Ambiente Zakia Khattabi, di origini marocchine: «Seriamente, da quale cliché vogliamo iniziare? Qual è il modello mediterraneo? E soprattutto chiudere gli occhi su ragioni strutturali oggettive è strabiliante», ha twittato con l’hashtag vergogna.
Clerfayt ha ribadito la propria posizione: «I numeri confermano quello che dico. Denunciare un fatto non è stigmatizzare. E non devo scusarmi per la distorsione delle mie osservazioni da parte di alcuni partiti politici. Questo non cambia la mia determinazione a lavorare per l’emancipazione di tutti e per continuare a migliorare il tasso di occupazione delle donne nella Regione di Bruxelles», ha spiegato. «È un dato di fatto, il tasso di occupazione delle donne è inferiore a quello degli uomini nonostante un livello di istruzione più elevato. Questo è il caso ovunque in Belgio, ma la differenza è maggiore nella Regione di Bruxelles (10 punti percentuali di differenza), subito seguita dalla provincia dell’Hainaut (9,5 punti percentuali di differenza). Questa discrepanza statistica può essere spiegata in particolare da un tasso inferiore di partecipazione delle donne al mercato del lavoro», ha aggiunto.
Quei razzisti come gli olandesi.
La vittoria alle elezioni. Geert Wilders: chi è il politico islamofobo e di estrema destra che ha vinto in Olanda, alleato di Salvini e Le Pen. Altra vittoria dell'estrema destra in Europa. Non è detto che il Partito per la Libertà riuscirà a formare un governo. Wilders ha proposto in passato di chiudere tutte le moschee e di vietare l'ingresso a tutti gli immigrati. Redazione Web su L'Unità il 23 Novembre 2023
Geert Wilders ha esultato: “Ora non potete più ignorarci”. Ha vinto le elezioni in Olanda, il suo Partito per la Libertà, Pvv, è stato il più votato nelle elezioni parlamentari. Ha preso oltre il 23% dei voti, quasi il dieci per cento in più di quanto avevano previsto i sondaggi alla vigilia. L’Olanda era guidata da undici anni da Mark Rutte, primo ministro di posizioni centriste e conservatore, del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia, in Europa affiliato al gruppo Renew. Pvv è alleato invece in Europa della Lega, del francese Rassemblement National di Marine Le Pen, del tedesco Alternative für Deutschland.
La vittoria dell’estrema destra è un risultato clamoroso e ancora una volta significativo in vista delle elezioni europee che si terranno il prossimo giugno. Wilders è il leader con il programma più radicale almeno in materia di religione musulmana e immigrazione. Ha chiesto più volte la chiusura di tutte le moschee e il divieto di ingresso nel Paese per i musulmani. È anche un sostenitore dell’uscita dall’Unione Europea, un programma definito “Nexit”. Il suo posizionamento è deducibile dalla sua propaganda basata su slogan trumpiani: “Gli olandesi torneranno al primo posto”.
Chi è Geert Wilders
Geert Wilders si dice agnostico, antifascista, filosemita e sionista. Ha 60 anni, è nato a Venlo, figlio di madre di origini indonesiane, è uno dei politici che da più tempo siede in parlamento. Ha cominciato a fare politica nel 1990 nel Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia, è stato per anni assistente del politico Frits Bolkestein e portavoce del partito. Quando le sue posizioni, soprattutto su immigrazione e islam, divennero inconciliabili con quelle del partito – che tra le altre cose si era detto favorevole all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea – fondò una sua formazione nel 2004. Quello che oggi è conosciuto come Partito per la Libertà.
Si paragonava a Silvio Berlusconi, smentiva un’alleanza con Le Pen, si ispirava a Margaret Thatcher anche se i temi economici sono sempre stati sullo sfondo della sua propaganda. “Non odio i musulmani, odio l’Islam”. Sosteneva che la religione islamica fosse incompatibile con la società occidentale. Wilders ha paragonato in passato il Corano al Mein Kampf di Adolf Hitler. A causa delle diverse minacce di morte che ha ricevuto, è stato messo sotto scorta. Da anni è accompagnato da almeno sei agenti di polizia. Ha raccontato in passato di riuscire a incontrare la moglie soltanto un paio di volte a settimana e in un luogo segreto. È stato processato due volte per le sue dichiarazioni contro l’islam, una volta è stato assolto e un’altra condannato.
Le sue posizioni sono diventate sempre più radicali: è arrivato a chiedere la chiusura di tutte le moschee, il divieto di ingresso a tutti gli immigrati, il ritiro dei permessi d’asilo, l’espulsione di tutte le persone con precedenti penali dalla doppia nazionalità e una legge per complicare il ricongiungimento familiare. Dopo le elezioni del 2010, alle quali il suo partito aveva ottenuto il 15%, concesse un appoggio esterno alla coalizione di centrodestra prima di ritirarsi dall’accordo nel 2012. Alle ultime europee il Partito per la Libertà ha registrato il minimo storico del 3,54%.
La formazione del governo
Alla linea anti-migranti dei liberali, che avevano candidato Dilan Yesilgoz-Zegerius, ministra della Giustizia del governo di Mark Rutte, gli olandesi hanno preferito l’originale: quella del candidato dai capelli sparati e biondo ariano, sotto scorta da 17 anni per le sue esternazioni anti-islamiche. E in più la candidata dei liberali non aveva escluso un’alleanza con Wilders. Ha raccolto appena il 15%. Avrà una ventina di parlamentari nella prossima legislatura. Dietro il Partito per la Libertà è arrivata la coalizione tra Partito laburista e Sinistra verde, guidata dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans.
Difficilmente Wilders diventerà primo ministro. I partiti più votati hanno già annunciato in campagna elettorale di non voler far parte di una coalizione guidata da Pvv. La maggioranza necessaria in parlamento per formare un governo è di 76 seggi. Sono 15 i partiti arrivati in parlamento. Servirebbe un accordo tra quasi tutto il resto delle forze politiche. Wilders intanto ha detto di essere disposto a tornare e rivedere le sue posizioni più radicali su moschee e islam per formare una coalizione di governo che al momento è un rebus.
Redazione Web 23 Novembre 2023
Geert Wilders, se il politico è di destra l'insulto fisico è lecito. Carlo Nicolato su Libero Quotidiano il 29 novembre 2023
I commenti politici più originali apparsi in questi giorni sui giornali a proposito di Geert Wilders e della sua sorprendente vittoria alle elezioni in Olanda sono stati quelli relativi alla sua capigliatura. «Capelli tinti di programmatico biondo ariano» li ha definiti il Corriere, capelli inquietanti che sottolineano lo «sguardo sprezzante» da estremista di destra anti-islam.
Insomma una sorta di nazista che secondo quanto dicono i suoi avversari in Olanda si sarebbe fatto tingere i capelli per far dimenticare le origini asiatiche e coloniali della sua famiglia. Soprannominato per la sua cofana «Marilyn», «Mozart», o «Capitan Perossido», lo ha fatto notare sempre il Corriere aggiungendo che lo chiamano così anche i suoi, c’è chi ha paragonato il suo ciuffo a Trump (La Stampa) e chi ne ha perfino tratto una conclusione politica: i populisti hanno un problema con i capelli. Ci ha pensato la versione europea di Politico a vergare in proposito, proponendo un articolo ironico a quiz in cui oltre a Wilders e Trump è stato inserito il presidente argentino Milei, l’ex premier britannico Boris Johnson, e perfino Kim Jong Un, oltre a Ursula von der Leyen per la quale la testata americana nutre ben poca simpatia.
Si tratta di un divertissement ovviamente, anche se gli accostamenti non sono certo casuali, e noi ne siamo divertiti, ma si tratta anche di “body shaming”, come lo chiamano loro, cioè uno dei capisaldi del corrente pensiero corretto di sinistra secondo cui una persona non va giudicata dal suo aspetto, dai suoi difetti fisici e nemmeno ovviamente dalle sue scelte sessuali, di genere ed estetiche.
Negli Stati Uniti politici e testate di destra che hanno osato criticare l’aspetto ridicolo dell’assistente segretario per la Salute Rachel Levine, ammiraglio uomo travestito da donna, cioè transessuale, sono finiti nel tritacarne delle peggiori accuse di omofobia, transfobia, body shaming e chi più ne ha metta. Tra i giornali indignati sul caso c’era anche il Washington Post che poco tempo fa ha pubblicato un articolo politico sull'argentino Milei titolandolo impunemente sui suoi capelli.
«Questo politico ha appena vinto le primarie in Argentina. I suoi capelli stanno sconcertando il mondo», ha scritto l’illustre quotidiano statunitense, cogliendo anch’esso una correlazione tra la capigliatura, in questo caso vagamente da rockabilly, e le sue posizioni politiche. Inutile dire che negli Stati Uniti sulla capigliatura di Donald Trump sono stati scritti articolesse e trattati, prodotti vagoni di vignette e meme.
Vanity Fair ne fece perfino una “storia illustrata” rigorosamente da «non leggere prima dei pasti», mentre ancora il Washington Post pubblicò un lungo pezzo sulle «100 più grandi descrizioni mai fatte dei capelli di Donald Trump». La correlazione tra il ciuffo dell’ex presidente e le sue vicende politiche è diventata così intensa che Repubblica nel novembre del 2019 riuscì a leggere nel grigio apparso tra i capelli tinto biondi arancio «il segno inequivocabile della sua sconfitta». Sia chiaro, siamo noi i primi a divertirci per questi commenti, a non trovarci nulla di strano nel ridere per le scelte bizzarre delle cofanate populiste, ma non siamo stati noi ad inventare il “body shaming” quale reato punibile con la gogna pubblica. La sensazione è che ci sia un tragicomico doppio standard anche su queste piccolezze o che, peggio ancora, la sinistra si aggrappi ai capelli dei populisti che vincono le elezioni e governano quando è a corto di argomenti.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” sabato 8 luglio 2023.
«Mark Rutte si comporta come un poliziotto», ha detto ieri il premier bulgaro Bojko Borisov. Perfino Viktor Orbán, il tribuno ungherese, lo ha accusato di avere «uno stile comunista». E Antonio Costa, primo ministro del Portogallo, ha chiosato: «L'opposizione dei quattro frugali non è più accettabile». Se una narrazione rimarrà di questo Consiglio europeo, sarà quella del «cattivo» Mark Rutte, l'olandese volante che con la sua intransigenza ha tenuto in scacco l'Europa. È lui il leader morale e la punta di lancia della «banda dei quattro», Olanda, Austria, Danimarca e Svezia.
È lui, dottor Strarigore, ad argomentare con alterigia tutta calvinista che la solidarietà non è mai gratis e chi la fornisce deve poter controllare come i soldi vengano usati. È lui ad ammonire con un eterno sorriso i Paesi del Sud, ricordando loro l'importanza di non vivere al di sopra dei propri mezzi. È una questione filosofica per Rutte, che ne fa regola di vita: il premier liberale vive da solo in un modesto appartamento, va al lavoro in bici e fa volontariato insegnando studi sociali in un liceo.
Secondo l'Economist assomiglia a un «prete che prende troppa caffeina», in altre parole non avrebbe veramente il profilo del «cattivo». (...)
Cosa rende il premier olandese così forte e sicuro di sé? Un aspetto forse è stato trascurato. Al potere da dieci anni, Rutte è dopo Angela Merkel il capo di governo più longevo dell'Eurozona. Questo gli dà conoscenza dei meccanismi e autorevolezza. C'è stato un tempo in cui Merkel e Rutte viaggiavano in piena sintonia. Entrambi alla guida di Paesi storicamente legati al rigore dei conti in ordine, contrari a ogni ipotesi di comunitarizzazione del debito in Europa, intuitivamente diffidenti verso le «azzurre lontananze» dei Paesi mediterranei.
Nei negoziati europei, si diceva sempre che l'Olanda costituisse la linea avanzata della diplomazia tedesca, con quest' ultima pronta a piazzare il compromesso vincente. Ma poi è successa una cosa, anzi due. La prima è stata la Brexit, che ha lasciato scoperta l'Olanda sul fronte del mercato unico, del libero commercio e del freno a ogni ipotesi di maggiore integrazione.
L'Aja, da sempre quinta colonna euroscettica, non si è potuta più nascondere dietro il Regno Unito ed ha assunto la leadership di fatto prima della nuova «Lega Anseatica» e ora dei «Frugal Four». Ma soprattutto c'è stata la pandemia. Alla quale, complici le rispettive parabole politiche ma non solo, Rutte e Merkel hanno reagito in modo totalmente opposto. Ormai entrata nel lungo addio al potere, decisa a guadagnarsi il suo posto nella Storia, la cancelliera ha usato il capitale politico guadagnato con l'ottima gestione della crisi del coronavirus per fare il grande passo, convinta che la solidarietà finanziaria sia allo stesso tempo un dovere europeo e un atto di interesse nazionale tedesco.
Estratto dell’articolo di S.Fin. per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2023.
I Caraibi e le coste del Sudamerica, il Sudafrica, l’Indonesia. Tutti territori che l’Impero olandese ha prima o dopo posseduto tra il XVII secolo e la metà del Novecento. Con un’eredità storica controversa, perché ad alimentare l’economia di quelle colonie furono anche la deportazione e il commercio di centinaia di migliaia di schiavi.
«Un crimine contro l’umanità», secondo il sovrano Guglielmo Alessandro, […] in occasione del 160esimo anniversario dell’abolizione della schiavitù nell’Impero […]il sovrano ha personalmente chiesto perdono «come re e membro del governo, e con il peso di queste parole nel cuore e nell’anima». […]
Parole che costituiscono l’ultimo gesto di Guglielmo per smarcarsi dal passato del suo Paese e della dinastia da cui discende: secondo uno studio pubblicato a maggio, tra il 1675 e il 1770 gli Orange-Nassau avrebbero guadagnato dal commercio di esseri umani l’equivalente odierno di 600 milioni di dollari. […]
Amsterdam diventa puritana: stretta su cannabis, alcol e prostitute. Storia di Marco Leardi su Il Giornale il 14 febbraio 2023.
Nel famoso quartiere a luci rosse, emblema della trasgressione e dello sballo, le serrande dovranno essere abbassate entro le 3 del mattino e ci sarà il divieto di fumare cannabis per strada. Ad Amsterdam, la svolta puritana che non ti aspetti. Roba da far trasecolare i turisti più libertini, quelli che nella capitale dei Paesi Bassi ci andavano solo per fare baldoria, rimorchiare a pagamento e fumarsi "cannoni" in libertà. Ora una serie di ordinanze varate dal consiglio comunale cittadino rischia di mandare in fumo (è proprio il caso di dirlo) i piani degli affezionati frequentatori della movida per adulti. Le nuove norme, che entreranno in vigore da metà maggio, sono state pensate per migliorare la vivibilità della zona.
Amsterdam, la nuova stretta sulla movida
Pare infatti che i residenti avessero lamentato disagi causati proprio dai turisti che ogni anno prendono d'assalto il quartiere, attardandosi fino a notte fonda e abusando spesso di alcol e droghe. Ecco: questo ad esempio non sarà più possibile, almeno formalmente. I nuovi provvedimenti, sostenuti da quasi tutti i consiglieri comunali, prevedono infatti il divieto di fumare cannabis per strada. Una regola destinata - in teoria - a cambiare le abitudini nel quartiere, anche se già immaginiamo le difficoltà dei controlli da parte delle autorità.
Vetrine a luci rosse chiuse alle 3
A quanto si apprende, inoltre, la città ha anche annunciato che il venerdì e il sabato nessun nuovo visitatore sarà ammesso nel quartiere della città vecchia dopo l'1. I ristoranti e i bar dovranno chiudere entro le 2. Più o meno, quel che accade in qualsiasi altra città. Cattive notizie anche per i turisti che si recavano ad Amsterdam in cerca di prostitute: le vetrine delle sex worker, stando alle nuove norme del Comune, dovranno essere sbarrate alle 3 del mattino. Ed è in arrivo anche una stretta sugli alcolici. Attualmente è illegale consumare alcol nella maggior parte degli spazi pubblici di Amsterdam ed è anche vietata la vendita di alcolici da asporto dal giovedì alla domenica, dopo le ore 16. Ebbene, tali regole verranno ulteriormente inasprite: le autorità locali chiederanno infatti agli esercenti di rimuovere completamente gli alcolici dalle loro vetrine.
La norma sui tossicodipendenti stranieri
Il consumo di cannabis, come accennato, non sarà tollerato in strada ma sarà comunque consentita la vendita di cannabis a condizioni specifiche, già previste dalle normative olandesi. Ma la novità è che i venditori dovranno premurarsi di non causare fastidio pubblico e di non attrarre tossicodipendenti stranieri. Quelli locali - se ne deduce - sono già sufficienti.
Schiavismo, Rutte si scusa ma non troppo. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022.
L’Olanda ha abolito la schiavitù nel 1863, fra gli ultimi Paesi europei. Ma ci sono voluti 160 anni perché un primo ministro chiedesse scusa. Polemiche nella comunità degli olandesi di origine surinamese, indonesiana e antillese
Luccicava solo nella facciata e in quel «disagio dell’abbondanza» magistralmente raccontato da Simon Schama, il «secolo d’oro» olandese, tra la fine del XVI e l’inizio del XVIII, quando i Paesi Bassi furono la prima potenza commerciale e marittima del mondo. In realtà, pilastro e volto oscuro di quella opulenza straordinaria fu la tratta degli schiavi, che vide oltre 600 mila dannati della Terra strappati a forza dai Paesi africani e deportati in catene nei Caraibi, in Sud America e America del Nord.
Il lucroso triangolo infernale vedeva le navi olandesi portare merci europee nell’Africa occidentale, dove venivano scambiate con esseri umani, poi venduti come schiavi nel Nuovo Mondo, dove le stesse navi caricavano cotone, zucchero e caffè destinati all’Olanda. Il 20% dei deportati moriva durante il viaggio. Un quarto non sopravviveva ai primi anni di lavoro in condizioni subumane. L’Olanda ha abolito la schiavitù nel 1863, fra gli ultimi Paesi europei. Ma ci sono voluti 160 anni perché un primo ministro olandese chiedesse scusa.
Lo ha fatto lunedì Mark Rutte, in uno storico discorso agli Archivi nazionali. «Non possiamo che condannare lo schiavismo nei termini più chiari in quanto crimine contro l’umanità», ha detto il premier liberale, scusandosi «a titolo postumo con gli schiavi di tutto il mondo che hanno sofferto, i loro figli e discendenti».
Ancorché atteso e in linea con le raccomandazioni della Commissione sulla schiavitù creata da Rutte nel 2020, il gesto suscita polemiche nella comunità degli olandesi di origine surinamese, indonesiana e antillese. I quali avrebbero voluto che fosse fatto in modo più solenne e ufficiale il prossimo 1° luglio, anniversario dell’abolizione della schiavitù, e che quel giorno diventasse festa nazionale. Rutte ha preferito ignorare, scegliendo invece una data a caso. Confermando, dicono i critici, di agire ancora secondo una mentalità coloniale, che impone tutto dall’alto.
Quei razzisti come i danesi.
Spirali impiantate senza consenso, le donne inuit chiedono il risarcimento alla Danimarca. L'azione di 67 vittime, si stima che però possano essere 4.500 le donne vittime della campagna. Il caso esploso grazie a un podcast. "Non vogliamo più aspettare". Redazione Web su L'Unità il 3 Ottobre 2023
Naja Lyberth aveva raccontato nel 2017 che quando era adolescente durante una visita medica a scuola le era stata impiantata una spirale contraccettiva senza che le fosse stato spiegato di cosa si trattasse, senza chiederle nemmeno il consenso. Anni dopo quel caso è esploso: si sospetta siano state migliaia le donne di etnia inuit vittime della stessa pratica, una maniera per limitare la popolazione nativa della Groenlandia. 67 donne intanto hanno chiesto un risarcimento di 300mila corone, circa 42mila euro ciascuna, al governo di Copenaghen.
La pratica sarebbe avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta, il protocollo si chiamava “Danish Coil Campaign”. La vicenda è esplosa non proprio per la denuncia di Lyberth quanto più per una serie podcast, prodotta dalla tv pubblica danese, Spiralkampagnen, “La campagna della spirale”, pubblicata nel 2022. Secondo le ricerche tra il 1966 e il 1970 furono circa 4.500 le inuit cui venne impiantata una spirale: intorno alla metà delle donne fertili della Groenlandia. Lyberth, psicologa e attivista, e altre donne in seguito hanno avuto figli, molte però hanno sofferto per anni di dolori atroci, emorragie interne e infezioni addominali. Alcune sono state sottoposte a isterectomia, l’operazione che comporta l’asportazione dell’utero. Altre hanno sofferto gravi problemi di salute e hanno vista compromessa la loro fertilità.
Quella della spirale non era l’unica forma di discriminazione esercitata dal governo nei confronti degli abitanti della Groenlandia. Il governo danese per esempio aveva già sottratto bambini inuit alle loro famiglie per condurre un esperimento sociale. Per quel caso il Copenaghen si era scusata soltanto nel 2020. La Groenlandia è una grande isola che dal 1814 è un territorio autonomo del Regno di Danimarca governata da un governo autonomo che si chiama Naalakkersuisut. Sia il governo della Groenlandia che quello centrale dopo la pubblicazione del podcast avevano istituito una commissione di indagine indipendente sul caso.
La Groenlandia ha ottenuto il controllo del proprio sistema sanitario nel 1991, i lavori dell’inchiesta sulla campagna della spirale dovrebbero finire nella primavera del 2025. “Non vogliamo aspettare gli esiti dell’inchiesta”, hanno fatto sapere le donne che hanno chiesto il risarcimento. “Stiamo invecchiando. Le più anziani di noi, a cui è stato inserito il contraccettivo negli anni ‘60, sono nate negli anni ‘40 e si avvicinano agli 80 anni. Vogliamo agire ora”. Redazione Web 3 Ottobre 2023
Estratto dell'articolo di Daniele Castellani Perelli per repubblica.it il 3 ottobre 2023.
La groenlandese Naja Lyberth aveva 14 anni quando nel 1976, senza il consenso suo e dei genitori, medici danesi le impiantarono una spirale […] “Era come avere dei coltelli dentro di me”, ha raccontato. È una storia che ha rivelato per la prima volta sei anni fa, ma con cui in questi anni la Danimarca ha preferito non fare i conti. Fino ad oggi.
Sull’onda di un podcast di successo della rete pubblica DR, ora 67 donne hanno infatti deciso di far causa allo Stato danese – di cui la Groenlandia fa parte come territorio autonomo – per chiedere 300mila corone ciascuna, circa 35mila euro. Le 67 donne sono solo una piccola parte delle 4.500 giovani che tra il 1966 e il 1970 subirono questo trattamento, spesso quando erano persino 13enni, spesso senza il consenso dei genitori e anche senza avere la minima idea di cosa stesse succedendo. Il tutto avrebbe avuto gravi conseguenze sulla loro salute e sulla loro vita in generale.
Il perché delle sterilizzazioni forzate
Ma perché la Danimarca impose le spirali alle groenlandesi in età fertile? Perché la popolazione della Groenlandia stava crescendo troppo in quegli anni. Nel 1966 si raggiunse il picco: 1.781 bambini in un anno, l’80 per cento in più rispetto a 15 anni prima. E Copenaghen lo riteneva un problema: non solo perché molte delle groenlandesi erano giovani madri single (il 25% contro il 9% delle danesi), ma soprattutto perché ora che non era più una colonia, ma un territorio autonomo del Regno danese, alla Groenlandia spettavano asili, scuole, infrastrutture e sempre più fondi.
Così, tra il 1966 e il 1970, 4.500 Iud – dispositivi intrauterini - vennero impiantati in metà delle 9mila donne fertili della Groenlandia. Le spirali erano considerate più “sicure” di preservativi e pillole, e non importa che il Lippes Loop, lo Iud utilizzato, provocasse alle donne sofferenze. […]. In pochi anni il tasso di natalità diminuì, Copenhagen se ne rallegrò pubblicamente ma nel 1974 venne censurata dall’Onu per questa pratica delle spirali nell’ex colonia.
L’inchiesta ufficiale e la causa in tribunale
Quest’anno lo Stato Danese il governo della Groenlandia, il Naalakkersuisut, hanno lanciato un’inchiesta sul caso delle spirali e di altre pratiche anti-fertilità portate avanti in Groenlandia tra il 1960 e il 1991 (in quell’anno, grazie all’autonomia, il territorio ha ripreso il controllo del sistema sanitario). Il problema è che il risultato dell’inchiesta non si saprà prima del maggio 2025. Quando, come dice l’avvocato delle querelanti, Mads Pramming, alcune di loro potrebbero essere morte senza avere ricevuto giustizia. Da qui la decisione di chiedere un risarcimento. Perché lo Stato metta nero su bianco ciò che ormai si sa già, sostiene Pramming: […]
La decolonizzazione dei corpi
“Un medico venne in classe e il giorno dopo ci portarono in ospedale. Ci introdussero una spirale senza che noi ce ne rendessimo conto, senza che ai nostri genitori venisse chiesto nulla, e in questo modo venimmo sterilizzate per un periodo più o meno lungo”, ha raccontato Naja Lyberth, psicologa e attivista, alla DR, aggiungendo come nessuno si prendesse poi cura delle ragazze, lasciate sole a combattere con le conseguenze, che fosse il dolore per le infezioni e le emorragie interne o anche l’infertilità.
[…] “Era come se fossi proprietà dello Stato. Il mio corpo, il mio addome erano proprietà dello Stato, non erano miei. Ora posso dire che il mio corpo è mio”. Adesso manca solo che anche lo Stato danese lo riconosca ufficialmente.
Danimarca, rapinatori di banca (e cassieri) senza lavoro: sono spariti i contanti. Michele Farinadi su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.
Nel 2022 neanche un assalto (erano oltre 200 vent’anni fa). «Il motivo? Quasi il 90% delle transazioni avviene con carte o con bonifico». Invece i furti in casa sono migliaia
Zero rapine in banca (ma tanti furti in casa): fa il giro del mondo la notizia sul nuovo record della Danimarca, dove nel 2022 neanche uno straccio di rapinatore si è presentato agli sportelli delle 800 filiali del Paese per reclamare un pur misero malloppo. Non c’è più la volontà di rubare? No, sono scomparsi i soldi.
Sportelli
Vero è che le agenzie con personale addetto alle operazioni di deposito e prelievo sono ormai una ventina in tutto il Paese (a fronte di duemila sportelli automatici). E che i sistemi di sicurezza (telecamere etc) sono migliorati rispetto al passato. Ma la ragione principale di questa scomparsa progressiva (nel 2021 soltanto una banca lassù era stata violata) è a monte: la scomparsa del denaro contante. Lo ha confermato a Usa Today Michael Busk-Jepsen responsabile digitalizzazione di Finance Denmark, l’agenzia che ha diffuso i dati sulle (non)rapine. Se non ci sono più i cassieri (e i rapinatori sono disoccupati) «è perché gran parte dei pagamenti avviene con carte o altri mezzi elettronici».
Un Paese con 6 milioni di abitanti e un Pil di 400 miliardi di dollari (circa un quinto di quello italiano) vive senza soldi in tasca: secondo i dati della Banca Centrale danese, soltanto il 12% delle transazioni è in contanti (nel 2017 era il 23%).
Chi festeggia
Festeggia l’associazione dei bancari e (naturalmente) i loro clienti: nel 2000 le rapine erano state 221. Discesa costante: dal 2017 meno di dieci all’anno, fino allo zero di oggi. Plaudono ammirati i sostenitori di un mondo senza cash, con Beppe Grillo che nel suo blog invita l’Italia a fare come la Danimarca. Da noi soltanto il 28% dei cittadini dichiara di non usare mai o quasi mai il contante (in Gran Bretagna il popolo cashless è il 57%, negli Usa il 47%, in Francia il 44%).
E i colpi in banca? In Italia nel 2021 sono calati a 87 rispetto ai 119 dell’anno precedente. Nello stesso periodo negli Usa sono aumentati, per un totale di 1.724 rapine (più 224 sul 2020).
Topi di appartamento
Banche sicure, ma ancora tanti topi di appartamento. La Danimarca è all’ottavo posto nel mondo (e terza in Europa, dopo Grecia e Svezia) per furti nelle case: 694 ogni 100 mila abitanti (in Italia 274, in Scozia solo 8) secondo il rapporto mondiale stilato dalla compagnia Budget Direct e riferito al 2021. Anche qui i danesi registrano un calo costante: da 93.000 furti nel 2011 a 30 mila nel 2021. Soltanto nel 15% dei casi i ladri sono stati beccati: qualche maligno a Copenaghen sostiene che là le forze dell’ordine si occupano più di evasori fiscali che di (altri) ladri.
Quei razzisti come i finlandesi.
Estratto dell'articolo di Samuele Finetti per corriere.it domenica 30 luglio 2023.
Il nuovo governo finlandese di centrodestra guidato da Petteri Orpo è entrato in carica il 20 giugno. Sono stati sufficienti 42 giorni perché collezionasse la bellezza di tre scandali per razzismo. […]
Al centro della polemica questa volta è finito il 37enne Wille Rydman, eletto con i «Finlandesi» e titolare degli Affari economici da tre settimane.
A metterlo nei guai è una serie di messaggi che scambiò con la sua ex compagna nel 2016 — quando era già parlamentare e membro della commissione per gli Affari costituzionali — e che ora il quotidiano Helsingin Sanomat ha pubblicato integralmente. Rydman, nell’ordine: si lamenta dei «somali che si moltiplicano come erbacce»; cita una canzone «adatta per essere suonata alle feste studentesche» in cui si narra di un «musulmano pazzo» che ha «violentato una ragazza in un parco»; si felicita del fatto che un imprenditore belga abbia vietato alle proprie dipendenti di portare il velo pur precisando che «per me sarebbe meglio vietare direttamente chi lo indossa»; e definisce le persone di origine mediorientale «scimmie incomprensibili» prima, e «scimmie del deserto che mi fanno schifo» dopo.
Infine, si improvvisa anche genetista e, parlando della possibilità di avere un figlio, sottolinea: «Se anche mi accoppiassi con una negra nigeriana, il bambino avrebbe il 26 per cento di probabilità di avere gli occhi verdi». E quando la fidanzata suggerisce il nome ebraico Immanuel, taglia corto: «Questa spazzatura non piace a noi nazisti».
[…]
E dire che il ministro da cui ha ereditato il dicastero, l’altro «Finlandese» Vilhelm Junnila, è stato dimissionato il 30 giugno proprio per alcuni commenti con riferimenti razzisti e di simpatia verso il Terzo Reich.
Per esempio, in un discorso del 2019 Junnila propose di «garantire più aborti alle donne africane» per frenare il cambiamento climatico. Lo stesso anno, a un congresso di estrema destra, aveva ironizzato sul numero 88, un riferimento caro ai neonazisti perché l’ottava lettera dell’alfabeto è la «H»: due 8 significano «HH», ovvero «Heil Hitler» nella galassia dell’estremismo nero.
Altri dodici giorni, ed ecco il secondo scandalo. Scatenato questa volta dal ritrovamento sul web una serie di articoli pubblicati su un blog dalla stessa Purra e risalenti al 2008. La vicepremier, che è anche ministra delle Finanze, scrisse che avrebbe risolto il «problema» dei giovani di origine straniera sui treni «con le armi: datemele e ci saranno dei cadaveri sui vagoni, ve lo assicuro».
E anche lei utilizzava il termine «scimmie» per denigrare i cittadini della Turchia. Immediate le scuse, ma nessuna rinuncia alle cariche da parte sua.
Per siracusanews.it il 9 gennaio 2023.
Elin Mattsson è una madre finlandese di 4 figli, di 15, 14, 6 e 3 anni. Lei è una pittrice di 42 anni, suo marito ha 46 anni ed è un Information Technology Manager che lavora da remoto.
Attratti dalla Sicilia, lo scorso agosto la famiglia Mattsson decide di trasferirsi a Siracusa e di iscrivere i figli a scuola. Ma il sistema scolastico italiano è totalmente diverso da quello vissuto finora dai 6 finlandesi, così dopo appena due mesi di vita siciliana e di lezioni in classe, a ottobre i Mattson vanno via.
Lasciano l’Italia ma non senza scrivere una lettera aperta – tradotta e inviataci da Roberta De Stefani – con cui illustra i motivi per i quali non può vivere in Italia e non vuole che i figli studino nella nostra scuola. Preferendo la Spagna.
Ecco la lettera integrale:
“Mamma urlano e picchiano sul tavolo” dice il mio bambino di 6 anni. “Sì, è pazzesco che usino il fischietto e urlino” dice il quattordicenne, “e conosco l’inglese meglio dell’insegnante di inglese stesso!”. Siamo una famiglia finlandese che si è trasferita a Siracusa, solo perché potevamo (lavori digitali). Volevamo sperimentare il vostro clima e la vostra cultura fantastici, ma purtroppo il nostro soggiorno non è andato come previsto.
Abbiamo già vissuto sia in Spagna sia nel Regno Unito e abbiamo (ingenuamente?) pensato che il sistema scolastico sarebbe stato simile in tutto il Mediterraneo, ma ragazzi, ci sbagliavamo. I nostri due ragazzi, uno di 6 anni e l’altro di 14, sono andati a scuola qui a Siracusa ma ci sono voluti appena un paio di mesi per renderci conto che non ne valeva la pena.
Il sistema scolastico è così povero. I miei dubbi sono iniziati dal primo giorno che ho messo piede a scuola per l’iscrizione: il rumore delle classi era così forte che mi chiesi come diavolo fosse possibile concentrarsi con quel frastuono. Quel giorno ho anche dato un’occhiata di sfuggita ad un’aula in cui un bambino di circa 7 anni stava svolgendo un esercizio di fronte ad un insegnante arrabbiato che sprezzante, guardava dall’alto in basso non solo il bambino alla lavagna ma tutti alunni. Era scioccante.
La giornata scolastica si trascorre sulla stessa sedia dalla mattina fino a quando non si ritorna a casa. Cosa? “Non esistono pause dov’è permesso muoversi?” Chiedo. “Solo piccole pause nella stessa classe.” È stata la risposta che ho ricevuto. Questo sarebbe uno dei fattori principali per avere un cambiamento nelle classi: l’importanza dell’aria fresca e delle pause! Se solo il governo ne capisse i benefici!
In Finlandia, gli studenti hanno una pausa di 15 minuti tra una lezione e l’altra, e lasciano l’aula per giocare insieme nel giardino/patio. Uno o due insegnanti li tengono d’occhio mentre sono fuori. La Finlandia si rende conto dei benefici di bambini che si muovono, giocano, urlano e corrono liberamente all’aperto per liberarsi delle energie in eccesso e prendere aria fresca, così da ottenere migliori risultati a scuola.
Come farebbero altrimenti a concentrarsi? Questo non era il caso qui e non c’è da stupirsi che non riuscissero a concentrarsi in classe. Quali bambini sono in grado di star seduti sulla stessa sedia tutto il giorno, senza muoversi o prendere aria fresca, mi chiedo? Le pause all’aperto sono un must!
Ho anche un bambino di 3 anni e ho potuto vedere anche l’attività dell’asilo. Ero preoccupata quando ho visto il giardino (patio) dell’asilo. Niente con cui giocare? Dov’erano tutte le cose da scalare? Niente? Voglio dire, ho visto attrezzature per far giocare i bambini nei parchi cittadini, quindi sicuramente sanno come ottenerle. I bambini non dovrebbero giocare anche all’asilo? No, un giardino vuoto intorno al perimetro dell’edificio. Non andava bene….
I bambini dell’asilo sono seduti per lo più dentro, ancora attorno a un tavolo a fare piccole cose solo con le mani? Davvero? Completamente da pazzi. Fare esperienze all’aperto è essenziale per ogni persona che apprende. L’insegnamento all’asilo dovrebbe venire dal gioco. Gioco libero! I bambini dovrebbero essere bambini il più a lungo possibile, se lo fai, otterrai buoni risultati a scuola.
Cercare di costringerli a imparare cose diverse troppo presto può essere fatale. Il cervello dev’essere sufficientemente sviluppato prima di iniziare l’insegnamento. Negli asili finlandesi i bambini escono fuori ogni mattina tra le 9 e le 11, possono giocare liberamente (hanno macchinine, oggetti per arrampicarsi, scatole con la sabbia dove giocare, tutti i tipi di giocattoli simili a quelli che si trovano qui nei parchi).
Una volta arrivata l’ora del pranzo si entra dentro. Successivamente, si svolgono attività all’interno e poi di nuovo gioco all’aperto nel pomeriggio dalle 13 alle 16 (vestiti a seconda del tempo). Ma torniamo di nuovo a scuola. Qual è la pedagogia degli insegnanti? La studiano nella loro formazione? I metodi che ho sperimentato non erano niente del genere (urlare a squarciagola probabilmente non funziona così bene, vero?) ma posso capire il livello di energia dei bambini quando non hanno tempo per liberarsene fisicamente (come nelle pause). Lasciateli giocare fuori! Lasciate che prendano l’aria di cui hanno tanto bisogno!
Un altro problema che ho notato: com’è possibile pensare che possano essere funzionali gli innumerevoli adulti che corrono a scuola ogni mattina e ogni pomeriggio? Il caos totale del traffico (e l’ambiente qui?) è pratico per le famiglie? In Finlandia i bambini (7-12 anni) vanno a scuola da soli; usano la bicicletta o vanno a piedi e se abitano a più di 5 km dalla scuola possono andare con il taxi/bus della scuola. Pranzano a scuola, poi tornano a casa da soli quando la giornata scolastica è finita. Volendo, il bambino può andare in un altro posto (come un club pomeridiano) fino a quando i genitori non lasciano il lavoro.
Alcune domande per il consiglio scolastico/governo. Perché non tutti i bambini dovrebbero avere le migliori premesse per l’apprendimento? Perché non vi rendete conto dei benefici dell’aria fresca? Gioca e impara! Realizza i vantaggi delle pause all’aperto e trasforma i cortili della scuola in luoghi divertenti in cui giocare. Evitate di riempirli come salsiccia (ovvero troppo apprendimento per cervelli non sviluppati). Perché non offrite il pranzo a scuola? (Questo forse è l’unico pasto nutrizionale per alcune famiglie). Perché non vi rendete conto dei benefici dei bambini che vanno da soli a scuola e a casa? Sono sicuro che potreste farlo in diversi modi, in modo che il traffico si abitui ai pedoni.
In Spagna avevano bambini più grandi che stavano agli incroci con luci al neon e fermavano il traffico la mattina e il pomeriggio quando i più piccoli attraversavano. In Finlandia insegni ai tuoi figli come comportarsi nel traffico in modo che possano andare da soli. Ciao, ciao Siracusa e hola Espana”.
La macchina per il futuro. Report Rai. PUNTATA DEL 09/01/2023 di Lucina Paternesi
Collaborazione di Giulia Sabella
Un viaggio in Finlandia per raccontare la trasformazione da Paese rurale e povero in un paese all’avanguardia e tecnologico.
Nessun compito in classe, né interrogazioni o esami. Gli alunni sono liberi di uscire dall’aula, leggere libri o fare progetti manuali in base alle proprie vocazioni. E i risultati si vedono: secondo il programma PISA dell’Ocse gli studenti finlandesi sono ai primi posti per quanto riguarda la lettura, la matematica e le scienze. Pochissimi i fondi europei investiti, mentre la quota di PIL dedicata all’istruzione è quasi il doppio rispetto all’Italia, il 5% contro il nostro 2,9%. È questo il successo del sistema educativo e scolastico della Finlandia? In parte, ma non solo. Un viaggio nelle scuole migliori del paese per raccontare come, in appena cento anni, la Finlandia si è trasformata da paese rurale e povero in un paese all’avanguardia e tecnologico, dove trovano lavoro i cervelli italiani in fuga e dove ha trovato casa il primo preside italiano.
LA BUONA SCUOLA di Lucina Paternesi Collaborazione Giulia Sabella Immagini Alessandro Spinnato, Andrea Lilli Montaggio Giorgio Vallati
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Andiamo a fare una capatina in quel paese che è ai primi posti per la sua educazione scolastica. E quanto sia centrale in Finlandia l’abbiamo capito subito al primo tweet di Sanna Marin, 37 anni, la più giovane leader al mondo che ha detto: “Voglio costruire una società in cui ogni bambino possa diventare qualsiasi cosa e ogni persona possa vivere e crescere con dignità".
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Pareti di vetro per illuminare le classi, più ricreazioni tra un insegnamento e l’altro, lezioni all’aperto. La cucina, la falegnameria, il laboratorio del ferro e quello dei tessuti e l’ora di musica che diventa un vero e proprio concerto. Questa è la scelta della scuola pubblica in Finlandia, e non è casuale.
SALLA SUOKKO – INSEGNANTE D’INGLESE E COORDINATRICE ISTITUTO SAUNALAHTI – ESPOO I nostri alunni non stanno mai troppe ore seduti per le classiche lezioni frontali. Le ricerche dimostrano che non si impara molto in quel modo.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Non ci sono interrogazioni né esami, si va a scuola dai 7 fino al 16 anni, poi si sceglie se proseguire con un liceo o con una scuola professionale, prima dell’università. E, particolare non trascurabile, la scuola pubblica è totalmente gratuita.
LI SIGRID ANDERSSON - MINISTRA DELL’ISTRUZIONE FINLANDESE Significa trasporti gratuiti, un pasto caldo e bilanciato gratis, libri, penne e quaderni forniti dalla scuola. Non importa da dove vieni, se da una famiglia ricca o povera, tutti usufruiscono della stessa scuola pubblica.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La Finlandia è ai primi posti nella classifica Ocse sulle competenze dei suoi studenti per quanto riguarda la lettura, la matematica e le scienze. Investe il 5% del PIL nel sistema educativo e scolastico, contro il 2,9% del nostro Paese. Ma rispetto all’Italia, la Finlandia spende solo 300 milioni di euro di fondi europei e li investe per migliorare la formazione e le competenze di adulti con percorsi formativi mirati. L’Italia invece nell’ultimo PON, Programma Operativo Nazionale, ha goduto di oltre 2 miliardi di euro di finanziamenti europei, di cui solo il 44% è stato effettivamente versato agli istituti. Il tema è proprio questo: spendere bene i fondi che si hanno a disposizione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Direte che in Finlandia è semplice, solo 5 milioni gli abitanti. Però se fosse questa la logica, a San Marino o a Monaco, a Monte Carlo dovrebbero avere la migliore scuola del mondo. Però noi non vogliamo mitizzare, vogliamo solo far capire che è una questione di visione o di obiettivi. Quale futuro vogliamo per il nostro Paese? Ora, dalle risultanze di test è emerso che il divario nel nostro Paese tra la scuola del nord e quella del sud è aumentato nel 2019. Perché in Finlandia hanno da anni il migliore o tra i migliori sistemi di scolarizzazione al mondo? Intanto consentono di godere a pieno dell’infanzia: la scuola dell’obbligo comincia a 7 anni, negli altri paesi a 5 anni e mezzo, e poi mettono subito a disposizione del ragazzo i migliori insegnanti, perché sono dell’idea che a quell’età, 7 anni, può incidere maggiormente sul sistema di formazione del ragazzo. E poi, se c’è bisogno, gli insegnanti rimangono a sostenere gli studenti che necessitano tutta la giornata e alla fine dei corsi poi non ci sono bocciature, ma solo il voto che meritano. E poi, se la tecnologia nel nostro paese è un lusso per pochi, là tutti gli studenti studiano su tablet, computer che sono però connessi, tutti connessi. E poi le famiglie partecipano a pieno titolo al processo di istruzione dei propri figli, perché il welfare del governo finlandese li mette in condizione di poter abbinare la cura del figlio al lavoro. La nostra Lucina Paternesi è entrata in quella che è la scuola del futuro.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Affacciata sul mar Baltico, Helsinki è una capitale europea da 650 mila abitanti. I bambini vanno a scuola da soli, a piedi o in bicicletta. Noi siamo andati a prendere Sebastian, 11 anni e nel cuore una sola passione calcistica: la Roma.
LUCINA PATERNESI Questo l’hai fatto tu?
SEBASTIAN PLATANIA Sì.
LUCINA PATERNESI E come l’hai fatto?
SEBASTIAN PLATANIA Con la stampante 3D.
LUCINA PATERNESI Ma dove?
SEBASTIAN PLATANIA A scuola.
LUCINA PATERNESI Ma hai mai preso un brutto voto a scuola?
SEBASTIAN PLATANIA Una volta.
LUCINA PATERNESI Che voto hai preso?
SEBASTIAN PLATANIA Quattro.
LUCINA PATERNESI E perché? Come mai?
SEBASTIAN PLATANIA Perché avevo letto le cose sbagliate.
LUCINA PATERNESI E quindi, che cosa è successo?
SEBASTIAN PLATANIA L’ho fatto di nuovo e poi ho preso dieci.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Papà italiano, pizzaiolo imprenditore, nato e cresciuto a Roma, mamma finlandese. Insieme, subito dopo la pandemia, hanno aperto questa pizzeria in uno dei quartieri più moderni di Helsinki. Dopo una breve esperienza di scuola in Italia, la famiglia di Luca è tornata in Finlandia.
SALLA MARIA PLATANIA - IMPRENDITRICE In Finlandia c’è più libertà sicuramente, si lascia più responsabilità ai bambini.
LUCA PLATANIA - IMPRENDITORE Il bambino è portato ad essere più libero di ragionare, quindi di costruirsi un suo mondo. Viene rispettato per quello che è.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Come viene insegnato il rispetto della natura che, appena fuori Helsinki, esplode. Ad Espoo, a 30 chilometri dalla capitale, è stata costruita questa nuova scuola. L’architettura e la distribuzione degli spazi riflettono gli intenti pedagogici dell’istituto. È stata costruita dieci anni fa, ma qui la chiamano la scuola del futuro. S
ALLA SUOKKO – INSEGNANTE D’INGLESE E COORDINATRICE ISTITUTO SAUNALAHTI – ESPOO Come potete vedere l’edificio fa entrare molta luce naturale, che aiuta la concentrazione nell’apprendimento e migliora l’umore di studenti e insegnanti. Quando c’è una bella giornata di sole, come oggi, qui dobbiamo approfittarne. Non ci sono solo banchi e sedie, ogni ambiente è luogo di apprendimento e condivisione.
IZABELA SALORANTA – STUDENTESSA CLASSE SESTA ISTITUTO SAUNALAHTI – ESPOO Sono Isabella, mi piace molto giocare a football e stare in giro con gli amici. I miei punti di forza sono l’empatia e la comprensione.
HEINI KAISTINEN – INSEGNATE E CONSIGLIERA STUDENTI ISTITUTO SAUNALAHTI – ESPOO Nella mia classe insegniamo il pensiero positivo e come scoprire i propri punti di forza. Ognuno di loro è speciale e unico, hanno solo bisogno di essere guidati alla scoperta di sé stessi.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In questo edificio plurifunzionale ci sono un asilo nido, una libreria comunale, un centro giovanile; è frequentato ogni giorno da oltre 800 ragazzi seguiti da un centinaio di dipendenti tra insegnanti e personale amministrativo e specializzato, come la psicologa, gli assistenti e gli esperti di pedagogia. E tutto questo ovviamente ha un costo per la collettività.
HANNA SARAKORPI – PRESIDE ISTITUTO SAUNALAHTI – ESPOO Circa 4 milioni di euro l’anno solo per pagare gli stipendi e coprire i costi di libri, quaderni e matite. Ma poi ci sono i fondi del Comune per le spese relative al mantenimento dell’edificio, i consumi e quant’altro.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Dietro queste spese c’è un’unica visione: quella di investire sul futuro del Paese.
LI SIGRID ANDERSSON - MINISTRA DELL’ISTRUZIONE FINLANDESE Le scuole pubbliche sono finanziate dallo stato centrale in base ad alcuni parametri, a cui vanno aggiunti i fondi delle singole municipalità. Negli ultimi anni abbiamo deciso di destinare più risorse per quelle aree in cui il tasso di disoccupazione è più alto e il livello di studi più basso.
LUCINA PATERNESI Quale è il segreto di un modello così efficiente?
LI SIGRID ANDERSSON - MINISTRA DELL’ISTRUZIONE FINLANDESE È un sistema che abbiamo costruito negli anni. Cento anni fa eravamo una nazione povera e rurale; oggi siamo un Paese all’avanguardia proprio grazie all’istruzione pubblica. Costruiamo la società del futuro partendo dalle base, dall’istruzione e lo facciamo anche investendo molto sugli insegnanti: sono preparati, competenti, hanno un buono stipendio e vengono molto rispettati per il ruolo che svolgono.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In Finlandia questa opportunità è applicata anche nelle piccole scuole di paese. Nella cittadina di Ruovesi, nella zona dei laghi, vive Rosario Fina, primo italiano a diventare preside di un una scuola comprensiva finlandese.
LUCINA PATERNESI Come si diventa preside in Finlandia?
ROSARIO FINA – PRESIDE ISTITUTO – RUOVESI Si segue un percorso formativo, che è un percorso universitario, un percorso normativizzato dallo Stato. Se in Italia si passa attraverso i concorsi, qui invece c’è una sorta di chiamata diretta. Intorno ai 25 anni si può essere già insegnanti di ruolo.
LUCINA PATERNESI Quanto guadagna un insegnante in Finlandia?
ROSARIO FINA – PRESIDE ISTITUTO – RUOVESI In una scuola elementare partiamo da uno stipendio base intorno ai 2.300 euro ai quali vanno aggiunti poi tutti gli scatti d’anzianità e gli indennizzi vari e i compiti extra che si possono svolgere, mentre nei licei partiamo da uno stipendio intorno ai 3 mila che pian piano, insomma, sarà incrementato e potrebbe arrivare ai 4 mila, forse anche qualcosina in più.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Gli insegnanti in Finlandia non valutano gli studenti solo attraverso i compiti in classe, le interrogazioni alla lavagna neppure esistono. Guidano gli allievi nella conoscenza e nella scoperta delle proprie abilità.
ROSARIO FINA – PRESIDE ISTITUTO – RUOVESI Questa è una lezione di economia domestica, cucinano e preparano da mangiare qui con l’insegnante chiaramente che li aiuta. Ed è un passo verso la futura indipendenza.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Se i ragazzi si cimentano in cucina, le ragazze scelgono invece di lavorare il legno oppure il ferro.
ROSARIO FINA – PRESIDE ISTITUTO – RUOVESI Si parte dalla progettazione, fatta insieme al docente, che guida. Si arriva fino al prodotto finito e poi si fa una valutazione globale.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO I programmi sono stabiliti a livello ministeriale con un numero minimo di lezioni per ogni materia e per ogni classe d’età. Poi ogni scuola gode di una certa autonomia e declina i programmi in base alle esigenze.
LUCINA PATERNESI È un sistema migliore di quello italiano secondo lei?
ROSARIO FINA – PRESIDE ISTITUTO – RUOVESI Se dovessi rispondere alla domanda si può portare pedissequamente il sistema finlandese in un’altra nazione, direi assolutamente di no. Cosa invece possiamo imparare dalla lezione dell’educazione finlandese è quella della progettualità, è quella dell’attenzione alla ricerca pedagogica, è quella dell’attenzione al singolo e soprattutto l’interazione della scuola con la società.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La programmazione, in Finlandia, segue tutto il ciclo, dall’infanzia fino all’università. È il trionfo della democrazia, a tutti viene data un’opportunità. Ma come?
DARIO GRECO - PROFESSORE UNIVERSITÀ TAMPERE E HELSINKI Innanzitutto, diciamo, attraverso la pianificazione di posti di studio, quindi di quanti medici, di quanti ingegneri avrò bisogno tra 5, 10, 20 anni? Dove voglio che l’economia del Paese vada? Per esempio, in questo Paese alla fine degli anni ‘80 c’è stata una pianificazione rispetto, per esempio, all’innovazione tecnologica nel campo delle telecomunicazioni. Ed ecco che arriva il miracolo Nokia che però in realtà non è un miracolo, perché è stato costruito.
LUCINA PATERNESI E in che modo voi docenti universitari lavorate a questa programmazione assieme alla scuola e assieme al Ministero che poi dà le direttive?
DARIO GRECO - PROFESSORE UNIVERSITÀ TAMPERE E HELSINKI Innanzitutto, il ministero raccoglie le informazioni degli scienziati; rispetto a questo input che noi diamo poi c’è la pianificazione a livello ministeriale, a livello pedagogico, e tutto questo viene traslato in programmi di studi che vengono poi messi in pratica nelle scuole e nelle università. È un lavoro costante rispetto al futuro, è una macchina del tempo, si lavora sul futuro.
LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Questa macchina del tempo che lavora sul futuro è l’habitat ideale per i ricercatori. All’università di Helsinki sono venuti in tanti dall’Italia. Vincono borse di studio per il dottorato, poi qualcuno trova lavoro e resta qui. Come il professor Greco che a poco più di 40 anni è già docente ordinario in due corsi laurea, qui e all’università di Tampere.
LUCINA PATERNESI Anche l’università pubblica: tutto gratis? Come funziona?
DARIO GRECO - PROFESSORE UNIVERSITÀ TAMPERE E HELSINKI Assolutamente, non ci sono rette d’iscrizione.
LUCINA PATERNESI I testi universitari?
DARIO GRECO - PROFESSORE UNIVERSITÀ TAMPERE E HELSINKI Quando pianifico il corso, i corsi che faccio all’inizio di ogni anno, li pianifico e comunico alla biblioteca universitaria di quanti libri ho bisogno, di che tipo.
LUCINA PATERNESI La scuola finlandese è una scuola molto democratica, le stesse opportunità vengono date a tutti.
DARIO GRECO - PROFESSORE UNIVERSITÀ TAMPERE E HELSINKI L’educazione in questo Paese è il collante della società, è la misura attraverso la quale questo paese riesce a garantire uguaglianza sociale.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è la semplice visione buonista della politica, ma di chi pensa di investire sul proprio futuro che può alzarsi solo se riesce a sollevare quella parte che è più debole del Paese. Ecco, insomma in Italia stanno provando in qualche scuola ad adottare il sistema finlandese, ma quanto può incidere se applicato dal basso e non dall’alto se non governato dallo stato e dagli enti locali con una certa continuità. Noi, in 25 anni, abbiamo subito una raffica di riforme, da quella incompiuta di Berlinguer poi quella delle 3 “I” della riforma della Moratti - impresa, inglese, informatica - che è stata abrogata dal ministro Fioroni, che ha elevato l’obbligo fino ai 16 anni scolastico. E poi è arrivata Gelmini che ha introdotto il concetto della Lim, però con poca connessione. Ha fatto parecchi tagli, 8 miliardi di euro e 130mila persone in meno tra docenti e personale ATA. Poi è arrivata la Buona Scuola di Renzi che ha introdotto l’alternanza scuola-lavoro, con pochi controlli sulla sicurezza quando si parlava di lavoro. Ha aumentato l’autonomia degli istituti scolastici con la chiamata diretta degli insegnanti che è stata però abrogata, questa parte, sotto il ministero di Azzolina. Ora siamo alla scuola di Valditara, come la immagina? Intanto c’è il rischio che con il dimensionamento della rete scolastica si possa rinunciare a 700 istituti, decideranno le regioni. Poi Valditara ha aumentato lo stanziamento per le scuole private, 110 milioni di euro in più, ma ha promesso l’assunzione di 70mila nuovi insegnanti, quindi nuovo personale docente. Meno male. Però, intanto, il suo ministero si è fregiato di una qualifica in più, quella del merito. Merito per chi? Merito per gli insegnanti che sono tra quelli che guadagnano meno in Europa - 24.500 euro l’anno mentre in Francia e in Finlandia sono 27mila. In Spagna 33.400mila e in Germania 55mila euro - o per gli studenti? Sarebbe forse il caso di applicare il merito dopo averli formati, dopo aver messo tutti in condizione di arrivare allo stesso punto. Solo lì, allora, puoi scegliere il miglior medico, il miglior insegnante, il miglior politico.
Quei razzisti come gli svedesi.
Violenza sulle Religioni.
Violenza sugli uomini.
Violenza sugli animali.
La democrazia scandinava. Il labile confine tra libertà e offesa, il corano in fiamme in Svezia e Danimarca e la disinformazione russa. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 3 Agosto 2023
È libertà di espressione bruciare una copia di un testo sacro, che sia Corano o Vangelo poco importa? Ed è libertà di espressione farlo di fronte ad ambasciate di paesi fortemente legati a quelle religioni, con un palese gesto di sfida e di provocazione?
E se questo rischia di mettere in crisi le relazioni internazionali del tuo Paese, in un quadro politico assai delicato, con una guerra alle porte e sotto i colpi di una fortissima campagna di disinformazione, può la nazione al mondo da sempre tra le prime nelle classifiche mondiali delle libertà di espressione derogare in queste circostanze a tali diritti fondamentali? In sintesi estrema ciò che sta accadendo in Svezia ed in parte anche in Danimarca pone esattamente questi quesiti.
I fatti. Da qualche anno prima in Danimarca e poi in Svezia il leader di un piccolo partito di destra estrema ed islamofobica ha iniziato a bruciare copie del corano in manifestazioni pubbliche. Le sue “gesta” sono state recentemente imitate da altri, fino ad arrivare ad un rogo orchestrato di fronte alla moschea centrale di Stoccolma, con uno schieramento di polizia imponente, autorizzato da un tribunale svedese che si era espresso contro le autorità che volevano vietarlo: quest’ultima vicenda, per la sua simbolicità, ha ovviamente scatenato (e sta scatenando ancora) molte reazioni internazionali nei paesi islamici fino ad arrivare ad un vero e proprio assalto di qualche centinaio di manifestanti a Baghdad all’ambasciata di Svezia in Iraq a giugno ed alla successiva espulsione dell’ambasciatore di Stoccolma dal Paese mediorientale.
La discussione in Svezia si protrae da oltre un mese nel dibattito pubblico. Non è cosa di poco conto: nel DNA di tutte le democrazie scandinave la questione della libertà di espressione è fondamentale e non è mai stata messa in discussione, in nessuna occasione. Anche al di fuori della Scandinavia è stata peraltro oggetto di dibattito: basti pensare alla vicenda delle vignette di Charlie Hebdo, che portarono al drammatico attentato a Parigi nel 2015 con la sua scia di 12 morti ed 11 feriti nel quartier generale della rivista satirica.
A forzare la mano (ed anche a scoperchiare ciò che c’è sotto) è stato il moderato premier svedese Ulf Hjalmar Kristersson, da un anno a capo di un governo di coalizione di centro-destra. Kristersson, nel corso dell’ultima settimana, ha più volte denunciato con grande enfasi quella che ha definito una vera e propria campagna di disinformazione orchestrata dalla Russia per impedire alla Svezia di aderire alla Nato, la cui domanda è stata finalmente accettata nell’ultimo vertice di Tallin, ma che deve avere il sì definitivo da parte di tutti gli altri stati membri ed in particolare dal Parlamento della Turchia di Erdogan.
La Russia non è certamente nuova a questo genere di attività di disinformazione. Con una ormai centenaria tradizione alle spalle e con un presidente che è stato a lungo uomo del KGB, la Russia, secondo molti osservatori internazionali, ha fortemente intensificato le sue attività di disinformazione all’estero in Africa – e vediamo in questi giorni in Niger quali sono i risultati -, in Asia, in America ed in Europa. Sì, in Europa. Perché dopo aver sfruttato con grande abilità le maglie larghe aperte dai social media nella seconda metà dello scorso decennio (Brexit, Italia e Catalogna, per citare tre esempi), oggi continua con altre modalità la sua attività in quasi tutti i paesi occidentali.
Tanto che gli allarmi in questi mesi sono arrivati dalla Francia, dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia, dai Paesi nordici e dalla stessa Italia, dove il Copasir si è occupato più volte della questione ma dove, a differenza che in altri Paesi, manca un’autorità preposta a contrastarla.
In questa “guerra” della disinformazione in Scandinavia, parallela a quella reale che si combatte in Ucraina, in gioco c’è lo scacchiere geopolitico del Nord Europa. Dopo quella della Finlandia, l’adesione della Svezia all’alleanza atlantica, adesione sulla quale molti leader occidentali hanno insistito strappando faticosamente e dopo molti mesi un sì ad Erdogan, è cruciale nello scacchiere geopolitico scosso dalla guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina, dopo l’aggressione di Putin.
La Svezia infatti, tanto più che è territorio di Stoccolma l’isola di Gotland, quella che alcuni analisti hanno definito una “portaerei inaffondabile in mezzo al Baltico”, è un crocevia importantissimo nell’unico specchio d’acqua che le navi ed i sommergibili russi possono utilizzare per controllare da San Pietroburgo e da Kaliningrad lo stesso Baltico e soprattutto i mari del nord. Con la Svezia dentro l’alleanza atlantica, la Russia sarebbe letteralmente “circondata” nel mar baltico: tutti i paesi che si affacciano infatti aderirebbero a quel punto alla NATO.
La denuncia che Kristersson ha fatto aveva nomi e cognomi: “La Svezia è attualmente obiettivo di campagne di disinformazione sostenute da Stati e da entità paragonabili a Stati, il cui scopo è danneggiare la Svezia e gli interessi svedesi”, ha scritto mercoledì sul suo profilo Instagram Ulf Kristersson, indicando esplicitamente la Russia come mandante, in Svezia e nei paesi islamici, di questa campagna.
Mentre continuano le reazioni nei paesi islamici, sobillati da Mosca e dall’Iran – attore in silenzio, ma che sicuramente sotto traccia lavora nella stessa direzione e coi medesimi interessi -, la controreazione svedese è stata netta ed ha coinvolto anche la Danimarca, paese storicamente amico di Stoccolma: è di due giorni fa una dichiarazione congiunta con la premier danese Frederiksen con la quale i due paesi si impegnano a collaborare contro la campagna di disinformazione, a rafforzare le misure di sicurezza contro il rischio “fortissimo” di attentati terroristici e di valutare insieme come riuscire a conciliare meglio libertà di espressione e di manifestazione col rispetto di ogni credenza religiosa. Da qui, il passo per vietare in futuro manifestazioni come quella del giugno scorso di fronte alla moschea di Stoccolma è davvero breve. Anche per una fiera ed inossidabile democrazia scandinava.
Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva
[...] Estratto dell'articolo di I. Soa. per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2023.
Un incendio ne accende un altro e nelle ultime settimane si moltiplicano, in Svezia e Danimarca, i raduni pubblici dove vengono bruciate copie del Corano, il testo sacro dell’Islam. Manifestazioni inevitabilmente autorizzate ai sensi delle leggi sulla libertà di espressione; che aggravano però un momento in cui le relazioni con vari Paesi mediorientali, soprattutto della Svezia, sono difficili; e che potrebbero presto venire proibite per legge, sia in Svezia sia in Danimarca, anche dopo contatti tra i due governi.
L’ultimo rogo ieri, di fronte al Parlamento di Stoccolma. Due rifugiati iracheni, Salwan Momika e Salwan Najem, hanno calpestato un Corano e poi gli hanno dato fuoco. [...] Momika aveva riempito di pancetta — cibo impuro per la religione islamica — le pagine del volume e poi lo aveva incendiato.
[...] Il primo ministro svedese Ulf Kristersson e l’omologa danese Mette Frederiksen stanno valutando — così note stampa congiunte — se «il bando di questo tipo di azioni dimostrative sia compatibile con la libertà di espressione».
«Siamo nella situazione di sicurezza più grave dalla Seconda guerra mondiale e sappiamo che sia gli Stati, che gli individui possono trarre vantaggio da questa situazione», ha scritto ieri Kristersson sui social. Il governo danese aveva già annunciato che avrebbe considerato provvedimenti legali per vietare i roghi del Corano.
«Le religioni possono essere criticate», ha detto giorni fa il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen. «Ma se all’ambasciata israeliana bruci la Torah, metti in pericolo la sicurezza del Paese». Il ministro della Giustizia svedese Gunnar Strömmer si è detto «disposto» a modificare la legge sulla libertà di manifestazione «in seguito alla furia del mondo islamico». [...] Algeria e Arabia Saudita hanno richiamato ambasciatori e incaricati d’affari dei due Paesi per «proteste formali». Ma le relazioni più delicate, al momento, sono con la Turchia, dal cui veto pende l’ammissione della Svezia alla Nato, chiesta a maggio 2022.
Le relazioni tra i due Paesi sono già difficili per l’appoggio offerto da Stoccolma a indipendentisti curdi che per Ankara sono «terroristi». [...]
[...] Estratto dell'articolo di Irene Soave per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2023.
«Non parlerei di libertà di espressione a rischio. I Corani bruciati sono altro: forme di guerra ibrida». [...], la scrittrice e giornalista Elisabeth Åsbrink, classe 1965, ha scritto un bestseller: Made in Sweden, le parole che hanno fatto la Svezia (Iperborea, 2021). Svedese figlia di rifugiati, vive tra Svezia e Danimarca. «Tra questi valori c’è la libertà di espressione. Ma i Corani non c’entrano».
Il dilemma sembra questo: vietare i roghi del Corano renderebbe la Svezia più sicura, ma ridurrebbe questa libertà.
«La libertà di pensiero non è il punto. Il contesto è la guerra russa contro l’Ucraina. La Russia ha un obiettivo: spaccare il fronte baltico. Tenere la Svezia fuori dalla Nato, peggiorandone ancora i rapporti con la Turchia. Ci sono segni che questi provocatori che da un anno bruciano i Corani lavorino al soldo dell’interesse russo per creare caos. Se facciamo una battaglia culturale del fatto di permetterglielo, favoriamo coloro che vogliono destabilizzarci».
Ma che evidenze ci sono che sia coinvolta la Russia?
«Lo ha riconosciuto espressamente il governo svedese. Perciò è normale voler regolare questi atti provocatori. La gente lo capisce. La Svezia è stato il primo Paese a dotarsi di una legge sulla libertà di stampa, nel 1766. Subito dopo lo ha fatto la Danimarca».
[...]
L’ultradestra c’entra coi Corani che bruciano?
«Non direttamente. Ma i primi provocatori a bruciarli erano tutti di ambienti vicini ai Democratici Svedesi. Sono amici della Russia».
Parla di influenze russe sulle elezioni?
«Non ci sono evidenze. In altri Paesi, come in Francia, ce ne sono. Diciamo che a Mosca quando uno dei nostri Paesi vota gente così, festeggiano. E guardi un po’, oggi (ieri per chi legge, ndr ) l’Ungheria del filorusso Orbán è stata il solo membro, insieme alla Turchia, a posporre ancora la ratifica dell’ingresso svedese nella Nato. I Corani bruciati servono a questo: vietare di bruciarli ha senso, eccome».
"Bruciare il Corano non è reato". Ira Erdogan sulla Svezia. Storia di Francesco De Palo su Il Giornale il 5 aprile 2023.
Da un lato la Corte suprema svedese annulla la decisione della polizia di vietare di bruciare il Corano, dall'altro l'intelligence di Stoccolma sventa un potenziale attentato di matrice jihadista. Nel giorno dell'ingresso ufficiale della Finlandia della Nato è questo l'humus che si respira a latitudini già ultrasensibili, per via del loro essere periferia nord-orientale dell'Europa, a maggior ragione dopo la guerra in Ucraina.
La magistratura svedese ha ordinato di annullare la decisione presa dalla polizia che impediva di bruciare il Corano durante le manifestazioni delle settimane scorse, fatte per protestare contro la Turchia che chiede l'arresto di militanti curdi in loco. La polizia, secondo quanto stabilito dalla Corte amministrativa d'appello, «non aveva base sufficiente per questa decisione», tenuto conto che le minacce per vietare quei gesti «non erano sufficientemente concrete o legate alle manifestazioni in questione».
La sentenza potrebbe rappresentare un ostacolo all'adesione del Paese alla Nato, anche perché la reazione turca va nella direzione (forse) auspicata da Erdogan: ha affermato che non consentirà a Stoccolma di aderire all'Alleanza Atlantica fintanto che il paese scandinavo permetterà proteste di questo genere. Ankara come condicio sine qua non per l'adesione di Stoccolma alla Nato ha chiesto l'arresto di militanti curdi presenti su territorio svedese. Nello scorso febbraio la polizia aveva detto no ad una nuova richiesta di bruciare una copia del Corano dinanzi all'ambasciata irachena in Svezia, sostenendo che i timori per i rischi legati alla sicurezza non erano sufficienti a limitare il diritto di manifestare. Ma in quella circostanza la polizia svedese si era opposta ai roghi del Corano davanti alle ambasciate dal momento che le proteste andate in scena in precedenza avevano reso la Svezia «un obiettivo prioritario per gli attacchi».
Nel frattempo l'agenzia per l'intelligence Sapo ha agito in maniera preventiva contro 5 sospettati: gli 007 svedesi li hanno arrestati per aver pianificato un attacco terroristico in risposta alle azioni del politico di estrema destra Rasmus Paludan, che aveva bruciato una copia del Corano. L'operazione, hanno fatto sapere, è stata resa possibile dopo un lavoro sinergico di intelligence e polizia nelle località di Eskilstuna, Linkping e Strangnas che ha sgominato sospettati legati a una rete terroristica con sede in Svezia. «Non possiamo aspettare che avvenga un crimine prima di agire», ha sottolineato Susanna Trehorning, vicedirettrice del dipartimento antiterrorismo, secondo cui c'erano «collegamenti internazionali con l'estremismo islamista violento».
La radio pubblica svedese ha affermato che i sospetti avevano legami con il gruppo dello Stato islamico.
Il tutto mentre «la trattativa» tra Turchia e Nato continua: il sì di Ankara all'ingresso della Finlandia è il frutto di una lunga negoziazione geopolitica, che ha un collegamento preciso con la guerra in Ucraina, mentre restano sul tavolo parallelamente sia il via libera di Erdogan alla Svezia, messo in stand by, che una serie di altre partite interconnesse, come la fornitura di F-16 Usa alla Turchia, il puzzle da ricomporre in Siria e le elezioni del prossimo maggio in Turchia. È chiaro che l'avvicinarsi delle urne mette il presidente turco in una posizione che al contempo è concava e convessa: da un lato non può apparire, sul fronte interno, eccessivamente conciliante con i partner dell'alleanza, con il rischio di essere criticato dalla frangia militare del suo partito; dall'altro il suo voler fare asse con Pechino e Mosca produce effetti a catena, anche nel quadrante euromediterraneo, dove un sostanziale aiuto gli è appena giunto dall'Arabia Saudita sotto forma di una linea di credito da 5 miliardi di dollari per le disastrate finanze pubbliche turche.
"Bruciare il Corano è legale". Lo schiaffo della Svezia a Erdogan. Tobias Billström, ministro degli Affari Esteri svedese, ha spiegato che Stoccolma non sostiene la distruzione col fuoco di scritture musulmane considerate sacre, ma che in Svezia esiste la libertà di espressione. L'ira della Turchia: "Crimine contro l'umanità". Federico Giuliani il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.
La Svezia ha preso le distanze dall'episodio avvenuto lo scorso sabato davanti all'ambasciata turca di Stoccolma, quando il politico di estrema destra svedese, Rasmus Paludan, ha dato fuoco a una copia del Corano. Il ministro degli Affari Esteri, Tobias Billstrom, ha tuttavia fatto presente che, dal punto di vista legale, all'interno del Paese un'azione del genere, ossia dare alle fiamme un libro sacro, in questo caso il Corano, è permessa. Il fatto ha generato l'ira della Turchia che, in seguito alla dimostrazione di Paludan, potrebbe ostacolare il negoziato relativo all'ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato.
La posizione della Svezia
Direttamente da Bruxelles, dove è in corso il consiglio degli Affari Esteri, Billstrom è stato chiaro: "Il governo svedese non sostiene in nessun modo la distruzione col fuoco di scritture considerate sacre". Allo stesso tempo, ha aggiunto il ministro, "in Svezia abbiamo la libertà di espressione" e quindi, legalmente parlando, "questo caso (bruciare il Corano ndr) è permesso". "Abbiamo però detto chiaramente che non prendiamo le parti di chi lo ha fatto", ha sottolineato Billstrom cercando di trovare un complicato equilibrio diplomatico in una situazione delicatissima.
Il riferimento, come anticipato, è alla provocazione messa in scena dal politico di estrema destra svedese Paludan, che ha dato fuoco a una copia del Corono davanti alla rappresentanza diplomatica turca a Stoccolma. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione per una manifestazione, il leader del partito Stram Kurs ha dato alle fiamme il libro sacro per protestare contro il veto di Ankara all'ingresso nella Nato della Svezia.
La risposta della Turchia
"Bruciare il Corano è un crimine di odio e contro l'umanità. Nonostante tutti i nostri avvisi il fatto che sia stata permessa la manifestazione spiana la strada all'odio nei confronti dell'Islam. Attaccare valori sacri è un esempio di moderna barbarie, non di libertà", ha detto Ibrahim Kalin, portavoce e stretto consigliere del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Non è da escludere che la vicenda possa avere serie conseguenze negative sul già problematico percorso di Stoccolma verso l'Alleanza Atlantica. Le autorità svedesi potevano bloccare la manifestazione ma hanno comunque deciso di autorizzarla in nome della libertà di espressione. Tra l'altro Paluden aveva annunciato che avrebbe bruciato il Corano dinanzi l'ambasciata turca mentre Ankara aveva chiesto ripetutamente di revocare il permesso.
Negoziato in salita
Come se non bastasse, il direttorato per gli Affari religiosi in Turchia (Diyanet) e altri Paesi islamici si stanno organizzando per portare dinanzi a organi di giustizia internazionali la Svezia. In base a quanto reso noto dal capo del Diyanet, Ali Erbas, la causa sarà fatta partire non solo dalla Turchia, ma da tutti i Paesi che si sono sentiti offesi non tanto dalla manifestazione di Paluden.
"Abbiamo intenzione di portare questo atto in tribunale, insieme ad altri 120 Paesi. Stiamo preparando una lettera da inviare a intellettuali europei e organizzando una riunione con i rappresentanti dell'Organizzazione dei Paesi Islamici. Dobbiamo mostrare una reazione al dilagare dell'islamofobia in Europa" ha detto Erbas.
Nel frattempo, ricordiamo che Erdogan non ha accettato di dare il via libera all'ingresso della Svezia nella Nato in cambio dei jet da guerra F-16 che Ankara attenderebbe nell'ambito di un accordo con la Casa Bianca. La proposta di fornire i caccia in cambio del semaforo verde alla Svezia, che Washington ha avanzato in maniera non ufficiale, non ha fin qui trovato il favore della Turchia, che non avrebbe aderito prima e a maggior ragione non accetterà ora. Dopo il Corano dato alle fiamme e dopo le manifestazioni curde avvenute nel Paese.
Le parole di Erdogan
La risposta di Erdogan nei confronti delle autorità svedesi non si è fatta attendere: "Chi insulta i valori sacri non si aspetti sostegno per entrare nella Nato".
"Dobbiamo soffermarci su questa manifestazione in Svezia durante la quale è stato addirittura bruciato un Corano. Qualcosa per cui si è tirato in ballo i diritti e le libertà personali. Se parliamo di diritti e libertà però nessuno può prendersi la libertà di molestare nè i musulmani nè i credenti di qualsiasi altra fede", ha tuonato il presidente turco.
Erdogan ha continuato nella sua replica: "Quello che è successo in Svezia è un insulto ai diritti e alle libertà personali sopratutto dei musulmani. Prendere posizione contro questo atto è un nostro dovere, come popolo e come nazione. Chi ha autorizzato questa scandalosa dimostrazione non si aspetti nessun tipo di sostegno per entrare nella Nato".
"Sappiano che hanno superato il limite disonorandoci con un colpo basso. Se davvero credono di essere rispettosi delle libertà allora rispettino la fede dei musulmani. Se non lo faranno non avranno mai il nostro sostegno ad entrare nella Nato", ha concluso il presidente turco al termine del consiglio dei ministri.
Sparatorie e attentati esplosivi: le narco gang islamiche "assediano" la Svezia. Il 2023 si sta rivelando l'annus horribilis per la Svezia, nella quale la violenza gangsteristica ha lasciato a terra più di 40 morti e prodotto oltre 150 attentati dinamitardi. Emanuel Pietrobon il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.
È sempre più buio appena prima dell'alba. Forse il 2024 sarà un anno migliore per la Svezia, l'anno dell'alba e dunque dell'inizio di un graduale ritorno alla normalità, ed è per questo che il 2023 si è rivelato l'annus terribilis della guerra della droga che sta avvolgendo e travolgendo i ghetti multietnici che costellano il paese da Stoccolma a Malmö.
Mai così tanti morti, mai così tanti attentati
Il 2023 non si è ancora concluso e già è entrato di diritto negli annali del gangsterismo svedese: mai così tanti morti, mai così tanti attentati, mai così tanto pericolo di sconfinamento dei cartelli dalle aree vulnerabili ai quartieri bene. Il risultato di aver voluto ignorare il fenomeno del delle gang svedesi per anni, denigrando e tacciando di estremismo di destra e cospirazionismo coloro che osassero indagarlo. Ma adesso, a causa dell'aggravamento della situazione, trascurare e negare non è più possibile.
Fatti e numeri dell'anno ancora in corso hanno messo in allerta le autorità, spingendo il governo in carica a sentire i vertici di forze dell'ordine e forze armate con l'obiettivo di trovare una soluzione (definitiva) alla guerra della droga che fra il 2017 e il 2022 ha causato 300+ morti, 700+ feriti e 400+ attentati con esplosivo. Guerra che quest'anno ha fatto un salto quanti-qualitativo: tentativi di mettere le mani sul maxi-mercato nero delle armi ucraino, infiltrazioni nelle istituzioni e manipolazioni elettorali, 134 attacchi/attentati dinamitardi e 289 sparatorie, per un totale di 44 morti e 87 feriti. I record di violenza degli anni precedenti sono stati superati quasi tutti.
Bombe, la nuova normalità
3 ottobre, 275esimo giorno dell'anno. Il che equivale a dire che in Svezia, nel 2023, hanno avuto luogo più di una sparatoria al giorno e un attentato con esplosivo ogni due giorni. Numeri che danno ragione alle descrizioni suggestive di quei media che hanno deciso di occuparsi della tragedia che stanno vivendo le periferie svedesi, come Politico, il punto di riferimento dei liberal europei, che ha parlato delle esplosioni come della "nuova normalità della Svezia".
Ulf Kristersson, che ha vinto le ultime elezioni facendo della lotta al gangsterismo uno dei suoi cavalli di battaglia, ha promesso alla cittadinanza che risolverà la guerra della droga installando più telecamere, aumentando i poliziotti per le strade e comminando pene più severe ai narcos, lasciando intendere che come extrema ratio potrebbe essere chiamato l'esercito. Ma la sua ricetta alla Rudy Giuliani, in assenza di ingredienti che parlino di integrazione e recupero, rischia di fallire allo stesso modo delle strategie dei predecessori. Emanuel Pietrobon
(ANSA il 22 gennaio 2023.) Nel corso dell'ultima settimana, un escalation di violenza ha colpito le strade di Stoccolma a causa di scontri tra gang criminali per il controllo del narcotraffico. Vista la gravità della situazione, la polizia svedese ha deciso di concentrare nella capitale un centinaio di agenti di rinforzo provenienti da tutto il Paese nel tentativo di fermare le violenze.
"Lavoriamo su molti fronti, non si tratta di un conflitto ma di molteplici conflitti" ha detto Mattias Andersson, capo della polizia della regione di Stoccolma, ripreso dalla Tv di servizio pubblico svedese Svt. Attorno alle 22 di venerdì sera un uomo è stato ucciso per strada nel quartiere di Huvudsta, nella parte nord di Stoccolma. La stessa notte, in altre zone della capitale, sono stati sparati colpi di fucile contro diversi edifici civili e c'è stata un'esplosione davanti ad una palazzina, ma nessuno è rimasto ferito.
"Stiamo parlando di un crimine grave, organizzato e totalmente spietato, che ovviamente nessuna società decente può tollerare", ha detto il ministro della Giustizia svedese Gunnar Strömmer, intervistato da Svt nel corso di una visita al quartiere dove è avvenuto l'micidio. Il capo di una delle gang coinvolte nelle violenze è un 36enne di Uppsala di origini curde che si fa chiamare "la volpe curda".
Secondo quanto riporta Svt, il suo gruppo starebbe cercando di prendere il controllo del mercato della droga nella zona di Sundsvall, sfidando l'attuale gang che ne detiene il controllo. L'uomo è ricercato dalla polizia svedese con un mandato di cattura Interpol per una lunga lista di reati. Attualmente si trova in Turchia dove è stato arrestato lo scorso anno e poi rilasciato. Ankara ha detto no alla richiesta d'estradizione di Stoccolma, visto che l'uomo è diventato cittadino turco, in seguito dei grossi investimenti fatti nel Paese.
(ANSA il 30 dicembre 2022) - In questi ultimi mesi i furti di carne e burro sono aumentati nei supermercati svedesi. La Federazione del commercio svedese riporta un aumento considerevole di furti in grande scala in tutto il Paese.
Monica Blom, manager di un supermercato a Stoccolma, ha detto alla radio svedese che interi scaffali pieni di carne spariscono in pieno giorno, e che i furti vengono compiuti da gruppi di due o tre persone. Il fatto che la carne venga rubata in quantità così grandi accresce il sospetto che non si tratti di furti prettamente per sfamarsi, bensì per rivendere la merce a ristoratori o ad altri supermercati. L'impiego di guardie giurate e targhette magnetiche sulle confezioni di carne sono alcune delle misure che i supermercati stanno prendendo, per cercare di affrontare il problema.
I 40 omicidi del serial killer "immaginario": "Mi sentivo solo". Thomas Quick ha confessato quasi quaranta omicidi, violenze sessuali, brutalità di ogni calibro. L’assassinio seriale più prolifico della Scandinavia? No, invenzioni frutto della follia. Massimo Balsamo il 20 aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Thomas Quick, alias Sture Bergwall
La nascita del serial killer mai esistito
Confessioni con l'aiutino
La fine del "mito"
Quasi quaranta omicidi confessati, mutilazioni, violenze sessuali e cannibalismo: il serial killer più prolifico della storia della Svezia, tanto da “meritare” il soprannome di Hannibal Lecter. Iniziate nel 1992, le confessioni di Thomas Quick dall’ospedale psichiatrico di Säter hanno sconvolto un intero Paese e hanno traumatizzato centinaia di famiglie. Un assassino seriale senza un modus operandi coerente, che affermò di aver ucciso indistintamente bambini e adulti, donne e uomini, svedesi e norvegesi. Tutto molto strano o forse no, considerando che il più feroce serial killer scandinavo, in realtà, non è mai stato un serial killer. Una verità incredibile, emersa solo dopo anni grazie alla pervicacia di un giornalista. In altri termini, una storia che non ha eguali nella storia della criminologia.
Thomas Quick, alias Sture Bergwall
Thomas Quick nasce come Sture Bergwall, nei pressi di Falun, il 26 aprile 1950. Cresce in una piccola realtà della Svezia rurale e deve fare i conti già da giovanissimo con malattie fisiche e psichiche di ogni sorta. Un bambino creativo, interessato al teatro e alla scrittura, che scopre di essere omosessuale nel pieno dell’adolescenza. Un orientamento sessuale tenuto nascosto per timore della reazione dei genitori, un infermiere e una bidella, profondamente religiosi.
Inizia a sperimentare droghe da giovanissimo – l’anfetamina la sua preferita – e all’età di 19 anni viene accusato di aver molestato quattro adolescenti. Il futuro Thomas Quick desidera essere trattato come una persona intelligente, interessante, ma incontra diverse difficoltà. Nel 1973, a ventitré anni, entra per la prima volta nella clinica di Säter. Dopo una messa in prova, la sua vita sembra procedere nella direzione giusta ma nel 1974 ci ricasca: consumato da alcol e droghe, aggredisce un omosessuale a coltellate.
Sture Bergwall inizia a entrare e uscire dalle cliniche, manifestando un desiderio di morte e la volontà di suicidarsi. Nel 1977 muore il padre e deve prendersi cura della madre malata, un periodo difficile ma non privo di fatti promettenti: apre un chiosco insieme al fratello e inizia a instaurare dei rapporti solidi. La serenità non dura molto: nel 1983 muore la madre, mentre tre anni più tardi il chiosco chiude i battenti. Bergwall prova a rimanere a galla: apre un nuovo chiosco e inizia a lavorare come steward e distributore di giornali. Ma la svolta – in negativo - è dietro l’angolo.
La nascita del serial killer mai esistito
Nel 1990, all’età di 40 anni, viene arrestato dopo una rapina in banca per la quale si era travestito da Babbo Natale. Viene sottoposto a perizia psichiatrica e torna nella clinica di Säter un anno dopo. È qui, in questo ospedale psichiatrico di massima sicurezza a tre ore di auto da Stoccolma, che Bergwall decide di cambiare nome e di dare vita all’assassino seriale più temuto della Scandinavia: Thomas Quick. La prima confessione arriva nel 1992 e si collega a uno dei più grandi misteri criminali della storia svedese, datato 1980: dichiara di aver rapito, stuprato, strangolato e smembrato l’undicenne Johan Asplund. “L’ho prelevato fuori dalla scuola, l’ho attirato in un bosco e l’ho violentato”, la sua versione. Dei suoi resti però nessuna traccia.
Condannato per la prima confessione, Thomas Quick inizia ad attribuirsi un omicidio irrisolto dopo l’altro, incarnando il fantasma che ha attraversato la Scandinavia uccidendo più di trenta persone. Afferma di aver ucciso una bambina di 9 anni in Norvegia nel 1988, di aver violentato e ucciso una ragazza 23enne e addirittura di aver assassinato un coetaneo nel 1964, quando aveva solo 14 anni. Nonostante le ricostruzioni ricche di errori, la parola di Quick diventa verità e le condanne si accumulano: viene processato e condannato per otto omicidi da sei tribunali diversi. "Ero una persona molto sola quando tutto è iniziato - racconta - Ero in un posto con criminali violenti e ho notato che più grave era il crimine, più qualcuno riceveva interesse dal personale psichiatrico. Volevo anche appartenere a quel gruppo, essere una persona interessante qui".
Confessioni con l'aiutino
Tra una ammissione e l’altra, Thomas Quick ringrazia i medici della clinica per avergli permesso di fare riemergere ricordi sopiti. Le violenze del padre, gli abusi della madre, i tentati omicidi. I media parlano di lui come del ”cannibale” che ha sparso sangue per la Scandinavia, citando le presunte prove dei suoi crimini ostentate dal procuratore Christer van der Kwast, senza dimenticare i rapporti delle molestie sessuali – vere – commesse ai danni dei quattro ragazzi nel 1969. Tutto facile per gli psichiatri: le reiterate violenze subite hanno trasformato Quick in uno spietato assassino.
Inoltre, nelle confessioni degli omicidi, Thomas Quick cita diverse informazioni corrette riguardanti la scena del crimine e i particolari delle vittime, dettagli spesso ignorati dagli stessi investigatori. È davvero lui il serial killer? Assolutamente no. L’uomo più temuto di Svezia riesce a ottenere informazioni chiave sui casi di cronaca nera da psichiatri, agenti di polizia e avvocati, mettendo insieme confessioni sconclusionate e confuse ma coerenti secondo le autorità. “Non avevo bisogno di fare molto per raccontare le storie. Di solito un articolo di giornale era sufficiente. Il resto delle informazioni arrivava sempre durante gli interrogatori della polizia, oppure dai terapisti. Dovevo solo ascoltare e prestare attenzione”, confermerà molto tempo dopo.
La fine del "mito"
Ogni volta che confessa, Thomas Quick riceve apprezzamento da parte di medici, giornalisti e polizia. È questo a dargli la forza di continuare la messinscena, la possibilità di instaurare rapporti sociali. Come evidenziato dall’esperto Ruben De Luca nel suo libro Serial killer, anche la scelta di cambiare nome rientra in questa ottica: creare una nuova identità rispettata e temuta. La considerazione degli altri come benzina per tirare avanti.
L'amore per i serial killer: ecco le groupies del terrore
Gli anni Novanta scorrono così, ma qualcosa cambia nel 2001. Thomas Quick si chiude a riccio e rifiuta qualsivoglia tipo di visita. Tornato a essere Sture Bergwall, nel 2008 decide di ricevere Hannes Rastam, un giornalista che aveva chiesto più volte di poter parlare con lui. Il cronista studia oltre 50 mila pagine di documenti giudiziarie, cartelle cliniche e interrogatori della polizia, giungendo alla conclusione che non c’era un solo straccio di prova per nessuna della confessioni. Niente tracce di Dna, niente arma del delitto, niente testimoni oculari. Nulla di nulla.
Complice l’intervento del giornalista, Bergwall inizia a ritrattare le confessioni. Una mossa che mette in imbarazzo lo staff medico della clinica di Säter, tanto da dover fare i conti con una serie di ritorsioni. Rastam riesce a ricostruire quanto accaduto dal 1992 in avanti, accendendo i riflettori su una vicenda incredibile da ogni punto di vista: dai farmaci somministrati al presunto serial killer agli interrogatori condotti in maniera poco professionale, fino all’impreparazione degli avvocati. I tribunali vengono dunque costretti a revisionare le sentenze, con le condanne tutte annullate.
L’Hannibal Lecter della Svezia non è mai esistito: nessuno spietato assassino, solo un uomo con problemi psichiatrici. Una storia da romanzo crime scandinavo, ma tragicamente vera. Thomas Quick nel 2014 esce da uomo libero dall’ospedale di Säter. Oggi vive libero in una località segreta.
La Svezia avvia la campagna di abbattimento dei lupi, tra le proteste dei cittadini Francesca Naima su L'Indipendente il 4 Gennaio 2023.
In Svezia ha appena avuto inizio il maggiore abbattimento di lupi degli ultimi decenni allo scopo di ridurre la loro presenza nel Paese. Una misura chiesta a gran voce dagli allevatori di bestiame ma contrastata con forza dalla maggioranza della popolazione, che non ritiene giusto uccidere lupi selvatici per tutelare gli investimenti economici degli allevatori. I cacciatori sono stati autorizzati a sopprimere un massimo di 75 lupi su una popolazione complessiva di 460.
La decisione del governo svedese ha preso forma a nemmeno un mese dalla fine della COP15 (Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità) durante la quale i leader mondiali si sono impegnati per il raggiungimento di un accordo storico volto a ridurre le minacce alle specie viventi. Poco prima della COP15 invece, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per diminuire lo status di protezione legale per i grandi carnivori. Eppure gli animali che ora incutono tanto timore hanno rischiato l’estinzione nel passato e l’attuale “allarme lupi” che si sta diffondendo metterà nuovamente a rischio la vita di innumerevoli esemplari.
Dall’Associazione dei cacciatori svedesi si parla di un atto di fondamentale importanza in quanto la crescita dei branchi, dicono, è molto preoccupante. Un’opinione opposta giunge invece dall’indignazione di attivisti e associazioni, che hanno ribattuto sottolineando come il numero di animali in Svezia sia ben più basso rispetto ad altri paesi. In Italia per esempio, ce ne sono circa 3.300 (dall’ultimo censimento della primavera del 2021). E infatti, anche nello Stivale, non manca chi – specie gli allevatori – guarda con favore e voglia di emulazione alle misure svedesi.
I lupi per molto tempo sono stati considerati come specie in via d’estinzione; in Italia nel 1970 ne esistevano solo un centinaio e ora è possibile affermare che gli animali siano fuori pericolo. In tutta Europa si contano circa 18.000 esemplari, che gli etologi hanno suddiviso in 9 areali (Scandinavia, Karelia, Baltico, Centro Europa, Carpazi, Balcani, Appennini, Alpi, Penisola Iberica nord-occidentale). L’espansione dei lupi è stata favorita anche dalla protezione messa in atto quando considerati a rischio e quindi identificati come specie protetta. La ricostruzione dell’habitat, la reintroduzione degli animali di cui i predatori si cibano e la caratteristica della dispersione tipica dei branchi, hanno portato al numero attuale che però viene interpretato come “fuori controllo”. Molte le lamentele degli allevatori che denunciano gli attacchi dei predatori, ed ecco come il Parlamento europeo abbia approvato lo scorso novembre, con 306 voti favorevoli, 225 contrari e 25 astensioni la già citata risoluzione. L’obiettivo principale è proteggere le persone e gli animali da allevamento, non cancellando totalmente i dettami della Convenzione di Berna e della Convenzione per la conservazione della vita selvatica e dei suoi biotopi in Europa, elaborata nel 1979 e recepita in Italia con la legge n. 503 del 1981.
Proprio grazie all’azione dei 30 componenti del Comitato permanente della Convenzione di Berna, è stato possibile scongiurare il peggio e vietare gli abbattimenti indisturbati degli animali. Con soli 6 voti contrari, è stato deciso di non abbassare lo stato di protezione dei lupi ma comunque alcuni stessi eurodeputati specchio delle idee estremiste di alcuni agricoltori e cacciatori spingono purché si opti per simil stermini, proprio come sta accadendo in Svezia. Appare infatti più semplice uccidere i lupi che ammettere i problemi e le discordanze che caratterizzano l’allevamento intensivo, come ha fatto ben notare Sabien Leemans, dell’Ufficio per le Politiche Europee del WWF.
La preoccupante diffusione della credenza che i lupi siano il problema non permette di considerare soluzioni esistenti e che, invece, consentirebbero una pacifica convivenza tra gli animali e l’uomo senza che essi compromettano alcuna attività antropica. Esistono infatti misure preventive, come sottolineano diverse associazioni come LAV e WWF, che però non vengono applicate. Eppure sarebbero efficaci. Si tratta di, per esempio, recinzioni elettriche o cani da guardia: sistemi di prevenzione delle predazioni ben più efficaci delle uccisioni dei lupi che in realtà non hanno impatti significativi sulle predazioni. Certo è che le misure preventive devono essere correttamente utilizzate per portare la pace tra predatori ed esseri umani. Sorge allora spontaneo chiedersi come mai si opti facilmente per soluzioni tanto cruente quando basterebbe mettere in atto, con attenzione e serietà, misure già esistenti che risolverebbero efficacemente l’osannato “problema dei lupi” senza spargimenti di sangue. [di Francesca Naima]
Quei razzisti come i norvegesi.
I volti di Psyco. "Fu una vittima": la storia del killer che non ha mai ucciso nessuno. Sordo e affetto da un grave disturbo del linguaggio, Fritz Moen venne condannato ingiustamente per due brutali omicidi. Massimo Balsamo il 15 Giugno 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Una vita difficile
L’alcol e le denunce
Il duplice omicidio
La confessione estorta a Fritz Moen e la condanna
La battaglia per la verità
“Principio di obiettività violato ripetutamente”
Un serial killer mai esistito: quello di Fritz Moen è uno dei casi di malagiustizia più clamorosi di sempre. Accusato di due omicidi negli anni Settanta e condannato a 21 anni di carcere, l’uomo – sordo e affetto da un grave disturbo del linguaggio – in totale ha scontato 18 anni e mezzo dietro le sbarre. La confessione estorta e le indagini piuttosto approssimative dietro una vita rovinata ai piedi del “Moensaken”, come è stato ribattezzato il caso in Norvegia. Ma il suo nome è stato riabilitato quando era già troppo tardi, come troppo spesso accade.
Una vita difficile
Fritz Moen nasce il 17 dicembre 1941 a Sarpsborg, nella contea di Viken, in Norvegia. È figlio di un caporale tedesco – che muore in guerra nel 1944 – e di una donna norvegese. Complice il conflitto, viene ospitato in un orfanotrofio a Skjeberg a partire dal 1943. Non ha contatti con nessun bambino fino ai 7-8 anni, ovvero nel periodo in cui solitamente i più piccoli iniziano a parlare, a comprendere concetti e sfumature, a socializzare.
Fritz Moen non ha una famiglia, non ha amici. Una criticità degna di nota, che secondo gli esperti contribuirà in maniera significativa ai successivi problemi sociali e di comprensione del linguaggio. Frequenta una scuola di non udenti a Skadalen dal 1949 al 1957, dove impara la lingua dei segni, ma deve fare i conti con i problemi tipici della sua età, a partire dalle prese in giro da parte dei coetanei. Fritz Moen è uno studente problematico con grosse difficoltà di adattamento. Una volta conclusa la parentesi scolastica inizia subito a lavorare, ma cambia spesso impiego a causa delle criticità nel relazionarsi.
L’alcol e le denunce
Fritz Moen vive in una comunità dedicata a chi ha i suoi problemi, ma non riesce a costruire dei rapporti. Anzi inizia a sviluppare la dipendenza dall’alcol e colleziona le prime denunce. Tra il 1965 e il 1966 finisce nel mirino delle autorità per piccole frodi, reati contro la proprietà e furto di un motorino. Nell’autunno del 1966 ha un terribile incidente a bordo di un mezzo a due ruote: va a sbattere contro un albero e lotta tra la vita e la morte per diverse ore. Se la cava con una frattura del cranio e con la paralisi quasi completa del braccio destro. La situazione non migliora nemmeno dopo quell’episodio. Nel 1971 infatti viene denunciato per atti osceni in luogo pubblico e per aver provato a molestare un gruppo di ragazze.
Il duplice omicidio
L’11 settembre del 1976 la Norvegia viene scossa dall’omicidio di Sigrid Heggheim. La ventenne di Jolster viene trovata senza vita nei pressi di una stazione di servizio a Nidarvoll, a Trondheim. Sul corpo della studentessa vengono trovati segni riconducibili a uno stupro. La giovane era scomparsa da qualche giorno: l’ultimo avvistamento tra la notte del 5 e 6 settembre, dopo una festa. Le indagini non portano gli investigatori da nessuna parte.
Un anno più tardi un’altra giovane ragazza viene uccisa. Il 6 ottobre del 1977 viene rinvenuto il cadavere della ventenne Torunn Finstad nei pressi del ponte Stavne sulla Nidelva a Trondheim. Anche lei come Sigrid Heggheim è stata violentata e strangolata dal killer. Gli inquirenti però non si fanno trovare impreparati e individuano immediatamente il presunto assassino: il già citato Fritz Moen.
La confessione estorta a Fritz Moen e la condanna
Fritz Moen viene arrestato il 7 ottobre per l’omicidio di Torunn Finstad, ma viene subito accusato anche per la morte di Sigrid Heggheim. Gli viene infatti estorta una confessione anche a causa delle difficoltà di comunicazione. Inoltre sulle scene del crimine erano state trovate delle tracce biologiche che – con le tecniche dell’epoca – sembravano fornire una lieve corrispondenza con il Dna di Fritz Moen.
Il processo per l’omicidio di Torunn Finstad si chiude l’11 aprile del 1978: Fritz Moen viene condannato a venti anni di carcere, poi ridotti a sedici in appello. Per l’assassinio di Sigrid Heggheim invece viene processato il 15 settembre del 1981 e condannato a cinque anni aggiuntivi di detenzione. Nessun dubbio da parte del giudice Karl Solberg, già noto nel Paese per alcuni incredibili abbagli. Precedentemente infatti aveva fatto condannare persone che si erano poi rivelate innocenti.
La battaglia per la verità
Nonostante la duplice condanna, l’avvocato di Fritz Moen – il legale Olav Hestenes – chiede un nuovo processo per entrambi i casi nel gennaio del 2000. Il Tribunale accetta e nel 2004 arriva la nuova sentenza: assolto perché il fatto non sussiste. Ma l’uomo era già tornato a essere un uomo libero dopo aver scontato diciotto anni e mezzo dietro le sbarre. Perentorio il parere delle toghe: prove scientifiche insufficienti e l’uomo aveva un alibi per il giorno dell’omicidio di Sigrid Heggheim. Inoltre la paralisi parziale lo rendeva incapace a commettere certe azioni dal punto di vista fisico.
La richiesta di revisione per la condanna per l’omicidio e lo stupro di Torunn Finstad viene però respinta. Il 28 marzo del 2005 Fritz Moen muore per cause naturali e la piena giustizia arriverà soltanto in un secondo momento. Nel dicembre dello stesso anno Tor Hepsø, un detenuto che aveva una lunga storia di violenza, rilascia una confessione in punto di morte in cui affermava di aver ucciso le due donne. Il 24 agosto del 2006 viene annullata anche la seconda condanna. Fritz Moen non è mai stato un serial killer.
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“Principio di obiettività violato ripetutamente”
Nel 2007 una commissione di inchiesta conduce un’indagine su quanto accaduto e l’esito è categorico: il principio di obiettività era stato violato ripetutamente sia dalla polizia, che dal tribunale. Il ministero della Giustizia viene costretto a indire una conferenza stampa per ammettere i gravi errori compiuti nel caso di Fritz Moen. Nell’aprile del 2008 durante un evento al Conrad Svendsen Center – “casa” di Moen – il ministro della Giustizia Knut Storberget chiede scusa in prima persona: “È stato vittima di un’ingiustizia, non c’è perdono per la sofferenza causata”. Negli ultimi anni molti norvegesi hanno invocato un busto o una statua di Moen da erigere davanti al ministero della Giustizia norvegese come simbolo delle responsabilità del sistema di giustizia penale.
La Norvegia spinge la transizione ecologica violando gli indigeni Sámi. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 16 marzo 2023.
Nonostante le numerose azioni messe in campo nelle ultime settimane – tra cui presidi davanti al Ministero del petrolio e ad altri edifici governativi di Oslo – gli attivisti del popolo indigeno Sámi al momento si dovranno – almeno per ora – accontentare solo delle scuse verbali formulate agli inizi di marzo dal Governo norvegese. Terje Aasland, Ministro dell’Energia, ha infatti riconosciuto di aver deturpato con la costruzione nel distretto di Fosen del più grande parco eolico onshore d’Europa da 151 turbine, i territori e i diritti degli indigeni, privandoli fondamentalmente di ciò di cui principalmente vivono: la terra. Ma, al momento, e a parte le scuse, non esiste un accordo concreto per risolvere la controversia (né l’ipotesi di rimozione, come chiedono gli indigeni e come stabilito da una sentenza).
È dai primi anni 2000 che la Norvegia cerca di ridurre la sua dipendenza da petrolio e gas aumentando la produzione di energia rinnovabile, principalmente sfruttando la forza del vento. L’intento della nazione, però, non è solo quello di soddisfare la crescente domanda nazionale, ma anche quello di vendere il proprio ‘prodotto’ ai mercati europei, meno forniti di energia pulita. Gli ambientalisti, tuttavia, non credono che tale processo, piuttosto ambizioso, possa ritenersi per davvero ‘green’, soprattutto per via dei metodi che si intendono applicare. Le autorità norvegesi vogliono infatti elettrificare gli impianti petroliferi e del gas offshore presenti sul territorio (quindi non eliminarli), collegandoli ai parchi eolici: è evidente che questo aumenterebbe in modo significativo il consumo nazionale di elettricità e richiederebbe un’ulteriore – e maggiore – installazione di parchi eolici (per la cui costruzione è prevista la creazione di nuove strade e grandi impianti industriali).
Questi ultimi sono già situati in larga parte (e secondo i piani lo saranno anche i successivi) a Sápmi, territorio ancestrale e selvaggio abitato dal popolo indigeno Sámi, che basa il proprio sostentamento sul suolo e sull’allevamento di renne. La presenza di parchi eolici, però, impedisce ad esempio l’accesso ai pascoli e compromette gli spostamenti degli animali. Gli indigeni si battono da anni contro le infrastrutture umane, le strade e le reti elettriche, definendo quello che sta facendo la Norvegia nei loro confronti un ‘colonialismo verde’, cioè un accaparramento delle terre e l’estrazione delle sue risorse giustificato dal Governo come azione necessaria per la lotta al cambiamento climatico.
Una pratica che prosegue nonostante nell’ottobre 2021, con una sentenza storica, la Corte Suprema della Norvegia si sia espressa a favore dei diritti delle popolazioni indigene. Undici giudici hanno infatti dichiarato che i parchi eolici di Roan e Storheia, costruiti nella penisola di Fosen, nella Norvegia centrale, violano i diritti degli allevatori di renne Sámi, garantiti per legge dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, e che per questo le licenze concesse per la loro costruzione sono nulle.
Al momento però il Governo norvegese, che è azionista di maggioranza della Fosen Vind, la società che possiede e gestisce i progetti, non sembra disposto a rimuoverli. Una presa di posizione che – nonostante le recenti scuse – potrebbe definitivamente incrinare i rapporti tra il popolo Sámi e l’Amministrazione nazionale, che da sempre si vanta di tutelare i diritti degli indigeni e ad oggi invece sembra intenzionata a rincorrere la transizione verde senza premurarsi della loro sopravvivenza.
Di certo, una comunità in lotta da decenni come quella dei Sámi non si arrenderà facilmente. Anche Amnesty International si è unita alla loro lotta, lanciando una petizione. «La gente non capisce perché stiamo combattendo contro l’energia eolica, che dovrebbe essere così “verde”. Ma non riesco a vedere cosa ci sia di “verde” nel distruggere la natura e mettere da parte un popolo che usa la natura in modo sostenibile» e che affronta già le conseguenze dei cambiamenti climatici che non ha causato, ha commentato Maja Kristine Jåma, rappresentanti Sámi. [di Gloria Ferrari]
Quei razzisti come gli inglesi.
Le Guerre.
L’Immigrazione.
Il Razzismo.
La Censura.
La Brexit.
I Politici.
La Giustizia.
La Repressione.
Gli Scandali.
Luigi Ippolito per il Corriere della Sera sabato 2 dicembre 2023.
Re Carlo si schiera con Atene nella disputa sui marmi del Partenone? Le opinioni politiche dei sovrani britannici sono riservate, ma quel che è certo è che Carlo, quando ha pronunciato il suo discorso alla Cop28 di Dubai , indossava una vistosa cravatta con i colori della bandiera greca.
I reali sono soliti mandare sottili messaggi in codice: e la scelta sartoriale del re è arrivata nella settimana in cui è scoppiata una grave crisi diplomatica fra Londra e Atene, che rivendica la restituzione delle statue sottratte nell’Ottocento dall’Acropoli e custodite al British Museum. Lunedì il primo ministro Rishi Sunak ha cancellato all’ultimo minuto un vertice con il collega greco Kyriakos Mitsotakis, “reo” di essere tornato a reclamare il ritorno in patria dei marmi del Partenone. Ancora ieri, Sunak ha ribadito la sua posizione: «Per legge i marmi non possono essere restituiti e non abbiamo mai equivocato su questo».
Ma Carlo potrebbe pensarla diversamente: e la sua cravatta è stata salutata con entusiasmo dalla stampa greca. «La scelta del re di indossare una cravatta con la bandiera greca – ha scritto il giornale Proto Thema – potrebbe ben essere interpretata come una dimostrazione di sostegno per il nostro Paese alla luce dei disaccordi sui marmi del Partenone». «La diplomazia della cravatta ha parlato – ha aggiunto la rivista Lifo –. La scelta dei colori della bandiera greca non è stata considerata una mera coincidenza».
Carlo è un fervente filo-ellenico, anche per una questione familiare: suo padre Filippo era un principe greco, nipote di re Costantino I. A Londra spiegano la scelta della cravatta in due modi: o si è trattato di una clamorosa gaffe del suo entourage, oppure al re è stato detto che era meglio evitare quella cravatta e lui di quel consiglio se ne è infischiato, consapevole delle conseguenze
(…)
Pezzi di storia Il Partenone è come la Gioconda, non può essere tagliato a metà tra due Paesi contendenti. L'Inkiesta il 28 Novembre 2023
Il parallelismo è del ministro greco Kyriakos Mitsotakis, discretamente seccato dalla decisione dell’omologo britannico Rishi Sunak di annullare l’incontro voluto per dirimere la lunga disputa su fregi del Partenone conservati a Londra. Si tratta di figure in marmo realizzate dallo scultore Fidia che decoravano il tempio da 2.500 anni
Il parallelismo è del ministro greco Kyriakos Mitsotakis, discretamente seccato dalla decisione dell’omologo britannico Rishi Sunak di annullare l’incontro voluto per dirimere la lunga disputa su fregi del Partenone conservati a Londra. Si tratta di figure in marmo realizzate dallo scultore Fidia che decoravano il tempio da 2.500 anni. Previsto per oggi sul Tamigi, il faccia a faccia è saltato solo poche ore prima, ha detto il capo della delegazione greca, mentre lo staff di Sunak non ha commentato.
A Mitsotakis è stato offerto un colloquio alternativo con il vice di Sunak, Oliver Dowden ma il capo del governo greco l’ha presa male e ha rifiutato, dichiarando di sentirsi «profondamente deluso».
Tra le ipotesi che spiegherebbero la decisione, ci sono le esternazioni di Mitsotakis durante un’intervista realizzata qualche ora fa con Laura Kuenssberg della BBC: «avere alcuni pezzi di Partenone a Londra e il resto ad Atene è come tagliare a metà la Gioconda», ha dichiarato il capo dell’esecutivo ellenico. Indignato, Mitsotakis ha poi commentato che «Chi ha argomentazioni in cui crede non rifiuta il dialogo. Avevo previsto di avviare una discussione con Sunak su questo tema, ma anche su tante altre importanti sfide globali come il conflitto in Israele e in Ucraina, la crisi climatica e migratoria». Avrebbero insomma dovuto essere quarantacinque minuti intensi, un lunch di lavoro, ma secondo fonti vicine al governo inglese anche Sunak sarebbe irritato: «L’incontro è saltato perché la posizione inglese è da sempre che i marmi di Elgin fanno parte della collezione permanente del British Museum e devono rimanere qui. Per noi conservatori non è negoziabile».
Da più parti quella che può apparire come una piccola schermaglia diplomatica non sarebbe da sottovalutare per i risvolti politici. Sostengono infatti i conservatori che l’incontro amichevole e dai toni possibilisti tra Mitsotakis e il laburista sir Keir Starmer, avvenuto in questi giorni, sia stata una scelta sconsiderata. L’idea per i laburisti, sarebbe infatti di non opporsi a un eventuale accordo di prestito tra il British Museum e Atene, iniziativa che non richiederebbe alcun permesso da parte del governo.
Ma l’Esecutivo si fa scudo con il British Museum Act del 1963 che vieta lo spostamento degli oggetti esposti nel noto museo: «Starmer ignora il contributo che generazioni di contribuenti britannici hanno dato per mantenere i fregi al sicuro e mostrarli al mondo», ha fatto sapere un portavoce del partito al governo.
La contesa è stata bollata dai media inglesi come «una bizzarra pièce teatrale a tema culturale». Una guerra che ha per oggetto l’arte e che però apre a un tema piuttosto sentito. Ovvero, l’opportunità che i musei di tutto il mondo debbano restituire ai loro paesi di origine i pezzi frutto di razzie attraverso i secoli.
Abukir: quando Nelson tolse il mare a Napoleone. La flotta francese all'ancora nella baia egiziana venne distrutta dagli inglesi nel primo giorno d'agosto del 1798. Così Napoleone, "l'odiato corso", dovette dire addio al sogno di strappare le rotte commerciali all'Impero britannico interrompendo il collegamento con il Vicino oriente. Davide Bartoccini l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.
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Uno scontro decisivo
La grande vittoria di Nelson
"Chi comanda il mare, guida la storia" asseriva Lord Horatio Nelson, primo duca di Bronte e forse condottiero tra i più noti nelle battaglie navali che hanno infiammato gli oceani della stessa. Seppe dimostrarlo quando dal ponte dell'HMS Vanguard sbarrò la strada alle brame di Napoleone nella baia di Abukir, dando ordine ai 14 vascelli di linea posti sotto il suo comando di aprire il fuoco contro le navi francesi sfuggitegli nel Mediterraneo e colte di sorpresa mentre erano alla fonda in Egitto. La sera del primo giorno d'agosto del 1798.
Quattro ore di fuoco alle polveri, di ordini impartiti con fredda risolutezza, di grida di terrore, di vele squarciate, di schegge di legno che schizzano d'ogni parte mietendo vittime nella crescente oscurità illuminata dalle bordate dei cannoni in batteria. Zampilli d'acqua alti una dozzina di metri s'innalzano lungo la linea del fuoco quando i colpi mancano il bersaglio, lacerando la superficie del mare. Poi il fuoco di moschetti e cannoncini prima dell'abbordaggio dei fanti di marina con la giubba rossa che si spingono fino alla misura della sciabola. Quattro ore di bordate sparate a bruciapelo, di manovre azzardate e temerarie pensate del disobbediente contrammiraglio britannico definito un "predatore nato", Lord Nelson, che scrive il suo nome nella leggenda mentre infrange il sogno di Napoleone Bonaparte, il generale francese che aveva conquistato le Piramidi e intendeva scalzare l'Impero britannico dal predominio del Mediterraneo e dei mari che portano ai possedimenti d'oltreoceano, interrompendo i collegamenti tra l'Inghilterra e il vicino Oriente che conduceva all'India e oltre.
Quando le cannonate della Hms Bellerophon - la stessa nave da battaglia inglese che scorterà Napoleone in esilio sull'isola di Sant'Elena nel 1815 - centrano l'albero maestro dell'ammiraglia francese, L’Orient, impossibilitata a manovrare e dunque spacciata, l'epilogo della battaglia sembra decretato.
Ma mentre i morti e vessilli cadono nel mare che nell'incedere della notte diventa del colore della pece, tutto intorno si continuerà a combattere fino allo stremo. All'alba, la battaglia del Nilo è conclusa ed è stata vinta da Nelson. Destinato a diventare eroe dell'impero, ammiraglio della flotta del Mediterraneo e più temuto e ammirato degli uomini in tutta la Marina britannica sebbene privo dell'occhio destro, perduto in battaglia al largo di Calvi, e di un braccio, sempre il destro, amputato in seguito delle ferite riportate nel fallito assedio di Santa Cruz de Tenerife.
L'ultima battaglia in giubba rossa
Uno scontro decisivo
Come in ogni grande e decisiva battaglia, saranno tattica, temerarietà e informazioni (del tipo che oggi l'intelligence classificherebbe come Humint) a fare la differenza nella conquista della vittoria. Così, quando quattro navi della squadra britannica si insinuano sulla destra della linea delle navi francesi sfidando i bassi fondali come grande mestizia, e le restanti sei guidate dalla Vanguard di Nelson incrociano al largo ingaggiando la linea dei vascelli francesi che non si aspettavano uno scontro prima del mattino, Brueys e i suoi 5mila marinai non riescono a credere di esser sopraffatti. Incredibile pensare che la flotta di Nelson si fosse mossa su indicazione di un semplice pescatore greco che il 28 di luglio, nel Golfo di Koron, aveva notato "una grande flotta dirigersi a sud-est di Creta", lanciando Nelson all'inseguimento.
Al tramonto, sei delle 20 navi francesi sono state disalberate, tre abbordate e catturate dagli inglesi, che ora possono dirigere il fuoco dei cannoni sulle rimanenti navi avversarie. La precisione dei cannonieri di Sua Maestà sbalordisce e fa strage. Concentrando il fuoco sull'ammiraglia francese che spicca tra la linea di vascelli con i suoi 120 cannoni non solo per insegne e grandezza, ma per il suo aspetto magnifico: L'Orient era stata fatta riverniciare quella stessa mattina.
Al termine dello scontro, i francesi hanno perso 11 dei 13 vascelli di linea, i più importanti, e due delle quattro fregate. Sole due navi sono riuscite a darsi alla fuga. Si conteranno oltre 1.500 caduti tra i francesi, almeno la metà di feriti, mentre i restanti 3mila verranno fatti prigionieri. Tra i caduti sarà anche l'avversario di Nelson sul campo, l'ammiraglio François-Paul Brueys d'Aigalliers, spazzato via, secondo le cronache della battaglia, da una palla di cannone. Gli inglesi invece, tra morti e feriti, non avevano perso neanche un migliaio di uomini.
La grande vittoria di Nelson
"..il Signore nella sua Grandezza ha benedetto l’Armata di Sua Maestà il Re con una grande vittoria nella battaglia con la Flotta nemica che ho attaccato al tramonto presso la foce del Nilo", così Nelson comunicò per dispaccio la vittoria a Londra. A bordo dei suoi vascelli, che avevano distrutto e predato le navi del Napoleone posto al comando di quella che divenne nota come l'"Armata Inghilterra" - dall'obiettivo che s'era prefissato, ossia invadere l'isola nemica - i toni furono diversi, e la parola "vittoria" venne considerata inappropriata per celebrare un successo di tale portata.
Annientando la flotta francese che doveva fiancheggiare le armate di Napoleone nell’interdire le rotte del Mediterraneo e i collegamenti tra la Gran Bretagna all’India, flotta destinata a supportare l’esercito francese pronto ad attraversare il canale della Manica per tentare di invadere l’Inghilterra, Lord Nelson infrangeva il sogno del condottiero francese che, senza l’appoggio di una potente flotta non poteva né puntare né al predominio del Mare nostrum, né tanto meno all'Oriente. Lasciandolo in Egitto con orizzonti d’espansione e gloria destinati a ridursi - contro le sue mire - al Vecchio continente.
Sarà la battaglia di Trafalgar a distruggere definitivamente i piani di Napoleone per l’invasione della Terra di Albione. Ma questo appartiene un'altra storia. Una storia che pur vide ancora una volta rispettato l'adagio di Lord Horatio Nelson il quale, ferito a morte al largo di Capo Trafalgar nell'omonima battaglia, consacrerà la superiorità britannica in alto mare. Permettendo agli inglesi di guidare per un altro secolo le sorti della Storia.
Estratto dell’articolo di Luigi Ippolito per corriere.it Il 6 marzo 2023.
Linea durissima del governo di Rishi Sunak contro gli sbarchi illegali: tutti i migranti che arrivano attraverso la Manica non potranno più chiedere asilo, ma saranno detenuti e deportati al più presto possibile verso il Ruanda o altri Paesi ritenuti «sicuri».
È la risposta di Londra a un’emergenza che ha visto nel 2022 l’arrivo sulle coste britanniche di oltre 45 mila persone a bordo di imbarcazioni di fortuna: una questione diventata rapidamente una priorità per l’opinione pubblica e una spina nel fianco per i governi conservatori.
Pertanto martedì 7 marzo il governo presenterà una legislazione che ha già scatenato le critiche dei gruppi per i diritti umani e che funzionari governativi ammettono essere «al limite» della legalità internazionale.
Decine di migliaia di persone potrebbero essere detenute in siti militari e il ministero dell’Interno avrà l’obbligo legale di deportarle «appena è ragionevolmente fattibile»: norme che si applicheranno anche alle famiglie e perfino ai minori non accompagnati.
Tutti gli immigrati illegali si vedranno inoltre comminare un bando a vita a tornare in Gran Bretagna e non potranno mai più ottenere la cittadinanza britannica.
[…]
Ma il Consiglio per i Rifugiati ha replicato che in questo modo decine di migliaia di profughi che avrebbero diritti all’asilo finiranno «ingabbiati come criminali» e che il piano del governo rappresenta una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati.
Secondo il Consiglio, due terzi dei migranti sbarcati lo scorso anno avrebbero diritto all’asilo: e infatti quasi tutti quelli arrivati da Afghanistan, Eritrea o Siria lo hanno ottenuto.
Già l’anno scorso il governo britannico aveva provato a deportare gli immigrati illegali in Ruanda, Paese col quale ha stretto un accordo in merito: ma i voli erano stati bloccati da un intervento all’ultimo minuto della Corte europea per i diritti umani. Adesso Sunak intende inserire nella nuova legge un «freno» alla giurisdizione della Corte: e l’ala destra del suo partito sta facendo pressione perché Londra si ritiri del tutto dalla Convenzione europea sui diritti umani.
La mossa del premier britannico va letta in chiave elettorale: dopo il successo ottenuto con l’accordo sull’Irlanda del Nord, Sunak intende scavare un solco con l’opposizione laburista, che resta saldamente in testa nei sondaggi.
L’immigrazione illegale è tornata in cima alle priorità dell’opinione pubblica, subito dopo l’economia e la sanità: e l’87% del pubblico ritiene che il governo stia gestendo male la questione. […]
(ANSA-AFP il 27 giugno 2023) - Razzismo e sessismo sono "profondamente radicati" nel cricket in Inghilterra e Galles, sostiene un rapporto indipendente pubblicato oggi, che lo descrive come "elitario" e chiuso alle classi lavoratrici. Il rapporto sul cricket - sport molto seguito nel Regno Unito e nelle ex colonie britanniche - era stato annunciato nel marzo 2021, dopo i movimenti Black Lives Matter e Me Too. In due anni sono state intervistate più di 4.000 persone.
"Il razzismo, la discriminazione sociale, l'elitarismo e il sessismo sono diffusi e profondamente radicati" nel cricket, ha affermato Cindy Butts, presidente della Commissione indipendente per l'equità nel cricket (ICEC). "La dura realtà è che il cricket non è un gioco per tutti". La metà degli intervistati ha affermato di essere stata discriminata negli ultimi cinque anni. Tra i pakistani e bengalesi che hanno risposto, l'87% afferma di aver subito discriminazioni (82% per gli indiani e 75% tra i neri).
Quanto alle donne, sono trattate come "cittadine di seconda classe", "subalterne" a tutti i livelli dello sport. "Se sei in una scuola pubblica, hai meno probabilità di avere accesso al cricket e progredire nel gioco rispetto ai tuoi compagni di scuola privata", afferma il rapporto. Il rapporto, in particolare, raccomanda la parità di reddito per i professionisti, uomini e donne, entro il 2030. Il presidente del cricket inglese e gallese Richard Thompson si è scusato "senza riserve", ed ha promesso che l'organizzazione "approfitterà di questo momento" per far ripartire il cricket da nuove basi.
È giusto discriminarmi? Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.
L’aviazione militare inglese si è imposta di assumere il 40 per cento di donne e neri, con ciò lasciando a terra dei piloti bravissimi che avevano il solo torto di essere maschi e bianchi. A denunciarlo non è stato un membro del KuKluxKlan, ma una donna, ufficiale dell’aviazione, preoccupata per lo scadimento qualitativo del suo reparto. È giusto discriminare una persona per il sesso e il colore della sua pelle, perpetuando uno schema consolidato, sia pure a sessi e colori invertiti? No, non è giusto. Ma potrebbe rivelarsi saggio, se davvero nei prossimi cinquant’anni vogliamo raggiungere l’obiettivo strategico di una società evoluta: l’eguaglianza dei punti di partenza.
Il maschio bianco ha goduto per millenni di condizioni di favore che lo rendono ancora adesso più preparato a occupare certi ruoli. Se però continua a occuparli solo lui, gli esclusi non potranno mai mettersi al suo livello. Come in tutte le cose, servono gradualità e buonsenso, ma per realizzare una giustizia domani, bisogna probabilmente commettere un’ingiustizia oggi. È fastidioso, lo riconosco, specie per chi appartiene alla categoria chiamata a compiere il momentaneo passo indietro. Finché essere maschi e bianchi era un privilegio, a noi sembrava l’ordine naturale: perciò ci sconvolge vederlo trasformarsi adesso in un sopruso. Ma forse è l’unico modo per arrivare, nel volgere di un paio di generazioni, a una società dove tutti abbiano le stesse opportunità e la parola «merito» acquisti finalmente un senso compiuto.
Estratto dell’articolo di Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 3 Febbraio 2023.
L’intento era lodevole, il risultato forse un po’ meno. La leggendaria Raf, la Royal Air Force, ossia l’aviazione militare britannica, è finita nella bufera perché si è scoperto che portava avanti una «discriminazione positiva» ai danni dei maschi bianchi: in pratica, pur di arruolare più donne e persone di colore, finiva per bocciare i candidati troppo pallidi e di sesso maschile, anche se erano i più qualificati.
Una politica che, secondo il presidente della Commissione Difesa di Westminster, Tobias Ellwwod, rischiava di avere «un impatto materiale sulla performance operativa della Raf»: in altre parole, di minarne la capacità di combattimento. Addirittura, la persona preposta al reclutamento, che pure era una donna, la capitana di squadrone Elisabeth Nicholl, si è dimessa per il suo disaccordo con queste pratiche, dopo aver identificato almeno 160 casi di discriminazione ai danni di maschi bianchi. […]
Il pregiudizio razziale dei buonisti. Si chiamano atti di discriminazione razziale, punibili per altro dalla legge Mancino. Luigi Mascheroni il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Si chiamano atti di discriminazione razziale, punibili per altro dalla legge Mancino. Tipo: penalizzare una categoria di persone per il sesso o il colore della pelle. Cose che accadono ancora, purtroppo; a volte in maniera strisciante, altre plateale. Ieri è successo sul Corriere della sera, in prima pagina, rubrica «Il caffè», firma: Massimo Gramellini, dunque la vetrina più bella del woke journalism in salsa Zan. Uno splendido esempio di come si voglia abbattere un pregiudizio razziale con un altro pregiudizio, sempre razziale. L'autore dell'articolo ha provato a giustificare la decisione della Raf, l'aviazione militare britannica, che si è imposta di assumere il 40% di donne e di neri, indipendente dalle capacità e dal valore, a scapito di piloti maschi, bianchi e bravi. Il ragionamento dell'articolo non è solo contorto - se vogliamo in futuro raggiungere l'uguaglianza del punto di partenza per tutti dobbiamo rinunciare ora a essere ugualitari, insomma meglio commettere un'ingiustizia oggi (cioè un atto razziale contro i bianchi) per realizzare una giustizia domani (cioè dare a tutti le stesse chance) - ma è anche terribilmente ideologico. Oltre che inconsapevolmente ironico: Gramellini per coerenza ora dovrebbe lasciare il posto di rubrichista e vicedirettore del Corriere a un giornalista meno bravo di lui e di tanti altri suoi colleghi, purché di colore, o donna, o entrambi, perché così nel volgere di un paio di generazioni le nuove leve di giornalisti avranno - forse - imparato a scrivere e le assunzioni al Corriere risponderanno a specchiati criteri di merito, senza più favorire maschi bianchi torinesi. Speriamo che il Cdr sia d'accordo. Sarà, ma l'idea di arruolare - in qualsiasi settore e professione - più donne e persone di colore finendo col bocciare i candidati di altro sesso o colore della pelle anche se più qualificati, non corrisponde precisamente alla nostra idea di progresso, né sociale né civile. Si potrebbe dire che l'articolo predicando la meritocrazia suggerisce che il metodo migliore sia selezionare per razza e genere sessuale (e chi lo firma è un giornalista razzista e sessista a sua insaputa). Si potrebbe obiettare che, secondo la stessa logica, è giusto mandare avanti chirurghi neri e donne anche se non bravissimi, così con un paio di decenni di macelleria operatoria conquisteremo una società che dà a tutti le stesse chance. O forse si può dire solo che l'eccesso di inclusività, come sempre, sfocia nel peggior fanatismo. Com'era la frase? «Se non vogliamo più il razzismo, serve più razzismo». Ecco.
Estratto dell’articolo di Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 3 Febbraio 2023.
L’intento era lodevole, il risultato forse un po’ meno. La leggendaria Raf, la Royal Air Force, ossia l’aviazione militare britannica, è finita nella bufera perché si è scoperto che portava avanti una «discriminazione positiva» ai danni dei maschi bianchi: in pratica, pur di arruolare più donne e persone di colore, finiva per bocciare i candidati troppo pallidi e di sesso maschile, anche se erano i più qualificati.
Una politica che, secondo il presidente della Commissione Difesa di Westminster, Tobias Ellwwod, rischiava di avere «un impatto materiale sulla performance operativa della Raf»: in altre parole, di minarne la capacità di combattimento. Addirittura, la persona preposta al reclutamento, che pure era una donna, la capitana di squadrone Elisabeth Nicholl, si è dimessa per il suo disaccordo con queste pratiche, dopo aver identificato almeno 160 casi di discriminazione ai danni di maschi bianchi. […]
Bufera Lineker, altri vip lasciano. La Bbc si scusa Ma il dg: "Resto". Storia di Redazione su Il Giornale
l’11 marzo 2023.
La Bbc si scusa ufficialmente ma il caso Lineker non si chiude, anzi, si allarga ancora. Dopo la cacciata dell'ex calciatore dalla Bbc, reo di aver criticato il governo per le politiche migratorie, è arrivata una reazione a catena con l'addio di molti volti noti all'emittente. Il direttore generale dell'emittente britannica Tim Davie, si è scusato con i contribuenti spiegando, che «il successo per me sarà riportare Gary in onda» ma che lui «assolutamente» non si dimetterà. Lineker, ex icona della nazionale inglese, conduceva «Match of the day», trasmissione di punta della rete andata in onda sabato per soli 20 minuti, senza alcun presentatore e senza i commenti degli altri ex Alan Shearer e Ian Wright. La Premier League, inoltre, ha stabilito che giocatori e allenatori evitassero le interviste con la Bbc, dopo che diversi giocatori avevano già fatto sapere di voler boicottare l'emittente, mentre altri avevano contattato il loro sindacato, la Professional Footballers Association (Pfa), per chiedere come gestire iniziative di solidarietà a Lineker.
Davie ha assicurato che «non c'è stato alcun assecondamento» nei confronti di alcun partito politico. «È stata una giornata difficile per noi ma stiamo lavorando duramente per risolvere la situazione». L'emittente è però sotto pressione. Il mondo del calcio e della tv si sono schierati al fianco di Lineker con il boicottaggio degli ex colleghi che ne chiedevano il reintegro immediato. L'hashtag #IStandWithGary è diventato virale anche sui social network con migliaia di persone che hanno dimostrato solidarietà al commentatore, amatissimo nel Regno Unito. Lineker, sotto contratto con l'emittente per un milione e mezzo di euro all'anno, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Le linee guida della Bbc varate nel 2020 richiedono «una responsabilità supplementare» nell'uso dei social per i presentatori di «alto profilo» ma ora tutti, si schierati con Lineker, e con il suo diritto di libertà di parola. «Sono orgoglioso del mio vecchio. Non dovresti scusarti di essere una brava persona e di rispettare la parola data», ha commentato invece il figlio George.
Chi è Gary Lineker, sospeso dalla Bbc per un tweet: il caso delle sue dichiarazioni, dall'inizio. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2023
Le scuse della televisione pubblica inglese al suo commentatore di punta, sospeso per aver paragonato in un tweet la politica sull’immigrazione del governo di Sunak alla Germania nazista: «Lavoriamo per riportarlo in onda, non verrà licenziato»
Il papà Barry faceva il fruttivendolo, come il nonno e il bisnonno. Ha lasciato la scuola dopo le medie: nel ’76 viene arruolato nelle giovanili del Leicester, la squadra della sua città. Ha 16 anni ancora da compiere, ma addomestica già il pallone con il tocco dei predestinati. Con la benedizione di Barry e Margaret, i genitori, abbandona rugby e cricket, gli sport dell’infanzia. Non è ancora The Great Linneck, e ci vorrà un po’ perché lo diventi: per nove anni Gary Lineker, il grande ex sospeso dalla Bbc per un tweet poco gradito sulle politiche conservatrici sull’immigrazione del governo di Rishi Sunak, è un dotato ma normale bomber di una squadra di provincia, può permettersi l’auto e la villetta a schiera nella periferia di Leicester, dove la città digrada verso la campagna. Non segna un gol a livello internazionale fino ai 24 anni, però poi non lo ferma più nessuno.
Con questo background alle spalle, figlio secondogenito di una famiglia operaia capace di imprimere a Gary una marcia in più battezzandolo Winston di secondo nome come Churchill (stesso giorno di nascita del primo ministro: 30 novembre), Lineker in quindici anni di carriera irreprensibile — mai un’espulsione, ma nemmeno un’ammonizione, se non è record poco ci manca — è diventato prima il calciatore più riconoscibile del Regno Unito e poi il commentatore televisivo più ascoltato e rispettato, talent di punta di Bbc con contratto milionario, giudizi rapidi e netti come lo stile con cui confezionava le reti (tante, 238 spalmate su cinque squadre da Leicester a Everton, dal Barcellona al Tottenham, inclusa una breve digressione finale in Giappone, a fare il bancomat presso i Nagoya Grampus: peccato veniale), quarto miglior marcatore di sempre (80 presenze, 48 reti) nella storia dell’Inghilterra dopo Rooney, Kane e il mito Charlton, il campione del mondo ‘66 che si rivedeva totalmente nello stile asciutto dell’erede, dotato di classe, agilità, tecnica sopraffina e di un’intelligenza calcistica superiore alla media, la dote che Linneck si è portato dietro il microfono.
IN INGHILTERRA
Caso Lineker, rivolta alla Bbc: niente sport in solidarietà con il grande ex
«Sono abbastanza equilibrato, molto poco umorale. Sono sempre lo stesso per la maggior parte del tempo: qualcuno potrebbe definirmi noioso» dice di sé Lineker in un’intervista al Guardian che cerca di smascherarne i difetti, senza trovarne di imperdonabili. «Il vero Gary è quello che vedi: nessuna malignità». Severo ma mai sgradevole (non ha risparmiato frecciate anche al Qatar, che si prese il Mondiale 2022 con la corruzione), ecco, in grado di criticare all’occorrenza aspramente però senza lanciare lame di cattiveria (tipiche, in certi ex frustrati e/o sdottoranti) sui calciatori, che lo apprezzano proprio per questo: non si sentono mai giudicati. Non è un caso che uno degli aneddoti preferiti da quando è passato dietro il microfono riguardi Pelé, che la trasmissione sportiva di punta della Bbc «Match of the Day» riuscì a portare in studio proprio in virtù della volontà della leggenda brasiliana di incontrare il capocannoniere del Mondiale ’86 (6 gol in Messico). L’abbraccio con O Rei commuove Gary alle lacrime: «Finalmente incontro il Grande Linneck» dice Pelé. «Per me fu come conoscere Elvis Presley» ricorda Lineker.
Con queste premesse non è difficile capire perché il tweet di Gary Lineker del 7 marzo scorso alle 14.25 ora di Londra («Accogliamo molti meno rifugiati di altri importanti Paesi europei, è una politica terribilmente crudele rivolta contro le persone più vulnerabili in un linguaggio non dissimile da quello della Germania negli anni 30»), che esprimeva l’opinione personale di un commentatore sportivo della televisione pubblica inglese, ha scatenato l’effetto domino che ha rischiato di provocare una crisi di governo. L’indignazione della Rete, la finta indifferenza del primo ministro Sunak («La questione non ci riguarda»), la sospensione di Lineker, la clamorosa onda di solidarietà dei colleghi, dei giocatori in attività, delle personalità del mondo del pallone inglese che, a partire da Ian Wright e Alan Shearer, si sono rifiutati di partecipare alle trasmissioni calcistiche della Bbc costringendo l’emittente a trasmettere musica al posto di immagini e parole.
In Italia sarebbe mai potuto succedere? No. La ragion di Stato innanzitutto; ciascuno per sé e per il proprio stipendio, e l’articolo 21 della Costituzione per tutti gli altri.
Non sono solo i sei gol in Messico o la tripletta al Real Madrid con la maglia blaugrana che gli permise di portarsi a casa il pallone del Clasico a corroborare il carisma che il maschio Alfa Gary Lineker si è portato in giro per i campi nel suo doppio ruolo, calciatore ed ex. È l’immagine specchiata di una carriera irreprensibile, attraversata a testa alta e palla al piede riuscendo a farsi rispettare da tutti gli avversari senza mai commettere un fallaccio da cartellino giallo (nemmeno uno), men che meno rosso, uno sgarbo, un accenno di lite. Autorevole nell’area di rigore dell’Europa e del mondo, senza bisogno di sgomitare. «Non sono mai stato il migliore calciatore — ammette Gary nell’intervista al Guardian —, ma per un ristretto numero di stagioni sono stato il miglior marcatore, e questo mi ha impresso nella memoria dei tifosi. Il passaggio dal calcio giocato al ritiro non è stato facile: in quella fase molti colleghi si perdono. Lo stipendio crolla, passi dall’essere famoso al non essere riconosciuto. La televisione mi ha aiutato a compensare: dietro un programma tv c’è una squadra, un capitano, un modulo da seguire. Quando si accende la lucetta rossa della telecamera, l’adrenalina scorre. Con il vantaggio che non ho più il problema di sbagliare un rigore gettando nella costernazione tutta l’Inghilterra...».
Tutta l’Inghilterra (o perlomeno gran parte) è con Gary Lineker. In difesa, prima ancora che dell’icona sportiva più rispettata ed amata, della libertà di opinione garantita dall’Human Rights Act. Il direttore generale della Bbc, Tim Davie, si è scusato con i contribuenti ammettendo che sabato è stata una «giornata difficile» per l’emittente e promettendo «di lavorare duramente per risolvere la situazione». Il comunicato stampa di Bbc è un’implicita ammissione di colpevolezza: «Il successo sarà riportare Gary in onda: non si dimetterà».
God bless the King, e tutti i censori del Regno.
Caso Lineker, la Bbc cede: l’ex campione sospeso tornerà in video. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2023.
L’ex icona della nazionale aveva perso l’incarico per le sue esternazioni con cui paragonava la politica migratoria del governo Sunak all’atteggiamento della Germania nazista anni Trenta
Accordo raggiunto fra la Bbc e Gary Lineker: tornerà in video l’ex campione della nazionale inglese, sospeso per aver paragonato le politiche sull’immigrazione del governo britannico alla Germania nazista. Le riprese del suo programma «Match of the Day» riprenderanno, dopo scuse della Bbc per l'episodio.
Il compromesso raggiunto con l'emittente prevedrebbe che Lineker sarà più cauto in futuro con le sue esternazioni, mentre la Bbc rivedrà le sue linee guida sull’imparzialità: ma è una soluzione gravida di conseguenze, perché ora l’emittente pubblica si trova col fianco scoperto di fronte alle accuse di mancata neutralità politica.
Good heavens, this is beyond awful. https://t.co/f0fTgWXBwp
— Gary Lineker (@GaryLineker) March 7, 2023
La Bbc è stata sostanzialmente costretta a cedere di fronte allo sciopero di solidarietà con Lineker lanciato dai principali conduttori sportivi: da due giorni i programmi andavano in onda senza commenti e la situazione stava diventando insostenibile.
Il direttore generale, Tim Davie, si è precipitato a Londra da Washington, dove si trovava, e si è immerso in “intensi negoziati” per tutto il weekend: che ora sembrano aver dato frutto. Tuttavia la crisi è tutt’altro che risolta: perché al suo cuore c’è la questione dell’imparzialità della Bbc, che è il suo marchio di fabbrica e la fonte della sua autorevolezza a livello mondiale.
Ai giornalisti dell’emittente pubblica è vietato esprimere qualsiasi opinione politica, per non compromettere la neutralità della Bbc: ma quando si tratta di un commentatore sportivo come Lineker, si entra in una zona grigia. Tuttavia l’ex campione è uno dei volti più riconoscibili (nonché il più pagato) della Bbc e dunque ci sono pochi dubbi che il suo tweet – giudicato da più parti grossolano e di cattivo gusto – abbia violato le linee guida dell’emittente.
Adesso la Bbc riscriverà queste regole, in modo da concedere più libertà ai conduttori di programmi sportivi e di intrattenimento. Ma c’è già chi si chiede: come si può giustificare il finanziamento pubblico, a spese dei contribuenti, se non ci si attiene a una rigorosa neutralità?
La Bbc è da tempo sotto attacco da parte della destra conservatrice, che la accusa di essere troppo sbilanciata a sinistra: rinunciando al dogma dell’imparzialità, scopre ora il fianco a chi vorrebbe tagliarle i fondi e ridimensionarla. E non si tratta solo di frange estreme: oggi il Times è uscito con un duro editoriale in cui si afferma che la Bbc avrebbe dovuto essere ancora più severa con Lineker e che se l’ex calciatore vuole fare uno show politico, dovrebbe andare in una tv commerciale, ma non lavorare nell’emittente pubblica. Quella che era cominciata come una tempesta su Twitter sta diventando una crisi esistenziale per la Bbc: come sopravvivere nell’era dei social media e della polarizzazione politica senza perdere la propria ragion d’essere? Il caso Lineker rischia di essere ricordato come l’inizio della fine della Bbc come l’abbiamo conosciuta finora.
Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” l’1 febbraio 2023.
Che tragico paradosso. Il Regno Unito è uno dei sette Paesi più ricchi e potenti al mondo […] Eppure, la povertà minorile dilaga: oggi sono 4,3 milioni i bambini poveri oltremanica, ossia 3 su 10, secondo l’associazione Children’s Society. E a causa di crisi energetica e inflazione, nel 2023 potrebbero arrivare a 5 milioni. Del resto, solo nel 2020 c’era stato un aumento del 107% di piccoli che le famiglie non riescono a sfamare.
[…] Nel giorno del terzo anniversario della concretizzazione definitiva della Brexit […] Si susseguono allarmi e segnalazioni di bambini che arrivano a scuola nervosi, indeboliti, con scarsa capacità di concentrazione, vestiti male, affamati. […]
Per insegnanti, associazioni e addetti ai lavori, è la tempesta perfetta: povertà crescente, inflazione al 9,5% e crisi energetica per 3 miliardi di euro di aggravio totale sui budget di scuole e istituzioni locali, un’economia più ingolfata di altre causa Brexit. Come ha scritto il Guardian , nel 2022 i bambini con diritto a pasti gratis a scuola (causa reddito familiare basso) sono stati ufficialmente 1,9 milioni, ossia il 22%. Nel 2019 erano il 15%. […]
Ma l’emergenza più grave resta nel depresso Nord, a Blackpool, nelle Midlands e alla stessa periferia di Manchester, dove addirittura il 40% dei bambini ha diritto a mangiare gratis a scuola. Per loro, tragicamente, è l’unico vero (e caldo) pasto della giornata. […] Per colmare il vuoto istituzionale, si muovono anche gli insegnanti: il 58% di loro, secondo il sindacato femminile Nasuwt (National Association of Schoolmasters Union of Women Teachers), ha donato cibo e vestiti agli studenti più disagiati. […]
Si attivano pure le stelle del calcio. Il più celebre e impegnato di tutti è l’attaccante del Manchester United, Marcus Rashford. Infanzia difficile («mamma non poteva comprarmi più di uno yogurt»), due anni fa ha costretto il governo Johnson a non ridurre la quota di pasti gratis ai bambini. […]
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it il 27 gennaio 2023.
Crolla il numero di studenti europei e italiani nel Regno Unito, addirittura di circa la metà nell’ultimo anno. Anche questo è un effetto della Brexit, di cui si attendeva solo la conferma ufficiale. Ora è arrivata, almeno a leggere i dati dell’istituto Higher Education Statistics Agency. Tra i Paesi più colpiti dall’esodo dalle ambite università inglesi e britanniche proprio l’Italia, la Germania e la Francia.
Dopo l’effettiva uscita di Londra dall’Ue il 31 dicembre 2020, l’anno 2021-2022 è stato il primo con il nuovo regime post Brexit, che scoraggia e limiterà sempre di più l’afflusso di studenti italiani ed europei nel Regno Unito. Questo perché adesso questi ultimi devono pagare le alte rette universitarie come tutti gli altri studenti stranieri extracomunitari, mentre prima della Brexit gli europei erano parificati a quelli britannici. Una grossa differenza: se prima si parlava di circa 10mila euro all’anno di tasse universitarie, ora, a meno che non si abbia una borsa di studio o accesso a un prestito universitario altrettanto complicato da Brexit, si arriva a una parcella fino a 45mila sterline per iscriversi agli atenei più prestigiosi oltremanica come Oxford e Cambridge.
A proposito di numeri, purtroppo sono eloquenti, come riporta il Guardian. Il numero di studenti europei che si sono iscritti a una laurea di primo livello o specialistica è sceso da 66.680 dell’anno 2020-2021 a 31mila nel 2021-2022: insomma oltre la metà di giovani Ue persi. Ancora peggio se vi va ad analizzare il numero di studenti della laurea di primo livello. Se due anni fa erano 37.530 gli iscritti europei ai corrispettivi delle lauree “triennali”, l’anno scorso sono stati soltanto 13.155, circa un terzo. Mentre per le lauree specialistiche, si è passati dai 24mila del 2017-2018 agli attuali 14mila e da 4.650 ricercatori europei a 2.260 di oggi.
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Ma se gli europei calano, schizza in alto il numero di studenti extracomunitari, soprattutto cinesi: se nel 2017-2018 erano 107mila, nel 2021-2022 sono diventati 151mila, con un aumento di circa il 50%. Insomma, gli studenti europei saranno sempre di meno, anche perché l’Erasmus non esiste più nel Regno Unito - Scozia a parte con alcune borse speciali.
De bello gaelico. L’indipendentismo scozzese era Nicola Sturgeon, ora deve sopravviverle. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 17 Febbraio 2023
L’annuncio delle dimissioni della prima ministra segna la fine di un’era nella contrapposizione con Londra. Sfumato l’obiettivo del nuovo referendum, il campo autonomista deve trovare una nuova strategia, mentre i laburisti sperano di avanzare alle prossime elezioni
Nicola Sturgeon è una di quelle leader con cui si finisce per identificare una causa politica. Sturgeon – soprattutto fuori dalla Scozia, nell’Inghilterra della Brexit malfunzionante o per l’opinione pubblica straniera – era l’indipendentismo scozzese. Lo impersonava. Per converso, la sua straordinaria popolarità ha giovato a quella battaglia e lo ha fatto a lungo. Il ciclo, secondo la prima ministra dimissionaria, è però arrivato al punto di rottura, quello in cui il volto più rappresentativo dell’autonomismo rischiava di nuocere all’obiettivo finale più di quanto non lo avvicinasse. Lascia il partito, lo Scottish National Party (Snp), in uno stallo simile: ha riposto nella secessione la sua ragion d’essere elettorale, cui deve i trionfi dell’ultimo decennio, senza interrogarsi sino in fondo sul “come” realizzarla.
Durante il discorso a Bute House, la residenza ufficiale, di mercoledì la premier ha dovuto combattere con le lacrime e l’emozione. Come il giorno prima, quando – così vogliono i retroscena – ha telefonato agli alleati di sempre. «C’è qualcosa che posso fare per farti cambiare idea?», le avrebbero chiesto. Niente da fare. La decisione era già presa. Forse è maturata contemplando la natura degli ultimi scatti sul profilo Instagram. Sulle Pentland Hills fuori Edimburgo, all’alba su Arthur’s Seat, l’antico vulcano vicino Holyrood, dove ha sede il Parlamento; sui rilievi delle Campsies, a Nord della terra natia. Gli aruspici da social, in quelle didascalie, intravedono una scelta sofferta. Gli editorialisti evocano Jacinda Ardern, il logorio del governo e la brutalità del potere, ma le stagioni politiche possono finire, anche senza avvisare.
Due referendum e cinque premier (inglesi)
Ne ha fatta di strada la ragazza di Irvine, sul mare, nell’Ayrshire. Si iscrive al partito a sedici anni. Tredici anni dopo è sconfitta nel collegio di Glasgow Govan, ma entra lo stesso a Holyrood grazie alla quota proporzionale dei seggi. Alle spalle ha già diverse sfide contro candidati considerati più forti, quando ancora i laburisti locali erano la prima forza della nazione. In quegli anni lo Snp è all’opposizione, di cui Sturgeon diventa capo nel 2004. Nello stesso anno è promossa vice degli autonomisti, in ticket con il suo mentore Alex Salmond, che la nomina vicepremier nell’esecutivo di minoranza del 2007. Ministra alla Sanità (2007-12) poi alle Infrastrutture (2012-14), nel 2014 il leader le assegna la campagna più importante, quella per il referendum d’indipendenza del 2014.
La secessione perderà alle urne: 55,3 per cento a 44,7 per cento. L’indipendenza è «una questione di quando, non di se», dice lei. Salmond si dimette e lei prende il suo posto. Alle politiche del 2015 si colorano del giallo dei nazionalisti cinquantasei dei cinquantanove seggi scozzesi a Westminster. Nel 2016, mentre l’Inghilterra vota per uscire dall’Unione europea, la Brexit resta minoritaria oltre il vallo di Adriano: il sessantadue per cento degli elettori sposa il «Remain». Edimburgo non si farà trascinare fuori dall’Ue contro la sua volontà, ammonisce la prima ministra. Da allora, organizzare un nuovo referendum d’indipendenza diventa la priorità di Sturgeon. Per i sei anni successivi, con la pausa della pandemia, il forcing di Edimburgo si concentrerà su questo punto. Invano.
Nel 2021 lo Snp si ferma a un seggio dalla maggioranza assoluta e la coalizione imbarca i Verdi. Un trionfo inutile. Quando, lo scorso autunno, la Corte suprema inglese ha negato al Parlamento scozzese l’autorità di indire un nuovo referendum, per cui serve l’assenso di Londra, la premier ha cambiato strategia. Avrebbe impugnato il risultato delle prossime elezioni, tra fine 2024 e inizio 2025, come «un referendum de facto». Alle ultime, nel dicembre 2019, il partito aveva intercettato il quarantacinque per cento dei consensi, terza forza di Westminster dopo conservatori e laburisti. Almeno nell’immediato, la linea dello scontro duro con la capitale potrebbe uscire di scena assieme a Sturgeon. Se ne va da più longeva premier – otto anni, tremila giorni – nonché prima donna a conquistare l’incarico. Era una costante nella politica britannica, contraltare all’instabilità delle faide dei Tories. A Downing Street sfilavano cinque ministri, lei continuava a regnare.
L’ultima domanda, i fondi scomparsi
Durante l’emergenza sanitaria del coronavirus, la sua gestione è stata più oculata dell’attendismo lassista di Boris Johnson. A capo di un partito condannato a vincere, ma non abbastanza da arrivare allo strappo decisivo, Sturgeon ha dovuto affrontare anche qualche scandalo domestico. Si è scontrata, scaricandolo, con il suo maestro Salmond, accusato di molestie sessuali (e poi assolto). Lui non le perdonerà il «tradimento» e fonderà una personale – e minuscola – sigla indipendentista, Alba Party. L’opposizione alla premier rimprovera comunque di non essere stata imparziale. La frattura ha indebolito il campo nazionalista, forse abbastanza da appannare il record di voti del 2021.
Nei grafici dei sondaggi, resta volatile il sostegno all’indipendenza, con sorpassi periodici di una o dell’altra posizione. Oggi il «sì» alla secessione è sotto, al quarantasette per cento; tra il gennaio e il novembre 2020, come lo scorso autunno, risultava invece maggioritario. Tra le ombre degli anni di Sturgeon c’è anche la presunta scomparsa di seicentomila sterline dalle casse del partito. L’amministratore di quelle finanze è Peter Murrel, suo marito. L’importo era stato raccolto attraverso donazioni tra il 2017 e il 2019, ma nel 2020 sui conti correnti risultavano solo 97mila sterline. A giugno 2021, Murrel ha «prestato» allo Snp 107mila sterline: notizia trapelata due mesi dopo. La polizia scozzese ha aperto un’indagine. L’ultima domanda della conferenza stampa dell’addio è stata proprio se gli inquirenti hanno interrogato la prima ministra. Lei ha rifiutato di rispondere.
Londra ha speso un veto anche sul «Gender Recognition Reform Bill» varato da Edimburgo. La proposta di riforma avrebbe consentito a chi ha più di sedici anni d’età di cambiare legalmente sesso senza bisogno di un consulto medico. Ha fatto rumore, nella cannibalizzazione dei tabloid, il caso di un uomo condannato per due stupri che avrebbe voluto avvalersi della norma per essere trasferito in una prigione femminile. Negli anni di Sturgeon, la Scozia si è distinta per leggi femministe, come la fornitura gratuita di assorbenti alle donne. L’annuncio delle sue dimissioni è stato festeggiato dall’ex presidente americano Donald Trump, che la ritiene un’esponente dell’ideologia woke: «Questa pazza di sinistra simbolizza tutte le cose sbagliate delle politiche dell’identità». Una medaglia postuma al suo operato.
Finisce un’era per l’indipendentismo
Non sono state le «pressioni di breve termine» a portarla alle dimissioni, insiste la prima ministra. In primavera lo Snp doveva celebrare un congresso per pronunciarsi sul «referendum di fatto», la classe dirigente ora propone di «mettere in pausa» quel discorso. Va scelto un successore, prima. Nella squadra di governo, sono considerati papabili la titolare dell’Economia, Kate Forbes, o Angus Robertson (Costituzione e Cultura). Altri nomi, come l’ex leader John Swinney, sono usato garantito, ma legati al passato. Stephen Flynn, capogruppo a Westminster, piace alla minoranza, ma ha al momento escluso di candidarsi.
In attesa che il vuoto, almeno mediatico, dell’addio si riempia, i laburisti sperano di riconquistare terreno. Avanzare in Scozia fa parte della strategia di Keir Starmer per vincere le prossime elezioni. La vera prova di maturità per gli orfani di Sturgeon sarà dimostrare – a differenza sua – di avere un “piano B” oltre al referendum. La rinuncia di una presenza ingombrante potrebbe facilitare un approccio diverso. Un nuovo inizio, insomma. Con i non più rimandabili chiarimenti su quale tipo di futuro desiderino i nazionalisti per la Scozia indipendente: quale moneta, quali rapporti con Londra, come gestire il problema di un confine con l’ex madrepatria (quello irrisolto in Irlanda del Nord dopo la Brexit, per capirci).
Nella partita a scacchi con il governo centrale, le scadenze perentorie fissate da Sturgeon sono state via via rinviate o disattese. Chiedere il permesso a Londra non era un’opzione, eppure se ne rispettavano i pronunciamenti. Chi verrà dopo di lei si troverà a gestire la stessa sfida, e le stesse aspettative, senza la stessa popolarità. Sarà più difficile mantenere le percentuali ipertrofiche, ma il mandato di Holyrood scade nel 2026. Non è enfasi giornalistica scrivere che la prima ministra ha segnato un «prima» e un «dopo» nell’indipendentismo scozzese. Al punto da far dubitare che possa sopravviverle.
L’Irlanda.
Sturgeon e la Scozia.
David Cameron.
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Nigel Farage.
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Johnson.
Sunak.
Michael Collins, la vera storia del rivoluzionario irlandese che sfidò il Regno Unito. Michael Collins è un film che porta sullo schermo la vera storia del rivoluzionario che inventò alcune strategie di guerriglia per l'indipendenza dell'Irlanda. Erika Pomella il 21 Agosto 2023 su Il Giornale.
Uscito nel 1996 e tratto da un'incredibile storia vera, Michael Collins è la pellicola diretta da Neil Jordan che va in onda questa sera alle 21.00 su Iris. Grazie alla sua interpretazione in questo film, Liam Neeson ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile al festival di Venezia del 1996.
Michael Collins, la trama
Michael Collins (Liam Neeson) è una figura di spicco della lotta dell'Irlanda per ottenere l'indipendenza dalla Gran Bretagna. L'anno è il 1916 e i "ribelli" irlandesi sono costretti a leccarsi le ferite dopo la sconfitta ottenuta in quella che è passata alla storia con il nome di Insurrezione di Pasqua. Michael Collins, che ha appena concluso la sua pena detentiva, capisce che per ottenere qualcosa bisogna cambiare strategia. Se si sfida apertamente l'impero britannico le possibilità di riuscita sono minime, proprio per la disparità tra le due realtà politiche. Così Collins comincia una stagione del terrore, tra omicidi di agenti inglesi e guerriglie urbane che, pochi anni dopo, convincono la Gran Bretagna a sedersi al tavolo per discutere un possibile compromesso. Per volere del presidente del suo partito (Alan Rickman), Michael Collins viaggia verso Londra. Tuttavia, il risultato delle negoziazioni porta gli indipendentisti irlandesi a voltargli le spalle, mentre il suo migliore amico (Aidan Quinn) lo rinnega dopo aver scoperto un cocente tradimento. Senza che ne sia quasi consapevole, Michael Collins diventa l'ago della bilancia di una guerra civile interna, dove la luce da seguire è sempre quella dell'indipendenza.
La vera storia dietro il film
La Storia, il più delle volte, è costruita non attraverso i grandi eserciti e le grande gesta epiche, ma attraverso l'azione continua e determinata di uomini che, pur senza averne piena consapevolezza, diventano simboli di un'epoca o di un luogo, o di un preciso momento storico. Michael Collins, classe 1890, rientra in questo gruppo di esseri umani che sono passati dall'essere persone a diventare personaggi. Come ha detto lo stesso regista in un'intervista riportata dal sito dell'Internet Movie Data Base, Michael Collins "ha sviluppato tecniche di guerriglia che successivamente sono state copiate dai movimenti indipendentisti di tutto il mondo." Allo stesso tempo, però, la sua figura è problematica, perché legata ad azioni violenti che potrebbero far pensare a lui come a un terrorista. E la sua storia personale, così come il suo percorso umano e politico, sembrano suggerire proprio la coesistenza di luci e ombre nella figura che ha combattuto per l'indipendenza irlandese, diventando però anche un personaggio scomodo, complesso e a tratti pericoloso. Come si legge su Britannica, nel 1906 si trasferì a Londra per lavorare come banchiere, sotto il giogo di un governo che sottometteva il popolo irlandese. Paradossalmente, fu proprio tra le strade lontinesi che l'uomo si avvicinò per la prima volta all'associazione segreta volta a dare indipendenza all'Irlanda. Questo incontro lo spinse, nel 1916, a tornare nella sua terra natìa per partecipare alle Insurrezioni di Pasqua: durante gli scontri l'uomo venne arrestato per poi passare lunghi mesi nel campo di prigionia e concentramento di Frongoch. Riacquistata la libertà nello stesso anno, nel mese di dicembre, quando il popolo e una piccola parte di cittadini inglesi, cominciò a riflettere e a seguire la causa degli indipendentisti irlandesi. Ben presto, grazie alle capacità organizzative e alle strategie belliche che rivoluzionarono il modo di combattere per l'indipendenza, Michael Collins salì nei ranghi del Sinn Féin, il partito repubblicano irlandese, e negli anni successivi ricoprì ruoli importanti e di potere anche all'interno dell'IRA. Fu una figura cardine della guerra d'indipendenza irlandese e arrivò ad essere la persona più ricercata dal governo britannico, che mise sulla sua testa una taglia di 10.000 sterline, una cifra astronomica se si pensa al valore della moneta a inizio Novecento rispetto al valore attuale. Solo nel 1921, dopo eventi sanguinaria come la Bloody Sunday, vennero avviate le negoziazioni che portarono la Gran Bretagna a rendere l'Irlanda uno stato libero, ma tale indipendenza era comunque legata a un giuramento di fedeltà alla corona inglese. Questo patto non piacque a molti repubblicani e ciò portò a una nuova guerra di indipendenza. Nel nuovo conflitto bellico Michael Collins assunse il ruolo di comandante dell'esercito, ma la sua posizione non durò a lungo. Il 22 agosto 1922 venne ucciso durante un'imboscata e, come riporta l'Irish Sun, il suo omicidio rimane uno dei misteri più fitti della storia del Novecento.
I fantasmi dei Troubles. COSA RESTA DEL CONFLITTO NORDIRLANDESE. Michela Ag Iaccarino il 12 Aprile 2023 su InSide Over.
L’ultimo confine dell’Unione europea è un paradosso invisibile. Se non esiste la frontiera tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord – ormai fuori dall’Ue dopo la Brexit-, è rimasta in piedi quella che divide le zone dei cattolici irlandesi e dei protestanti britannici all’interno delle città delle sei contee dell’isola che rimangono sotto il controllo di Londra. A Derry, i muri di Bogside – il quartiere cattolico dove avvenne la strage del Bloody Sunday – urlano ancora: sembrano stare in piedi solo per fare da cornice ai volti delle vittime degli scontri tra le due comunità. Tra le villette rosse a schiera, una dopo l’altra, uguali per chilometri, i ritratti degli hunger strikers – i prigionieri politici che si lasciarono morire di fame insieme all’icona degli eroi repubblicani, Bobby Sands – sono tutti sorridenti. Quei morti della guerra civile continuano a convivere con i vivi. Lutti e lotta, qui a nord, si imparano sin da piccoli.
Le scolaresche che inondano i corridoi del museo “Free Derry”, che commemora le vittime del Bloody Sunday, guardano mute la storia in bianco e nero sui muri. Piccoli alunni che studiano ogni giorno in aula in gaelico – non solo in inglese – alzano gli occhi verso striscioni, proiettili, molotov, fotografie della sanguinosa strage avvenuta il 30 gennaio del 1972. Accanto alle bende col sangue secco di quelli che Dublino considera suoi martiri, ci sono le giacche bucate dai proiettili che indossavano le vittime quel giorno. I bambini imparano parole nuove: segregazione, discriminazione, diritti civili, conflitto settario. C’è una parola che conoscono già, ma che avrà per sempre, dopo questa visita, un altro significato: Troubles, letteralmente “i guai”, i disordini iniziati negli anni ’60 per il conflitto nord-irlandese.
All’uscita del museo uno dei ragazzi di quelle foto in bianco e nero appare in carne e ossa: ha ormai i capelli bianchi e mezzo secolo in più. Da quella domenica del 1972, quando a 23 anni prese in braccio il cadavere di suo fratello 17enne trafitto dalle pallottole inglesi, si è presentato a tutti, sempre, usando la stessa frase: “Mi chiamo John Kelly, sono il fratello di Micheal Kelly”. “La guerra in Irlanda è finita” dice: “Tra qualche decennio torneremo ad essere una sola terra, ma avverrà con la battaglia politica, non più col sangue”. Se la giustizia a Derry non è ancora arrivata, non l’ha fatto nemmeno l’oblio: cinquant’anni dopo l’omicidio di Micheal, è stato riaperto il caso contro il suo assassino, “il soldato F.”, membro del corpo di paracadutisti britannici accusati di multiple stragi contro i civili irlandesi. In tv, a John, chiedono spesso se, dopo tutto questo tempo, è capace di perdonarlo e lui risponde sempre “non posso”.
Poco distante c’è l’associazione per il recupero dei veterani di quella rivoluzione. La gestisce l’alto, segaligno ex soldato dell’Ira, Don Browne. Racconta che da piccolo, tutto quello che desiderava, anche quando lo piegavano i crampi della fame, era un vestito da cowboy. Una notte di Natale, svegliandosi prima dei suoi 11 fratelli, il ragazzo di Derry troverà al buio il costume, ma con delusione scoprirà che non c’è la pistola. All’epoca non sapeva che negli anni a venire, per combattere per l’unione d’Irlanda, ne avrebbe impugnate a decine contro i lealisti. Ride: “la morale è questa: attento a quello che desideri”. La sua biografia è una storia irlandese: quando la madre lo abbandona a 10 anni in orfanotrofio perché i protestanti non le danno un lavoro, Don è costretto a mangiare il suo vomito se si lamenta. Si unisce all’Ira a soli 14 anni e, dopo dieci anni di pallottole, molotov, barricate e agguati, viene rinchiuso per 15 anni nella prigione-inferno del Crumlin, il carcere di massima sicurezza di Belfast dove rimase anche Sands prima di essere internato al Maze.
Nel retro dell’associazione Don ha ricostruito una cella identica a quella dove venivano rinchiusi sia civili innocenti che i paramilitari dell’Ira: le pareti sono color feci, quelle che i prigionieri politici usavano per costringere i secondini a vivere in un fetore nauseante insieme a loro. Quelle sono passate alla storia come le dirty protest, le proteste sporche, ma i muri potevano diventare pure lavagne, dice Don: “Chi era riuscito a studiare, insegnava agli altri a leggere e scrivere in cella”. Su ogni mano ha il tatuaggio di una fenice, l’uccello che risorge dalle ceneri. A Don di vite, e di anime, il destino ne ha imposte molteplici. “Io sono un lifer, uno di quelli che può tornare in prigione anche se non commette alcun crimine, in base all’atto di prevenzione del terrorismo”.
Parla dell’emendamento adottato negli infuocati ’70 dal Parlamento di Londra, quello che concedeva alle divise di arrestare chiunque senza prove: bastava solo un sospetto per un internamento a tempo indeterminato senza processo. Don è stato in guerra contro il nemico, ma ha dovuto pacificare prima di tutto sé stesso: “Una lady mi ha insegnato a fare yoga in galera, adesso insegno agli altri ex soldati a meditare. La guerra è alle spalle per me”. In retrospect, “In retrospettiva” è il titolo della sua biografia. La dedica dice: “Per aiutare i miei 4 figli a capire che nel tentativo di rendere il mondo un posto migliore, ho commesso degli errori”.
Tra le arcate affollate della cattedrale di Sant’Eugenio, tra i banchi non c’è più posto per inginocchiarsi mentre il prete parla di una delle più grandi crisi che affligge la gioventù di queste contee: “Fratelli, preghiamo per tutti quelli che combattono per la loro salute mentale”. Alla fine della messa, tra le pieghe delle parole e quelle della sua lunga tunica verde, il parroco prova a nascondere il timore di rilasciare dichiarazioni controverse: “God bless, il periodo delle divisioni è finito, collaboriamo con la chiesa dei protestanti che si trova qualche strada più in là”.
Ma non va tutto bene, non per tutti tutto è finito: ancora oggi molti finiscono in prigione per la causa nordirlandese. Condannato per possesso di esplosivo, nel retro di un locale dalla saracinesca abbassata, un gigante bruno racconta di una vita passata tra bombe e croci del martirio repubblicano. Sotto perenne controllo delle forze dell’ordine, non vuole foto, né che si registri sul taccuino il suo nome. Quando gli altri compagni di lotta hanno deposto le armi, lui ha scelto di non farlo. La rivoluzione per quelli come lui è unfinished, “non terminata”. Gli sforzi di tutti si uniscono, racconta, quando però c’è da sostenere le famiglie che, una dopo l’altra, qui intorno, stanno finendo in miseria: “la gente sceglie tra heat or eat, scaldarsi o mangiare. Distribuiamo aiuti e cibo, raccogliamo fondi”.
A Belfast, insieme alle Peace Lines – “le linee della pace”, chilometri di muri di cemento armato e filo spinato – ci sono ancora i cancelli dei check point che dividono le due zone. Rimangono immobili nel grigiore dagli anni ’60: sono aperti, ma non sono stati smantellati né sono arrugginiti; emanano la triste sensazione che prima o poi qualcuno ricomincerà ad usarli. Il confine esiste ancora, dice qualcuno: ma è fatto di carne e pensieri, abita nelle persone. Lungo i Falls, la strada di Belfast diventata simbolo della guerra, targhe, tombe e coccarde di fiori freschi commemorano molti dei 3500 morti che persero la vita contro i protestanti supportati dall’esercito britannico.
Lungo il limes della città, gli abitanti si tacciano di stragismo a vicenda, anche se le porte delle loro case distano poche centinaia di metri. Dal lato unionista si onorano i martiri dei monarchici, tutti in divisa, assieme alle stelle di Davide israeliane. I murales repubblicani sono dedicati alla Palestina, che vive una causa gemella di territori occupati in Medio Oriente. “Un mondo solo, una lotta sola”: ai Falls ci sono almeno 4 Ocalan e ad ogni angolo omaggi al suo Kurdistan. Il celebre murales di Bobby che sorride si staglia sulla facciata della sede dello Sinn Fein, il partito politico nato da un’ala dell’Ira: qui cattolicesimo vuol dire soprattutto causa socialista e lotta per i diritti dei lavoratori, negati per decenni agli irlandesi.
Ma è nel centro gentrificato della città che sui muri è dipinta una nuova emergenza: una gravissima crisi abitativa generata dal lavoro precario e tagli al welfare, un impoverimento che costringe sia cattolici che protestanti a finire per strada e morire di fame e gelo nella regione più povera della Gran Bretagna. Lauren – origini protestanti, cappellino all’indietro sulla testa fulva, pelle azzurrina per i tatuaggi che le coprono tutto il corpo fino alle palpebre – dice: “da piccoli, proprio come nella serie tv “Derry Girls” su Netflix, ci portavano nelle scuole dei cattolici per gli scambi culturali. Faceva parte del processo di pacificazione. Non avevamo mai visto un cattolico in vita nostra, pensavamo di incontrare degli alieni, invece scoprivano che quei bambini erano esattamente identici a noi. Ma oggi la questione non interessa più a nessuno”.
Lauren gestisce il Sailor’s grave (la tomba del marinaio), uno studio di tatuaggi. Più che gli accordi del Venerdì Santo – quelli che misero fine alla guerra 25 anni fa – ai ragazzi del centro interessano gli sconti che concedono ogni venerdì 13, quando le file per entrare al Sailor’s grave sono talmente lunghe che fanno il giro dell’isolato. Tutti appartengono alla generazione dei Cease fire babies, bambini del cessate il fuoco. Poiché la storia d’Irlanda è già sulla pelle della città – i muri- va cambiata sulla pelle dei suoi abitanti, dice Lauren.
Nel suo studio cattolici e protestanti lavorano insieme rispettando una sola regola: “Non si disegnano simboli di odio, altrimenti la violenza tra le due comunità non finirà mai”. Michela Ag Iaccarino
Raidió Fáilte.La battaglia della lingua gaelica in Irlanda del Nord. Matteo Castellucci su Linkiesta il 12 Aprile 2023
La storia della prima emittente che parla celtico, pirata fino al 2006, è quella dell’affrancamento culturale della regione. «I britannici non sono stati capaci di riconoscere la natura binazionale del nostro Paese», dice il fondatore a Linkiesta
Belfast. Una trasmissione clandestina, grazie a un apparecchio costruito da un amico. Nasce così Raidió Fáilte, la prima stazione in lingua gaelica dell’Irlanda del Nord. Era il giorno di San Patrizio del 1985, poi una valvola si rompe. Ripartono a novembre, per non fermarsi più. All’epoca l’irlandese era bandito, i fondatori l’hanno imparato nei corsi notturni, quasi carbonari. Oggi si studia a scuola: ma non in quelle protestanti, e in verità neppure in tutte quelle cattoliche. Dal 2006 la radio non è più «pirata», ha finalmente ottenuto una licenza che non certo è un punto d’arrivo. La sua storia è quella di una battaglia culturale, della questione linguistica nella regione, ma indica anche un futuro possibile.
«Andavamo in onda illegalmente – racconta a Linkiesta Eoghan Ó Néill, giornalista che ha animato anche un settimanale e un quotidiano in irlandese –. Ma non ci descrivevamo come pirati, è una parola che non usiamo perché poi la gente pensa ai profitti o che avessimo deciso noi l’illegalità. Non è stata una nostra scelta. Avremmo voluto essere legali, ma non c’erano modi per farlo. Non potevamo fare domanda per un’autorizzazione perché erano disponibili solo per chi aveva scopi commerciali e fino al 1996 in Gran Bretagna non esistevano norme per consentire le radio di comunità».
Dai quattro piani della nuova sede, inaugurata nel 2018 a West Belfast, si ammira tutta la città. I cancelli di metallo, aperti, che un tempo separavano i quartieri nazionalisti da quelli unionisti. Si vedono bene anche il tribunale e il vecchio carcere, lo distingui dalla ciminiera, dove venivano portati i prigionieri politici prima di essere tradotti a Long Kesh. Un tunnel li collegava. «Il nostro obiettivo era continuare a trasmettere. Non era facile durante i Troubles (è noto così il conflitto trentennale nel Paese, ndr), l’esercito britannico era sempre molto sospettoso».
Oltre all’antenna, c’è un gruppo di teatro e una libreria; si organizzano concerti e conferenze. Passano gli anni e cambia il contesto politico. Al censimento del 1991, il primo che include una domanda sulla lingua irlandese, dichiarano di parlarla decine di migliaia di nordirlandesi. Nel 2001, quando la masticano in centosessantasettemila, quel numero sale ancora e nel 2021 arriva a duecentoventottomila, cioè il 12,4 per cento degli abitanti. «Non era più possibile ignorare che ci fosse una domanda – spiega Ó Néill –. Nessun altro forniva un servizio ventiquattr’ore al giorno, magari la Bbc avrebbe offerto un paio di ore alla settimana».
Nel palazzo di Divis Street lavora una decina di persone, tra tecnici e giornalisti. I conduttori ruotano, alcuni sono volontari. Oltre a uno studio di registrazione musicale con vinili coloratissimi, ci sono salette dedicate al «training», così chi sogna di fare radio può fare pratica. In uno Stato che ha più di un secolo di vita, ancora non c’era una strategia per la promozione della lingua irlandese, perché a lungo considerata dalle autorità britanniche un addentellato della Repubblica a Sud. La comunità ha dovuto fare causa a Stormont, il Parlamento locale, perché ne venisse definita una.
Le scuole pubbliche, che incamerano la totalità dei fondi dal governo, sono protestanti. Lì il gaelico irlandese non si insegna. Quelle cattoliche ricevono sovvenzioni per circa l’ottantacinque per cento del loro bilancio, così mantengono una certa autonomia. Un terzo di loro prevede corsi, tra elementari e superiori. È una materia tra le altre, come può esserlo il francese. Solo in istituti specifici, le Gaelscoil, si studiano anche le altre discipline in lingua. C’è poi un quarto tipo di scuole, le «integrated schools», frequentato da studenti di ogni confessione. Stanno aumentando, ma sono ancora minoritarie: appena l’otto per cento degli alunni non ricade nel sistema educativo a compartimenti stagni.
È (anche) una questione politica. Malgrado gli ostacoli che tuttora incontra, l’importanza dell’irlandese è ormai generalmente riconosciuta nelle sei contee. In fondo, sono irlandesi i nomi degli uccelli e quello di Belfast, che significa «a Nord del fiume Farset», e la strada sotto la radio, Shankill Road, a ricordo di un’antica chiesa. Tra il 1924 e il 1931, i britannici riuscirono a far chiudere molte scuole negandogli i fondi. Quando nel 1988 un ministro di Stormont, Brian Mawhinney, ha cercato di vietarne l’insegnamento, c’è stata una rivolta della società civile. «I progressi della lingua negli ultimi cinquant’anni sono emblematici di quelli della comunità nazionalista», dice a Linkiesta Máirtín Ó Muilleoir, sindaco di Belfast tra il 2013 e il 2014.
«Quando ero piccolo, i nazionalisti non avevano diritto a una casa, o a un lavoro, gli veniva negato anche quello di votare. Ogni decennio, in troppi sono stati imprigionati senza un processo. Usciamo da un periodo di forte repressione e oppressione. Uno dei simboli dell’apertura della società è la crescita della lingua irlandese», dice l’ex ministro delle Finanze (2016-17) e deputato a Stormont per Sinn Féin. Ó Muilleoir teme che «gli elementi reazionari del Dup continueranno a cercare di ostacolare i progressi, di rendere l’irlandese non solo una lingua di seconda classe, ma una non lingua».
Se in Europa le minoranze linguistiche sono percepite come un tesoro da preservare, secondo Ó Muilleoir «il controllo britannico qui ha mantenuto una postura coloniale». Solo lo scorso dicembre, l’irlandese è assurto a lingua ufficiale della regione, assieme all’inglese. Un traguardo che ha lasciato sul terreno una battaglia politica. «Se la contesa settaria si è raffreddata, le culture wars sono bollenti», scriveva nel 2018 il Washington Post. A quel binomio – le guerre culturali, su cui l’America pareva ossessionarsi – ci saremmo abituati, al punto di cercarle anche quando non ci sono, nell’Italia strapaesana.
È recente anche un’altra “concessione” del Consiglio cittadino, in base alla quale adesso i residenti possono richiedere una segnaletica stradale bilingue. Pure in questo caso, il Dup era insorto, ma i suoi ricorsi legali si sono incagliati in un nulla di fatto. Le nuove regole prevedono la possibilità di candidare qualsiasi lingua, volendo anche il cinese o l’italiano. Basta la segnalazione di un abitante, ma poi serve il sostegno del quindici per cento del circondario perché approdi alla commissione municipale che se ne occupa. A West Belfast i cartelli bilingui sono comuni, c’erano anche prima.
Più ci si allontana dal centro, risalendo Falls Road, e più aumentano. A un lampione è appesa la locandina di un evento del National republican commemoration committee, sul logo ha un soldato che sventola il tricolore dell’Éire davanti a Stormont in fiamme. Poco oltre, c’è il Cultúrlann, un accogliente centro culturale. Sui trasporti pubblici, la voce registrata annuncia le fermate in doppia versione. Molto resta da smuovere, insomma, ma qualcosa si è già mosso. «Nessuno ci ha dato niente, ci siamo dovuti prendere tutto: siamo un movimento molto energico e positivo perché abbiamo dovuto costruire ogni cosa», puntualizza Ó Néill.
Senza un penny di fondi pubblici, lui e la sua comunità hanno messo in piedi una stazione radio e, per un periodo, un canale televisivo. Sulla fase dell’«illegalità» hanno coniato una formula meravigliosa: «Non eravamo illegali, ma pre-legal». In italiano sarebbe «pre legali». Cioè a difesa e rivendicazione di un diritto avvertito come tale, pure se lo Stato lo mortificava per legge o in sua assenza. «Non lo facciamo per essere separatisti. Non direi che siamo sempre stati in conflitto con le autorità, ma siamo molto cauti perché la nostra relazione con loro è stata spesso tesa. Se vogliamo che la lingua irlandese fiorisca, dobbiamo creare uno spazio per chi la parla».
Il fondatore di Raidió Fáilte tiene a sottolineare un aspetto dell’avventura. È un processo dal basso verso l’alto, non viceversa. Condivide un detto in gaelico: «Ná hAbair é, Dean é». Prende spunto dal cinismo popolare, ma al tempo stesso incarna lo spirito di una delle anime di questa terra. Significa: «Non dirlo, fallo». Chissà se la punchline della Nike l’ha inavvertitamente plagiato. Sull’anniversario di questi giorni, il venticinquesimo dell’Accordo del Venerdì Santo, Ó Néill riflette: «Penso che molti protestanti non si fidino della lingua irlandese perché, quando venne istituito lo Stato, alla popolazione venne detto che non aveva nulla a che fare con noi, ma era del Sud dell’isola».
«Essenzialmente, penso che i Troubles derivino dal fatto che i britannici, lo Stato qui a Nord, non erano capaci di riconoscere, né volevano farlo, la natura binazionale o biculturale del nostro Paese, un Paese bilingue», conclude il decano della radio. Gli scappa un «Bright», mentre in un inglese zoppicante formuliamo una domanda sul futuro. «Il futuro è sempre luminoso», sorride. È dal 1985 che Raidió Fáilte, ritagliandosi uno spazio tra i media, prova a tenere fede a quel detto in gaelico, sulla frequenza 107.1 di Belfast.
Il confine di Schrödinger. Gli ultimi muri da abbattere in Irlanda del Nord sono quelli che non si vedono. Matteo Castellucci su L’Inkiesta l’11 Aprile 2023
A venticinque anni dall’Accordo del Venerdì Santo che pacificò la regione, l’architettura istituzionale è ingessata su due blocchi, ma la società non lo è più. Una riforma è possibile per la generazione nata dopo il trattato
Belfast. In Irlanda del Nord, hanno scritto, c’è un «un confine di Schrödinger». Con la Brexit, che ha sfilato al mercato unico europeo il resto del Regno Unito, è risorta una frontiera che esiste oppure no a seconda di come la si guarda, un po’ come il gatto né-vivo-né-morto del paradosso del fisico austriaco. La politica è una scienza più cruenta della meccanica quantistica e a venticinque anni esatti dall’Accordo del Venerdì Santo che pacificò la regione, tra sporadici rigurgiti di lotta armata e il compromesso industriato da Londra con l’Ue, l’esperimento democratico nordirlandese continua.
Paralizzato nella sua architettura istituzionale, confessionale eppure meno settario del passato, nel faticoso e perenne tentativo di fare i conti con un’insepolta eredità di faide e sangue. Sono stati attutiti a Windsor i confini doganali sul mare, quelli su cui ci focalizziamo quando raccontiamo questa terra, ma ne rimangono di neppure tanto invisibili, nella società. I cancelloni di metallo che a Belfast separavano i quartieri protestanti da quelli cattolici oggi sono spalancati, restano i muri ricoperti da graffiti a ricordare quel passato che non passa.
Camminandoci trent’anni fa, avreste sentito il ronzio delle telecamere di sorveglianza. Invece dei blindati dell’esercito britannico, ora ci passano i tour sulla storia della città; spesso la guida è un ex prigioniero politico. Per la prima volta dal 2010, il livello di allerta per un attacco terroristico è stato alzato, da «sostanziale» a «severo». Le sigle minoritarie che non hanno deposto le armi, tra cui la Nuova Ira e sul fronte opposto l’Ulster Defence Association (Uda), potrebbero colpire durante la visita di Joe Biden. Il presidente atterrerà stasera: Downing Street ha inviato in Irlanda del Nord trecento poliziotti, attivando misure straordinarie di sicurezza da sette milioni di sterline.
Gli zii d’America
Gli Stati Uniti, con Bill Clinton, hanno officiato l’Accordo. Nel 1998 si sono chiusi tre decenni, conosciuti come «Troubles» (cioè disordini), costati tremilasettecento vittime e almeno dieci volte più feriti. Biden ha origini irlandesi, come più di trenta milioni di americani. Per capire quanto le senta – oltre a un viaggio del 2016 da vice di Obama – è istruttivo un giro sui social della Casa Bianca lo scorso San Patrizio, con la facciata colorata di verde e i trifogli nel taschino degli invitati. Uno degli effetti collaterali della Brexit, ha scritto la professoressa di Political sociology alla Queen’s University di Belfast Katy Hayward, è stato internazionalizzare il Good Friday Agreement.
Quando fu firmato, i contraenti erano «vicini amici e partner nell’Unione europea», recitava il trattato. «La cooperazione tra il Nord e il Sud dell’isola ha ovviamente risentito dal fatto che l’Irlanda del Nord non sia più dentro l’Unione. L’amministrazione americana ne è consapevole e desidera proteggere tutto questo», spiega Hayward a Linkiesta. Il protocollo raggiunto da Commissione europea e governo inglese, tra Ursula von der Leyen e Rishi Sunak, «è certamente un tentativo di stabilizzare la nazione e limitare i danni della Brexit», concorda David Mitchell, che coordina il corso Conflict Resolution and Reconciliation del Trinity College di Dublino.
Identity, not economy
Il Partito unionista democratico (Dup), che pure l’ha sostenuta, non si aspettava la Brexit. Come tutti. Un cronista del New York Times, decenni fa, ha definito quella lealista «una società più britannica dei britannici, di cui i britannici non si interessano affatto» (citazione scovata da Patrick Radden Keefe nel suo monumentale libro “Non dire niente”, edito da Mondadori). In un certo senso, è ancora così. Se gli ambienti imprenditoriali hanno apprezzato le concessioni ottenute da Sunak, per il principale partito unionista va aggiunta una variabile all’equazione.
«Il problema degli unionisti – ragiona Mitchell –, che si sentono appassionatamente britannici e non vogliono alcun cambiamento nel rapporto con il Regno Unito, è che non sono davvero interessati all’economia. Per loro è tutta una questione di identità». Deluso dal meccanismo (lo «Stormont Brake» dal nome del Parlamento di Belfast) per bloccare l’applicazione di future leggi europee alla nazione, il Dup si rifiuta di partecipare alla gestione collegiale del potere, prevista proprio dall’Accordo. Senza la collaborazione tra unionisti e nazionalisti, il governo è paralizzato.
È così, di fatto, dalle elezioni dello scorso maggio, vinte da Sinn Féin. In occasione della ricorrenza, il primo ministro ha strigliato gli unionisti, invitando l’Assemblea nordirlandese a riprendere i lavori. Non è la prima volta, però. Tra il 2017 e il 2020, i repubblicani hanno fatto lo stesso. Ricatti e rancori incrociati hanno inceppato il funzionamento della creatura politica concepita nel 1998. Anche se quel documento è mitizzato, e va protetto, è ormai avviato un dibattito sulla possibilità di aggiornarlo perché continui a resistere alla prova del tempo.
Aggiustare un testo sacro
«Al momento, le decisioni chiave devono essere prese su una base intracomunitaria», ricorda Hayward. In pratica, serve un sostegno bipartisan tra le formazioni nazionaliste e unioniste. Queste due famiglie, confessionali, si vedono attribuito così un peso maggiore di chi rifiuta l’etichetta: alla categoria esterna al bipolarismo («altro») sono assegnati solo diciotto seggi su novanta totali. Fuori dallo schematismo, la principale forza è Alliance, centrista, che chiede esplicitamente una riforma delle istituzioni.
Oltre ai Verdi, tra i nazionalisti il Partito socialdemocratico e laburista (Sdlp) ha aperto all’ipotesi. Per superare un Parlamento ingessato su due blocchi di fronte a una società che non lo è più, una possibilità sarebbe passare a un sistema con la maggioranza ponderata o qualificata. Qui si ripresenta lo stesso bug: «I due partiti più grandi devono concordare, quindi rinunciare al loro veto», dice Mitchell. Per la professoressa Hayward, «è ragionevole pensare che possa avvenire una volta ripristinata la condivisione del potere».
Due terzi degli intervistati nel Northern Ireland Life and Times Surveys (edizione 2021/2022, l’acronimo è Nilt) ritiene che il compromesso del 1998 sia la migliore piattaforma per governare la regione, ma per il 44 per cento di loro quel “testo sacro” ha bisogno di un tagliando.
Boicottaggio a orologeria
La strategia del Dup non pare sostenibile sul lungo periodo. Come ha scritto il Financial Times, «una delle ironie dell’Accordo del Venerdì Santo è che fu marchiato come una sconfitta per i repubblicani e una vittoria dei lealisti, tuttavia ciascuna delle fazioni si comporta come se fosse vero il contrario». Il sorpasso demografico dei cattolici sui protestanti (45,7 a 43,48 per cento) è già avvenuto, nel 2021. Non tutti i cattolici sono favorevoli alla riunificazione irlandese, ma il sabotaggio dei rivali potrebbe sovvertire gli equilibri.
«Più a lungo il Dup resterà fuori dall’esecutivo, più a lungo l’Irlanda del Nord sembrerà non funzionare ed essere ingovernabile. Ciò potrebbe rafforzare il sostegno tra i nazionalisti e chi vuole unirsi alla Repubblica», chiosa Mitchell. Uno Stato fallito non conviene a nessuno. Per questo, alla fine, gli unionisti potrebbero capitolare: sbloccare lo stallo, dentro le nuove regole concordate con Bruxelles, consoliderebbe la posizione delle sei contee dentro il Regno Unito.
Questo rientro, secondo il ricercatore, potrebbe avvenire in autunno. Prima, a maggio, ci sono le elezioni locali «e sotto le urne a nessuno piace fare compromessi». Nel frattempo, la presidente del Sinn Féin irlandese, Mary Lou McDonald, ha commemorato il venticinquesimo anniversario ricordando qual è l’obiettivo: «Abbiamo costruito la pace. Ora dobbiamo scrivere il prossimo capitolo: la riunificazione dell’Irlanda. Credo nei referendum nel prossimo decennio». La Brexit ha facilitato questo scenario, per il 63 per cento di chi ha risposto al Nilt.
Generazione Good Friday Agreement
È da quasi quindici anni che, nella stessa indagine demoscopica, la maggior parte degli intervistati (quattro su dieci) non si identifica né come nazionalista né come unionista. Anche nel censimento del 2021, una percentuale simile di persone esprime un’identità non binaria: né solo britannica, né solo irlandese. C’è una generazione nata dopo l’Accordo, che certa retorica vorrebbe imbalsamare. Una parte di loro altre priorità: le stesse dei suoi coetanei europei, come il cambiamento climatico o la salute mentale.
Un’altra parte è più ancorata al retaggio del passato. «I figli della working class condividono molte delle attitudini dei loro genitori. Sappiamo che numerosi dei componenti dei gruppi paramilitari sono molto giovani», riflette Mitchell. Sono aumentati i matrimoni misti, ma se un turista può circolare senza timori in tutta la capitale, cattolici e protestanti continuano a evitare i rispettivi quartieri. «Lavorano insieme, ma non socializzano», per dirla con il tassista che ci ha portato dall’aeroporto al centro.
«Il focus è stato sul confine con l’Irlanda perché simbolizzava le tensioni innescate dalla Brexit, ma sul lungo termine la cosa più importante è una migliore relazione: l’impegno a trovare soluzioni reciprocamente accettabili – conclude Hayward –. Perché il futuro dell’Irlanda del Nord, se sarà stabile o stravolta, dipende davvero da quella relazione e da quanto sarà stretta. Molti giovani sono frustrati, ma serve un governo funzionante per rispondere ai loro bisogni. Dopo venticinque anni, questo è preoccupante: per larga parte della sua vita, questa generazione non ha potuto beneficiare pienamente dei benefici dell’Accordo».
Anomalia lealista. Storia e contraddizioni degli Unionisti Nordirlandesi. Dario Trimarchi su L’Inkiesta l’8 Aprile 2023
Il Dup, principale partito protestante, contesta i nuovi accordi di Sunak con l’Ue e rifiuta di partecipare al governo di Belfast. Capire l’identità di questi ribelli rivela molto delle tensioni mai sopite nella regione, a ridosso del venticinquesimo anniversario dell’Accordo del Venerdì Santo
Il nuovo accordo del primo ministro inglese Rishi Sunak ha infiammato gli animi in Irlanda del Nord. La metafora non è casuale: se l’Ulster fosse un elemento, sarebbe il fuoco. Dalle bombe molotov lanciate contro le auto della polizia nei quartieri cattolici, fino ai falò alti trenta metri in cui i protestanti bruciano le immagini del Papa e le bandiere dell’Irlanda, l’Ulster è come una tanica di benzina circondata da scintille pronte a farla scoppiare.
In questo limbo infernale, sospeso fra Irlanda e Regno Unito, hanno prosperato i membri del Democratic Unionist Party (Dup), la principale forza politica della galassia protestante e unionista. Probabilmente li avrete sentiti nominare indirettamente. Sono gli «hard-liners» che non perdono occasione per fare da spina nel fianco al governo di turno chiedendo la «Brexit dura».
Sono insoddisfatti dello status quo dell’Irlanda del Nord, politicamente nel Regno Unito ma economicamente rimasta nel mercato europeo comune. Sunak ha provato a persuaderli ad accettare il compromesso attraverso il «Windsor Framework», l’accordo con l’Ue patrocinato (non a caso) da Re Carlo. E invece non è andata così.
Sì, perché gli unionisti del Dup sono difficili da inquadrare. Amano il Regno Unito, ma diffidano di Londra. Vogliono sottostare alle sue leggi, ma fanno di tutto per bloccarle. Parlano di «British Values», ma non si capisce fino in fondo a cosa si riferiscano. Sono «lealisti» ribelli, più spinti dalla repulsione verso ciò che è irlandese che da una vera comprensione di ciò che è britannico.
Confondono la cultura dell’Ulster, fatta di falò, marce, conservatorismo sociale e fanatismo religioso, con quella della madrepatria, ben più multiculturale, laica e progressista di quanto non amino ammettere. Vedono in Sunak e in tutti i primi ministri degli «English men» pronti a tramare con Dublino per liberarsi di Belfast.
E vedono nell’uso strumentale della monarchia, unica istituzione a cui restano davvero fedeli, un tentativo goffo di ottenere il loro consenso per un protocollo che non hanno intenzione di approvare e su cui non sono mai stati consultati se non a cose fatte (e se fossero stati coinvolti, probabilmente il loro sabotaggio avrebbe impedito un compromesso).
Ma esattamente, che cosa significa essere membro del Dup? Dal 1971 al 2008, significava essere seguaci del suo leader e fondatore: il reverendo Ian Paisley. Conosciuto come «Mr. No», Paisley è stato tante cose: un feroce animale politico, un predicatore fondamentalista, un esaltatore della violenza e, verso la fine della sua carriera, un insospettabile uomo di pace.
Sì, perché il Paisley che incitava ai pogrom contro i cattolici e fondava gruppi paramilitari, fu anche il Paisley che lasciò il mondo a bocca aperta accettando di formare un governo con Sinn Féin (il braccio politico della famigerata Ira) e con l’ex terrorista cattolico Martin McGuinness, di cui divenne anche amico.
Nonostante la successiva svolta pacifista, negli anni Settanta essere «paisleyani» significava appartenere alla frangia più estrema dell’unionismo. Paisley era riuscito a convincere gran parte della classe lavoratrice protestante del fatto che Londra stesse ordendo un complotto per regalare l’Ulster alla Repubblica d’Irlanda.
Con questo cospirazionismo imbevuto di fanatismo religioso, era riuscito a chiudere ogni spiraglio per la pace. Perfino Margaret Thatcher, che certo non può essere accusata di avere avuto simpatie secessioniste, divenne una delle vittime preferite degli attacchi di «Mr. No».
Paisley non era un uomo che amava misurare le parole: la sua spettacolare cacciata dal Parlamento europeo per aver urlato contro Papa Giovanni Paolo II «Sei l’Anticristo» ne è la dimostrazione. Non era neanche un uomo avvezzo alla moderazione e ai compromessi, basta sentire la sua retorica durante la campagna «Salviamo l’Ulster dalla Sodomia» per averne una chiara dimostrazione.
Poi venne la svolta pacifista, e con essa la scissione del Traditionalist Unionist Voice (Tuv), nato dalle fila del Dup ma ancora più estremista e reazionario (se possibile). Oggi il Dup rappresenta il partito protestante maggioritario e, sotto la guida di Sir Jeffrey Donaldson, blocca dal 2022 la formazione di un nuovo esecutivo, rifiutandosi di governare con gli avversari di Sinn Féin.
Il motivo? Da un lato l’insoddisfazione per una Brexit non abbastanza dura (ricordiamo che Paisley considerava l’Unione europea un complotto del Vaticano e il seggio 666 del Parlamento europeo come riservato all’Anticristo), dall’altro la paura di perdere voti in favore del Tuv. Del resto, il Dup ha fagocitato i partiti moderati proprio ponendosi all’estrema destra.
Dunque, la leadership conosce bene i rischi del farsi superare agli estremi, soprattutto in un contesto in cui i predicatori più fondamentalisti, i paramilitari ancora attivi e i commentatori radicali fanno ancora breccia nel cuore di quella working class protestante che sente di aver dato tutto ai cattolici, senza aver ricevuto nulla in cambio.
A Belfast venticinque anni dopo la pace soffia il vento dell’unificazione. Da Belfast Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
Robert, compagno di carcere di Bobby Sands: «Referendum entro la fine del decennio». Ma nella protestante Shankill Road la rassegnazione rischia di sfociare in rabbia
È IL 10 APRILE 1998, VENERDÌ SANTO: LA FIRMA DELL’ACCORDO DI PACE PER L’IRLANDA DEL NORD. A SINISTRA, LA FIRMA DEL PRIMO MINISTRO BRITANNICO TONY BLAIR; A DESTRA IL TAOISEACH IRLANDESE — SUO OMOLOGO — BERTIE AHERN.
Venticinque anni dopo gli accordi del Venerdì Santo l’Irlanda del Nord è in un limbo
GLI «ACCORDI DEL VENERDÌ SANTO» DEL 1998 TRA TONY BLAIR E L’ALLORA PREMIER IRLANDESE BERTIE AHERN CON IL SENATORE USA JOHN MITCHELL, SANCIVANO LA FINE DELLA VIOLENZA, RICONOSCENDO CHE LA MAGGIORANZA DEL POPOLO DELL’IRLANDA DEL NORD DESIDERAVA RIMANERE NEL REGNO UNITO, E CHE LA MAGGIORANZA DEL POPOLO DELLE DUE IRLANDE DESIDERAVA REALIZZARE UN’IRLANDA UNITA
L’Irlanda del Nord fu creata 101 anni fa come un luogo a maggioranza protestante. I cattolici? Di seconda classe
LUIGI IPPOLITO
La Terra di Mezzo trattiene il respiro: perché 25 anni dopo gli accordi del Venerdì Santo – siglati il 10 aprile del 1998 – l’Irlanda del Nord è ancora come sospesa in un limbo, a metà fra Gran Bretagna ed Europa, fra conflitto e pace, fra passato e futuro.
Oggi una catena umana per celebrare l’anniversario dell’intesa che mise fine a trent’anni di guerra civile si stenderà tra la cattolica Falls Road e la protestante Shankill Road, le due roccaforti dell’odio, i bastioni delle comunità in lotta: a separarle fisicamente c’è ancora un muro – che qui chiamano il Muro della Pace — l’ultimo rimasto in Europa, che ricorda anche fisicamente quello che divideva Berlino, con la barriera di cemento ricoperta di graffiti, il metallo e il filo spinato a sormontarlo.
«Grazie agli accordi ci pace mi sono potuto togliere il passamontagna», racconta Robert, un ex guerrigliero dell’Ira che si è fatto 12 anni di carcere per aver piazzato bombe nel centro di Belfast. «La nostra tattica è cambiata, ma l’obiettivo strategico resta lo stesso: la fine dell’occupazione britannica in Irlanda del Nord». Lui era uno dei compagni di prigionia di Bobby Sands, il martire icona dei nazionalisti repubblicani cattolici, morto per uno sciopero della fame nel 1981 nel carcere di massima sicurezza del Maze, il Labirinto: Robert racconta di essere entrato nell’ala giovanile dell’Ira a 14 anni ed essere passato nei ranghi militari dell’organizzazione a soli 17 anni. A 18 anni l’arresto, seguito da ben quattro anni di confino solitario: dopo il rilascio, a seguito degli accordi del Venerdì Santo, è diventato un attivista del Sinn Féin, il partito braccio politico ed erede dell’Ira.
La parabola di Robert è quella della guerriglia repubblicana, passata dalla lotta armata alla competizione elettorale: tanto che il Sinn Féin ha vinto le ultime elezioni politiche in Irlanda del Nord, l’anno scorso. Loro sanno che il vento della Storia soffia nelle loro vele: «Non sono mai stato così fiducioso che entro la fine di questo decennio avremo il referendum sulla riunificazione dell’Irlanda», assicura Robert, mentre ci accompagna lungo Falls Road, costellata dai celebri murales che inneggiano a Bobby Sands e decorata con bandiere irlandesi alle finestre e sugli usci delle case. L’ex guerrigliero è oggi impegnato a nutrire il dialogo e la cooperazione con la comunità protestante e può permettersi di apparire magnanimo: «Le milizie lealiste uccisero mio nonno», racconta, «ma adesso io stringo la mano al figlio dell’assassino».
Venerdì Santo 1998: i protagonisti
In alto a sinistra,: il negoziatore del Sinn Féin Martin McGuinness, che aveva rivendicato un incontro con Tony Blair: il Sinn Féin, braccio politico dell’Ira, era stato escluso da tutti i colloqui del processo di pace. In basso, i tre primi firmatari del trattato. Il Taoiseach Bertie Ahern, il senatore americano George Mitchell, il premier britannico Tony Blair. A destra , Bertie Ahern in attesa dell’arrivo del suo omologo britannico, davanti al castello di Dublino, l’11 aprile 2008 nei festeggiamenti per il decennale degli accordi
Per passare dall’altra parte si attraversa un cancello di ferro che chiamano Checkpoint Charlie, come nella Berlino della Guerra Fredda: qui l’estate scorsa si sono riaccesi gli scontri fra i giovani delle due comunità, a colpi di molotov e pietrate. Perché l’atmosfera che si respira nella protestante Shankill Road è di tutt’altro tono: «Io non sono irlandese, sono un uomo dell’Ulster che difende la sua britannicità», proclama Noel, un veterano delle milizie paramilitari lealiste che si è fatto 16 anni di galera dopo essere stato condannato a quattro ergastoli per una serie di omicidi. «Oggi so che era sbagliato», aggiunge, «ma ho ucciso i cattolici perché l’Ira non poteva fare quello che ha fatto senza il sostegno di tutta la loro comunità».
Noel si dice ormai rassegnato alla prospettiva di una Irlanda unita, «ma non credo», sospira, «che il Paese potrà mai essere veramente unito, dopo tutta quella violenza e il sangue versato». E soprattutto, sostiene, «noi protestanti dell’Ulster siamo stati traditi dai britannici e da Boris Johnson: lui non potrà mai dirmi cosa sono, io sono più britannico di lui!». Ed è questo senso di sconfitta, di essere finiti dalla parte sbagliata della storia, che si avverte lungo Shankill Road, che è tutta una Spoon River, un martirologio delle vittime dell’Ira: un sentimento di rassegnazione, ma anche di frustrazione pronto a sfociare in rabbia.
L’Irlanda del Nord venne creata 101 anni fa, dopo l’indipendenza della Repubblica d’Irlanda, per garantire una maggioranza permanente alla comunità protestante dell’isola: era in un certo senso l’ultima colonia dell’Impero britannico, un luogo in cui i cattolici avrebbero dovuto restare per sempre cittadini di seconda classe. Ma la spinta demografica portò alla crescita del sentimento cattolico-nazionalista, che guardava alla Repubblica d’Irlanda a sud, e lo scontro fra le due comunità divenne inevitabile: è quello che in Gran Bretagna chiamano con eufemismo i Troubles, i «disordini», nella realtà una guerra civile, scandita dagli attentati dei terroristi repubblicani dell’Ira e dalle ritorsioni dei paramilitari lealisti, che fece 3.500 morti, in maggioranza civili.
RIVOLTE A BELFAST, 1969: L’ESERCITO BRITANNICO IN ASSETTO ANTISOMMOSSA, CON MANGANELLI E MASCHERE ANTIGAS, INTERVIENE A SEDARLE
In Gran Bretagna li chiamano i «disordini», nella realtà fu una guerra civile che fece 3.500 morti. In maggioranza civili
AL FUNERALE DI BOBBY SANDS, MORTO IN CARCERE DI SCIOPERO DELLA FAME, TRE UOMINI DELL’IRA SPARANO IN ARIA IN SEGNO DI LUTTO. IN TESTA AL CORTEO FUNEBRE, DI FRONTE ALLA BARA, IL LEADER REPUBBLICANO GERRY ADAMS (CON LA BARBA NERA)
«Grazie agli accordi ci pace mi sono potuto togliere il passamontagna»
MARTINA ANDERSON, ULTIMA DELLE PRIGIONIERE DELL’IRA RILASCIATE A BELFAST AI SENSI DEGLI ACCORDI DI PACE, ABBRACCIA LA MADRE APPENA DOPO IL RILASCIO. AVREBBE DOVUTO TRASCORRERE L’INTERA VITA IN CARCERE. A DESTRA, LA SUA COMPAGNA DI CELLA ELLA O’DWYER, ANCHE LEI USCITA DI PRIGIONE
«Le milizie lealiste uccisero mio nonno. Oggi stringo la mano al figlio dell’assassino»
Fu il governo di Tony Blair, nel 1998, che riuscì a trovare una soluzione: l’Irlanda del Nord diventava una sorta di provincia condivisa fra Londra e Dublino, dove si poteva essere cittadini britannici o irlandesi o tutt’e due le cose, mentre le comunità protestante e cattolica accettavano di spartire il potere su un piano di parità. Un espediente, uno stratagemma che rinviava a un futuro remoto una scelta definitiva, ma che aveva senso nel momento in cui sia la Gran Bretagna sia l’Irlanda appartenevano all’Unione Europea e dunque ci si poteva sciogliere in un’identità sovranazionale.
L’uscita di Londra dall’Ue ha fatto crollare il castello di carte. S’imponeva una decisione, di qua o di là: proprio quanto gli accordi del Venerdì Santo volevano evitare. Il confine fra le due Irlande, di fatto sparito, diventava l’unica frontiera fisica tra Regno Unito e Unione Europea: e per evitare di riaprire la ferita, la cui ricomposizione era alla base degli accordi di pace, si è lasciata l’Irlanda del Nord nel mercato unico e creato di fatto un confine con la Gran Bretagna. Ma questo ha scatenato l’ira della comunità protestante, che si è vista staccata da Londra e abbandonata al destino di una riunificazione con la Repubblica cattolica di Dublino.
Il governo britannico di Rishi Sunak ha appena raggiunto un accordo con l’Unione Europea che mira proprio a venire incontro al disagio dei protestanti, ma loro non ne sono convinti e il loro partito unionista continua a boicottare per protesta le istituzioni di Belfast: «L’Irlanda del Nord è stata tradita da Johnson», dice Ian Paisley jr, il figlio di quel reverendo Paisley che fu il leader carismatico dei protestanti. «Boris aveva assicurato che non ci sarebbe stato un confine con la Gran Bretagna, invece ci hanno lasciato in una terra di nessuno, siamo diventati una zona di quarantena per l’Unione europea. L’eredità dei Troubles va ancora avanti, non è mai stata risolta dagli accordi del Venerdì Santo».
«No, la pace è solida, non era un accordo perfetto ma ha creato una atmosfera di positività», sostiene invece Michael Culbert, il direttore del Coiste, il comitato di sostegno degli ex prigionieri dell’Ira e anche lui ex membro della guerriglia. «Vogliamo convincere la gente con il referendum, dare assicurazioni ai lealisti che temono per la loro identità, non dovranno essere trattati come lo eravamo noi nazionalisti».
È in questo contesto che la prossima settimana arriva a Belfast il presidente americano Biden, per marcare il venticinquennale degli accordi di pace: «Ogni presidente Usa è sempre benvenuto», conclude sarcastico Paisley. «Ma Biden dovrà trovarsi qualcosa d’altro da celebrare».
VENTICINQUE ANNI DOPO GLI ACCORDI DI PACE, NON SI CANCELLANO LE OPERE DI ARTE MURALE CHE INNEGGIANO AI PARAMILITARI LEALISTI (SOPRA) O AI MEMBRI DELL’IRA
«Dopo Brexit siamo una zona di quarantena per l’Unione europea»
L’ALLORA PRESIDENTE DEL SINN FÉIN GERRY ADAMS, NEL 2017, SCATTA UN SELFIE CON VARI SOSTENITORI DAVANTI AL MURALE DI BOBBY SAND, MILITANTE DELL’IRA BOBBY SANDS MORTO DURANTE LO SCIOPERO DELLA FAME MENTE ERA RINCHIUSO NEL «LABIRINTO», IL CARCERE PER I TERRORISTI
UNO DEI TANTI MURALI LEALISTI CHE RESTANO PER LE STRADE DI BELFAST, 25 ANNI DOPO GLI ACCORDI DI PACE
A Belfast venticinque anni dopo la pace soffia il vento dell’unificazione
(ANSA l'11 giugno 2023) L'ex premier scozzese Nicola Sturgeon è stata arrestata dalla polizia che indaga sulle accuse di reati finanziari da parte dello Scottish National Party (Snp). Lo riporta il Guardian. Sturgeon, che si è dimessa da primo ministro e leader del Snp all'inizio di aprile, è la terza persona ad essere arrestata nell'ambito dell'operazione Branchform, l'indagine della polizia scozzese sulle accuse secondo cui più di 600.000 sterline in donazioni per una campagna indipendentista sono state distratte dalle casse del partito.
Il marito di Nicola Sturgeon, Peter Murrell, per 24 anni amministratore del Snp, era stato arrestato nella lora casa di Uddingston vicino a Glasgow il 5 aprile e rilasciato dopo 12 ore di interrogatorio. Anche Colin Beattie, tesoriere del partito, era stato fermato e interrogato nell'ambito della stessa inchiesta il 18 aprile e successivamente rilasciato in attesa di ulteriori indagini.
Secessione, ma non successione. L’indipendenza scozzese dipende ancora da Sturgeon (e dai suoi guai). Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023
L’ex prima ministra di Edimburgo è stata arrestata, e poi rilasciata senza accuse, per la vicenda della presunta distorsione dei fondi dello Scottish National Party. La nuova leadership è intrappolata in un caso su cui in passato ha minimizzato, ma nel Regno Unito la presunzione d’innocenza è rispettata
L’ultimo tweet di Nicola Sturgeon, un giorno prima dell’arresto e del rilascio, era per festeggiare d’aver superato l’esame teorico della patente. Nel suo primo editoriale dalle dimissioni da first minister raccontava proprio che finalmente stava imparando a guidare, poteva dedicarsi ai suoi affetti, tra le piccole gioie del ritiro da una vita pubblica così in vista, tutta tesa nello scontro con Londra, con cinque premier diversi, per l’indipendenza. A febbraio, quando l’ha lasciata, erano prevalenti le lacrime delle «motivazioni familiari».
Si era scritto della stanchezza, come Jacinda Ardern, e di una linea politica – considerare le prossime elezioni un «referendum di fatto» dopo che la Corte suprema inglese aveva negato a Edimburgo il potere di indire un nuovo referendum – non condivisa interamente dal partito. C’erano poi le indagini sui soldi dello Scottish National Party (Snp), ma restavano sullo sfondo. Si sarebbero sgonfiate, ripetevano le fonti ai giornali britannici. Il sospetto, ora, è che i guai giudiziari siano stati la motivazione principale del passo indietro, compiuto forse proprio nel tentativo di mettere al riparo la causa secessionista da una botta che potrebbe affossarla.
L’operazione Branchform
Domenica pomeriggio la polizia scozzese fa sapere di aver preso «in custodia» una «donna di cinquantadue anni». La donna in questione è Sturgeon, una delle politiche più influenti della storia recente, mediatizzata come “regina” di una nazione che non stampava neppure la compianta Elisabetta sulle sue banconote. Fa riflettere, abituati come siamo alla giustizia-spettacolo, che il comunicato eviti di strombazzare nomi e cognomi, a tutela della presunzione d’innocenza. Nel Regno Unito, l’identità dei sospettati resta protetta finché non vengono incriminanti formalmente.
Sono stati i media a risalire all’ex prima ministra, fino alla conferma del suo entourage. È la terza figura apicale dello Snp a venire arrestata e interrogata. Il primo è stato suo marito (sono sposati dal 2010) Peter Murrell, che dal 1999 fino a marzo di quest’anno è stato direttore generale del partito. A inizio aprile è stato ascoltato per undici ore, poi rilasciato senza accuse. Proprio come, due settimane dopo, il tesoriere Colin Beattie, poi dimessosi dal Parlamento locale.
A differenza loro, fermati senza preavviso, lo staff di Sturgeon precisa che lei ha concordato la deposizione con le forze dell’ordine. Si è sempre detta disposta a collaborare. Di Murrell, Beattie, Sturgeon sono le tre firme sui conti dello Snp. È sui suoi fondi che si basa l’operazione Branchform. Nota di colore, ma neppure tanto: i nomi delle operazioni poliziesche, in Scozia, sono casuali e non ammiccano all’oggetto delle indagini; l’opposto di quanto avviene nei nostri Paesi manettari dove le questure coniano titoli da blockbuster.
Qui non ci interessa parlare di cerchi magici, soffermarci sulla tenda forense blu comparsa durante le perquisizioni nel giardino della coppia, che si è trasferita fuori Glasgow per non dar fastidio ai vicini, né su quanto sia «lussuoso» il camper (valutazione sulle centomila sterline) sequestrato a Murrell fuori da casa di sua madre, a Dunfermline.
La presunta distrazione di fondi
In estrema sintesi, il caso è questo: le donazioni raccolte tra membri e simpatizzanti con lo scopo di organizzare la campagna per un nuovo referendum separatista sono state spese in un altro modo? Si parla di più di seicentomila sterline – la cifra luciferina di 666 mila, a voler essere precisi – raccolte nel 2017. A fine 2019, però, sui depositi intestati al partito risultano solo novantasette mila sterline, più altri asset per un valore di 272 mila sterline. A giugno 2021 il marito di Sturgeon fa un prestito di 107mila sterline allo Snp, per aiutarlo con «i flussi di cassa» dopo le elezioni in cui i nazionalisti hanno sfiorato la maggioranza assoluta.
È qui che si apre l’inchiesta, a luglio di due anni fa, anche sulla base delle lamentele di alcuni attivisti. Metà del finanziamento risulta restituito a ottobre 2022, ma un mese prima gli storici revisori dei conti del partito hanno interrotto l’incarico, però si saprà solo sette mesi dopo. Il 15 febbraio 2023 Sturgeon annuncia le dimissioni, diventate effettive a fine marzo con la scelta del nuovo leader, Humza Yousaf. In quella conferenza stampa, dice di sentire «nella mia testa e nel mio cuore» che è arrivato il momento di farsi da parte, ma non accetta domande sulle indagini. Rifiuta di rispondere.
Nel Regno Unito, va detto, vige il Contempt of Court Act del 1981: la stampa (per esempio la Bbc lo spiega chiaramente ai suoi lettori), ma anche i politici evitano accuratamente dichiarazioni che potrebbero influenzare un futuro processo. Si estende ai social, chi lo viola viene multato e rischia una condanna fino a due anni. Così nel racconto giornalistico si evitano le barricate tra innocentisti e colpevolisti tipiche dei talk nostrani.
La polizia aveva dodici ore per interrogare Sturgeon: ne ha usate sette (dalle 10.09 alle 17.24), poi l’ha rilasciata senza accuse. In base al Criminal Justice (Scotland) Act del 2016 i sospettati possono venire arrestati nuovamente in seguito, ma nel frattempo gli inquirenti devono raccogliere altre prove e presentarle al Crown Office and Procurator Fiscal Service, l’equivalente scozzese della procura. A questo ufficio i detective fanno rapporto e qui si decide se rimandare a giudizio un indagato. L’operazione Branchform non è ancora in questo stadio.
Il colpo per il partito e la sua battaglia
«Ovviamente, non posso scendere nei dettagli, ma voglio dire questo e farlo nei termini più forti possibili – ha scritto Sturgeon su Twitter –. L’innocenza non è solo una presunzione a cui mi dà diritto la legge. So oltre ogni dubbio di essere nei fatti innocente di ogni illecito». Dopo un paio di giorni di pausa, intende «tornare presto in Parlamento per rappresentare meglio che posso il mio collegio di Glasgow Southside».
In attesa degli eventuali sviluppi giudiziari, chi sta già pagando le conseguenze del trauma è lo Scottish National Party, già alle prese con una crisi di consensi. Proprio ieri mattina il nuovo segretario Yousaf prometteva di realizzare «l’indipendenza entro cinque anni». Poi è stato travolto dagli eventi. Ma qualcosa di simile avviene già da quando è stato scelto. Eletto sulla linea della continuità con Sturgeon, da mesi viene intercettato dalle telecamere solo per commenti su uno scandalo che ancora non esiste come tale, ma è alle sue prime – eventuali – battute.
Non sul programma, non sulla sua visione per la Scozia dove ancora lo Snp governa. È questo aspetto, quello di una vicenda che si trascina, a orologeria, sui tentativi del partito di sopravvivere alla sua leader più rappresentativa a minarne i tentativi di rilancio. Yousaf ha passato settimane a difendere l’ex prima ministra, con cui ancora si consiglia, invece di poter parlare del futuro della battaglia esistenziale dello Snp, anchilosato su un passato che non è neppure il sogno sfumato 55 a 45 nel 2014, ma la leadership precedente.
Così gli avversari hanno speculato. «Lo Snp è fagocitato da torbidità e caos», dice il fiduciario dei conservatori a Nord, Craig Hoy. «Per troppo a lungo è stato permesso di incancrenirsi a una cultura di segretezza e omertà al cuore dello Snp», rincara Ian Murray dei laburisti, che contano di sottrarre ai nazionalisti una ventina di seggi. Il partito si è spaccato: l’ex leader va sospesa? L’impressione è che, almeno nella percezione pubblica, l’ombra dell’arresto, con il suo danno d’immagine, si allungherà per mesi. Questo a prescindere da un eventuale processo.
La successione impossibile
È come se lo scambio di ruoli tra Yousaf e Sturgeon sia bloccato. Entrambi vorrebbero guardare avanti, ma sono costretti a fissare lo specchietto retrovisore, come nelle lezioni di guida della first minster più a lungo in carica. «Invece di affrontare il carovita, Westminster è consumata da questa soap opera di terz’ordine», twittava Yousaf venerdì, di fronte al vittimismo complottista di Boris Johnson che lascia il Parlamento per provare a riprendersi, prima o poi, il potere. Due giorni dopo sarebbe stata la Scozia a meritarsi i titoli a tutta pagina dei tabloid.
Per dirla con un mostro sacro della tv britannica, Robert Peston: «Non c’è mai stato un ribaltamento delle sorti così veloce o drastico come quello di Nicola Sturgeon. Penso non ci siano precedenti moderni in cui un ex leader così potente come lei venga tenuto “in custodia” dalla polizia. Solo poche settimane fa i suoi colleghi insistevano che fosse solo una tempesta in un bicchier d’acqua (l’inglese è migliore: «storm in teacup», ndr). Ciò non per supporre in alcun modo colpevolezza o innocenza, ma solo per mettere l’arresto in un contesto storico».
Cade la coppia più potente del Paese. Scozia, arrestato il marito dell’ex premier Sturgeon: l’inchiesta sull’uso improprio dei soldi donati al partito. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Un nuovo terremoto ha colpito questa mattina lo Scottish National Party, il partito indipendentista scozzese che per un decennio ha governato il Paese con la premier Nicola Sturgeon, dimessasi poche settimane fa e sostituita da Humza Yousaf, primo leader musulmano del partito e della nazione.
Peter Murrell, 58 anni, ex presidente del partito indipendentista e soprattutto marito della stessa Sturgeon, è stato arrestato dalla polizia nella sua abitazione poco fuori Glasgow, in un blitz a sorpresa mentre in casa era presente anche la mogli ed ex premier.
Una doppia caduta di una coppia che ha regnato incontrastata o quasi nel Paese per un decennio. Murrell sarebbe finito in manette con l’accusa di presunte irregolarità finanziarie all’interno del partito. Lo Scottish National Party era finito recentemente al centro di alcune inchieste della polizia scozzese, in particolare in merito all’utilizzo di un “tesoretto” di circa 600mila sterline in donazioni.
Stando agli investigatori scozzesi, quel denaro raccolto ufficialmente per indire un nuovo referendum sull’indipendenza del Paese, la grande battaglia di Sturgeon, sarebbe stato invece utilizzato per coprire i buchi di bilancio dello SNP e pagare anche le spese correnti della macchina organizzativa del partito.
Come sottolinea Repubblica, nei giorni scorsi Murrell era stato già coinvolto in un secondo caso spinoso, ovvero il calo degli iscritti al partito. Nel 2019, quando a Brexit ancora “fresca” il sentimento indipendentista degli scozzesi raggiunse il suo apice, gli iscritti allo Scottish National Party era erano 125mila, nel 2021 erano già scesi a 104mila. In due anni il dato ha subito un ulteriore tracollo: gli attuali membri dello SNP sono solo 72mila. Per questo Murrell, che tra l’altro inizialmente si era anche opposto alla pubblicazione dei dati, è stato costretto alle dimissioni.
La polizia scozzese ha compiuto diverse perquisizioni nell’abitazione di Murrell e Sturgeon a Glasgow e nella sede del partito a Edimburgo. Per il nuovo premier Humza Yousaf e il partito si tratta dell’ennesima mazzata e i sondaggi confermano che il sostegno agli indipendentisti è sempre più basso: in una recente rilevazione di YouGov per SkyNews solo il 39% degli intervistati sostiene la causa dell’indipendentismo, col 47 per cento invece contrario.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” - Estratti martedì 14 novembre 2023.
A volte ritornano: ma in maniera simile non succedeva da più di 50 anni. Bisogna risalire a Sir Alec Douglas-Home per trovare un primo ministro britannico che ricompaia nei ranghi del governo: l’aristocratico inglese era stato premier tra il 1963 e il ’64, per poi essere richiamato come ministro degli Esteri nel 1970.
La stessa cosa succede adesso a David Cameron: ma per metterlo a capo del Foreign Office è stato necessario nominarlo prima alla Camera dei Lord, perché lui ormai non era neppure più deputato e a Londra non si può sedere al governo se non si ricopre un incarico parlamentare.
Dunque Lord Cameron — come adesso bisognerà chiamarlo — diventa protagonista di una clamorosa rentrée , che ha lasciato il mondo politico britannico a bocca aperta. Lui nel 2010 aveva riportato i conservatori al governo, dopo 13 anni di regno laburista sotto Tony Blair e Gordon Brown, ma nel 2016 si era dimesso da premier dopo aver convocato e perso il referendum sulla Brexit, che lui avversava.
Già quella uscita di scena la diceva lunga sul suo carattere: lui aveva rotto il vaso, ma i cocci li aveva lasciati agli altri, dileguandosi prontamente.
D’altra parte per uno come lui, un patrizio uscito da Eton e Oxford, sposato con un’aristocratica figlia di un baronetto, la politica era poco più che uno sport, una partita di cricket: quando butta male, si fa un inchino e si esce di scena senza preoccuparsi delle conseguenze.
Ciò che ha stupito del richiamo in servizio di Cameron è il fatto che lui pareva essersi lasciato la politica alle spalle. Per qualche anno si è impegnato — pigramente — a scrivere le sue memorie, chiuso nel suo garden shed , la capanna nel giardino da lui convertita in loft dotato di ogni comfort.
Ma l’ex premier conservatore si è dato anche a iniziative più controverse: probabilmente invidioso del successo di Tony Blair, che è diventato multimilionario riciclandosi come consulente globale dei potenti, Cameron si è messo a fare il lobbista per aziende rivelatesi poi un po’ losche.
Inoltre, ha provato a dar vita a un fondo di investimento focalizzato sulla Cina, lui che aveva inaugurato una politica di avvicinamento a Pechino: ma anche questa impresa è finita in un buco nell’acqua, a causa del peggioramento dei rapporti fra l’Occidente e il regime cinese.
Per il resto Cameron in questi anni ha mantenuto il silenzio, a parte qualche intervista sul suo libro di memorie e qualche uscita per promuovere iniziative sulla disabilità, causa che gli sta a cuore dopo aver sofferto la morte a soli sei anni del suo figlio primogenito, nato con una grave forma di epilessia. Riportandolo al governo, Rishi Sunak orienta decisamente al centro il suo esecutivo: Cameron è un moderato che aveva fatto dei conservatori un partito abbastanza liberale, tanto da introdurre in Gran Bretagna, ad esempio, i matrimoni gay.
Ma il problema è che il suo lascito politico era abbastanza fallimentare e sono pochi quelli che lo rimpiangevano: per anni aveva provato a rinegoziare, senza successo, i rapporti della Gran Bretagna con l’Europa, finché non aveva deciso di sottoporre la questione a un referendum, con l’obiettivo di mettere la questione a tacere una volta per tutte. Cameron in quell’occasione peccò di hybris : nel 2014 aveva scommesso sul referendum per l’indipendenza della Scozia e aveva vinto, sconfiggendo i nazionalisti.
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Testo di Bill Emmott pubblicato da “la Stampa” martedì 14 novembre 2023.
Per catturare l'attenzione dell'opinione pubblica, tutti i Primi ministri ricorrono alle sorprese e nemmeno Rishi Sunak – il leader britannico per il quale la sicurezza viene prima di tutto il resto – fa eccezione. Con la nomina a segretario degli Esteri del suo predecessore dal 2010 al 2016, David Cameron, il Primo ministro Sunak si è garantito una copertura mediatica positiva, anche se disorientata, per il rimpasto di gabinetto necessario a fargli licenziare Suella Braverman, la sua ribelle Home Secretary (ministro degli Interni). Probabilmente, Cameron – dal temperamento molto regolare, a suo agio con la diplomazia – appare a Sunak come qualcuno che sorprende. La sua nomina, tuttavia, presenta anche alcuni svantaggi.
Dal punto di vista dell'ala destra filo-Brexit del Partito conservatore di Sunak, lo svantaggio principale di David Cameron è che come Primo ministro guidò la (disastrosa) campagna contro la Brexit del 2016. Quel gruppo di destra sospetterà anche che Cameron voglia far sì che la Gran Bretagna si avvicini ai suoi ex partner dell'Unione europea e questa, per loro, è tuttora una forma di tradimento.
D'altra parte, averlo come segretario degli Esteri non servirà a compiacere gli elettori filoeuropei, che lo ritengono ancora oggi responsabile della Brexit per aver indetto, e perso, quello che secondo molti nel 2016 è stato un referendum immotivato.
Oltretutto, molti altri esponenti del Partito conservatore pensano che da Primo ministro Cameron sia stato ingenuamente troppo filocinese, avendo detto all'epoca che le relazioni tra Regno Unito e Cina stavano per entrare in «un'epoca d'oro».
Infine, questa nomina è problematica anche dal punto di vista dello stesso Sunak. Nei dodici mesi da quando è in carica, ha cercato di presentarsi come l'incarnazione di un cambiamento di faccia e di approccio rispetto ai precedenti tredici anni di Primi ministri conservatori, giustificando questa pretesa di novità con la sua gioventù, la sua ascendenza etnica indiana e il fatto di essere stato sempre favorevole alla Brexit, fin dall'inizio. Di conseguenza, riportare in auge il vecchio volto di chi è stato Primo ministro per i primi sei di quei tredici anni nullifica alquanto il suo ragionamento.
Insomma, che Sunak abbia deciso di accettare questi svantaggi è una vera sorpresa. Il rischio più grande che corre – sommando il licenziamento dell'esponente dell'ala destra, ossia Suella Braverman che è contro l'immigrazione, alla nomina di David Cameron, un vero e proprio tuffo nel passato anti-Brexit – è quello di una spaccatura del Partito conservatore che possa costringerlo a indire le elezioni generali nella prima metà del 2024 invece che nell'ottobre 2024, come si aspetta la maggior parte degli esperti.
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Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it lunedì 14 agosto 2023
Perché Sir Tony Blair ha continuato a fare consulenze al principe ereditario e leader de facto dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, anche dopo l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi? E perché il suo think tank Institute for Global Change continua ancora a essere retribuito da Riad?
Sono domande che ha lanciato il Sunday Times, al quale l’ex primo ministro, nonché ultimo leader laburista a Downing Street, ha risposto. […]
Sin dal 2017, l'Institute for Global Change fornisce al regno saudita consulenze nell’ambito di Vision 2030, un programma di modernizzazione e riforme strutturali di Riad. Poi, però, il 2 ottobre 2018, Khashoggi viene ucciso nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia. Secondo la Cia, il mandante è proprio “Mbs”, ma il principe ereditario saudita smentisce, incolpando agenti dei servizi deviati.
In ogni caso, si pone presto il problema per Blair e il suo staff sull'eventualità di continuare o meno la collaborazione con i sauditi. Alla fine, decidono di non rinunciarvi. Perché, come afferma oggi un portavoce di Blair, nonostante “il tremendo crimine in questione, è stato deciso di non rompere i canali con Riad, vista l’immensa e positiva importanza delle riforme del principe ereditario e l’importanza strategica del Regno per l’Occidente. I recenti sforzi diplomatici degli Stati Uniti e altri Paesi occidentali con l’Arabia Saudita dimostrano che avevamo ragione”.
Questo aspetto non era ufficiale all’epoca degli eventi e oggi non si sa ancora quanto siano state retribuite quelle consulenze che continuano in altri settori, perché la policy dell’istituto è quella di non divulgare compensi e contratti.
Il Sunday Times ricorda che non è la prima volta che Blair, dopo aver abbandonato Downing Street nel 2007, viene criticato per consulenze controverse, anche mentre era ancora inviato per la pace in Medio Oriente.
Per esempio, con la sua allora creatura Tony Blair Associates, collaborò con le autocrazie di Egitto e Kazakhstan. Ma anche quando era ancora al potere, nel 2006, Blair venne accusato di bloccare un’inchiesta interna per presunta corruzione riguardo a un contratto multimiliardario tra Arabia Saudita e la BAE Systems, il cuore tecnologico britannico del nuovo progetto di caccia di nuova generazione Tempest di Italia, Regno Unito e Giappone.
[…] Come ha spiegato una recente inchiesta di Unherd, l'Institute for Global Change di Blair, che si definisce una “public benefit entity che fornisce prodotti e servizi per la collettività”, ha oggi uffici a New York, San Francisco, Abu Dhabi, Singapore e Accra, impiega 800 persone nel mondo con salari fino a 500mila euro all’anno e l’anno scorso ha fatto registrare un fatturato di circa 80 milioni di euro.
Non c’è una lista pubblica dei suoi finanziatori e dei suoi clienti, e Blair, anche se gira il mondo la maggior parte dell’anno per la causa, dice di non ricavarne nulla (a parte l’enorme esposizione e influenza globale). Di certo, tra i grandi finanziatori dell'Institute for Global Change, ci sarebbe Larry Ellison, il multimiliardario americano padrone di Oracle, gigante tecnologico che avrebbe versato nelle casse del think tank circa 300 milioni, secondo il Sunday Times.
Di certo, a differenza di altri ex primi ministri britannici, Tony Blair resta una figura centrale nella politica estera mondiale e per il ponte tra Occidente e Medio Oriente. Non a caso è uno degli architetti dei cosiddetti Accordi di Abramo, per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi del Golfo.
Ma anche nel Regno Unito, Blair incarna oggi una grande aura e influenza politica. Qualche settimana fa, nel festival del suo Institute for Global Change a Londra, ha pubblicamente incensato il leader del Labour, Sir Keir Starmer, a suo potenziale erede in vista delle elezioni 2024, dopo qualche riluttanza nei mesi scorsi. […]
La rete globale del «pensionato» Tony Blair: viaggi, politica, affari (e 800 dipendenti). Matteo Persivale su Il Corriere della Sera l'8 agosto 2023.
L’istituto dell’ex premier britannico fattura 81 milioni di dollari. E lui passa in viaggi di lavoro il 70 per cento dell’anno
Al contrario del fantasma dell’Amleto, Tony Blair non è condannato «a soffrire tra i tormenti di fiamme furibonde» finché «gli abominevoli crimini commessi nei giorni naturali non saranno purgati nel fuoco», ma lo spettro dell’ex primo ministro continua a passeggiare, invisibile ma sempre presente, nella sede del partito laburista a Blackfriars Road. L’uomo delle tre vittorie consecutive (1997, 2001, 2005), il laburista che archiviò diciott’anni di thatcherismo ha osservato silente le quattro sconfitte consecutive del Labour dopo di lui (2010, 2015, 2017, 2019) e l’inespugnabile «red wall» di collegi sicuri al centro-nord polverizzato a sorpresa dallo sgangherato bulldozer di Boris Johnson.
Considerato «radioattivo» dal partito per il volonteroso aiuto dato a George W. Bush nella disastrosa avventura irachena, Blair da buon workaholic ha passato gli anni della babypensione dorata a lavorare. Libri, discorsi, consulenze, la creazione di alcune nonprofit. Fino al 2017 e alla fusione di tutte le sue attività nel Tony Blair Institute for Global Change, che è diventato un’azienda vera e propria — «Tony Blair Incorporated» l’ha ribattezzata sarcastico il sito di commenti politici UnHerd.
Ottocento dipendenti, sedi sparse per il mondo (oltre al quartier generale di Londra: New York, San Francisco, Abu Dhabi, Singapore, Accra), un po’ pensatoio un po’ società di consulting, è capitanata da sir Tony che fresco 70enne passa in viaggi di lavoro il 70% dell’anno mantenendo viva la fitta rete di contatti creata nel decennio passato a Downing Street. L’istituto produce una quantità considerevole di policy papers, analisi strategiche, commenti all’attualità che vanno dalla geopolitica all’innovazione tech. Ma il notevole fatturato — nel 2021: 81 milioni di dollari, circa 74 milioni di euro — come si spiega? Quasi esclusivamente con le consulenze fornite a governi stranieri (non a quelli africani: per loro l’Istituto lavora gratis), il resto sono donazioni.
Gli ex primi ministri britannici, per tradizione, scelgono una pensione placida. Margaret Thatcher compariva alla Camera dei Lord, non rilasciava interviste, parlava col biografo ufficiale Charles Moore, e prima delle elezioni politiche scriveva un editoriale per l’amato Daily Telegraph concedendo il suo regale endorsement al candidato Tory di turno. Il suo successore John Major diventò presidente di una squadra di cricket. Gordon Brown? Ambasciatore speciale Onu. David Cameron? Lavori anonimi, come anonimo fu il suo lavoro a Downing Street (unico acuto, il malconsigliato referendum che fece uscire il Regno dall’Unione europea). Theresa May e Liz Truss sono ancora parlamentari, Boris Johnson scrive articoli di giornale e litiga con le autorità locali della sua casa in campagna per la costruzione di una piscina che disturberebbe i tritoni.
Ma Blair, con il fiuto politico che lo ha sempre contraddistinto, nel 2017 annusando l’ondata populista che travolgeva l’Occidente ha fuso tutte le sue attività nel Tbi, affrancandosi dalle accuse di affarismo e diventando ufficialmente influencer ma senza stipendio. Allora nel Labour comandava ancora la sinistra-sinistra di Jeremy Corbyn, attivista barricadero e pessimo candidato. Dopo la seconda sconfitta consecutiva i «Corbynistas» sono stati spodestati dalla tolda di comando del partito, e l’arrivo del pacato, cauto Keir Starmer ha fatto il resto.
Il mese scorso, Blair ha invitato Starmer a un convegno al Park Plaza Westminster Bridge Hotel, vista sul Parlamento. L’ha abbracciato, e senza mezzi termini né scaramanzia — i sondaggi dicono che oggi Starmer batterebbe il premier conservatore Rishi Sunak 45 a 26 — gli ha detto «erediterai una situazione bruttissima». Starmer ha sorriso e — forte del fatto che un elettore su due non sa bene come la pensi ma probabilmente voterebbe comunque per lui, visto lo sfascio degli attuali Tories — ha detto che «la nazione ha bisogno di tre cose: crescita, crescita, crescita». Il vecchio mantra di Blair.
La pioggia di soldi e il database sulle vaccinazioni: gli affari di Tony Blair. Nuovi finanziamenti milionari per il Tony Blair Istitute. La fondazione dell'ex leader laburista riceverà 49 milioni di dollari dal magnate di Oracle, in aggiunta ai 33 già versati per un database sulle vaccinazioni. Marco Leardi il 10 Agosto 2023 su Il Giornale.
I progetti umanitari e d'ispirazione filantropica richiedono risorse, soprattutto economiche. Così, una nuova pioggia di donazioni milionarie è pronta a riversarsi nelle casse del Tony Blair Institute (Tbi) di Londra, l'organismo no-profit creato alla fine del 2016 dall'ex premier britannico. Per il fu leader laburista, la guida del suddetto istituto è diventata un vero e proprio impegno a tempo pieno, tra viaggi, progetti e consulenze a peso d'oro dispensate e politici e governi. Un'attività che invece non sembra richiedere particolare fatica all'ex inquilino di Downing Street è quella di trovare importanti investitori interessati alle iniziative dell'istituto. Tra i principali finanziatori della fondazione, infatti, c'è ad esempio il magnate della tecnologia statunitense nonché fondatore di Oracle, Larry Ellison.
Il database per le vaccinazioni in Africa
Secondo quanto appreso e riportato dal Times, l'imprenditore statunitense, leader del settore tecnologico, si è impegnato a donare 49 milioni di dollari al Tony Blair Istitute per il futuro. Cifra che andrebbe ad aggiungersi a una donazione record stanziata - sempre secondo il quotidiano britannico - nel 2021. Stando agli ultimi bilanci, Ellison in quell'anno diventò il maggior finanziatore del Tbi: al Times risulta infatti che in quell'occasione il fondatore di Oracle, principale colosso mondiale del software coinvolto in passato pure in attività di successo in ambito velistico, abbia versato 33 milioni dollari. In base a quanto dichiarato, quei fondi erano destinati a finanziare una partnership per la creazione di un database sulle campagne di vaccinazioni realizzate in alcuni Paesi dell'Africa per febbre gialla, papillomavirus (HPV), poliomelite, morbillo.
Già nel 2020, il Tony Blair Institute e Oracle avevano comunicato attraverso i loro canali ufficiali di aver portato la tecnologia cloud in Africa per gestire i programmi di salute pubblica. "Oracle Health Management System crea una cartella clinica elettronica in un database cloud per ogni persona che viene vaccinata. Questo sistema altamente sicuro può essere rapidamente configurato per interagire con la tecnologia esistente in ciascun Paese e soddisfare i requisiti più severi di sovranità dei dati. I Paesi partecipanti avranno accesso e supporto per il sistema, gratuitamente, per i prossimi dieci anni", si leggeva in una nota della multinazionale guidata da Ellison. Lo stesso Blair aveva espresso la propria soddisfazione: "Questa è un'iniziativa immensamente eccitante e potenzialmente innovativa per la registrazione di informazioni su tutte le vaccinazioni e i trattamenti per le malattie nelle nazioni africane".
Il nuovo finanziamento milionario
Per il futuro, il magnate statunitense si è impegnato a donare ulteriori 49 milioni all'istituto dell'ex leader laburista per scopi al momento non precisati. Il Times, che ha approfondito l'argomento, non mette in discussione la legalità dell'operazione ma sottolinea come Oracle sia diventato un fornitore chiave di tecnologia per il governo di Sua Maestà in forza di un contratto firmato proprio negli anni in cui Blair era primo ministro. Tale contratto sarebbe poi stato ereditato dai successivi governi Tory per la gestione di servizi informatici di cloud usati ancora oggi dai computer dell'ufficio di gabinetto. Tra progetti umanitari, affari e passione politica, qualcuno fa notare come l'ex leader laburista sia tutt'altro che distratto rispetto alle vicende politiche del Regno Unito, come dimostrano le sue aperture all'attuale esponente del partito Keir Starmer.
Estratto dell'articolo di Erica Orsini per “il Giornale” giovedì 20 luglio 2023.
Può una banca chiudere il conto di un proprio cliente a causa della sua visione politica? Se quel cliente si chiama Nigel Farage, può. O almeno, questo è quello che è accaduto, come ha rivelato ieri lo stesso Farage al Daily Telegraph dopo essere venuto in possesso di un documento riservato. La vicenda risale a qualche settimana fa, ma allora altri media avevano dato una spiegazione diversa del caso.
All’inizio di luglio infatti sia la BBC che il Financial Times avevano sostenuto che le ragioni per cui la banca in questione, Coutts, aveva chiuso il conto del leader dell’Ukip, erano squisitamente finanziarie.
Secondo le fonti citate da BBC infatti, Farage non sarebbe stato abbastanza ricco da potersi permettere un’apertura di credito presso l’istituto bancario. Al contrario, nel documento richiesto ed ottenuto dal politico indipendentista, si evince chiaramente che il cliente possedeva tutti i requisiti finanziari richiesti. La sua visione politica però «non era allineata ai valori della banca», per cui la commissione incaricata di valutare il rischio «reputazionale» costituito dall’averlo come cliente aveva bocciato mister Farage.
Nella spiegazione dettagliata della motivazione che aveva condotto ad una simile decisione venivano riportati i suoi commenti sulla Brexit, la sua amicizia con Donald Trump, la sua posizione nei confronti dei diritti delle persone LGBT e persino i suoi rapporti amichevoli con il campione di tennis serbo Novak Djokovic. Ieri, dalle colonne del Daily Telegraph il leader politico ha accusato l’istituto bancario di aver mentito sulle reali ragioni che hanno portato alla sua esclusione, sostenendo che i motivi sono invece di natura politica. Farage descrive il documento come «un rapporto in stile Stasi» dove la parola Brexit ricorre 86 volte.
«Tra il 2014 e il 2016 - afferma- non ho mai avuto problemi con Coutts. Dopo Brexit è tutto è cambiato». Benché la commissione abbia smentito che Farage sia stato escluso in quanto politicamente non adatto, lui racconta che nel rapporto viene visto come un soggetto «xenofobo e razzista», una persona che ai tempi della scuola era un «fascista» e che «in passato aveva fatto delle affermazioni di cattivo gusto e non conformi rispetto alla società attuale». «Questo dossier assomiglia più ad un rapporto pre-processuale in un caso contro un criminale sostiene Farage - i miei social media sono stati monitorati per mesi. Qualsiasi cosa considerata problematica è stata registrata».
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Estratto dell'articolo di Valerio Benedetti per “la Verità” giovedì 27 luglio 2023.
Una brutta storia, almeno stavolta, ha avuto un lieto fine. Nigel Farage, il grande mattatore della Brexit, ha ottenuto giustizia dopo che la sua banca gli aveva chiuso il conto corrente per le sue idee politiche.
Questa vicenda orwelliana ha avuto inizio una decina di giorni fa, quando l’istituto di credito Coutts, che fa parte del gruppo NatWest, ha comunicato al politico britannico la propria decisione di «debankarlo», ossia di chiudergli unilateralmente il conto. Le motivazioni della banca, formalizzate in un documento interno di circa 40 pagine, poi reso integralmente pubblico dal Daily Mail, erano raggelanti: nel dossier, infatti, la Coutts spiegava che l’ex leader del Brexit Party sarebbe considerato da molti un «truffatore» che sostiene «posizioni xenofobe, scioviniste e razziste». Inoltre, gli venivano imputati i suoi rapporti di amicizia con l’ex presidente americano Donald Trump e con il tennista serbo Novak Djokovic, accusato di essere un no vax.
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Ma c’è di peggio: a inizio luglio Simon Jack, un giornalista della Bbc, aveva scritto in un articolo che alla base della chiusura del conto di Farage non ci sarebbero state le sue idee politiche, bensì sue presunte difficoltà finanziarie. In pratica, l’ex leader della Brexit sarebbe stato al verde. La notizia, aveva aggiunto il giornalista, si fondava su una fonte informata e attendibile. Peccato solo che, a distanza di due settimane, la Bbc abbia dovuto porgere pubblicamente le sue scuse a Farage, specificando che l’articolo di Jack «non era accurato».
L’altro ieri sera, infine, si è scoperta la verità: a passare l’informazione (falsa) all’emittente di Stato era stata Alison Rose, cioè l’amministratore delegato della NatWest in persona. Ed è stata la Rose stessa ad ammettere il fattaccio, scusandosi con Farage e parlando di un fraintendimento tra lei e il giornalista della Bbc. Tra l’altro, avendo violato la riservatezza di un cliente, l’ad si è vista costretta a rassegnare le dimissioni. Una volta scoppiato lo scandalo, le azioni della NatWest sono crollate del 3%, mandando in fumo centinaia di milioni di sterline. A quanto pare, almeno in Gran Bretagna, essere woke non paga più tanto bene.
Così la Thatcher salvò la "malata" Inghilterra. Nicola Porro su Il Giornale il 30 Aprile 2023
Aveva ragione Antonio Martino. Nell'ultima intervista si disse ottimista: «Ci sono tanti liberali in giro, più di quanti ce ne fossero quando iniziai la mia carriera universitaria e più di quanti circolassero in Italia negli anni '80». È stato merito di Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, e collega giornalista, ricordare in un bell'incontro alla Camera dei deputati i dieci anni della morte di Margaret Thatcher. E proprio in quell'occasione ha svolto un discorso introduttivo il professor Cosimo Magazzino, docente di politica economia alla Terza università di Roma. Liberali che meritano questa rubrichetta. È suo il saggio La politica economica di Margaret Thatcher (Franco Angeli), con una deliziosa e come sempre intelligente prefazione del compianto Francesco Forte.
Magazzino è un economista liberale: uno dei pochi che spiega il decennio di governo della Thatcher senza le lenti del pregiudizio. La sua monografia è un testo prezioso. Nel primo capitolo, giustamente, si occupa del Regno unito negli anni precedenti alla Thatcher: era considerata, l'Inghilterra, il grande malato d'Europa. I governi conservatori di Edward Heath e quelli laburisti che seguirono non riuscirono a fermare il declino fatto di disoccupazione, crescita ridotta, bassa produttività e altissima inflazione. Nel terzo capitolo si descrive l'isola rinata dopo le politiche della Lady di Ferro.
Il decennio della Thatcher è sezionato attraverso le tre legislature, caso unico della storia del Regno Unito, governate dalla stessa premier. È il cuore del libro. In cui si mischiano racconti di cronaca, strategie di comunicazione (l'arrivo di Saatchi&Saatchi che si inventò lo slogan Labour isn't working) e risultati elettorali.
La forza del libro di Magazzino però sono i numeri, i dati, le tabelle. I successi, e anche le battute di arresto, sono tutte certificate dai bilanci pubblici e non dalla lente del pregiudizio. I primi due anni di politiche restrittive dal 1979 al 1981 portarono alle attese lacrime e sangue, ma gettarono le basi della riscossa inglese. Magazzino fa dunque parlare i numeri, ma con molti riferimenti culturali di quel mondo. Cita Ayn Rand, la filosofia degli austriaci, ovviamente non può omettere i monetaristi alle cui teorie si ispirò la politica monetaria di quei governi, e lo fa con disinvoltura e pertinenza. Riproduce il celebre incipit di capitalismo e libertà di Milton Friedman in cui smonta la retorica kennediana: «La formula organicistica che cosa possiamo fare per il nostro paese implica che il governo è il signore o la sua divinità e il cittadino il servo o il devoto. Per l'uomo libero, il suo Paese è l'insieme degli individui che lo compongono, non alcunchè di sostanziale che li trascende». Ci ricorda molto la Thatcher, o meglio la Thatcher deve averlo capito meglio di altri e soprattutto applicato nella sua tecnica di governo. E Magazzino questo lo sa e i suoi numeri sono sempre conditi di relazioni che ne sostanziano la forza.
La Thatcher e i diritti dei bambini. Nicola Porro il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.
L'8 aprile del 2013, Margareth Thatcher moriva ad 87 anni, dopo aver combattuto una guerra interna con l'Ira, una guerra economica con il socialismo, una guerra diplomatica con l'Unione sovietica e una guerra vera con gli Argentini. Le ha vinte tutte e quattro, ha governato per dieci anni, vincendo tre mandati. Ma la vera guerra che continua a combattere, nonostante la sua scomparsa, è quella delle idee: la più difficile. Per questo ha ragione Stefano Magni nel bel libro di discorsi della Lady di ferro, pubblicato da Ibl nel 2013 a scrivere nella sua introduzione che la baronessa Thatcher aveva ben poco di conservatore nei suoi speech e molto di rivoluzionario, perché «emanano una grande energia libertaria» (This lady is not for turning. I grandi discorsi di Margaret Thatcher, IBL Libri, a cura di Stefano Magni, euro 10).
Tra i tanti vi riproporrò un passo di quello, famosissimo, in cui la Thatcher sosteneva il fatto che non esistesse la società, ma solo gli individui che ne danno sostanza. È attualissimo. «E così affibbiavano i loro problemi alla società. E chi è la società? Non c'è niente del genere. Ci sono individui, uomini e donne, ci sono famiglie e nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone e le persone, prima di tutto, pensano a loro stesse. È un nostro dovere badare a noi stessi e quindi anche aiutare i nostri vicini a badare a se stessi. La gente ha avuto troppo in mente i propri diritti acquisiti, senza pensare ai propri doveri, ma non esistono diritti acquisiti senza aver prima assolto i propri doveri». E continua: «C'è un affresco vivente di uomini e donne e persone, e la bellezza di questo affresco, così come la qualità delle nostre vite, dipenderà da come molti di noi sono pronti a prendersi le loro responsabilità e da come ciascuno di noi sarà pronto a guardarsi attorno e aiutare, in prima persona, chi è più sfortunato». Nel medesimo discorso, che poi è frutto di un'intervista rilasciata nel 1987, la Lady di ferro continua su un terreno, che ai più sfugge. C'è in effetti qualcuno che ha diritti senza responsabilità, e questi sono i bambini: «I figli sono sia un privilegio che una grande responsabilità, ma loro non chiedono di venire al mondo, siamo noi che li mettiamo al mondo, sono un miracolo e non c'è niente di più grande del miracolo della vita e il bambino che non riceve quello che molti di noi considerano un diritto di nascita una buona casa è l'essere che dobbiamo aiutare».
(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023) - L'ex premier britannico Boris Johnson ha ribadito in forma solenne le proprie scuse a tutti coloro che hanno patito "dolore, perdite (di persone care) e sofferenze" durante l'emergenza Covid a causa di lacune nella risposta del governo Tory da lui guidato.
Lo ha fatto in apertura di un'audizione di fronte alla commissione d'inchiesta indipendente sulla pandemia, costituita a suo tempo su iniziativa del suo stesso gabinetto e presieduta dalla baronessa Heather Hallett, ex alto magistrato in pensione e membro della Camera dei Lord. Non è mancato un tentativo di contestazione iniziale dal pubblico di familiari di vittime presente, durante il giuramento di BoJo: interruzione che Hallett ha peraltro immediatamente tacitato con la minaccia dell'espulsione.
"Sono profondamente dispiaciuto per il dolore, le perdite e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie", ha dichiarato Boris Johnson, aggiungendo di "capire i sentimenti" di chi protesta e auspicando che l'inchiesta possa contribuire a dare "le risposte che legittimamente vengono chieste".
Scuse che d'altro canto alcuni contestatori radunati per strada, fuori dall'aula, con cartelli e foto di persone morte di Covid, hanno detto ai media di non essere disposti al momento ad accettare.
Incalzato dalle domande dell'avvocato Hugo Keith, capo inquirente della commissione, l'ex primo ministro ha del resto subito rivendicato al suo governo di aver cercato di fare "il meglio possibile" nelle condizioni date un'emergenza sanitaria senza precedenti.
Lasciando intendere anche il peso di iniziative a suo parere positive come la rapidità della campagna di vaccinazioni. Certo, "vi sono state senza dubbio cose che avrebbero potuto essere fatte diversamente", ha poi ammesso, non senza assumere la "responsabilità personale di tutte le decisioni prese".
Fra gli errori imputati all'esecutivo, Johnson ha quindi riconosciuto "problemi di comunicazione" in seno alle istituzioni britanniche, in particolare con i governi locali delle nazioni del Regno Unito forti dei poteri della devolution sulla sanità (Scozia, Galles, Irlanda del Nord). Mentre ha negato di aver cancellato alcuno dei 5000 messaggi WhattsApp risultati mancanti secondo i media in uno dei suoi telefonini.
Quanto al numero di morti legati alla pandemia, l'ex premier ha contestato l'indicazione di Keith secondo cui il Regno avrebbe avuto il secondo tasso più elevato tra i principali Paesi dell'Europa occidentale, sulla base di elaborazioni statistiche più aggiornate; e si è limitato a rispondere con un "non lo so" quando gli è stato chiesto se ritenesse che alcune delle negligenze rinfacciate all'azione governativa potessero aver aggravato il bilancio delle vittime.
L'avvocato ha poi martellato sulle accuse di ritardi di due o tre settimane nell'introduzione del primo lockdown generale britannico (imposto dal governo Johnson a partire dal 23 marzo 2020) e sulla durata del secondo, scattato per 4 settimane dal 5 novembre dello stesso anno. Tempistiche rispetto alle quali BoJo ha detto di essersi fatto condizionare dagli argomenti portati tra i consulenti scientifici dell'esecutivo da alcuni esperti di scienza comportamentale sulle controindicazioni attribuite agli effetti d'una chiusura generalizzata.
Antonello Guerrera per repubblica.it - Estratti mercoledì 1 novembre 2023.
“Che gli anziani prendano il Covid e vivranno di più”. Oppure, sempre sul virus e gli ultra 80enni: “Perché dobbiamo chiudere il Paese con i lockdown e distruggere l'economia, se queste persone moriranno comunque?”. Sono solo alcune delle scioccanti e pesantissime frasi attribuite a Boris Johnson che stanno emergendo nell’inchiesta pubblica Covid in corso per fare luce sulla gestione della pandemia da parte dell’allora governo britannico.
Eppure, come è noto, l’ex primo ministro rischiò di morire proprio a causa del Coronavirus a inizio 2020, dopo esser stato ricoverato la sera del 5 aprile di quell'anno, mentre la Regina Elisabetta II pronunciava il suo discorso passato alla storia per il motto di speranza “We’ll meet again”, “ci rincontreremo”. Ma persino dopo questo, Johnson, di fronte alla possibilità di nuove restrizioni a causa delle continue ondate del virus, continuò a sminuire pericolosamente il Covid.
(...)
Ma ancora prima, il 15 ottobre 2020, Johnson scrive su WhatsApp al capo delle comunicazioni, Lee Cain, e al suo “Rasputin” Dominic Cummings, che poi defenestrerà l’anno successivo: “Sono sorpreso dai dati dei morti per Covid: l’età media è 81-82 per gli uomini e 85 per le donne. Addirittura sopra l’aspettativa media di vita nel nostro Paese. Insomma, se si prende il Coronavirus, si vive di più. Amici, qui dobbiamo cambiare rotta!”.
Messaggi che stanno indignando sui social i parenti delle oltre 230mila vittime di Coronavirus nel Regno Unito, coloro che hanno subito danni permanenti o “Long Covid”, e quelli che sono sopravvissuti nonostante abbiano davvero rischiato di morire, come lo stesso Johnson.
(…) E addirittura il capo di gabinetto, Simon Case, a un certo punto scrive ai colleghi riferendosi all’allora primo ministro: “Non è adatto. Cambia sempre idea. Non può essere un leader”.
Estratto da lastampa.it il 20 giugno 2023.
La “damnatio memoriae” per Boris Johnson arriva nel giorno del suo 59esimo compleanno. La Camera dei Comuni ha approvato con una larga maggioranza di 354 voti a favore (su poco meno di 650 membri) e solo 7 contrari - col resto dei componenti astenutosi o non presente - il durissimo rapporto di condanna redatto dalla commissione bipartisan di Westminster (Privileges Committee) chiamata a indagare sull'accusa all'ex leader Tory di aver "fuorviato il Parlamento" quando era primo ministro nei suoi interventi sul Partygate, lo scandalo delle feste organizzate a Downing Street in violazione delle restrizioni anti-Covid durante la pandemia.
Il documento è così passato in un'aula alla fine semivuota con il sostegno di tutti i partiti di opposizione e di parte del gruppo conservatore. Se BoJo si era già dimesso da deputato in anticipo per protesta - con la proposta di sospensione di 90 giorni dai Comuni rimasta nel rapporto della commissione - gli è stato però inflitto un umiliante 'bando' dal palazzo di Westminster negandogli il lasciapassare concesso di norma agli ex parlamentari, sanzione del tutto inedita per un ex capo dell'esecutivo di Sua Maestà.
Si è arrivati a questa conclusione dopo un lungo dibattito in aula caratterizzato da molte assenze, come quelle del premier conservatore Rishi Sunak e dei molti ministri decisi a disertare un passaggio istituzionale molto scomodo per il partito di maggioranza, dai duri attacchi contro Boris e dalla strenua difesa dell'ex leader Tory portata avanti da pochi suoi fedelissimi. […]
Il premier in precedenza aveva affermato di «non voler influenzare nessuno su un tema di coscienza che è di competenza del parlamento e non del governo», lasciando quindi libertà di voto ai suoi deputati. […]
(ANSA il 15 giugno 2023) - Il rapporto a conclusione dell'inchiesta sul Partygate condotta da una commissione bipartisan di Westminster (Privileges Committee) come previsto ha condannato Boris Johnson per aver consapevolmente "fuorviato" il Parlamento britannico nei suoi interventi da primo ministro alla Camera dei Comuni sullo scandalo delle feste organizzate a Downing Street in violazione delle restrizioni anti-Covid.
L'ex premier conservatore si era dimesso da deputato fra le polemiche venerdì scorso, dopo aver visto in anteprima il documento, per evitare la prospettiva di poter essere messo fuori d'autorità in conseguenza delle conclusioni dell'inchiesta.
(ANSA il 15 giugno 2023) –"E' un assassinio politico". Così l'ex premier britannico Boris Johnson ha commentato il rapporto a conclusione dell'inchiesta sul Partygate condotta da una commissione bipartisan di Westminster (Privileges Committee) che come previsto lo ha condannato per aver consapevolmente "fuorviato" il Parlamento quando era primo ministro Tory.
Alt-Boris. Il vittimismo complottista di Johnson, unico responsabile della sua caduta. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 9 giugno 2023.
L’ex primo ministro inglese si dimette da deputato usando toni trumpiani. Secondo l’inchiesta sul Partygate avrebbe mentito al Parlamento, ma lui grida alla «caccia alle streghe» per «invertire la Brexit» e attacca il premier Sunak
È un passo indietro con accenti trumpiani, seppur non eversivi. Una beffa del destino che arrivi nello stesso giorno in cui l’ex presidente viene incriminato per i documenti riservati stipati a Mar-a-Lago come fossero annuari delle superiori. L’ex primo ministro inglese Boris Johnson si dimette dalla carica di deputato. Perché costretto, perché a corto di alternative. Ha visionato il risultato dell’indagine a suo carico per il Partygate, le feste in pieno lockdown nei palazzi governativi di Londra, e le carte della commissione speciale lo inchiodano: ha ingannato il Parlamento.
La conseguenza politica più tangibile, e immediata, sarà un’elezione suppletiva nel suo seggio. Dal tenore del suo comunicato, pare intendere che non si farà da parte, ma vorrà correre, anche se nelle mappe dei sondaggi Uxbridge & South Ruislip è considerato un collegio «contendibile», oppure già colorato del rosso dei laburisti. Si dice triste di lasciare Westminster, ma infioretta un «almeno per il momento» che ricorda l’«Hasta la vista, Baby» pronunciato all’ultimo Question time da premier.
Ci ha provato a tornare a Downing Street, lo sappiamo, ma nei giorni convulsi dell’autocombustione dell’esecutivo di Liz Truss si è arreso alla realtà di non contare più come prima. In autunno millantava schiere di decine di fedelissimi, evaporate quando il partito conservatore gli ha preferito Rishi Sunak. Oggi invoca, anzi evoca, i quattordici milioni di voti del 2019, il suo apogeo. Una vittoria a valanga che la sua gestione del potere – nonostante lui accusi i successori – ha sperperato, travasando percentuali simili agli avversari, sfrattati da Downing Street nel 2010.
Boris fa la vittima, la cosa che gli riesce meglio. Come tutti i leader populisti, e lui è un populista di classe, con quarti di nobiltà, agita quell’investitura popolare, ma è distante nel tempo. Sostiene che le conclusioni (viste, almeno finora, solo da lui) del Committee of Privileges siano zeppe di errori e pressapochismi; che Sue Gray, la civil servant nominata proprio da Johnson nella prima fase degli accertamenti, ora sia a libro paga di Keir Starmer. «Non credo sia una coincidenza».
Ma poi cede al complottismo. Più che istinti revanscisti, dev’essere il suo ego a fargli sospettare sia andata così. Se un mentitore seriale di talento viene defenestrato, è il retropensiero, è perché sconta un accanimento. In particolare, dice l’ex primo ministro, esiste(va) un piano ordito dai laburisti – e da chi, sennò? –, dai libdem e persino dagli indipendentisti scozzesi per farlo fuori (politicamente). Siete contenti ora?, trasuda dal comunicato dove solo una penna brillante come la sua riesce a impaginare in belle frasi il testosterone.
Poi allarga la lista dei “carnefici” a un pezzo del suo partito. Sunak non viene nominato mai, se non a fini di autodifesa legale, quando si sostiene che c’erano altri ufficiali, tra i quali lui, convinti che la condotta dell’esecutivo fosse perfettamente regolare. Ma poi Johnson lo incolpa di fatto della caduta nei sondaggi e, sempre senza apostrofarlo, tira dritto: dov’è finito l’accordo commerciale con gli Stati Uniti? (Riecco l’America). Perché non abbiamo abolito le vecchie norme dell’Ue ancora in vigore?
«Non dobbiamo temere un governo propriamente conservatore», conclude. Ma si sta scusando per una faccenda che finge di aver subìto ma non ha altri colpevoli che lui o si sta candidando alla leadership dei Tories? Sembra appiccicare all’attuale premier l’etichetta cara al movimento trumpista, di «Rino», cioè «Republican in Name Only», con «conservatore» al posto del Gop. Sono toni affini a quelli dell’alt-right alla teina capitanata da Nigel Farage, che paragona i ministri agli odiati «commissari europei» e invece di meno Brexit, ne voleva di più.
«Non sono l’unico a pensare che sia in corso una caccia alle streghe, per vendicarsi della Brexit e in ultima istanza invertire il risultato del referendum del 2016». Qui siamo al pensiero magico. Ma, di nuovo, la considerazione da statista che ha di sé motiva macchinazioni così enormi dietro un caso così spiccio. Come dire: vogliono farmela pagare. Siamo già a mistiche da eroe shakespeariano, di cui BoJo ha il carisma senza averne il fisico. Come se al “sacrificio” potesse seguire l’ennesima resurrezione politica.
Questa sarà difficile. Prima della notizia, si rincorrevano voci su un possibile cambio di seggio dell’ex sindaco di Londra, proprio per evitargli una figuraccia qualora i laburisti riescano a espugnare Uxbridge & South Ruislip. Era in Parlamento dal 2001; per ripresentarsi alle suppletive, però, gli serve il consenso del partito e, quindi, di Sunak. Lo stesso che Johnson ritiene responsabile della sua caduta, quando per scoprire il vero artefice – altro che complotti – gli basterebbe guardare uno specchio.
Se c’è una cosa che le puntate precedenti ci hanno insegnato è che ogni volta che sembrava al tappeto, Johnson ha stupito le aspettative, dimostrando straordinarie capacità di ripresa. Come un gatto che sa di poter contare su più di una “vita”. Magari ha finito per convincersene anche lui. La sua capacità di incassare è la solita, sbruffona e pirotecnica, ma forse non si è accorto che il match è finito. Per tutti, tranne che per lui.
Estratto dell’articolo di Alessandra Rizzo per “La Stampa” il 22 marzo 2023.
Ha ammesso di aver fornito dichiarazioni fuorvianti in parlamento sui festini proibiti di Downing Street durante il lockdown, ma, giura, in buona fede e non intenzionalmente. Boris Johnson si è difeso così in vista di un momento chiave nel quale si gioca la carriera: oggi sarà sul banco degli imputati di fronte ad una commissione parlamentare che indaga sul partygate. Se la commissione concluderà che ha ingannato i deputati consapevolmente, l'ex primo ministro rischia la sospensione parlamentare, e con essa, forse, la sua fine politica.
[…] L'interrogatorio di oggi pomeriggio di fronte alla commissione per i Privilegi della Camera dei Comuni sarà trasmesso in diretta televisiva e durerà circa quattr'ore. Johnson dovrà far ricorso a tutta la sua famosa abilità oratoria per uscirne indenne.
Il punto al centro dell'inchiesta parlamentare è se Boris abbia mentito quando, nel pieno dello scandalo, è apparso in Parlamento nel dicembre del 2021 per assicurare i deputati su come le regole fossero state seguite: era in buona fede, come sostiene lui, o cercava di insabbiare il misfatto?
Alla vigilia dell'udienza, Johnson ha pubblicato una memoria difensiva, 52 pagine dal tono a tratti sprezzante, in cui sostiene di aver fatto affidamento sulle indicazioni dello staff: nessuno, dice, lo aveva avvertito che festini e raduni alcolici negli uffici del governo fossero contro le regole che durante la pandemia imponevano il distanziamento sociale a milioni di cittadini.
Le dichiarazioni in parlamento, si legge «sono state fatte in buona fede e sulla base di ciò che onestamente sapevo e credevo in quel momento». E ancora: «Non ho fatto dichiarazioni fuorvianti alla Camera intenzionalmente o incautamente. Non mi sarei mai sognato di farlo».
La commissione, sette deputati a maggioranza Tory e una deputata laburista di lungo corso come presidente, ha raccolto le dichiarazioni scritte di oltre venti testimoni, e-mail e messaggi WhatsApp. Pubblicherà le conclusioni entro l'estate. Ma le cose non promettono troppo bene per Johnson. Per la commissione, secondo quanto già detto nelle settimane scorse, le violazioni delle regole erano probabilmente «ovvie» per l'allora primo ministro; e potrebbe aver ingannato il Parlamento in più occasioni.
[…] L'attuale premier, Rishi Sunak, non si pronuncia, ma certamente il ritorno alla ribalta di Boris e soprattutto di un capitolo devastante per i Tory quale il partygate, per il quale tra l'altro anche lui era stato sanzionato da ministro, è una distrazione che non gli farà piacere. […]
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 23 marzo 2023.
Una scena indimenticabile. Boris Johnson è spesso accusato di aver costruito vita e carriera sulle bugie, dal licenziamento dal Times per una falsa intervista alla delirante crociata contro l’Ue sulla “curvatura delle banane”, fino ai tradimenti delle ex mogli. Ieri invece, eccolo nel Parlamento di Westminster, culla della democrazia moderna, con una mano sulla Bibbia: «Giuro di dire la verità, nient’altro che la verità».
[…] E così Johnson, in un evento eccezionale e imbarazzante per un ex primo ministro, ha raccontato la sua verità sotto torchio della “Privileges Committee”, la commissione parlamentare che lo ha interrogato per quasi quattro ore perché indaga su un’accusa gravissima nei suoi confronti: aver detto intenzionalmente il falso alla Camera dei Comuni sullo scandalo “Partygate”, le feste e i brindisi a Downing Street proibiti nei lockdown anti Covid.
[…] La Commissione emetterà il verdetto in maggio: se colpevole, Johnson verrà sospeso dal Parlamento, potrebbe essere rimosso dal suo seggio e a quel punto sarebbe bruciata ogni speranza di tornare al potere come il suo idolo Churchill. Insomma, la fine della sua carriera politica. […]
Di certo, ieri è stata un’umiliazione. Johnson dichiara «con una mano sul cuore di non aver mai mentito » e «se mai avessi fuorviato il Parlamento, non era mia intenzione e me ne scuso». La presidente della Commissione, la laburista Harriet Harman, ammonisce che «i governanti devono dire la verità, per il bene della democrazia». Poi gli sbatte in faccia i video dei suoi interventi alla Camera con tutte le sue contraddizioni e versioni nel 2022, affiancate alle foto di brindisi, vino, alcol nascosto nelle valigie e assembramenti a Downing Street durante i lockdown.
«Partecipavo solo 15-20 minuti, poi andavo via, non sapevo cosa succedesse dopo…». La festa di compleanno? «A sorpresa». E il distanziamento di 2 metri? «Valeva solo se c’erano le condizioni». Accerchiato dalle domande dei deputati di ogni colore politico, Johnson azzarda: «Le bevute a Number 10? Indispensabili per fare squadra, quando un collaboratore lasciava».
Il deputato tory Bernard Jenkin, vecchio compagno di merende brexiter, lo sgrida: «Risponda alle domande, invece di ripetere sempre le stesse cose!». Altri membri della Commissione gli mostrano testimonianze di collaboratori e dell’ex capo di gabinetto che lo smentiscono.
Dopo oltre tre ore, Johnson perde la pazienza, sbotta. Offende Jenkin con «assolute stupidaggini», ripete «non avete prove», accusa l’inflessibile presidente Harman di «essere di parte», minaccia di non accettare il verdetto della Commissione.
[…]
Titoli a padre, madre e sorella: la "lista" di BoJo indigna Londra. Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 6 marzo 2023.
Anche Boris tiene famiglia. Gli mancava ancora l'accusa di nepotismo, ma adesso la collezione di critiche e guai sembra al completo per l'ex primo ministro inglese. Primo capo di governo nella storia britannica a essere stato multato da Scotland Yard, per aver infranto le regole sul lockdown durante la pandemia, e tuttora al centro di un'inchiesta parlamentare che dovrà stabilire se ha mentito deliberatamente al Parlamento sul partygate, Boris Johnson è finito nelle scorse ore nella bufera per aver indicato il nome del padre Stanley, della moglie Carrie e della sorella Rachel tra i papabili futuri membri della Camera dei Lord. La Camera alta, non elettiva del Parlamento britannico, e sempre al centro di proposte e spinte per la sua abolizione, simbolo di antichi privilegi considerati obsoleti, oggi è composta da 778 membri: 25 Lord spirituali (vescovi e arcivescovi), un Lord Speaker e 752 lord temporali, divisi tra ereditari o nominati su segnalazione degli ex capi di governo, proprio come BoJo, a cui la prerogativa spetta di diritto. Guarda caso, nel 2020, Boris ha già nominato il fratello, Jo Johnson, tra i «pari», consegnandogli un seggio a vita. Ora il salto. L'elenco stilato da Boris, e svelato dal quotidiano The Times, contiene un centinaio di nomi. Quasi il doppio rispetto ai 60 dell'ex premier Theresa May e ai 62 di David Cameron. E tra questi figurano tre parenti.
Familismo amorale, è dunque l'accusa che si solleva a Londra anche perché il padre di Boris, Stanley Johnson, proprio come il figlio, non è uomo senza macchia. Due donne, nel 2021, lo accusarono di molestie anche se non lo denunciarono, sostenendo di essere state «toccate in maniera impropria» dall'ex eurodeputato conservatore, che oggi ha 83 anni. Una di loro è la deputata Tory, Caroline Nokes, presidente del Comitato per le donne e le pari opportunità. Lui ha sempre negato. Come se non bastasse, però, nella biografia su Boris firmata da Tom Bower, l'ex moglie di papà Johnson, Charlotte Wahl, racconta di essere finita in ospedale con un naso rotto per un pugno sferrato dall'ex marito, circostanza che lui stesso ha confermato dicendosi «profondamente pentito». Quanto basta per mettere in imbarazzo anche i Conservatori. E soprattutto l'attuale primo ministro Rishi Sunak, che Boris sembra intenzionato a sfidare nell'eterna speranza di tornare a Downing Street. L'elenco dei nuovi cooptati è soggetto alla normali procedure di verifica delle credenziali da parte di una commissione indipendente. Ma solo Sunak potrebbe bloccare le nomine. E umiliare l'ex premier e rivale Johnson, che di recente ha criticato l'intesa raggiunta dal premier con l'Unione europea sull'Irlanda del Nord e la Brexit, dimostrando che le sue ambizioni sono ancora vive.
Un portavoce dell'ex premier si è tenuto abbottonato: «Sugli onori non ci pronunciamo». Ma la lista di BoJo lascia gioco facile all'opposizione. Per il leader laburista, Keir Starmer, l'idea che Stanley Johnson sia nominato cavaliere è «ridicola». E su Boris, che ha già dovuto lasciare il governo, accusato di mancanza di integrità e onestà, l'elenco dei «suoi» lord suona come la conferma di un'inadeguatezza politica, un altro ostacolo alle sue speranze.
Estratto dell'articolo di Gaia Cesare per “il Giornale” il 26 gennaio 2023.
Sei milioni di sterline, quasi 7 milioni di euro. A tanto ammonterebbe l’accordo da nababbo che l’ex primo ministro inglese Boris Johnson ha già raggiunto per la pubblicazione delle memorie sui suoi due anni a Downing Street con il colosso dell’editoria, la HarperCollins di proprietà del re degli editori, Rupert Murdoch.
[…]
A tremare, in vista della pubblicazione, più che gli oppositori politici sono i compagni di partito conservatori, a cominciare dal primo ministro in carica Rishi Sunak, ex ministro delle Finanze di Johnson, arrivato al vertice dopo aver favorito con le sue dimissioni l’uscita di scena di BoJo e dopo la fine del governo di Liz Truss. Con i suoi racconti, Boris potrebbe mettere in seria difficoltà il premier Sunak,
[…]
Ma BoJo, nel frattempo, è ancora protagonista delle cronache per un altro scandalo. È accusato di conflitto di interessi per la nomina del presidente della Bbc, Richard Sharp, nel 2021, quando Boris era premier. Poco prima di ricevere l’incarico, Sharp, ex banchiere e donatore dei Tory, avrebbe aiutato Johnson a ottenere una linea di credito da 800mila sterline. Basteranno le memorie di BoJo a far dimenticare anche questa imbarazzante storia?
Ukraine. Il futuro di Boris Johnson passa dall’Ucraina più che dal Regno Unito. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023
L’ex primo ministro è un attivista instancabile della causa di Kyjiv, a cui ha dedicato un editoriale strepitoso, ma stavolta è lui ad aver bisogno dell’amico Zelensky. Il viaggio ha obiettivi di politica interna più che internazionale: riprendersi il partito conservatore alle prossime elezioni
Secondo il Telegraph, il 2023 sarà l’anno di Boris Johnson. Di nuovo. Se n’è mai andato? A parte questo, l’ex primo ministro inglese non ha smesso di progettare il ritorno al potere. Meditava di farlo quando è imploso il governo di Liz Truss e conserva mire sul partito. L’«Hasta la vista, baby», pronunciato all’addio da premier, era un intento programmatico. È convinto di poter guidare alle prossime elezioni i conservatori, i cui scandali sono rimasti a Downing Street nonostante la defenestrazione di Boris. Persino il suo viaggio a sorpresa a Kyjiv, non concordato con l’ambasciata, rientra in questa strategia: cercare quanto resta della sua leadership e del prestigio perduto nell’Ucraina che lo ama più della madrepatria.
La stampa britannica ha visto nel blitz del «parlamentare semplice» di Uxbridge un tentativo di delegittimare l’esecutivo di Rishi Sunak. Il capo di governo in carica era stato in Ucraina a novembre, proprio per riaffermare il sostegno di Londra. Con il presidente Volodymyr Zelensky, che lo ha accolto domenica scorsa, Johnson vanta una celebrata «bromance». Nelle foto dell’incontro, quella istituzionale al tavolo, davanti all’ex premier svetta una bandierina del Regno Unito, gemella di quella ucraina di fronte a Zelensky, ma non risultano incarichi ufficiali. Per questo, il viaggio rischia di avere più ricadute sulla politica interna di quante non ne avrà su quella internazionale.
A Kyjiv Johnson ha ricevuto la cittadinanza onoraria. In Ucraina è considerato un eroe. Non a torto. La mobilitazione per il Paese invaso va ascritta nel proverbiale «Ha fatto anche cose buone» di un premierato disastroso. Ha sempre strigliato l’attendismo degli alleati, è rimasto un attivista instancabile della causa ucraina. È volato a Kyjiv a febbraio 2022 e poi è stato tra i primi a tornarci, ad aprile, non appena le colonne russe si sono ritirate dai sobborghi della città. Anche stavolta, ha usato la piattaforma per criticare le titubanze del cancelliere tedesco Olaf Scholz sull’invio di carri armati Leopard 2 (finalmente sbloccato).
Rispetto al passato, o all’ultimo abbraccio di agosto per il Giorno dell’Indipendenza, i rapporti di forza con Zelensky si sono invertiti. Adesso è Johnson ad avere bisogno del presidente, che gli resta grato come si deve a un amico che c’era nel momento del bisogno, e non più il contrario. Cerca di agganciare una leadership fallimentare – la sua – a quella di successo di Zelensky. È una tattica antica. Sarebbe cinico ritenerlo l’unico motivo della comparsata a Kyjiv, ma sono credenziali preziose per un politico in crisi quelle che gli ha tributato il ministero della Difesa ucraino: «Amici come questi valgono più di uno squadrone di tank». Parole tanto più pesanti perché arrivate a ridosso dello stallo di Ramnstein.
Una fonte ufficiale ucraina ha detto che la visita non era «né ufficiale né privata». È proprio così: era una via di mezzo. L’ex primo ministro è stato a Borodyanka e Bucha, nella capitale ha parlato con il presidente di alcune sue «idee». Nei mesi scorsi, era circolata l’ipotesi che lanciasse una fondazione, per raccogliere finanziamenti per armare il Paese oggi e aiutarlo a ricostruire domani. Per ora il progetto è fermo. Tornato a Londra, Johnson ha firmato sul Daily Mail un editoriale che sembra uscito dalla sua vita di prima. Se non da grande giornalista, visto il rapporto creativo con la verità di quand’era corrispondente da Bruxelles, testimonia una straordinaria penna.
«Venite con me tra il fango ocra sul sagrato di Bucha, oltre la chiesa di Sant’Andrea crivellata di proiettili. Passate sulle tombe dei 416 abitanti di questa città, tra i quali nove bambini, che sono stati uccisi dai russi nel tentativo di terrorizzare gli altri. Guardate le foto dei loro cadaveri, con le mani legate dietro la schiena, lasciati per strada a marcire o mangiati dai cani. Unitevi a me sulle macerie annerite di un condominio a Borodyanka, tra le tubature contorte e i giocattoli dei bambini frantumati. Guardate cosa può fare solo una delle bombe aeree di Putin da cinquecento chili. Provate a incrociare gli occhi supplicanti della gente che ha estratto 162 corpi dai detriti, che ne ha cercati altri ventotto mai trovati. Guardate quegli ucraini coraggiosi e rispondete a questa domanda: che cosa diavolo stiamo aspettando?»
Il testo racchiude un appello. «Ciò che è accaduto qui, nei sobborghi di Kyjiv, è ripugnante. Ma sta succedendo in ogni parte dell’Ucraina che Putin continua a occupare: torture, stupri, omicidi di massa – scrive Johnson –. Prima riusciremo a spingere gli ucraini all’inevitabile vittoria, prima finiranno le loro sofferenze e prima il mondo intero, inclusa la Russia, potrà cominciare a riprendersi dalla catastrofe di Putin. Ciò richiede che tutti noi in Occidente, tutti gli amici dell’Ucraina, raddoppino e triplichino i loro sforzi. Tutto ciò di cui loro hanno bisogno sono attrezzature che l’Occidente ha in abbondanza e che in questo momento non potrebbe trovare un utilizzo più morale o strategico che aiutare l’Ucraina».
È il lascito più autentico e importante del viaggio. L’Ucraina comparirà anche nel libro in uscita per HarperCollins sugli anni da premier. Nel 2015 Johnson aveva intascato un anticipo di ottantottomila sterline per una biografia di Shakespeare mai scritta, a differenza di quella dedicata al suo idolo, “The Churchill Factor”, che ha venduto oltre trecentomila copie. Da quando ha lasciato Downing Street, ha guadagnato 1,3 milioni di sterline come conferenziere. Quella dei (ben remunerati) discorsi a pagamento è una tradizione, condivisa con i predecessori David Cameron e Theresa May, ma gli è valsa un gettone da 276 mila sterline solo un’apparizione al Council of Insurance Agents & Brokers di Washington Dc.
Insomma, rintuzzare le finanze serve anche ad alimentare le ambizioni mai sopite. In fin dei conti, il comunicato con cui rinunciava alla corsa per la successione a Truss conteneva un avvertimento: «Penso di essere ben posizionato per realizzare una vittoria dei conservatori nel 2024». Niente ritiro dalle scene, anzi, ha detto agli elettori che si ricandiderà nel suo seggio di Uxbridge e South Ruislip. Nel frattempo, la situazione nell’accampamento Tory è come al solito caotica, confusionaria e alle prese con qualche nuovo ennesimo scandalo da disinnescare. No, quella stagione non è finita.
Gli indici di gradimento di Sunak sono scesi ai minimi dall’inizio del mandato. Se il boss della Bbc, prima di ottenere il lavoro, aveva aiutato Johnson a ottenere un prestito di ottocentomila sterline, l’attuale presidente del partito Nadhim Zahawi ha negoziato un patteggiamento milionario con il fisco mentre, la scorsa estate, era Cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro delle Finanze. Cresce la pressione sul premier perché lo cacci, ma il vero punto è se fosse al corrente. Il Partygate resta un saga piccante, ma intanto i sodali di Johnson fanno campagna per cambiare le regole dei Conservatori e consentire ai leader che si sono dimessi di tornare in campo. A uno a caso.
(ANSA il 19 aprile 2023) - Il primo ministro conservatore britannico Rishi Sunak ha reso nota oggi - attraverso l'ufficio di gabinetto del governo - la dichiarazione ministeriale degli interessi economici riconducibili al suo patrimonio personale o quello della sua famiglia.
La lista, il cui aggiornamento era atteso da mesi, include le partecipazioni azionarie della first lady Akshata Murty' - ereditiera miliardaria, businesswoman e figlia di uno dei magnati più ricchi dell'India - finite nei giorni scorsi sotto la lente di un'inchiesta amministrativa preliminare aperta dagli uffici del Commissioner for Standards: l'autorità chiamata a sorvegliare sulla trasparenza dei potenziali conflitti d'interesse di tutti i parlamentari del Regno.
La pubblicazione della dichiarazione ministeriale è stata curata da un altro funzionario indipendente, seppur interno allo staff governativo, vale a dire l'advisor del premier per le questioni etiche. Fra le entrate di famiglia, sono indicati nel dettaglio gli investimenti fatti da Murty di recente nella società Koru Kids, una struttura di assistenza all'infanzia che si è avvalsa dei vantaggi di un programma d'incentivi messo a bilancio dall'esecutivo il mese scorso.
Non è comunque chiaro se questo atto possa mettere un punto alla vicenda, evocata implicitamente anche tra gli affondi riservati oggi alla Camera dei Comuni al leader Tory dal numero uno dell'opposizione laburista, Keir Starmer, nel tradizionale Question Time del mercoledì.
Vicenda che Sunak è accusato d'aver taciuto nella parallela dichiarazione d'interessi presentata a suo tempo al Commissioner for Standard in veste di parlamentare (e non di membro del governo); nonché di fronte a una domanda specifica rivoltagli giusto un paio di settimane fa da una deputata del Labour durante un'audizione in commissione.
Da ansa.it il 17 aprile 2023.
Il primo ministro Tory britannico, Rishi Sunak, è sottoposto a investigazione amministrativa per una vicenda di sospetto conflitto d'interessi familiare.
Lo riporta la Bbc.
La vicenda riguarda una struttura di assistenza per bambini, oggetto di progetti legislativi promossi dal governo, nella quale la moglie di Sunak - ricchissima ereditiera e businesswoman di origini indiane - risulta aver avuto interessi d'affari che il premier non avrebbe a suo tempo dichiarato.
L'investigazione non presuppone ipotesi di reato e non coinvolge per adesso gli organi di polizia o quelli giudiziari, ma è frutto dell'iniziativa di un organismo parlamentare indipendente chiamato a valutare eventuali violazioni delle regole e degli standard di comportamento previsti per gli eletti e gli uomini di governo. Sunak ha sempre negato qualsiasi violazione nelle cosiddette dichiarazioni d'interesse da lui presentate nel corso degli anni, fin dalla sua elezione a deputato nel 2015 e all'assunzione dei primi incarichi governativi nel 2018: incluso sul caso in questione.
Le opposizioni, Labour in testa, hanno tuttavia avanzato sospetti, portando il dossier di fronte all'ufficio del Commissioner for Standards, guidato da un'alta funzionaria responsabile dell'organismo. Di qui l'annuncio odierno di questa struttura della decisione di procedere a una verifica formale. "Si tratterà di stabilire se la dichiarazione sugli interessi personali e familiari presentata a suo tempo da Rishi Sunak sia stata aperta e franca", ha detto un portavoce del Commissioner. Downing Street da parte sua ha fatto sapere di attendersi un verdetto favorevole al primo ministro. La moglie di Sunak, Akshata Murty, è figlia di uno degli uomini d'affari più facoltosi dell'intera India.
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 18 aprile 2023.
Stava risalendo nei sondaggi, il Labour di Sir Keir Starmer aveva iniziato ad attaccarlo personalmente perché lo teme alle urne nel 2024. Ma adesso Rishi Sunak ha una bella grana. Il primo ministro britannico è indagato da una Commissione parlamentare indipendente a Westminster per possibile “confitto di interessi” tra la legge di bilancio 2023 del suo governo e una delle partecipazioni della ricchissima moglie ereditiera indiana, Akshata Murthy, in un’agenzia di asili nido privati in Inghilterra, la “Koru Kids”.
Al momento, non c’è alcuna inchiesta giudiziaria in corso. Ma, a Westminster, le norme sui potenziali conflitti di interessi di ministri o parlamentari sono molto severe. Nello specifico, ieri la relativa “Commissione degli Standard” della Camera dei Comuni ha deciso di aprire un’indagine interna sul primo ministro dopo una rituale audizione in Parlamento di Sunak il 28 marzo scorso.
Allora, il leader britannico assicurò: «Tutti i miei interessi sono stati dichiarati». Ora, dopo la scoperta del coinvolgimento della signora Sunak nella Koru Kids, il presidente della Commissione, Daniel Greenberg, vuole vederci chiaro, visto che l’ultima legge di bilancio concede significative agevolazioni alla Koru Kids e altre agenzie del settore. Downing Street promette massima collaborazione all’inchiesta parlamentare. […]
Articolo di “El Pais” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 30 marzo 2023.
Una nuova generazione di titolari di cariche pubbliche collega il passato coloniale della Gran Bretagna con il suo presente, ma il razzismo istituzionale continua a vivere nella società – scrive El Pais.
Nel 1968, un politico conservatore britannico passato alla storia dell'infamia, Enoch Powell, pronunciò a Birmingham un discorso noto come rivers of blood (fiumi di sangue), contro l'arrivo in massa nel Regno Unito di immigrati provenienti dal Commonwealth of Nations (l'entità politica che manteneva il legame tra la Gran Bretagna e le sue ex colonie).
Il personaggio avvelenò e divise il Paese, ma la sua popolarità rivelò il razzismo esistente. 55 anni dopo, un politico di origine indiana, Rishi Sunak, anch'egli del Partito Conservatore, è diventato primo ministro del Paese. E un politico musulmano di origine pakistana, Humza Yousaf, è stato eletto leader dello Scottish National Party e Primo Ministro del governo autonomo scozzese.
Ciò che stupisce, tuttavia, è che eventi di tale portata storica attirino più attenzione al di fuori del Regno Unito che nel Paese stesso, che sembra allo stesso tempo abbracciare la propria diversità e sentirsi a disagio per i peccati che porta con sé.
"Credo che tutto questo sia molto importante per dimostrare che le minoranze etniche e razziali vogliono partecipare alla costruzione futura della società tanto quanto le maggioranze bianche. Che sono in grado di integrarsi nonostante il persistere del razzismo. E che la lunga storia dell'imperialismo britannico è molto legata alla loro identità attuale.
Sia la storia familiare di Rishi Sunak che quella di Humza Yousaf si estendono alle origini dell'Asia meridionale e dell'Africa. E il padre di Sadiq Khan, [sindaco di Londra] faceva parte di una generazione reclutata per viaggiare verso la madrepatria e lavorare nei trasporti pubblici", spiega a EL PAÍS Nasar Meer, professore di sociologia presso la Scuola di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Edimburgo. "Ma la maggior parte dei politici di spicco del Partito Conservatore si rifiuta di ammettere le forme di razzismo istituzionale che affliggono la vita dei neri e delle altre minoranze etniche nel Regno Unito".
Un esauriente rapporto indipendente ha appena evidenziato il profondo razzismo istituzionale che persiste nella Polizia Metropolitana di Londra, la famigerata Scotland Yard, i cui agenti appartenenti a minoranze razziali subiscono abusi e discriminazioni interne, mentre è evidente il trattamento discriminatorio dei neri nelle forze dell'ordine. Il governo Sunak sta preparando una nuova legge sull'immigrazione, duramente criticata dalle organizzazioni di aiuto ai rifugiati, che mira a deportare i ruandesi e a togliere il diritto di chiedere asilo a tutte le persone che arrivano in barca sulle coste britanniche.
Entrambe le questioni sono sotto il mandato di Suella Braverman, il ministro degli Interni nato a Londra, figlia di immigrati di etnia indiana provenienti da Mauritius e Kenya. Che cosa hanno in comune Sunak, Yousaf, Braverman, ma anche il ministro del Commercio Kemi Badenoch - figlia londinese di nigeriani yoruba -, il mancato ministro delle Finanze Kwasi Kwarteng - figlio di immigrati ghanesi - o il sindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan, di origine pakistana? L'elenco potrebbe essere molto più lungo. In effetti, il governo dell'ex primo ministro Boris Johnson detiene il record di minoranze etniche tra i suoi ministri e alti funzionari.
"Ho presieduto il processo di selezione dei candidati Kwasi Kwarteng e Suella Braverman. In entrambi i casi, non ricordo un solo volto nella stanza che non fosse bianco", ricorda Robert Hayward, ex parlamentare conservatore, ora baronetto e membro della Camera dei Lord. Ma soprattutto è uno dei migliori analisti di sondaggi e tendenze politiche del Regno Unito.
"E nel caso di Kwarteng, che è scoppiato in lacrime quando è stato eletto, c'erano circa 550 membri riuniti. Non ci sono più questi pregiudizi. Non si manifestano nemmeno sotto forma di conversazioni private, come accadeva 10 o 15 anni fa, quando si sentivano frasi come 'Non sono sicuro che sia rappresentativo di questo collegio elettorale', che era il modo per sottolineare che non era bianco", spiega Hayward.
La domanda rimane senza risposta: cosa hanno in comune? Il filo conduttore della loro biografia conduce a una vita e a un'educazione perfettamente in linea con le tradizioni e la cultura britanniche. Nel caso di molti di loro, come Sunak o Kwarteng, con la frequentazione di college e università d'élite.
"Penso che siamo più internazionali rispetto ad altri Paesi, ma è chiaro che non si può fare carriera se non si è istruiti nel Regno Unito. In questo modo si ha un accento britannico e si evita quella barriera che ancora scoraggia molte persone", conclude Hayward.
Molti britannici sono riluttanti a vedere i segni del razzismo nelle loro attuali istituzioni e non sono disposti a fare un'introspezione nel loro passato e nella loro anima per vedere se sono davvero cambiati così tanto come credono. Ma è anche vero che il Regno Unito si è dimostrato più tollerante nei confronti del multiculturalismo rispetto ad altri Paesi.
"Direi che abbiamo avuto più successo nell'integrazione delle minoranze razziali rispetto, ad esempio, alla Francia, un Paese che conosco bene, la cui politica è quella di rifiutarsi di riconoscere che ci possono essere differenze di status e di prospettiva di vita tra le minoranze etniche e il resto della popolazione.
Per questo motivo è difficile fare qualcosa al riguardo. La discriminazione sul lavoro, ad esempio, sembra essere un problema più grande lì che qui", riflette Jonathan Sumption, uno storico, uno degli avvocati più brillanti e di successo della Gran Bretagna, ex giudice della Corte Suprema, e uno che ha una profonda conoscenza dell'anima conservatrice di molti britannici.
"Naturalmente ci sono dei pregiudizi, ma credo che ci siamo adattati relativamente bene rispetto agli standard internazionali. I pregiudizi si basano per lo più sul background di classe o sul tipo di educazione ricevuta, ma non sull'etnia", ammette Sumption.
Anche i più critici nei confronti del sistema hanno poche remore ad ammettere il cambiamento storico: Sukak, Khan, Yousaf, Javid, Kwarteng, Kemi Badenoch, Zahawi? il panorama politico è diventato disseminato di nomi che definiscono una nuova identità britannica, ma avvertono che questa apertura è stata finora dall'alto verso il basso. "È interessante notare che né Yousaf né Sunak sono stati eletti dai cittadini britannici attraverso le urne. Sono arrivati alla carica attraverso un processo di selezione chiuso nei rispettivi partiti. Dobbiamo ancora vedere se l'elettorato è a suo agio con questa diversità in politica. Il banco di prova sarà costituito dalle prossime elezioni generali", avverte Parveen Akhtar, vicedirettore del Dipartimento di Politica, Storia e Relazioni Internazionali dell'Aston University di Birmingham.
Londra rimane il laboratorio di un nuovo Regno Unito cosmopolita, progressista e multiculturale, dove il 55% dei suoi abitanti non è nato sul suolo britannico. Ma c'è ancora un'altra Inghilterra, quella più incline ad ascoltare l'Enoch Powell che ogni epoca crea, dove il 70% della popolazione è bianca. 5,4 milioni di asiatici si sono integrati nel Paese. 2,5 milioni di neri hanno fatto lo stesso. Ma gli iracheni, i siriani, gli afghani e gli albanesi che arrivano oggi nel Regno Unito sono ancora, agli occhi di molti cittadini, l'immagine di una minaccia.
Rishi Sunak, la moglie e il «ciabatta-gate»: abiti e scarpe firmati mentre il Paese è in crisi. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.
Polemica per la vita da «nababbi» del premier e della ricchissima moglie. L’ultimo caso: le calzature firmate KW Anderson da 650 euro indossate su leggings da 150
Uno schiaffo alla miseria: anzi, un colpo di ciabatta in faccia. Mentre in Inghilterra la gente stringe la cinghia per il carovita e si allungano le file ai centri di distribuzione di cibo per i poveri, gli inquilini del numero 10 di Downing Street continuano a ostentare status symbol che denunciano un’esistenza fatta di agi e mollezze.
Stiamo parlando del primo ministro Rishi Sunak e di sua moglie: la signora si è infatti appena lasciata fotografare per strada con ai piedi pantofole da 570 sterline (circa 65o euro), di ritorno dalla scuola dove aveva accompagnato le due figlie. A completare le «modeste» calzature firmate JW Anderson c’erano anche un paio di leggings da 130 sterline (150 euro), di una marca, Alo Yoga, che si vanta di essere «approvata dalle celebrità».
Non è esattamente la mise che ci aspetterebbe da una coppia di potere che volesse mostrarsi vicina al popolo. Ma d’altra parte i Sunak sono dei nababbi, e pure recidivi: con la loro fortuna personale stimata in 730 milioni di sterline (830 milioni di euro) sono più ricchi pure di re Carlo, e lui è sicuramente il primo ministro britannico più danaroso della storia.
Non che in sé ci sia qualcosa di male: ma il problema è che la coppia mostra di essere del tutto scollegata dal mondo reale e dai suoi problemi. Aveva infatti suscitato ilarità l’apparizione di Sunak in un polveroso cantiere con indosso pregiati mocassini di Prada da 490 sterline (oltre 550 euro); e lui era stato preso in giro da una ex ministra conservatrice per essersi presentato con un vestito da 4 mila euro. Peggio era andata quando aveva voluto farsi fotografare indaffarato alla sua scrivania: non era sfuggito che di fronte a lui ci fosse una tazza da 200 euro, una diavoleria tecnologica che tiene il caffè a temperatura costante per tre ore. E restando in argomento, una volta la signora Sunak era uscita di casa per offrire tè e biscotti ai giornalisti accampati di fronte: solo che lo aveva fatto usando pregiate tazze da collezione.
Questi dettagli non sono frivolezze: sono un problema politico. Perché se Boris Johnson — pur uscito da Eton e Oxford — riusciva a farsi percepire come un buontempone alla mano, in grado di connettersi con gli strati profondi dell’opinione pubblica, Sunak appare come un tecnocrate sceso da un altro pianeta, uno che quando ha incontrato un senzatetto gli ha chiesto «sei nel business?».
Anche la rivista Tatler, quando ha dedicato un profilo di copertina pur simpatetico alla moglie, non ha potuto fare a meno di intitolarlo «la castellana di Downing Street»: d’altra parte, lei è la figlia di un miliardario indiano che, si è scoperto l’anno scorso con grande imbarazzo, non pagava neppure le tasse in Gran Bretagna (grazie a un sistema di esenzione legale, ma discutibile). E lo stesso Sunak, fino all’anno scorso, era detentore della green card americana, ossia il permesso di soggiorno permanente: il che vuol dire che, pur facendo il politico a Londra, teneva in realtà per sicurezza un piede dall’altra parte dell’Oceano.
Come recuperare oltre 20 punti di svantaggio sui laburisti con uno così, è un problema che i conservatori si stanno ponendo.
Londra, tutti i passi falsi di Sunak: dalla cintura di sicurezza alle nomine. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.
Il premier è stato multato per non aver messo la protezione mentre era sul sedile di dietro. Lo scandalo evasione di un suo ministro e la nomina di Sharp alla Bbc
Sono giorni difficili per il premier britannico Rishi Sunak: lui sembra inciampare da un imbarazzo all’altro, con una serie di piccoli e grandi scandali che minano la credibilità sua e del suo governo.
Prima c’è stata la multa inflittagli dalla polizia del Lancashire (un episodio che ci racconta molto sugli standard della vita pubblica in Gran Bretagna): Sunak aveva postato su Instagram un video mentre girava per il Nord dell’Inghilterra, solo che si era fatto riprendere in macchina (sul sedile posteriore) senza cintura di sicurezza. La polizia locale ha subito aperto un’inchiesta e ha annunciato di aver spedito una multa a «un uomo di 42 anni di Londra» (ossia il capo del governo!). Lui ha prontamente ammesso l’errore e si è scusato, ma la figuraccia è stata inevitabile: anche perché è la seconda multa che si becca, dopo quella dell’anno scorso per aver partecipato alle feste a Downing Street durante il lockdown (che erano costate il posto a Boris Johnson).
L’affare della cintura di sicurezza può apparire triviale, ma non se lo si somma ai magheggi finanziari che coinvolgono i conservatori. Si è scoperto che il presidente del partito e ministro senza portafoglio in seno al Gabinetto, Nadhim Zahawi , ha dovuto versare al fisco ben 5 milioni di sterline (quasi sei milioni di euro) perché si era «dimenticato» di pagare le tasse: lui ha detto che si era trattato di «sbadataggine» e non di un atto intenzionale, ma come ci si possa far sfuggire un conto con l’erario di svariati milioni resta tutto da capire. Per di più, Zahawi ha patteggiato il mega-versamento al fisco l’anno scorso, quando era ministro del Tesoro, cioè quando era lui a capo dell’Agenzia delle Entrate britannica!
Il problema per Sunak è che ha messo lui Zahawi alla presidenza del partito e nel governo, perché ne aveva bisogno come alleato: ma sapeva il premier delle sue magagne fiscali? Come che sia, da più parti ora si chiede la cacciata di Zahawi: e più il premier traccheggia, più mostra la sua debolezza.
Infine c’è la questione del mega-prestito a Boris Johnson. L’ex premier, nel 2020, era in grave dissesto economico (a causa del divorzio, dei numerosi figli e chissà cos’altro) tanto che aveva dovuto fare appello a un lontano cugino canadese, un uomo d’affari multimilionario, per farsi garantire un finanziamento di ben 800 mila sterline (quasi un milione di euro): solo che si è scoperto che ad agevolare l’operazione fu Richard Sharp, ex banchiere e finanziatore dei conservatori, che guarda caso di lì a qualche settimana venne nominato da Johnson alla presidenza della Bbc. I laburisti chiedono adesso una inchiesta parlamentare sulla faccenda: ed è un’altra grana che si scarica sulla scrivania di Sunak.
Il problema per il premier è che, quando aveva fatto ingresso a Downing Street lo scorso ottobre, aveva promesso «integrità, professionalità e responsabilità» per voltare pagina rispetto al caos dei governi Johnson e Truss: ma adesso a ogni inciampo, piccolo o grande, appare come incapace di tenere dritta la barra del Paese. In tutto questo i laburisti godono: e il loro vantaggio nei sondaggi appare sempre più incolmabile. C’è chi fa poi dell’ironia, come il Daily Mirror (tabloid ferocemente anti-governativo), che stamattina pubblica una prima pagina con una «Utile guida per i conservatori: guadagni soldi? paga le tasse; vai in macchina? metti la cintura; chiedi un prestito? vai in banca». Il titolone recita: quelli ancora non l’hanno capito.
David Fuller, il serial killer necrofilo che ha sconvolto la Gran Bretagna. David Fuller è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di due giovani donne nel 1987 e per aver abusato sessualmente fra il 2008 e il 2020 di almeno 100 cadaveri. Massimo Balsamo il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Una vita tra luci e ombre
Gli omicidi
La riapertura dei casi
La scoperta agghiacciante
La bufera sull'azienda ospedaliera
Per oltre trent’anni è riuscito a farla franca. Mai un sospetto, mai un’accusa. Poi i progressi della tecnologia lo hanno incastrato e hanno acceso i riflettori su uno dei casi di necrofilia più spaventosi di sempre. Parliamo di David Fuller - conosciuto anche come il "mostro dell'obitorio" - il killer britannico condannato all'ergastolo per l'omicidio di due giovani donne nel 1987 e per aver abusato sessualmente fra il 2008 e il 2020 di almeno 100 cadaveri di donne mentre lavorava come tecnico elettricista all'interno della struttura sanitaria.
Una vita tra luci e ombre
David Fuller nasce il 4 settembre del 1954. Di infanzia e adolescenza si sa poco, pochissimo, se non qualche episodio già preoccupante come l’abitudine di dare fuoco a qualsiasi tipo di oggetto, quasi una costante nelle biografie dei serial killer. La vita sentimentale è stata particolarmente vivace sin dalla tenera età – in totale tre moglie e tre figli – così come i problemi con la giustizia. Nel 1973, poco meno che ventenne, viene arrestato per una serie di furti con scasso. Stesso discorso quattro anni più tardi, nel 1977. Ma Fuller è fortunato: riesce a evitare il carcere in entrambe le occasioni e non gli vengono prese le impronte. Dettaglio che gli consentirà di farla franca per oltre tre decenni.
Dopo un primo matrimonio terminato dopo poco tempo, David Fuller conosce Sally e decide di convolare nuovamente a nozze. Fa diversi lavora, sbarca il lunario in ogni modo possibile. Tra i tanti impieghi, quello di fotografo per la rock band londinese Cutting Crew, seguita nella lunga tournèe del 1985 proprio insieme alla moglie. I suoi hobby preferiti sono il birdwatching, il ciclismo e la fotografia. Ma c’è un lato oscuro di Fuller che nessuno conosce e che esploderà poco tempo dopo, per la precisione nel 1987.
Gli omicidi
In quell’anno, nel giro di cinque mesi, David Fuller firma un duplice omicidio che sconvolge il regno unito. La prima vittima è Wendy Knell, direttrice di un negozio SupaSnaps a Turnbridge Wells, nel Kent. Il futuro “mostro dell’obitorio” è un grande frequentatore dell’esercizio perché è lì che porta a sviluppare le sue fotografie. E sviluppa un’ossessione malata nei confronti della sua titolare. In un giorno di giugno Fuller entra in azione e la aggredisce nel suo monolocale in Guildford Road: prima la strangola e poi abusa del suo corpo senza vita. A ritrovare il suo corpo sarà il suo fidanzato il 23 giugno: nudo nel letto tra enormi chiazze di sangue.
Cinque mesi dopo, per l’esattezza il 24 novembre, David Fuller si ripete. Dopo averla incrociata in più di un’occasione al ristorante Buster Brown dove lavorava come cameriera, l’uomo aggredisce la ventenne Caroline Pierce fuori dalla sua abitazione a Grosvenor Park. Stesso modus operandi del primo omicidio: prima lo strangolamento, poi il sesso con il cadavere. A differenza del caso Knell, Fuller decide di disfarsi del corpo esamine della vittima gettandolo in un fosso di una strada di campagna a Romney, zona che conosce bene grazie ai lunghi percorsi fatti in bicicletta. La polizia collega i due casi, diventati famosi come i “bedsit murders”. Ma nonostante le indagini e le ingenti risorse messe a disposizione, le autorità non riescono a trovare indizi significativi.
La riapertura dei casi
David Fuller riesce dunque a farla franca e decide di dedicarsi alla sua famiglia. Va a vivere con la famiglia a Hethfield, nell’East Sussex, e si contraddistingue come un grande lavoratore. Dopo la rottura con Sally – complice qualche relazione extraconiugale, compresa quella con un’infermiera durata due anni – l’uomo sposa la terza moglie, Mala, alle Barbados nel 1999. Dopo aver fatto diversi lavori, trova stabilità come elettricista negli ospedali al servizio dei residenti del Kent e del Sussex. Ma a trent’anni dai fatti a stravolgere l’esistenza di Fuller ci pensa miglioramento della tecnologia e delle tecniche di analisi forensi.
David Fuller viene infatti collegato agli omicidi Knell e Pierce grazie all’esame del DNA. Nel 2020 le autorità riprendono in mano alcuni casi datati e provano a capire se le nuove tecnologie possono fare la differenza. Quando si imbattono nel duplice omicidio, gli agenti esaminano i campioni disponibili e ricavano il DNA. Nessun riscontro nei database della polizia, ma gli investigatori non mollano e sottopongono a un test decine di residenti di Turnbridge Wells. Tra i tanti test, spunta un’affinità con il DNA del killer: si tratta proprio del fratello di David Fuller. E collegarlo ai delitti non è così difficile, anzi.
La scoperta agghiacciante
La polizia trova delle prove sui casi Knell-Pierce all’interno della sua abitazione – dal materiale di SupaSnaps a un diario che dimostra le visite al ristorante Buster Brown – e David Fuller viene arrestato. Ma non solo. Gli agenti infatti scoprono migliaia di immagini e video legati a crimini sessuali. E solo in questa fase emergono le azioni necrofile di Fuller: sì, perché tra i filmati sequestrati spuntano le sequenze di sesso con i cadaveri all’interno degli obitori degli ospedali in cui aveva lavorato.
L’attenzione della polizia si è dunque rivolta al Kent and Sussex Hospital, dove David Fuller aveva prestato servizio dal 1989 al 2010, e al Turnbridge Wells Hospital, dove aveva lavorato fino al giorno dell’arresto. La scoperta degli investigatori è agghiacciante: Fuller aveva libero accesso agli obitori grazie a una tessera magnetica utilizzata per lavorare in qualità di elettricista. Conosceva perfettamente quali erano le zone coperte dalle telecamere a circuito chiuso e quali no, ma ad incastrarlo in maniera plastica è la sua collezione privata, con registrazioni dettagliate di nomi ed età. Un lavoro certosino che permetterà alle autorità di identificare almeno 101 cadaveri (di età compresa tra i 9 e i 100 anni) violati.
Dopo aver negato ogni addebito sui due omicidi e sugli episodi di necrofilia, David Fuller si dichiara colpevole dei casi Knell-Pierce e di aver violato 44 cadaveri tra il 2008 e il novembre del 2020. Nel dicembre del 2021 viene condannato all’ergastolo. Successivamente, nel dicembre del 2022, viene nuovamente condannato per l’abuso di altri 23 cadaveri.
La bufera sull'azienda ospedaliera
Nel novembre del 2023 è scoppiata una vera e propria bufera riguardante l'azienda ospedaliera britannica di Maidstone e Tunbridge Wells. L'inchiesta ha infatti acceso i riflettori su errori, negligenze e controlli inesistenti che hanno consentito a David Fuller di operare indisturbato negli obitori del trust ospedaliero. "Ci sono state opportunità mancate per mettere in discussione le pratiche di lavoro di Fuller", le parole del presidente, sir Jonathan Michael. Ma non solo. Dall'indagine è emerso che il killer in un solo anno ha avuto accesso alle camere mortuarie ben 444 volte senza che nessuno gli chiedesse mai conto di quegli ingressi. Un caso che rimpolpa il lungo elenco di scandali nella sanità britannica UK.
Brink’s Mat, 40 anni fa la «rapina del secolo»: 6.840 lingotti d’oro e una lunga scia di sangue. Giacomo Fasola sul Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023.
Il 26 novembre 1983 sei rapinatori penetrarono in un deposito a Sud di Londra: convinti di trovarci un milione di sterline, uscirono con 6.840 lingotti d’oro (per un valore di 115 milioni di oggi). Le indagini, gli omicidi, i Panama Papers, il truffatore diventato più ricco della Regina e quei 3.000 lingotti sepolti da qualche parte
Negli anni Ottanta, in Inghilterra, girava questa frase: «Chiunque possieda dei gioielli d’oro acquistati dopo il 1983, possiede un po’ dell’oro di Brink’s Mat». Ma cos’è Brink’s Mat? Per capirlo bisogna ricostruire la storia di quella che fu definita, e all’epoca numeri alla mano lo era davvero, la «rapina del secolo». Se nel frattempo altre le hanno rubato il primato, fuori dal Regno Unito, Brink’s Mat rimane senza dubbio la rapina «casuale» più ricca della storia.
Un vicenda che a 40 anni esatti di distanza da quel 26 novembre 1983 rimane per molti versi ancora oscura. Che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue (si parlò, in proposito, della «maledizione di Brink’s Mat»). E che è tornata d’attualità nel 2015, quando i Panama Papers svelarono dov’era finita una parte dei 6.840 lingotti d’oro sottratti da un deposito nei pressi dell’aeroporto di Heathrow. Lingotti che in quel deposito non dovevano nemmeno esserci, e che se non fosse stato per i rapinatori sarebbero partiti il giorno successivo per Amsterdam.
CAPITOLO 1: La rapina
Alle 6.20 del 26 novembre 1983, un sabato, sei rapinatori armati e con il volto coperto entrano nel deposito 7 dell’Heathrow International Trading Estate, a poca distanza dall’aeroporto londinese. Sanno che nel caveau del deposito di massima sicurezza sono custodite pesetas spagnole per un valore di un milione di sterline. Quello che non sanno, e che scopriranno a breve, è che fuori dal caveau sono stati temporaneamente depositati 6.840 lingotti di oro puro.
Il giorno prima Brink’s Mat, una società che gestisce il trasporto di merci di valore, dalle pietre preziose all’antiquariato, ha scaricato nel deposito tre tonnellate d’oro di proprietà della Johnson Mattey Bankers Limited. Appena atterrati a Heathrow, i lingotti sono pronti per essere trasportati ad Amsterdam, ma siccome all’interno del caveau non c’è spazio a sufficienza vengono «parcheggiati» fuori.
I rapinatori prendono tutto quello che trovano. Oltre all’oro caricano sul Ford Transit blu posteggiato fuori dal deposito 20 chili di platino, diamanti, banconote e 250.000 dollari in traveller’s cheque. Valore totale della refurtiva: 26 milioni di sterline (circa 60 miliardi di lire dell’epoca , pari a 115 milioni di euro di oggi). È la rapina più ricca della storia: la «rapina del secolo», come viene subito ribattezzata dai giornali.
CAPITOLO 2: Le indagini
La polizia sembra partire col piede giusto. Del resto – pensano gli investigatori – i ladri non sapevano che dentro il deposito c’era tutto quell’oro; e quindi non si sono organizzati né per nascondere i lingotti in un posto sicuro, né per reimmetterli sul mercato e trasformarli in denaro (un’operazione, come vedremo, niente affatto semplice).
Il 7 dicembre, a dieci giorni dalla rapina, Brian Robinson viene arrestato nel suo appartamento di Rotherhite, Sud-Est di Londra. Il «Colonnello» Robinson, già noto alle forze dell’ordine per aver partecipato a numerose rapine, è il cognato di Anthony Black, che lavora come guardia giurata proprio nel deposito 7 dell’Heathrow International Trading Estate. Alla polizia è bastato fare due più due.
Lo stesso giorno a Herne Hill, distante meno di dieci chilometri da Rotherhite, viene arrestato anche Mickey McAvoy. Il problema, però, è che degli altri quattro rapinatori non c’è traccia. E soprattutto non c’è traccia dell’oro , già finito nelle mani dei ricettatori che si occuperanno di riciclarlo. La zona compresa fra South London e il vicino Kent è soprannominata «il triangolo delle Bermuda», perché quello che ci finisce dentro scompare per non riapparire mai più. Sarà anche il destino dell’oro di Brink’s Mat.
CAPITOLO 3: Come trasformare i lingotti in soldi
Reimmettere sul mercato tre tonnellate di oro purissimo non è un’impresa banale. Per prima cosa occorre cancellare dai lingotti i numeri seriali che permettono di identificarli. Poi, bisogna comprare altri lingotti e ottenere una ricevuta, in modo da poter spostare un po’ alla volta l’oro rubato. A questo punto mancano due figure: un mercante d’oro che camuffi i lingotti fondendoli con p iccole quantità di rame o altri metalli meno preziosi; e un importatore che certifichi con dei documenti falsi la provenienza dell’oro.
I rapinatori affidano l’incarico del riciclaggio a Kenneth Noye. Trentasette anni, qualche piccolo precedente, Noye è l’uomo giusto per almeno due ragioni. È Gran Maestro della loggia massonica di Hammersmith, il che gli consente di avere protezioni anche dentro la polizia. E poi abita in una grande casa del Kent, circondata da terreni dove durante la guerra furono scavati dei tunnel: il luogo ideale dove nascondere 6.840 lingotti d’oro.
Noye si rivolge a sua volta a John Palmer, che con la sua Scadlynn fornisce oro e gioielli a importanti ditte di preziosi. Nemmeno lui ha la fedina penale immacolata: nel 1980 è stato condannato con la condizionale per truffa. Palmer inizia a camuffare l’oro nella piccola fonderia clandestina che ha allestito nel giardino di casa. I vicini segnalano alla polizia lo strano fumo che esce dal comignolo, ma il mercante d’oro riesce a farla franca: non è la prima volta e non sarà l’ultima.
CAPITOLO 4: Il crac e le condanne
La storia di Brink’s Mat è come una matrioska all’incontrario: strato dopo strato, la faccenda si fa sempre più grossa. La prima conseguenza della rapina è il crac della Johnson Matthey Bankers Limited, proprietaria dell’oro rubato, che nel 1984 costringe la Banca d’Inghilterra a una complessa operazione di salvataggio. La stessa Johnson Matthey, che commerciava oro e argento, nei mesi successivi ricompra senza saperlo una buona parte dei lingotti rubati e poi fusi: oltre al danno, la beffa.
Nel frattempo arrivano anche le prime sentenze. Brian Robinson, considerato il capo della gang di South London che ha pianificato e realizzato il colpo, viene condannato a 25 anni di carcere. Stessa sorte per l’ex soldato Mickey «Mad» McAvoy, l’unico membro della banda arrestato oltre a Robinson.
Bisognerà attendere altri due anni per Kenneth Noye, il «grande tessitore» che ha gestito la trasformazione dei lingotti rubati in soldi. Dopo una prima assoluzione, Noye viene condannato a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di merce rubata. Celebre la frase che l’imputato rivolse alla giuria dopo la condanna: «Spero che muoriate tutti di cancro».
Sempre nel 1986 John Palmer, soprannominato «Goldfinger» come il celebre antagonista di James Bond, viene deportato dal Brasile e processato: ammette di aver fuso l’oro, ma nega di aver saputo che provenisse da una rapina e viene assolto. Due anni dopo arrivano le condanne di altre nove persone. Tra loro c’è l’avvocato Michael Relton, accusato di aver nascosto 7,5 milioni di sterline nelle banche di Svizzera e Liechtenstein.
Un ruolo simile a quello di Relton lo ebbe Gordon Parry, promotore immobiliare viene arrestato in Spagna perché sospettato di aver riciclato 1 6 milioni di sterline. La condanna arriva nel 1992: 10 anni di prigione. Il nome di Parry tornerà a distanza di anni nei Panama Papers (ne parliamo nel capitolo 6).
CAPITOLO 5: La maledizione di Brink’s Mat
Se i processi legati a Brink’s Mat coprono un decennio, la scia di sangue lasciata dalla «rapina del secolo» è molto più lunga. Il primo a farne le spese è Charlie Wilson, ritenuto uno dei membri della banda che il 26 novembre 1983 entrò nel deposito 7 dell’Heathrow International Trading Estate (la sua partecipazione non fu mai dimostrata). Nel 1990 un giovane si presenta nella sua casa di Marbella, suona il campanello, lo uccide e se ne va in sella a una bicicletta gialla.
Sei anni dopo, sui giornali ricompare il nome di Kenneth Noye, tornato nel frattempo in libertà. In seguito a un incidente stradale, Noye uccide con nove coltellate il 21enne Stephen Cameron e scappa in Spagna. Verrà deportato e condannato all’ergastolo.
Tra fine anni Novanta e inizio Duemila, altre tre sparatorie vengono collegate a Brink’s Mat. Tra i morti eccellenti Brian Perry, già condannato a 10 anni per aver fatto da tramite fra i rapinatori di Brink’s Mat e i ricettatori; Nick Whiting, milionario, ex pilota da corsa e grande amico di Kenneth Noye ; Keith Hedley, un altro sodale di Noye, ucciso sul suo yacht attraccato a Corfù; e l’investigatore privato Daniel Morgan, trovato nel parcheggio di un pub con un’ascia conficcata nel cranio. La gran parte di questi omicidi non ha ancora un colpevole.
Chiude la scia di sangue John Palmer, salito nell’Olimpo dei criminali britannici grazie a una serie di truffe. I suoi soldi, «Goldfinger» li aveva investiti a Tenerife, creando un impero turistico e accumulando ricchezze: pare che la sua fortuna ammontasse a 400 milioni di sterline, un patrimonio simile a quello dell’allora Regina Elisabetta II. Il 24 giugno del 2015 «Goldfinger» viene trovato morto nel cortile della sua casa nell’Essex, ucciso da sei colpi d’arma da fuoco.
CAPITOLO 6: I Panama Papers e i Docklands
I Panama Papers sono un fascicolo creato dallo studio legale panamense Mossack Fonseca che contiene informazioni dettagliate su 214.000 società offshore. Quando il contenuto dei documenti viene divulgato sulla stampa, nel 2016, fra le migliaia di nomi spunta anche quello di Gordon Parry.
I file ricostruiscono il metodo utilizzato per ripulire l’oro rubato. Dodici mesi dopo la rapina, una società di intermediazione finanziaria offshore del Jersey chiede a Mossack Fonseca di costituire una società panamense. In questo modo, utilizzando come tramite banche svizzere, del Liechtenstein e dell’Isola di Man, Parry trasferisce oltre 10 milioni di sterline da Panama ad altre società di copertura.
E dove finiscono i soldi? Secondo i Panama Papers, Parry usa i proventi della rapina per acquistare dei terreni nei Docklands di Londra, un college privato femminile nel Gloucestershire, una fattoria nel Kent per l’amante di Mickey McAvoy e una villa nel Kent per sé. Proprio il fruttuoso investimento nei Docklands, l’area sulle rive del Tamigi dove un tempo sorgeva il porto di Londra e oggi sorge il distretto finanziario di Canary Wharf, farà lievitare il bottino di Brink’s Mat.
EPILOGO: L’oro sepolto e il «mito» di Brink’s Mat
Dei 6.840 lingotti rubati nel deposito della periferia londinese ne sono stati ritrovati soltanto 11, sotterrati nel giardino dei vicini di casa di Kenneth Noye. Molti altri sono stati fusi. Secondo l’Independent, però, soltanto metà dell’oro rubato 40 anni fa è stato reimmesso sul mercato: l’altra metà è semplicemente scomparsa, e per quello che se ne sa potrebbe essere ancora sepolta da qualche parte.
Anche questo alone di mistero attorno ai lingotti ha contribuito a far entrare la rapina Brink’s Mat e i suoi protagonisti nella cultura popolare britannica. Dal 1983 a oggi alla «rapina del secolo» sono stati dedicati due film, cinque documentari, due serie tv, vari libri e podcast . Uno di questi podcast, The Hunt for the Brink’s Mat Gold, si concentra su una figura poco raccontata: quella del faccendiere Shaun Murphy, che dalle British Virgin Islands gestiva sia i soldi ricavati dalla vendita dell’oro, sia gli incassi milionari dei narcos sudamericani.
L’ultima uscita in ordine di tempo è la serie tv The Gold , disponibile anche in Italia su Paramount+. Rispettando la verità storica e concedendosi solo piccole drammatizzazioni, la serie ricostruisce la vicenda in sei episodi. Siamo lontani anni luce dagli «heist movie» prodotti nell’ultimo ventennio, dalla saga di Ocean’s alla serie cult La Casa di Carta. Là piani perfetti e strateghi infallibili, qui rapinatori che da un giorno all’altro si ritrovano con 6.840 lingotti d’oro purissimo da piazzare. È la storia di Brink’s Mat, la rapina «casuale» più ricca della storia.
Il Regno Unito in preda a un’epidemia di taccheggio. Martina Melli su L'Identità il 15 Settembre 2023
Il Regno Unito è da mesi in preda a un’epidemia di taccheggio a causa del caro vita ma anche dell’inefficacia della polizia. I taccheggiatori sono diventati più sfacciati e aggressivi e arrivano a colpire lo stesso negozio, supermercato e magazzino anche più volte al giorno.
“Sembra che questi criminali possano semplicemente entrare e prendere ciò che vogliono e fare ciò che vogliono”, ha detto Ronnie, negoziante 36enne di Leeds. “Arrivano con borse, sacchi o vestiti, che possono nascondere centinaia di sterline di scorte – caffè, carne, vino, gel per bucato, tutto ciò che può essere rivenduto. Sono saccheggi organizzati. Sono conosciuti nel centro della città come recidivi. Sanno che la polizia non ha le risorse o non può intervenire abbastanza velocemente”.
La Co-op ha dichiarato di aver registrato i suoi più alti livelli di taccheggio: quasi 1.000 incidenti ogni giorno e oltre il 71% dei reati di vendita al dettaglio non soccorsi dalla polizia. All’inizio di questa settimana Dame Sharon White, presidente della John Lewis Partnership (JLP), proprietaria di John Lewis e Waitrose, ha descritto il taccheggio nel Regno Unito come una “epidemia”.
Secondo il British Retail Consortium (Brc) i furti nei negozi sono più che raddoppiati negli ultimi tre anni, raggiungendo gli 8 milioni nel 2022 e costando ai rivenditori 953 milioni di sterline. Il Brc ha riferito che più di 850 episodi di violenza o abuso contro il personale sono stati registrati ogni giorno. Co-op ha affermato che anche quando il personale arresta i taccheggiatori, gli agenti subentrano solo nel 20% degli incidenti.
Anni Settanta, lo strangolatore del sabato sera. «Una sigaretta e poi decido se ammazzarti». Storia di Federico Ferrero su Il Corriere della Sera domenica 10 settembre 2023.
Geraldine Hughes e Pauline Ford, amiche sedicenni, vivevano nelle campagne di Briton Ferry e, mettendo da parte qualche soldo, si erano regalate una serata di festa a Swansea, nella sala da ballo Top Rank. Per tornare a casa, in quel sabato notte di settembre del 1973, avevano scelto l’unica opzione non dispendiosa, l’autostop. Il mattino seguente, sullo stradone che attraversa la boscaglia di Llandarcy, qualcuno notò un corpo riverso sul ciglio della carreggiata. Era Geraldine. Poco più in là, il cadavere di Pauline. Qualcuno la aveva strangolate, dopo aver abusato di entrambe. La notizia raggelò la comunità: un doppio omicidio di due adolescenti inermi, commesso in un piccolo mondo in cui tutti si conoscevano.
Niente computer e troppi indiziati
Più di cento agenti vennero messi a lavorare sul caso ma, cinquant’anni fa, ci si adoperava ancora con i mezzi di Sherlock Holmes: testimonianze e intuito. A un certo punto delle indagini, una parete intera del comando di polizia era stata riempita da spunti e notizie che riguardavano «lo strangolatore del sabato sera», come era stato prontamente identificato dalla stampa. Una testimonianza venne presa in particolare considerazione: un ragazzo aveva visto le due giovani salire su una Austin 1100 bianca: una Fiat Uno versione britannica, giacché si individuarono circa diecimila possessori dello stesso mezzo in un raggio di territorio ragionevole per indagare. Tra pettegolezzi e sentito dire, si creò una quantità mostruosa di materiale ma nessuno - in assenza di computer - poté incrociare dati e nomi. Poteva essere stato chiunque, purché uomo e abitante in zona. Ma neppure quest’ultima limitazione era necessariamente vera perché, in quei mesi, un cantiere autostradale stava transitando proprio da quelle parti e la società titolare dell’appalto fornì un elenco di centinaia di operai forestieri. La sola isola industriale dell’acciaio di Port Talbot aveva a libro paga tredicimila persone.
Il collegamento mancato
Il caso marcì insieme agli scatoloni che contenevano appunti e relazioni, conservati malamente in una cantina della stazione di Sandfields. Per caso, o per lungimiranza, un investigatore - non è un nom de plume , si chiama veramente Colin Dark - provvide a spostare dall’interrato i box che conservavano i pochi reperti della scena del crimine e a sistemarli nel laboratorio della Scientifica. Ai tempi, nessuno pensò a collegare la tragica fine delle due amiche all’omicidio di Sandra Newton. Anche lei sedicenne, pure lei abitante in un piccolo centro non lontano da Briton Ferry. Sandra fu vista viva per l’ultima volta il 14 luglio del 1973 (un sabato, guarda caso). Stava chiedendo un passaggio per andare in città. La trovarono morta in un fossato, strangolata con la gonna che indossava. Venticinque anni più tardi, la polizia del Galles del sud rimise gli occhi sui fatti di sangue dell’estate del 1973. Dagli abiti delle due amiche, Geraldine e Pauline, venne isolato un Dna misto e, separato quello delle ragazze dal contributo maschile, si individuò un codice genetico parziale. Con la medesima tecnica, trovarono tracce dello stesso individuo sugli abiti della prima vittima, Sandra.
Due profili maschili dal Dna recuperato
Nel suo caso, i profili maschili erano due ma uno venne attribuito al suo fidanzato dell’epoca. La polizia aveva una mezza carta d’identità biologica ma anche un quarto di secolo trascorso, nel quale poteva essere capitato di tutto. Anche che lo strangolatore fosse morto. Per evitare che il tempo si mangiasse le residue possibilità di scoprire la verità, il pool confrontò i Dna a disposizione nella banca dati nazionale con il campione estratto dai reperti. Niente da fare. Frattanto, uno psicologo forense tracciò un profilo del killer: un uomo tra i venti e i trent’anni, abitante del luogo, un’infanzia difficile, piccoli precedenti per reati minori. Da una lista potenziale di trentamila e più nomi, ne restarono un centinaio. Un numero sufficiente per procedere a chiedere un test salivare: che, tuttavia, non diede alcun risultato. Perso per perso, la squadra investigativa fece un ultimo tentativo: invece di cercare una corrispondenza perfetta, interrogarono il database su coincidenze parziali. Di possibili parenti dell’assassino.
Coincidenze parziali
Joseph Kappen Tra i Dna schedati entro una certa distanza da Swansea, circa cento persone recavano una corrispondenza limitata con l’assassino. Una di queste si chiamava Paul Kappen. Nel 1973 faceva la seconda elementare e, da adulto, aveva scelto la professione di ladro seriale di automobili. Suo padre, Joseph Kappen, ex camionista e buttafuori, era una brutta persona. Poco più che ventenne ai tempi delle tragedie gallesi, era stato abbandonato dal padre e cresciuto da un patrigno a Port Talbot. A dodici anni, la polizia sapeva già molto di lui, perché rubava di tutto: motorini, automobili, benzina. Crescendo, aveva alzato il tiro: rapine e aggressioni. Sposato con una ragazza da poco maggiorenne, era finito in galera mentre la moglie stava per partorire la loro primogenita, Beverly. Non lo sapeva nessuno ma Kappen era solito stuprare la sua consorte e, a sua detta, Paul era nato proprio da uno di quegli abusi domestici. Quando i poliziotti si presentarono a casa della signora Christine, già sapevano.
L’alibi falso fornito dalla moglie
Scartabellando tra i verbali, avevano raccolto le testimonianze di due ragazze di Pontardave e Neath, aggredite nottetempo da uno sconosciuto negli anni Settanta. Per loro fortuna, l’uomo le aveva risparmiate: una di loro raccontò che, dopo la violenza, l’assalitore le aveva detto che «si sarebbe fumato una sigaretta mentre decido se ammazzarti o no». La polizia aveva sentito Kappen, nel corso delle indagini sugli omicidi dei tempi: aveva negato ogni responsabilità. La moglie gli aveva fornito un falso alibi. Aveva, sì, una Austin 1100 bianca, che però nessuno aveva esaminato. Le vittime sopravvissute spiegarono che l’aggressore portava i baffi e fumava. Come Kappen. Che aveva sempre una sigaretta in bocca: malato di cancro ai polmoni, era deceduto a 49 anni, nel 1990. Ottenuti i campioni di Dna dalla famiglia, un giorno di estate del 2002 una squadra si infilò tra i viali del cimitero di Goytre, vicino a Port Talbot, per riesumare le spoglie di Joseph Kappen. Pioveva. A un certo punto, dopo vari tentativi di agganciare la bara ritardati da quel clima impossibile, come se un diavolo stesse volteggiando sulla buca, un addetto confidò a un collega: «Sembra lo stia facendo apposta, a non farsi prendere». Proprio come da vivo: lo strangolatore del sabato sera era lui.
(ANSA il 18 agosto 2023) - Un'infermiera inglese di 33 anni, Lucy Letby, è stata giudicata colpevole di aver ucciso sette neonati e tentato di assassinarne altri sei mentre lavorava nell'unità neonatale del Countess of Chester Hospital tra il giugno 2015 e il giugno 2016. E' il verdetto raggiunto al termine del processo alla Manchester Crown Court. Il caso di Letby è senza precedenti nella storia recente del Regno Unito.
La giura del tribunale di Manchester ha impiegato 22 giorni per giungere al verdetto sul caso che sconcerta il Regno per il numero di bebè uccisi e per le modalità con cui l'infermiera, sotto processo dallo scorso ottobre, ha agito.
Letby ha iniettato aria alle sue giovani vittime, le ha sovralimentate con latte e avvelenate con l'insulina. In un periodo relativamente breve di tempo, lavorando nel reparto neonatale dell'ospedale pubblico di Chester, a sud di Liverpool, ha agito come una serial killer, la più efferata nel prendere di mira bimbi nella storia britannica recente, come sottolinea la Bbc.
E' stata descritta nel corso del processo come una "calcolatrice" in quanto ha scelto metodi per eliminare le sue vittime che lasciavano poche tracce, oltre a far di tutto per coprirle agli occhi dei colleghi del suo reparto diventati sempre più sospettosi sulla sua attività.
Ma il numero crescente di morti sospette aveva portato all'avvio di un'inchiesta interna nel 2017. L'infermiera era poi finita in manette per ben due volte, nel 2018 e nel 2019, ma era stata poi rilasciata su cauzione in attesa che venissero concluse le indagini da parte della Cheshire Police. Per poi finire in carcere quando i detective avevano raccolto prove a sufficienza su di lei. Già i media britannici parlano di una delle peggiori vicende nella storia dell'Nhs, il servizio sanitario britannico, che proprio il mese scorso ha celebrato i 75 anni di storia.
Estratto dell’articolo di Vittorio Sabadin per “il Messaggero” domenica 20 agosto 2023.
Il 24 luglio 2015 il dottor Stephen Brearey aveva chiesto ad Alison Kelly, responsabile delle infermiere del Countess of Chester Hospital, e ad altri due colleghi di raggiungerlo in un pub per discutere dell'inspiegabile aumento della mortalità di bambini prematuri ricoverati. Aveva svolto qualche indagine e scoperto che in quasi tutti i casi era in servizio la stessa infermiera.
Ma era la più amata e solerte di tutte: «Non può essere Lucy - dissero - Non la simpatica Lucy». Otto anni più tardi la simpatica Lucy Letby è stata riconosciuta colpevole di sette omicidi e di sei tentati omicidi di neonati prematuri, mentre ancora si indaga su altri 4.000 bambini con i quali è venuta in contatto.
Domani il giudice renderà nota la condanna, che sarà certamente l'ergastolo, accompagnato dalle cure psichiatriche di cui Lucy ha bisogno. Ma ora le indagini si spostano su quelli che potrebbero risultare i veri responsabili della strage di bambini più ampia e crudele mai registrata nell'Inghilterra moderna: i dirigenti dell'ospedale che hanno ignorato i sospetti e le denunce, arrivando persino ad obbligare i medici che accusavano Lucy a scusarsi con lei.
Tony Chambers, che era a capo del Countess of Chester negli anni delle uccisioni, ha lasciato il lavoro con una pensione di un miliardo di sterline. Quando la polizia cominciò a indagare sulle morti sospette dei bambini, telefonò agli inquirenti dicendo di «mettere le loro menti a riposo», perché indagini interne avevano appurato che non era accaduto niente di inconsueto. Ma non era così.
Nel 2016 il dottor Brearey aveva inviato un rapporto al direttore medico dell'ospedale, Ian Harvey, chiedendogli un incontro urgente che si tenne solo dopo tre mesi. […] Era evidente che Lucy era collegata alle morti dei bambini: «Ho spiegato che cosa era successo e ho detto che non volevo che l'infermiera Letby tornasse al lavoro il giorno seguente o fino a quando la questione non fosse stata indagata».
Karen Rees, responsabile delle urgenze nell'ospedale, rispose che non c'erano prove contro Lucy e che lei si sarebbe assunta tutte le responsabilità. In tribunale ha dovuto ammettere di essersi sbagliata. Un ex dipendente dell'ospedale ha detto al Daily Mail: «La direzione non voleva sentirlo, temeva la cattiva pubblicità. Alla fine, i medici hanno forzato la mano e hanno detto a Ian Harvey che se non fosse andato dalla polizia lo avrebbero fatto loro». Se l'ospedale avesse ascoltato Brearey, almeno due bambini, chiamati Baby O e Baby P in tribunale, sarebbero ancora vivi. Sono stati le ultime vittime dell'infermiera, due gemelli di un parto trigemino morti a 14 ore uno dall'altro nel giugno 2016.
[…] Due madri hanno raccontato di essere andate a trovare i loro bambini senza preavviso, come per un presentimento. C'era Lucy vicino a loro: un neonato aveva sangue alla bocca, un altro urlava disperato. Lucy sorrideva per tranquillizzarli: «Fidatevi di me, sono un'infermiera». Faceva sempre il turno di notte, dalle 19.30 alle 8 del mattino, quando c'erano pochi altri colleghi e i genitori erano assenti. Hughes ha messo insieme le testimonianze, i turni di lavoro, le date delle morti sospette, e tutto portava in una sola direzione. Con i suoi collaboratori ha interrogato Lucy, che negava tutto ma era sempre tranquilla, collaborativa. Hughes ha ammesso che è stato un momento triste quando l'hanno accusata di omicidio, quella dolce e simpatica Lucy.
Infermiera killer, Londra sotto choc: "Ha avvelenato e ucciso 7 neonati". Storia di Erica Orsini su Il Giornale il 19 agosto 2023.
Ha l'aspetto di una ragazza come tante, la peggiore killer seriale di bambini della storia moderna britannica. Capelli lunghi e lisci, occhi grigio-azzurri e uno sguardo freddo e assente, privo di emozioni, Lucy Letby, un'infermiera di 33 anni, ieri è stata condannata all'ergastolo perché colpevole di aver ucciso 7 neonati e di aver tentato di assassinarne altre sei, nell'unità prenatale del Countess of Chester Hospital dove lavorava. Tra le sue vittime vi sono due fratellini di due coppie di tre gemelli identici, uccisi a distanza di 24 ore uno dall'altro, un neonato che pesava meno di un chilo e una bimba nata prematura morta al quarto tentativo.
La sentenza della corte di Manchester è giunta dopo molti giorni di quello che è stato uno dei più lunghi e dolorosi processi della storia recente. In una nota letta fuori dal tribunale i parenti delle vittime hanno dichiarato che «giustizia è fatta», ma nessuna punizione «cancellerà il grande dolore, la rabbia e lo stress che questa esperienza ci ha causato». «Alcune famiglie non hanno avuto il verdetto che si aspettavano - hanno aggiunto i genitori dei bambini - il nostro cuore è spezzato, siamo devastati. E non sapremo mai che cosa è accaduto veramente». L'accusata si è rifiutata di tornare in aula per ascoltare la sentenza, ma ad un'udienza preliminare era scoppiata in lacrime mentre la madre Susan piangendo aveva detto: «Non può essere vero, non è giusto». La sentenza spiega che Letby ha portato a termine le uccisioni «con calcolo e a sangue freddo», quando aveva circa vent'anni. Per la giuria è stato difficile ascoltare la descrizione dei suoi orribili delitti, insopportabile per le mamme e i papà di quei neonati uccisi con iniezioni di aria nei corpicini o con l'inserimento di un tubo in gola. Quando, tra il 2015 e il 2016, ha tentato di uccidere due neonati mettendo dell'insulina nel tubo di alimentazione, è stata segnalata alla polizia e finalmente arrestata nel 2018. La detective Nicola Evans, della polizia del Cheshire, l'ha descritta come un'assassina determinata e insensibile che ha approfittato della fiducia delle persone per eliminare i bimbi di cui avrebbe dovuto prendersi cura.
«Letby operava in bella vista, abusava della fiducia della gente - ha spiegato Evans - non solo dei genitori dei bambini, ma anche dei colleghi che lavoravano con lei e degli amici». La donna ha sempre protestato la sua innocenza, dicendo ai giurati di essere «devastata» dalle accuse che le sono state rivolte. «Io ho sempre fatto soltanto del mio meglio per prendermi cura dei piccoli - ha dichiarato - ero lì per aiutare e assistere e non per far loro del male». Dell'inchiesta, che ancora non è chiusa, si sta occupando una squadra di 70 detective. I neonatologi stanno esaminando i dati di più di 4mila neonati nati al Liverpool Women's hospitals e al Countess of Chester, i due ospedali dove ha lavorato la donna, tra il 2012 e il 2016.
(ANSA lunedì 21 agosto 2023) - L'infermiera inglese 33enne Lucy Letby, giudicata colpevole per aver ucciso sette neonati e tentato di assassinarne altri sei mentre lavorava nel reparto di maternità del Countess of Chester Hospital tra il 2015 e il 2016, si è rifiutata di presentarsi in aula alla Manchester Crown Court per ascoltare la sentenza del giudice con l'indicazione della pena da scontare in carcere preferendo restare in cella.
La notizia ha sollevato molte polemiche nel Regno Unito per il fatto che Letby avrebbe dovuto ascoltare quanto veniva dichiarato sui reati commessi quando lavorava nell’ospedale pubblico a sud di Liverpool e affrontare le famiglie dei neonati uccisi. Anche il premier Rishi Sunak è intervenuto accusando di “codardia” le persone colpevoli di crimini così efferati che non affrontano le loro vittime. La pronuncia della sentenza è attesa per le 14, le 15 in Italia, e secondo i media del Regno l’infermiera sarà condannata all’ergastolo.
Enrico Franceschini per repubblica.it lunedì 21 agosto 2023.
Lucy Letby, l’infermiera serial-killer, potrebbe avere cercato di uccidere almeno trenta bambini, oltre ai sette per i quali è stata già riconosciuta colpevole. [...]
Sarebbe la terza donna ancora viva condannata all’ergastolo, con una clausola che ne impedisce il rilascio in qualunque circostanza, nella storia giudiziaria britannica. Le altre due sono Rose West, che torturò e uccise nove giovani donne negli anni ’70, e Johanna Dennehy, che assassinò tre uomini nel 2013.
[...] l’accusa è riuscita a dimostrare la sua responsabilità soltanto per i sette omicidi, anche se i bambini sopravvissuti ai suoi tentativi di avvelenamento, solitamente con iniezioni di insulina e di altre sostanze, patiranno per tutta la vita le conseguenze delle sue azioni.
Ma adesso la polizia sta indagando su una trentina di casi sospetti avvenuti in precedenza nella medesima clinica di Chester, sempre quando Letby era di servizio. E il numero finale delle sue vittime potrebbe essere ancora più alto: le autorità stanno esaminando i dati di oltre 4 mila bambini nati al Countess of Chester fra il 2012 e il 2015 e anche in altri ospedali della regione dove l’infermiera aveva lavorato in passato.
Anche soltanto con gli omicidi a lei attribuiti con certezza, Letby viene descritta dai giornali inglesi come la peggiore serial-killer di bambini nella storia moderna del Regno Unito. In prigione verrà tenuta sotto stretta sorveglianza, con controlli ogni cinque minuti, per evitare che tenti di suicidarsi. [...]
Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it lunedì 21 agosto 2023.
In Gran Bretagna l'infermiera Lucy Letby è stata condannata all'ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, per aver ucciso sette neonati e tentato di assassinarne altri sei. Lo ha stabilito la Manchester Crown Court.
I fatti risalgono al periodo 2015-2016 quando la donna lavorava presso il reparto di maternità del Countess of Chester Hospital, nell'Inghilterra occidentale. Nel leggere la sentenza in diretta tv, il giudice James Goss ha parlato di "premeditazione, calcolo e malizia" nelle azioni compiute da Letby, che hanno avuto un "impatto immenso" su molte famiglie.
La condannata, 33 anni, non era presente alla lettura della sentenza, visto che aveva scelto di restare in cella e non presentarsi in aula, scatenando forti polemiche. L'ergastolo che il giudice Goss ha deciso è la pena massima a cui la giustizia britannica raramente ricorre.
Ma lo stesso giudice Goss ha parlato di "profonda malvagità al limite del sadismo" da parte di Lucy Letby, che ha sempre continuato a negare "freddamente" i crimini commessi. "Nel loro complesso, questi reati di omicidio e tentato omicidio sono di una gravità eccezionalmente elevata, e la giusta punizione prevista dalla legge è il carcere a vita", ha aggiunto Goss.
Non solo: l'infermiera non ha mai nemmeno "mostrato rimorso e non ci sono circostanze attenuanti", ha aggiunto il giudice. Il Crown Prosecution Service, che si occupa dell'applicazione della legge per i procedimenti dinanzi alla Magistrates' court e alla Crown Court, ha osservato che la donna "non sarà più in grado di infliggere sofferenza".
In aula erano presenti le famiglie delle piccole vittime. "Non credo che riusciremo mai a superare il fatto che nostra figlia sia stata torturata fino a non avere più alcuna possibilità di lottare e che tutto quello che ha passato nella sua breve vita sia stato fatto deliberatamente da qualcuno che avrebbe dovuto proteggerla e aiutarla a tornare a casa, nel posto a cui apparteneva", ha dichiarato la madre di una bambina identificata come Child I in una dichiarazione letta in tribunale. […]
[…]
Nel fine settimana alcuni medici hanno dichiarato di aver sollevato dubbi su Letby già nell'ottobre 2015 e che i bambini avrebbero potuto essere salvati se i dirigenti avessero preso sul serio le loro preoccupazioni. Letby è stata infine rimossa dalle mansioni di prima linea alla fine di giugno del 2016 ed è stata arrestata a casa sua nel luglio 2018. Un'indagine indipendente verrà condotta su ciò che è accaduto nell'ospedale e su come il personale e la direzione reagirono all'aumento di decessi.
Omicidi e torture nella cantina di casa: gli orrori dei serial killer di coppia. Massimo Balsamo il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.
Torture, violenze sessuali, strangolamenti e squartamenti: i coniugi del terrore Fred e Rosemary West protagonisti di una delle più macabre pagine di cronaca nera nel Regno Unito
Tabella dei contenuti
Fred West, l'infanzia e gli incidenti
L'incontro con la prima moglie
L'amore con Rosemary Letts
Perversioni e omicidi
L'inizio della fine
Le storie dei serial killer sono fatte di eventi, di sliding doors, di incontri. Un discorso che si sdoppia quando gli assassini seriali sono due: è il caso di Fred West e Rosemary Letts, conosciuti anche come i mostri di Gloucester. Nella loro abitazione di Cromwell Street i coniugi hanno commesso alcuni dei più orribili crimini nella storia dell’Inghilterra e del Regno Unito. Un’abitazione come tante, vicina a una chiesa, in una zona rispettata ma teatro di orrori inimmaginabili: torture, violenze sessuali, strangolamenti e squartamenti. Due decenni di delitti efferati, qualcosa di mai visto.
Fred West, l'infanzia e gli incidenti
Fred West nasce il 29 settembre del 1941 a Much Marcle, nell’Herefordshire, da una famiglia di contadini. È il primo di sei figli, nonché il preferito della madre. Il percorso scolastico è a dir poco fallimentare, tanto da optare per l’abbandono all’età di 15 anni. Inizia dunque a lavorare nella fattoria come manovale. Nel 1958, all’età di 17 anni, ha un grave incidente in motocicletta e resta in coma per tre settimane. Il primo ma non unico incidente: qualche tempo dopo infatti deve fare i conti con una brutta caduta dalle scale, che sembra causare un danno cerebrale permanente.
Nel 1961 i primi problemi con la giustizia: prima viene arrestato per furto, poi viene accusato di aver messo incinta la sorella tredicenne Kitty. Fred West ammette candidamente di aver molestato la sorellina ma anche altre ragazzine. Sottoposto a processo, non viene considerato del tutto capace di intendere e riesce a evitare una condanna, complice anche il rifiuto di Kitty di andare a testimoniare.
L'incontro con la prima moglie
Nel 1962 Fred West incontra Catherine Costello, conosciuta da tutti come Rena. Lei è già incinta di un uomo di origine asiatica – nascerà Charmaine – ma entrambi decidono di vivere insieme e il matrimonio arriva dopo pochi mesi, a novembre. Dopo le nozze, il trasferimento a Savoy Street, Glasgow, dove West inizia a lavorare come gelataio ambulante e intrattiene relazioni sessuali con altre donne, provando a soddisfare il suo appetito sessuale.
Nel 1964 nasce Anne Marie, la prima figlia della coppia. Iniziano i primi maltrattamenti domestici, ma non solo. Fred West e Rena iniziano a trascorrere molto tempo con Anne McFall e instaurano con la sedicenne un perverso ménage à trois. Rena inoltre inizia una relazione extraconiugale con un altro uomo. Il 4 novembre del 1965 un altro evento scuote la vita familiare: Fred investe e uccide un bambino di quattro anni, ma viene riconosciuto innocente.
Poco dopo, a causa dei continui maltrattamenti da parte del coniuge, Rena abbandona il marito e le figlie per tornare in Scozia insieme all’amante. Nel 1967 Anne McFall resta incinta di Fred West e ambisce a diventare la sua signora. Un progetto solo suo: Fred la strangola, poi la fa a pezzi e la seppellisce in alcune buche scavate tra Much Marcle e Kempley. Conserva solo le dita delle mani e dei piedi: questa diventerà la sua firma. Sempre in quel periodo compie i primi abusi sulla piccola Charmaine.
L'amore con Rosemary Letts
Dopo un altro tira e molla con Rena, Fred West cambia impiego e inizia a lavorare come addetto alle consegne per un fornaio. All’inizio del 1969 incrocia la quindicenne Rosemary Letts, quello che diventerà il più grande amore della sua vita: si incontrano a una fermata dell’autobus per Cheltenham ma serve qualche tempo per cedere alle lusinghe.
Nata nel novembre del 1953, Rose ha un passato pesante, con un padre schizofrenico e una madre depressa. Conosce il sesso in tenera età, ma non solo: quando ha 15 anni viene rapita a una fermata dell’autobus e stuprata brutalmente. La storia con Fred West le cambia la vita: resta subito incinta e si trasferisce nella sua roulotte, dove si prende cura delle sue due figlie.
Nel 1970 nasce Heather, prima figlia dell’amore tra Fred West e Rosemary. In quel periodo l’uomo è in carcere per un furto, ma quello non è l’unico evento che traccia un solco. A giugno infatti scompare Charmaine: nessun mistero, il delitto porta la firma di Rose, intenzionata a stroncare ogni legame tra il suo amato e l’ex moglie. La bambina sarà trovata vent’anni dopo sepolta in una cantina con le dita delle mani e dei piedi mozzate.
Sconvolta per la scomparsa della figlia, Rena si reca a casa di Fred per chiedere una spiegazione. L’uomo non ci pensa due volte: la fa ubriacare e la uccide. Lo schema è sempre lo stesso: dopo l’omicidio, fa a pezzi il cadavere ma tiene come souvenir le dita delle mani, quelle dei piedi e le rotule. Il resto del corpo viene seppellito in un giardino nei pressi della roulotte.
Perversioni e omicidi
Fred West e la moglie Rose iniziano a condividere perversioni sempre più estreme. L’uomo ama guardare la moglie mentre fa sesso con altri uomini, tanto da imbastire un’attività di prostituzione per guadagnare qualche soldo extra. Per assistere ai rapporti tra la coniuge e gli altri uomini, Fred fa dei buchi nel muro. I due inoltre condividono parecchio materiale pornografico, tra zoofilia e pedofilia. Nel 1972 arriva il matrimonio e il trasferimento in una nuova casa, al 25 di Cromwell Street di Gloucester. Il 1° giugno, inoltre, nasce la seconda figlia della coppia, Mae.
Fred West riserva parecchio tempo all’allestimento dell’enorme cantina della nuova abitazione, individuata come camera delle torture ideale: isolata, senza finestre e con pareti spesse. Anne Marie, la figlia di appena 8 anni, è la prima a conoscere gli orrori del seminterrato: è lì, infatti, che Fred abusa di lei con il benestare di Rose. Ma nella rete della coppia finiscono molte giovani, quasi sempre ragazzine fuggite di casa: profili ideali, scomparse che non danno nell’occhio e che non attirano l’attenzione della polizia.
La casa degli orrori dei West durante la demolizione
Nell’aprile del 1973 Fred e Rose West assumono una nuova babysitter, Lynda Gough. La diciannovenne si trasferisce a Cromwell Street, l’inizio della sua fine: viene prima violentata e poi uccisa. Esalato l’ultimo respiro, Fred fa a pezzi il cadavere e la seppellisce in cantina. Nell’agosto del 1973 nasce il primo figlio maschio della coppia, Stephen, ma i coniugi tornano in azione appena due mesi dopo: rapiscono la quindicenne Caroline Ann Cooper, ma anche lei subisce la stessa sorte di Lynda.
Poco dopo Natale è il turno di Lucy Katherine Partington: tenuta in vita qualche giorno tra torture di ogni tipo, la studentessa universitaria subisce lo stesso trattamento delle precedenti vittime. Anche il suo corpo viene nascosto in cantina. Tra l’aprile del 1974 e quello del 1975, Fred e Rose West uccidono altre tre giovani: Therese Siegenthaler (21 anni), Shirley Hubbard (15 anni), Juanita Mott (18 anni).
Nel 1977 Fred West e la sua metà provano ad arrotondare un po’ affittando alcune stanze del piano superiore della casa. Tra le affittuarie, spunta la diciottenne Shirley Anne Robinson, che inizia un ménàge a trois con la coppia. La giovane però resta incinta di Fred e mira a sostituire Rose nella sua lista delle priorità. Un errore incredibile, pagato con la vita: viene brutalmente assassinata e seppellita in giardino.
Tra 1977 e 1978 i coniugi accolgono altre due figlie: Tara (mulatta, frutto di un rapporto sessuale a pagamento) e Louise. Ma non solo. Vittima di abusi sessuali ormai da diversi anni, anche la figlia Anne Marie resta incinta di Fred, ma non porta a termine la gravidanza. Qualche mese dopo, la coppia uccide la diciassette Alison Chambers con il solito schema truculento. La famiglia nel frattempo continua ad allargarsi: nel 1980 nasce Barry, nel 1982 nasce Rosemary junior, mentre nel 1983 nasce Lucyanna. Queste ultime due bambine sono il frutto di relazioni extraconiugali a pagamento, entrambe mulatte.
L'inizio della fine
Anne Marie decide di andare via di casa per trasferirsi dal fidanzato, Fred West orienta dunque la sua attenzione su altre due figlie: Mae e Heather. Quest’ultima però è ribelle e non assiste passivamente alle violenze sessuali. Decide di rivelare tutto a un’amica, lamentandosi a chiare lettere della situazione in casa. Al culmine dell’ennesimo litigio, Fred pone fine alla sua vita: strangolata, fatta a pezzi e seppellita in giardino.
Nel 1992 le molestie su Mae continuano, ma anche lei non ci sta: confessa tutto a un’amica, che la convince a denunciare. La polizia inizia dunque a indagare sulla coppia per stupro e crudeltà infantile nei confronti dei propri figli. Il 7 aprile del 1993 affrontano il primo processo, ma Mae si rifiuta di testimoniare contro i genitori e tutto si chiude con un’assoluzione.
Gli investigatori non si danno per vinti, decisi ad andare fino in fondo. Spostano dunque l’attenzione sulla scomparsa di Heather e la svolta arriva il 24 febbraio 1994, quando gli inquirenti ottengono un mandato di perquisizione per la casa al 25 di Cromwell Street. Gli agenti iniziano a scavare in giardino e trovano diversi resti di ossa umane.
Edmund Kemper, la storia del killer delle studentesse
Fred West viene subito arrestato, ma la sua prima preoccupazione è quella di salvare la moglie: dopo un po’ di indecisioni, confessa l’omicidio della figlia e di altre ragazze. La polizia trova altri nove cadaveri, oltre a tonnellate di materiale pornografico. Fred inoltre si autoaccusa dell’omicidio della piccola Charmaine, ma qualcosa non torna: era in carcere quando la piccola è scomparsa. E qui entra in gioco Rose, che non ci pensa due volte a scaricare il coniuge: afferma senza mezzi termini di essere la sua vittima da trent’anni.
In totale Fred West viene accusato di undici omicidi, mentre Rose di dieci. Il primo gennaio del 1995, poco dopo le 13, ripudiato dall’amore della sua vita, Fred West decide di farla finita: realizza una corda usando pezzi di stoffa tagliati da una coperta della prigione e si impicca. Impassibile circa la morte del marito, Rose continua a proclamarsi innocente. Tentativo vano: il 22 febbraio del 1995 viene condannata a dieci ergastoli.
La fuga, poi il bimbo ucciso: i punti oscuri nella storia dell'aristocratica inglese. Storia di Francesca Rossi su Il Giornale il 2 marzo 2023.
Il neonato di circa due mesi che Constance Marten avrebbe dato alla luce durante la sua fuga con il compagno, il pregiudicato Mark Gordon, è stato ritrovato morto in un bosco. Ancora non sono state spiegate le cause della morte. I genitori sono accusati di grave negligenza e omicidio colposo.
Il bambino è morto
Dopo settimane di fuga lo scorso 26 febbraio Scotland Yard è riuscita a rintracciare a Brighton Constance Marten (35 anni), l’aristocratica vicina alla royal family e il suo compagno, Mark Gordon (48 anni), cittadino britannico che negli Stati Uniti ha scontato venti anni di prigione per aggressione e violenza sessuale. I due avevano fatto perdere le loro tracce la notte del 6 gennaio 2023. A nulla erano serviti gli appelli del padre della ragazza, Napier Marten, ex paggio della regina Elisabetta.
La coppia ha continuato a vagabondare per l’Inghilterra, raggiungendo l’Essex in taxi, a quanto sembra mantenendosi con il denaro di Constance e pagando le spese sempre in contanti, per non essere intercettata dalla polizia. Proprio all’inizio della fuga l’aristocratica avrebbe partorito su un’auto poi trovata carbonizzata nel Nord dell’Inghilterra. Quando Mark e Constance sono stati trovati dagli agenti, però, il bambino non era con loro.
Si è subito temuto il peggio: i due sono stati arrestati e interrogati, mentre Scotland Yard avviava le ricerche del neonato, concentrandosi sui casolari e i capannoni presenti nella zona in cui erano stati scoperti i genitori, impiegando droni, elicotteri e cani e sperando di imbattersi in testimoni attendibili. In un primo momento la polizia ha ammesso che qualche speranza poteva ancora esserci, pur avvertendo: “Questa [storia] potrebbe finire nel modo che non vogliamo” e non escludendo che il bimbo potesse avere "gravi ferite".
I tabloid inglesi hanno seguito fin dall’inizio e con grande interesse la vicenda e le relative indagini, ipotizzando anche che l’aristocratica e il compagno avessero affidato il figlio a qualcuno. Le cose sarebbero andate in un altro modo. Nel peggiore dei modi, per dirla tutta.
Omicidio colposo?
Il figlio di Constance e Mark è stato ritrovato morto in un bosco nella zona di Brighton, lo scorso primo marzo. Purtroppo la tragedia che tutti speravano di evitare si è concretizzata. La Bbc informa che una squadra di centinaia di persone, tra agenti e volontari, ha perlustrato un’area di 90 miglia quadrate. L’aristocratica e il fidanzato sono stati accusati di grave negligenza e omicidio colposo. Dovranno spiegare molte cose agli ufficiali di polizia, ricostruire passo per passo la loro fuga, i motivi che li hanno spinti ad allontanarsi e che li avrebbero portati a uccidere il loro bambino.
Alla Bbc Lewis Basford, di Scotland Yard, ha espresso tutta la tristezza e la delusione per l’esito di questa storia: “Questa è la conclusione che io stesso e i tanti agenti che hanno partecipato alle ricerche speravamo non accadesse. Riconosco l’impatto che questa notizia avrà su molte persone che hanno seguito questa storia da vicino e posso assicurare loro che faremo tutto il possibile per stabilire ciò che è accaduto”.
Sarà l’autopsia sul corpo del bambino a definire le cause della morte. In queste ore l’opinione pubblica britannica e non solo si chiede cosa avrebbe spinto Constance, che aveva tutto ciò che si può desiderare nella vita, su una strada così sbagliata, perché sarebbe arrivata a prendere decisioni che potrebbero averla condotta a un punto di non ritorno. La sua storia è terminata in modo violento e cupo, ma i punti oscuri sono ancora così tanti da rendere impossibile scrivere la parola fine sul caso.
DAGONEWS il 9 gennaio 2023.
Guardate cosa succede in questo carcere del Northamptonshire dove i criminali condannati festeggiano con alcol e droghe in un video da quella che è stata ribattezzata la "prigione più accogliente della Gran Bretagna". Five Wells è un carcere maschile di categoria C, prima mega prigione del Regno Unito gestita privatamente e incentrata sulla riabilitazione dei detenuti.
Il filmato mostra i detenuti che "fumano e tracannano alcolici", oltre a gustare cibi da festa.
I prigionieri sembrano poi leccarsi il sale dalle mani e mordere uno spicchio di limone prima di mandar giù bicchierini di Tequila, ballare e fumare cannabis.
La G4S, che gestisce il Five Wells, ha dichiarato che sono stati presi provvedimenti dopo che le immagini hanno scatenato l'indignazione: «Hanno fatto festa per ore in modo così sfacciato. Chiaramente non si preoccupavano che le guardie entrassero a rovinare il loro divertimento».
G4S ha dichiarato che tutte le celle dei detenuti coinvolti nei video sono state perquisite e che sono state prese "le misure appropriate"; i detenuti coinvolti sono stati segnalati e sottoposti a test antidroga.
«Il nostro personale dedicato lavora instancabilmente per individuare, intercettare e confiscare il contrabbando. Chiunque venga trovato in carcere con un telefono cellulare, droghe o alcolici sta infrangendo la legge e può rischiare di passare ulteriore tempo dietro le sbarre» ha dichiarato un portavoce.
La scomparsa della «donna del fiume», così il giallo inglese diventa un caso politico. Storia di Luigi Ippolito, corrispondente da Londra, su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023
È il mistero che da tre settimane tiene l’Inghilterra col fiato sospeso. Ma adesso è diventato un caso politico, con la polizia sotto accusa e l’intervento della ministra dell’Interno, Suella Braverman: perché al centro c’è la questione di come sia stata trattata la sparizione di una donna e la sua privacy. I fatti risalgono alla mattina del 27 gennaio, quando Nicola Bulley si è volatilizzata nel nulla durante una passeggiata col suo cane lungo il fiume Wyre, nel Lancashire: la polizia fin dall’inizio si è convinta che la donna sia caduta in acqua e annegata, ma nessuno sembra persuaso di questa spiegazione. Certamente non i detective fai da te che sono arrivati a frotte da tutto il Paese per aiutare nelle indagini (e che hanno finito per intralciarle): e sicuramente non le orde di complottisti del web, che da settimane propagano in Rete le teorie più strampalate.
È proprio per far fronte a tutto questo vociare — e alle accuse di incompetenza di fronte a un caso insoluto — che mercoledì la polizia del Lancashire ha convocato una conferenza stampa in cui, tra lo stupore generale, ha rivelato che Nicola aveva «significativi problemi con l’alcol» a causa delle sue difficoltà a gestire l’arrivo menopausa.
L’improvvida uscita della polizia ha provocato una levata di scudi a livello politico. La deputata conservatrice Alicia Kearns ha parlato di «colpevolizzazione della vittima», mentre la ministra ombra laburista degli Interni, Yvette Cooper, ha definito la mossa «assai inusuale» nonché fonte di preoccupazione: finché non è intervenuta la stessa ministra degli Interni, Braverman, che ha chiesto spiegazioni agli investigatori perché «non del tutto soddisfatta» dalla loro motivazione, volta a mettere fine alle speculazioni.
Anche la famiglia di Nicola si è espressa per dire che la donna non avrebbe voluto che i suoi dettagli personali venissero rivelati e per chiedere di mettere fine alle teorie folli che tengono banco sui social media. E ora ci si chiede come faranno le donne a fidarsi in futuro della polizia, se le loro vite private rischiano di essere divulgate così alla leggera.
Tutto questo non aiuta certo le indagini o le speranze di ritrovare viva Nicola. Nelle ultime immagini riprese dalla telecamera del citofono di casa, la si vede che carica il cane nel portabagagli della sua auto, attorno alle 8.30 del mattino del 27 gennaio, in procinto di accompagnare a scuola le due figlie di nove e sei anni. La donna indossa un cappotto blu, leggings, calzettoni e stivaletti alla caviglia. È un tragitto di pochi minuti, perché già alle 8.43 viene vista passeggiare col cane lungo il fiume: diverse persone la notano, l’ultima volta alle 9.10. Intanto, alle 9.01, si era collegata col telefonino a una riunione di lavoro su Teams: alle 9.20 risulta ancora connessa, ma poco dopo le 9.30 il cane viene ritrovato da solo, senza guinzaglio e in «stato di agitazione». Di Nicola nessuna traccia, se non il telefonino lasciato acceso su una panchina.
Come una donna sia potuta sparire nel nulla nel giro di pochi minuti, in una zona abbastanza frequentata, resta un mistero: gli investigatori dicono di escludere circostanze sospette o «persone terze» e pensano che Nicola sia caduta in acqua, magari per rincorrere il cane o forse per recuperare una palla che gli aveva lanciato (sempre che non si sia buttata lei stessa). Ma l’animale è stato ritrovato perfettamente asciutto, non ci sono tracce di scivolamento e gli amici fanno notare che la donna era una brava nuotatrice.
Le ricerche lanciate finora hanno visto impiegati elicotteri, droni subacquei e cani da fiuto: finché si è unita anche una squadra di esperti sommozzatori, che ha esteso il setacciamento lungo tutto il corso del fiume fino al mare aperto.
Ma intanto a fare danno ci sono i detective da tastiera, che danno fiato alle teorie più estreme e si sono focalizzati sul partner di Nicola e padre delle due bambine, Paul Ansell: i complottisti del web puntano il dito sulle finanze e le relazioni della coppia, tanto che gli amici sono dovuti intervenire per chiedere di mettere fine alle «vigliacche speculazioni». L’uomo, sottolineano, era in casa al momento della sparizione di Nicola, perché altrimenti le telecamere avrebbero registrato la sua uscita.
Ma una spiegazione credibile di come lei si sia volatilizzata non sembra emergere, mentre il partner di Nicola, Paul, continua a ripetere che «non considererà nessun altro esito» se non quello di ritrovare viva la sua compagna.
Risolto il giallo che ha atterrito Londra. Nicola era con il cane, trovata nel fiume. Storia di Erica Orsini su Il Giornale il 20 febbraio 2023.
Manca ancora l'identificazione ufficiale, ma sembra proprio che le ricerche di Nicola Bulley, la dog walker inglese scomparsa più di tre settimane fa, si siano concluse nel modo più triste. Dopo giorni di speculazioni e affanno, ieri la polizia ha ritrovato in acqua un corpo, in seguito alla segnalazione di alcuni abitanti.
Gli agenti erano stati avvertiti alle 11,36 di ieri da qualcuno che aveva avvistato un corpo nel fiume Wyre, vicino a Radcliffe Road, a circa un miglio da dove la Bulley era stata vista per l'ultima volta. «Una squadra di ricerca specialistica è quindi entrata in acqua ed ha, tristemente, recuperato un cadavere - si legge nella nota diffusa dalla polizia del Lancashire che si è occupata dell'indagine - non è stato effettuato ancora alcun riconoscimento formale, così non siamo ancora in grado di affermare che si tratti di Nicola Bulley, ma la famiglia è stata informata. La morte viene trattata al momento come inspiegabile. La famiglia è al corrente degli sviluppi del caso e i nostri pensieri sono con loro in questi difficili momenti».
Bulley, 45 anni, era una consulente finanziaria, residente nella cittadina di Inskip. Tre settimane fa, dopo aver accompagnato a scuola le due figlie di sei e nove anni, era misteriosamente scomparsa mentre portava a passeggio il cane Willow. Il suo cellulare, ancora connesso ad una chiamata di lavoro, era stato ritrovato su un panchina, insieme al guinzaglio della bestiola. La polizia aveva ipotizzato che potesse essere caduta nel fiume che costeggiava la passeggiata già dopo una settimana dalla sua scomparsa, ma il compagno della Bulley non si era mai detto convinto di una simile spiegazione. La scomparsa della giovane donna aveva suscitato un enorme interesse del pubblico e nella zona delle ricerche si erano ben presto radunati, oltre ad una folla di volontari, decine di detective improvvisati e di YouTubers in cerca di emozioni forti da condividere con il loro pubblico virtuale. Un fenomeno comunque favorito dall'ampia copertura che gli stessi media hanno dato di questo caso, anch'essa insolita visto l'enorme numero di persone che ogni anno scompaiono inspiegabilmente nel Regno Unito.
Dopo tre settimane di ricerche senza successo la polizia del Lancashire aveva preso un'iniziativa rara, spiegando pubblicamente che la signora aveva avuto dei problemi con il bere derivanti da una difficile menopausa e questa condizione era stata scoperta di recente. Le rivelazioni di natura molto personale avevano ferito la famiglia e turbato anche il Primo Ministro Sunak che aveva chiesto delle spiegazioni ufficiali.
Bloody Sunday, la strage che sconvolse l'Irlanda. Mezzo secolo fa la durissima repressione dei parà britannici a Derry contro i manifestanti nazionalisti dell'Irlanda del Nord. Un episodio i cui echi si sentono ancora oggi. Andrea Muratore l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.
Il 2022 è stato l'anno che in Irlanda del Nord ha segnato la fase più dura delle divisioni politiche tra una fetta grossa della popolazione dell'Ulster e il governo britannico. Il voto del 5 maggio caduto nel quarantunesimo anniversario della morte di Bobby Sands nel grande sciopero della fame condotto dai detenuti dell’Irish Republican Army (Ira) secessionista contro il governo britannico di Margareth Thatcher ha visto il sorpasso dei cattolici pro-unificazione con l'Irlanda sui protestanti. Risvegliando pulsioni politiche profonde a mezzo secolo di distanza dall'evento-simbolo del braccio di ferro tra Londra e l'Ira: il Bloody Sunday, la domenica di sangue del 30 gennaio 1972 che mostrò al mondo la gravità della faglia politica nordirlandese.
Quattordici persone rimasero, quel giorno, uccise sulla scia della repressione del Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell'Esercito Britannico che colpì i manifestanti catto-nazionalisti e repubblicani. Nei mesi segnati dallo scontro tra l'Ira e le formazioni paramilitari unioniste Ulster Volunteer Force (Uvf) e all'Ulster Defence Association (Uda) le autorità britanniche avevano imposto un giro di vite politico e militare. Dall'agosto 1971 l'internamento, ovvero l'arresto senza processo, di cittadini irlandesi considerati pericolosi: 21 persone morirono negli scontri tra polizia e manifestanti quel mese. Undici furono uccise nel solo capoluogo Belfast.
Nei mesi successivi l'attività dell'Ira prese di mira particolarmente Derry, città ritenuta simbolica nel dualismo cattolici-protestanti: a pochi passi dal confine tra Ulster e Repubblica d'Irlanda, con la vecchia città cinta da mura ubicata sulla riva occidentale del fiume Foyle simbolo dell'arroccamento britannico nell'Isola celtica, Derry era stata assediata dalle truppe inglesi nel Seicento e la Cattedrale di San Colombano recava l'epigrafe: "Se le pietre potessero parlare allora risuonerebbero l'elogio di Londra a chi costruì questa chiesa e la innalzò dal terreno". Un simbolo del dominio britannico a cui i nazionalisti nel 1969 si erano ribellati costituendo la Free Derry, una sorta di zona franca dal potere britannico in opposizione alle logiche politiche che, sfruttando la costruzione ad hoc di collegi elettorali ad uso e consumo dei protestanti, consentivano ai filo-britannici di governare agilmente la città.
Chiamata Londonderry dai britannici, la città era dunque attraversata da un clima di guerra civile latente. Chi provava a mediare tra le truppe Ira che si annidavano nella Derry "libera" e nel quartiere cattolico del Bogside e le autorità britanniche era il Social Democratic and Labour Party (Sdlp), formazione di Sinistra che aveva come emanazione l'Associazione per i Diritti Civili dell'Irlanda del Nord (Nicra) che per il 30 gennaio aveva convocato una manifestazione di pace. In un clima di altissima tensione, con l'Ira che scorrazzava per Free Derry e quest'ultima diventata una no-go zone per la Royal Ulster Constabulary (Ruc), la polizia dell'Ulster e il British Army, i paracadutisti reagirono al corteo in maniera scomposta, aprendo il fuoco in maniera unilaterale e senza alcuna provocazione, uccidendo quattordici persone e ferendone sedici.
Il corteo era stato vietato dalle autorità britanniche, ma tra le 20 e le 30mila persone si riunirono lo stesso nel centro di Derry per chiedere la fine degli internamenti arbitrari. La tensione e il timore di connessioni con i guerriglieri di Free Derry spinse il Generale Robert Ford, allora Comandante dell'esercito nordirlandese, a inviare il rimo battaglione del Reggimento Paracadutisti a Derry per supportare la polizia. La reazione eccessiva dei parà britannici del tenente colonnello Derek Wilford fu dettata dal timore che i rivoltosi si annidassero tra i protestanti più esagitati. Non a caso, quando il corteo attraversò Rossville Street, nel Bogside, il lancio di pochi sassi da parte del corteo aprì la strada alla durissima reazione dei militari britannici. In breve tempo fu strage.
Buona parte delle vittime erano studenti tra i 17 e i 21 anni. Il 2 febbraio 1972, giorno in cui dodici delle vittime furono sepolte, ci fu uno sciopero generale nella vicina Repubblica d'Irlanda, il più grande del secondo dopoguerra in Europa. Da Belfast a Dublino, Chiese, sinagoghe e parrocchie divennero epicentri di critica al governo inglese e ai militari. Per l'Irlanda del Nord sarebbe iniziato l'anno dei Troubles, un vero e proprio conflitto civile a bassa intensità fatto di attentati, sparatorie e attacchi a funzionari britannici che costò alla regione quasi 500 morti in un anno. Fece molto scalpore la concessione a Wilford dell'Ordine dell'Impero Britannico da parte di Elisabetta II, che agli occhi dei nazionalisti dell'Ulster inimicò la figura della sovrana. Da Paul McCartney ai Black Sabbath, da John Lennon agli U2, molti artisti avrebbero immortalato nelle loro canzoni il tragico giorno di sangue di Derry, quel Bloody Sunday che avvelenò i pozzi nell'Irlanda del Nord aprendo ferite che provocano ancora dolore. E che all'ombra della Brexit rischiano di riesplodere se verrà meno la garanzia degli Accordi del Venerdì Santo che da quasi venticinque anni hanno posto fine a trent'anni di guerra civile latente in Irlanda del Nord. Aventi nel Bloody Sunday il loro apogeo.
(ANSA giovedì 16 novembre 2023) - Minaccia di travolgere uno degli attuali ufficiali più alti in grado delle forze armate di Sua Maestà un approfondimento giornalistico condotta dal programma Panorama della Bbc su sospetti crimini di guerra attribuiti a militari britannici (come agli americani e ad altri) durante l'invasione a guida Usa dell'Afghanistan; crimini rimasti negli anni impuniti malgrado diverse inchieste e innumerevoli promesse di trasparenza.
Il nome che salta fuori dalle indagini dei reporter è quello del generale Gwyn Jenkins, dall'anno scorso vicecapo di Stato maggiore della Difesa del Regno Unito e comandante dei Royal Marines: un veterano super decorato della guerra in Iraq, del conflitto a Timor Est e dei cosiddetti Troubles in Irlanda del Nord, oltre che del fronte afghano.
Il programma tv è venuto infatti in possesso di un documento stando al quale Jenkins nel 2011 - quando era colonnello delle forze speciali - fu informato di esecuzioni sommarie di prigionieri ammanettati perpetrate nel Paese asiatico da uomini delle unità di commando di elite della Sas, con tanto di testimonianze dirette di altri militar. Ma contribuì a insabbiare tutto, apponendo il segreto su un fascicolo ad hoc e addirittura nascondendo il file in una sua cassaforte.
Secondo la ricostruzione della Bbc, l'allora colonnello fece rapporto al suo diretto superiore dell'epoca, il generale Jonathan Page, ma - una volta conclusi gli accertamenti - si guardò bene dal trasmetterli alla polizia militare per l'avvio di un procedimento giudiziario, come sarebbe stato suo dovere legale fare. Per poi scalare negli anni successivi i gradini più alti della carriera in divisa fino a diventare comandante in capo dei reparti speciali e quindi ad assumere nel 2022 il doppio incarico di numero uno dei Marines e numero due di tutte le forze armate.
Il dossier sulle accuse di "esecuzioni extragiudiziali" britanniche in Afghanistan è tuttora al centro di un'inchiesta pubblica indipendente in corso presso le Royal Courts of Justice di Londra. Inchiesta che finora non ha peraltro prodotto provvedimenti concreti, nonostante il velo squarciato giusto un anno fa da una precedente denuncia dei giornalisti di Panorama su almeno 54 episodi specifici di prigionieri afghani uccisi senza processo da un solo squadrone delle Sas, durante un singolo turno di missione di sei mesi svolto tra dicembre 2010 e maggio 2011.
Estratto dell'articolo di Federico Mellano per lastampa.it l'1 ottobre 2023.
L’albero di Robin Hood non c’è più. O meglio, l’albero di Sycamore Gap non c’è più. L’acero montano, che era comparso nella scena del film del 1991 «Robin Hood: Il principe dei ladri» con Kevin Costner, è stato abbattuto nella giornata di giovedì 28 settembre. Per l’increscioso atto è stato arrestato un sedicenne, di cui non sono ancora note le generalità, poche ore dopo l’abbattimento dell’albero.
[…]
«Naturalmente gli alberi vengono abbattuti tutti i giorni ma quando qualcuno sceglie di abbattere un albero molto specifico, uno così vistoso e apprezzato come il Sycamore Gap Tree sul muro di Adriano, la mente è leggermente confusa», scrive su Facebook il regista e attore Paul Blackthorne. «Quest'albero si innalzava come un monumento alla determinazione e alla sopravvivenza finché non è arrivato questo ragazzo».
[…]
Effettivamente, nelle brughiere al confine tra Inghilterra e Scozia, lungo il Vallo di Adriano sono passate leggende, popoli e battaglie che hanno reso quel lembo di terra affascinante e suggestivo. Quando l’Inghilterra divenne una delle prime potenze marinare al mondo, milioni di alberi furono abbattuti e la soppressione di quasi 16 milioni di alberi dal 2000 in Scozia per fare spazio ai parchi eolici aveva suscitato polemica. Gli inglesi e gli scozzesi però non hanno potuto difendere quell’albero su un confine antico, disegnato quasi duemila anni fa e ora un frammento di storia accanto al mito.
Birmingham dichiara bancarotta: ha pagato le donne meno degli uomini. Il Comune non riesce a far fronte alle richieste di risarcimento delle dipendenti per la disparità salariale degli ultimi dieci anni. Il Dubbio il 6 settembre 2023
Il Comune di Birmingham, la seconda città più popolosa del Regno Unito dopo Londra, ha dichiarato bancarotta dopo aver ricevuto una fattura di circa 760 milioni di sterline (890 milioni di euro) per ottemperare alle richieste di parità salariale tra uomini e donne a partire dal 2012.
La richiesta di risarcimenti nasce dalle disparità di retribuzione degli ultimi dieci anni, nei quali le donne sono state pagate meno degli uomini. Come riporta la testata inglese Indipendent, il buco in bilancio “attualmente si aggira intorno agli 87 milioni di sterline”, ma potrebbe arrivare a 164,8 milioni tra il 2024/25. “L’entità della discriminazione è molto peggiore di quanto si potesse immaginare, ed è chiaro che il consiglio non ha imparato nulla dalla sua vergognosa storia di sottovalutazione del lavoro femminile”, ha dichiarato alla Bbc Michelle McCrossen del sindacato dei lavoratori comunali.
Già nel 2012 una sentenza aveva già stabilito che il Comune dovesse pagare fino a 1,1 miliardi di risarcimento alle dipendenti discriminate. Si trattava di oltre cento impiegate in diversi ruoli, dalla didattica alla ristorazione, fino alle pulizie. Le autorità locali intanto hanno riferito che tutti i servizi che comportano nuove spese verranno interrotti immediatamente, ad eccezione dell'assistenza alle persone vulnerabili e dei servizi legali. Secondo la Bbc, il leader dell'amministrazione municipale di Birmingham, John Cotton, ha già avvertito che le autorità locali dovranno prendere "decisioni dure", indicando così una serie di tagli che potrebbero colpire strade, progetti culturali e spazi pubblici. Allo stesso modo, la situazione potrebbe incidere sul finanziamento comunale dei Campionati Europei di atletica leggera del 2026, che si terranno allo stadio Alexander, situato alla periferia della città.
La seconda città più grande del Regno Unito ha dichiarato bancarotta. Giorgia Audiello su L'Indipendente giovedì 7 settembre 2023.
Il comune di Birmingham nel Regno Unito è stato costretto a dichiarare bancarotta, non riuscendo più a far fronte al pagamento delle passività finanziarie. Secondo i media britannici, l’amministrazione di Birmingham è la più grande amministrazione comunale europea, guidata dal partito laburista. È inoltre la seconda città più grande dell’Inghilterra con quasi tre milioni di abitanti. Non potendo per legge dichiarare fallimento, in quanto gli enti locali non possono essere trattati alla stregua di aziende, l’amministrazione ha invocato la cosiddetta sezione 114, uno strumento giuridico che comunica a Stato e cittadini la mancanza di risorse per il pareggio di bilancio e dispone l’interruzione immediata di tutte le spese. Non si tratta del primo caso in cui un’amministrazione locale non è in grado di ottemperare i propri impegni finanziari: sempre nel Regno Unito, avevano fatto ricorso alla procedura di fallimento il quartiere londinese di Croydon e la cittadina di Thurrock.
Tra le diverse cause dell’impossibilità di ottemperare le passività finanziarie, l’amministrazione comunale cita in primo luogo l’aumento delle spese verso i dipendenti pubblici dovuto alle «richieste di parità contributiva». Secondo quanto si legge sul sito dell’amministrazione, «il Consiglio è ancora nella posizione di dover finanziare il debito per la parità retributiva accumulato fino ad oggi (nell’ordine dei 650-760 milioni di sterline), ma non ha le risorse per farlo». Inoltre, il mese scorso Birmingham aveva annunciato di dover far fronte a un deficit di bilancio di 87,4 milioni di sterline per il 2023/24, destinato a salire a 164,8 milioni di sterline nel 2024/25. In seguito al ricorso alla sezione 114, tutte le nuove spese dovranno essere interrotte. Ciò significa che la maggioranza dei servizi offerti dal comune saranno tagliati, tra cui trasporti pubblici, autostrade, manutenzione, spazi verdi e sovvenzioni per gruppi comunitari. Le uniche cose che verranno salvate saranno la protezione delle persone vulnerabili e dei servizi legali. Il tutto in nome dei conti pubblici in ordine e del pareggio di bilancio, secondo i canoni della dottrina neoliberista.
Il capo dell’amministrazione municipale, John Cotton, e la sua vice, Sharon Thompson, si sono, infatti, difesi dalle polemiche – provenienti soprattutto dall’opposizione conservatrice dei Tory – rivendicando il «rigore di bilancio», a loro dire reso ancora più necessario da quella che hanno definito una «tempesta perfetta», innescata da una serie di elementi, tra cui: un calo generale dei redditi, il calo delle entrate garantite dagli affari locali, l’alta inflazione e la diminuzione dei trasferimenti fiscali versi gli enti locali imputata alla politica del governo centrale conservatore di Londra. Secondo il think tank Institute for government, i finanziamenti governativi provenienti da Londra sono diminuiti del 40% in termini reali tra il 2009/2010, periodo segnato dall’ascesa al potere dei conservatori, e il 2019/2020, per poi aumentare nuovamente con spese eccezionali legate alla pandemia. Contemporaneamente, durante questo periodo, gli inglesi hanno subito un aumento della tassazione e un aumento del costo della vita innescando una vera e propria piaga sociale.
Il contesto in cui si inserisce il “fallimento” della città inglese è quello che accomuna buona parte della nazioni europee, dove l’inflazione continua a rimanere molto alta, nonostante l’aumento dei tassi delle banche centrali, e parallelamente si cominciano a intravedere i primi segnali di rallentamento economico. Ad aggravare il tutto, però, sono le modalità con cui i governi europei hanno deciso di affrontare le crisi, ossia con maggiore austerità e – a volte – con un aumento della pressione fiscale, cui si aggiungono lo politiche di rialzo dei tassi decise dalla BCE e dalla stessa Banca d’Inghilterra: un mix che si sta rivelando deleterio per l’economia e dettato dal dogma dei conti pubblici in ordine e dalla sottomissione degli Stati ai “mercati”. Il caso di Birmingham sembrerebbe l’esempio più rappresentativo di come il perseguimento del pareggio di bilancio – rivendicato dall’amministrazione locale – non abbia affatto messo al riparo le finanze pubbliche, bensì abbia completamente smantellato lo stato sociale. Uno schema che si sta osservando anche in molti altri stati europei, compresa l’Italia che si appresta a varare una manovra di bilancio restrittiva, e che sarà inasprito dal ritorno del Patto di Stabilità voluto da Bruxelles.
L’amministrazione della città britannica dovrà ora prendere delle «decisioni dure», come riferito da Cotton e, soprattutto, dovrà definire un piano finanziario d’emergenza entro i prossimi 21 giorni. In una dichiarazione, il consiglio comunale ha affermato di aver implementato «rigorosi controlli sulla spesa a luglio». Tuttavia, ha evidenziato che senza l’intervento del governo centrale non si potrà ripristinare la solidità finanziaria della seconda città più grande del Regno Unito. [di Giorgia Audiello]
(ANSA il 18 agosto 2023) - C'è un colpo di scena nella vicenda dei preziosi gioielli antichi sottratti dai depositi del British Museum nell'arco di diversi anni. Secondo infatti i media del Regno Unito il dipendente dell'istituzione culturale nota in tutto il mondo licenziato dopo la scoperta dei ripetuti furti è Peter John Higgs, 56enne curatore delle collezioni sulla Grecia antica, con alle spalle un dottorato in archeologia e oltre trent'anni al servizio del museo londinese.
Gli oggetti scomparsi, in oro e gemme di pietre semipreziose e risalenti a un periodo compreso tra il XV secolo a.C. e il XIX secolo, non erano stati di recente esposti al pubblico ma stando agli esperti hanno un valore inestimabile, sebbene sul mercato nero possano fruttare milioni di sterline.
Era stato lo stesso museo a denunciare l'accaduto, limitandosi però a dire che un membro dello staff era stato licenziato e che era stata avviata una indagine di polizia, oltre a una inchiesta interna per rafforzare la sicurezza ed evitare il ripetersi di un caso del genere. I media intanto cercavano il nome del dipendente al centro dello scandalo e non ci hanno messo molto per individuarlo.
Per Higgs ha parlato il figlio 21enne, Greg, cercando di difenderlo: "Non ha fatto niente. La notizia del licenziamento è stata per lui uno shock. Ha lavorato lì per 35 anni senza avere problemi". Higgs, che vive ad Hastings sulla costa meridionale dell'Inghilterra, di recente aveva curato la mostra dal titolo 'Ancient Greeks: athletes, warriors and heroes' esposta in diversi Paesi, e nel 2019 aveva scritto un libro sulla Sicilia e il suo patrimonio archeologico.
La scomparsa dei manufatti ha portato a un'indagine della polizia da parte dell'Economic Crime Command di Scotland Yard oltre a una azione legale avviata dal museo contro l'ex dipendente, ma al momento non è stato effettuato alcun arresto. Secondo il Daily Telegraph, in quella che emerge come una presunta attività criminale compiuta dall'interno del British Museum sin dal 2019, è stato sfruttato anche il lungo periodo di chiusura, ben 163 giorni, durante la pandemia da Covid.
Il museo non ha reso pubblica una descrizione precisa degli oggetti sottratti e non si è espresso nemmeno sul numero dei reperti o sul loro valore, sebbene abbia contestato una stima circolata di 80 milioni di sterline. Ma soprattutto si teme che le opere, fra l'altro non assicurate, non verranno mai recuperate in quanto già fuse, tagliate o vendute nel mercato nero internazionale degli oggetti antichi.
(ANSA martedì 22 agosto 2023) - Sono più di 1.500 i reperti del British Museum rubati o distrutti -nel caso degli oggetti preziosi - sottratti all'istituzione culturale londinese che ha portato al licenziamento di un dipendente, Peter John Higgs, 56enne curatore delle collezioni sulla Grecia antica, all'avvio di una indagine di polizia e di una inchiesta interna da parte del museo.
E' quanto si legge sul Daily Telegraph che cita fonti ben informate nonostante il Brisith Museum non abbia ancora reso pubblico il numero degli oggetti rubati, né diffuso fotografie o descrizioni degli stessi, mentre il personale sarebbe "scioccato" dall'entità della perdita. Proprio la gravità della situazione avrebbe spinto l'istituzione a non fornire informazioni in merito.
Nei giorni scorsi si era detto che alcuni oggetti erano perfino stati offerti sul sito di aste online Ebay ma non venduti. Inoltre fonti nel mondo dell'arte antica avevano criticato l'incapacità del museo di catalogare correttamente tutti gli otto milioni di oggetti della sua collezione: fatto che avrebbe reso più facile compiere i furti. Le ultime rivelazioni sono destinate ad aumentare ulteriormente le pressioni su Hartwig Fischer, direttore del British Museum, affinchè si dimetta immediatamente anziché aspettare fino al 2024. Il mese scorso aveva infatti annunciato di voler lasciare l'incarico l'anno prossimo.
C’è un problema a Scotland Yard: mille agenti sospesi per crimini. Omofobi, razzisti e misogini: in un rapporto interno la deriva della polizia londinese. Tra i reati più diffusi e in preoccupante aumento ci sono i casi di violenza sessuale. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 19 settembre 2023
C’era una volta Scotland Yard, con la sua aura di polizia super efficiente e dal volto umano, protagonista di romanzi e film. Magari un po demodé nell'immaginario, rispetto ai Rambo americani, ma un fiore all'occhiello per il governo del Regno Unito e Sua Maestà. Fasti del passato perché da anni la reputazione dei famosi bobbies è radicalmente cambiata. I vertici del Met (la polizia metropolitana) hanno infatti lanciato una campagna di trasparenza e pulizia nella regione di Londra, per fronteggiare la deriva violenta degli agenti.
Dalle pagine di un rapporto presentato alla stampa i poliziotti inglesi ne escono con le ossa rotte. Omofobi, razzisti e corrotti, nonché in alcuni casi macchiati da reati gravissimi come la violenza sessuale. Un campionario di nefandezze che ha portato, solo per il momento, a sanzionare almeno mille agenti. Secondo Stuart Cundy, vice commissario aggiunto della polizia britannica, l'operazione vuole individuare quelle che vengono definite, come sempre ad ogni latitudine, mele marce. Solo che il paniere sembra molto grande visto che sono stati annunciati centinaia di provvedimenti disciplinari che vanno dai semplici richiami a veri e propri allontanamenti dal corpo di appartenenza. La Metropolitan Police conta un effettivo di 34 mila agenti, la situazione sembra essersi incancrenita da molto tempo e da oltre un anno sta affrontando una crisi interna devastante unita a un drastico calo di popolarità. La ragione sta in una serie di scandali gravi, i resoconti del rapporto individuano senza dubbio condotte istituzionalmente razziste, sessiste e omofobe.
Le cifre sono impietose, nell’ultimo anno, 201 agenti di polizia sono stati sospesi e circa 860 sono stati trasferiti. Inoltre, circa 100 agenti sono stati licenziati per cattiva condotta (il 66% in più rispetto agli anni precedenti) e 275 sono attualmente in fase di processo disciplinare. Numeri che indicano come un agente su 34 è stato sottoposto a qualche tipo di indagine e sanzione. Il repulisti annunciato, data l'ampiezza e la gravità di reati non avrà tempi brevi. Si parla di almeno un paio di anni e lo stesso Cundy non ha nascosto la necessità di riforme immediate che vadano in profondità. La portata di tutto ciò è uno scotto da pagare per recuperare almeno un po 'di credibilità, la condotta dei poliziotti infatti rischia di riflettersi pesantemente sulla politica, la prova nel fatto che il rapporto è stato voluto dalla Camera dei Lord.
Tra gli scandali che hanno travolto Scotland Yard, la condanna all'ergastolo di David Carrick, l'agente che si è macchiato di stupri e aggressioni sessuali ai danni di dodici donne. Uno stupratore seriale che ha potuto agire indisturbato per anni protetto dalla sua divisa. Non un caso isolato, perche nel 2021 la reputazione della polizia londinese venne sfregiata da un altro agente riconosciuto colpevole di una violenza sessuale. Gli uomini sanzionati sono solo quelli protagonisti di casi gravi, di alto profilo, come ha riconosciuto la dirigenza del Met, segno che andando avanti nelle indagini potrebbero emergere reati analoghi tali da mettere in forse la stessa legittimità della polizia.
Stupisce che si è arrivati a questo punto molto in ritardo, due anni fa venne ordinato un rapporto indipendente che portò alle stesse conclusione: se non si fossero messi in campo cambiamenti radicali si sarebbe anche potuti giungere alla decisione di smantellare un corpo di polizia che ha fatto storia nel Regno Unito. Ma negligenze, errori, abusi, insabbiamenti e reati insieme a coperture piu o meno inconfessabili bloccarono i tentativi di riforma. Basta tornare al 2016 quando Scotland Yard avviò senza successo un'indagine penale rispetto alle affermazioni di tre agenti, condannati e poi assolti per cattiva condotta, i quali accusarono la Commissione indipendente per i reclami della polizia (IPCC) di aver deliberatamente nascosto delle prove, il segnale già allora che il dipartimento di polizia stava diventando un campo di battaglia.
Il detective antidroga di Scotland Yard sotto inchiesta perché fumava canne fin dal mattino. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera mercoledì 2 agosto 2023.
L’ex comandante assumeva Lsd e funghi allucinogeni. Tra una dose e l’altra si ubriacava, ha raccontato una donna che ha convissuto con lui: «Non sapevo che fosse un poliziotto, pensavo fosse uno spacciatore»
Julian Bennett, 63 anni, secondo una donna che ha convissuto con lui per qualche mese aveva l’abitudine di accendersi una «canna» appena sveglio, riempiendo di fumo il bagno di casa. Assumeva Lsd e funghi allucinogeni, si ubriacava tra una dose e l’altra, e a volte scompariva di notte per procurarsi altra droga.
La casa? Disordinatissima, al punto che la donna («Non sapevo che fosse un poliziotto, pensavo fosse uno spacciatore») decise di andare a vivere altrove. Il problema — lo scandalo — è che Mr. Bennett era anche il comandante Bennett di Scotland Yard, l’uomo che sei anni fa disegnò la strategia di «tolleranza zero» sulle droghe della polizia municipale londinese e che come giudice d’una commissione disciplinare interna era tanto severo da essere noto come «il tagliateste».
Ora è sospeso, sotto processo dalla stessa commissione disciplinare: nega le accuse della donna, ma pesa a suo carico il rifiuto di sottoporsi a un esame delle urine a sorpresa (si è giustificato dicendo che aveva assunto una piccolissima quantità di cannabinoidi come terapia per una presunta paresi facciale, l’accusa ribatte che la cannabis terapeutica dà risultati del test molto diversi da quelli di un utilizzatore abituale a alte dosi).
Londra, chiedeva foto osé a un minorenne. Sospeso uno dei volti più noti della Bbc. Storia di Erica Orsini su Il Giornale il 13 luglio 2023.
È Huw Edwards il presentatore della Bbc sospettato di aver pagato migliaia di sterline un adolescente perché gli mandasse delle foto osé. A fare il suo nome, dopo una giornata di polemiche, è stata la moglie, Vicky Flind, in una nota diffusa ieri. Il suo volto di uomo perbene, rassicurante e familiare, è entrato per anni in tutte le case del Regno Unito. Ora si trova ricoverato nel reparto psichiatrico di un ospedale con gravi problemi mentali.
Davvero difficile immaginarlo nei panni di un predatore sessuale, affamato di immagini osé di giovani ragazzi. Eppure è questo il ritratto che emerge dalla vicenda diffusa dal tabloid The Sun, che aveva pubblicato l'intervista alla madre del ragazzo e che ieri ha diffuso un secondo articolo in cui un'altra presunta vittima avrebbe ricevuto dalla star tv denaro in cambio di foto con contenuto sessuale. Secondo quanto riportato dal quotidiano il presentatore avrebbe conosciuto l'adolescente tramite una app di appuntamenti e si sarebbe anche recato a fargli visita nel suo appartamento nel 2021, violando anche le regole imposte dal lockdown. La Bbc ha pubblicato martedì sul sito online le dichiarazioni di un ventenne che sostiene di essersi sentito minacciato dallo stesso uomo dopo che si erano connessi sulla app di appuntamenti. I due non si sono mai incontrati, ma il ragazzo ha raccontato di aver ricevuto dei messaggi minatori nel momento in cui ha ipotizzato di rendere pubblico il nome del suo interlocutore. Ieri la polizia ha archiviato l'indagine concludendo che non c'erano prove per un reato, ma la Bbc, nell'occhio del ciclone soprattutto per come ha gestito finora tutta la vicenda, ha riaperto l'inchiesta interna. Nel frattempo la prima vittima ha smentito, tramite il proprio avvocato, le rivelazioni del Sun definendole «immondizia», ma la sua famiglia ha confermato tutte le dichiarazioni. Si tratta di una storia piuttosto ingarbugliata in cui emergono particolari e protagonisti nuovi che danneggiano sempre più l'emittente pubblica britannica, ma è anche e soprattutto una triste storia privata con risvolti che al momento nessuno può immaginare. È un po' quello che pensano molti dei colleghi del presentatore che ieri hanno commentato con dolore la notizia. «Sono così dispiaciuto per tutti coloro coinvolti; per la famiglia di Edwards, per chi ha presentato le accuse e per lo stesso Huw - ha twittato ieri John Simpson - non è stato commesso alcun reato, quindi è una tragedia puramente personale. Mi auguro che la stampa li lasci in pace». Il broadcaster Jon Sopel, ex direttore di Bbc North America ha descritto la situazione come «scioccante» ed ha anch'egli sottolineato che Edwards non è colpevole di alcun reato, ma «forse aveva una vita personale complicata.
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” venerdì 7 luglio 2023.
Gli inglesi narrano orgogliosi che Westminster è la “culla della democrazia occidentale”. Ma ora per qualcuno è diventata “Pestminster” o “Pornminster”, poiché macchiata da continui scandali sessuali, sessisti, machismo, misoginia, bullismo, e razzismo.
Ieri, l’ultima. Una commissione parlamentare ha chiesto che il deputato conservatore ed ex ministro Chris Pincher venga sospeso per 8 settimane per aver molestato due ragazzi, da ubriaco lercio in un club di “gentlemen”. […] L’ex primo ministro Boris Johnson inizialmente lo difese e ciò decretò la sua fine politica, apparecchiata da un altro scandalo al cuore di Whitehall: il Partygate, le famigerate bevute e feste a Downing Street durante i lockdown.
[…]
Mhairi Black, parlamentare indipendentista scozzese (Snp), nel 2015 è stata eletta in Parlamento a soli 20 anni, la più giovane in tre secoli. L’altro giorno però ha annunciato l’addio al Parlamento perché «sessista, velenoso, malsano, estenuante».
Le tenebre del “dark side” di Westminster hanno molte sfumature.
Due settimane fa, il deputato laburista Geraint Davies è stato sospeso per «comportamenti inappropriati» verso donne del suo staff. Due anni fa, per violenze sessuali, è stato incarcerato il deputato tory Charlie Elphicke. Nel 2022, 56 parlamentari sono stati segnalati per «comportamento sessuale inappropriato» all’ Independent Complaints Grievance Scheme , piattaforma nata dopo il Me-Too.
[…] la lista delle sconcezze è lunga. Negli ultimi mesi è stato beccato a guardare un porno in aula il 65enne conservatore ed ex contadino Neil Parish. Giustificazione: «Stavo cercando su Google il trattore “Dominator” e sono finito per sbaglio su un sito porno!». L’anno scorso un altro tory, il 49enne Imran Ahmad Khan, si è dovuto dimettere perché colpevole in primo grado di aver molestato sessualmente un 16enne. Mentre il 57enne David Warburton, sempre conservatore, è stato protagonista di un altro scandalo: accuse di molestie sessuali da due donne. Ed stato immortalato con una «striscia di cocaina» dal Sun.
Poi c’è la cultura dell’alcol, che dalle 18 scorre a fiumi nei pub del Parlamento. L’anno scorso la sottosegretaria agli Esteri Anne Marie- Trevelyan ha rivelato che un ex anonimo deputato, dopo varie birre, l’avrebbe palpeggiata e scagliata contro un muro. Il parlamentare laburista gay Chris Bryant ha raccontato come a inizio carriera sia stato molestato da «deputati più anziani “eterosessuali”».
Lo stesso è capitato al giornalista Alexander Brown dello Scotsman , che ha accusato un secondo anonimo deputato di offese antisemite. Mentre Henry Dyer del Guardian , reporter di origini cinesi, ha denunciato affermazioni e gesti razzisti e sinofobi contro di lui da parte del parlamentare laburista Neil Coyle, proprio sulla terrazza dello “Strangers”, il bar misto dove giornalisti, parlamentari e portavoce fanno tardi fino a sera.
Persino l’ex speaker della Camera, il celebre e istrionico John Bercow, è stato condannato per bullismo con i collaboratori. Ora il suo successore, Sir Lindsay Hoyle, ha limitato l’alcol e chiesto un’urgente inchiesta interna per salvare la reputazione di Westminster. Prima che la Camera dei Comuni diventi un abietto covo di scimmie, come in Devolved Parliament , la straordinaria opera di Banksy.
Sua Maestà britannica spacciava oppio in Cina. Il saggio di Sergio Valzania ripercorre le guerre che portarono al crollo del Celeste impero. Matteo Sacchi il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.
Se vi avventurate, anche per un breve viaggio, all'interno della Repubblica popolare cinese, potreste restare stupiti di quanto spesso vengano fatti richiami al fu Celeste Impero. È stupefacente, per una nazione comunista quanto il ricordo della dinastia Quing (1644-1912) sia rimasto forte. I cinesi rimpiangono una sorta di età dell'oro, di isolamento e indipendenza che gli ultimi imperatori Quing non sono riusciti a salvaguardare. Insomma, quelle che la storiografia ci ha tramandato come le «guerre dell'Oppio» sono un trauma che la Cina contemporanea pare non aver superato del tutto, osia l'inizio di un infelice rapporto con l'Occidente che, nel XXI secolo, secondo molti cinesi finalmente è possibile invertire, se non «vendicare».
Se partiamo da questo ragionamento cercare di capire cos'è accaduto durante i due violenti conflitti, il primo avvenuto tra il 1839 e il 1842, il secondo tra il 1856 e il 1860, diventa qualcosa di più di un mero esercizio speculativo; diventa il modo di andare alla radice di un rapporto complesso e ancora irrisolto.
Per farlo risulta utile il volume di Sergio Valzania appena pubblicato per i tipi di Mondadori e intitolato proprio Le guerre dell'oppio. Il primo scontro tra Occidente e Cina (pagg. 278, euro 20). Lo storico e divulgatore, che ha molta passione per le questioni militari, analizza il tema allargando l'analisi alle lunghe e complesse vicende che hanno preceduto lo scontro. Si iniziò infatti con la diplomazia, o meglio con grandissimi equivoci scambiati per diplomazia. L'Inghilterra, con il suo Impero coloniale, in piena espansione, iniziò a cercare di prendere contatto con la corte imperiale cinese già nel 1793. La rappresentanza diplomatica britannica, capitanata da George Macartney (1737-1806), incappò subito in una serie di falle comunicative insanabili. Per i cinesi si trattava di barbari che si recavano dall'imperatore per riconoscere la sua superiorità. Insomma gli inglesi venivano a compiere il «kowtow», l'omaggio rituale con cui si riconosceva la superiorità di Pechino, il centro del mondo. Gli inglesi, invece, volevano aprire altri porti orientali al commercio, la concessione di una base navale, lo scambio di ambasciatori alla pari. Ovviamente l'incontro fu un fallimento. Pura incomprensione? O i cinesi, che contatti con l'India ne avevano, iniziavano a rendersi conto di come operava la Compagnia delle Indie una volta che penetrava in un territorio? Insomma che era meglio usare una scusa qualunque per concedere il meno possibile. Non lo sapremo mai. Di sicuro le navi inglesi iniziarono ad arrivare sempre più numerose per dare alla fonda nell'unico porto cinese aperto ai commerci: Canton. Soprattutto dopo che il dominio dei britannici sul subcontinente indiano divenne sempre più solido. E senza diplomazia e accordi a farla da padrone furono le esigenze di una primitiva globalizzazione portata avanti senza scrupoli.
La Cina forniva prodotti preziosissimi, come il tè, il rabarbaro, la seta... Gli inglesi però non potevano continuare all'infinito a pagare questi prodotti di lusso in argento: rischiavano la bancarotta. La trovata «geniale» dei commercianti di Sua Maestà fu quello di importare in Cina oppio prodotto in India. Era un modo più che efficace di mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, a cui rapidamente si associarono anche altri Paesi come gli Stati uniti. In breve i mercanti britannici divennero i più grandi trafficanti di droga del pianeta. Gli effetti sulla popolazione cinese, soprattutto sui suoi ceti medi, furono devastanti. Era inevitabile che a un certo punto ci fosse una reazione.
L'imperatore Daoguang, salito al trono nel 1820, cercò di intervenire sui suoi sudditi, senza ottenere risultati apprezzabili. Determinato a debellare il traffico, nel marzo del 1839 inviò, in qualità di commissario imperiale, il mandarino Lin Zexu (1785-1850) a Canton, dove era concentrata la maggior quantità di oppio che entrava nel Paese. Zexu ne fece subito distruggere un'enorme quantità sequestrata ai trafficanti stranieri e indirizzò una missiva alla regina Vittoria del Regno Unito affinché intercedesse per porre fine al traffico. La scelta del commissario imperiale della linea dura, risulta perfettamente comprensibile, sia in termini di sovranità nazionale sia in termini di ordine pubblico. Ma Zexu, solidissima formazione in morale e retorica confuciana (i funzionari cinesi subivano una selezione di prim'ordine), non aveva però la preparazione tecnica per valutare la disparità di capacità tecnologica fra le forze di cui poteva disporre. Da parte di Londra non arrivò nessuna marcia indietro. Anzi i commercianti inglesi, supportati dagli emissari del loro governo, chiesero di essere rimborsati dell'oppio distrutto. Ne nacque un braccio di ferro che sfociò in un primo scontro armato il 3 novembre 1839. Le fragili giunche cinesi attrezzate con artiglierie vecchissime che bloccavano il Fiume delle perle vennero rapidamente travolte dai pochi, ma molto più moderni velieri, della Royal Navy. Nel frattempo Londra stava mobilitando le sue forze inviando verso la Cina anche unita a vapore, che gettavano i cinesi nello sconcerto. Anche negli scontri a terra la fanteria britannica dotata di moderni fucili fece strage delle forze cinesi che utilizzavano archi e nei migliori dei casi obsoleti archibugi.
Il risultato fu l'umiliante trattato di Nanchino, firmato il 29 agosto 1842 dalla Cina. Non fu una chiusura duratura delle ostilità perché, di nuovo, le parti non giocarono a carte scoperte nella ratifica. Il risultato fu il nuovo e devastante scontro del 1856-60. Dimostrò che, nonostante l'accanita resistenza cinese, il divario tecnologico era ancora aumentato. E britannici e francesi lo fecero pesare con ritorsioni violentissime. L'incendio della residenza imperiale estiva, lo Yuan Ming Yuan, il 18 ottobre 1860, ordinata da Lord Elgin figlio dell'Elgin che saccheggiò i marmi del Partenone, fu un evento così brutale da provocare inchieste anche a Londra e Parigi. Ma ormai il vulnus - dentro un orgoglio millenario - era stato inferto. E ancora lascia traccia in un Paese che pensa in termini di secoli come noi in termini di decenni.
(ANSA il 16 giugno 2023) - Si allungano nuove ombre - sia pure in forma indiretta - sulle forze dell'ordine britanniche, dopo gli scandali recenti e meno recenti abbattutisi su Scotland Yard come su altri dipartimenti.
Michael Lockwood, 64 anni, alto funzionario di Stato ed ex direttore generale dell'Independent Office for Police Conduct (Iopc, l'autorità disciplinare indipendente chiamata a sorvegliare i comportamenti in seno ai diversi corpi di polizia d'Inghilterra e Galles), è stato infatti incriminato oggi per molestie e violenze sessuali denunciate a oltre tre decenni dai fatti ai danni di una ragazza allora sotto i 16 anni d'età.
Lockwood, responsabile dell'Iopc fra il 2018 e il 2022, era stato in precedenza per molti anni a capo dello staff amministrativo della municipalità londinese di Harrow, sotto amministrazioni sia a guida Tory sia a guida Labour.
Le accuse nascono da una delle cosiddette inchieste "storiche" riaperte sull'isola dopo l'inerzia o gli insabbiamenti del passato su vicende di sospetti crimini sessuali e di pedofilia a carico in particolare di vip o figure d'establishment.
Inchiesta avviata nei suoi confronti dalla Procura della Corona a dicembre. Esse fanno riferimento a tre presunti stupri e sei episodi di atti osceni. Il funzionario, messo a riposo a fine 2022, dovrà ora comparire di fronte a un giudice della Hull Magistrates' Court, nel nord-est dell'Inghilterra, il 28 giugno 2023.
Trovate e decifrate le lettere perdute di Maria Stuarda: la difesa del suo caso, i pettegolezzi e le malattie. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera l’8 febbraio 2023.
Un team internazionale di studiosi e traduttori di codici antichi ha trovato e decifrato le lettere segrete a lungo considerate perdute di Maria Stuarda, regina di Scozia, una delle figure più discusse della storia britannica. Le lettere scomparse, di cui si vociferava da tempo e che sono state trovate mal etichettate nell’archivio digitale della Biblioteca nazionale francese (BnF), sono state accolte dagli storici come «la scoperta più significativa sulla sovrana scozzese da un secolo a questa parte».
Maria Stuarda, cattolica, scrisse le lettere in codice dal 1578 al 1584 mentre era imprigionata in Inghilterra a causa della minaccia che rappresentava per la regina Elisabetta I, sua cugina protestante. Maria fu decapitata nel 1587 dopo essere stata dichiarata colpevole di aver complottato per assassinare Elisabetta I. I tre studiosi che hanno fatto la scoperta — membri del progetto DECRYPT, un team internazionale e interdisciplinare che setaccia gli archivi del mondo per trovare documenti storici in codice da decifrare — hanno trovato 57 lettere contenenti circa 50.000 parole mai conosciute prima. Il team stava spulciando l’archivio digitalizzato della Biblioteca nazionale francese, quando si è imbattuto in documenti cifrati etichettati come provenienti dall’Italia nella prima metà del XVI secolo: «Se qualcuno volesse cercare materiale su Maria Stuarda la BnF sarebbe l’ultimo posto in cui andrebbe», ha spiegato l’informatico e crittografo francese George Lasry, uno dei tre esperti. Decifrare il codice — ha detto Lasry — «è stato come sbucciare una cipolla». Il trio comprende anche il professore di musica tedesco Norbert Biermann e il fisico giapponese Satoshi Tomokiyo.
I tre studiosi hanno subito notato che il testo non era in italiano, ma in francese. E che chi scriveva era una donna. Frasi come «la mia libertà» e «mio figlio» suggerivano poi che si trattava di una madre imprigionata. Poi la parola chiave che ha portato a Maria Stuarda: «Walsingham». Francis Walsingham era il principale segretario e «spymaster» di Elisabetta I. Alcuni storici ritengono che sia stato proprio Walsingham a «intrappolare» Maria Stuarda nel 1586 per farle sostenere lo sventato complotto di Babington per assassinare la regina Elisabetta I. Otto delle 57 lettere ritrovate erano già presenti negli archivi britannici perché Walsingham aveva una spia nell’ambasciata francese dalla metà del 1583, ha riferito Lasry. La maggior parte delle missive sono indirizzate a Michel de Castelnau Mauvissiere, ambasciatore francese in Inghilterra e sostenitore della monarca scozzese. Secondo Lasry, Maria Stuarda era «troppo intelligente» per menzionare per iscritto un complotto per un assassinio. Al contrario, le lettere la mostrano mentre perora diplomaticamente il suo caso, mentre spettegola, si lamenta delle malattie e dei presunti antagonisti ed esprime angoscia quando suo figlio, il re Giacomo VI di Scozia, viene rapito.
Lasry ha dichiarato di non aver potuto fare a meno di provare empatia per la regina «perché è una tragedia: si sa che verrà giustiziata». Gli storici hanno tributato il loro riconoscimento sia alla decifrazione del codice che alla ricerca storica del team: «Questa è una scoperta sensazionale, letteraria e storica. È la più importante scoperta su Maria, Regina di Scozia, da 100 anni a questa parte», ha commentato John Guy, storico britannico autore di una biografia di Maria Stuarda da cui è stato tratto il film del 2018 con Saoirse Ronan. Per Steven Reid, esperto di storia scozzese all’Università di Glasgow, si tratta della «più grande scoperta di nuove prove mariane nell’era moderna», che probabilmente modificherà le biografie esistenti sulla vita di Maria, aggiungendo che il cifrario potrebbe aiutare a produrre versioni più accurate delle altre lettere in codice. Nadine Akkerman, docente di Letteratura moderna all’Università di Leida, nei Paesi Bassi, ha dichiarato che per gli storici è «come scoprire un tesoro sepolto». Si ritiene che alcune lettere di Maria non siano ancora state ritrovate e i ricercatori affermano che il prossimo passo potrebbe essere l’ispezione fisica dello stock di documenti originali ancora non digitalizzati della Biblioteca nazionale francese.
Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 22 marzo 2023.
[…] l’inchiesta indipendente della baronessa Louise Casey inchioda la gloriosa polizia della capitale: un «club machista», un covo di «razzismo, misoginia e omofobia». […]
Le indagini indipendenti sono durate un anno, dopo lo stupro e brutale omicidio di Sarah Everard, la 33enne londinese nel 2021 rapita e assassinata da un poliziotto, Wayne Cousens. Da allora c’è stato un altro caso clamoroso, quello dell’agente David Carrick, 48 anni, che nelle scorse settimane ha ammesso almeno 24 capi di accusa tra cui decine per stupro, molestie e maltrattamenti. Ma, a quanto si legge nel report di 363 pagine, le gravissime deficienze della polizia londinese sarebbero sistemiche e il corpo «istituzionalmente razzista, misogino, sessista e omofobo».
[…]Il rapporto cita episodi inquietanti. Vari casi di stupro, per esempio, sarebbero stati archiviati a causa di un frigo rotto, dove sono andate distrutte le prove. Discriminazione costante verso le poliziotte, buste di urina contro le loro auto, agenti maschi che mostravano i genitali, sex toys nelle tazze del caffè, squallidi rituali di iniziazione, come quello di urinare sulle nuove reclute.
[…] Per questo, Casey ha esortato Scotland Yard a intraprendere una radicale pulizia interna, per restaurare l’onore del corpo di polizia, «chiedere scusa per gli errori del passato e ricostruire la fiducia dei cittadini». Altrimenti, la “Met” «dovrebbe essere sciolta e riformata radicalmente ». Sic transit gloria mundi.
Il dossier dopo l’uccisione di Sarah Everard. Scotland Yard travolta dagli scandali, un rapporto accusa la polizia di Londra di razzismo e bullismo: rischia la chiusura. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Marzo 2023
Le 363 pagine del rapporto investigativo sull’iconica MET, la polizia metropolitana di Londra nota anche come Scotland Yard, dal nome della sede originale del corpo di polizia, si concludono con una richiesta senza mezzi termini: senza una seria riforma interna, è raccomandato lo scioglimento.
Potrebbe concludersi così la secolare storia della polizia metropolitana londinese, travolta da anni di scandali. A questa raccomandazione è arrivata infatti Louise Casey, baronessa e membro della Camera dei Lord, incaricata due anni dalla stessa MET di mettere nero su bianco un rapporto sul comportamento e sulla ‘cultura interna’ al corpo di polizia della città di Londra.
Una questione diventata necessaria dopo il caso di Sarah Everard, la giovane donna rapita, stuprata e uccisa da un agente di Scotland Yard poi condannato all’ergastolo. La brutale morte di Everard per mano dell’ex agente Wayne Couzens, avvenuta nel marzo 2021, aveva infatti acceso il dibattito a livello nazionale sui comportamenti tenuti dagli agenti della MET, accusata nell’esteso rapporto di essere sostanzialmente “marcia”, in cui la discriminazione, il razzismo, la misoginia, sono pratiche di routine e sistemiche.
Nel rapporto messo a punti dalla commissione d’inchiesta coordinata da Louise Casey si susseguono e documentano numerosi episodi di molestie sessuali interne alla Metropolitan Police, molti dei quali lasciati impuniti e non perseguiti. I dati sono allarmanti: il 12 per cento delle agenti di sesso femminile ha sostenuto di aver subito molestie o aggressioni al lavoro, con un caso estremo in cui una poliziotta stuprata da un collega è stata poi costretta a lavorare al suo fianco.
Non va meglio agli agenti che fanno parte di “minoranze”: il 30 per cento degli agenti LGBT+ racconta di essere stato bullizzato per il proprio orientamento sessuale, tra coloro che professano la fede musulmana c’è il caso di un agente che ha rivelato di trovato i propri stivali riempiti di pancetta (i musulmani non mangiano il maiale, ndr), mentre ad un agente sikh è stata forzatamente rasa la barba (nella religione sikh gli uomini portano tradizionalmente la barba lunga o comunque non rasata).
In generale il rapporto mostra nella MET segni della stessa “malattia” statunitense, un razzismo sistemico dovuto anche ad un corpo di polizia che resta ancora oggi prevalentemente bianco, che mostra una “forza strabiliante” contro i neri e mostra una “volontaria cecità” nei confronti del razzismo a tutti i livelli.
Tutti fattori che, assieme anche alle sempre più scarse risorse economiche di cui dispone Scotland Yard, con l’incredibile questione dei frigoriferi per la conservazione delle prove “sovraccarichi, fatiscenti o rotti” comportando così anche l’archiviazione di alcuni casi di stupro, hanno comportato un calo di fiducia sempre più evidente tra i sudditi di Sua Maestà.
Ormai, evidenzia Casey nel dossier, appena il 50% della popolazione londinese e solo una minoranza fra le donne si fida di Scotland Yard, minando così i rapporti col corpo di polizia della città. Il capo della polizia, Sir Mark Rowley, non ha potuto che scusarsi coi cittadini della capitale britannica, ma il segnale più grave e inaspettato è arrivato dal governo conservatore, solitamente “vicino” alle forze dell’ordine.
Il primo ministro Rishi Sunak in un’intervista televisiva ha affermato che “chiaramente la fiducia nella polizia è stata gravemente danneggiata”, mentre la deputata conservatrice Caroline Nokes, presidente della commissione parlamentare sulle donne e l’uguaglianza, ha ventilato la “quasi inevitabilità” dello scioglimento di Scotland Yard.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Estratto dell’articolo di Alessandro Logroscino per “l’ANSA” il 17 gennaio 2022.
Uno scandalo "senza precedenti", per numero e gravità di crimini commessi da un uomo in divisa smascherato con colpevole ritardo nei panni del violentatore seriale; ma anche per la negligenza - se non peggio - di chi avrebbe dovuto (e potuto) denunciarne i misfatti da dentro i ranghi e ha invece ignorato segnali e sospetti emersi vanamente per ben una ventina d'anni.
Si allunga la lista delle vergogne attribuite Scotland Yard, la Metropolitan Police di Londra, principale dipartimento investigativo del Regno Unito e centro di coordinamento nazionale dell'antiterrorismo alle prese ormai da tempo con bufere a ripetizione e con un'imbarazzante crisi di credibilità.
L'ultima vicenda nera riguarda l'investigatore David Carrick, 48 anni, arrestato nel 2021 per gravi sospetti di abusi sessuali perpetrati con la copertura dell'uniforme durante quasi 20 anni di servizio. E riconosciutosi alla fine colpevole di fronte a un tribunale di ben 49 capi d'imputazione: 24 episodi di stupro nei confronti di almeno 12 donne, nonché aggressioni sessuali e molestie varie. I fatti contestati fanno riferimento ad un arco di tempo compreso fra il 2000 e il 2021. Secondo Barbara Gray, una dei vicecomandanti di Scotland Yard, si tratta appunto di un caso "senza precedenti" nell'intera storia moderna della polizia britannica, per dimensioni e peso criminale del fascicolo d'accusa. […]
Segnali che avrebbero "potuto permetterci di fermarlo" prima, ha rimarcato Gray. "Quest'uomo - ha fatto eco il procuratore della corona, Jaswant Narwal - ha rivestito un ruolo in cui era responsabile di proteggere il pubblico, ma nella sua vita privata ha fatto esattamente il contrario degradando, sminuendo, assaltando e violentando varie donne, in un crescendo di crimini sempre peggiori a mano a mano che l'impunità lo rendeva più baldanzoso". […]
Corrick da parte sua ha confessato oggi dinanzi a un giudice londinese della Southwark Crown Court la propria responsabilità su accuse relative a 4 violenze e altri abusi ai danni di una 40enne: prima tra le sue vittime a trovare il coraggio di denunciarlo proprio in seguito al caso Couzens. Mentre in un'udienza precedente svoltasi a dicembre, il cui contenuto è stato reso noto ai media soltanto ora, si era già riconosciuto colpevole di un'altra ventina fra stupri e reati di stampo sessuale diversi: e solo da quel momento, incredibilmente, era stato sospeso dallo stipendio dalla Met Police.
La Metropolitan Police lo ha espulso. David Carrick, l’ultimo scandalo che travolge Scotland Yard: l’agente confessa decine di stupri in 20 anni tra le fila della polizia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Gennaio 2023
Per Scotland Yard, la Metropolitan Police di Londra, è come ripiombare nell’incubo già vissuto con la storia di Wayne Couzens, l’agente di polizia che rapì e uccise la 33enne Sarah Everard nel parco londinese di Clapham Common.
Ora la polizia della capitale deve fare i conti con un nuovo caso simile. Il principale corpo di polizia del Regno Unito ha infatti espulso dai suoi ranghi l’agente David Carrick, arrestato un anno e mezzo fa per gravi sospetti abusi sessuali condotti durante circa due decenni di servizio.
Un provvedimento che arriva all’indomani della notizia resa pubblica ieri della sua dichiarazione di colpevolezza di fronte a un tribunale per ben 49 capi d’imputazione: tra questi ci sono 24 stupri nei confronti di 12 differenti donne, oltre ad altre aggressione e molestie vari. Durante le prime udienze Carrick aveva inizialmente negato le accuse che gli erano state rivolte. La prima parziale ammissione era arrivata in modo improvviso e inatteso lo scorso dicembre, quindi lunedì si è dichiarato colpevole dei 49 capi d’accusa.
Tutti crimini che il 48enne ha commesso tra il 2003 e il 2020, senza che Scotland Yard riuscisse a capire che tra le sue file si nascondeva un ‘mostro’. Carrick, 48 anni, era stato sospeso dal lavoro nell’unità armata che protegge i parlamentari e i diplomatici stranieri da quando sono emerse le accuse alla fine del 2021.
Eppure il passato dell’agente era quantomeno oscuro: nel 2000 e nel 2001, quando Carrick era appena entrato in polizia, era stato segnalato per molestie e minacce nei confronti di una sua ex partner. La polizia però fece cadere le accuse interne e per quasi 20 anni Carrick, sfruttando anche la sua professione, ha potuto agire indisturbato o quasi.
La ‘scossa’ che ha portato alle nuove indagini sull’ormai ex agente di Scotland Yard è stato proprio il drammatico omicidio di Sarah Everard, che provocò una ondata di indignazione nel Paese e nelle capitale.
Nell’ottobre del 2021 una donna dell’Hertfordshire denunciò per la prima volta l’agente, nativo di Stevenage, a circa 50 km a nord di Londra. La vittima raccontò le violenze, lo stupro e le umiliazione subite da Carrick. Da lì altre vittime dell’agente della Metropolitan Police di Londra si sono fatte avanti, portando gli investigatori a capire anche il modus operandi del poliziotto.
Carrick, come riferito dalle numerose vittime, conosceva le donne su app di incontri online come Tinder: quindi passava prima alla violenza psicologica e poi a quella fisica. Per mesi, e in alcuni casi anni, l’ex poliziotto ha minacciato alcune delle sue vittime, anche con la pistola di servizio e sfruttando così il suo ruolo di forza dell’ordine. Alcune delle donne rimaste intrappolate nel piano di Carrick sono state picchiate, violentate, rinchiuse in armadi, in alcuni casi vietava loro di parlare con i loro figli.
Il caso di Carrick è stato definito dalla stessa Scotland Yad il frutto di un “orrendo fallimento” dei sistemi di controllo dai vertici dello stesso dipartimento, che hanno dovuto ammettere come l’ex agente avrebbe potuto e dovuto essere fermato prima.
Mark Rowley, nuovo comandante della Metropolitan Police in carica da pochi mesi, ha annunciato di aver disposto la riapertura dei fascicoli su ben 1600 denunce interne presentate negli ultimi 10 anni. Anche la ministra dell’Interno, Suella Braverman, è intervenuta sulla vicenda parlando oggi ai Comuni, sottolineando che è “vitale che la Metropolitan Police e le altre forze dell’ordine raddoppino i loro sforzi per stanare i poliziotti corrotti. E questo – ha avvisato – potrebbe significare l’emergere nella breve distanza di altre vicende shockanti“.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.
Uno dei misteri a Downing Street è sempre stato: come faceva Boris Johnson da primo ministro a “sopravvivere” con le 150mila sterline all’anno di stipendio da leader, visto il suo stile di vita, la (terza) moglie Carrie Symonds e due figli, e almeno altri quattro (ufficiali) con l’ex seconda consorte Marina Wheeler? La soluzione del “giallo" sta venendo fuori: basta avere milionari ed enigmatici finanziatori, anche quando si è primo ministro, e la vita è bella.
L’ultima l’ha scoperta il Sunday Times: quando era inquilino di Downing Street, Johnson ha ricevuto ben 800mila sterline (quasi un milione di euro) da Sam Blyth. Chi era costui? Blyth è un milionario canadese nel settore dell’istruzione, ma soprattutto è un cugino in secondo grado di Stanley Johnson, 82enne eccentrico padre di Boris. […] Ma certo rimangono le domande: perché Blyth ha finanziato Boris Johnson? […]
Ma ci sono altre interessanti connessioni tra Johnson e il ricco parente Blyth, che tra le altre cose in Canada ha fondato una catena di ricche scuole private. Per esempio Jo, fratello minore di Boris, è presidente internazionale di Apply Board, una agenzia che si occupa di istruzione globale per la quale, curiosamente, Blyth agisce da consigliere. E, sempre secondo il settimanale inglese, negli stessi mesi dei finanziamenti a Johnson, il milionario canadese sarebbe stato in lizza per una eccellente posizione dirigenziale al British Council […] Un portavoce di Johnson ha smentito questa ricostruzione al Guardian. […]
In questi giorni, tra l’altro, le persone vicine a Johnson disseminando voci a Westminster di un ritorno dell’ex primo ministro a Number 10, scalzando così Sunak. Al momento, si tratta di fantapolitica e scenari altamente improbabili, vista la delicata situazione finanziaria del Regno Unito e del fatto che mezzo partito conservatore non accetterebbe mai il ritorno di Johnson. […]
Ma allora perché Blyth avrebbe finanziato così lautamente Johnson? Il motivo ancora non si conosce. Ma non è una prima volta per l’ex primo ministro. Quando era ancora in carica, Johnson si fece pagare per esempio parte della ristrutturazione del suo appartamento al Numero 10 dal finanziatore conservatore, David Brownlow. […]
Luigi Ippolito per corriere.it il 12 gennaio 2023.
Altro che feste, quelli a Downing Street erano baccanali da Basso Impero romano. I party durante il lockdown negli uffici governativi, che alla fine sono costati il posto da primo ministro a Boris Johnson, si è scoperto adesso che erano dei fescennini a base di alcol e sesso a gogo.
Sotto la lente, nella fattispecie, sono finite due riunioni conviviali tenute – particolare quasi macabro – alla vigilia dei funerali del principe Filippo, la sera del 16 aprile del 2021: feste cui hanno partecipato funzionari e membri dello staff governativo e che sono andate avanti oltre le 4 del mattino.
In particolare, due coppie sono state viste in atteggiamenti intimi da numerosi testimoni: una «si assaggiava» in cucina prima di sparire in una stanza buia, da cui sono poi emersi «in stato confusionale»; un’altra coppia si è ritirata in un ufficio «con le luci spente».
Quella serata era già diventata celebre per la «valigia di bottiglie di vino» portata a Downing Street da un vicino supermercato, con i funzionari che si fotografavano nel giardino della residenza mentre giocavano sull’altalena e lo scivolo installati lì per i figli di Johnson.
Ora, grazie a un’inchiesta della rete televisiva Itv, viene fuori anche «un computer che sparava musica da Spotify», una fotocopiatrice «cosparsa di vino», «tante persone in stretta prossimità» e coppie «che si toccavano». E inoltre c’erano ospiti così ubriachi che riuscivano a stento a parlare.
Va ricordato che a quell’epoca, durante la pandemia, le riunioni erano vietate a meno che non fossero «di lavoro»: e sebbene a Downing Street si tratta pur sempre di uffici, quelle feste tutto erano tranne che incontri d’affari.
Quel che è peggio, è che i funzionari coinvolti erano perfettamente consapevoli che stavano violando le regole imposte dallo stesso governo e dunque si erano poi dati da fare per distruggere le prove. Ma il pesce, si sa, puzza dalla testa: e il primo responsabile di quell’andazzo era il premier Johnson, che a una delle feste si era addirittura vantato che quello era «il party più non-socialmente distanziato del Regno Unito».
Dunque una regola per la gente comune e un’altra per i potenti. Ma è una sbruffonaggine che adesso gli può costare cara: perché sul capo dell’ex primo ministro pende ancora una inchiesta parlamentare sull’ipotesi che abbia mentito al Parlamento. Boris infatti, in aula a Westminster, aveva più volte affermato che nessuna norma era stata violata e che se pure era successo lui non ne sapeva niente.
Queste ultime rivelazioni sembrano però smentire del tutto la sua versione: e se riconosciuto colpevole, Johnson potrebbe vedersi sospeso dal Parlamento. Una condanna simile metterebbe la parola fine ai suoi sogni di tornare al potere, che in queste settimane vengono alimentati dai suoi sostenitori (e sotto sotto da lui stesso). In ogni caso, l’ultimo capitolo della Boriseide non è stato ancora scritto.
Alessandro Carlini per ANSA il 28 dicembre 2022.
E' bufera su uno dei simboli della tradizione militare britannica, la Royal Military Academy di Sandhurst, frequentata in passato anche dai principi William ed Harry. Decine di abusi sessuali contro donne, anche stupri, sarebbero stati compiuti nell'arco di 20 anni fra le sue mura secondo le testimonianze raccolte dall'associazione Salute Her UK.
Lo scandalo ha trovato ampio risalto sulla prima pagina del quotidiano filo-conservatore Daily Telegraph ed è stato denunciato dal gruppo a difesa del personale femminile nelle forze armate di Sua Maestà, con tanto di appello rivolto direttamente al ministero della Difesa perché intervenga al più presto per fermare il "comportamento predatorio" di troppi militari nei confronti delle cadette.
Più di 170 donne si sono rivolte all'associazione raccontando molestie e violenze, inclusi stupri, subite durante il loro addestramento come aspiranti ufficiali dell'esercito. Paula Edwards, responsabile di Salute Her, ha dichiarato che delle 3.170 militari registrate nel database del suo gruppo, più della metà è stata violentata mentre era nelle forze armate nell'arco di oltre due decenni.
E ha aggiunto: "Riceviamo dieci segnalazioni a settimana di donne che sono state stuprate in passato o violentate di recente e nessuno sta facendo nulla", sottolineando che la mancanza di interventi disciplinari dall'alto ha portato a una "cultura tossica" a Sandhurst e nell'esercito in generale.
I casi denunciati coprono più di 20 anni e rivelano spesso situazioni di paura e impunità che hanno consentito ai predatori sessuali di operare presso l'accademia nel Berkshire, aperta alle donne nel 1984, e altrove. Un portavoce della Difesa ha affermato che "le forze armate hanno un approccio di tolleranza zero nei confronti delle aggressioni sessuali e qualsiasi accusa segnalata sarà indagata, con azione immediata". Inoltre il ministro Ben Wallace si è impegnato per un inasprimento del codice militare al fine di evitare le relazioni sessuali con le reclute.
Ai casi denunciati si aggiungono i risultati di una inchiesta conclusasi di recente sulla morte della 21enne cadetta Olivia Perks, che si era tolta la vita nel 2018. E' emerso che l'accademia non le fornì un adeguato supporto per i suoi problemi psichiatrici aggravati da una relazione con un istruttore.
Questa non è l'unica macchia per le forze armate di Sua Maestà, ancora alle prese con le memorie di abusi e crimini di guerra solo in parte indagati relativi sia alle repressioni della sanguinosa stagione dei Troubles in Irlanda del Nord, sia delle invasioni di Afghanistan e Iraq; nonché con altre denunce di violenze di genere emerse di recente contro donne militari, in particolare in un rapporto riguardante i ranghi della Royal Navy.