Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

IL GOVERNO

QUARTA PARTE



 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE


 


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

LA POVERTA’

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italianità.

Gli Antifascisti.

Italiani scommettitori.

Italioti Retrogradi.

Gli Arraffoni.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti corrotti e corruttori.

La Questione Morale.

Tangentopoli Italiana.

Tangentopoli Europea.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere.

La Geopolitica.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

I Conservatori.

Il Capitalismo o Liberismo.

Il Sovranismo.

Il Riformismo.

I Liberali e il Liberalismo.

I Popolari.

L’Opinionismo.

Il Populismo.

Il Complottismo.

Politica e magistratura, uno scontro lungo 30 anni.

Una Costituzione Catto-Comunista.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Democrazia: Il potere oscuro ed occulto. I Burocrati. Il Partito dello Stato: Deep State e Spoils system

Il Presidenzialismo.

L’astensionismo.

I Brogli.

Lo Stato di Emergenza.

Quelli che…la Prima Repubblica.

Quelli che…la Seconda Repubblica.

Trasformisti e Voltagabbana.

Le Commissioni Parlamentari.

La Credibilità.

I Sondaggisti.

Il finanziamento pubblico.

I redditi dei politici.

I Privilegiati.

I Portavoce.

Servi di…

Un Popolo di Spie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Resistenza Morale.

Gli Appalti Pubblici.

La Normativa Antimafia.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.  

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi Vari.

Le Multe UE.

Le Auto: blu e grigie.

Le Regioni.

L’Alitalia.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

L’Oro.

La Ricchezza.

I Ricconi alle nostre spalle.

I Bonus.

La Partita Iva.

Quelli che…Evasori Fiscali: Il Pizzo di Stato.

Il POS.

Il Patto di Stabilità.

Il MES.

Il PNRR.

Il ricatto del gas.

La Telefonia.

Bancopoli.
 


 


 

IL GOVERNO

QUARTA PARTE



 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.

SOCIALISMO:

Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti.

Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti.

Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.

Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.

LIBERALISMO (LIBERISMO):

Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.

ECCLESISMO:

Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.

MONARCHISMO:

Il culto del Sovrano.

Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.

Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.

Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.

Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.

Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.

Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.

Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.

Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.

Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.

Antonio Giangrande: Cosa vorrei?

Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.

Invece...

L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".

Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.

Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.

C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.

Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...

Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per “La Repubblica” mercoledì 8 novembre 2023.

Se le mura dei palazzi hanno un’anima e i loro ricordi un qualche effetto sugli individui, una tempesta emotiva attende i giornalisti dell’Associazione della stampa estera, circa 300 iscritti, che fra un paio di mesi andranno a lavorare al piano nobile di Palazzo Grazioli, la cui denominazione e la cui spaziosa memoria sono indissolubilmente legate al periodo aureo del berlusconismo. 

Lavori di ristrutturazione quasi compiuti; trasloco in itinere; affitto a carico (da sempre) del governo italiano, più o meno 5 mila euro al mese; escluso purtroppo dall’affitto il locale al piano terra dove, con scranni in miniatura, era insediato il cosiddetto “parlamentino”. [...]

Per cui sarebbe bello che i nuovi arrivati, da tutto il mondo, trovassero nelle varie stanze delle illuminanti targhe: qui Putin lanciò la palletta a Dudù; qui Berlusconi fece ostensione dell’improbabile cimicione; qui il ministro La Russa battezzò uno dei brani dei premiati autori Silvione-Apicella; qui consumavano pizzette e champagne le benemerite dell’ordine presidenziale delle farfalle; da qui vennero fatti defluire i presenti la notte dell’abdicazione, 12 novembre 2011, con la folla pericolosamente assiepata davanti al portone, per paura di un saccheggio.

Palazzo romano polveroso e appena un po’ tetro: meno bello del vicino Palazzo Bonaparte e a due passi dal fatidico Palazzo Venezia, dove lavorava (e non solo) il duce. Conclamata reggia di Sua Maestà il Cavaliere, ma a seconda dei momenti anche sede del governo ombra e dimora della corte in esilio, comunque con bandiere al balcone, gatta egizia sul cornicione (dietro la finestra della fida segretaria Marinella) e indiscutibile rilievo nella storia politica italiana. 

Perché mai come in queste stanze ha avuto luogo la compiuta privatizzazione del potere, con il che assai più che a Palazzo Chigi nella sua propria casa il sovrano convocava, nutriva, incontrava, si proteggeva e si dilettava; d’altra parte era fermamente convinto di incarnare il Popolo e quindi lo Stato – e tuttora è aperta la questione se fosse un salto della post-politica, una regressione a regimi pre-democratici o magari tutte e due le cose. […]

Dentro, l’arredamento richiamava la catastrofe estetica e casalinga del berlusconismo in un caotico ammucchiarsi di obelischi, arazzi, ninnoli, bei quadri che convivevano con evidentissime croste e coppe del Milan. Una porta scorrevole separava, per modo di dire, il pubblico dal privato. E su questo scivolosissimo confine i giornalisti stranieri non potranno fare a meno di ricordare anche l’epopea orgiastica di palazzo Grazioli: il reclutamento massivo di escort sull’asse Roma-Bari, il severo dress code (tubino nero, eccetera) di cui si fece garante Giampi Tarantini, la sua auto dai vetri abbrunati.

Fino al sancta sanctorum dell’erotica di palazzo: il lettone di Putin, che in realtà a dar retta a un incrocio di testimonianze (Vespa-Ape regina) non esisterebbe proprio, era un giaciglio king size che il Cavaliere si era fatto costruire sulla base di un quadro, questo sì regalato dall’autocrate russo. 

Di quella stagione, unico documento resta la formidabile foto-ricordo che alcune ragazzette pugliesi si fecero diciamo pure nel cesso: perché la storia è fatta di cose nobili e basse, il potere consuma le une e le altre – e gli spasmi dopo tutto ci appartengono.

 Egomania culturale. Tranquilli, non c’è nessuna nuova narrazione egemonica: è solo fame. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 9 Novembre 2023

Dal piccolo La Russa al Piccolo fino all’interminabile disfida tra Sgarbi e Sangiuliano, nel nuovo potere c'è molto di antico, con una dose aggiuntiva di ridicolo

Il primo anno di governo meloniano è stato segnato dalla grande lotta per l’egemonia sulla cultura, l’immaginario, la narrazione. O almeno così è stato raccontato da giornali e tv, in positivo e in negativo: come svolta epocale, portatrice di un salutare rinnovamento (secondo i sostenitori) o al contrario come dimostrazione di un’insaziabile volontà di potenza, con conseguente allarme democratico (secondo gli avversari). Ma non era nessuna delle due cose.

Potremmo dilettarci a lungo declamando l’improbabile elenco di tutti gli intellettuali organici chiamati in questi mesi a riscrivere l’autobiografia della nazione, e certamente passeremmo ore assai liete nel rievocare gli innumerevoli episodi di cui si sono resi protagonisti, peraltro con scarsi riconoscimenti di critica e di pubblico, ma per dimostrare una tesi la via più breve è sempre preferibile. E da questo punto di vista mi pare che la nomina di Geronimo La Russa, figlio maggiore dell’attuale presidente del Senato, come rappresentante del ministero della Cultura nel cda del Piccolo teatro di Milano dica già tutto circa l’ampiezza del disegno politico, il respiro del progetto culturale, l’ampiezza delle ambizioni coltivate dal nuovo potere. O c’è qualcuno davvero convinto che il giovane Geronimo possa essere l’alfiere di una spregiudicata sfida egemonica, il sottile tessitore di quella nuova narrazione di cui tanto si discute?

Mi pare piuttosto evidente che moventi e obiettivi di simili nomine siano assai più elementari. Talmente terra terra che già mi sarebbe passata la fantasia di occuparmene, se non fosse per il mio innato spirito di contraddizione, oltre che per il modo surreale in cui anche questa vicenda è andata a intrecciarsi alla tragicomica disfida tra il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, e il suo sottosegretario ribelle, Vittorio Sgarbi.

Per chi si fosse perso le puntate precedenti, qualche settimana fa un’inchiesta del Fatto quotidiano aveva rivelato che il sottosegretario Sgarbi, soltanto negli ultimi sei mesi, avrebbe incassato – direttamente o attraverso società intestate al suo principale collaboratore e a una sua storica fidanzata – trecentomila euro in cachet per la partecipazione a mostre, premi e inaugurazioni, compresa la presidenza della giuria per la finale di Miss Italia del prossimo 11 novembre. Notizie delle quali il ministro si era detto indignato, definendo il comportamento del suo sottosegretario «illegale», e denunciandolo pure all’Antitrust.

A suo tempo i giornali spiegarono che Giorgia Meloni si sarebbe occupata del caso non appena tornata dal Cairo, dove era impegnata in un vertice sulla crisi mediorientale, ma quale sia stato il frutto dei suoi sforzi non è dato sapere. Fatto sta che il sottosegretario è ancora al suo posto, dice che con Sangiuliano non ci parla e andrà pure a Miss Italia.

Siccome viviamo nell’epoca della post-verità, ma soprattutto nell’era della post-ironia, sfido il lettore a capire come debba essere dunque interpretata la seguente dichiarazione, realmente pronunciata dal sottosegretario Sgarbi in merito alla nomina del giovane La Russa al Piccolo teatro: «Conosco Geronimo La Russa e ne ammiro l’esemplare conduzione dell’Automobile Club d’Italia. Per questo ritengo che l’indicazione del ministro Sangiuliano sia apprezzabile ed espressa con piena convinzione e totale autonomia».

Personalmente, mi sono da tempo arreso all’impossibilità di distinguere quando parlano sul serio da quando scherzano (o pensano di scherzare). Ma comunque si vogliano prendere questi scampoli di dibattito sulle politiche culturali dentro al governo Meloni, e comunque se ne vogliano spiegare le singole nomine, per acclarata competenza nel settore automobilistico, per indiscutibili meriti civili o per chiara fama, mi pare ampiamente confermata la tesi che non ci sia dietro nessuna minacciosa ambizione egemonica. È solo fame.

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it mercoledì 8 novembre 2023. 

Il più grande dei tre piccoli “indiani”. E anche il più navigato. Uomo di numeri, ma soprattutto di relazioni, aperitivi e sorrisi. Geronimo La Russa, per gli amici “il presidente” (come papà, in fondo). Del primo dei tre figli che Ignazio Benito Maria ha voluto battezzare con nomi da nativi […] raccontano che il talento più riconoscibile, affinato negli anni, ma chissà, magari anche innato, sia quello più consono al tempi complessi e spiazzanti di oggi. Farsi trovare al posto giusto nel momento giusto.

[…]  In scia ovviamente agli spazi aperti dal padre, quella Milano del potere finanziario e clientelare sulla quale il primo a mettere le mani fu il capostipite, nonno Antonino. “Assomiglio tanto a mio nonno”, raccontò anni fa Geronimo a un’amica carissima figlia di tanto padre. Ne avrà anche molti altri di meriti, per carità, il 43enne avvocato Antonino Geronimo Giovanni Maria La Russa – così all’anagrafe. E però il presenzialismo spicca. Lo impone pure il ruolo che ha.

Da presidente dell’Automobile Club Milano e Lombardia – un incarico di potere nella regione locomotiva d’Italia – il 3 settembre scorso è lui, anche ribattezzato con enfasi patriottica “il re dell’Autodromo di Monza”, che accoglie la premier Giorgia Meloni al box Alfa Romeo prima del Gp di Formula 1. […] La Russa jr, che della velocità è sempre stato innamorato. “A bordo di qualunque mezzo a motore”, raccontò in un’intervista-intima. Pure troppo, innamorato. Molti anni fa uscì indenne da un incidente in macchina con degli amici. Dall’auto saltò fuori anche della droga, ma per GL, anche da quel punto di vista, non ci fu nessuna conseguenza.

[…] E’ lui che al Gp favorisce l’incontro tra Meloni e Barbara Berlusconi che di Geronimo è amica da una vita e pure socia (hanno fondato insieme la onlus Milano Young, poi c’è anche H14, la holding dei tre berluschini Barbara, Eleonora e Luigi). Al centro di quella chiacchierata tra la presidente del Consiglio e Barbara ci fu il tema, oggi arrivato a tombola, del premierato forte […] Ma restiamo a Geronimo. E’ in effetti una notizia che l’avvocato collezionista di poltrone sia dia ora anche al teatro, terreno fin qui a lui poco conosciuto.

Entrando nel cda del Piccolo in rappresentanza del ministero della Cultura guidato dall’ex missino almirantiano Sangiuliano, GL aggiunge un posto in più alla sua già lunga sfilza di incarichi. ACI e studio legale di famiglia a parte, sono tutti scranni in consigli di amministrazione. Elencarli è una mezza maratona. M4 Spa (linea blu della MM), Sara Assicurazioni, Milano Real Estate, M-1 Stadio srl, la già citata H14 e un’infilata di altre finanziarie, vecchio giro Ligresti e dintorni. […]

 Ha combinato anche qualche casino ed è sempre lui, sempre in un’intervista, a ripercorrere quelle tappe di crescita. “Ho avuto un’adolescenza molto agitata e con un po’ di problemi”.

Non è elegante ma occorrerebbe ricordare che il fratello trapper Leonardo Apache, accusato di stupro, lo ha già superato. Ma questa è cronaca, sono atti giudiziari che Geronimo mastica di mestiere. Di inciampi, anche al maggiore dei La Russa, ne capitarono. Fu il cantante Roberto Vecchioni a raccontare di un blitz vandalico a casa durante la festa di compleanno della figlia. A disfargli l’appartamento e a razziare gioielli e soprammobili e vestiti, un gruppo di fighetti che passavano le serate in giro a far casino. Nel gruppo c’era anche Geronimo. […]

Oggi tra gli amici e “colleghi” di partito più vicini a GL c’è l’europarlamentare Carlo Fidanza, che ha recentemente patteggiato 1 anno e 4 mesi per corruzione. E’ il Fidanza del saluto romano e del “Heil Hitler” ripresi da una telecamera di Fanpage a una cena elettorale di camerati vicini a FdI. […]na volta chiesero a Geronimo La Russa se avesse mai fatto il saluto romano. Rispose così: “Una volta, quando mi sono vestito da Balilla a Carnevale. E un’altra volta quando mi mascherai da Giulio Cesare”. Due volte accertate, non male. Difficile pensare che il padre Ignazio lo abbia rimproverato. Lui il braccio teso lo mostrò in parlamento. […]

Estratto dell’articolo di Andrea Montanari per repubblica.it mercoledì 8 novembre 2023.

Da Fratelli d’Italia a figli, cognati, parenti, collaboratori fedelissimi. In Lombardia, è lunga la lista di nomine eccellenti sponsorizzate dal partito di Giorgia Meloni, che hanno fatto discutere e in qualche occasione creato perfino imbarazzo. A partire da Romano La Russa, assessore regionale alla Sicurezza e fratello del presidente del Senato Ignazio, che finì nella bufera per un saluto romano durante i funerali del cognato. […] 

Che dire poi di Francesca Caruso, che lavorava come avvocata nello studio La Russa? Appena nominata assessora lombarda alla Cultura non trovò di meglio che dichiarare candidamente: «La cultura l’ho respirata in famiglia. Mia nonna era la sorella di Fausto Papetti».

Un capitolo a parte […] è quello degli eredi La Russa. Geronimo, primogenito del presidente del Senato, è da anni il titolare dello studio legale di famiglia, ma anche presidente dell’Aci Lombardia e siede in una vera miriade di altri consigli d’amministrazione. Invece il secondogenito Lorenzo Cochis lavora come Cerimonies Coordinator presso la fondazione Milano-Cortina 2026 presieduta dal numero uno del Coni Giovanni Malagò. 

Parenti, ma anche amici. Lucia Lo Palo, candidata di Fratelli d’Italia a Brescia alle ultime elezioni regionali e non eletta, è stata ricompensata con la nomina a presidente di Arpa Lombardia. Nella sua prima uscita ha messo in imbarazzo il centrodestra sostenendo che «il cambiamento climatico non è causato dall’uomo».

Il governatore Attilio Fontana non l’ha presa bene. «Bisogna vedere se è negazionista, lei ha negato di esserlo. Cercare di capire e contestualizzare il tutto». Lo Palo, però, non cambia idea. Precisa solo di aver parlato a titolo personale. […] 

Tornando alla cultura, se la Regione ha nominato nei board del Piccolo Teatro e della Triennale, rispettivamente, gli ex assessori comunali Massimiliano Finazzer Flory e Stefano Zecchi, quest’ultimo anche lui tra i candidati non eletti alle ultime Regionali nella lista di Fratelli d’Italia, c’è un altro nome che ha fatto rumore.

Quello del direttore d’orchestra Alberto Veronesi, uno dei figli del celebre oncologo Umberto, che nel 2016 si era candidato in Comune nella lista di Beppe Sala: alle Regionali di febbraio però era in lista con FdI, non è stato eletto e il governatore lo ha ricompensato nominandolo nel cda dell’Accademia delle Arti e dello Spettacolo della Scala. 

Tutto dopo che il maestro era stato duramente contestato quest’estate per aver scelto di dirigere bendato la prima della Boheme al festival di Torre del Lago per protesta contro la regia del francese Christophe Gayral, che aveva ambientato il capolavoro di Giacomo Puccini nel ‘68. Sempre FdI ha fatto fuoco e fiamme per piazzare al Corecom Veronica Cella e Maurizio Gussoni, quest’ultimo ammiratore di Giorgio Almirante e della Decima Mas, per anni al vertice della Croce Rossa.

Con i nuovi assetti di potere c’è chi corre. Anche troppo, come nel caso di Beniamino Lo Presti, commercialista di fiducia di Ignazio La Russsa, che da presidente della società autostradale Milano-Serravalle […] ha provocato imbarazzo postando sui social un video che lo ritraeva mentre sfrecciava a 150 chilometri l’ora a bordo di una Porsche […]. Pochi mesi prima aveva promosso una campagna sulla sicurezza alla guida.

La logica del dominio è davvero intramontabile? Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 2 settembre 2023.

Ma questo mondo del 2023 è ancora una terra da conquistare? Come nel passato fecero Ramesse II, Alessandro Magno, Cesare, Costantino il Grande, Federico Barbarossa, Gengis Khan, Carlo Magno, Tamerlano, Carlo V d’Asburgo, Pietro il Grande di Russia, Napoleone, la Regina Vittoria, Stalin, Hitler, Mao Zedong o gli Usa coi suoi presidenti  Roosevelt, Wilson, Eisenhower, Bush…

Il Novecento ha visto la formazione di organismi sovranazionali, come l’Onu, il cui significato, letto a posteriori, è quello di una ipocrisia ideologica fondata sul compito di garantire la legalità e il rispetto dei diritti sul piano internazionale senza però una visione di futuro e con pochissima efficacia sul campo.

L’attuale prevalenza di logiche nazionaliste o sovraniste mostra che lentamente ci si sposta dall’obiettivo del dominio a quello della sopravvivenza e l’Occidente si sente ormai una vetusta fortezza assediata che non riesce a dettare legge nemmeno al proprio interno. Dunque, fine dei conquistatori, serie minacce alla sopravvivenza dei colonizzatori grazie alla volontà di ribellione, ad esempio in Africa, Paesi alleati dall’unico obiettivo di farla pagare agli Usa e al dollaro.

Nessuna alternativa alla solita logica della rivalsa o, al contrario, dell’arroganza. Mettere a confronto Usa con Non-Usa non genererà niente di effettivamente nuovo, lascerà al centro la vecchia idea del confronto di forze. Con la sola apparente alternativa di un unico governo e ordine mondiale, come se si trattasse di mettere ordine nelle aspirazioni contraddittorie delle genti e delle nazioni. Senza valorizzare quel pluralismo, quella varietà di presupposti e orizzonti che arricchisce la nostra intelligenza sociale.

Qualcosa cambierà invece quando al centro non si metterà più la finanza e l’economia, ma che cosa?

Prendiamo il paragone della famiglia, anzi, meglio della persona, dell’individuo, nozione quest’ultima presente in Europa da non più di ottocento anni. Le tribù, i clan, le famiglie, i gruppi, le società, le organizzazioni, le squadre… Come si aggregherà domani l’umanità, sentirà ancora in comune un passato, qualche tradizione o costume, sentirà il bisogno di progettare qualcosa di nuovo, vorrà dare finalmente importanza alle relazioni umane, alla solidarietà, alle alleanze per superare ostacoli, difficoltà, emergenze, tragedie?

Gli anni recenti ci hanno messo alla prova ma sono emerse pretestuose tensioni oppure profondissimi silenzi obbedienti. L’unico egoismo giusto che dovrebbe permanere sarebbe quello che comporta da parte di ciascuno il massimo degli sforzi per vincere le difficoltà. Ma poi deve ricominciare la alleanza umana, non la cieca obbedienza fondata sulle paure ma l’assunzione di un comune compito speciale. E un grande bisogno e senso di verità e di giustizia.

Vincere i sentimenti negativi reciproci, smontare il meccanismo perverso del dominio e del potere che si perpetua sulla base dei conflitti internazionali e interpersonali.

Diminuire la quota dell’odio, cioè cominciare una terapia sociale che dovrà fare sentire inadeguata ogni forma di governo fondata sulle divisioni, su presupposti di inconciliabilità, su pure volontà di prevalenza.

Ma quanto c’è ancora da fare! [di Gian Paolo Caprettini]

Da Hitler a Kim Jong-un vita e morte della tirannia. Su History una settimana dedicata ad analizzare l'origine (e il fascino) del male che diventa potere. Matteo Sacchi il 15 Luglio 2023 su Il Giornale.

Conclusa la Prima guerra mondiale, i trattati di pace e la Società delle nazioni venivano accreditate come capaci di garantire la pace. E non solo la pace, ma anche il trionfo della democrazia, sebbene con la tabe non risolta del colonialismo. Ma non andò affatto così: Stalin, Mussolini, Hitler, Franco E poi Mao, Pol Pot, Saddam Hussein, la dinastia dei Kim in Corea, e anche la decolonizzazione trasformata rapidamente nell'ascesa di dittature sanguinarie. Ed è solo un florilegio dei dittatori che hanno avuto il potere assoluto, tenendo sotto scacco con la violenza intere popolazioni, perfezionando le tecniche di comunicazione e ottenendo il controllo delle masse.

Come sia stato possibile è una delle grandi domande irrisolte della Storia, se la sono posta decine e decine di studiosi, partendo dagli storici per arrivare agli psicologi che hanno indagato l'infanzia dei dittatori. Su History Channel (411 di Sky) da lunedì 17 luglio Dictators week fa una silloge di alcuni dei migliori documentari che raccontano la storia di alcuni di questi dittatori che hanno cambiato il nostro passato condizionando anche il nostro presente. Questa programmazione speciale ripercorre gli atti di violenza e oppressione, le politiche di propaganda e repressione, ma esplora in particolare, con due produzioni francesi, l'infanzia di questi despoti e le vicende che dopo la loro fine hanno visto protagonisti i loro stessi resti.

In prima visione, lunedì alle 22,40, apre la programmazione il documentario Come nasce un dittatore in cui storici, giuristi e giornalisti ripercorrono l'infanzia e la giovinezza di Mussolini, Hitler, Mao, Stalin e compagnia per comprendere se esistano collegamenti, o un fil rouge, tra le loro storie - nell'educazione familiare così come nel contesto politico e culturale - che possano aver influito sulle motivazioni e sulla psicologia di questi personaggi che uniscono quasi sempre una mentalità criminale a una grandissima capacità di influenzare le masse. I tratti comuni indubbiamente ci sono, lo schema del padre violento e della madre fortemente idealizzatasi nella sua bontà e fragilità si ripete da Hitler a Saddam Hussein passando per Mao. Ma forse la parte più interessante della narrazione sono i piccoli dettagli, le differenze. Incredibilmente una trincea della prima guerra mondiale nel il caso di Hitler, e un collegio svizzero in quello del dittatore coreano Kim Jong-un possono produrre sentimenti di alienazione e di rivalsa simili. Ed è altrettanto stupefacente vedere quanto sia fondamentale per i dittatori trasformare la loro infanzia in leggenda. Lo fece Stalin nascondendo sempre la propria fragilità fisica, che lo segnò sin da quand'era un ragazzino.

Ma se le dittature hanno una culla, hanno anche una tomba. Il 18 luglio, sempre alle 22,40, è la volta di Cadaveri dei dittatori. Dopo la caduta e la morte per esecuzione, linciaggio o suicidio, sepolti in grandi mausolei, quando il regime sopravvive, o in anonime fosse quando il regime viene abbattuto, i corpi fisici dei dittatori diventano «corpi politici». E in quanto tali contesi da ammiratori e avversari, oggetto di fanatismo o ancora, e questo è un fatto comunissimo, protagonisti di teorie cospiratorie. Ovviamente il caso più emblematico è quello di tutti i dubbi relativi al corpo bruciato di Adolf Hitler che ha suscitato un gran numero di leggende che arrivano alle improbabili fughe in Sud America o sotto i ghiacci del Polo Nord. Ma anche il Palazzo del Sole di Kumsusan dove riposa la salma di Kim Il-sung, il «Presidente eterno» della Corea del Nord, è sufficiente a dare i brividi.

La fine di un dittatore, per quanto spesso violenta e frutto di una vendetta, non necessariamente pacifica la società che ne ha sofferto la crudeltà, mentre, al contrario, anche dopo la morte la sua figura può sempre trovare linfa vitale, trasformarsi in un feticcio carico di potere. Poteva succedere solo nel passato o accade anche oggi, in luoghi rimasti isolati dalla globalizzazione? Guardando questi documentari e le scene di isteria di massa che ogni tanto presentano, viene da pensare che le dittature fortunatamente cadono, ma i meccanismi che le creano purtroppo finiscono solo sotto traccia.

La calma ancestrale, la rabbia del potere. Gianpaolo Caprettini su L'Indipendente l'1 luglio 2023.

L’olio attrae potenti valori simbolici. Uno fra i primi è legato al concetto di stasi: il mare è calmo come l’olio, un altro al concetto di cura, di salute: l’olio sulle ferite, ma la storia antica ha conosciuto l’olio bollente gettato sui nemici o fatto da loro ingurgitare. Quindi, ancora una volta: la pace e la guerra.

C’è poi un’idea di forza, di calma potente che permea l’immaginario intorno all’olivo: la sacralità, la durata nel tempo che la secolare età raggiungibile dalla pianta suggerisce. L’olio e l’olivo contengono dunque insieme una forte connotazione di persistenza e potere e un legame con le forze arcane, con un senso che viene da lontano. 

Luigi Pirandello, in una celebre novella, La giara (1909), ha drammatizzato la inconciliabilità fra l’esibizione tracotante del potere di Don Lollò e la saggezza magica e povera di Zi’ Dima. La giara nuova da olio, di Don Lollò, “badessa” di tutte le altre, era stata trovata rotta e Zi’ Dima venne chiamato a ripararla per mezzo di un mastice miracoloso, ma finì “imprigionato nella giara da lui stesso sanata”, senza la possibilità di venirne fuori a meno di non romperla nuovamente.

L’icona del filosofo cinico Diogene di Sìnope (IV sec.a.C.), schivo e mendicante, irriverente spregiatore delle convenzioni, leggendario e saggio abitatore di una botte, viene rinnovata da Pirandello con quella di Zi’ Dima, sapiente e grottesco artigiano, umile stregone che ripara i guasti e rimette in ordine il mondo con conoscenze semplici e ancestrali. Egli entra in lite con Don Lollò, padrone del podere, che assume invece il ruolo di avvocato da strapazzo, infuriato nel tentare di risolvere la contraddizione fra il merito da riconoscere al conciabrocche che ha svolto il suo compito e la inevitabile decisione di rompere la giara per farlo uscire.

Nel racconto di Pirandello misuriamo la incompatibilità di un sapere artigianale e tradizionale, tramandato da “un vecchio sbilenco”, oggetto di diffidenza ma anche di ammirazione, e l’ostentazione di un potere che sembra infrangere le tradizioni, facendo costruire una giara di grandezza esagerata, da mostrare sì con orgoglio, ma troppo stretta nell’imboccatura.

Don Lollò sferrerà alla fine un poderoso calcio di rabbia alla giara che andrà a sfasciarsi contro un albero, offrendo in tal modo uno strumento – artistico, cognitivo e perché no anche politico – per risolvere il conflitto fra il rispetto dovuto alla sapienza dei poveri e quello preteso dal potere costituito.

Nel 1954 Giorgio Pàstina realizzò, insieme con Mario Soldati, Luigi Zampa e Aldo Fabrizi un film ad episodi – Questa è la vita – in cui venivano trasposte alcune novelle pirandelliane (celebre il Totò de La patente). Nell’episodio relativo a La giara è interessante osservare in apertura un furioso temporale che tormenta gli olivi carichi. Questo fatto è assente nel racconto di Pirandello ma in compenso il padrone del podere viene descritto dallo scrittore come un uomo sempre pronto alla collera, alla lite, che “bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata”. 

Ecco l’origine dell’immagine di quel temporale: la prepotenza del padrone si trasfigura in una forza naturale che minaccia il raccolto.

Nell’episodio del film sarà invece poi la calma a vincere la contesa, una calma arcaica, popolaresca, inattaccabile, quella che ha superato la tempesta, quella stessa dell’olivo florido sul quale Ulisse edificò, secondo Omero, il talamo nuziale, la calma della divina alleanza rinnovata, invocata da Dante nel Purgatorio. Il rispetto dovuto a ciò che è sacro, come l’olivo al cospetto di Atena, dèa appunto della guerra ma anche della magnificenza, di una sapienza fuori dal tempo e dalle contese transitorie di chi usa in modo meschino e aggressivo il proprio potere. [di Gianpaolo Caprettini]

Altro che derive, ecco perché a questo Paese serve più autorità. Spartaco Pupo su Libero Quotidiano il 10 giugno 2023

Nella vicenda del Pnrr, Giorgia Meloni sta dimostrando che non ha alcuna intenzione di sottrarsi a quello che è un dovere etico, prima che politico: pretendere chiarezza e trasparenza. La premier, infatti, è partita, qualche mese fa, dalla necessità di rivedere il piano in base alle concrete possibilità che i progetti enunciati hanno di essere eseguiti nei tempi stabiliti dall’accordo con l’Ue. Ed è giunta, in questi ultimi giorni, alla stretta sul controllo concomitante della Corte dei Conti proprio per far fronte a questa esigenza. Sa bene che i “sogni” non progettabili andranno in soffitta insieme alle aspirazioni irrealizzabili di molti politici, nazionali e locali, e ai malcelati “appetiti” delle opposizioni. D’altronde, ad essere scarsamente funzionale al processo di rapida “decisione” imposto dall’Ue non è affatto il tanto biasimato “autoritarismo” della Meloni, bensì proprio la pretesa delle opposizioni di un “posto a tavola”. Dai tagli mirati, dalle necessarie potature e dalla velocizzazione dipenderà il successo del piano, e la premier dimostra, forse con eccesso di zelo, di voler agire alla luce del sole.

Gli esperti sanno che il Pnrr non è realizzabile senza la “centralizzazione” in un’unica autorità politica, la premiership, appunto, che Giorgia Meloni fa bene ad accentuare per una ragione molto semplice, e tutta politica: nessuno, né dell’opposizione né della maggioranza, e forse nemmeno del suo partito, le perdonerebbe un passo falso nella gestione del compito che è chiamata a svolgere. È quindi sacrosanto, oltre che lecito, agire con uno spiccato senso di autorità, che nulla c’entra con la “deriva autoritaria” denunciata dalle opposizioni. L’autorità, in effetti, ben lungi dall’essere un’offesa, come ritengono certi solo ni della sinistra, è il sale della politica, giacché è il fondamento che legittima e istituzionalizza il potere. È la fiducia nella legittimità del potere, infatti, a trasformare l’ordine in diritto e l’obbedienza in dovere, conferendo efficacia e stabilità alla relazione tra governanti e cittadini. L’autorità diventa “autoritarismo” solo quando che la detiene nega la legittimità e pretende di dare ordini senza giustificato motivo.

E non è certo questo il caso dell’attuale Presidente del Consiglio, democraticamente eletto e legittimamente incaricato a svolgere le sue funzioni. Se non si ha voglia di riguardarsi qualche testo giuridico – anche perché la letteratura sul tema è molto vasta – i censori dell’operato della premier potrebbero andare a rileggersi qualche classico di teoria politica, se non di Roberto Michels o Carl Schmitt, almeno di Hannah Arendt, autrice non certamente di destra. Ebbene, in Che cos'è l'autorità? (1970), proprio Arendt definiva l’autorità, in forza della quale agisce un politico legittimamente deputato a governare, come «la pietra angolare che ha reso il mondo durevole e permanente» e che, nientemeno, garantisce «la continuità, la solidità e le fondamenta del mondo». Una lezione per molti! 

Autocrazie in crisi. Tutti i luoghi comuni alimentati dalla propaganda illiberale. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 5 Maggio 2023.

La democrazia è in affanno, ma regge meglio degli altri sistemi. Se ne stanno accorgendo in Russia, in Iran e in Cina. Chissà che nel 2023 la notizia non arrivi perfino negli studi tv italiani 

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da oggi in edicola. E ordinabile qui.

Le notizie sulla ritirata della democrazia nel mondo da tempo non sono più una novità. Ogni anno si susseguono rilevazioni, dati e analisi che confermano una tendenza angosciante. A febbraio del 2022 il Democracy Index dell’Economist, che misura lo stato della democrazia globale, registrava per l’anno precedente il calo più pesante dal 2010, quando il mondo faceva i conti con le conseguenze della crisi finanziaria, e il risultato più basso dall’inizio delle rilevazioni, nel 2006. Il rapporto 2022 di Freedom House, ong che si occupa dello stato della democrazia e delle libertà civili, descrive l’espansione dell’autoritarismo. Un quadro inquietante che è il frutto di sedici anni consecutivi di declino dei dati sulla libertà globale. «A oggi», dice il rapporto, «circa il 38 per cento della popolazione mondiale vive in Paesi non liberi, la più alta percentuale dal 1997».

Dare una misura esatta a concetti sfuggenti come libertà e democrazia può suscitare legittimi dubbi; ma comunque si giudichino metodologie e risultati delle singole rilevazioni, quello che colpisce è la tendenza, su cui tutti i dati e tutte le analisi convergono ormai da moltissimo tempo. La democrazia sembra essere in ritirata, e così le libertà civili e i diritti umani, anche all’interno dei Paesi democratici, mentre crescono simmetricamente il numero e l’influenza dei Paesi non democratici, solo parzialmente democratici o apertamente dittatoriali. 

Sebbene, come si vede, il processo sia cominciato molto prima, non c’è bisogno di molti grafici e percentuali per spiegare come la pandemia abbia accelerato questa deriva. Figuriamoci quando alla pandemia, alle conseguenti misure restrittive e ai loro pesanti effetti economici si sono sommate le tensioni, i disagi e le paure suscitate nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo dalla guerra in Ucraina, dall’inflazione e dalla crisi energetica. Sembrerebbe la ricetta perfetta, a quasi cento anni di distanza, per un revival degli anni Trenta del Novecento. 

Non per niente – come è ormai quasi obbligatorio sin dal primo apparire di qualunque genere di crisi – analisti e commentatori hanno ricominciato a prendersela con Francis Fukuyama, per ripetere che la storia non è affatto finita e il suo ottimismo sulla vittoria definitiva del modello liberaldemocratico occidentale completamente infondato. 

A conferma di questa tesi hanno avuto ampia circolazione diversi pericolosi e molto antichi luoghi comuni. Quante volte ci siamo sentiti dire che i regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, si stavano dimostrando meglio attrezzati per affrontare la pandemia, che tutto sommato la popolazione era ben felice di cedere un po’ di libertà in cambio di sicurezza, crescita economica e benessere, tutte cose che le fiacche, litigiose, deboli democrazie occidentali non erano più in grado di garantire a nessuno. E tantomeno l’Unione europea, con le sue farraginose procedure democratiche, la sua stentata crescita economica, i suoi asfissianti vincoli di bilancio (almeno per noi italiani). 

Oggi vediamo però che, mentre il resto del mondo, noi compresi, conduce una vita pressoché normale, la televisione cinese deve censurare persino i Mondiali, stringendo le inquadrature sui giocatori e tagliando tutte le immagini degli stadi pieni e dei tifosi accalcati, affinché i loro cittadini non vedano come stanno le cose altrove, e non possano fare paragoni. Ma come stanno le cose lo sanno già, i paragoni li fanno e il risultato sono proteste contro il regime mai viste per estensione e radicalità dai tempi di piazza Tian An Men. 

Oggi vediamo che sono i cittadini della democratica, pro-europeista e pro-occidentale Ucraina a dimostrare una forza e un coraggio insospettati, mentre sono i soldati russi a disertare, ad abbandonare i carri armati sul campo di battaglia o prima ancora di esserci arrivati. Sono i giovani russi, timorosi di essere arruolati, a lasciare il loro Paese, mentre tanti ucraini che all’estero già ci stavano, al sicuro, fanno ritorno in patria per difenderla dall’invasore. 

Oggi vediamo che persino la teocrazia iraniana fa sempre più fatica a contenere le proteste che hanno preso avvio dalla scomparsa di Mahsa Amini, morta dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per come indossava il velo.

La Cina è il principale alleato della Russia, sebbene sia stata ben attenta a non farsi trascinare nella guerra contro Kyjiv. L’Iran, sebbene ufficialmente neghi ogni coinvolgimento, non ha esitato a fornire a Vladimir Putin i droni utilizzati contro le città ucraine.  

Certo, in Italia, leggendo i giornali e guardando la tv, è difficile rendersene conto. Qui, per molte ragioni, continua a prevalere una narrazione del tutto opposta – opposta alla realtà, s’intende – in cui sono i sostenitori dell’Ucraina a essere dipinti come servi degli Stati Uniti, come gli ultimi fanatici esponenti di un imperialismo americano ormai in disarmo, come i disperati propagandisti di una civiltà occidentale in declino – priva di valori, senza identità e senza radici, abitata solo da gente rammollita dal consumismo e rincretinita dalla televisione – destinata inevitabilmente all’estinzione. Mentre i deliri nazionalisti, omofobi e oscurantisti di Putin e del patriarca Kirill sarebbero l’esempio di una nazione unita, forte dei propri valori, della propria tradizione e della propria identità.

Naturalmente, nulla può più essere dato scontato. Dopo aver visto Donald Trump incitare i suoi sostenitori ad assaltare il Congresso nel tentativo di rovesciare l’esito del voto, il 6 gennaio 2021, dobbiamo sempre domandarci cosa sarebbe successo se quel risultato non fosse stato nettissimo e ben distribuito tra diversi Stati americani. Se cioè quella di Joe Biden fosse stata una vittoria di misura, appesa a pochi voti contestati, come accadde nel 2001 con la vittoria di George W. Bush su Al Gore: è più che lecito domandarsi se la democrazia americana sarebbe oggi ancora in piedi, se non avremmo assistito a una vera e propria guerra civile e quali conseguenze avrebbe avuto un simile scenario nel resto del mondo (a cominciare proprio dall’Ucraina).

Sta di fatto che oggi anche la stella di Trump, il principale agente del caos che la democrazia occidentale abbia dovuto fronteggiare al proprio interno, appare decisamente in declino. Così come decisamente più deboli di un anno fa appaiono Putin, gli ayatollah iraniani e persino il potentissimo Xi Jinping.

Il 2022 ha smentito tutti i luoghi comuni alimentati, sui nostri mezzi di comunicazione, dalla propaganda illiberale. Come si è visto, anche dinanzi alle minacce mortali della pandemia e della guerra, non sono i regimi autocratici a essersi dimostrati capaci di garantire maggiore sicurezza, tranquillità, ricchezza e benessere alle loro popolazioni.

Sono state le democrazie capitaliste occidentali, con tutti i loro limiti, a dimostrarsi capaci di trovare le soluzioni più efficaci, i vaccini migliori, i compromessi più ragionevoli tra libertà, diritti individuali e salute pubblica.

È stato il desiderio di entrare nell’Unione europea, consolidando l’evoluzione del Paese verso una compiuta democrazia occidentale, ad animare l’eroica resistenza degli ucraini. Ideali e desideri che alla prova dei fatti, sul campo di battaglia, si sono dimostrati assai più forti del richiamo alla retorica del sangue e del suolo, dell’oscurantismo religioso e del fanatismo nazionalista agitato contro di loro in Russia. Una retorica che fa sempre meno presa a Mosca, come sembra fare sempre meno presa a Teheran e persino a Pechino, e forse un giorno, chissà, perderà il suo slancio anche sulle tv italiane.

Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da mercoledì 28 dicembre. E ordinabile qui.

Egoismo altruistico. Il salto di qualità nella leadership è convincere gli altri a lottare per uno scopo più elevato. Stewart D. Friedman su L'Inkiesta il 24 Aprile 2023

Come spiega Stewart Friedman in ”Total Leadership” (Egea), bisogna allenare la capacità di ottenere un sostegno esterno. E soprattutto far capire loro che ciò che state cercando di raggiungere riguarda qualcosa più grande di voi stessi

È molto facile rimanere intrappolati nelle proprie idee su come dovrebbero essere fatte le cose e perdere la possibilità di focalizzarsi su ciò che gli altri vogliono da voi. Ma il mondo reale è fatto da persone interdipendenti e dovete trovare un modo per connettere le vostre idee con i bisogni delle persone dalle quali voi stessi dipendete per realizzare ciò che è importante. E quando riuscirete a farlo – quando vi prenderete del tempo per scoprire in che modo i vostri interessi si sovrappongono con quelli degli altri e agirete di conseguenza – avrete molte più possibilità di realizzare le vostre ambizioni.

I leader vedono il mondo attraverso gli occhi degli altri, così come avete fatto voi nei dialoghi con i vostri interlocutori. Lo scopo dei leader è rendere il mondo migliore per le persone che li circondano, proprio come state facendo con i vostri esperimenti. Può sembrare un paradosso, ma più riuscirete a togliere i vostri interessi egoistici dal quadro generale, agendo piuttosto per gli altri, e più finirete con l’avvantaggiare i vostri interessi, nel breve e nel lungo termine.

I leader vedono il «noi» dove gli altri si accorgono solo dell’«io». Il concetto di «noi» si espande oltre le persone a noi più care e intime, e quindi può ispirare cambiamenti grandiosi. Bono, cantante e frontman degli U2 oltre che attivista di fama mondiale per i diritti civili, rimane una rock star, ma gran parte della sua musica e di tutto il resto del suo lavoro è proprio dedicata a migliorare la vita delle persone in difficoltà. Indra Nooyi, all’epoca CEO di PepsiCo, ha dichiarato di essere alla ricerca di «performance con uno scopo». L’obiettivo di Nooyi era certamente fare soldi, ma in modo da soddisfare il bisogno di alimenti sani nel mondo; secondo lei, questo avrebbe a sua volta finito per arricchire tutti.

Prendiamo in considerazione un esperimento in cui progettate di lavorare da casa un giorno a settimana. Quante probabilità di successo avrete se il vostro capo ha un ruolo diretto nel responsabilizzarvi a rimanere a casa e fa il tifo per voi? Per lui o lei la nuova disposizione, concordata in un esperimento ben congegnato, dovrebbe essere buona o addirittura migliore di quanto non sia per voi! Elemento essenziale perché questo accada è che voi crediate che sarà davvero una soluzione positiva per il vostro capo e per le altre parti interessate. Se non riuscirete a convincere voi stessi che questo è proprio vero, allora non potrete essere molto persuasivi.

(…)

Quando siamo convinti di fare qualcosa per gli altri non ci si sentiamo in colpa se facciamo qualcosa che potrebbe sembrare solo per noi stessi. In Work and Family. Allies or Enemies? Jeff Greenhaus e io abbiamo osservato che un tempo maggiore dedicato dalle madri a sé stesse si traduce in una migliore salute emotiva dei figli. Questo significa anche andare alle terme senza sensi di colpa perché sappiamo di fare qualcosa di positivo anche per i nostri figli.

2014 Stewart D. Friedman, Published by arrangement with Harvard Business Review Press through Berla & Griffini Rights Agency 

Da “Total Leadership” di Stewart D. Friedman, Egea, 248 pagine, 30,90 euro

Renzusconi. Edoardo Sirignano su L’Identità il 14 Aprile 2023

Forza Matteo! Così si chiamerà il nuovo soggetto liberal-democratico pensato da Renzi. Non basta neanche una telefonata di Macron a salvare il Terzo Polo. Le uscite di Carlo Calenda sono insopportabili per il giglio, che non vuole più stare ai diktat del romano. Salta, quindi, l’ennesimo confronto richiesto dal capogruppo alla Camera Richetti. Il superamento della Leopolda è solo la goccia che fa traboccare il vaso. La verità è piuttosto quella rivelata dall’ormai ex alleato: “Non faremo il partito unico perché Matteo non lo vuole”. L’ex presidente del Consiglio, uno dei pochi in Italia che di politica ne capisce, intravede uno spazio politico, che non può essere lasciato vuoto. Stiamo parlando del campo occupato da Berlusconi. Il Cav continuerà a dare consigli, a lottare contro ogni malattia, a dettare la strategia dietro le quinte, ma certamente non può permettersi più il lusso di guidare uno schieramento. Per quello non basta una comparsata in una manifestazione, come dice qualche colonnello azzurro. Considerando i tempi attuali della politica, dei social, occorre dedicarsi ventiquattro ore su ventiquattro. Il numero uno di Italia Viva lo sa bene. Ecco perché vuole, per l’ennesima volta, anticipare la mossa e mettersi a capo di un mondo, che non avrebbe alcuna difficoltà a ritrovarsi intorno a un moderato, a un indiscusso comunicatore, a un profilo riconosciuto nel mondo, proprio come il leader di Arcore.

Il piano di Matteo

Basta, d’altronde, analizzare le ultime mosse del giglio per capire la strategia. La nomina di Andrea Ruggieri, fedelissimo del leader di Arcore, a direttore responsabile del Riformista, vale più di mille parole. Si vuole dare un’impronta chiara nella comunicazione. Stesso discorso vale per le interlocuzioni tra Italia Viva e alcuni big azzurri. Secondo voci di palazzo, ci sarebbe stata più di una telefonata tra Renzi, Ronzulli, Cattaneo e Mulé. Questi ultimi nel caso in cui dovessero essere scaricati dal ministro Tajani, candidatosi a diventare “corrente” del partito della Meloni, avrebbero già un nuovo padre pronti ad accoglierli. Il tutto ovviamente sarà concordato con Berlusconi. Matteo non ha mai dimenticato il Patto del Nazareno, né ha alcuna intenzione di rompere con l’amico Silvio. Il divorzio con Calenda, non a caso, avviene proprio quando il politico romano, nel momento più difficile per il Cav, parla di “fine della seconda repubblica”. Una cosa è certa, le similitudini sono tante tra Italia Viva e Forza Italia. Un esempio è la battaglia garantista, su cui i due leader si sono sempre ritrovati. Sul punto, Renzi avrebbe trovato un accordo sia con +Europa che con quel che resta del mondo liberale. Queste forze avrebbero scelto da tempo con chi collocarsi e non certamente con “Carletto de Roma”. L’ultimo cinguettio di Emma Bonino, che dice di non essere sorpresa dalle scelte di Calenda, vale più di mille parole. Qualche malpensante sostiene che siano gli stati gli stessi radicali a dire agli amici della Leopolda di rompere con Azione. La strategia è unire le forze, dagli scontenti del Pd ai berluscones, per tornare a essere centrali in Europa. Per riuscire nella sfida non basta certamente il partititino che alle ultime regionali ha preso il 2 per cento in Friuli. Quel progetto, purtroppo, è fallito. A dirlo i numeri e non gli slogan.

 La fase transitoria

L’operazione moderata, immaginata da Renzi, però, richiede tempo. Serve gestire al meglio la fase di transizione. Non dovrebbero esserci particolari problemi per Italia Viva, ma non sono permessi errori. A Bruxelles i due europarlamentari di Renew sono fedelissimi del giglio. “Un percorso importante, come quello che abbiamo avviato in Europa – dichiara il vicepresidente del gruppo Nicola Danti – non può essere fermato per i personalismi di qualcuno”. Stesso discorso vale per Montecitorio, dove Matteo ha i numeri per mantenere il simbolo. Più difficile il quadro a Palazzo Madama, dove Iv ha 5 senatori contro i 6 necessari per il gruppo. Recuperare un parlamentare, però, non è certamente un’impresa impossibile per chi è in grado di convincere chiunque.

La solitudine di Carletto

Più difficile il futuro, invece, per Carlo Calenda. Se Renzi sa dove vuole andare, il romano dovrà inventarsi qualcosa. Il campo della sinistra è ormai occupato da Elly Schlein, mentre i ribelli centristi non possono far altro che tornare da chi li ha creati.

Nel Pd, Calenda non è simpatico a nessuno, neanche a Ernico Letta. L’ex segretario del Pd è tra i primi a mettere il like al tanto discusso tweet della Bonino. I 5 Stelle, poi, certamente non possono caricarsi sulle spalle chi li ha sempre criticati. Un’intesa con Giorgia Meloni è fantapolitica. L’isolamento, pertanto, è la vera ragione dell’ira di Carletto. Renzi, a suo discapito, non “parla solo con Obama e Clinton”.

Gli unici ad aver aderito alla causa di Azione, allo stato, sono le sole Carfagna e Gelmini. Queste ultime non possono essere riaccolte da chi fino a ieri le ha definite “traditrici”. Il Cav non perdona. Ne sanno qualcosa i vari Fini e Alfano. Il Terzo Polo di Calenda, quindi, rischia di trovare un percorso in salita dai blocchi di partenza. Le sigle centriste in Italia abbondano e l’egocentrismo del re dei Parioli non rende attrattivo un progetto, che non è più una novità.

Sangue, merda e Terzo Polo. Il racconto grottesco e impolitico di un fallimento tragicamente politico. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 15 Aprile 2023

Quasi tutti i giornali hanno raccontato lo scontro tra Renzi e Calenda come una sorta di rissa di strada. E invece è stato molto di più: un clamoroso tentativo fallito di superare il micro-leaderismo personalistico nell’area liberaldemocratica

Chissà se è nato prima l’uovo o la gallina, prima il malvezzo dei giornalisti di rappresentare la politica come una commedia dell’arte o un’opera dei pupi o prima l’assuefazione dei politici a farsi rappresentare – e ad autorappresentarsi – come tanti Zanni e altrettanti Orlando, un’immensa compagnia di giro di maschere e marionette, impegnata a improvvisare frizzi e lazzi su esili canovacci o a incrociare le lame di latta in infiniti duelli di amore e di virtù.

Azzarderei che sia l’egemonia dell’infotainment e non il narcisismo dei potenti o aspiranti tali a condannarli a rispondere (sventurati) all’«Americà, facce Tarzan», che è il modo più comodo e redditizio con cui l’informazione dalla schiena dritta adempie quotidianamente alla propria imprescindibile funzione democratica contro gli arcana imperii. Ma è un discorso che porterebbe lontano e, probabilmente, in zone infrequentabili per chi voglia sottrarsi all’accusa di attentare alla libertà dell’informazione, che è un feticcio pure più intangibile della rinomatissima autonomia della magistratura.

In ogni caso, per fermarsi più modestamente alle conseguenze, senza risalire alle origini di un meccanismo che sta conformando il funzionamento della democrazia italiana a quello dello showbiz mediatico-politico (showbiz peraltro povero e sfigato), in questi giorni abbiamo avuto una dimostrazione spettacolare di questo fenomeno nella rappresentazione (e autorappresentazione) dell’esplosione del Terzo Polo e della rottura tra Renzi e Calenda.

Si possono avere le più varie opinioni – e mi pare che Linkiesta ne stia raccogliendo di molto diverse e plurali sulle ragioni e sui torti di ciascuna delle parti e sul contributo che protagonisti e comprimari hanno offerto al proprio sputtanamento. Si può avere un’opinione buona o cattiva della moralità e della coerenza di Renzi e di Calenda, della furbizia dell’uno e dell’intemperanza dell’altro o della capacità di entrambi di corrispondere responsabilmente agli impegni che si erano presi con due milioni e mezzo di elettori.

Quello che però onestamente non si può fare è raccontare questo scontro come una sorta di rissa di strada, senza altro contenuto che quello di volere essere il capo del rione. Per tutti i giornali italiani – per la precisione per quasi tutti – si è semplicemente giunti al redde rationem tra i due galli del pollaio centrista. Eppure era chiaro da mesi che il problema – ripeto: qualunque cosa si pensi circa la soluzione – era gigantesco e oggettivo e riguardava il punto su cui sono falliti in questi ultimi trent’anni tutti, dicasi tutti i tentativi compiuti nel mondo liberaldemocratico per fare un vero e autonomo partito di un’area di opinione diffusa ed esigente, storicamente refrattaria all’impegno pubblico e piuttosto incline al mugugno privato, ripetutamente scomposta e ricomposta in formule elettorali rovinose o fortunate (le principali: Lista Bonino 1999, Scelta Civica 2013, Azione-Italia Viva 2022), tutte dissoltesi nello spazio di un’elezione, a prescindere dal risultato conseguito.

I liberaldemocratici italiani, uti singuli, nel frattempo hanno dato buone lezioni di pedagogia civile ed economica e hanno tentato di spiegare agli altri come si sta al mondo, ma non hanno mai accettato di capire come si sta in politica con un’ambizione diversa da quella della neutralità tecnocratica o della rendita parassitaria, sempre con un piede dentro e un piede fuori i confini dei partiti altrui e con una vocazione al marginalismo retribuito con seggi o incarichi ad honorem, che ne ha fatto i cespugli perfetti a destra come a sinistra, i pennacchi da esibire da una parte o dall’altra come prova di serietà, di pluralismo o di attenzione ai contenuti.

Le poche prove di autonomia liberaldemocratica sopravvissute alla prova delle urne non sono sopravvissute alla prova del partito, perché nessuno si era mai spinto finora oltre le colonne d’Ercole del micro-leaderismo personalistico, del situazionismo politico-elettorale e dell’anche oggi decidiamo domani. Il divorzio tra Azione e Italia Viva è un tentativo fallito (nuovamente: non mi importa, qui, discutere ragioni e torti), ma è stato questo tentativo ed è fallito su questo.

Cavillare sulla incomprensibilità di uno scontro tra due leader che sembrano d’accordo su tutto, pure ammettendo e non concedendo che questo sia vero, è poi politicamente una prova di malafede giornalistica e di ruffianeria politica da Guinness dei primati: se il progetto non era quello di presentare emendamenti comuni al decreto milleproroghe o alla legge di bilancio, ma di costruire un partito con ambizioni elettorali a doppia cifra per le prossime europee e una trincea di resistenza al bipopulismo perfetto per l’intera legislatura, come si fa onestamente a considerare irrilevante, dal punto di vista politico, la disponibilità di bruciarsi o meno i ponti alle spalle o l’esigenza di conservare o meno vie di fuga?

Insistere poi sulla diversità e sullo scontro dei caratteri di Renzi e di Calenda, riportando a un dato soggettivo, psicologico e perfino fisiognomico una diversità del tutto oggettiva di idee, convinzioni e ambizioni sarebbe come minimo – direbbero quelli che parlano bene – un cattivo servizio reso alla comprensione del pubblico degli affezionati lettori e telespettatori del circo politico-mediatico. È invece – dicono quelli che parlano male, come me – un modo disonesto per rimuovere il sangue della politica e per rivenderne solo la merda.

Almeno non ci ruberemo i Rolex. La rottura tra Azione e Italia Viva, raccontata da Calenda. su L’Inkiesta il 15 Aprile 2023

Intervistato da Repubblica, il leader dell’ormai fallito Terzo Polo è deluso più che furioso: «Credevo davvero che si potesse fare il partito unico e che Renzi volesse fare un passo di lato, dato che guadagna due milioni di euro in giro per il mondo»

Il Terzo Polo è morto. Eppure in qualche modo continuerà a esistere nella politica italiana, nel lavoro dei gruppi parlamentari, nell’impegno all’opposizione, nel percorso che porterà alle europee. È una consapevolezza che hanno tutti, sia in Azione sia in Italia Viva. Ne ha parlato anche Carlo Calenda in un’intervista a Repubblica, fatta da Lorenzo De Cicco: il leader di Azione dice di sperare che i gruppi parlamentari continuino ad esistere, anche perché altrimenti perderebbero i fondi parlamentari, e aggiunge che nella trattativa aveva fissato regole chiare: sciogliere i partiti e condividere i soldi.

Nella sua conversazione con Repubblica, Calenda sembra deluso più furioso, dispiaciuto per un progetto politico che stava prendendo forma e che invece si è fermato prima di iniziare a vedere risultati concreti. Non si è risparmiato battute – «Almeno non ci siamo fregati i Rolex», inizia così l’intervista a Repubblica, con un non troppo velato riferimento al divorzio dell’anno, quello tra Francesco Totti e Ilary Blasi – e frasi di circostanza per cercare di raffreddare i toni della conversazione: «Siamo seduti molto distanti. Abbiamo scherzato su un errore di Lotito», ha detto Calenda quando De Cicco gli ha chiesto «Ieri in Senato che vi siete detti?».

Il piatto forte, ovviamente, restano i commenti affilati nei confronti di Matteo Renzi: «C’è grande delusione, credevo davvero che si potesse fare il partito unico e che Renzi volesse fare un passo di lato, dato che guadagna due milioni di euro in giro per il mondo». Poi ovviamente rincara la dose quando parla dell’incarico di Renzi come direttore del Riformista. Calenda dice che sarà divertente: «Penso a quei politici che faranno confidenze a Renzi e poi si ritroveranno i virgolettati sui giornali». E ancora, sul personale: «Può essere che io abbia un caratteraccio. Ma mi sento un tipo retto».

L’unico momento in cui nelle parole di Calenda si può percepire la rabbia per quanto accaduto è proprio quando si entra nel merito delle questioni relative all’amministrazione due partiti: «Qualcuno me l’aveva detto che dovevo stare attento. Renzi è uno pirotecnico, che una ne fa e cento ne pensa come è successo con Il Riformista. Se non stai attento è uno che “te se magna”. Ma io sono un boccone indigesto».

Nell’accordo tra Azione e Italia Viva, tra l’altro, c’era anche una clausola anti-lobby. Che non sarebbe valsa solo per Renzi ma per tutti. «Non ci siamo sentiti per due settimane», racconta Calenda. «Intanto i suoi mi attaccavano a mezzo stampa e l’esercito di troll che ha su Twitter me ne diceva di ogni. Ma ho capito il trappolone e non mi sono fatto fregare».

In ultimo, Calenda non esclude di riproporre alleanze a Più Europa. Ma anche al Partito Democratico di Elly Schlein: «Mai dire mai. Ma se fanno asse con i Cinquestelle li vedo lontani da noi. E su troppi nodi come il termovalorizzatore non prendono posizione».

Estratto da repubblica.it il 15 aprile 2023

[…]  Calenda, su Twitter, […] senza mai citare Bonifazi o Renzi, scrive: "Nella vita professionale non ho mai ricevuto avvisi di garanzia/rinvii a giudizio/condanne pur avendo ruoli di responsabilità. Non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri".

 "Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. Mai sono entrato nelle lottizzazioni del CSM", aggiunge Calenda. Poi il passaggio più duro: "Non ero a Miami con il genero di Trump o in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi". "Ho rotto con il PD quando ha tradito la parola alleandosi con Renzi e i 5S. Ho rotto con Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Bonelli/Fratoianni/Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico", conclude.

Dopo qualche ora arriva una enews di Matteo Renzi per "chiedere scusa a tutti gli amici che credono nel riformismo e nel Terzo Polo per l'indecoroso spettacolo di questa settimana. Ho fatto di tutto per evitare di giungere a questo epilogo. Ci ho creduto ma non ci sono riuscito. Penso che chi ha avuto responsabilità in questo fallimento debba chiedere scusa. E io lo faccio - per la mia quota parte - con la consapevolezza che ho fatto di tutto fino all'ultimo per evitare il patatrac".

 "Nei prossimi giorni partirà il congresso democratico, dal basso, di Italia Viva. - continua Renzi - Quello che volevamo fare insieme ad Azione, in modo civile e libero, lo faremo con chi ci sta. Prima i comuni, poi le province, poi le regioni. Non ci saranno paracadutati o imposti dall'alto.

 Sceglieranno gli iscritti, non Renzi. Faremo la Leopolda l'8-9-10 marzo 2024 cercando di portare tante belle esperienze a discutere, a condividere i sogni, a ragionare di politica. Pensare di vietare la Leopolda è incredibile: significa non aver capito quanto entusiasmo e quanta bellezza ci sia in un popolo che rifiuta il populismo".

Estratto dell’articolo di Thomas Mackinson per ilfattoquotidiano.it il 15 aprile 2023

 “Renzi non ha mai voluto fare un partito. Messo alle strette ha provato a rifilarci una ‘solà e non gli è riuscito. Allora ha fatto saltare tutto. Ora ignoriamo gli insulti, la cagnara dei finti profili di IV etc. e andiamo avanti a fare politica come l’abbiamo sempre fatta: in modo onesto, trasparente e sui contenuti”.

Con un tweet Carlo Calenda tenta di sedare così la montagna di polemiche, insulti e dileggi che accompagnano il naufragio del Terzo Polo, ormai diviso da tutto e unito dall’unico collante della “roba”, cioè i soldi: 14 milioni di spese dei gruppi in 5 anni, 4 milioni già raccolti da finanziatori privati, 1,6 milioni (800mila euro a partito circa) raccolti col 2xmille.

 […] Perché tenere insieme due forze politiche mentre il progetto comune naufraga in una marea di insulti l’abbiamo scritto ieri: per i 14 milioni di euro di fondi che i due partiti perderebbero in cinque anni se si dividessero, perché a quel punto nessuno dei due avrebbe il numero minimo di eletti per formarne uno proprio (20 alla Camera, 6 al Senato) e perderebbe tutti quei soldi. Per dare la misura, sono circa 10mila euro al mese ciascuno tra auto, sondaggi, multe, collaboratori, materiale di comunicazione etc. Anche da qui si capisce l’urgenza della convenienza senza esser convolati a nozze. Scelta imposta anche da un altro problema che già si profila: ma chi li finanzierà più?

Quando Renzi e Calenda si unirono attorno al progetto di un Terzo Polo riformista il ghota dell’imprenditoria e della finanza […] si spellò mani e portafogli per quell’impresa che alle politiche aveva raccolto l’8%. Tanto da versare nelle loro casse 4 milioni di euro a titolo di “erogazione liberale”. […]

 Nell’elenco dei finanziatori spicca il patron Prada Maurizio Bertelli che negli due anni ha versato ad Azione 100mila euro. Sempre nella moda la famiglia Zegna, che al Terzo Polo ne ha donati 60mila, quindi Loro Piana che ne ha versati 130mila, l’ultima tranche a fine marzo. Nel settore sanitario c’è il patron di Technit e Humanitas Gianfelice Rocca che ha versato 100mila euro.

Confindustria aveva scommesso tanto nella convinzione che il progetto di Renzi e Calenda avrebbe fatto molta strada: Alberto Bombassei cala una fishes da 100mila euro sul tavolo dei terzopolisti, insieme all’ex presidente Antonio D’Amato, Ad Alessandro Banzato (già Federacciai) e Giovanni Arvedi, alla guida del colosso dell’imprenditoria siderurgica. Scendono in campo anche i signori del cemento come Pietro Salini (Webuild) che punta al Ponte di Messina. E vede crollare quello tra i due beneficiati.

Terzo polo, sipario con stracci. Renzi: "Carfagna sia la leader". Antonio Fraschilla su La Repubblica il 16 Aprile 2023

L'ultimo affondo di Calenda: "Io mai in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi". L'ex premier chiede scusa per lo "spettacolo indecoroso". E lancia la nuova provocazione

"Quando Carlo Calenda aveva bisogno, gli andava bene tutto. Oggi insulta per paura di perdere il congresso. Tutto è saltato quando Luigi Marattin ha annunciato che si sarebbe candidato al congresso contro di lui. Ma il progetto Terzo polo va avanti: è maturo il tempo di una leadership femminile, dopo Meloni e Schlein. Dobbiamo fare un passo indietro entrambi, io e Calenda, e lasciare spazio a una candidatura femminile". Matteo Renzi parla con i suoi al telefono e annuncia la sua nuova strategia dopo che con il leader di Azione ormai volano gli stracci: puntare su una donna per mettere Calenda del tutto fuori dai giochi. E in Italia viva si fa il nome di Mara Carfagna come possibile colpo di teatro per tenere in vita il progetto terzopolista e smontare il giocattolo di Azione.

Una strategia, quella di Renzi, illustrata ai suoi alla fine di una giornata di insulti con l'ex ministro.

Calenda ieri mattina ha prima invitato i componenti del suo partito al silenzio stampa per abbassare la tensione, poi proprio il leader di Azione ha colpito Renzi nel suo punto più debole: i rapporti da conferenziere ben retribuito a Riad con Mohammad bin Salman, accusato di essere il mandante dell'omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi. "Mi si accusa di assenze in Senato, ma quando non c'ero facevo iniziative per Azione e Italia viva, non ero a Miami con il genero di Donald Trump o in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Kashoggi", scrive Calenda in un tweet per rispondere al tesoriere di Iv Francesco Bonifazi.

Il segno è stato superato e la frattura tra i due leader nel campo del Terzo polo è ormai insanabile. Calenda ha deciso di "mettere in chiaro le responsabilità del fallimento del partito unico, dopo essermi impegnato sette giorni su sette per creare il vero Terzo polo", dicono da Azione.

Da qui una serie di tweet al veleno contro l'ex alleato: "Nella vita professionale non ho mai ricevuto avvisi di garanzia, rinvii a giudizio e condanne pur avendo ruoli di responsabilità - scrive - non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri. Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. Mai sono entrato nelle lottizzazioni del Consiglio superiore della magistratura. Ho rotto con il Partito democratico quando ha tradito la parola alleandosi con Conte e il Movimento 5 stelle. Ho rotto con Enrico Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni e Luigi Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico".

Renzi legge incredulo questi attacchi a mezzo social e ribatte a modo suo: "In queste ore Carlo Calenda sta continuando ad attaccarmi sul piano personale. Sono post e tweet tipici dei grillini, non dei liberal democratici. Tuttavia io non replico. Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c'era bisogno del simbolo di Italia viva per presentare le liste. Se sono un mostro oggi, lo ero anche quando ho sostenuto Calenda come leader del Terzo Polo, come sindaco di Roma, come membro del Parlamento europeo. O addirittura quando l'ho nominato viceministro, ambasciatore, ministro".

A questo punto il senatore rilancia il congresso di Italia viva nel marzo del 2024 e chiude quindi a qualsiasi possibile intesa con Azione. Ma con la mossa di lanciare Mara Carfagna come possibile leader del Terzo polo prova a piazzare una mina dentro il partito di Calenda. L'ex ministra potrebbe diventare il volto di un partito moderato che guarderebbe verso il centrodestra: prendendosi anche le spoglie di Forza Italia.

Carlo Calenda: «Contro di me i troll di Renzi sui social». Ma i due non si possono separare. Continuano i botta e risposta sui social e sui media. Ma i gruppi parlamentari di Azione e Italia Viva restano uniti, anzi più che saldi: il rischio è quello di perdere un milione e mezzo di finanziamenti l’anno. Simone Alliva su L’Espresso il 14 Aprile 2023

«Se ci siamo sentiti? Ma Renzi parla solo con Obama e Clinton. Intanto i suoi mi attaccavano a mezzo stampa e l'esercito di troll che ha su Twitter mi diceva che ero un assassino o cose del genere. Ma la tecnica è chiara». Parla di tecnica Carlo Calenda intervistato da Repubblica che da giorni vede i suoi social ricoperti di insulti, minacce e frasi che purtroppo non si possono riportare, il garbo non lo consente.

Anche lo "squadrismo social” è un metodo dentro questa storia politica finita malissimo. E non è una novità ma la sua evoluzione. Il passato è dietro di noi, basta voltarsi per guardarlo. Se andiamo molto indietro ricordiamo il “metodo Boffo” ideato da Vittorio Feltri ed entrato nei manuali di storia del giornalismo: l’allora direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di aver scritto alcuni editoriali contro Silvio Berlusconi, fu messo alla gogna da Il Giornale, fino al suo licenziamento. Poi è stato il momento del "Giornalista del giorno", rubrica grillina molto in voga fino a qualche anno fa nella quale foto-segnalare un giornalista e riportare un brano critico nei confronti del Movimento 5 stelle.

Restano alle cronache le gaffe di Alessio De Giorgi, responsabile della comunicazione digitale di Renzi, balzato fuori dall’anonimato per aver negato di essere l’amministratore della pagina “Matteo Renzi news” (pagina che elargisce attacchi e propaganda sotto forma di card), con un post scritto proprio mentre utilizzava inavvertitamente l’account da amministratore di “Matteo Renzi news”. Il 5 dicembre 2016 De Giorgi, scottato dalla sconfitta del referendum, scrisse – riferendosi a Pierluigi Bersani – «che ne dite di dire a sto signore che si permette di pontificare, cosa ne pensiamo di lui? Fai un salto sul suo post e via con la tastiera … Dai, che col pop corn siamo solo all’inizio».

Ecco. La tecnica. Il metodo usato da Matteo Renzi non dissimile da quello usato da un altro Matteo e la sua bestia. E questa volta non ha risparmiato neanche il quasi-alleato. Dispetti a mezzo tweet, vendette, scaramucce, succede in politica, caratteri inconciliabili dicono alcuni analisti, soprattutto su Calenda che con i precedenti divorzi dei mesi scorsi con Letta e Bonino, confessa: «Può essere che abbia un caratteraccio, ma mi sento un tipo retto». E però magari fosse solo una questione di caratteri. Magari questa storia dell’ex premier e dell'ex manager si potesse raccontare come quella di una strana coppia di conviventi forzati, così diversi da essere attratti ciascuno da quello che all'altro manca (il potere, la cultura. L’esperienza manageriale, l'esperienza politica), costretti ai sorrisi in pubblico e al braccio di ferro in privato. Magari, invece è una storia di soldi e poltrone. Tragicomica, che al momento costringe i due a una separazione in casa. Di mezzo ci sono circa un milione e mezzo di motivi, o meglio di finanziamento, l’anno. I due sono entrati insieme in Parlamento come ha ricordato sibillino giorni fa Luciano Nobili al capogruppo di Azione/Iv al Senato («Matteo Richetti, ad esempio, senza di noi non sarebbe mai entrato in Parlamento»). Se i due si separano sui social, in Parlamento rischiano grosso, quindi, forse, meglio evitare. Ai gruppi alla Camera, occorrono 15 parlamentari per costruire un gruppo, su 21 deputati i renziani sono nove.

Bisognerebbe chiedere al Presidente di Montecitorio Lorenzo Fontana una deroga, il precedente c’è: Sinistra Italiana e Noi Moderati. Ma al Senato tutto è più fragile: i renziani sono cinque e basterebbe solo un altro senatore per costituire un gruppo, ma il simbolo Azione/Italia Viva è in comune e il regolamento di Palazzo Madama prevede che i gruppi debbano fare riferimento alle liste elettorali.

E allora che si fa? Meglio continuare a fingere. Un democristiano tirare a campare che almeno su questo mette d’accordo i due: «Nei gruppi parlamentari noi siamo per andare avanti insieme, nelle azioni politiche e in Parlamento. Cerchiamo di fare tutto tranne i falli di reazione», suggerisce il leader di Iv, Matteo Renzi, a Radio Leopolda. «Noi terremo i gruppi parlamentari insieme perché sul piano del merito i contenuti li condividiamo», sembra fare eco Carlo Calenda, L'amore se ne è andato da un pezzo, la passione da prima. La stima e il rispetto invece da un po' meno. Separati in casa, senza il coraggio di ammetterlo.

Adesso Calenda fa il giustizialista. Renzi: "Toni grillini. Ma quando serviva il logo per le liste..." Attacco sugli avvisi di garanzia e sui soldi presi dalle lobby e Bin Salman. Laura Cesaretti il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Stavolta i primi a restare basiti per il nuovo round anti-Renzi di Carlo Calenda sono stati proprio i dirigenti ed eletti di Azione.

«Prima ci manda via chat l'ordine di assoluto silenzio stampa. Poi sferra un attacco a Renzi con toni che neanche il Fatto Quotidiano», geme, dietro assoluta garanzia di restare anonimo, uno di loro. «Basta: non dobbiamo partecipare oltre a questo spettacolo indecoroso», è l'invito perentorio del leader di Azione, alle nove del mattino. Un ora dopo, però, è lui stesso a intervenire con una serie di tweet che tirano in ballo contro l'odiato Renzi inchieste, pm, soldi e addirittura assassinii di giornalisti: «Nella mia vita professionale - tuona Calenda - non ho mai ricevuto avvisi di garanzia, rinvii a giudizio o condanne». E ancora: «Non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri. Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. E non ero in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi». Tutto ciò per rivendicare la scelta di rompere con cotanto malfattore: «Non sono caduto nella fregatura di Renzi sul finto partito unico».

La risposta di Matteo Renzi è gelidamente sarcastica: «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando serviva il simbolo di Iv per presentare le liste», ricorda al leader di Azione. «Se sono un mostro oggi, lo ero anche quando ho sostenuto Calenda come leader del Terzo Polo, come sindaco di Roma, come membro del Parlamento europeo. O addirittura quando l'ho nominato viceministro, ambasciatore, ministro». Renzi spiega: «Non replico a argomentazioni giustizialiste e grilline. Sul garantismo di chi paragona un avviso di garanzia a una condanna non ho nulla da aggiungere. Sull'arte politica di chi distrugge un progetto comune per la propria ira non ho nulla da aggiungere».

A replicare sono ovviamente i dirigenti di Italia viva: «Ormai Calenda sembra Travaglio, se non addirittura Dibba», dice Francesco Bonifazi. Roberto Giachetti parla di «un problema di incontinenza, ma anche di credibilità». Teresa Bellanova denuncia: «Sembra che qualche grillino abbia hackerato l'account di Calenda».

Ma se le reazioni dei renziani sono scontate, dentro Azione si registra smarrimento: «C'è incredulità e sconcerto - confidano dai ranghi calendiani - sapevamo che la strategia di Carlo era di arrivare alla rottura, ma evidentemente gli è sfuggita di mano. Così ci facciamo male tutti, ma Renzi ne esce meglio di noi». Il problema, spiegano, è che «non discute le sue scelte con nessuno, l'unico con cui si consulta è Andrea Mazziotti (ex Scelta Civica, ora vicesegretario di Azione, ndr) che è un brillantissimo avvocato d'affari, ma non sa nulla di politica». Niccolò Carretta, ex responsabile di Azione in Lombardia, da poco dimessosi, è durissimo con il leader: «Chi gli vuol bene lo fermi, e lo convinca a dedicarsi ad altro». Per tutto il giorno nessuno fiata, dal fronte calendiano. A sera, su richiesta del leader, parlano la presidente di Azione Mara Carfagna («Basta offese contro Calenda») e la portavoce Mariastella Gelmini. Che però smorza le polemiche e chiede un disarmo bilaterale: «Le cose rotte, quando hanno valore, si prova ad aggiustarle, non si buttano», dice, invitando a «non disperdere» il sogno di un Terzo polo. E dunque a ricucire, «tanto nè noi nè Iv - ragiona un calendiano - possiamo permetterci di andar soli alle Europee: la speranza è l'ultima a morire».

Il pallone di Calenda. Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica. Augusto Minzolini il 14 Aprile 2023 su Il Giornale

Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica. Ad analizzare i motivi della rottura, infatti, si trova di tutto: regole congressuali, finanziamenti, ragioni editoriali, profili caratteriali, addirittura ossessioni psichiatriche. Tutti argomenti che farebbero felice qualsiasi sceneggiatore, ma latita in maniera desolante la politica. A sei mesi dalle elezioni non si capisce ancora perché Azione e Italia Viva si siano presentate insieme, quale sia la loro linea politica per l'oggi e per il futuro, il profilo programmatico del partito unico che era nei loro progetti e le possibili alleanze. Nulla di tutto ciò ha caratterizzato il dibattito di questi mesi, al punto che la rottura è avvenuta su altro.

Ora, un partito, o meglio due, può anche avere un'anima dadaista, ma la sua ragion d'essere non può che essere politica. Che, invece, è difficile da ritrovare in quella fiera dell'ego, in quella tensione narcisista che ha accompagnato il tragitto verso il matrimonio di Azione e Italia Viva. Specie l'atteggiamento di Calenda risponde più a categorie psicologiche che non politiche. Il leader di Azione si è sempre presentato come l'uomo del destino, al punto che ha subordinato la nascita della formazione centrista alla sua leadership: o era lui il capo, o non se ne faceva niente. Non per nulla ha preteso che il suo nome fosse scritto nel simbolo del partito. Lo stesso spirito di chi gioca una partita in parrocchia e se non vince si porta via il pallone.

In fondo è quello che ha fatto. Appena è stata ventilata l'ipotesi di una candidatura alternativa, magari al femminile, si è adombrato fino a mandare tutto all'aria. Insomma, più che un congresso vero, sognava un congresso truccato. Il motivo è semplice: una leadership nasce su una politica, giusta o sbagliata che sia. Quella di Calenda è rimasta un rebus. Almeno Renzi, con il suo stile manovriero, qualche segnale sul versante del centrodestra lo ha inviato. Calenda, invece, a sinistra è rimasto del tutto spiazzato dall'avvento della Schlein. Non ha approfittato della svolta radicale del Pd, magari per trasformare il suo porto in un possibile approdo per gli esuli riformisti di quel partito in cerca di una nuova patria. È rimasto afono.

Per cui l'occasione si è trasformata in handicap: il nuovo soggetto stenta ad essere una possibile opzione per gli scontenti del Pd, ma nel contempo verifica giorno dopo giorno come un'alleanza con il partito della Schlein, che compete con il grillismo sul terreno del populismo di sinistra, rischia di essere contro-natura per chi coltiva un'anima riformista o liberaldemocratica. Non avendo una ricetta politica convincente, ha tentato di darsi un'identità nello scontro con Renzi. Un meccanismo perverso in cui la politica, appunto, lascia il campo alla psicologia. Così la kermesse della Leopolda è diventata un problema, la direzione del Riformista di Renzi pure, come se di politici direttori di giornali non fosse piena la storia. Fino al divorzio di ieri e magari alla rappacificazione di dopodomani: in politica contano i numeri e da soli i due duellanti non contano un tubo entrambi. A meno che tutti e due non diventino a loro volta degli esuli alla ricerca di un porto sicuro.

Voti e soldi persi. Il crac Terzo polo è anche finanziario. E dopo il divorzio riparte la diaspora. Addio sogni di gloria se si sfaldano i gruppi parlamentari unitari. Pasquale Napolitano il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Carlo Calenda si rifugia nella città della pace in cerca di meditazione. Lo stato maggiore di Azione si raduna ad Assisi per una due giorni di incontri e riflessioni organizzata da Harambee, l'associazione culturale fondata da Matteo Richetti ai tempi del Pd. La terra di San Francesco è il luogo ideale per ricompattarsi dopo il fallimento del progetto di partito unico con Italia Viva. Calenda impone il silenzio stampa ai suoi, ma non rinuncia a un nuovo affondo contro gli ex compagni di viaggio: «Ho rotto con il Pd quando ha tradito la parola alleandosi con Renzi e i 5S. Ho rotto con Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Bonelli/Fratoianni/Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico».

Il leader di Iv ribatte: «In queste ore Carlo Calenda sta continuando ad attaccarmi sul piano personale, con le stesse critiche che da mesi usano i giustizialisti». «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c'era bisogno del simbolo di Italia Viva per presentare le liste», replica insomma Matteo Renzi.

Al netto del botta e risposta, la certezza è la morte del progetto del partito unico. Nonostante in queste ore siano al lavoro i pontieri. Due su tutti: Ettore Rosato e Enrico Costa. Mara Carfagna infrange il silenzio stampa per lanciare accuse contro Renzi: «La trattativa sul partito unico è stata interrotta perché non portava da nessuna parte, e Italia Viva lo sa bene. È inspiegabile l'acrimonia con cui, a tre giorni di distanza, Italia Viva continua a sparare su Carlo Calenda. Non tutte le trattative vanno a buon fine e il diritto a difendere la propria visione esiste per tutti, per loro come per noi. Ne prendano atto, voltino pagina».

Da Forza Italia Maurizio Gasparri infila il dito nella piaga contro gli ex colleghi Fi: «A quanti hanno fatto scelte diverse dalle nostre, illudendosi di vivere nuove stagioni di gloria al seguito di Calenda e nel connubio con Renzi, alla luce dei gravi insulti che si stanno scambiando i due, con accuse da codice penale, viene spontaneo chiedere: ne valeva la pena? Lo dico senza polemica. E penso a persone come Gelmini o Moratti. Non faccio inviti al ritorno, inopportuni e per i quali non dovrei titolo, ma dico, alla Marzullo, fatevi una domanda e datevi una riposta». Dal fronte Pd, Elly Schlein resta defilata. Ora la prima questione da affrontare riguarda i gruppi in Parlamento. Se si sciolgono si perdono milioni di euro. La seconda questione aperta è il futuro dei due partiti. Azione avvierebbe nelle prossime settimane un percorso costituente che porterebbe alla nascita di un nuovo soggetto politico. Del quale Calenda sarà leader. Dovrebbe essere confermata la road map del Terzo Polo: tempi strettissimi, tra giugno e ottobre. Discorso diverso per Italia Viva: da subito scattano i congressi comunali, provinciali e regionali. Per arrivare poi al congresso nazionale, che cadrà però dopo le Europee, per la scelta del leader che avverrà con le primarie. Luigi Marattin ha una visione leggermente diversa sul futuro di Iv: «L'idea di un partito nuovo dei riformisti è intatta. Se gli attuali protagonisti hanno fatto queste scelte, ne troveremo altri». La Leopolda, pomo della discordia tra Renzi e Calenda, si terrà dall'8 al 10 marzo del 2024. Alla vigilia delle Europee.

«Renzi e Calenda? Due egocentrici e nessun leader Ovvio finisse così». Il filosofo Massimo Cacciari

Il filosofo al Dubbio: «Sia che prima o poi finiscano insieme sia che si compirà il divorzio definitivo, ormai è evidente che l'operazione di un "nuovo centro" è del tutto tramontata». Giacomo Puletti Il Dubbio il 14 aprile 2023

Il filosofo Massimo Cacciari, già sindaco di Venezia, analizza il divorzio tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, spiega che «non c’è alcun senso nel tentare disperatamente di formare un centro davvero rappresentativo in questo paese», definisce i due leader come «personaggi animati da un egocentrismo scatenato» e giudica «ridicolo pensare che oggi in Italia ci sia un problema di moderazione o di centro».

Cacciari, il progetto del partito unico del terzo polo è definitivamente morto, a detta di Calenda, ma Renzi risponde che è «un autogol clamoroso». Che ne pensa?

Penso che tutto questo sia di scarsissimo interesse. Sia che prima o poi finiscano insieme sia che si compirà il divorzio definitivo, ormai è evidente che l’operazione di un “nuovo centro” è del tutto tramontata. Ma d’altronde si sapeva anche prima che cominciasse. Non c’è alcun senso nel tentare disperatamente di formare un centro davvero rappresentativo in questo paese.

Eppure entrambi, sia Renzi che Calenda, si oppongono a quello che chiamano il bipopulismo di destra e sinistra: non stanno così le cose?

Direi di no e direi anche che la situazione è chiara: da una parte c’è una coalizione di destra, dall’altra devono cercare di fare una coalizione che possa svolgere un’opposizione a chi governa attualmente il paese. Poi che questa coalizione sia di un tipo o di un altro, cioè più spostata verso il centro o verso sinistra, è secondario. Ma certo non si può costruire con personaggi animati da un egocentrismo scatenato come sono Renzi e Calenda.

Crede che in mezzo alle coalizioni che ha appena descritto non ci sia dunque spazio per i cosiddetti “moderati”, magari provenienti anche da Forza Italia e da una parte del Pd?

Se vogliamo parlare di contenuti, parliamone. È ridicolo, e sottolineo ridicolo, pensare che oggi in Italia ci sia un problema di moderazione o di centro. Occorre avviare un percorso di riforme radicali, altro che moderazione. Riconosco che alcune di queste riforme, come quella della Costituzione, provò a farle Renzi negli anni del suo governo, ma bisogna fare quella del mercato del lavoro, quella del fisco, tutte con scelte che devono essere radicali e guardare al futuro, per non aumentare il debito.

Cosa ha portato secondo lei alla rottura tra Renzi e Calenda?

Stiamo parlando di personaggi egocentrici, che hanno una mania di protagonismo e che non sono in grado di fare i capi di partiti o di guidare movimenti. Hanno la loro immagine allo specchio dalla mattina alla sera. Sono la negazione del leader politico, che dovrebbe accentrare e aggregare e non dividere, come invece fanno entrambi.

Ha parlato di una coalizione che unisca le opposizioni al centrodestra, ma come possono andare d’accordo Renzi, Calenda, Conte e Schlein?

Non lo so, ma quel che è certo è che il centrodestra una coalizione ha saputo farla, gli altri no. E così la destra vince e la sinistra perde. È matematica.

Messa così sembrerebbe che Meloni possa governare all’infinito…

Beh ma non ci sono mica soltanto le faccenduole italiane. Ci sono questioni internazionali da affrontare, ci sono le guerre, se dipendesse solo dalle beghe interne Meloni governerebbe 500 anni ma i governi cadono e le coalizioni si disfano per tanti motivi.

Finirà che i voti moderati se li prenderà Schlein?

Si può benissimo formare un partito riformista senza Calenda e Renzi, ma bisogna vedere cosa ha in testa la Schlein. Per il momento rappresenta un’immagine, cioè quella di una donna giovane che ha provocato un rimbalzo nelle intenzioni di voto al Pd rispetto alla debacle dem. Ma bisognerà vedere come funzionerà il gruppo dirigente intorno a lei e quali opposizione si determinano nel Pd rispetto alla segreteria.

Uno dei motivi della rottura tra Renzi e Calenda è la direzione del Riformista assunta dal primo: che effetto le ha fatto?

Un fatto molto strano ma anche divertente. Il mio amico Emanuele Macaluso si rivolterà nella tomba. Ma è anche il segno che evidentemente il rapporto con Calenda non funzionava, ora vediamo se Renzi sarà bravo come giornalista.

Addio partito unico "è un errore di Calenda, un autogol, ma è una scelta unilaterale". Renzi, la rottura con Calenda e le 10 fake news: “Voleva il Riformista giornale del Terzo Polo con abbonamento ai tesserati”. Redazione su il Riformista il 14 Aprile 2023

Il Riformista è “una voce libera” ed è chiaro “che non è il giornale del Terzo Polo come mi aveva detto di fare Calenda“. Queste le parole di Matteo Renzi, leader di Italia Viva e dal prossimo 3 maggio direttore editoriale del Riformista. A radio Leopolda, l’ex premier spiega la rottura con Azione e l’addio al partito unico del Terzo Polo. “L’amarezza dei militanti è anche la mia perché non c’è niente di politico nella divisione che è maturata” sottolinea Renzi. “Io però non intendo alimentare la polemica, ho fatto solo un tweet ieri facendo un appello a non rompere, ad andare avanti tutti insieme, ho dimostrato credo in questi mesi di dare la massima disponibilità e di più non potevo fare. Non c’è una motivazione politica per questa rottura” aggiunge.

Renzi poi va nel dettaglio della rottura, etichettata come una scelta unilaterale di Calenda: “Carlo ha deciso nella sua libertà e autonomia di convocare una riunione, sfissarla, farci sapere via stampa che il partito unico era morto. Direi che è inutile adesso rinfacciarsi le responsabilità o rimpallarsi la colpa, parliamo di futuro”, prima di ribadire che è sfumata “una grande occasione, non ci sarà il partito unico, Calenda ha scelto di non farlo, è un errore, un autogol, ma è una scelta unilaterale”.

Tornando al Riformista, Renzi assicura che “ci divertiremo un sacco”, sottolineando che “chi ha paura delle idee non sono quelli che amano la politica, sono solo populisti e sovranisti. Chi ha voglia di approfondire, dialogare, anche discutere non può aver paura del Riformista o della Leopolda”. Il suo Riformista uscirà “dal 3 maggio e vi posso garantire che sarà una voce libera in più”. Ribadisce che non sarà il giornale del Terzo Polo “come mi aveva detto di fare Calenda. Io gli ho risposto di no perché questa era un’idea di Carlo, che voleva dare a tutti i tesserati l’abbonamento del Riformista. No, il Riformista è uno spazio di libertà”.

E’ un problema che un parlamentare fa il direttore? È sempre stato così – ricorda l’ex premier – lo ha fatto Sergio Mattarella ben più autorevolmente di me con il Popolo, lo ha fatto Massimo D’Alema e qui il ben più autorevolmente non ce lo metto, lo ha fatto Walter Veltroni, lo ha fatto Bettino Craxi. È una tradizione italiana quella di avere leader politici che alimentano il dibattito su un giornale, fin dai tempi di Ricasoli. Anche Spadolini è stato direttore di un giornale”.

Sul governo Meloni rivendica: “Come è possibile che nessuno faccia notare alla Meloni che quando deve fare le nomine mette tutti quelli che avevamo scelto noi, dopo che per anni ci ha accusato di essere schiavi delle lobby? Se oggi noi fossimo in una situazione serena dovremmo dire che il tempo è galantuomo, all’Eni, alle Poste, persino a Leonardo dove è stato chiamato quel Cingolani che aveva fatto il progetto del post Expo quando eravamo al governo. Alla fine noi alla Meloni non chiediamo i diritti d’autore, però il tempo restituisce con gli interessi tutto quello che nel breve periodo sembra che possiamo perdere”.

 LE 10 FAKE NEWS SULLA ROTTURA DEL TERZO POLO – “Non c’è una sola scelta politica che abbia diviso il Terzo polo, ma solo una scelta personale di Carlo Calenda”. È quanto si legge in un documento di Italia Viva – Renew Europe. Tra le altre ‘fake news’ a cui il documento risponde, quella sui ‘problemi personali’ di Renzi con Calenda. Nessun problema personale, assicurano da Italia Viva, sottolineando che “Renzi ha permesso a Calenda di diventare ministro, ambasciatore, leader del terzo polo e lo ha sostenuto sia alle Europee che al Comune di Roma, contribuendo a finanziarne le campagne elettorali. È evidente che Renzi non ha nessun problema personale o caratteriale con Calenda”.

Nel testo si sottolinea che non è stata la Leopolda il pomo della discordia perché “Renzi l’ha sempre organizzata, quando era sindaco, quando era premier, quando era nel Pd, quando era in Iv, perché la Leopolda è uno spazio di libertà” che anche per Calenda era “straordinariamente bella”. Si rimarca che era già stata fissata la data del 29 ottobre per lo scioglimento di Iv, che Italia Viva avrebbe contribuito al 50% di tutte le spese (quindi nessun problema sui soldi), e che il problema non era neanche la direzione del Riformista: “Calenda era entusiasta della scelta di Renzi”, e lo ha manifestato “sia su Twitter che nelle trasmissioni televisive”.

Sono fake news che Renzi “non voleva la norma sul conflitto di interessi”, è “falso” che Renzi “ha votato per La Russa in cambio di una vicepresidenza e della vigilanza”, che non fa il “lobbista” e che la “rottura si è consumata per ragioni politiche”.

Ecco le 10 fake news di Calenda sulla rottura. Il leader di Azione: "Renzi? Sembra quello che ti vende la fontana di Trevi...". Italia Viva risponde svelando le sue dieci fake news sulla rottura. Annarita Digiorgio il 14 aprile 2023 su Il Giornale.

Dopo la rottura tra Matteo Renzi e Carlo Calenda sulla costruzione del partito unico, non si placano le polemiche e le accuse tra i due Azione e Italia Viva.

Se Calenda continua a rilasciare interviste in cui accusa Renzi di averlo voluto "fregare" dall’inizio, e allo stesso tempo di conflitto d’interessi sia per la direzione del Riformista che per le conferenze all’estero, Italia Viva risponde ora con dieci slide modello “governo Renzi” con le fake news sulla rottura del terzo polo. Che però, ricordiamo, resta come gruppo parlamentare per non rinunciare ai privilegi di Camera e Senato.

È vero che Renzi non voleva sciogliere Italia Viva? Falso: si sarebbe sciolta il 29 ottobre 2023, con l’elezione democratica del segretario del partito unico.

È vero che Renzi non voleva Sciogliere Italia Viva? Falso: Italia Viva avrebbe pagato il 50% di tutte le spese (come fatto finora compro le pubblicità personali di Calenda.

È vero che Renzi non voleva la norma sul conflitto d'interesse? Falso: addirittura nel documento proposto da Renzi la norma si applicava non solo ai dirigenti nazionali ma anche a quelli locali.

È vero che il problema è stato la scelta di Renzi di dirigere il Riformista? Falso: Calenda era entusiasta della scelta di Renzi. E qui nelle slide si allega un tweet di Calenda: "Complimenti a Matteo Renzi per il nuovo prestigioso incarico. Il Riformista con Matteo avrà una voce ancora più forte".

È vero che Renzi ha votato per la russa in cambio di una Vicepresidenza o della Vigilanza Rai? Falso: lo dice la matematica e per quello che vale lo dice anche Calenda. E infatti vicepresidenze e vigilanza sono andate a Partito democratico e Cinque Stelle. L’unica presidenza di commissione del Terzo Polo è andata a Enrico Costa (Azione), alla Camera.

È vero che Renzi fa il lobbista? Falso: Renzi siede in diversi consigli d’amministrazione come permesso dalla legge italiana, ma non svolge alcuna attività di Lobbying.

È vero che la rottura si è consumata per ragioni politiche? Falso: non c’è una sola scelta politica che abbia diviso il Terzo Polo ma solo una scelta personale di Calenda.

È vero che Renzi ha problemi personali con Calenda? Falso: Renzi ha permesso a Calenda di diventare ministro, ambasciatore, leader del Terzo Polo e lo ha sostenuto sia alle Europee che al comune di Roma, contribuendo a finanziarne le campagne elettorali. È evidente che Renzi non ha nessun problema caratteriale o personale con Calenda.

È vero che la Leopolda ha causato la rottura? Falso: Renzi ha sempre organizzato la Leopolda, quando era sindaco, quando era premier, quando era nel Partito Democratico, quando era in IV perché la Leopolda è uno spazio di libertà. Calenda stesso intervenendo alla Leopolda diceva che la Leopolda è straordinariamente bella.

È vero che Renzi voleva candidarsi al congresso? Falso: Renzi ha insistito per un congresso democratico, dal basso. Alcuni dirigenti di Italia Viva avevano già annunciato il sostegno a Calenda, altri volevano candidarsi in prima persona. Ma Renzi ha sempre detto che avrebbe dato una mano senza candidarsi in prima persona.

Estratto dell’articolo di Alice Allasia per “Libero quotidiano” il 3 aprile 2023.

[…] Mentre si avvia verso il secolo di vita, Kissinger delinea con sorprendente lucidità e vividezza un insieme affascinante di eventi storici e biografie politiche che si riflettono in un caleidoscopio di immagini, ritratti privati, guerre e accordi epocali che hanno costituito il cuore pulsante del Novecento.

 In Leadership. Sei lezioni di strategia globale (Mondadori, pp.600, euro 26,60) declina le principali dinamiche che nel corso della sua lunghissima esistenza sono passate sotto la sua lente di ingrandimento, sia in qualità degli incarichi istituzionali ricoperti negli anni che in veste di acuto ed instancabile osservatore dello scacchiere internazionale.

[…] Concentrando la propria analisi sulla parabola di sei dei più influenti statisti del secolo scorso, Kissinger sottolinea come ciascuno di loro abbia incarnato un modello di leadership strategica che «può forse somigliare al funambolo che cammina sulla corda: come l’acrobata rischia di cadere se è troppo timido o troppo audace, così il leader è costretto a procedere all’interno di uno stretto corridoio che lo vede sospeso tra le relative certezze del passato e le ambiguità del futuro».

 Tutti i sei personaggi presi in esame in questo volume, per quanto profondamente diversi gli uni dagli altri, furono accomunati da una singolare lungimiranza. Grazie alla loro inconsueta tenacia essi diventarono i capitani coraggiosi che condussero i rispettivi popoli alle frontiere del possibile.

 Konrad Adenauer fu il cancelliere della Repubblica federale tedesca dal 1949 al 1963, nonché il primo successore legittimo di Adolf Hitler. Mettendosi al timone di una Germania pesantemente sconfitta sul piano politico e militare e distrutta nell’anima, seppe gradualmente far risorgere il suo popolo dalle ceneri del secondo conflitto mondiale.

Abbracciando un approccio improntato a una sincera umiltà, riuscì a trasmettere alla propria gente l’importanza di accettare con pazienza le conseguenze della disfatta bellica e di costruire un passo alla volta le fondamenta di una nuova società democratica.

 […] Charles De Gaulle fu invece l’esempio vivente del fatto che spesso i leader che invertono la rotta della storia entrano in scena in modo non convenzionale. Nel 1940, mentre una Francia agonizzante era ormai stretta nella morsa dell’occupazione nazista, da semplice e sconosciuto brigadiere generale qual era all’epoca, fuggì a Londra e fondò Francia Libera, un movimento di resistenza tramite cui «uscì dall’oscurità e si catapultò nelle file dei capi di Stato mondiali».

 […] Sull’altra sponda dell’Atlantico, l’avvento di Richard Nixon al potere si collocò in una congiuntura storica e politica alquanto complicata. Quando nel 1969 entrò nello Studio Ovale per la prima volta in veste di Presidente degli Stati Uniti, trovò ad attenderlo dossier particolarmente scottanti: l’incancrenirsi del conflitto in Vietnam, l’aggravarsi degli scontri in Medio Oriente e l’acutizzarsi della Guerra Fredda erano ai vertici della sua agenda.

 Nonostante fosse un anticomunista convinto, «non giudicava le divergenze ideologiche con i Paesi comunisti delle barriere all’impegno diplomatico». Al contrario, riteneva la diplomazia lo strumento imprescindibile tramite cui preservare il prezioso, benché fragilissimo, equilibrio globale.

 Fu così che nel 1972 aprì alla Cina di Mao Zedong, in modo da rendere tripolare un sistema mondiale altrimenti bipolare, mitigando in tal modo le crescenti minacce sovietiche. Analogamente nel 1973, quando infuriò la guerra arabo-israeliana del Kippur, riuscì ad abbozzare un’apertura strategica e mise gli Stati Uniti nella posizione di negoziare la futura pace tra Egitto ed Israele, che sarebbe stata raggiunta nel 1979.

Inoltre, sempre nel 1973 firmò gli accordi di Parigi, preludio indispensabile alla fine della guerra in Vietnam. L’anno successivo, tuttavia, Nixon fu travolto in patria dall’onda dello scandalo Watergate, che lo costrinse (caso unico per un Presidente USA) alle dimissioni.

[…]  Anwar Sadat rappresentò una novità, schiudendo nuove opportunità per l’Egitto di cui fu Presidente dal 1970 al 1981. Nel 1973, con la guerra del Kippur, vendicò il suo Paese precedentemente sconfitto da Israele nella guerra dei Sei Giorni del 1967. Ciononostante, subito dopo virò con decisione verso lo stile diplomatico occidentale, in clamorosa rottura con i suoi predecessori e con i suoi omologhi regionali contemporanei.

Si avvicinò agli Stati Uniti e, soprattutto, tracciò il sentiero che nel 1979 lo avrebbe portato a firmare lo storico accordo di pace con Israele, tuttora in vigore. Tale evento costituì un traguardo epocale, facendo dell’Egitto il primo Paese a raggiungere una tregua duratura con lo stato ebraico, seguito nel 1994 solo dalla Giordania. Tali coraggiose mosse politiche costarono però molto care a Sadat, che fu assassinato nel 1981.

 Dopo secoli di colonialismo europeo e di dominazioni straniere nel 1965 Singapore divenne indipendente e Lee Kuan Yew ne divenne primo ministro. La sua arte di governare testimoniò uno degli esempi più stupefacenti di come sia possibile creare sviluppo e progresso a partire da situazioni sfavorevoli.

 […] Quando nel 1979 Margaret Thatcher divenne Primo ministro del Regno Unito, le fortune del Paese erano ai minimi storici. […] Con un carisma e un piglio che le valsero il soprannome di “Lady di ferro”, seppe resistere a un turbolento sciopero dei minatori che andò avanti per un anno, assicurò la vittoria britannica nel conflitto con l’Argentina per le isole Falkland e non si piegò mai ai violenti ricatti dell’Ira, il gruppo terroristico che lasciò dietro di sé una scia di morte e distruzione durante la guerra civile in Irlanda del Nord.  […] Thatcher risollevò la nazione all’interno e le restituì un ruolo di primo piano nelle dinamiche internazionali. La sua esperienza governativa dimostrò che la determinazione non rende gli obiettivi facili, bensì possibili.

Ciascuno dei sei leader descritti da Kissinger contribuì in maniera fondamentale ad imprimere una direzione ben precisa al Paese che si trovò a servire, facendone una vera e propria missione di vita.

 Essi furono accomunati dalla schiettezza, da un acuto senso della realtà e dall’audacia di portare in superficie verità scomode. Erano altresì molto divisivi, sia in patria sia all’estero ma, del resto, «un leader non può introdurre riforme economiche radicali come Thatcher, né cercare la pace con avversari storici come Sadat, né creare da zero una riuscita società multietnica come Lee, senza urtare interessi cristallizzati e alienarsi le simpatie di importanti gruppi».

 Di fronte a queste lezioni di leadership strategica, ci si chiede se oggi possano emergere personaggi simili. In un’epoca votata alla spasmodica ricerca del consenso, pare difficile trovare qualcuno dotato del coraggio e del carattere necessari a compiere scelte vincenti anche a costo di apparire impopolari. Inoltre nell’era di Internet, che fa dell’immediatezza della fruizione e della polarità esasperata del confronto le sue cifre stilistiche, risulta alquanto complicato sviluppare visioni strategiche e di ampio respiro.

Troppo spesso, infatti, figure carismatiche si rivelano evanescenti chimere. In un mondo complesso e conflittuale è sempre più urgente la necessità di trovare leader in grado di traghettare un presente traballante verso lidi più sicuri. Solo attraverso una profonda comprensione delle traiettorie storiche e geopolitiche tale obiettivo potrà forse essere raggiunto.

I dittatori cadono quando perdono le guerre. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2023.

Caro Aldo, lei scrive che le dittature cadono quando perdono una guerra. A quali casi pensava? Ne è così sicuro? Non c’è altro modo di abbattere una dittatura? Forse allora i dittatori non sono così impopolari come dicono. Franco Nunziati, Milano

Caro Franco, E’ sempre molto difficile misurare la popolarità di un dittatore, e in genere il consenso a un regime, quando il dissenso non è tollerato, anzi è punito. Non è un’opinione, è storia che quasi sempre le dittature crollano quando perdono una guerra. Il punto è che le dittature, per reggere, hanno spesso bisogno di minacciare e talora di fare una guerra. Qualcuno sostiene che Mussolini sarebbe morto nel suo letto, se non fosse intervenuto nella seconda guerra mondiale. È probabile: basti pensare al caso di Franco, morto appunto nel suo letto il 20 novembre 1975, tenuto in vita sino all’estremo dal «bunker», il giro affarista dei familiari e degli accoliti («que duro es esto» mormorava il Caudillo in agonia con la sua celebre vocina, che in vita contrastava con la sua ferocia). Ma Mussolini avrebbe potuto non fare la guerra, dopo averne parlato per vent’anni? Ovviamente anche il nazismo cade con una guerra perduta. Ma pure il comunismo sovietico, che crolla quando con Gorbaciov è ormai chiaro che l’Urss aveva perso la guerra fredda. La dittatura dei colonnelli greci cade dopo la vittoria turca nella guerra di Cipro, la giunta militare argentina dopo la vittoria britannica alle Falklands/ Malvinas, le isole citate — in ricordo delle vittime—- nella canzone «Muchachos» che è stata l’inno dell’Argentina campione nel mondo in Qatar, e che ai cinefili evocano il film «The iron lady» in cui Margaret Thatcher è magistralmente interpretata da Meryl Streep: «L’incrociatore Belgrano è a tiro, che facciamo?»; «Sink it», affondatelo. Anche la dittatura portoghese cade nel 1974 con la rivoluzione dei garofani, uno dei rari «golpe di sinistra» della storia: i militari come Otelo de Carvalho, mandati a combattere il marxismo nelle colonie africane, divennero marxisti e rovesciarono Caetano, il successore di Salazar (anche se alla lunga prevalse la componente moderata, grazie anche al premier laburista James Callaghan che offrì a Mário Soares la Royal Air Force per tenere a bada i comunisti). Altre dittature si sono estinte. Si pensi a Pinochet, che perse il referendum cileno del 1988, raccontato in uno splendido film politico, «No. I giorni dell’arcobaleno»; a conferma del fatto che i governi, che siano dittatoriali o democratici, di destra o di sinistra, i referendum li perdono quasi sempre, come accadde pure al generale de Gaulle. Per venire all’oggi, sarà molto difficile che l’eroismo dei giovani iraniani faccia cadere il regime; e che la guerra in Ucraina faccia cadere Putin, perché se è possibile fermare l’esercito russo è quasi impossibile debellarlo sul campo.

Motore immobile. Quando ho capito che la politica ci riguarda tutti da vicino (anche se non sembra). Chiara Albanese su L’Inkiesta il 23 Marzo 2023

Complessa, noiosa, ripetitiva, litigiosa e faziosa: la cosa pubblica appare spesso distante anni luce dalle nostre preoccupazioni quotidiane, ma è uno strumento essenziale per far valere i nostri diritti di cittadini. Lo racconta Chiara Albanese, corrispondente di Bloomberg, nel suo libro “That’s Politica!” (Vallardi)

Sono cresciuta pensando che la politica fosse una cosa distante e anche un po’ noiosa: un gruppetto di persone, soprattutto uomini, che parla tanto ma che fa poco, e con poche conseguenze per la mia vita quotidiana. È per questo motivo che non ho mai simpatizzato per un partito, che – confesso – non ho sempre esercitato con costanza il diritto di voto e che ho studiato economia puntando sul giornalismo finanziario e non sulle cronache parlamentari.

Poi, un po’ per caso, mi sono trovata a scrivere di politica e il mio mondo si è spalancato: non solo la politica è alla base di quasi tutto – quante tasse paghiamo, il nome che portiamo sui documenti, quanto costa un filone di pane –, ma imparare le regole ufficiali e quelle informali di dove la politica si esercita (i palazzi del governo, il Parlamento, i bar del centro, i ministeri e le banche centrali…) aiuta a prevedere un po’ il futuro.

I meccanismi in politica si ripetono, come le stagioni, e conoscerli permette di capire se un governo sta per entrare in crisi, su quali leggi e su quali riforme punterà, e che tipo di alleanze faranno i partiti (spoiler: non c’entra la simpatia personale, ma la legge elettorale in vigore).

Scrivo per Bloomberg, una delle maggiori agenzie stampa al mondo, e il mio compito è raccontare la politica italiana agli stranieri traducendo queste dinamiche in conseguenze tangibili sulle loro scelte di investimento.

[…]

Il mio lavoro è quello di raccontare e spiegare le scelte della politica (anche evidenziando qualche paradosso e controsenso), ma sempre da un osservatorio neutrale e privo di giudizi; questa è la lente che ha questo libro, anche nei passaggi che riguardano la mia famiglia.

Ma partiamo dall’inizio: che cos’è la politica? Tutti noi intuitivamente sappiamo cosa vuol dire, ma trovare una definizione unica è quasi impossibile. È un termine che fa parte del vocabolario di base e lo usiamo sia per indicare il governo in carica e i partiti politici che lo compongono, sia per dare un’etichetta alle nostre idee e alla nostra identità.

Anche se a volte la diamo per scontato, «politica» è una parola potente in quanto è sia scienza, quella di governare, sia emozioni, in quanto le leggi approvate dal Parlamento, le decisioni di un governo, e le sentenze dei tribunali hanno un impatto diretto sulla nostra vita. La parola «politica» deriva da quella greca pólis, città-stato, e il percorso dallo Stato – ovvero l’organizzazione politica e giuridica che regola la convivenza di una popolazione in un territorio delimitato da confini – ai cittadini avviene attraverso il governo e le leggi in vigore, che determinano i diritti e i doveri di ognuno di noi. In italiano la stessa parola, «politica», identifica entrambi i concetti, ma basta tradurla in inglese per sdoppiare il significato in due termini ormai entrati nel nostro vocabolario: politics, la politica che indica il consenso popolare, e la policy, la politica pubblica, quella delle decisioni pratiche che risolvono questioni concrete.

Se questa è la definizione teorica, c’è un momento esatto in cui ognuno di noi entra in contatto con la politica per la prima volta. Non è il momento in cui nasciamo, ma quello in cui veniamo registrati con un atto di nascita, e iniziamo a esistere per lo Stato con un nome, un cognome e un codice fiscale. Ogni giorno in Italia si firmano circa mille atti di nascita, e nulla nel processo con cui si redige questo documento è lasciato al caso. Non lo è la dimensione delle pagine del registro in cui l’atto viene conservato – 32 per 44 centimetri come stabilito da un decreto ministeriale del 1958 – e non lo è la procedura, che non è quasi cambiata da quella indicata in un decreto regio del 1939, quando l’Italia è un regno, e a capo del governo c’è Benito Mussolini. Siamo al mondo da poche ore, e la politica ha già una regola che cambia le nostre vite: come registrare la nostra nascita. Quando nasce un bambino, i genitori hanno a disposizione dieci giorni per dichiarare l’evento negli uffici del comune di residenza, dove firmano l’atto insieme all’ufficiale di stato civile, che può essere il sindaco o una persona da lui delegata. Si tratta dello stesso ufficiale che celebra matrimoni e unioni civili, e che firma gli atti di morte. A quel punto, trasmette una copia dell’atto originale che viene depositata nella prefettura che ha competenza nella zona.

Nel 1997 la procedura è stata modificata così che adesso è possibile dichiarare la nascita direttamente nell’ufficio amministrativo dell’ospedale; sì, proprio quella stanzetta difficile da trovare, nascosta in fondo a mille corridoi tutti uguali, tra un ambulatorio e un centro analisi. Questa è ormai la procedura più comune, ma esistono molte eccezioni che riflettono come le regole in vigore in un Paese si plasmino sull’unicità di un cittadino. Le formule utilizzate in un atto di nascita sono standard, ma modulabili in base della famiglia. Se i genitori del neonato sono sposati si usa la formula «nato dalla donna coniugata con», e questo è l’unico caso in cui un atto di nascita può essere firmato solo da un genitore, per esempio il padre, in quanto l’altro genitore è «presunto». In altre parole, se due persone sono sposate si dà per scontato che entrambi siano i genitori. Invece, se un uomo e una donna non sono sposati, devono firmare entrambi e di persona l’atto, che in questo caso usa l’espressione «unione naturale».

È solo dal 2012 che i figli nati da un uomo e una donna non coniugati hanno gli stessi diritti legali dei figli legittimi, quindi nati all’interno del matrimonio, e questo è stato reso possibile con una modifica del Codice civile che ha anche riconosciuto i vincoli parentali derivati, quindi con i nonni e gli zii. In altre parole, fino al 2012 i figli nati da genitori sposati avevano maggiori tutele legali rispetto ai figli nati da un uomo e una donna non sposati.

Se per me ci sono voluti diversi anni per capire quanto la politica cambi la nostra esistenza, a mio figlio sono bastate sei ore di vita. La legge che regola la registrazione dell’atto di nascita di un nuovo nato, infatti, non prevede un caso, ossia quello in cui i genitori siano dello stesso sesso: due mamme o due papà. Non esiste una legge nazionale che contempli la possibilità che due persone dello stesso sesso figurino come genitori, ma non ne esiste neanche una che lo vieti, e in questo caso la decisione spetta all’ufficiale di stato civile, quindi al sindaco. È questo il caso della mia famiglia ed è il motivo per cui, per poter firmare l’atto con cui nostro figlio inizia a esistere per la politica, quando lui ha sei ore di vita io e mia moglie schizziamo a 130 chilometri orari sul grande raccordo per correre negli uffici del comune di Fiumicino, dove risiedo. Il sindaco Esterino Montino è uno dei pochi in Italia a firmare atti di nascita che indicano come genitori due donne. Firmare un atto di nascita con due mamme è un gesto politico, una dichiarazione di intenti che può segnare l’inizio di lunghe battaglie, anche se noi in quel momento ancora non lo sappiamo.

Il 3 gennaio, il giorno della sua nascita, mio figlio viene riconosciuto dalla politica con due mamme come genitori, con i loro due cognomi e con la formula «progetto familiare». La politica italiana è concreta, pratica. È codice fiscale, è fascia di reddito sulla quale sono calcolate le tasse, è sussidio in caso di disoccupazione e maternità, è diritti civili. Circa un anno dopo quella corsa in auto dall’ospedale, la politica vissuta dalla mia famiglia e quella italiana che racconto su Bloomberg come giornalista cambiano contemporaneamente e all’improvviso. Ripercorrere quello che succede nei mesi successivi è un’ottima occasione per scoprire le regole che fanno girare la politica.

Da “That’s Politica!” (Vallardi), di Chiara Albanese, p. 256, 15,90€

La piazza e il regime nel nuovo numero di Scenari. Il Domani il 16 dicembre 2022

Da venerdì 16 dicembre in edicola e in digitale un nuovo numero di SCENARI, venti pagine di approfondimenti firmati da Mattia Ferraresi, Youssef Hassan Holgado, Alice Dominese e tanti altri ricercatori e analisti, oltre alle mappe a cura di Fase2studio Appears. Abbonati per leggerlo online e sulla app di Domani, o compra una copia in edicola. Iscriviti alla newsletter per restare aggiornato su tutte le prossime uscite

La rabbia contro i governi autoritari spinge milioni di persone nelle strade per chiedere democrazia e diritti. Ma le proteste senza leader possono davvero scalfire il potere degli autocrati? Di piazza e regime si parla nel nuovo numero di Scenari, l’inserto settimanale geopolitico di Domani, con gli approfondimenti inediti di Mattia Ferraresi, Youssef Hassan Holgado, Alice Dominese e tanti altri, e le mappe a cura di Daniele Dapiaggi di Fase2studio Appears. Abbonati per leggerlo online e sulla app di Domani, o compra una copia in edicola. Iscriviti alla newsletter per restare aggiornato su tutte le prossime uscite.

Secondo Mattia Ferraresi, se da un lato le proteste degli ultimi vent’anni sono cresciute a dismisura, dall’altro hanno perso progressivamente la capacità di influenzare le decisioni nelle democrazie, e tanto più quella di rovesciare i regimi autoritari: è l’effetto paradossale di una piazza globale che ha fin troppi mezzi per far sentire la propria voce – a partire dall’accresciuta capacità di mobilitazione attraverso i social e altri strumenti digitali – ma che proprio per questo si illude che non ci sia bisogno di una fase “politica”.

Luca Sebastiani fa una panoramica sulle grandi manifestazioni di piazza che si sono susseguite dal Novecento a oggi in tutto il mondo, radunando migliaia e a volte milioni di persone: dalle marce di Gandhi al discorso di Martin Luther King, dal Bloody Sunday nordirlandese alle primavere arabe, fino alle odierne in Cina e in Iran. Il fenomeno delle rivolte si è trasformato nel tempo arrivando fino a noi, ma, sostiene Sebastiani, pur avendo cambiato forma la sostanza spesso non cambia, così come le difficoltà nel raggiungere i risultati sperati. 

Il vicedirettore di Foreign Policy James Palmer si concentra poi sulla Cina dove, nelle ultime settimane, le restrizioni anti Covid sono state il catalizzatore della più grande ondata di proteste nel paese dal 1989. La miccia che ha scatenato le mobilitazioni riguarda un incendio scoppiato in un appartamento di Urumqi, nello stato dello Xinjiang a maggioranza uigura, nel quale hanno perso la vita almeno una decina di persone. Le misure di controllo legate al Covid-19 hanno reso difficoltosa l’uscita dei condomini e ritardato i soccorsi, ma gli studenti sono scesi in piazza anche contro lo strapotere di Xi. La speranza dei manifestanti è che l’incapacità di gestire la crisi alimenti l’opposizione al presidente.

Fausto Della Porta ha intervistato Zhou Fengsuo, leader del movimento di piazza Tiananmen del 1989, che oggi vive negli Stati Uniti. Secondo Fengsuo nelle piazze cinesi è in atto «una rivoluzione che sta cambiando il modo di pensare delle persone». Internet è una formidabile palestra di dissenso contro il regime e «ora tutto può succedere».

L’analista Vincenzo Poti assume invece una linea meno radicale, evidenziando come le recenti proteste infiammate dai network studenteschi non hanno riguardato la natura dello stato cinese né le fondamenta del contratto sociale, bensì l’attuale gestione da parte della leadership in carica di un momento di crisi socioeconomica, e quindi questioni contingenti. Il regime da parte sua ha risposto con tattiche già note, ristabilendo il suo schiacciante potere. Per il popolo cinese, quindi, il “mandato dal cielo” di Xi Jinping non è ancora giunto alla fine.

Youssef Hossan Halgado sposta poi lo sguardo sull’Iran – un altro paese infiammato negli ultimi mesi da violente proteste dopo la morte il 16 settembre scorso di Mahsa Amini –, intervistando Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, scrittore dissidente iraniano naturalizzato olandese, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Kader Abdolah. Per Abdolah in Iran «sta accadendo qualcosa di bellissimo e tragico allo stesso tempo, ma il fatto che gli ayatollah non abbiano un interlocutore è il tallone d’Achille di queste proteste».

Legandosi al tema della dissidenza, Alice Dominese fa luce sugli attivisti, giornalisti, oppositori politici e disertori che cercano di lasciare la Russia per sfuggire alla repressione dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Il flusso si concentra tra Europa e Asia centrale, ma l’assenza di una politica europea comune di accoglienza, le restrizioni in vigore e le difficoltà economiche rendono complicata la vita degli esuli. Ma, spiega Dominese, organizzazioni non governative e comunità nate su iniziativa degli oppositori di Putin che sono riusciti a stabilirsi all’estero sono diventate tra i principali luoghi di rifugio per i dissidenti.

Romane Dideberg ci porta poi in Africa, soffermandosi sul perché né la Francia, né l’Onu, né la Comunità dell'Africa orientale (Eac) riusciranno a sanare le ferite del Congo: la guerra in corso tra la Repubblica democratica e il Ruanda si è infatti intensificata nella regione del Kivu, nel nordest del paese, ma qualsiasi strategia che non inizi a contemplare le dimensioni geopolitiche del conflitto è destinata ancora una volta al fallimento. Il caos economico e di integrazione delle province rimane per ora ancora fuori dalle strategie dei già citati attori internazionali.

Viene infine presentato un estratto dal nuovo libro di Richard Overy, Sangue e rovine. La Grande guerra imperiale.1931-1945, appena pubblicato per Einaudi. La visione convenzionale della guerra considera Hitler, Mussolini e l’esercito giapponese le cause della crisi piuttosto che i suoi effetti ma, per Overy, «non si può dare un senso ragionato alle origini, all’andamento e alle conseguenze della guerra se non si comprendono le più ampie forze storiche che hanno generato le instabilità che hanno infine spinto gli stati dell’Asse a programmi reazionari di conquiste, poi falliti».

L'enigma Robespierre. Come prendere il potere e perdere la testa. L'analisi della caduta dell'"Incorruttibile" svela che non voleva diventare un dittatore. Stenio Solinas il 13 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il nove termidoro dell'anno II del calendario rivoluzionario, ovvero il 27 luglio 1794, è noto agli storici come il giorno in cui Robespierre perse d'improvviso il suo potere e, nel giro di ventiquattr'ore, anche la testa. Gliela tagliò la lama della ghigliottina azionata dal boia Sanson, lo stesso che prima di lui aveva decapitato Luigi XVI e prima del re gli avversari della monarchia finché la monarchia era durata... Nata per alleviare le sofferenze degli squartamenti, la ghigliottina, è il caso di dire, non guardò mai in faccia a nessuno, ma rispetto al suo utilizzo al tempo dell'Ancien Régime aristocratico, la democrazia nata con la Rivoluzione francese ne fece un uso ancor più egalitario: ricchi e poveri, nobili e borghesi, colpevoli e innocenti. I «nemici del popolo» nel cui nome venivano messi a morte, erano di fatto più numerosi di quelli semplicemente contrari a un'istituzione, regno o repubblica che fosse, e fra di essi c'era appunto il popolo in quanto tale.

Robespierre si era sempre considerato «l'amico del popolo», ma rispetto a Jean-Paul Marat, che di quell'amicizia si era fatto l'aedo nonché il direttore del giornale da lui fondato con quel titolo, aveva spinto la sua ambizione fino all'idea di esserne l'incarnazione, se non lo spirito. Era ovviamente un'astrazione, perché del popolo Robespierre ignorava tutto: non lo frequentava, non ne conosceva né i vizi né le passioni. La stessa Parigi, del resto, gli era ignota, eccezion fatta per le poche centinaia di metri che dalla sua abitazione in rue Saint-Honoré lo portavano alla sala della Convenzione o al Club dei Giacobini. Viveva nel culto del popolo e ne era l'officiante: non sapeva nulla però dei fedeli che ne facevano parte e lo rendevano possibile.

L'ascesa, il trionfo e la caduta di Robespierre restano uno dei tanti enigmi della Rivoluzione francese. C'era gente più fanatica di lui e anche più ambiziosa e ridurre il suo nome e la sua azione al Terrore, come a lungo venne fatto, storicamente ormai non ha più senso. Gli va anche dato atto che quell'altro soprannome, L'Incorruttibile, di cui in vita si fece vanto, aveva una sua ragion d'essere, anche se in politica i «puri di cuore» sono spesso più un danno che una risorsa.

A cercare se non di risolvere l'enigma, almeno di renderlo il più comprensibile possibile, ci pensa ora un poderoso saggio di uno storico inglese, Colin Jones, con una radicale cambio di prospettiva. Il suo La caduta di Robespierre (Neri Pozza, pagg. 678, euro 38; trad. Alessandra Manzi) ha infatti come sottotitolo «Ventiquattr'ore nella Parigi della Rivoluzione» ed è una sorta di tuffo nel passato andando a verificare, ora per ora, che cosa quel giorno accadde, ma non tanto o non solo nelle cosiddette stanze o aule del potere, quelle del Comitato di Salute Pubblica o della Convenzione, dei tribunali o delle stazioni di polizia ma anche nel cuore e nelle menti di chi in quell'arco di tempo fu a volte protagonista, altre testimone, se non semplice figurante, sempre più teso a rincorrere gli avvenimenti che a governarli, visto che fra causa e effetto non c'era un'unica conseguente logica, ma una serie pressoché infinita di opzioni.

Colin Jones rovescia insomma l'ottica classica con cui la storia si costruisce ex post, ovvero sapendo come il racconto andrà a finire e trovando quindi una coerenza a ciò che coerente non era. Naturalmente, nella ricostruzione operata da Jones, molte pezze d'appoggio, memoriali, commissioni d'inchiesta, testimonianze, dichiarazioni, sono anch'esse il frutto del dopo, quando cioè la tendenza comune è quella di voler apparire non solo come se si fosse capito tutto, ma ci si fosse anche comportati nel modo più nobile, più coraggioso, più adamantino. Ma incrociando fra loro quei documenti e ripescando altresì tutti i dettagli puntualmente registrati sul momento, ordini, contrordini, segnalazioni e proclami, rapporti e resoconti di giornata il quadro che ne vien fuori è quello di una narrazione, osserva ancora Jones, «che sembra più grande della vita reale. Il nove termidoro fu un giorno in cui i fatti si dimostrarono se non più strani della finzione, certamente altrettanto avvincenti e sorprendenti».

Il primo elemento che salta all'occhio è che non ci fu nessun complotto per far fuori Robespierre. Tallien, il deputato che con il suo attacco provocò la valanga successiva, aveva un seguito personale insignificante dentro la Convenzione, e il suo intervento fu talmente estemporaneo che sul momento oltre a spiazzare Robespierre spiazzò la convenzione stessa. Allo stesso modo, non c'era nessuna cospirazione ordita dallo stesso Robespierre per trasformarsi in «dittatore». Non solo non aveva i numeri per epurare dall'interno, ma, come spiega Jones nel constatare «lo stato di confusione in cui precipitò quel giorno», nonché «la disordinata insurrezione della Comune» che a esso fece seguito, «non ci fu alcuna organizzazione congiunta e neppure una qualche concertazione da Robespierre promossa o dai suoi sodali. La sorpresa e la costernazione che le loro azioni provocarono nelle assemblee di sezione e al Club dei Giacobini confermano che né Robespierre né i suoi sostenitori avevano lavorato tra la gente di Parigi per prepararla quel giorno a una sorta di colpo di Stato. I cospiratori come si è visto avrebbero per la verità continuato a improvvisare per l'intera giornata».

Non c'era nemmeno, infine, quella «cospirazione straniera», una sorta di «controrivoluzione», divenuta per Robespierre una sorta di ossessione, ma che in realtà non era altro se non il volere una «repubblica della virtù» in contrapposizione «agli uomini corrotti» che le impedivano di farla passare dalla teoria alla pratica...

Termidoro contribuì a mettere in chiaro alcune cose. La prima è che quando dalle parole si passa ai fatti, quando insomma il gioco si fa duro, sono i duri a scendere in campo, gli uomini d'azione, nella fattispecie. Non ci si riferisce ai violenti, agli esaltati. Quest'ultimi, purtroppo per Robespierre, stavano con lui in quella che era la Comune di Parigi, dal comandante della Guardia nazionale, Henriot, ubriacone inveterato nonché stupido cialtrone, al sindaco Lescot, incapace di gestire una situazione insurrezionale. Sull'altro fronte spiccò invece Barras, che sarà anche stato la sentina di ogni turpitudine, ma era un ufficiale di carriera, aveva valorosamente combattuto, era stato l'artefice della conquista di Tolone. La seconda, e la cosa vale per Robespierre come per Saint-Just e più in generale un po' per tutte quelle persone che credevano in ciò che dicevano, la Rivoluzione, il Popolo, la Francia erano concetti seri, non parole in libertà. L'idea di tradire un mandato, il sospetto che li si potesse tacciare di ambizioni di potere, di smanie dittatoriali, li paralizzava. Nel momento in cui dalla Comune si decide di agire militarmente contro la Convenzione, ritenuta ormai «una manciata di cospiratori», e però in nome della Convenzione stessa di cui ci si ritiene gli unici membri legittimi, è proprio Robespierre a rinculare: l'appello all'esercito è oltretutto l'esatto contrario di quanto ha sempre sostenuto. «La mia opinione è che dovremo scrivere in nome del Popolo» fa sapere e in questo nominalismo legalitario, nell'idea che non bisogna prendere prima il potere e fabbricare poi la legittimità dello stesso, è presente il terribile fascino della politica come puro atto di fede.

Il gioco delle grandi potenze: l’arte del colpo di Stato, il motore della storia. Emanuel Pietrobon il 9 Settembre 2023 su Inside Over. 

Quattro, otto, sei, o meglio quattrocentottantasei, questo è il numero dei colpi di stato, riusciti e tentati, che, secondo una ricerca congiunta dell’Università della Florida centrale e dell’Università del Kentucky, sono stati compiuti nel mondo fra il 1950 e il 2022.

Quattrocentottantasei congiure di palazzo in settantadue anni equivale a dire sette l’anno, ogni anno, dal 1950. Africa e Latinoamerica le aree più colpite: aggregatori di due terzi di tutti i golpe, riusciti e falliti, rilevati dagli studiosi della Florida centrale e del Kentucky. Europa e America settentrionale le aree meno a rischio. Quadro realistico, ma incompleto, perché il golpe, come il Diavolo, è nascosto nei dettagli. 

Non sono 486 i colpi di stato avvenuti nel pianeta dal 1950 a oggi, e non perché nel conteggio dell’indagine delle due università manchino parte dell’anno 2022 e l’intero 2023. Non lo sono perché il golpe, lungi dall’avere le forme di un cesaricidio o di una deposizione manu militari, è un’opera molto più fumosa, evanescente e sfuggevole. Il golpe è, a volte, invisibile agli occhi.

Di golpe in golpe

La storia si ripete sempre due volte: la prima come golpe, la seconda pure. Perché i colpi di stato, destituzioni che sono il frutto di intrighi orditi da sottoposti invidiosi o da re stranieri, spesso dai primi in combutta coi secondi, sono il motore della storia.

Il putsch è con l’uomo dalla notte dei tempi, da quando Iblīs si ribellò alla volontà di Allāh mettendosi a capo di una sedizione destinata a incidere sul destino degli uomini. A partire da quel momento, che è andato perduto nel tempo immemore, lo spodestamento è la spada di Damocle che pende sul capo di ogni sovrano.

Imperi e imperatori sono stati abbattuti dai colpi di stato fin dall’antichità, come ricorda la detronizzazione del duca Hú di Qi nel lontano 860 avanti Cristo, ma il Novecento è stato sicuramente il loro secolo. Si è aperto nel 1900 col violento colpo di maggio in Serbia e si è concluso, la sera del 31 dicembre 1999, col golpe morbido dello stato profondo russo ai danni di Boris Eltsin.

Scrivere del putsch dei siloviki dell’ultimo capodanno del Novecento è il modo migliore per capire dove abbiano sbagliato i ricercatori della Florida centrale e del Kentucky: oltre ai golpe neri, consumati dalle forze armate, e ai golpe istituzionali, compiuti dall’opposizione o da elementi del governo, esistono e vengono attuati con una certa frequenza i golpe bianchi.

Il colpo di stato bianco è indolore e viene venduto all’opinione pubblica, nonché alle istituzioni, come un cambio in cabina di regia dettato da esigenze emergenziali, quali possono essere una guerra civile, una crisi economica o un grave scandalo, e che sarebbe avvenuto per proteggere l’integrità delle istituzioni e della costituzione.

I golpe bianchi, esito delle trame di magistratura, poteri finanziari e/o servizi segreti, quasi mai vengono conteggiati nei registri dei colpi di stato e trattati come tali dagli storici. Golpe bianco è stato Russia 1999. Golpe bianco è stato Italia 2011. E di golpe bianchi, di cui la storia recente è piena, non v’è ombra nella mastodontica ricerca delle università del Kentucky e della Florida centrale.

Cui golpest?

Il Novecento è stato il secolo breve ma intenso che, tra guerre mondiali e competizioni coloniali, non ha dato tregua all’umanità. Tanti sono stati i putsch nel corso del ventesimo secolo che, secondo CoupCast, la probabilità che un anno qualsiasi terminasse con almeno un episodio golpistico registrato da qualche parte nel mondo era del 99% – nel 2018, a titolo esemplificativo, corrispondeva all’88%.

I colpi di stato sono la cifra distintiva delle epoche attraversate da colossali smottamenti geopolitici. Perciò non deve sorprendere che l’aggravamento della competizione tra grandi potenze, scatenata dai conti in sospeso della Guerra fredda, stia venendo accompagnato dal ritorno in auge dei golpe.

Oggi come ieri, nel Duemila come nel Novecento, magistrati, militari, operatori finanziari, politici e securocrati non sono che i meri esecutori di messinscene scritte da registi-sceneggiatori corrispondenti a grandi potenze e corporazioni multinazionali.

Stati Uniti, Unione Sovietica e, per un breve periodo, la Germania nazista, sono stati i burattinai principali del Novecento. I finanziatori di rovesciamenti intrisi di ideologia, ma nell’intimo pianificati per ragioni essenzialmente pragmatiche, che non hanno risparmiato nessuna parte del globo.

La tendenza al putsch di Washington affonda le origini nella dottrina Monroe, avendo inizialmente come focus le terre latinoamericane, ed è stata la causa primaria dell’instabilità sociopolitica che ha caratterizzato a lungo la parte centromeridionale dell’emisfero occidentale. Tra il 1898 e il 1994, secondo uno studio targato Harvard, gli Stati Uniti sarebbero stati dietro almeno quarantuno interventi a scopo cambio di regime nel loro estero vicino.

Berlino, durante la parentesi hitleriana, esportò l’idea nazista in tutto il mondo, rivelandosi un propagatore di destabilizzazione di primo livello. Golpe dai caratteri nazisti furono compiuti, o tentati, dal Cile al Sudafrica.

Mosca, a partire dall’era staliniana e per l’intera durata della Guerra fredda, finanziò colpi di stato nel Terzo mondo e sovvenzionò gli anni di piombo nel Primo nel contesto dello scontro per l’egemonia globale con gli Stati Uniti. Rispetto alla rivale Washington, però, Mosca avrebbe sofferto e infine perso a causa di un grave deficit: l’assenza di partner ai quali esternalizzare, in parte o in tutto, guerre civili, cesaricidi e congiure di palazzo. Partner come le corporazioni multinazionali, lo storico asso nella manica di Washington, come rammentato dai casi delle guerre delle banane, l’operazione PBSUCCESS e il rovesciamento di Salvador Allende.

Oggi è ieri

La competizione tra grandi potenze ha riportato le lancette dell’orologio indietro di alcuni decenni, a un’età che ricorda un po’ il primo preguerra e un po’ l’alba della Guerra fredda, causando il ritorno in scena del golpismo.

A partire dal 2018, l’unico anno del Duemila terminato senza golpe, i rovesciamenti hanno ripreso gradualmente piede. E nessun continente, come ai tempi della Guerra fredda, è completamente al sicuro: lo dimostrano i periodici allarmi putsch in Moldavia, l’emergere della coup belt nell’Africa sahariana e il fermento in Latinoamerica.

Nuovi e vecchi attori sono dietro le destituzioni, bianche e nere, che stanno colpendo le terre emerse. Vecchi come gli Stati Uniti, impegnati nella difesa dello scricchiolante unipolarismo – da Bolivia ’19 a Pakistan ’22 –, e la Francia, alle prese col declino della Françafrique – Gabon ’23. Nuovi come la Cina, la regista di Myanmar ’21, e la Russia, l’artefice della coup belt. Le ragioni son le stesse di sempre: la partecipazione al grande risiko globale. EMANUEL PIETROBON

L’altro 11 settembre: quando un golpe fece del Cile il primo laboratorio del neoliberismo. Andrea Legni e Salvatore Toscano su L'Indipendente lunedì 11 settembre 2023.

Sono le ore 14 dell’11 settembre 1973 a Santiago del Cile. Da alcune ore i militari stanno circondando il palazzo presidenziale per deporre il presidente democraticamente eletto Salvador Allende, ma questi non si arrende e si barrica imbracciando un fucile AK-47. Allende preferisce perdere la vita piuttosto che accettare il colpo di Stato. Sul palazzo presidenziale arrivano i caccia dell’esercito, gentilmente venduti dal Regno Unito, che iniziano a bombardare l’edificio. Preso atto dell’impossibilità di continuare la resistenza, Allende riserva l’ultimo colpo del fucile, regalatogli dal leader cubano Fidel Castro, per sé stesso. Dopo il golpe sale al potere il generale Augusto Pinochet e gli Stati Uniti si affrettano a riconoscerlo come presidente legittimo. Governerà per 17 anni, durante i quali “scompariranno” circa 40.000 persone, tra cui migliaia di oppositori politici. Non a caso, il Cile di Pinochet è ricordato come una delle dittature più sanguinarie del ‘900. Ma non è tutto: c’è un altro motivo che fa del golpe cileno un punto di svolta per il mondo intero. Una volta al potere, il generale chiama infatti ad amministrare l’economia nazionale Milton Friedman e i suoi studenti dell’Università di Chicago, ovvero i teorici del neoliberismo, che in Cile – grazie alla dittatura e ai generosi prestiti di Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale – trovano un primo laboratorio per tradurre in pratica le loro teorie, anticipandone il dominio sui modelli di sviluppo di tutto l’Occidente.

Il Cile di Allende e perché non poteva rimanere al potere

Salvador Allende, candidato del Partito Socialista Cileno, diviene presidente dopo aver vinto le elezioni del 4 settembre 1970, appoggiato da una coalizione comprendente il Partito Comunista del Cile (cui candidato era il poeta Pablo Neruda) e il Partito Democratico Cristiano. A Washinton non prendono bene il risultato democratico delle urne, al punto che il segretario di Stato, Henry Kissinger, dopo le elezioni dichiara: «Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli». Allende non si fa comunque intimidire dalle pressioni e minacce statunitensi, tracciando quella che definisce la via cilena al socialismo. In un’intervista rilasciata al New York Times il 4 ottobre 1970, il neopresidente dichiara: «Noi partiamo da diverse posizioni ideologiche. Per voi essere un comunista o un socialista significa essere totalitario, per me no… Al contrario, io credo che il socialismo liberi l’uomo». In Cile viene avviato un ampio programma di nazionalizzazioni, che in pochi mesi coinvolge tutti gli apparati economici del Paese, dall’industria ai servizi, passando per l’attività estrattiva, assestando un duro colpo al capitale privato statunitense, che soprattutto attraverso la Kennecott e la Anaconda controllava grandi fette del mercato cileno. Un sistema che gli Stati Uniti proponevano in tutta l’America Latina, considerata da Washington come il proprio “cortile di casa”. Si pensi all’impero realizzato negli anni ’50 dalla multinazionale americana United Fruit (oggi Chiquita) in Guatemala; anche in quel caso un leader socialista – Jacobo Árbenz Guzmán – avviò un ampio processo di nazionalizzazione a favore dei campesinos. Di tutta risposta, la CIA organizzò un golpe (Operazione PBSuccess), pose fine alla rivoluzione guatemalteca e fece piombare il Paese in una stagione buia, con il popolo costretto a fare i conti con dittature fedeli alla Casa Bianca.

Nel 1973, dopo tre anni di presidenza Allende, lo Stato controlla il 90% delle miniere, l’85% delle banche, l’84% delle imprese edili, l’80% delle grandi industrie, il 75% delle aziende agricole e il 52% delle imprese medio-piccole. I possedimenti dei latifondisti sono espropriati e affidati a contadini, braccianti e piccoli imprenditori agricoli. Dal punto di vista dei diritti civili, il governo di Unidad Popular introduce il divorzio, legalizza l’aborto e annulla le sovvenzioni alle scuole private, irritando non poco i vertici della Chiesa cattolica presenti nel Paese. Per quanto riguarda le politiche sociali, vengono introdotti ingenti incentivi all’alfabetizzazione, un salario minimo per tutti i lavoratori, il prezzo fisso del pane, la distribuzione gratuita di cibo ai cittadini più indigenti e l’aumento delle pensioni minime. Il governo avvia anche un intenso programma di lavori pubblici, tra i quali la metropolitana di Santiago, inseguendo l’obiettivo della connessione tra periferie e centri. Vengono costruite, inoltre, numerose case popolari e strutture sanitarie come gli ospedali, in particolare nelle zone più povere del Cile. Dunque, la spesa sociale cresce fortemente, bilanciata dalle parallele politiche di redistribuzione della ricchezza. Fino alla realizzazione del colpo di stato, il Paese vede, seppur parzialmente erosa dall’inflazione, una continua crescita economica, soprattutto in termini di salario reale. 

In ambito estero, il Cile di Allende si avvicina particolarmente a Cuba e Unione Sovietica. Nel 1971, il presidente cubano Fidel Castro viene ricevuto al Palacio de La Moneda, residenza presidenziale cilena, per una visita ufficiale che dura 23 giorni. Allende ripristina le relazioni diplomatiche con l’Havana, scavalcando un divieto avanzato da Washington all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che sostanzialmente impediva ai Paesi membri di tenere atteggiamenti di apertura verso Cuba. Sempre nel 1971, Allende visita l’Unione Sovietica e incontra il presidente Leonid Brezhnev, firmando diversi accordi di cooperazione economica e tecnica tra i due Paesi. Le relazioni estere di Santiago del Cile, unitamente alle politiche interne di stampo socialista, indispettiscono non poco Washington che dispone l’embargo verso il Paese. Al boicottaggio economico (sul modello cubano) si aggiungono presto i finanziamenti ai gruppi ostili al governo di Allende.

Il Colpo di Stato

Il golpe del 1973 guidato da Augusto Pinochet ha la benedizione della Casa Bianca, come dimostrano i documenti desecretati cinquant’anni dopo dalla National Security Agency, la madre di tutte le agenzie di intelligence statunitensi. Tra le altre cose, appaiono significative le parole del presidente Richard Nixon che durante una riunione del Consiglio di sicurezza dichiara: «Se c’è un modo di rovesciare Allende, è meglio farlo». Washington opta non per un intervento diretto, bensì per la pressione economica, convincendo le principali multinazionali ad abbandonare il Cile e facendo crollare il prezzo del rame, tra i principali prodotti esportati dal Paese. Vengono inoltre promossi scioperi e proteste, a cui si aggiunge il finanziamento a media privati per fomentare disinformazione circa la figura di Allende e il suo governo. Il terreno è fertile per i militari conservatori cileni, guidati da Augusto Pinochet, che la mattina dell’11 settembre 1973 occupano il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico. Nel frattempo, a Santiago, le forze aeree e i carri armati dell’esercito chiudono e bombardano le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio-televisive: l’unica che riesce a non interrompere le trasmissioni è la radio Magallanes del Partito comunista cileno, la quale trasmette al popolo le ultime parole di Allende, barricatosi nel Palacio de La Moneda. «Non mi sento un martire, sono un lottatore sociale che tiene fede al compito che il popolo gli ha dato. Ma stiano sicuri coloro che vogliono far regredire la storia e disconoscere la volontà maggioritaria del Cile; pur non essendo un martire, non retrocederò di un passo», dice alle 8.45. All’interno de La Moneda, al fianco di Allende sono rimasti la sua segretaria, Miria Contrera, lo scrittore Luis Sepúlveda e altri membri della scorta presidenziale.

Alle 9.10, poco prima che le trasmissioni di radio Magallanes si interrompano, Allende si rivolge per l’ultima volta ai suoi concittadini: «Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!». Il presidente conclude il suo discorso con un incitamento a restare fedeli alla propria libertà e a combattere sempre contro le ingiustizie e i tradimenti. A questo punto ordina a tutte le persone presenti di abbandonare il palazzo presidenziale. Verso mezzogiorno i militari ribelli circondano con i carri armati il Palacio de La Moneda e gli aerei militari iniziarono a bombardarlo. È la fine di Allende e della vía cilena al socialismo.

La feroce repressione

Concluso il golpe, Augusto Pinochet assume la guida del Cile, sciogliendo subito l’Assemblea Nazionale e bandendo tutti i partiti che avevano fatto parte di Unidad Popular. Seguono molte restrizioni alla libertà individuale dei cittadini: lo Stadio Nazionale di Santiago viene trasformato in un enorme campo di concentramento dove, nel corso dei primi mesi della dittatura, vengono interrogate e torturate migliaia di persone. Moltissime donne sono stuprate dai militari addetti al “campo” e centinaia di cittadini – specie studenti universitari – scompaiono nel nulla, dando inizio al fenomeno dei desaparecidos che durante il regime di Pinochet coinvolge circa 40mila persone. Mentre l’avvento del generale cileno provoca reazioni differenti nei Paesi del Centro e Sud America, gli Stati Uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger non esitano a congratularsi con Pinochet, tornando a sostenere economicamente il Cile. Washington garantisce un flusso costante di soldi, personale e «consulenze» per assistere il regime nell’opera repressiva. Decenni dopo, il rapporto “Attività della CIA in Cile” rivelerà che i vertici della polizia segreta cilena (DINA) erano sovvenzionati proprio dall’intelligence statunitense. Nel 1974 l’allora direttore della CIA, Vernon Walters, incontra Pinochet: qui il dittatore indica come suo braccio destro il colonnello Manuel Contreras, che avrebbe poi diretto molte operazioni, compreso l’attentato all’ex ambasciatore cileno e leader dell’opposizione in esilio, Orlando Letelier, il quale sarà ucciso a Washington con il suo assistente da alcuni agenti della DINA.

Le eliminazioni politiche saranno una costante nei 17 anni del regime di Pinochet, che prende di mira i sostenitori del presidente Allende. Tra questi, figura Victor Jara, uno dei rappresentanti della Nueva Canción Chilena nonché riferimento internazionale nel mondo delle canzoni di protesta. Jara, militante del Partito comunista cileno, trova la morte il 16 settembre 1973 dopo diversi giorni di torture. «Canto / come mi vieni male quando devo cantare la paura! / Paura come quella che vivo / come quella che muoio / paura di vedermi fra tanti / tanti momenti dell’infinito in cui il silenzio e il grido sono le mete di questo canto», compose nel suo ultimo testo poco prima di essere ucciso dal regime.

Arrivano i “Chicago Boys”

L’America Latina lungo i decenni della guerra fredda è costellata di colpi di stato militari coadiuvati dagli Stati Uniti. Guatemala (1954), Bolivia (1971), El Salvador (1980/1992), Nicaragua (1982/1989), Grenada (1983), Panama (1989): il copione è sempre il medesimo, ovunque si insedia un governo che porta avanti un’agenda economica che preoccupa gli interessi economici e geopolitici americani, da Washington si interviene in maniera diretta oppure indiretta, formando e finanziando frange dell’esercito disposte a intervenire. Anche la brutalità del governo Pinochet non è un unicum, ma trova assonanze in quanto accaduto ad esempio negli stessi anni in Argentina. L’elemento di novità che porta realmente il Cile nella storia è la gestione economica della nazione durante i 17 lunghi anni della dittatura.

Appena preso il potere, Augusto Pinochet contatta l’economista Milton Friedman che invia a Santiago del Cile un gruppo selezionato di suoi studenti, ribattezzati i Chicago Boys, dalla città dove a sede l’Università dove si sono formati. I Chicago Boys sono ferventi liberisti, propugnatori di un’ideologia del libero mercato senza freni. Sintetizzando al massimo, la loro visione prevede che il ruolo di motore dell’economia venga assunto dal mercato, ritenuto capace di autoregolarsi e che quindi deve essere lasciato libero di agire, riducendo al minimo ogni tipo di interferenza statale. Le aziende devono essere privatizzate, le tasse sui profitti ridotte al minimo, lo stato sociale azzerato. Nei primi anni ’70 la loro visione stava prendendo piede nelle università americane, ma era ancora ampiamente minoritaria. In tutto l’Occidente prevaleva infatti l’orientamento economico keynesiano, proprio dei sistemi socialdemocratici e basato sull’idea che la prosperità della società si basasse sulla presenza forte dello Stato come regolatore dell’economia e come garante di un sistema fiscale progressivo dove i profitti delle aziende e dei cittadini più ricchi dovessero essere altamente tassati per finanziare forti sistemi pensionistici, scolastici, sanitari e, in generale, di protezione sociale.

I Chicago Boys si insediano al ministero delle Finanze del governo Pinochet e iniziano a mettere in pratica, per la prima volta, le teorie neoliberiste. Il primo passo è l’abbattimento del ruolo statale nell’economia, attraverso lo smantellamento delle imprese pubbliche, la denazionalizzazione dei settori strategici e la privatizzazione di numerose imprese. Contemporaneamente viene attuato un programma di netta diminuzione della spesa pubblica, che procede attraverso: l’abolizione dei sussidi statali alle imprese e la riduzione della spesa per l’istruzione e il taglio al sistema pensionistico e sanitario. Gli assegni familiari nel 1989 diventano il 28% di quelli del 1970 e i bilanci per l’istruzione, la sanità e l’alloggio diminuiscono in media di oltre il 20%. Le erogazioni sociali dello stato assumono la forma di prestiti, che i cittadini devono restituire attraverso prelievi forzosi in busta paga, in una misura pari al 20% della retribuzione. Le risorse così raccolte vengono affidate alla gestione di fondi d’investimento privati. A tutto questo si accompagna un generale processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, dei capitali e dei prezzi, oltre che la soppressione delle attività sindacali promossa dalla giunta militare. Viene inoltre facilitato il rimpatrio dei profitti delle multinazionali e delle imprese straniere, in modo da attrarne gli investimenti.

Il “miracolo” economico cileno

Negli anni successivi i risultati raggiunti dalle politiche neoliberiste in Cile vengono glorificati. E d’altra parte le lodi giungono da componenti della medesima corrente di pensiero, nel frattempo partita alla conquista del mondo. Nel 1979 Margaret Thatcher diventa primo ministro del Regno Unito e adotta le medesime politiche neoliberiste, lo stesso avviene negli Stati Uniti a partire dal 1981, quando diviene presidente Ronald Reagan. In Cile, i Chicago Boys riescono a stabilizzare l’inflazione (passata dal 60% del 1973 all’8.9% del 1981), a diminuire fortemente il debito pubblico e a portare una netta crescita del prodotto interno lordo (PIL) per tutti gli anni di Pinochet si mantiene ad un tasso di crescita medio del 5 – 6% annuo. Certamente un successo, almeno con i criteri con i quali nelle accademie di oggi si misurano i risultati economici di una nazione.

Grattando la superfice della macroeconomia e proiettandosi su quella dell’economia reale i risultati sono però assai diversi. La prima cosa a cui si assiste è l’impoverimento di vasti settori sociali dovuto al crollo dei salari reali (-50%) e l’aumento della disoccupazione, che passa dal 3,1% del 1972 al 28% del 1983. Il risultato è il poderoso aumento del numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, passate dal 17% del 1970 al 38% nel 1987. Inoltre la diminuzione del debito pubblico dello Stato è solo una partita di giro, perché in misura inversamente proporzionale aumenta a dismisura l’indebitamente privato (quello fatto dai cittadini per permettersi i consumi) che nel 1982 rappresenta il 62% del debito complessivo, rispetto al 16% del 1973. Insomma, il “miracolo economico cileno” lascia sul terreno milioni di poveri.

“Il Cile è stata la culla del neoliberismo, dovrà diventarne anche la tomba”

Privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica e delle tasse sui profitti, controllo dell’inflazione: fin troppo facile rileggere gli obiettivi dei Chicago Boys nel Cile di cinquant’anni e trovarvi l’influenza delle teorie neoliberista nell’ordinamento vigente oggi in tutto l’Occidente, specialmente in quelle che sono le linee guida per gli Stati membri dettate da Bruxelles. Si potrebbe dire che l’ideologia economica messa in pratica per la prima volta durante la sanguinaria dittatura cilena ora domini incontrastata. La realtà è al solito più complessa e i cicli della storia compiono alcune volte tragitti sorprendenti. Nel 2022 in Cile si è insediato come nuovo presidente il trentacinquenne Gabriel Boric, ex studente con una storia di militante nei movimenti sociali del Paese andino. Durante il suo discorso d’insediamento, il 22 marzo, Boric cita la parole più forti dell’ultimo discorso di Salvador Allende, quelle che – in un sussulto di speranza – annunciavano che altri dopo di lui avrebbero ripreso il cammino del Cile sulla strada della giustizia sociale. «Come Salvador Allende aveva predetto quasi cinquant’anni fa, siamo ancora una volta connazionali che aprono le grandi strade attraverso le quali può passare l’uomo libero, l’uomo e la donna liberi, per costruire una società migliore», afferma il giovane studente votato come nuovo presidente, e poi scandisce il suo proposito: «Il Cile è stata la culla del neoliberismo, ora dovrà diventare la sua tomba», e per cominciare annuncia la nazionalizzazione delle riserve di Litio, elemento chiave per l’economia del nuovo millennio, di cui il Cile è ricco. Servirà ancora tempo per capire se sarà così, ma ancora una volta il Cile è un laboratorio per una nuova svolta possibile nelle politiche economiche dominanti. [di Andrea Legni e Salvatore Toscano]

Villaggi globali. È da quando esistono che si possono superare gli stati-nazione. Anthony Pagden Linkiesta l'11 Luglio 2023

Serve un’altra geopolitica, oltre i confini di quella tradizionale, perché nessuna delle grandi sfide del presente può essere affrontata da un singolo Paese, per quanto potente. Stiamo cominciando a familiarizzare con l’idea di una società civile mondiale: un saggio del Mulino perché non resti un’utopia

Quali caratteristiche avrebbe una «società civile globale» fatta di nazioni? La serie di istituzioni non governative abbastanza forte da controbilanciare lo stato senza però impedirgli di svolgere il suo ruolo di garante della pace e di arbitro degli interessi principali […] potrebbe nella sua forma attuale rappresentare l’ordine giuridico globale.

Queste istituzioni hanno acquisito una «personalità» giuridica proprio come quelle che le hanno precedute (le chiese, le corporazioni, i comuni medievali e successivamente i sindacati), che hanno assunto o rivendicato un’individualità distinta all’interno dei singoli stati e che inevitabilmente le ha rese rivali degli stati stessi.

Secondo numerosi sostenitori dello stato-nazione sovrano esse sono quello che erano le Corporazioni all’epoca di Hobbes, ovvero «Stati minori nelle viscere di uno più grande, come vermi nelle interiora umane». Tuttavia, come egli temeva, la loro esistenza ha spodestato con successo la concezione dello stato come «persona» – giuridica o politica – unica nella società internazionale.

In casi estremi esse possono persino obbligare gli stati-nazione a rispettare le normative internazionali, come fece il Fondo Monetario Internazionale durante la Grande Recessione. Eppure, nonostante i loro grandi poteri, non hanno ancora la capacità collettiva di opporsi ad eventuali attacchi se non attraverso sanzioni economiche […].

Le istituzioni internazionali naturalmente non forniscono nemmeno i servizi sociali, le pensioni o l’assistenza all’infanzia che offrono gran parte delle nazioni, perlomeno in Occidente, e che i cittadini considerano ormai un diritto. E sebbene l’Organizzazione Mondiale della Sanità eserciti una notevole influenza, essa non può imporre politiche sanitarie né utilizzare strutture mediche comuni.

Pertanto queste istituzioni non sono, o non sono ancora, un adeguato sostituto dello stato. L’idea condivisa da generazioni di teorici dell’internazionalizzazione, da Saint-Simon a Friedrich Engels, che lo stato sarebbe un giorno diventato obsoleto e sarebbe «appassito» sembra oggi ancora più stravagante di allora.

Oggi l’internazionalizzazione, la globalizzazione sembrano smantellare lo stato-nazione. Tuttavia lo stato è una costruzione politica, un corpus giuridico, uno spazio geografico e immaginario in cui gli individui vivono e interagiscono; fornisce una misura di sicurezza, di identità e ci permette di formulare qualche ipotesi sul futuro.

Lo stato mostra un modo di vivere, come in precedenza avevano fatto, su scala più ridotta, il villaggio, la parrocchia e la tribù. Il globale non offre nulla di tutto ciò. Oggi il mondo può essere governato tanto dalle reti sovranazionali e internazionali quanto dai governi degli stati-nazione, ma ciò che queste reti tengono unito sono ancora i cittadini degli stati-nazione.

Per di più le istituzioni internazionali sono ancora amorfe politicamente, culturalmente e persino giuridicamente: possono esserci molte persone che vivono in Italia e sanno qualcosa di come si vive per esempio in Indonesia, ma ciò che accade là avrà un impatto minimo sulle loro vite (a meno che non assuma la forma di una pandemia).

Viviamo tutti, e ne siamo consapevoli, in uno spazio internazionale, tuttavia di rado sentiamo di esserne coinvolti in prima persona. Essere apolide è ancora una condizione indesiderabile. Sebbene molti abbiano affermato di essere «cittadini del mondo» da quando Diogene il Cinico lo fece per primo nel IV secolo a.C., questa è una dichiarazione di identità personale, una metafora, non uno status politico o giuridico.

Nel passato era spesso una questione di estensione. Fino a dove può spingersi la nostra capacità di immaginare l’appartenenza? […] Lo stato-nazione si è sviluppato in un periodo in cui nuove tecnologie come la stampa, la ferrovia, il telefono e il telegrafo hanno reso possibile la comunicazione – almeno virtuale – tra popoli lontani in modi mai conosciuti prima. E, come è noto, questa connessione si è ampliata enormemente negli ultimi decenni grazie all’introduzione di reti elettroniche sempre più estese.

Le distanze non hanno più l’importanza che avevano anche solo un secolo fa. Gli americani si definiscono e si sentono tali anche se essi stessi o la loro famiglia sono nati in Afghanistan o in Germania e non hanno mai visitato gran parte degli stati che compongono la loro nazione. I Galli, sebbene fossero romanizzati, non avrebbero mai detto o provato una cosa del genere rispetto ai territori dell’impero romano – anche se nel periodo della sua massima espansione quest’ultimo era solo poco più grande degli Stati Uniti.

L’estensione non è più un elemento determinante, ma lo sono l’appartenenza politica, la coesione e gli obbiettivi condivisi. Lo stato-nazione ha riprodotto con successo alcune delle caratteristiche del villaggio su più ampia scala, integrandole con un apparato giuridico e una forza coercitiva che esso non aveva mai avuto.

Ora che lo stato comincia a sgretolarsi non ci si dovrebbe adoperare affinché scompaia definitivamente, perché questo non farebbe che accrescere il potere delle multinazionali e di una rete di associazioni internazionali che, per quanto animate da buone intenzioni, non sono in grado di generare cittadinanza, identità, coesione o prestazioni assistenziali adeguate per il pianeta.

Né offrono quello che è stato chiamato «il diritto di occupazione», cioè di possedere uno spazio geografico in cui vivere e dal quale non si possa essere espulsi. Per quanto incoraggiante, la semplice buona volontà non è sufficiente; occorrono potere, autorità e un organismo capace di emanare leggi e di farle rispettare, che attualmente nessuna organizzazione internazionale possiede, nemmeno le Nazioni Unite.

Le capacità diplomatiche, militari e di vigilanza di queste associazioni, con la parziale eccezione dell’Unione Europea, sono sempre mediate dallo stato-nazione, sebbene esso oggi sia un’entità culturale, etnica e politica molto diversa da come era al suo apice nell’Ottocento e nel Novecento. […]

Il loro futuro, e progressivamente il nostro, non risiede in una nazione autonoma né in una nuova generazione imperiale, né in uno «stato civilizzatore» putiniano. Risiede, con ogni probabilità, in una forma di federazione la cui possibilità esiste da quando esiste lo stato-nazione stesso. In un certo senso lo stato-nazione moderno non è altro che il precursore più recente e più importante di un mondo di federazioni.

Sicuramente Ernest Renan la vedeva così. Egli concluse la sua celebre conferenza Qu’est-ce qu’une nation? riconoscendo che le nazioni moderne, sebbene fossero ancora qualcosa di recente nella storia e fossero diffuse ovunque, non sono eterne. «Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto». Tuttavia aggiunse: «non è questa la legge del secolo in cui viviamo».

Da quando si è costituito lo stato-nazione sono stati concepiti molti progetti di federazione mondiale, alcuni utopistici e fantasiosi, altri animati da prudente realismo. Finora nessuno, con l’eccezione dell’Unione Europea, si è realizzato pienamente, tuttavia ciascuno di essi ne ha reso più prossima la possibilità. 

Da “Oltre gli Stati” di Anthony Pagden, il Mulino, 156 pagine, 19 euro.

 Quel nesso profondo tra calcio, politica e potere. Narcís Pallarès-Domènech, Valerio Mancini e Alessio Postiglione sono da oggi in libreria con "Calcio, politica e potere. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici", saggio in cui si analizzano le ricadute globali dello sport più popolare e il ruolo di potere, economia, propaganda nelle sue dinamiche. Narcís Pallarès-Domènech Valerio Mancini Alessio Postiglione Balsamo il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

Diego Armando Maradona e Fidel Castro. Il legame personale che univa il Pibe de Oro e il Lider Maximo è uno degli esempi più noti di osmosi tra calcio e politica

Su gentile concessione degli autori pubblichiamo oggi un estratto del saggio di Narcís Pallarès-Domènech, Valerio Mancini e Alessio Postiglione, edito da "Mondo Nuovo", "Calcio, politica e potere. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici".

Il calcio non è solo uno sport, ma un vero e proprio strumento di soft power da parte di Stati e gruppi di interesse. Uno strumento geopolitico, utilizzato dalle potenze economiche e politiche, ed esso stesso un attore geopolitico globale. In un mondo in cui le potenze economiche dettano le proprie condizioni agli Stati e alla politica, il calcio, essendo un grande business, domina il mondo.

Il calcio vanta un giro d’affari di 28,4 miliardi di euro1 La Premier League comanda la classifica con 5,5 miliardi di valore complessivo. Seguono, Bundesliga e Liga spagnola, con 3 miliardi e 2,95 miliardi. Il calcio italiano genera invece 2,5 mld; il 12% del PIL del calcio mondiale viene prodotto in Italia: offre lavoro a 40mila persone e un contributo fiscale di 1,2 miliardi. I “big five”, i 5 campionati europei principali – in ordine di grandezza: quello inglese, tedesco, spagnolo, italiano e francese –, hanno prodotto un fatturato di € 15,6 miliardi nel 2022, un risultato inferiore rispetto ai 17 miliardi conseguiti prima che esplodesse la pandemia, nella stagione 2017/2018, ma comunque indicativo della forza del pallone.

In tempi in cui trovare pochi milioni per potenziare la scuola o la sanità è sempre più difficile, l’economia del calcio surclassa quella di molti Stati sovrani. Il calcio muove interessi, fa battere i cuori: è più diffuso delle principali religioni monoteistiche e della democrazia liberale. I telespettatori complessivi dei Mondiali del 2018 sono stati pari a 3.572 miliardi, più della metà della popolazione mondiale di età pari o superiore a quattro anni.

Identità, talento e successo economico: le lezioni del modello Ajax

Gli Stati utilizzano il calcio per affermare la propria esistenza: l’Uruguay, nato come Stato cuscinetto fra Argentina e Brasile per separare le pretese coloniali di spagnoli e portoghesi, alla luce anche del ruolo dell’Impero britannico che ne favorì la nascita, organizzò e vinse il primo mondiale nell’anno del suo centenario, per affermarsi cme nazione, in senso geopolitico e identitario.

Mussolini organizzò il secondo Mondiale per mostrare al mondo i risultati del regime fascista. L’organizzazione del Campionato, che l’Italia vinse, non fu semplice, ma si trattò di un evento a cui il Duce, esperto di comunicazione e manipolazione delle masse, aveva – giustamente –, dato molto peso. Gli azzurri di Pozzo bissarono la vittoria iridata – anche in questo caso connotata politicamente –, quattro anni dopo.

Celebre fu la partita Francia – Italia dei quarti, giocata in casa dei transalpini, a Marsiglia, allorquando tutti gli antifascisti, a cominciare dagli esuli italiani, tifavano per i bleus. L’Italia, provocatoriamente, scese in campo con tanto di maglia nera – succederà nella storia della nazionale italiana 5 volte –, facendo il saluto romano. L’Italia si impose 1–3 e avrebbe concluso il suo percorso trionfale – una vera e propria apoteosi fascista –, battendo in semifinale il Brasile del grande Leonidas, e, in finale, l’Ungheria per 4–2. Per uno scherzo del destino, l’Italia si laurea campione allo Stadio Colombes, quello di Fuga per la Vittoria, il celebre film di John Huston interpretato da Pelé, che, anni dopo, avrebbe narrato la “partita della morte”, fra nazisti ed antifascisti.

L'Italia invincibile di Pozzo e la propaganda fascista

Non è un caso che gli Stati totalitari utilizzassero indifferentemente mezzi di comunicazione, cinema e sport per influenzare le masse. Nei Mondiali di Francia del ’38, comunque, l’Italia ebbe sempre tutto il pubblico di casa e neutrale contro.

Gli Stati utilizzano il calcio per proiettarsi geopoliticamente: il Mondiale in Giappone e Corea del Sud è servito per far emergere la centralità del Pacifico, rispetto ai vecchi assetti atlantici; Brasile, Sud Africa e Russia, economie emergenti del cosiddetto gruppo dei BRICS, hanno organizzato gli ultimi Mondiali per mostrare al mondo il proprio nuovo status. Con il Qatar si afferma il protagonismo dei Paesi del Golfo e, soprattutto, l’Islam politico, rappresentato proprio dal piccolo emirato e dalla Turchia, dove governano forze vicine ai Fratelli Musulmani.

Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano

Non sono solo gli Stati ad utilizzare geopoliticamente il calcio ma anche le nazioni senza Stato. È il caso delle nazionali di Catalogna, Québec e Kurdistan. La Palestina, semplice osservatore presso l’ONU, è membro a tutti gli effetti della FIFA, dove siedono anche Macao e Hong Kong, inglobate dalla Cina secon do il principio “un Paese due sistemi”; la FIFA ha concesso una nazionale perfino a Taiwan, la cui indipendenza e sovranità non è stata mai riconosciuta da Pechino. Diverso il caso di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, che pur non esistendo più politicamente indipendenti e sovrane, inglobate nel Regno Unito, “rivivono” nel pallone.

Ecco che cos'è davvero la geopolitica. Su gentile concessione dell'autore, pubblichiamo oggi un estratto di "Geopolitica, storia di un'ideologia", saggio di Amedeo Maddaluno edito da "GoWare". Amedeo Maddaluno il 7 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il termine "Geopolitica", dopo decenni di oblio è tornato alla ribalta del linguaggio mediatico e della pubblicistica. Ciò è senz’altro dovuto all’esaurirsi delle grandi narrazioni novecentesche – comunismo, socialismo, socialdemocrazia, liberalismo, persino la dottrina sociale cristiana – e al ritorno sulla scena politiche dello Stato che i teorici della “fine della storia” avevano bollato come obsoleto.

La cifra di lettura del XXI secolo sembra essere quella del confronto tra stati in un’anarchia delle potenze, e non del confronto tra ideologie o tra classi – ad esempio delle ultime due ideologie a proprio modo universalistiche affacciatesi sulla scena strategica negli ultimi due decenni e cioè il liberalismo e liberismo occidentale contro l’islamismo radicale, esauritasi la prima nella grande crisi del 2008 e la seconda arretrata proprio sul piano geopolitico.

Il risveglio dalle illusioni universalistiche è stato brusco: il mondo intellettuale si è fatto trovare impreparato ed ha dovuto riattivare una linea di pensiero per troppo tempo trascurata. Il termine geopolitica è diventato così vittima di una vera e propria bulimia, sino ad essere utilizzato quale sinonimo di “Relazioni Internazionali”, “Politica Estera” e financo di “Strategia Militare”, discipline imprescindibili alla geopolitica, sicuramente non separabili da questa ma ad ogni modo ben distinte. Occorre ribadirlo: la geopolitica studia il rapporto tra statualità e spazio: chiaramente per farsi un quadro geopolitico della politica di uno stato non si può prescindere dal quadro economico, sociologico, demografico, militare, culturale, antropologico (come correttamente sottolinea il moderno filone della geopolitica critica).

In queste pagine abbiamo scelto di concentrarci sulla ricerca delle geopolitiche che hanno fornito una base all’ideologia dello stato: abbiamo scelto quindi di parlare di “geopolitiche”, cioè delle prassi dei vari studiosi e delle varie scuole di studio più che di una Geopolitica con maiuscola, ambito scientifico non privo di un suo valore persino spirituale come studio dello “stato organismo nel proprio spazio”.

Per meglio portare a termine questa indagine abbiamo scelto quindi di non proporre al lettore una storia della Geopolitica – non troverete in questo libro i Tucidide e i Machiavelli o tanti studiosi del pensiero militare che hanno lambito intelligentemente la geopolitica – ma di proporgli una disamina delle scuole e delle prassi geopolitiche divise per paesi: non potevamo quindi non partire dall’ottocento e non focalizzarci sulle tradizioni statali a più marcata vocazione imperiale nel mondo contemporaneo, moderno e post-moderno.

Correderemo l’analisi di contesto con un riassunto del pensiero di singoli autori rappresentativi, veri e propri capiscuola. Analizzeremo il pensiero geopolitico partorito dalle culture tedesca, anglosassone, russa e proveremo ad aprire uno squarcio sul pensiero geostrategico cinese. Concluderemo con una riflessione su una nazione che imperiale non lo è mai stata fino in fondo: la nostra Italia, per provare a mettere a fattor comune gli spunti dei capitoli precedenti. Il tutto andando alla ricerca di filoni culturali e dei minimi comuni denominatori delle scuole geopolitiche.

Il nostro fine, in definitiva, è quello di cogliere come le geopolitiche hanno contribuito a costruire le autorappresentazioni e le autonarrazioni delle nazioni. Perché? Perché la geopolitica può fornire, nello smarrimento della post-modernità liquida – per dirla con Bauman – un’interessante chiave di lettura dei rapporti di forza del mondo – anche se non l’unica: sarebbe interessante capire quanto pesino ancora le dialettiche di classe, ad esempio. Per farlo va però salvata in primis dalle confusioni tassonomiche di cui parlavamo in apertura e in secundis da sé stessa, o meglio da quegli autori che ne sviliscono il valore scientifico – e forse spirituale? – per renderla una semplice cassetta degli attrezzi nelle mani del potentato di turno, o peggio ancora la giustificazione ideologica di qualche sciovinismo momentaneo. Cercheremo di essere rigorosi ed oggettivi, ma dovremo per forza effettuare una cernita di autori giocoforza incompleta. Se saremo riusciti a gettare il proverbiale sasso nello stagno, a stimolare un dibattito e a spingere chi ne sa più di noi a correggere le mancanze di questo lavoro avremo senz’altro raggiunto il nostro obiettivo.

Antonio Giangrande: Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.

Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.

Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.

Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.

Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.

Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.

Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.

Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.

Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.IL DEBITO DELLA PROSTITUTA

Non so chi sia il genio che l'ha scritto ... ma è eccellente ...

A marzo, in una piccola città, cade una pioggia torrenziale e per diversi giorni la città sembra deserta.

La crisi affligge questo posto da molto tempo, tutti hanno debiti e vivono a credito.

Fortunatamente, un milionario con tanti soldi arriva ed entra nell'unico piccolo hotel sul posto, chiede una stanza, mette una banconota da 100 euro sul tavolo della reception e va a vedere le stanze.

- Il gestore dell'hotel prende la banconota e scappa per pagare i suoi debiti con:

- Il macellaio.

Questo prende i 100 euro e scappa per pagare il suo debito con:

- L'allevatore di maiali.

Quest’ultimo prende la banconota e corre a pagare ciò che deve:

- Il mulino-Fornitore di mangimi per maiali.

Il proprietario del mulino prende 100 euro al volo e corre a saldare il suo debito con:

- Maria, la prostituta che non paga da molto tempo, in tempi di crisi, offre persino servizi a credito ...

La prostituta con la banconota in mano parte per:

- Il piccolo hotel, dove aveva portato i suoi clienti le ultime volte e non aveva ancora pagato e gli consegna 100 euro:

- Al proprietario dell'hotel.

In questo momento il milionario che ha appena dato un'occhiata alle stanze scende, dice di non essere convinto delle stanze, prende i suoi 100 euro e va via.

"Nessuno ha guadagnato un euro, ma ora l'intera città vive senza debiti e guarda al futuro con fiducia" !!!

MORALE:

SE I SOLDI CIRCOLANO, NELL'ECONOMIA LOCALE, LA CRISI È FINITA.

Consumiamo di più nei piccoli negozi e mercati di quartiere

- Consuma ciò che producono i tuoi amici e il tuo paese!!!

- Se il tuo amico ha una micro impresa, compra i suoi prodotti!

- Se il tuo amico vende vestiti, comprali!

- Se il tuo amico vende scarpe, comprale!

- Se la tua amica vende dolciumi, compra!

- Se il tuo amico è un contabile, vai a chiedere consiglio!

- Se il mio amico possedesse un ristorante ... Cosa ne pensi? Vorrei mangiare lì!

- Se un mio amico avesse un negozio, in quello comprerei!

Alla fine della giornata, la maggior parte dei soldi viene raccolta da grandi società e cosa credi? Vanno via dal paese! Ma quando acquisti da un imprenditore, una piccola impresa di medie dimensioni o dai tuoi amici, li aiuti, tutti noi vinciamo e contribuiamo alla nostra economia.

Sosteniamo l'imprenditorialità ...

Vittimismo narcisista. La sfida titanica del liberalismo nell’America Latina. Loris Zanatta su L'Inkiesta il 7 Dicembre 2023

Nel libro "Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario. Miti e realtà dell'America Latina" (IBL Libri) Carlos Rangel spiega che il nazionalismo latinoamericano glorifica la povertà, l'autarchia e il populismo per giustificare il fallimento economico attraverso una presunta superiorità morale

Con l’elezione di Javier Milei a presidente dell’Argentina, il Sudamerica è tornato un tema di attualità. Riuscirà Milei, con le sue radicali riforme, a risollevare un Paese con una povertà dilagante e una inflazione a tre cifre? Anche altri Stati di quell’area versano in condizioni di grande instabilità oppure sono stati oggetto di esperimenti sociali che hanno però portato a esiti catastrofici, come nel caso del Venezuela. I mail del Sudamerica hanno radici lontane. Un libro che aiuta a spiegare questi fallimenti è “Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario. Miti e realtà dell’America Latina” di Carlos Rangel, pubblicato di recente da IBL Libri. Proponiamo di seguito un brano della prefazione di Loris Zanatta, tra i maggiori studiosi italiani di storia del Sudamerica.

Il tempo passa per tutti, ma se c’è un autore che porta bene gli anni è Carlos Rangel, se c’è un libro che porta con dignità le rughe è questo: il “buon selvaggio” è sempre di moda, “il buon rivoluzionario” non muore mai. Oggi come nel 1976, quando uscì la prima edizione, l’uno è sempre pronto a travasarsi nell’altro, in America Latina e altrove. La miglior prova? Che il vespaio di polemiche, l’indignata intolleranza che sollevò allora tra i benpensanti del mondo accademico e intellettuale, si ripetono ancor oggi a ogni testo che, foss’anche alla lontana, ne calchi le orme, ne rifletta lo spirito, ne raccolga l’eredità.     

Certo, Rangel era più solo che mai: inneggiare alla democrazia liberale, additare gli Stati Uniti a terra di insegnamenti, perorare le virtù del mercato era, nell’America Latina degli anni ’70, come bestemmiare in chiesa. Immagino il suo grado di frustrazione e delusione, impotenza e isolamento. Ma per quanto quell’ottusa e violenta cappa che opprimeva i suoi ideali si sia da allora diradata, c’è ancora. Con buona pace dei tanti che, atteggiandosi a eterne vittime, si credono “contro egemonici” perché invocano la “rivoluzione” e “combattono il capitale”, l’unica corrente ideale che in America Latina vanta tale etichetta è il liberalismo: le ha avute tutte contro! È sempre stato minoritario! Ha dovuto risalire la corrente, piantare radici in un suolo dove l’acqua di cui ha bisogno mancava. Contro egemonico è Carlos Rangel, non certo Ernesto Laclau, Octavio Paz, non certo Eduardo Galeano, Mario Vargas Llosa, non certo Gabriel García Márquez!   Per chi, come me, da trent’anni insegna in un’università italiana, non c’è dubbio: quel che scriveva Rangel, che «essere rivoluzionario in un’università latinoamericana è tanto eretico come essere cattolico in un seminario irlandese», rimane in larga parte vero. Il miracolo del conformismo rivoluzionario si ripete a ogni generazione, puntuale come le tasse, fatale come la morte. I bisnonni credevano nella rivoluzione cubana, i nonni nei sandinisti, i padri in Hugo Chávez, i figli in Evo Morales, i nipoti in Andrés López Obrador. Non sarà un caso, semmai questione di fede: “la rivoluzione è come una religione”, diceva Fidel Castro che se ne intendeva; e la religione è ripetizione, rito, liturgia, dogma. La religione della rivoluzione conserva la sua comunità di credenti, la fede si tramanda e non si estingue.  Rangel aiuta a spiegarlo con coraggiose convinzioni e brillanti intuizioni. La parabola storica dell’America Latina, osservava, è “fallimentare”. Difficile dargli torto: nel 1976 la regione era un cimitero; violenta e povera, iniqua e convulsa, si contorceva quasi per intero sotto il tallone dei militari, sommersa da due decenni di furenti crociate ideologiche. Sviluppo? Poco. Istituzioni? A pezzi. Futuro? Nero. Però fioccavano utopie: tutti agitavano una spada, tutti brandivano una croce, tutti invocavano un Regno di Dio, il loro Regno di Dio. Lo Stato di diritto non importava a nessuno.

Da allora i passi avanti sono stati più di quelli indietro. Ma se accorciamo l’arco temporale, se misuriamo il presente raffrontandolo agli anni ’80 e ’90 dello scorso, alle speranze di quella primavera democratica, i passi indietro sono più di quelli avanti. L’implacabile diagnosi di Rangel, l’amara constatazione del “fallimento storico” dell’America Latina, rimane perciò attuale: rimasta al palo mentre l’Asia decollava, cresce poco e innova meno, combatte la ricchezza più che estirpare la povertà, coltiva l’eguaglianza affondando tutte le navi. Le sue democrazie imbarcano acqua da ogni parte: laddove un tempo si bussava alle porte delle caserme ci si scanna per controllare il potere giudiziario e scriversi Costituzioni su misura. Chi ci riesce, prende tutto il potere e il bottino, chiude la porta e butta via le chiavi. Capita così che mentre speravamo si liberalizzasse Cuba si sono cubanizzate Venezuela e Nicaragua, Argentina e Messico sono di nuovo come già furono i poli del populismo latino, l’asse liberale del Pacifico perde colpi e rischia il crollo. Se poi si pensa che sul fronte opposto s’erge Jair Bolsonaro, siamo fritti: l’involuzione democratica è lampante.      

Mentre l’ennesimo treno perduto lascia la stazione, ecco così elevarsi la consueta sinfonia del nazionalismo latino: che la povertà è “virtù”, che l’autarchia è “identità”, che il populismo è “cultura” del “popolo”, che l’inefficienza, il familismo, il clientelismo sono sane resistenze alla tirannia “economicista”, “tecnocratica”, “neoliberale”. Che la “colpa”, va da sé, è dei ricchi e dell’Impero: la teoria della dipendenza, sommersa dai fatti, sopravvive nei cuori. L’epica nazionalista s’ammanta di vittimismo, narcisismo, spiritualismo: no pasará, urla in cagnesco al demoniaco “materialismo”. È sempre la stessa storia: Davide contro Golia, una compiaciuta narrazione del declino, un’autoindulgente esibizione di presunta superiorità morale utile a giustificare il fallimento materiale.   

La cugina di Gramsci. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

Oltre a un cognato del calibro di Lollobrigida, Giorgia Meloni può vantare anche un cugino come Antonio Gramsci. Dobbiamo la sensazionale scoperta ad Alessio Vernetti, analista politico di Youtrend, che si è trasferito per un lungo picnic sotto gli alberi genealogici di Ghilarza, comune di quattromila anime in provincia di Oristano. E lì ha potuto appurare come la nonna del fondatore del partito comunista lasciato marcire in carcere da Mussolini avesse sposato in prime nozze il fratello della nonna della bisnonna dell’attuale premier di destra. Mi gira già troppo la testa per azzardare il grado preciso di parentela: me la caverò con «cugini alla lontana per via della bisarcavola», che in un Paese di familisti accaniti come il nostro è già un legame piuttosto stringente.

Dirà qualcuno: anche Berlinguer e Cossiga erano cugini. Vero, ma la distanza politica tra loro era poco più di un vicoletto, se paragonata al Gran Canyon che separa Gramsci e Meloni. I quali, giusto per completare l’arco costituzionale, risultano imparentati anche con entrambi i Letta: lo zio Gianni e il nipotino Enrico, Forza Italia e Pd. Altro che premierato forte, siamo alla maggioranza bulgara, anzi sarda. In attesa di capire chi esercita l’egemonia culturale sugli altri (ma un sospetto ce l’ho), tornano alla mente le parole definitive di Ennio Flaiano: «In Italia è impossibile fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti».

Giorgia Meloni "discende da Gramsci, come Letta". C'è l'albero genealogico. Il Tempo il 02 dicembre 2023

Legami di famiglia e alberi genealogici impensabili entrano nel dibattito politico, almeno come "curiosità". Giorgia Meloni in qualche modo discende da Antonio Gramsci, nume tutelare della sinistra, così come per un altro ramo della famiglia, Enrico Letta. A fare la curiosa scoperta è Alessio Vernetti, analista politico di YouTrend e appassionato di genealogia. "La nonna di Gramsci sposò in prime nozze il fratello di una 'bisarcavola' (il nonno di un bisnonno, ndr) di Giorgia Meloni. A Ghilarza (Oristano) gli avi di Giorgia Meloni si intrecciano con quelli di Antonio Gramsci e, tramite quest’ultimo, con Gianni ed Enrico Letta. Così ho scoperto il legame familiare tra tutti loro", spiega in una serie di tweet in cui mostra con grafici e collegamenti l'albero genealogico dello storico segretario del Partito comunista italiano.

I legami parentali di Letta con l'intellettuale erano noti, non quelli della premier. "Elsa Bazzoni, nonna materna di Letta, era infatti cognata di Franco Paulesu, che a sua volta aveva come zio Antonio Gramsci - spiega l'analista a Libero - il legame familiare tra Giorgia Meloni e Antonio Gramsci, invece, è più remoto, e per comprenderlo bisogna passare per il nonno paterno della premier, il regista Nino Meloni", nato nel 1899 a Ghilarza, lo stesso paesino dell’entroterra sardo da cui proveniva anche la madre di Gramsci. Tecnicamente, "sono legami non di sangue, ma 'acquisiti'", spiega Vernetti. Tra l'altro, nella tortuosa genealogia gramsciana, potrebbe spuntare un legame anche con Santi Licheri, il giudice scomparso noto ai più per Forum, il programma Mediaset... 

L’albero genealogico che lega Giorgia Meloni, Antonio Gramsci ed Enrico Letta. Il Posta l'1 dicembre 2023

Probabilmente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è imparentata molto alla lontana con il filosofo Antonio Gramsci, storico segretario generale del Partito Comunista d’Italia e fondatore dell’Unità. Lo sostiene l’analista politico di YouTrend Alessio Vernetti, che è anche un appassionato di genealogia e ha fatto una approfondita ricerca per dimostrarlo. In un thread su X (Twitter) Vernetti ha scritto che in base alle sue ricostruzioni la nonna di Gramsci sposò in prime nozze il fratello di una bisarcavola di Meloni, cioè la nonna di una sua bisnonna. Sia Gramsci sia Meloni, poi, sono imparentati alla lontana con l’ex segretario del Partito Democratico Enrico Letta: anche questo legame, di cui si era già parlato in passato, è stato ricostruito da Vernetti.

Vernetti racconta che la sua ricerca era partita con la scoperta che Nino Meloni, il nonno paterno della presidente del Consiglio, era nato a Ghilarza, lo stesso paese dell’entroterra sardo dove crebbe Gramsci. Così, consultando diverse fonti, tra cui l’Archivio di Stato di Oristano, è arrivato a ricostruire l’albero genealogico delle famiglie, che sembra dimostrare il legame. Lo stesso Vernetti sottolinea che comunque la parentela tra Meloni e Gramsci è acquisita, e non deriva da un legame di sangue.
 Vernetti ha ricordato che anche l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del PD Enrico Letta era imparentato con Gramsci, come aveva detto lo stesso Letta nel 2021.

( Alessio Vernetti)

Il fantasma del comunismo è ancora qui. Redazione il 26 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il marxismo somiglia come una goccia d'acqua al fantasma del comunismo con cui Marx ed Engels aprivano nel 1848 il loro celeberrimo Manifesto del partito comunista. Il marxismo, difatti, se ne va in giro per l'Europa e dintorni proprio come un fantasma. Non è stato criticato, soprattutto in Italia, ma è stato soltanto rimosso. Così accade che ancora oggi, dopo che è stato smentito sia dalla storia sia dalla teoria, funzioni come ha sempre funzionato: a uso della propaganda politica. Se provate a sostituire la parola borghesia con patriarcato vedrete che l'ossessione di indicare un nemico, perfino inesistente, sul quale far ricadere tutte le colpe c'è ancora. Se rinunciate alla parola comunismo e la rimpiazzate con ambientalismo vedrete che l'ideologia anti-capitalista è ancora tutta in piedi. Persino il merito scolastico è visto tuttora come avveniva nel Sessantotto: la cultura della classe dominante. Ecco perché ci ha visto giusto Giancristiano Desiderio nello scrivere L'Anti-Marx. Anatomia di un fallimento annunciato, ora uscito per Rubbettino.

È molto nota anche la battuta con cui Marx, avvertendo già puzza di bruciato, prendeva le distanze dai marxisti: «Io non sono un marxista, io sono Karl Marx». Proprio su questa battuta di spirito hanno tante volte puntato i marxisti nel tentativo di salvare capre e cavoli: cioè sia Marx sia il marxismo. Il libro di Desiderio, invece, mette in luce proprio l'appartenenza del pensiero di Marx alla sua «falsa coscienza» perché già nell'Ottocento si era capito come mise in luce giustamente Eugenio Duhring che l'idea di Marx di far passare il comunismo dall'utopia alla scienza era insieme falsa e pericolosa. Marx stesso lo capì e non trovò di meglio da fare che ordinare a Engels di seppellire il povero signor Duhring sotto un cumulo di sciocchezze come le trecento pagine dell'Anti-Duhring: un testo anti-scientifico sul quale, osserva giustamente Desiderio, ancora si studiava nelle università italiane negli anni Ottanta del secolo scorso!

Giancristiano Desiderio mette in luce l'arbitraria unione di economia e di filosofia che compie Marx nel tentativo pasticciato di capovolgere il pensiero di Hegel. Il risultato non è né il superamento di Hegel, né dell'economia classica di Smith e Ricardo ma un'ideologia propagandistica che ha sempre spiegato i fallimenti Berlino 1953, Budapest 1956, Praga 1968, Mosca 1989 cambiando i fatti veri per salvare la teoria falsa. È la nascita della mentalità totalitaria tipica del marxismo che, nota Desiderio, non è una «Filosofia del potere» cioè che limita il potere ma una «filosofia di potere» concepita e costruita sull'invidia per conquistare il potere.

Il fallimento annunciato di Marx. Antiscientifico e ideologico: il sistema economico sovietico non poteva stare in piedi. Giuseppe Bedeschi il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il marxismo, cioè la dottrina economica e politica di Marx, ricevette critiche e attacchi distruttivi già non molti anni dopo la morte del Maestro (avvenuta nel 1883). Nel 1899 Eduard Bernstein già stretto collaboratore di Engels ed eminente personalità della socialdemocrazia tedesca pubblicò un libro destinato ad avere una enorme eco nei movimenti socialisti del mondo intero: I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Esso costituiva la prima grande sfida revisionistica, lanciata da un seguace di Marx ed Engels, contro il marxismo. Di quest'ultimo Bernstein non risparmiava nulla: né l'analisi socio-economica del capitalismo e delle sue tendenze di sviluppo, né la teoria e il programma politici, né il metodo (la dialettica).

Bernstein rifiutava in primo luogo la previsione formulata nel Manifesto del Partito comunista e in altri scritti di Marx, secondo la quale la società capitalistica altamente sviluppata avrebbe determinato la scomparsa delle classi intermedie e si sarebbe divisa in due soli campi nemici: uno (relativamente ristretto di capitalisti) e uno (largamente maggioritario) di proletari. «L'acutizzazione dei rapporti sociali diceva Bernstein non si è compiuta nel modo raffigurato dal Manifesto. Nascondersi questo non solo è inutile, ma è una vera e propria follia. Il numero dei possidenti non è diminuito, bensì è aumentato. () Gli strati intermedi mutano il loro carattere ma non scompaiono dalla scala sociale». I tratti dello sviluppo capitalistico sui quali Bernstein più insisteva erano essenzialmente tre: in primo luogo la grandissima estensione della forma della società per azioni, che permetteva la creazione di un numero crescente di azionisti piccoli e medi; in secondo luogo, il fatto che in tutta una serie di branche industriali la grande azienda non assorbiva le piccole e medie aziende (le quali mostravano una indubbia vitalità), bensì si sviluppava convivendo con esse, sicché era illusorio attendersi la loro scomparsa; in terzo luogo, un notevole sviluppo delle classi intermedie, reso possibile dal grande aumento della produttività del lavoro. Da tutto ciò Bernstein ricavava che, «ben lungi dall'essersi semplificata rispetto a quella precedente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi, sia per quanto concerne le attività professionali».

È evidente che dopo questo colpo di ariete l'edificio economico-politico costruito da Marx crollava. Ma il pensiero critico avrebbe continuato a corrodere gli schemi marxiani, mostrandone l'inconsistenza e la falsità. Un acuto quadro di tutto ciò è offerto da Giancristiano Desiderio nel suo ultimo saggio: L'AntiMarx. Anatomia di un fallimento annunciato (edito da Rubbettino, pagg. 128, euro 14).

L'Autore mostra assai bene come la marxiana teoria del valore-lavoro sia antiscientifica. «Il valore dei beni prodotti dal lavoro ha scritto Marx è uguale alla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrli». A ciò il grande economista Boem-Bawerk obietterà che nell'economia di un paese non rientrano soltanto le merci prodotte dal lavoro, ma hanno un ruolo fondamentale anche beni esistenti in natura come la terra, la legna degli alberi, le risorse idriche, i depositi di carbone, le cave di pietra, i giacimenti di petrolio, le acque minerali, le miniere d'oro... Avere escluso tutto ciò dall'analisi economica è un peccato mortale di metodo. Desiderio, a sua volta, insiste giustamente su un punto: che il lavoro di cui parla Marx non è il lavoro di cui parlano gli economisti, ma è il «lavoro alienato» dei Manoscritti economicofilosofici del 1844, o il «lavoro astratto» del Capitale. Cioè è un lavoro concepito in termini ideologici ricavati dalla filosofia di Hegel, cioè dal concetto hegeliano di alienazione. È questo lavoro ideologizzato che permette a Marx di enunciare concetti come il «plusvalore» (un non senso in economia), lo «sfruttamento», ecc. In realtà, dice giustamente Desiderio, il marxismo non è conoscenza e non è scienza, ma un ibrido: «Quando si crede di avere a che fare con la scienza si ha invece a che fare con l'ideologia, e quando si ritiene di trovarsi dinanzi l'ideologia si ha invece a che fare con descrizioni, osservazioni, ipotesi e analisi politiche. Proprio questo è il carattere fondamentale dell'opera di Marx: la sua natura pubblicistica o giornalistica e polemista».

Ma il pensiero di Marx non è solo fallace, è anche estremamente pericoloso. Perché, come dice Desiderio, la dittatura del proletariato che, secondo il filosofo di Treviri, avrebbe dovuto essere provvisoria, il tempo necessario per traghettare gli uomini dal capitalismo al comunismo, diventa definitiva, e si trasforma in dittatura sul proletariato con tanto di capitalismo di Stato. Uno Stato onnipotente, pronto a calpestare le vite degli individui.

Questo il messaggio salvifico di Marx e del marxismo: un messaggio che, ovunque si è realizzato, ha provocato sofferenze inaudite per i cittadini.

Fabio Martini per huffingtonpost.it - Estratti venerdì 17 novembre 2023.

Sono nove mesi ormai che Elly Schlein guida il Pd, ma il mondo politico-mediatico fatica ancora a riconoscere e definire i tratti assolutamente originali della sua leadership, il “cuore” della sua personalità. Il rifiuto opposto dalla segretaria del Pd all’invito di Giorgia Meloni a partecipare alla prossima festa di Atreju aiuta a sciogliere l’enigma. 

Nei mesi scorsi non sono mancati, da parte del “nuovo” Pd, segnali di settarismo – un approccio che peraltro accomuna tutti i partiti in questa fase – ma Elly Schlein sta sperimentando qualcosa in più. 

Una forma mai vista di partito personale, secondo un adagio che si potrebbe riassumere così: la purezza del capo è tutto, il resto non conta. Qualcosa che va oltre il tradizionale “il partito sono io”, perché la novità sta invece in questa idea di purezza, di procedere incontaminati nel firmamento politico.

Nei mesi questa suggestione di purezza era stata praticata, avvalorando un’idea davvero originale: chi è venuto prima di Schlein sostanzialmente è “superato”.  

(...)

Ora il rifiuto all’invito di Atreju. Naturalmente Schlein è libera di andare dove crede, con chi crede e di negarsi con le ragioni che la paiono giuste. Al tempo stesso liberi tutti di constatare che mentre la festa dei pretesi “fascisti” di Atreju è da sempre aperta a tutti, la Festa dell’Unità è diventata un ritrovo monocorde, dove si canta una sola canzone: puri, purissimi. Ma soli.

Tra l’altro quelle feste in solitudine sono anche l’approdo forastico e finale di una lunga storia, quella della Festa dell’Unità, che ai tempi del Pci e dell’Ulivo era stato luogo di dibattiti a tutto campo con amici e avversari. Ora il no ad Atreju racconta qualcosa in più: la vocazione a preservare la purezza in una torre eburnea. Una rivendicazione di isolamento che ha i suoi rischi ed evoca una deliziosa e profonda riflessione di Stendhal: “Si può acquistare tutto nella solitudine, eccetto un carattere”. 

Da Bertinotti a Veltroni: un promemoria per Elly. I leader che non hanno avuto paura di Atreju. Guido Liberati su Il Secolo d'Italia venerdì 17 novembre 2023.

«C’era un tempo nel quale Fausto Bertinotti non aveva timore a presentarsi e dialogare, pur dall’orgoglio della diversità delle posizioni, ora colgo che le posizioni sono cambiate», osserva Giorgia Meloni commentando l’annunciato “no” di Elly Schlein all’invito formulato dei giovani di Atreju.  «Io – osserva il presidente del Consiglio – mi sono sempre presentata quando sono stata invitata e sono stata io ad aprire agli inviti. Ricordo diversi capi di governo della sinistra, l’attuale commissario europeo (Gentiloni), Enrico Letta. Sarebbe una delle pochissime volte in cui una persona dice di no».

Una posizione ribadita in queste ore anche dall’ex senatore Pd, Carlo Cottarelli. «Schlein doveva andare ad Atreju e invitare Meloni ad andare alla prossima festa dell’Unità», dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Cottarelli.

Quando Almirante andò a Botteghe Oscure per rendere omaggio a Berlinguer

Il caso di Elly Schlein che ha detto” No, grazie”, ad Atreju, la festa di FdI. I cronisti politici non possono non ricordare a proposito di ben altre scelte, quanto accadde alle esequie del leader comunista Enrico Berlinguer, nel giugno dell’84. Con un raro coraggio, viste le circostanze e le asperità politiche del momento, ai funerali si presenta Giorgio Almirante. «Sono venuto per salutare un uomo onesto», dice il leader Msi varcando la soglia di Botteghe oscure. Massimo Magliaro, ex braccio destro di Almirante, ha ricordato più volte: «All’uscita mi disse, telefona a donna Assunta. Dille che è andato tutto bene». Non molti anni dopo, nell’88, furono Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti a rendere omaggio alla salma di Almirante ai suoi funerali. Altri tempi, altri scenari. Altre personalità politiche.

I precedenti nella tana del lupo: da Fini a Bertinotti

Ma la sostanza del leader che decide di varcare la soglia della “tana del lupo” dell’avversario non cambia. Nel ’95 Walter Veltroni invita Gianfranco Fini ad un faccia a faccia alla festa dell’Unità: “Il valore della festa è questo, confrontarsi tra schieramenti avversari con rispetto e nel comune obiettivo di lavorare per il bene del Paese”, dice Veltroni. L’album dell’94 è invece pieno di foto di Indro Montanelli sotto il simbolo della Quercia: il giornalista è ospite d’onore alla festa dell’Unità di Modena, accolto con una standing ovation (Montanelli ha appena litigato con Berlusconi e lasciato il ‘Giornale’). “Vi prego, basta applausi, ve lo chiedo per legittima difesa”, implora il giornalista. Foto per foto, resta negli annali quella del ’96 del Gabibbo con Massimo D’Alema, in visita agli studi Mediaset: “Un’azienda che è un patrimonio per l’Italia”, dice il segretario del Pds. Poi, con il passare degli anni, la politica cambia. Aumenta la quota spettacolo. E i faccia a faccia insoliti tra i leader si moltiplicano.

Atreju e i faccia a faccia: da Berlusconi a Bertinotti, da Fico a Letta

Atreju ne ha fatto un marchio di fabbrica. Alla festa di FdI si sono visti, negli anni, Silvio Berlusconi, Fausto Bertinotti, Rosy Bindi, Walter Veltroni, Luciano Violante, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Matteo Renzi, per citarne alcuni. Tutti, Bertinotti incluso, sono rimasti vittime di scherzi e spietate goliardate dei giovani “fratelli” d’Italia. La Schelin non ci sarà.

Lollobrigida sul No della Schlein: “Atreju era un’opportunità di confronto”

Come osserva il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, «se fosse stata invitata e non volesse partecipare è una scelta libera. Noi siamo sempre aperti al confronto e non abbiamo paura di confrontarci in nessun luogo, abbiamo sempre partecipato alle feste del Pd e ad Atreju abbiamo avuto ministri del Pd e dei Cinque stelle». «Sentivo che lei si confronta solo in Parlamento – aggiunge Lollobrigida – Ci mancherebbe, ciò non toglie che i partiti sono un elemento essenziale della vita democratica e i luoghi in cui ci si confronta sulle differenze e soprattutto sulle convergenze per il sistema Italia penso possano essere un’opportunità». 

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 17 novembre 2023. 

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Ci vado o non ci vado alla festa di Atreju di Giorgia Meloni? No che non ci va Elly Schlein, che ha preso tempo per rispondere solo per finta, visto che non ha intenzione di cinguettare con la premier, né, tantomeno, di uscirne burattino, o ciuchino, o vassallo, anche se il rischio di finire avvelenata è comunque inesistente. Soprattutto non vuole partecipare al gioco della legittimazione del nemico, che la parola avversario è buona solo per i tempi di pace, e con le elezioni europee alle porte proprio non se ne parla.

Che tanto, per riconoscersi figli di un unico Paese, ci sarà tempo, magari un giorno, quando forse i rapporti di forza si saranno invertiti. 

Non che non si possa andarci lo stesso, quando pare che convenga, alla corte del nemico. Massimo D’Alema ci andò a Mediaset, proprio nella sede e con occhio padronale, a dire che: «Non sono qui per rendere omaggio a Silvio Berlusconi, ma a un’azienda che è un patrimonio per l’Italia». E proprio Berlusconi si autoinvitò a sorpresa sotto casa, alla festa dell’Unità in quel di Arcore, per fare il mattatore, due ore da affabulatore, fino a bamboleggiare: «Vedete, miei cari, sono un compagno anch’io, come voi, però riformista».

E d’altra parte aveva già detto di essere pronto ad iscriversi al Pd, dopo la relazione di Piero Fassino a un congresso. Ma pure Giorgia Meloni, già premier, c’era andata all’assemblea della Cgil a rivendicare il confronto, perché «la ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori». Anche se oggi, dopo la precettazione, sarebbe meno facile. Addirittura, Indro Montanelli salì sul palco di una festa dell’Unità: «Vi prego, basta applausi, ve lo chiedo per legittima difesa». 

La festa di Atreju è l’invenzione geniale di una Giorgia Meloni poco più che ragazzina, debuttò 25 anni fa, nel 1998. Atreju è un bambino Pelleverde nel libro e nel film La storia infinita, e ha occhi scuri che vedono fino all’orizzonte.

Politica e goliardia. Memorabile la «Kazirata» a Gianfranco Fini, quando i giovani di Atreju chiesero all’allora ministro degli Esteri di sostenere la causa dell’inesistente e oppresso popolo kaziro. O quando Berlusconi fu costretto ad inventare per condannare vita e opere di un immaginario dittatore comunista, o quando a La Russa venne chiesto di spiegare la presenza di militari italiani a Paros, o a Veltroni di parlare della borgata Pinarelli. 

Tutto questo prima di finire lei stessa, Giorgia Meloni, infilzata dai due buontemponi russi. Poi sempre meno scherzi e più politica, fino a contendere a Bruno Vespa lo scettro di «Terza Camera» prima dell’elezione del presidente della Repubblica.

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Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” - Estratti venerdì 17 novembre 2023. 

Eppure ad Atreju c’è sempre stato posto per tutti: Platinette ed Enrico Letta, la gara di poker con Pupo e il presepe vivente dagli Abruzzi, il cooking show del divo chef e il cane lupo cecoslovacco, accreditata mascotte della kermesse reperibile nell’albo d’oro digitale dei Fratelli d’Italia con il mitologico nome di Thor, divinità germanica fornita di terrificante martellone.

In questo senso Schlein si è sottratta a un astuto e vantaggioso intrattenimento di cui l’attuale premier è da sempre abile impresaria e stratega. Il punto di partenza e un po’ anche la schermatura culturale di Atreju è l’innesto del fantasy pop sugli incerti orizzonti della destra un tempo orfana, oggi addirittura dimentica del nostalgismo neofascista. Come tante altre cose di quel mondo, se l’era inventata alla fine del secolo scorso Fabio Rampelli, ma il prima possibile l’ha fatta sua Giorgia Meloni, poco più che adolescente, che certamente l’ha cresciuta sagomandola a sua immagine e somiglianza fino a trasformarla in palestra, piattaforma, passerella, laboratorio tricolore, salotto televisivo e infine sagra piaciona del sovranismo. 

Invano qualche anno fa Roberto Saviano ha cercato di togliere ad Atreju la patina destrorsa facendo presente che il ragazzo guerriero del cine film d’importazione “La Storia Infinita” che dà il nome alla festa risulterebbe “cresciuto da tutti” e quindi senza il papà, la mamma e la santa famiglia naturale che tanto sta a cuore ai patrioti. In realtà il Mito è appunto un mito, ma soprattutto l’odierna politica privilegia manifestazioni di natura estesa, sincretica e polivalente che, tradotto dal sociologese, sta a significare il minestrone, di tutto un po’, basta che finisca sui giornali, in tv, sui social, eccetera.

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Per quattro anni di seguito Renzi ha rifiutato l’invito per poi cedere nel 2021. Bertinotti e Letta hanno fatto meno storie, Conte è venuto due volte, una con il figlio Nicolò. Marco Minniti ha acceso la platea raccontando della scrivania del duce e solleticandola con il motto scioglilingua di Italo Balbo: «Chi vola vale e chi vale ma non vola è un vile». Da sindaco ecumenico, e quindi con rassegnazione, Walter Veltroni si è sottoposto al rito goliardico della domanda trabocchetto rispondendo sulle cattive condizioni della borgata Pinarelli, che non esiste. 

Nel 2011 fece scalpore l’uniforme dei giovani volontari con badge tricolore e maglietta nera, però furbamente attenuata da scritta gandhiana in lettere d’oro: “Sii il cambiamento che vuoi vedere”.

Per diversi anni il grande mattatore di Atreju è stato il Cavaliere che su questo palco, montato all’ombra del Colosseo, ha fatto il numero della “zanzara comunista”, con volée e finto schiaffone, e pietosamente ha spiegato il baciamano a Gheddafi: «L’ho fatto per educazione, lì si usa così». 

Nel 2017 risuonò il gioioso riconoscimento di Toti: «Sono andato a fare la pipì e ho trovato il bagno pulito come a casa mia». Nel 2018, all’Isola Tiberina, venne Steve Bannon a parlare dei fratelli Gracchi e l’anno seguente Orban. Poi i titoli, un tempo risoluti e marinettiani - “È tempo di patrioti”, “Sfida alle stelle” si sono un po’ smosciati e l’ultimo Atreju era dedicato al “Natale dei conservatori”. Parabola abbastanza scontata. C’erano pure orsi bianchi animati e danzanti, al collo avevano un fazzoletto rosso, ma nessuno ci ha fatto caso.

Estratto dell’articolo di Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” martedì 28 novembre 2023.

È un fatto ormai, specie tra i politici che rischiano il fine corsa, che nessuno più voglia andare a dare il pane alle papere al laghetto di villa Borghese. 

[…] Non finché c’è un traditore da buttare nella pattumiera della storia o, meglio, una traditrice, ché nel mirino di Gianni Alemanno c’è proprio lei, Meloni Giorgia. 

Lei, che «ha sfottuto Putin che invoca una soluzione per la pace», lei che guida il governo più atlantista e servo degli Usa che l’Italia abbia mai avuto, lei che si stringe nell’abbraccio con Ursula von der Leyen quando sarebbe bene invece uscire dall’Europa, lei che si è astenuta su Gaza all’Onu, lei che straccia gli accordi con la Cina, lei che affonda il reddito di cittadinanza rinnegando Almirante, che diceva: «L’Msi come valori sta a destra, ma sulla giustizia sociale è vicino alla sinistra».

Ed eccolo qui Gianni, allora, pronto a dar battaglia con una sciarpa palestinese al collo, insieme all’ultimo samurai rosso Marco Rizzo, in due per la riedizione di quello che Antonio Pennacchi faceva tutto da solo: il fasciocomunista. 

Obiettivo: le elezioni europee, piazzandosi a destra della destra e contro Meloni il falso papa, in un’area che, per la verità, si annuncia già molto affollata […]. 

D’istinto, verrebbe da derubricare tutto sotto la voce combattenti e reduci. Non fosse che, nel vasto perimetro post-fascista della Capitale, il nome di Gianni Alemanno vuol dire ancora qualcosa. Nato a Bari quasi 66 anni fa, adottato dalla Lupa quando aveva appena 12 anni.

Rautiano nel Fronte della gioventù con l’amico e concorrente, l’almirantiano Gianfranco Fini. Arrestato tre volte. Per l’aggressione allo studente Dario D’Andrea: assolto. Per aver lanciato una molotov o forse per un parapiglia vicino all’ambasciata dell’Unione Sovietica: assolto. 

Per aver organizzato una contromanifestazione a favore dei combattenti della Repubblica di Salò, mentre Bush deponeva una corona al cimitero militare di Nettuno: prosciolto. In mezzo l’Msi, l’abiura del fascismo e la nascita di An, ministro dell’Agricoltura con Berlusconi, il migliore di quel governo, disse D’Alema. Il matrimonio con Isabella, la figlia di Rauti. La rottura 25 anni dopo e l’unione con Silvia Cirocchi.

Entra ed esci, con Storace e senza, da un’associazione all’altra, sconfitto da Veltroni nella corsa a sindaco di Roma, vincente rovesciando le sorti al ballottaggio contro Rutelli, battuto da Ignazio Marino. 

Una passione per la montagna e le arti marziali. Sospettato di essere lui il super ultra-destro camuffato che scala le istituzioni nel film Caterina va in città . Una lunga catena di disavventure giudiziarie. Per la vicenda Parmalat e per sospette vacanze-merenda: prosciolto dal tribunale dei ministri.

Per finanziamento illecito: prescrizione. Per illeciti sulle nomine: il fatto non sussiste. Per abuso d’ufficio per l’affidamento dell’ippodromo delle Capannelle: archiviazione. Per danno erariale: assolto con formula piena. Unico inciampo l’inchiesta sul «Mondo di mezzo». 

Libero da non provate accuse di corruzione, incappa nella condanna a un anno e dieci mesi, in via definitiva in Cassazione, per traffico di influenze illecite.

L’ex primo cittadino di Roma dovrà scontarla ai servizi sociali, una misura alternativa, concessa dal tribunale di sorveglianza, presso la «Sospe-Solidarietà e Speranza», sotto l’ala di suor Paola. 

«Terrò corsi di italiano ai migranti — racconta Alemanno —. Con la condanna mi è stato imposto un prezzo politico? Penso di sì. La decisione è figlia di una suggestione. Quella per cui la destra romana è vicina ad ambienti malavitosi».

[…] Nulla di strano, perché il segno dei Pesci, che accompagna Alemanno dalla nascita, oltre a spingere al desiderio irrefrenabile di camminare scalzi, è molto altruista: ha una sorta di spirito da crocerossina, o infermieristico, che lo porta ad ascoltare e a comprendere.

 Unico intoppo, specie in campagna elettorale: non si può uscire prima delle sette e bisogna rincasare entro le ventidue. Vietato l’abuso di sostanze alcoliche e non ci si può allontanare dalla Regione senza nullaosta dei magistrati.

(ANSA martedì 14 novembre 2023)  "Smentisco la mia partecipazione al Forum dell'Indipendenza Italiana del 26 novembre p.v., evento fondativi di un nuovo partito di destra. L'invito che mi era stato rivolto si riferiva ad una tavola rotonda sulla questione israelo/palestinese e, essendo io fermamente convinto della necessità di dialogare soprattutto con chi non la pensa come me, avevo accettato". Lo precisa in una nota Moni Ovadia.

Matteo Pucciarelli per repubblica.it - Estratti martedì 14 novembre 2023.

Il rosso e il nero, lo stalinista mai pentito di qui e la croce celtica al collo di là. Eccola la strana coppia, appuntamento a Roma il 26 novembre al Midas: Marco Rizzo e Gianni Alemanno. Il primo ospite del secondo, a dire il vero, per l’assemblea di fondazione del Forum dell’indipendenza italiana, il movimento di opposizione (da destra) del governo Meloni, ispirato dall’ex sindaco di Roma. 

"Tanti dei miei vecchi compagni del Pci oggi sono al servizio dei banchieri e io non posso parlare con Alemanno?”, domanda l’ex parlamentare di Rifondazione e del Pdci, oggi impegnato nella costruzione di Democrazia sovrana popolare. ‘Dai mondi del dissenso all’alternativa politica e sociale’, è il titolo dato alla tavola rotonda, dove sono previsti gli interventi anche di Moni Ovadia, della ex diplomatica Elena Basile e dell’ex finiano Fabio Granata.

Il non detto di tutta la faccenda è che ci sono le Europee in vista e il frastagliato mondo sovranista, di destra e di sinistra per restare nelle ‘vecchie’ categorie, potrebbe coagularsi attorno ad una sola lista. Presto per dirlo, ma le convergenze ci sono tutte e la volontà di andare oltre agli schemi sembra trasversale. "Il mondo cambia velocemente – ragiona Rizzo – e attorno al tema della pace si possono trovare alleanze. Sul fronte delle aziende manca una rappresentanza politica per le piccole e medie imprese, mentre su quello dei lavoratori il sindacalismo concertativo da sé non basta, come Dsp lavoriamo ad un progetto unitario sul lavoro”.

Ma è soprattutto sulla politica estera che le connessioni tra frange neo-comuniste e altre post-fasciste sono palesi: ostilità all’Europa e alla moneta unica, ostilità all’Ucraina, e poi tutti filo-palestinesi se non addirittura simpatizzanti con le ragioni di Hamas 

(…)

Rossobruni alle Europee, Ovadia: “Meglio Rizzo e Alemanno del Pd”. Adolfo Spezzaferro su L'Identità il 14 Novembre 2023

Arrivano i rossobruni per le Europee. Destra delusa dai governisti meloniani e sinistra delusa dal Pd made in Schlein: l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno con il comunista Marco Rizzo, passando per l’artista e attivista Moni Ovadia. Tutti insieme in occasione dell’assemblea di fondazione del Forum dell’indipendenza italiana, domenica 26 novembre al Midas palace hotel di Roma. Obiettivo: togliere voti a Fratelli d’Italia, lo dichiara apertamente Alemanno, leader storico della destra sociale. Un parterre rossobruno appunto (un’alternativa alla obsoleta contrapposizione destra-sinistra) che desta non poche perplessità a sinistra, soprattutto per la presenza di Ovadia. Ma l’attore e cantante taglia corto: “È solo un confronto, mi ha invitato Marco Rizzo. Alemanno ha mostrato delle posizioni molto intelligenti sul Medio Oriente. L’americanismo è il nuovo fascismo. Non è che io faccio un partito con Alemanno, anzi secondo me i partiti oggi non servono a niente”. Ovadia quindi spara a zero contro il Pd, proprio perché assume posizioni atlantiste: “Siamo sottomessi ai diktat degli americani e ai loro desiderata”.

Alemanno vuole togliere voti alla Meloni

“L’ultima volta che ho sentito Giorgia Meloni? Un anno e mezzo fa, dopo che io avevo preso una posizione netta contro lo schieramento pro Ucraina dell’Italia – spiega Alemanno al Corsera -. Abbiamo lealmente preso atto che le nostre visioni politiche erano inconciliabili”. Anche perché l’obiettivo politico di Alemanno è conclamato: cercare di rubare consensi all’ala più a destra di FdI. “C’è un grande malessere e vogliamo dare voce a queste istanze, offrendo un’alternativa – riflette Alemanno -. Tanta gente di destra sta in FdI perché non vede altri sbocchi: noi non crediamo che la storia della destra stia in questo neoconservatorismo ultra-atlantista”. Il suo nuovo progetto politico è la base per un listone per le Europee: “Siamo aperti a tutti, da destra a sinistra, perché tutti i vecchi schemi politici stanno saltando”, afferma convinto.

Il compagno Rizzo ci mette il carico: “Se mi fa strano stare accanto ad Alemanno? Bah, non direi proprio: tanti compagni di strada cresciuti con me nel Pci ora sono servi delle banche – spiega il leader di Democrazia sovrana e popolare -. Perché la gente si scandalizza se parlo con Alemanno, che è contro la guerra in Ucraina, la Ue, la Nato e contro il Green pass?”. E poi: “Sta cambiando il mondo: la sovranità nazionale non è di destra”.

Rossobruni uniti per le Europee

Tra gli altri che parteciperanno all’assemblea, spicca Fabio Granata, ex deputato del Pdl e fautore della scissione con Gianfranco Fini e della sfortunata avventura di Fli. E come sigillo c’è Elena Basile, già diplomatica della Farnesina. A moderare la tavola rotonda intitolata “Dai mondi del dissenso all’alternativa politica e sociale”, Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità e conduttore della trasmissione “1984: piano di fuga” su Byoblu, salotto televisivo dei rossobruni.

Arrivano i rossobruni. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15 novembre 2023.

Il 26 novembre nascerà il partito degli indipendenti, così chiamati per distinguerli da noi, che siamo pieni di dipendenze: quasi tutte considerate legali, come la Nato, ma non per questo meno nocive. Quando gli indipendenti prenderanno il potere sarà un momento bellissimo. Moni Ovadia alla Cultura. Elena Basile agli Esteri per fondare l’Eurussia e sfrattare finalmente gli americani. Il sinistro-sinistro Marco Rizzo ministro dell’Economia con il ritorno della lira o, meglio ancora, del fiorino. E il destro-destro Gianni Alemanno premier forte-forte con delega agli Interni e all’amministrazione delle città: ruolo nel quale, come sindaco di Roma, ha già dimostrato di saperci fare. Il loro governo durerà tre minuti, dato che l’unica cosa su cui vanno d’accordo è l’odio per il sistema in cui vivono (piuttosto bene). Ma forse non comincerà neppure: ieri si sono già sfilati Ovadia e Basile, dichiarandosi vittime di un malinteso, evidente frutto di un complotto. Non avevano capito di essere stati invitati all’atto fondativo di un nuovo partito di estrema destra: pensavano fosse una pacifica tavola rotonda per discutere se tutto il male del mondo fosse colpa dell’America oppure un po’ anche di Israele.

Una bella fregatura. Perché anche noi servi del sistema, ogni tanto, vorremmo poter valutare un’alternativa. Ma finché gli indipendenti saranno rappresentati da un Alemanno o da un Rizzo, per giunta insieme, ci toccherà restare dipendenti a vita.

Rossobruni uniti contro l’Occidente. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023 

Caro Aldo, un vecchio amico, orecchiante di politica, usava dire «comunisti e fascisti, se non sono fratelli, sono figli di fratelli». Guardate Rizzo e Alemanno! Nino Cinà

Caro Nino, Purtroppo in Italia vige ancora un equivoco: se sei antifascista, allora sei comunista. Come se fossero comunisti Churchill, de Gaulle, Roosevelt, e in Italia Edgardo Sogno, il colonnello Giuseppe Montezemolo, il generale Raffaele Cadorna, il generale Giuseppe Perotti, il maggiore Enrico Martini «Mauri», insomma i capi militari della Resistenza al nazifascismo. Non ho il mito dei documenti, gli attori della storia non avevano come obiettivo la produzione di documenti, e non solo perché per millenni gli attori della storia erano analfabeti (compresi imperatori come Carlo Magno), e semmai la loro preoccupazione era cancellare le tracce, non produrle. Ma ogni tanto i documenti vanno studiati. Nel Manifesto degli intellettuali fascisti, voluto da Giovanni Gentile come risposta a quello di Croce, non si parla affatto di comunismo. Si parla di sconfitta del «demosocialismo». Il nemico era la democrazia, il Parlamento, le istituzioni liberali, e certo i militanti socialisti. Comunisti nell’Italia del 1919 non ce n’erano; e nell’ottobre 1922, al tempo della marcia su Roma, non c’era in Italia alcun pericolo di una rivoluzione bolscevica. È noto che Palmiro Togliatti lanciò un appello ai «fratelli in camicia nera», così come dopo la guerra accolse molti fascisti tra le file del partito comunista, a cominciare dal caso più eclatante, Curzio Malaparte. Il fenomeno dei rossobruni quindi ha radici antiche; ma oggi si manifesta in forme ovviamente diverse. Oggi l’estrema destra e l’estrema sinistra si toccano, perché hanno nemici comuni: il capitalismo, la globalizzazione, gli Stati Uniti d’America, Israele, insomma quello che chiamiamo Occidente. Vale a dire il sistema peggiore e la peggiore parte del mondo in cui vivere; a esclusione di tutte le altre.

Orizzonti politici. Perché il democratico antifascista poteva (e doveva) anche essere anticomunista. Massimo Teodori su Linkiesta il 18 Ottobre 2023

Nel Novecento gran parte degli intellettuali di sinistra descriveva la storia d’Italia come una dialettica tra il rosso e il nero. Nel suo libro “Antitotalitari d’Italia” (Rubbettino Editore), Massimo Teodori spiega perché è importante ridiscutere il ruolo delle forze politiche che hanno contribuito alla nascita della Repubblica 

Perché oggi è necessario ridiscutere delle personalità e dei partiti che nella Repubblica hanno dato vita a una politica antitotalitaria? L’ipotesi qui in discussione è che il singolare caso italiano sia stato segnato dalla mancanza di un dibattito storico e politico sull’antitotalitarismo, in quanto il Partito comunista e l’intellettualità di sinistra sono stati, in buona parte, all’origine dell’emarginazione delle forze e degli esponenti antitotalitari che contrastavano gli autoritarismi d’ogni colore. Infatti, nel venticinquennio postbellico i comunisti hanno avuto un ruolo preminente nella vita culturale nazionale che ha trasformato l’antifascismo e l’anticomunismo da categorie storiche in categorie mitiche consacrate nei templi dell’università, dell’editoria e del cinema.

A sinistra l’antifascismo veniva per lo più declinato come un presupposto del mondo comunista. La sua ideologizzazione affermava che gli oppositori del fascismo dovevano mettere la sordina al loro a-comunismo. E l’anticomunismo era considerato come una sorta di attributo collaterale del fascismo, proprio dei movimenti reazionari. Nella visione di gran parte degli intellettuali di sinistra la storia d’Italia del Novecento veniva rappresentata come una dialettica tra il rosso e il nero, tra i comunisti e i fascisti in cui non c’era posto per altre posizioni come quelle degli anticomunisti democratici che pure avevano giocato un ruolo significativo nella nascita della Repubblica. Si considerava contradditorio il fatto che il democratico antifascista potesse essere anche anticomunista, e magari “antitotalitario”. In Italia sono stati pochi gli intellettuali “progressisti” che hanno apertamente espresso una visione antitotalitaria della realtà nazionale e internazionale.

Negli altri Paesi europei – Francia, Regno Unito e Germania – non poche personalità dell’intellighenzia tra cui Raymond Aron, George Orwell, Albert Camus, Simone Weil, Isaiah Berlin, Hannah Arendt e, più tardi, Tony Judt, sono stati ritenuti “antitotalitari” nel senso che nelle loro opere ritenevano i tre sistemi politici e ideologici affermatisi nel Novecento – fascismo, nazismo e comunismo – antitetici alla democrazia. Eppure, in Italia, nella seconda decade del ’900, di fronte al fascismo alcuni importanti leader politici avevano compreso che il regime che stava sostituendo lo Stato liberale era nuovo e di tipo “totalitario”, come ha ricordato Emilio Gentile nel recente libro “Totalitarismo 100”. Il liberale Giovanni Amendola, il popolare Luigi Sturzo e il democratico Luigi Salvatorelli usarono tutti il termine “totalitario” per connotare il fascismo in parallelo al bolscevismo. E negli anni Trenta, all’esplosione del nazismo, il termine “totalitario” fu esteso al sistema che aveva preso il potere in Germania. […] 

Guglielmo Ferrero, intellettuale liberale, aveva lavorato alle sue ricerche all’Istituto svizzero di alti studi internazionali di guerra dopo essere stato bandito dall’Italia di Mussolini: il suo interesse era la crisi europea dopo la Prima guerra mondiale nella stagione iniziata con la rivoluzione bolscevica e proseguita con il fascismo e il nazismo. In un articolo Le origini del totalitarismo del febbraio 1940 apparso su «La Dépeche de Toulouse», sostenne l’antitesi tra democrazia e totalitarismo: «La questione di sapere se la democrazia è la madre del totalitarismo è di importanza vitale oggi che tre democrazie – la Francia, l’Inghilterra e la Finlandia – sono in guerra contro due Stati totalitari, la Germania e la Russia». Anche il radicale Francesco Saverio Nitti, già presidente del Consiglio nel 1919-1920, aveva compreso la natura del fascismo in partenza per l’esilio in Francia dopo avere respinto l’adesione ai blocchi nazionali. Nel 1938, al momento delle leggi razziali, scrisse che i regimi totalitari – fascismo, nazismo e comunismo – erano accomunati da alcuni elementi distintivi, il partito unico, la divinizzazione del capo, il controllo della cultura nelle università, nel cinema, nella stampa e nella radio, e proponevano la rigenerazione messianica della politica.

Queste e altre personalità provenienti da diversi orizzonti politici – socialista democratico, cristiano, liberale e radicale – già negli anni Venti e Trenta del Novecento avevano individuato nelle dittature fascista e nazista e nello stalinismo comunista caratteri totalitari simili, mentre l’intellighenzia di sinistra proponeva la legittima continuità, per non dire coincidenza, tra antifascismo, democrazia e prospettiva comunista, un teorema che si sarebbe rafforzato nel secondo dopoguerra. È nella Resistenza che sul totalitarismo si divarica la linea politica degli antifascisti a guida comunista da quella degli antifascisti democratici. Sconfitto il nazifascismo, il ruolo del nuovo PCI guidato da Palmiro Togliatti restava ambiguo sulla questione internazionale delle libertà. Furono gli antifascisti democratici a contestare il legame con Mosca di un Partito comunista che presentava il duplice volto nazionale-parlamentare, e internazionale-ossequioso verso l’Unione Sovietica di Stalin.

Il conflitto nelle fila dell’antifascismo era già esploso nella Guerra civile spagnola quando i comunisti avevano colpito i libertari del POUM secondo le direttive del Comintern ai commissari politici delle brigate comuniste, tra cui gli italiani Palmiro Togliatti e Luigi Longo, futuri segretari del PCI. Nel maggio 1937 a Barcellona fu rinvenuto, tra gli altri cadaveri di libertari che mi- litavano nelle fila dei repubblicani, anche quello dell’italiano Camillo Berneri il cui assassinio fu attribuito ai comunisti benché le prove fossero state occultate, al punto che il leader socialista Pietro Nenni scrisse che l’anarchico Berneri non era morto in guerra «ma è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo». Quando nel dopoguerra Salvemini ricordò l’episodio su «Il Mondo», Togliatti reagì con violenza verbale contro colui che ricordava le responsabilità dell’agente moscovita: «Non perdoniamo a Salvemini di portare perfino nelle aule universitarie alcune tra le più infami calunnie della libellistica anticomunista […] non ha egli trovato il modo di ricordare, dopo Rosselli, “assassinato da sicari francesi per mandato italiano”, Camillo Berneri “soppresso in Spagna da comunisti nel 1937”? O quest’uomo le beve veramente tutte le panzane, pur- ché siano di marca americana e anticomunista, o è disonesto».

Nella Resistenza lo scontro tra antifascisti di diverse tendenze si ripeteva fino alla Liberazione e oltre, tanto più che la strategia del PCI puntava su una possibile alleanza con le forze democratiche, innanzitutto con i cattolici. Ma la temporanea convergenza dei comunisti con i democratici, sancita nel Comitato di liberazione nazionale (CLN) e nei governi Bonomi e Parri, lasciò un segno profondo che fu trasformato nel mito dell’antifascismo unitario quale fondamento della Repubblica nata dalla Resistenza. 

Da “Antitotalitari d’Italia” di Massimo Teodori, Rubbettino Editore,  116 pagine, 14,25 euro

Capitalismo magico. L’identità di genere è una distrazione di massa per evitare la lotta di classe Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Settembre 2023

Sui social si è diffuso un marxismo da Wikipedia, a causa del quale i militanti dei cuoricini confondono i pocoricchi con i milionari. Il risultato è che l’Internet se la prende con Bebe Vio, dimostrando ancora una volta che le campagne sulla rete sono il sedativo perfetto per non assaltare la Bastiglia 

Non sarò certo io, dopo essermi lamentata per anni che la militanza dell’internet si concentrasse sui dettagli sbagliati – la razza, la sessualità, l’identità – e mai sull’unico che conta – la classe sociale – non sarò certo io a lamentarmi del fatto che l’Instagram abbia scoperto Marx.

Capiamoci: non intendo che si siano messi a studiare. Figuriamoci. Trattasi di un secolo in cui coloro che si definiscono «divulgatori» pensano che leggere la voce Wikipedia d’un qualche argomento significhi aver approfondito l’argomento stesso.

Però a un certo punto hanno intuìto che la ricchezza e la povertà erano un tema. Che tutto faceva cuoricino, non solo i difetti estetici, non solo l’infanzia infelice, non solo il tizio un po’ stronzo con cui sono stata e che una voce Wikipedia mi svela posso più instagramgenicamente definire «narcisista»: anche il fatto che qualcuna possa permettersi Prada e qualcuna no, anche quello fa storytelling (che è il modo in cui questo secolo chiama la retorica, non avendo intenzione di affaticarsi a capire cosa significhi «retorica» ma trovandosi benissimo a copincollare parole inglesi di cui pure non conosce il significato ma trova più suadente la suggestione).

Lunedì una utente di Twitter (o come si chiama ora) con un seguito che normalmente non va oltre il suo pianerottolo ha ripubblicato due foto prese dall’Instagram di Chiara Ferragni. Sono le foto dei bagni dei bambini nella casa in cui la famiglia Ferragni si trasferirà. La didascalia dell’utente qualunque era: «Leone e Vittoria non sapranno mai quanto cazzo è brutto aspettare tuo fratello che caga quando il bagno è solo uno e devi cagare anche tu».

Nelle prime settantadue ore, il tweet (o come si chiama ora) è stato condiviso con commento da duecentocinquantuno rivoluzionari, ognuno dei quali determinato a dirci che a casa sua il bagno era condiviso da quattordici persone, chi offre di più, noi dormivamo in cinque in un letto, no aspetta, la medaglietta di più povero la vinco io che il bagno neanche ce l’avevamo, twittano primatisti della nullatenenza dai loro telefoni da parecchie centinaia di euro.

Nel frattempo su Instagram si porta assai (o, come dicono sui giornali: è virale) il montaggio di una tizia che, usando sempre le immagini della Ferragni (che a giudicare dai social è la prima e l’ultima capitalista d’occidente), ci fornisce il “Brutti, sporchi e cattivi” che ci possiamo permettere. Prima Chiara che beve un cappuccino con la scritta «Prada» sulla schiuma; poi la tizia di Instagram che c’informa che il latte che sta bevendo l’ha preso in offerta a novantanove centesimi.

Com’è successo che l’idea di ricchezza sia diventata Chiara Ferragni che, pur di scroccare il cappuccino, ci s’instagramma? Com’è successo che l’idea di ricchezza sia diventata Chiara Ferragni che fotografa due bagni dei bambini che, santiddio, sono bagni ciechi? Esiste un segno di pocoricchismo più preciso del bagno cieco? Se fossi cresciuta con un bagno senza finestre, allora sì che scriverei memoir dolenti sulla mia poca ricchezza.

Temo che c’entri la scarsa confidenza che gli italiani hanno con la ricchezza non ereditata. Ci siamo abituati persino meno di quanto lo fossimo nel secolo scorso, in cui il capitalismo era ereditario, ma almeno il mondo dello spettacolo era pieno di figli di gente che aveva fatto la fame divenuti divi miliardari. Adesso, che il fallimentare star-system di questo secolo è costituito pressoché interamente di figli di gente semiricca e famosa, l’ultima rimasta a essere della razza sua la prima con una Lamborghini in garage è la Ferragni.

Ci mancano completamente gli strumenti per riconoscere il poco arricchito (nonché arricchito da poco) che ostenta quel che prima non aveva vestendosi di loghi; e per capire che chi ha case valevoli invidia sociale certo non le fotografa per Instagram. Ce la vedete Ginevra Elkann che posta le foto dei bagni dei bambini? Ce lo vedete Brocco81 in grado d’immaginare quanta gente non divida il bagno e non ritenga questa normalità un lusso valevole una fotografia?

Non è colpa di Brocco81, se non immagina un altrove. Brocco81 non pensa che quelli instagrammabili siano i lussi eccezionali. Brocco81 è abituato a un universo in cui si fotografa anche la pizza, e ignora l’esistenza d’un’umanità che non ritiene sia una notizia ch’essa consumi pasti, e ignora la possibilità di osservare le condivisioni altrui facendosi domande: ma quindi cosa stai cercando di dirmi, che ti puoi permettere la pizza, che hai degli amici con cui andare a cena, che non fai la no carb?

Per anni mi son detta che la classe sociale era il grande rimosso. La spiegazione più convincente della fissazione per l’identità di genere me la diede una tizia che lavorava coi ventenni. Non hanno niente, mi disse. Non hanno un futuro, non avranno carriere, prospettive di ricchezza, welfare, niente. L’unica cosa che hanno è la possibilità di sentirsi speciali cambiandosi i pronomi e il colore di capelli e i gusti sessuali.

L’identità di genere come distrazione di massa per evitare la presa della Bastiglia, come sedativo sociale, come l’eroina, come l’anoressia (mi scuso per la trasformazione dell’aneddotica raccolta tra conoscenti in statistica, ma: a giudicare dal numero di preadolescenti anoressiche di cui sento, la sostituzione non mi sembra aver funzionato benissimo).

Ma non dovrebbero invece fare la rivoluzione proletaria o qualcosa di simile, mi domandavo. Oddio, forse a vent’anni è abbastanza tutto ancora intero da non porti il problema che dovrai lavorare fino a novantacinque: io il fatto che non avrò mai la pensione ho iniziato a prenderlo in considerazione quando ho iniziato a pensare ogni giorno alla morte, verso i quaranta.

Poi i giornali si sono riempiti d’uno slogan che in confronto l’identità di genere era reale e razionale: quiet quitting, scrivono entusiasti gli stessi di storytelling (di solito scrivono «quite quitting», un refuso che avrebbe fatto venire un’erezione a Freud). I giovani non vogliono più essere schiavi del lavoro, ci spiegano, senza spiegarci quale sia l’alternativa (a parte la solita: ereditare).

Temo c’entri la gratuità d’un po’ tutto: se le notizie non si pagano, la musica non si paga, i film non si pagano, l’intrattenimento non si paga, perché uno dovrebbe voler lavorare e guadagnare? Quando Miuccia Prada (ieri, al termine della sfilata) dice a Suzy Menkes che il suo messaggio per le donne è che ci vuole una cultura del lavoro, ha ragione lei, o siamo vecchi arnesi del Novecento che pensano ancora in termini di chi il marxismo non l’ha intravisto su Wikipedia?

Parlare di soldi è molto in voga, accertarsi d’avere qualcosa d’intelligente da dire assai meno: se ne parla con un tasso di delirio paragonabile a quello applicato alle fissazioni instagrammatiche precedenti. L’altro giorno una trentaequalcosenne con centomila follower (e, santiddio, degli studenti cui insegnare non so bene cosa: spero non la disciplina del senso del ridicolo) ha fatto delle storie su Bebe Vio.

Bebe Vio che, dopo essersi laureata mentre è una campionessa paralimpica, ha commesso il massimo peccato possibile nel secolo della lagna perpetua: ha invitato gli studenti a impegnarsi di più e lamentarsi di meno.

Si tratta, ha accusato vibrante la docente di economia politica che questo secolo si può permettere, di capitalismo magico: Bebe Vio viene da una famiglia benestante, ha studiato in un’università costosa, per lei è stato tutto facile.

Siamo talmente prigionieri dei nostri tic culturali che riusciamo davvero a dire che sparecchiare i tavoli mentre dai gli esami all’università sì che fa di te una persona che fatica e che ha dovuto guadagnarsi tutto quel che ha. Altro che Bebe Vio, con la privilegiatissima e avvantaggiata vita di una che non ha le braccia e le gambe.

Antonio Giangrande: Cultura. “Il Comunista Benito Mussolini”.

Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti.

Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra.

La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica.

Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo.

“Il Comunista Benito Mussolini”. La nuova fatica di Antonio Giangrande in Book o in E-book sui canali editoriali alternativi: Amazon e Create Space; Lulu e Google Libri.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Libro obbiettivo e non ideologico formato da riferimenti e documenti storici e testimonianze di alternativa fonte.

Brani tratti dal libro.

Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016). Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

Amate i profughi, sono l'Italia dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono i fratelli percossi dalla sventura, scrive Benito Mussolini il 28 novembre 1917 (pubblicato da "Il Giornale" il 17/08/2016). Non basta soccorrere i profughi che i treni e le tradotte dal Veneto rovesciano ogni giorno a migliaia e migliaia nelle nostre città. Bisogna comprenderli. Non basta comprenderli: bisogna amarli. La ospitalità dev'essere - soprattutto - amore.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Antonio Giangrande: Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…

A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma:

Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o di esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Antonio Giangrande: Governare e legiferare secondo l’ideologia fascio/comunista? No!

Governare e legiferare secondo i dettati propri di una cattiva fede? No!

Essere liberali vuol dire, in poche parole, che basta agire correttamente ed in buona fede e comportarsi come un buon padre di famiglia.

Agire e comportarsi come un buon padre di famiglia: cosa significa?

In cosa consiste la diligenza del buon padre di famiglia nell’ambito delle obbligazioni del diritto civile: l’obbligo di adempiere alla prestazione in buona fede e in modo corretto.

Adempimento delle obbligazioni: correttezza e buona fede. Il codice civile stabilisce che sia il debitore sia il creditore devono comportarsi correttamente nell’adempimento delle relative obbligazioni, sempre secondo buona fede. La seconda regola imposta dal codice civile in materia di esecuzione del contratto riguarda la diligenza del buon padre di famiglia. Cosa significa e cosa si intende con tale termine? Sicuramente anche in questa ipotesi la legge ha preferito usare un termine generale e astratto. Ma il suo significato è facilmente individuabile. Il “buon padre di famiglia” è colui che “ci tiene” e che è premuroso, colui cioè che fa di tutto pur di realizzare l’interesse dei figli. Il che significa che egli assume l’impegno a conseguire, quanto più possibile, il risultato promesso.

Il codice civile richiama il concetto di buon padre di famiglia in una serie di norme. Eccole qui di seguito elencate:

Art. 382 Codice civile – Responsabilità del tutore e del protutore: «Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri».

Art. 1001 Codice civile – Obbligo di restituzione. Misura della diligenza: «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto, salvo quanto è disposto dall’art. 995».

Art. 1176 Codice civile – Diligenza nell’adempimento: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1227 Codice civile – Concorso del fatto colposo del creditore: «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».

Art. 1587 Codice civile – Obbligazioni principali del conduttore: «Il conduttore deve prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze (…)».

Art. 1710 Codice civile – Diligenza del mandatario: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».

Art. 1768 Codice civile – Diligenza nella custodia: «Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1804 Codice civile – Obbligazioni del comodatario: «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa».

Art. 1838 Codice civile – Deposito di titoli in amministrazione: «La banca che assume il deposito di titoli in amministrazione deve custodire i titoli, esigerne gli interessi o i dividendi, verificare i sorteggi per l’attribuzione di premi o per il rimborso di capitale, curare le riscossioni per conto del depositante, e in generale provvedere alla tutela dei diritti inerenti ai titoli. Le somme riscosse devono essere accreditate al depositante (…). E’ nullo il patto col quale si esonera la banca dall’osservare, nell’amministrazione dei titoli, l’ordinaria diligenza».

Art. 1957 Codice civile – Scadenza dell’obbligazione principale: «Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale purchè il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate».

Art. 2104 Codice civile – Diligenza del prestatore di lavoro: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».

Art. 2148 Codice civile – Obblighi di residenza e di custodia: «Il mezzadro ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel podere con la famiglia colonica».

Art. 2158 Codice civile – Morte di una delle parti [in tema di mezzadria]: « (….) In tutti i casi, se il podere non è coltivato con la dovuta diligenza il concedente può fare eseguire a sue spese i lavori necessari, salvo rivalsa mediante prelevamento sui prodotti e sugli utili».

Art. 2167 Codice civile – Obblighi del colono: «Il colono deve prestare il lavoro proprio secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione. Egli deve custodire il fondo e mantenerlo in normale stato di produttività; deve altresì custodire e conservare le altre cose affidategli dal concedente con la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 2174 Codice civile – Obblighi del soccidario: «Il soccidario deve prestare, secondo le direttive del soccidante, il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, per la lavorazione dei prodotti e per il trasporto sino ai luoghi di ordinario deposito. Il soccidario deve usare la diligenza del buon allevatore».

Nessuno tocchi il “buon padre di famiglia”. E nessuno tocchi i termini “padre” e “madre”, scrive Silvano Moffa venerdì 24 gennaio 2014 su "Il Secolo D’Italia". Dopo il demenziale scardinamento del valore dei termini padre e madre, sostituibili da quelli di genitore 1 e genitore 2, l’idea francese di cancellare il “buon padre di famiglia” fa drizzare i capelli. L’emendamento approvato dal Parlamento parigino a un progetto di legge sulla pari opportunità tra generi, che elimina dal codice una formula del linguaggio giuridico corrente, non ha senso. Tutto, ovviamente, avviene nel nome di un sessismo e di una presunta modernità nei rapporti relazionali tra le persone, che travalica finanche il senso antico che la locuzione aveva assunto, sopravvivendo al tempo e ai cambiamenti sociali. La questione non è di poco conto, e non va sottovaluta. Non fosse altro che per il fatto che la “diligenza del buon padre di famiglia”, come assioma concettuale e formula di rito nel campo del diritto, è stata abbandonata in Germania in favore di altra considerata più moderna, mentre è sopravvissuta in Italia e, finora, in Francia. La formula compare nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico. Furono i giuristi dell’epoca a forgiarne il senso, individuando nel bonus, prudens et diligens pater familias il soggetto capace di amministrare accuratamente i propri affari, più o meno come avveniva per il capo dell’azienda agraria domestica, sui cui si basava la civiltà romana dell’epoca. In seguito, con l’introduzione dei codici giustinianei, la nozione si è allargata, fino ad assumere la portata di un criterio generale per individuare i canoni corretti della prestazione, e il comportamento che deve tenere il debitore diligente. Con l’evoluzione dei tempi e della società, la “diligenza del buon padre di famiglia” è arrivata fino ai giorni nostri, scandendo un comportamento medio come sinonimo di saggezza, di legalità, di etica comportamentale. Un criterio applicato in maniera più vasta e diffusa nel corpo legislativo e negli stessi esiti giurisdizionali. Ora, non c’è dubbio che per comprendere la portata di una tale locuzione bisogna risalire alle origini. Come è chiaro che, per il fatto stesso che il concetto sia diventato più diffuso nella sfera del linguaggio giuridico, comporta che le ragioni che ne spiegano l’uso ricorrente e la portata siano fra loro molto differenti. Ma da qui a decretarne l’abolizione per uno scopo di pari opportunità di genere ne corre. Pietro de Francisci, uno dei maggiori storici del diritto romano, spiega nei suoi studi come la struttura della società romana primitiva (comunità di patres) fosse l’architrave su cui poggiava tutto il sistema dell’epoca: lo ius Quiritium. Fino alla fine del V secolo, il pater familias viene visto come un dominus, un soggetto dotato di un potere (potestas) che ha natura originaria, pre-politica e pre-statuale. È un sovrano del gruppo, del quale è reggitore e sacerdote, custode dei sacra e degli auspicia, giudice dei filii familias, con diritto di punire, fino a giungere alla possibilità di infliggere la pena di morte. E’ evidente la forza implicita in una tale figura nell’epoca antica, ai primordi del diritto romano. Ed è del pari evidente, come appare persino ovvio, quanto sia superata, anacronistica, lontana al giorno d’oggi una simile idea di famiglia. Il problema però è un altro. Intanto, la formula, come abbiamo visto, ha assunto un significato del tutto diverso nel tempo, anche all’interno dello stesso diritto romano. In secondo luogo, la diligenza del buon padre di famiglia è un criterio difficilmente sostituibile con una locuzione che possa avere lo stesso effetto e la stessa forza immaginifica. Prendiamo ad esempio una prestazione, nella sua configurazione ordinaria. Attenti giuristi hanno spiegato come nelle moderne codificazioni che regolano i rapporti dei traffici giuridici e commerciali, sia ormai superato il dualismo tra colpa in astratto e colpa in concreto, cui si ricorreva nel determinare la responsabilità della mancata prestazione. Il modello preferito è ormai quello strettamente oggettivo. Insomma, dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire sottolineare che egli è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio cui ci si ispira è improntato al buon senso, ad un canone di normalità, ad un comportamento usuale e corretto nello stabilire il livello dei rapporti, e nel parametrare il modo in cui non si può non operare nella generalità dei casi. Nel bonus pater familias residuano, insomma, un nucleo di saggezza, oltre che una storia e una cultura giuridica di cui dovremmo menar vanto. Che c’entra con tutto questo il tema delle pari opportunità tra i sessi, è davvero difficile da comprendere. Altro che modernità. Siamo al cospetto di una colossale stupidità.

Lo statalismo in salsa meloniana produce effetti devastanti. Punire le banche e le compagnie aeree, favorire le corporazioni come tassisti e balneari. In economia l’esecutivo interviene secondo un dirigismo ostile al mercato. E finendo per interferire anche nelle scelte del vivere civile. Sergio Rizzo su L'espresso il 29 agosto 2023.

«Chi si scandalizza dovrebbe fare un ripasso di liberalismo. Nel settore bancario non vige il libero mercato. È un settore con forti rigidità, nel quale opera un numero limitato di soggetti». Parola di Giovanbattista Fazzolari, alter ego a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni. Di lui la presidente del Consiglio avrebbe detto: «È la persona più intelligente che abbia mai conosciuto». Si comprende dunque la ragione per cui sia lui a dare la linea in decisioni anche controverse, come quella di tassare gli extraprofitti delle banche. Anche se non ci voleva un genio per vedere ciò che stava accadendo con l’aumento dei tassi e l’inflazione: le banche stavano facendo un sacco di soldi.

C’è qualcosa però che non convince nel suo ragionamento, consegnato al quotidiano La Verità. Perché le banche italiane, è vero, di problemi ne hanno a bizzeffe. Ed è anche probabile, per non dire sicuro, che in talune circostanze prevalgano le logiche del cartello o comportamenti vessatori nei confronti della clientela: come stanno a dimostrare le indagini e le sanzioni appioppate dall’Antitrust. Ma affermare che nel settore bancario «non vige il libero mercato» stride apertamente con la fama della «persona più intelligente» che la premier abbia conosciuto. Come se Fazzolari fosse rimasto al tempo della «Foresta pietrificata» di Giuliano Amato, quando le banche italiane erano quasi tutte dello stesso proprietario. Cioè lo Stato, che ne poteva fare ciò che voleva.

Oggi, invece, di banche di proprietà pubblica ne sono rimaste appena tre: il Mediocredito centrale, che controlla anche la Popolare di Bari, e il Monte dei paschi di Siena. Tre su 439 (quattrocentotrentanove), alla faccia del «numero limitato di soggetti». Oggi chiunque disponga delle capacità tecniche e finanziarie necessarie può aprire una banca, o acquistarne le azioni fino a garantirsene il controllo, a differenza di trent’anni fa. E sono proprio le caratteristiche tipiche di un libero mercato, sul quale non a caso vigila anche l’Autorità Garante della Concorrenza. Un mercato che ha certamente forti rigidità e molti vincoli, perché gestisce un bene socialmente sensibilissimo; ma sul fatto che sia un libero mercato non possono esserci dubbi. 

Senza entrare nel merito della questione, se sia giusto o meno tassare gli extraprofitti di un determinato settore (è stato già fatto dal precedente governo per le imprese energetiche) si potrebbe osservare che il sistema scelto non colpisce gli utili finali, ma il margine iniziale: con il risultato che la tassa potrebbe facilmente essere ribaltata su altre voci di bilancio, come le commissioni.

Ma a parte questo, è l’odore che emana questa iniziativa a risvegliare un vecchio fantasma mai completamente addormentato: il fantasma dello statalismo. I primi segnali erano arrivati nelle settimane del debutto del governo Meloni, quando le critiche di Bankitalia alla manovra di bilancio avevano causato una reazione senza precedenti da Palazzo Chigi. Fazzolari l’aveva accusata di fare il gioco delle banche, sue azioniste, ed era rispuntato il manganello. Ossia, l’idea di nazionalizzare per legge la banca centrale: idea cara alla stessa Giorgia Meloni.

Poi è toccato al ministro delle Imprese e del Made in Italy sferrare un attacco alle multinazionali. «Vogliamo valorizzare chi agisce nel nostro Paese, semmai frenare le grandi multinazionali, certamente anche Uber», ha dichiarato Adolfo Urso, prontamente ribattezzato «Urss» durante un confronto (si fa per dire) con la categoria più protetta dalla politica che esista, quella dei tassisti. Il quale «Urss», per non essere smentito, ha ben pensato di affrontare il caro carburanti rinverdendo in modo singolare i fasti dei prezzi amministrati, con l’obbligo per i distributori a esporre i prezzi medi regionali. Con il risultato di far lievitare verso l’alto i prezzi più bassi, facendo così crescere settimana dopo settimana anche i prezzi medi, in una spirale irrefrenabile di aumenti.

Alle proteste («Una scelta sciagurata che ridurrà la concorrenza», secondo l’Unione consumatori) Urso ha replicato invitando i consumatori di prendersela con gli sceicchi che hanno tagliato la produzione di greggio. Fatto sta che da quando è in vigore l’obbligo di esporre le medie si assiste a un livellamento senza precedenti dei prezzi. Ovviamente verso l’alto. E i petrolieri ringraziano.

E fosse solo questo. Il fatto è che lo statalismo in salsa meloniana si presenta in una forma inedita da almeno ottant’anni a questa parte. Una forma che non riguarda solo l’intervento dello Stato nell’economia, peraltro finora con mosse da elefante in cristalleria. Prima la tassa sulle banche che potrebbe perfino danneggiare i risparmiatori e i cartelli ai distributori che fanno salire il prezzo della benzina; quindi l’intervento a gamba tesa sui biglietti aerei (un altro “non libero mercato”?) che ha scatenato una guerra a Bruxelles senza peraltro benefici apprezzabili per il Sud. Dove si continuano a pagare tariffe astronomiche.

Mentre la ministra del Turismo Daniela Garnero Santanchè, già azionista di un importante stabilimento balneare, garantisce che sulla lotta alla riforma delle concessioni inapplicata da quindici anni «seguiremo ciò che la categoria (di cui lei ha fatto parte fino all’altro ieri, ndr) ci chiede. Noi difendiamo i balneari senza se e senza ma…». E il suo collega della Cultura, l’ex direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano fa pagare la concessione statale sull’uso delle immagini dei nostri tesori, resuscitando un principio anacronistico mandato in pensione una decina d’anni fa, quando venne abolito il divieto di fare fotografie alle opere d’arte nei musei.

Un nuovo statalismo che sa però di antico. Uno statalismo per cui uno Stato si arroga il diritto di stabilire anche alcune regole del vivere civile. Francesco Lollobrigida, ministro della Sovranità Alimentare, cognato di Giorgia Meloni, vieta la produzione di carne sintetica: così mortificando, da una prospettiva ottusamente oscurantista, un importantissimo settore di ricerca scientifica, incurante di aggiungere una motivazione in più per l’emigrazione dei nostri giovani scienziati.

Nel frattempo si vieta l’iscrizione all’anagrafe di figli di coppie omogenitoriali. Con la ministra della Famiglia Eugenia Maria Roccella che stigmatizza chi dà agli animali domestici i nomi delle persone. E se la proposta di mandare al gabbio chi nella pubblica amministrazione usa parole straniere, avanzata dall’ex fedelissimo meloniano Fabio Rampelli, ha più sostenitori di quanti se ne possano immaginare, fioriscono le proposte di legge per far rinascere sia pure sotto forme diverse il vecchio servizio militare. L’idea della naia, abolita senza particolari rimpianti dal primo gennaio del 2005, torna così a serpeggiare con uno sponsor d’eccezione: il presidente del Senato Ignazio La Russa.

Ma tant’è. In un Paese che perde popolazione e giovani a rotta di collo, a questo punto non resta che attendere con trepidazione l’introduzione della tassa sul celibato.

L’ostilità verso l’industria ha cambiato in peggio la storia del ‘900 italiano. Un pregiudizio antindustriale ha attraversato indenne il ‘900 e continua a gravare sulla cultura italiana. È l’ipotesi analitica di «La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana», un recente, importante saggio dell’italianista e romanziere Giuseppe Lupo. OSCAR IARUSSI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Agosto 2023  

Un pregiudizio antindustriale, quindi di fatto antimoderno, ha attraversato indenne il ‘900 e continua a gravare sulla cultura italiana, animato dai nostri letterati, con rare eccezioni fra cui spiccano le personalità di Adriano Olivetti, Elio Vittorini, Leonardo Sinisgalli e Ottiero Ottieri. È l’ipotesi analitica, suffragata da una messe filologica tanto ampia quanto serrata, di La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana, un recente, importante saggio dell’italianista e romanziere Giuseppe Lupo, lucano di Atella trapiantato a Milano dove insegna all’Università Cattolica (Marsilio ed., pagg. 362, euro 20,00). Non è una questione da poco, perché tale «ipoteca» sotto il segno del passato respinge continuamente all’indietro l’immaginario del Paese e del Sud in particolare, verso un’arcadia bucolica e la presunta armonia perduta del lavoro contadino.

La fabbrica, invece, è identificata tout court con l’alienazione dei Tempi moderni, ma senza la geniale, leggiadra ironia che fu di Chaplin, anzi, con la gravitas ideologica a lungo egemone nella sinistra italiana. Così, da una parte la catena di montaggio e dall’altra la diffusione del benessere grazie al «miracolo economico» fine anni ’50-primi ’60 vennero ben poco raccontati e mai davvero compresi dagli scrittori dell’epoca (più sveglio nel «decostruire» anche stilisticamente lo spirito del tempo fu invero il cinema di Fellini, Antonioni, Risi). «Mentre in quegli anni una famiglia media italiana inseguiva legittimamente il sogno di cambiare vita... gli intellettuali continuavano a rimanere chiusi in un’anomala torre d’avorio che altro non era se non una latente e paradossale antimodernità». Ecco il vero «tradimento dei chierici».

Questa disattenzione, per usare un eufemismo, contagia persino gli autori più sensibili alle trasformazioni sociali e culturali del dopoguerra come Giudici, Bianciardi, Fortini, Volponi, Eco e lo stesso Calvino con la sua voglia di «leggerezza» che tuttavia non scalfisce, sostiene Lupo, il fondo «apocalittico» evidente per esempio in Marcovaldo. D’altro canto, si legge in La modernità malintesa, il protagonismo/antagonismo operaio, le aporie della massiccia emigrazione da sud a nord, l’autenticità del lavoro fordista rimangono a loro volta sullo sfondo, bene che vada ridotti a terreno di battaglia politica o disputa colta. Tutto ciò permane fino all’epocale crisi degli anni ’80-90, all’impeto del capitale finanziario e all’avvento della globalizzazione (Cina, India, America in casa nostra) che condurranno alla simbolica Dismissione, per dirla col celebre titolo di Ermanno Rea sull’Ilva di Bagnoli (Rizzoli 2002), romanzo portato sullo schermo da Gianni Amelio in La stella che non c’è. Ma anche dove la fabbrica resiste, vedi Taranto, si sviluppa «una letteratura di autorappresentazione apocalittica» che alle contraddizioni del presente predilige il rimpianto pasoliniano o la chimera di un improbabile ritorno alla madre terra. Per quanto non manchino le eccezioni di pregio, fra le quali Lupo allinea con varie sfumature i libri di Carlo Bernari, Luigi Davì, Sergio Civinini, Giovanni Pirelli, Raffaele Nigro, Tommaso Di Ciaula, Edoardo Nesi, Andrea Di Consoli, Antonio Pennacchi, Cosimo Argentina...

Il quid del saggio è la rimozione o l’esorcismo della realtà, cioè dell’incipiente modernità e quindi della sua torsione post-moderna, a dispetto delle visioni di giganti quali Vittorini, Olivetti o il lucano Sinisgalli che consacrò la sua rivista più feconda alla «Civiltà delle macchine» (adesso rinata a cura della Fondazione Leonardo). «Negli anni cinquanta e sessanta, quando il processo di trasformazione del paese coincideva con la realizzazione dell’utopia olivettiana, l’ingegnere Adriano non godeva di particolare simpatie in seno all’establishment industriale, che osservava con sospetto il suo welfare innovativo». Per le leggendarie Edizioni di Comunità, fondate appunto da Olivetti, nel 1961 esce L’eclissi del sacro nella civiltà industriale del sociologo Sabino Acquaviva, tra l’altro a lungo collaboratore della «Gazzetta», che finalmente non demonizzava l’industrializzazione: «altrimenti si cadrebbe nell’errore (purtroppo serpeggiante) di credere che la modernità sia semplicemente la manifestazione di un laicismo anticristiano».

Così non è, difatti. Il progresso, condividiamo l’esergo scelto da Lupo, somiglia alla tempesta che s’impiglia nelle ali dell’Angelus Novus, l’angelo della storia che ascende volgendo le spalle al futuro, nel celebre frammento di Walter Benjamin. Il tormento del secolo XX, «moderno e antimoderno» secondo Cesare De Michelis, è un’eredità che ci riguarda nella temperie di ogni giorno, troppo spesso letta con le lenti deformanti della nostalgia.

È l’utopia la sottile linea rossa: le versioni del comunismo e del fascismo in Italia e la loro storia. Le versioni del comunismo e del fascismo in Italia non vanno considerate solo sulla base delle loro originarie tavole dei valori, ma anche rispetto al loro decorso storico reale. Fabrizio Cicchitto su L'Unità il 26 Agosto 2023 

Caro direttore, sempre stimolante Michele Prospero, a prescindere dagli aspetti più personali della sua polemica con Ernesto Galli Della Loggia. Poi la riflessione diventa ancora più coinvolgente per chi, come il sottoscritto, essendo socialista ovviamente ha una storia ben diversa da quella di tutti voi, di fronte all’articolo di Paolo Franchi che fra l’altro scrive una frase per me del tutto condivisibile: “I socialisti in parte scomparvero per proprie responsabilità, in parte furono fatti scomparire con le cattive”.

A mio avviso (su questo ho scritto un libro dal titolo La linea rossa) di comunismi in Italia ce ne sono stati comunque due, strettamente intrecciati l’uno all’altro, ma in certi momenti anche distinti. Ci fu un comunismo alleato con le altre forze politiche democratiche, laiche, socialiste e cattoliche che portò avanti la battaglia antifascista e antinazista nella Resistenza che in seguito a ciò ha collaborato alla scrittura della stesura per la Costituzione Repubblicana e che conseguentemente ha dato vita con gli altri al Sistema dei partiti che per lunghi anni ha caratterizzato la democrazia italiana.

C’è stato un comunismo staliniano legato a un patto di ferro all’Urss il cui massimo interprete è stato Palmiro Togliatti che ha condiviso tutti gli aspetti del regime totalitario che caratterizzava l’Urss, gulag compresi, la conquista del potere da parte dei locali partiti comunisti nei paesi dell’Est conquistati dall’Armata Rossa, la repressione in Ungheria. Poi, per carità, tutto ciò era sostenuto non da un tipo alla Maurice Thorez segretario del Pcf, ma da un personaggio che aveva letto e assimilato Gentile e Croce e adottava, tranne che per l’Urss il metodo dell’analisi differenziata.

Questo retroterra culturale, però, e questa capacità di analisi però non hanno impedito a Togliatti di sostenere che il sistema comunista era in tutto e per tutto superiore a quello capitalista e che la democrazia in Urss era più piena e completa di quella che c’era negli Usa, nell’Europa occidentale e nella stessa Italia. Comunque, per la fortuna di tutti, dello stesso Togliatti (tant’è che egli rifiutò nel 1951 di tornare in Urss a fare il segretario del Cominform e preferì restare in Italia a svolgere il ruolo del capo rispettato dell’opposizione di sinistra) l’Italia fu liberata dagli eserciti angloamericani e quindi in essa c’è stato un regime liberal-democratico, certamente con mille contraddizioni e anche con illeciti interventi della Cia, di cui hanno potuto usufruire tutti, anche il Pci.

Forse proprio a questa condizione democratica si riferiva Berlinguer nella famosa intervista a Giampaolo Pansa nella quale sosteneva di sentirsi più sicuro se protetto dalla Nato. Sempre tenendo conto di tutto ciò, la parte politica e non ideologica del compromesso storico secondo la quale in Italia non andava perseguita una alternativa di sinistra al 51%, ma una unità nazionale molto più vasta, teneva conto di tutto ciò. Però qualcuno poteva pensare che caduto il Muro di Berlino, per implosione il comunismo in Urss e nei Paesi dell’Est, cambiato anche il nome del Pci, allora fosse possibile raccogliere la proposta dei miglioristi, nel senso che a quel punto l’approdo naturale del comunismo nella duttile versione Italiana fosse appunto la socialdemocrazia, l’unita fra il Pci e il Psi e da lì una alternativa riformista alla Dc.

Non avvenne nulla di tutto ciò perché i “ragazzi di Berlinguer” (con posizioni diverse tra Occhetto, D’Alema, Veltroni con la consulenza tecnico-politica di Luciano Violante) colsero al volo la scelta nuovista, antipolítica e antipartitocratica dei poteri forti (che esistono e che sono costituiti dai gruppi finanziari editoriali come dimostra la stessa storia del giornalismo italiano) i quali, finito il pericolo comunista, tolsero la delega proprio alla Dc e al Psi che erano anche diventati gli scomodi proprietari di fatto di quel sistema a partecipazioni statali che adesso “lorsignori” ritenevano che andasse privatizzato a prezzi stracciati. A quel punto scattò la connessione con la parte più aggressiva e ambiziosa della magistratura saldata ai media giornalistici e televisivi. Così quel Pds puntò non alla unità riformista con il Psi ma a sostituirsi ad esso nella nuova gestione del potere.

Dopo che dal 1945 alla fine degli anni Ottanta il finanziamento irregolare dei partiti era diventato di fatto parte della costituzione materiale della Repubblica, per cui le denunce clamorose di Ernesto Rossi e di don Sturzo, da tutti conosciuti (magistrati e direttori di giornali) e da tutti ignorati, all’improvviso divennero materia di una colossale operazione mediatico-giudiziaria che distrusse larga parte dei partiti esistenti (in primo luogo tutto il Psi, il centrodestra della Dc, i partiti laici) salvò solo il Pds e la sinistra Dc non perché essi fossero “innocenti” ma perché c’era bisogno di qualcuno, dotato di una sufficiente personalità che gestisse il sistema nel suo complesso. Come ha ricordato Paolo Franchi, i socialisti in parte non furono capaci di difendersi, in parte in vennero bombardati da tutti i lati, Craxi fu consegnato ad bestias, e di conseguenza qualsiasi ipotesi di partito socialista è stato distrutto per diverse generazioni.

Però non è che in seguito a tutto ciò il Pd è diventato l’erede politico ed elettorale della storia gloriosa di tutta la sinistra: privo dell’alleanza di un forte partito socialista, quando gli va bene il Pd è il pallido gestore il potere economico finanziario detenuto da lorsignori, ma non sempre però gli va bene. Infatti questa rottura per via giudiziaria del sistema politico italiano con la distruzione della Dc e del Psi ha dato, per reazione, un enorme spazio a molteplici versioni del centro destra, prima quella liberale, populista, moderata alla Berlusconi oggi a quella assai complessa e contraddittoria di Giorgia Meloni che è alla guida di una compagnia dalle molteplici sfaccettature fra cui quella molto negativa di Salvini e di una parte della stessa Fratelli d’Italia.

Quindi, al netto del duello fra Michele Prospero e Ernesto Galli della Loggia, le due opposte versioni di comunismo e di fascismo in Italia, non vanno prese in considerazione solo sulla base del delle loro originarie tavole dei valori (e anche su entrambe ci sarebbe molto da dire), ma anche rispetto al loro decorso storico reale che ha portato, per ciò che riguarda la sinistra italiana, alle conseguenze descritte in modo del tutto condivisibile da Paolo Franchi nella parte finale del suo articolo, non a caso sormontato dal titolo L’utopia. Fabrizio Cicchitto 26 Agosto 2023

Roosevelt cercasi. Fascisti, comunisti e neo, ex, post lanzichenecchi. Christian Rocca su L'Inkiesta il 8 Agosto 2023

I sostenitori dello Stato etico e gli anticapitalisti odierni si infuriano se vengono chiamati come i loro storici predecessori, eppure non esistono definizioni più esatte di quelle. Così come non ci sono alternative credibili al populismo di questi anni, al contrario di quanto accadde negli anni Trenta negli Stati Uniti 

Non si è mai capito perché i fascisti e i comunisti, diciamo le loro caricature di nuovo conio, si infurino ogni qual volta qualcuno gli dia di fascisti e di comunisti, come peraltro succede ormai quotidianamente con i membri della maggioranza di governo da poco riemersi dai sistemi di riciclo delle acque reflue e come capita ormai da decenni con i fanatici delle magnifiche sorti e progressive un tempo consegnati alla spazzatura della storia assieme all’umido.

«Il fascismo è morto» rispondono gli uni, «vedete comunisti ovunque» ridacchiano gli altri, e noi siamo qui in mezzo da trent’anni a dire una cosa diversa. Questa: vivaddio il fascismo storico e il socialismo reale non esistono più, il doppio nemico della civiltà contemporanea è scappato, è vinto, è battuto, dietro il fascio e dietro la cortina non c’è più nessuno, solo reduci e nostalgici e saltimbanchi buoni da scherzare, buoni da twittare, da farci il sugo quando viene Natale.

Epperò la società contemporanea, non solo italiana ma occidentale, oggi è minacciata internamente da chi vuole imporre il pugno di ferro dello Stato etico, in particolare sul tema dei diritti civili e della libertà di espressione, e chi lotta contro il capitalismo demo-pluto-massonico-giudaico.

E, sì, Stato etico e anticapitalismo sono tratti comuni di entrambi gli “ismi” novecenteschi” (e non a caso il primo nasce da una costola del secondo e il secondo si alleò col primo agli inizi del secondo conflitto mondiale).

E quindi come dovremmo chiamare chi nell’agosto 2023 vuole ancora legiferare sul nostro corpo, sulle nostre abitudini e sul nostro linguaggio?

Come dovremmo chiamare chi vuole controllare, spiare e limitare le attività private?

Come dovremmo chiamare, infine, chi scatena la gogna digitale e gli schiavettoni reali e prova a cancellare le garanzie costituzionali perché il proprio tabù è da sfatare senza la misericordia concessa all’incubo che invece tormenta l’avversario?

Parlare di “matrice fascista” è una scemenza madornale, così come “odore di mafia”, visto che né la matrice né l’odore risultano essere reati, ed è ridicolo caricaturizzare come rossi-mangia-bambini chiunque critichi gli eccessi del capitalismo.

Ma qui stiamo parlando di una cultura dominante di destra e di sinistra che vuole sovvertire il sistema capitalista per sostituirlo con il sovranismo etico, con lo smantellamento dello Stato liberale e con il reddito di cittadinanza, spesso di concerto con gli amici ungheresi, russi, venezuelani e trumpiani, per non parlare di chi aggiunge al mazzo anche il no alla globalizzazione, ai vaccini, a Big Pharma, alle multinazionali e al diritto del popolo ucraino di difendersi dall’imperialisno nazibolscevico dei russi. Come andrebbero chiamati questi qui se non “neo, ex, post fascisti” o, nell’altra versione, “neo, ex, post comunisti”?

Definizioni altrettanto esatte non ce ne sono, mentre ci sarebbero le risposte, se non le soluzioni, per provare ad addensare il brodo primordiale che ha infiammato questo ritorno al passato, un passato che si ripete sotto forma di farsa e di tragedia perché senza un impianto ideologico coerente, ma solo con un’imitazione dei bei tempi che furono, anche se furono tutto tranne che bei tempi.

Gli Stati Uniti sono stati l’unico paese del mondo civilizzato che tra gli anni anni Venti e gli anni Trenta è riuscito a non cedere alle tentazioni del fascismo e del comunismo e non solo per le fideistiche ragioni del “qui non può succedere” raccontate da Sinclair Lewis nel suo distopico romanzo del 1935, ma al contrario per alcune scelte politiche precise e lungimiranti.

L’allora presidente Franklin Delano Roosevelt aggiunse le misure sociali del New Deal alle prescrizioni del liberalismo americano di sinistra, politiche volte a mitigare gli effetti perversi del capitalismo negli anni della Grande Depressione e dei forgotten men ma anche, così facendo, volte a scongiurare l’avvento del socialismo.

Bisognerebbe ripartire da qui, da Roosevelt, per evitare in Europa e nel mondo una seconda catastrofe politica come quella degli anni Venti e Trents del secolo scorso. Peccato, però, che alle porte non ci sia nessun Roosevelt, semmai una schiatta di liberali presuntuosi e una masnada di reduci e combattenti delle guerre ideologiche del passato: gli uni e gli altri inadatti a difendere la società contemporanea dai nei, ex, post lanzichenecchi interni ed esterni.

Taxi agli ubriachi, tassa sulle bici: questo governo non è liberale. Nicola Porro il 4 Agosto 2023

È notizia di ieri l’obbligatorietà, voluta dal governo, dell’assicurazione RCA per biciclette elettriche e monopattini. Sapete come cazzo si chiama questa? Tassa. Oggi il Messaggero spiega che la decisione del governo deriva da una direttiva comunitaria. Peccato che sia falso perché la direttiva comunitaria lasciava libertà ai singoli stati di introdurre o meno l’obbligatorietà dell’assicurazione per bici elettriche e monopattini. Ovviamente si dirà che lo si fa per il bene degli italiani, ma basta leggere i dati che trovate sui giornali di oggi per capire cosa è successo: nel 2022 ci sono state 16 vittime in biciclette elettriche o monopattini. Stiamo sicuramente parlando di una cosa tremenda, poiché ogni vittima è gravissima, ma sapete quante sono state le vittime nei weekend dei primi sette mesi dell’anno per incidenti in auto o in moto dove vi è già l’assicurazione obbligatoria? 759. Ma di che cosa stiamo parlando? Veramente pensate che l’assicurazione obbligatoria possa evitare degli incidenti?

Come se non bastasse, l’assicurazione è obbligatoria per il solo possesso di un mezzo. Poco importa se avete un monopattino nel vostro atrio e non lo userete mai in una strada pubblica: l’assicurazione segue l’oggetto, non la sua utilizzabilità e quindi siete tenuti a farla. Dunque si tratta di una tassa. E questa roba chi l’ha decisa? Un governo di destra, che dovrebbe essere liberale, e che dice di volerci bene. Non sono un complottista, ma questa mossa del governo è un assist alle assicurazioni che avranno centinaia di migliaia di persone che dovranno pagare una piccola quota. Chiaramente iniziano piano piano e diranno “l’assicurazione per il monopattino, 80-90 euro all’anno”. Poi diventano 120. Ragazzi, mi fa impazzire questa cosa.

Questo è poi lo stesso governo che decide che ci saranno i taxi gratis all’uscita delle discoteca per quelli che si strafanno. Voi mi dovete spiegare per quale motivo al mondo i contribuenti italiani dovrebbero contribuire a pagare il taxi a dei ragazzini o a dei vecchi rincoglioniti che, dopo essersi fatti di alcol per tutta la serata, chiaramente non devono mettersi a guidare. Siete in grado di comprarvi un drink a 15-30 euro? Siete in grado di spendere 100 euro in Moscow Mule? Spendetene altri 100 per pagarvi un taxi. In un mondo normale, non sono fatti miei se tu sei talmente ubriaco da non poter guidare. E se prendi l’auto dovresti finire in galera per tentato omicidio.

Non possiamo pensare che qualcuno, dopo aver bevuto 100 euro di drink in discoteca, possa tornare a casa comodamente in un taxi pagato dai contribuenti. Oh, ma siamo scemi? E questo sarebbe uno stato liberale? No, questo è uno stato di rincoglioniti.

Nicola Porro, dalla Zuppa di Porro del 4 agosto 2023

A Cernobbio la critica al neoliberismo è stata vietata per “ordine pubblico”. Roberto Demaio su L'Indipendente il 29 Luglio 2023

Ogni anno a Cernobbio, in provincia di Como, le élite del mondo finanziario italiano si ritrovano al Forum Ambrosetti, per tre giorni grandi industriali, rappresentanti politici e economisti di orientamento neoliberista dibattono e realizzano rapporti strategici capaci di influenzare le decisioni pubbliche. Da tredici anni, sempre a Cernobbio e negli stessi giorni, si svolge anche il contro-forum organizzato da Sbilanciamoci!, una rete di associazioni, movimenti ed economisti critici, impegnati sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica, con un’attenzione particolare a questioni come beni pubblici, lavoro, ambiente, scuola, pace e disarmo. Ebbene, quest’anno per la prima volta non sarà così: il Comune di Cernobbio ha infatti negato i locali comunali al Forum di Sbilanciamoci!, adottando presunti motivi di “ordine pubblico”.

Il Comune di Cernobbio (CO) ha negato alla campagna Sbilanciamoci! l’utilizzo della sala polifunzionale per il forum di settembre. I motivi sarebbero di “ordine pubblico” e lo svolgimento nello stesso periodo del forum Ambrosetti, la Davos italiana. La vicenda è anche approdata in Senato ma il ministro Matteo Piantedosi si è escluso da ogni responsabilità affermando che la decisione è stata esclusivamente del Comune. Sbilanciamoci! ha risposto in un comunicato stampa sottolineando che è da più di 13 anni che i due forum si svolgono in concomitanza e che si tratta di una decisione ”inospitale ed intollerante”.

Il forum di Sbilanciamoci! sarà organizzato comunque per il prossimo 1 e 2 settembre e si svolgerà a Como. Sbilanciamoci! è una campagna che dal 1999 riunisce 51 organizzazioni e reti impegnate su temi sociali come Emergency, Legambiente, WWF e Unione degli Studenti. Sul sito dell’organizzazione la denuncia: «Si tratta di una motivazione inconsistente e risibile: non si capisce quali siano i motivi di ordine pubblico per una riunione che si svolge al chiuso, già ospitata dal Comune nel 2010 e, che Sbilanciamoci! ha svolto a Cernobbio anche negli anni 2009 e 2022, senza mai alcun problema registrato per lo svolgimento del seminario dello Studio Ambrosetti. È una decisione gravissima: lede l’articolo 17 (diritto di riunione) e l’articolo 21 (diritto d’espressione) della Costituzione repubblicana. Non garantisce l’espressione di punti di vista diversi, discrimina tra soggetti privati e si fonda su una motivazione inesistente, discriminatoria, al limite dell’arbitrio».

Il senatore Giuseppe De Cristofaro ha chiesto spiegazioni al ministro degli Interni Matteo Piantedosi. Il 27 luglio, il ministro ha riferito che avrebbe sostenuto il comune di Cernobbio nella ricerca di uno spazio alternativo, ma l’unica risposta del comune è stata la proposta di una saletta non attrezzata dalla capienza massima di 30 posti, incompatibile quindi con lo svolgimento dell’evento. Il ministro ha poi aggiunto che non è stata data nessuna indicazione da parte sua al Comune di vietare la concessione della sala. Per ora, sembra che la decisione del diniego sia scaturita esclusivamente dal sindaco: alla riunione dell’ultimo comitato per l’ordine pubblico della prefettura di Como, nessuno ha parlato di presunti pericoli legati alla compresenza delle due manifestazioni. Rimangono quindi solo le dichiarazioni del sindaco Matteo Monti, che ha affermato: «Quest’anno l’oratorio è occupato da un campo estivo che si prolunga. Mi era stata chiesta la possibilità di utilizzare il centro civico, ma la struttura è a poca distanza dall’Ambrosetti. Per motivi di ordine pubblico non posso concedere quella sala. Tutte le manifestazioni e gli eventi in concomitanza con l’Ambrosetti in quella zona sono sospesi». Con un comunicato stampa, Sbilanciamoci! ha risposto denunciando una linea inospitale ed intollerante e annunciando che il forum 2023 si svolgerà comunque ma a Como, presso lo Spazio Gloria dell’Arci. [di Roberto Demaio]

 

L'ideologia della sinistra? Penalizza soltanto i poveri. La politica green della «gauche caviar» è un freno alla felicità dei deboli. La lezione della Thatcher. Pier Luigi del Viscovo il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.

La sinistra in versione green vede nella decrescita pro-ambiente un modo per far piangere i ricchi, ma a soffrire sarebbero molto di più i poveri. Nel dibattito sulla transizione energetica è emerso che noi europei pesiamo pochissimo e siamo già un sistema piuttosto sostenibile, nonostante i media compiacenti facciano un ottimo lavoro a tenerlo nascosto. I sacerdoti di Greta dovrebbero spostare i loro cortei a Pechino, ma non possono. Di conseguenza, hanno elaborato un'equazione. Visto che quei Paesi con elevate emissioni producono merci che noi importiamo, basta ridurre i nostri consumi per far diminuire quella CO2. Così, l'impatto devastante sull'economia della nostra inutile transizione energetica si trasformerebbe in un proficuo strumento per imporre agli altri di ridurre le emissioni, non comprando i loro prodotti. In effetti, il ragionamento non fa una piega. La sua implementazione invece ne fa e tante.

Innanzitutto, quando la domanda interna si riduce non diminuiscono solo le importazioni ma pure la produzione locale, perché la domanda interna non è regolabile come in un'economia socialista: ognuno consuma ciò che vuole; poi perché oggi i prodotti sono pieni di componenti che vengono da più Paesi; infine perché, anche nel caso dei prodotti importati, una volta entrati si attiva una catena distributiva locale che produce redditi.

Inoltre, se il commercio internazionale si chiama bilancia ci sarà un motivo. È fatto di reciprocità e se compri meno dei miei prodotti, anch'io farò altrettanto coi tuoi: meno produzione interna e meno lavoro.

In ultimo, l'equazione prevede che a ridurre i consumi siano i ricchi, che si concedono spese non essenziali. Nella realtà non è proprio così, in quanto i consumi voluttuari sono molto più trasversali alle fasce di reddito di quanto si immagini.

Il tutto si sintetizza in un tipico slogan ambientalista: la smettessero di cambiarsi il SUV ogni tre anni. Sorvolando sul fatto che se fosse una station wagon sarebbe diverso, il punto centrale è che il SUV potrà anche comprarlo il ricco, ma sono i poveri che li fabbricano, in Europa e di più nei Paesi emergenti. Comprarne meno significa meno lavoro e meno salari per economie che già fanno i salti per far emergere dalla povertà centinaia di milioni di persone.

Scavando e nemmeno tanto, sotto la fede green si scopre quella vecchia idea di tornare alla semplice vita francescana, con meno consumi e solo essenziali. Si scopre pure una visione dirigista dell'economia, che non ha mai digerito il fatto che la gente col proprio reddito possa comprare un nuovo paio di scarpe, anche se le altre ancora vanno bene. A sinistra pensano che la decrescita sarebbe felice e selettiva, colpendo solo alcuni consumi e alcune fasce sociali. Invece sarebbe infelice e indiscriminata, perché un'economia moderna è un sistema integrato. Quando l'economia cresce, i poveri stanno meglio ma i ricchi molto meglio. All'opposto quando l'economia va male, i ricchi stanno peggio ma i poveri molto peggio. È il concetto che espresse la Thatcher nel 1990, a chi le contestava che la sua crescita avesse aumentato il benessere ma ampliato il divario sociale: «Pur di ridurre questo gap, preferireste che i poveri fossero più poveri a patto che i ricchi fossero meno ricchi». Nelle carestie, a morire prima non sono i pasciuti ma i più denutriti.

Il corporativismo classista. Né concorrenza né redistribuzione: la destra è assistenzialista. Questo governo concepisce l’azione pubblica come strumento di tutela di una socialità selettiva, non molto diversamente rispetto al socialismo fascista. Iuri Maria Prado su L'Unità il 26 Luglio 2023

Centocinquant’anni di banalissima letteratura e pratica economica non hanno spiegato alla destra di governo che ci sono due modi con cui si tenta di rimediare alla scarsità di ricchezza che affligge innanzitutto i più bisognosi: far sì che sia prodotta più ricchezza, sicché la quota supplementare ridondi in favore di chi ne ha meno, o redistribuire quella che c’è.

Non importa discutere qui quale sia il modo più efficace: importa osservare che questa destra, nelle soluzioni di cui sinora ha dato prova e in quelle fumose e vaghe che prospetta, dimostra di non aver scelto e di non voler scegliere né un modo né l’altro, e piuttosto fa ricorso a un modulo di sostanziale corporativismo classista.

Quello che denuncia il “pizzo di Stato” non per risolvere un problema effettivo del sistema economico italiano, fondato su una diffusissima economia nera che non cessa di essere patologico solo perché sostiene attività altrimenti impossibili, ma per perpetuarlo onde ottenerne il favore elettorale. Il sostanziale corporativismo classista che, ancora, erode bensì i margini del reddito di cittadinanza, ma senza offrire soluzioni alternative e soprattutto lasciando intonsa l’enorme somma di privilegi accreditata in favore di realtà altrettanto disfunzionali ma ormai socialmente accettate: per capirsi, il padroncino verso le cui disinvolture è bene chiudere un occhio perché rimetterlo sulla riga della legalità di un sistema economicamente sostenibile suppone un impegno più grave e meno capace di consenso rispetto al proclama contro il furbetto da divano.

Un governo che scegliesse – come questo governo sta scegliendo – di non assediare e anzi di tutelare i bastioni anti-concorrenziali e protezionisti cu sui ancora si regge l’economia italiana, avrebbe almeno un pizzico di dignità politica se non si rivolgesse – come invece questo governo si sta rivolgendo – alla cura puramente conservatrice dei diffusi privilegi di classe che provvisoriamente, a non si sa ancora per quanto, sopravvivono alla crisi.

Identicamente statalista, la destra di governo concepisce l’azione pubblica come strumento di tutela di una socialità selettiva, non molto diversamente rispetto al socialismo fascista che tutelava bensì “il lavoro” ma senza toccare la rendita di classe e parassitaria che, non a caso, si sarebbe perpetuata nel corso repubblicano sotto le insegne nominalmente diverse degli ordini professionali, delle associazioni di categoria, del mandarinato burocratico e, soprattutto, delle signorie imprenditoriali colluse con il potere pubblico cui finivano per cedere il 45% di un dominio spartitorio e di libera grassazione delle classi lavoratrici.

Un governo liberista, ma anche solo liberale, sarebbe legittimamente avversato dalle opposizioni. Solo che non è questo governo. Il quale meriterebbe di essere avversato – non solo dalle opposizioni, ma anche dai liberali, se esistessero – perché tira a conservare ciò che di peggio ha questo Paese, ciò che più lo consegna al declino.

Iuri Maria Prado 26 Luglio 2023

Una cultura nazionale da cambiare. Proprietà privata e libertà individuale: le scorciatoie ideologiche di destra e sinistra, incapaci di vivere il presente. La rubrica “L’umanista” di Alessandro Chelo, esperto di leadership e talento. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. Alessandro Chelo su Il Riformista il 17 Luglio 2023 

Negli ambienti governativi, si parla con sempre maggiore insistenza di porre dei limiti ai cosiddetti “affitti brevi” delle abitazioni private. Evidentemente, ci si illude di risolvere così il tema generale della “casa” e di favorire in questo modo l’attività turistica delle strutture ricettive. Ancora una volta, si cercano scorciatoie ideologiche per non affrontare i temi con una visione strategica. In questo caso, la scorciatoia ideologica si fonda sull’idea che un cittadino che abbia guadagnato un po’ di soldi (tassati) e li abbia risparmiati (ritassati) e ci abbia acquistato una casa (pagando la tassa sull’acquisto e poi la tassa sulla proprietà), non sia libero di fare l’uso che crede della sua proprietà. Sembrerebbe un atteggiamento più tipico della cultura politica della sinistra che non della destra che governa, ma non è così: quantomeno in Italia, destra e sinistra si assomigliano moltissimo ed entrambe si tengono ben distanti da una logica di tipo liberale.

D’altronde, il governo Renzi (all’epoca segretario del PD e quindi a pieno titolo rappresentante della sinistra) assunse a suo tempo un atteggiamento politico identico a quello adottato oggi dal governo Meloni, quando volle regolamentare (si legga limitare) l’attività cosiddetta home restaurant. Anche in quel caso si riteneva che il privato cittadino non dovesse essere libero di disporre della propria abitazione e che gli individui non dovessero essere liberi di scegliere se mangiare in un ristorante (quindi assoggettato alle normative commerciali) o in un’abitazione privata (quindi assoggettata alle normative civili). In quel caso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato bocciò lodevolmente l’iniziativa del governo. Confido che sorte analoga avrebbe l’iniziativa meloniana rispetto agli affitti brevi. Questa cultura politica comune a destra e sinistra, viene da lontano. Vediamo quali sono i fattori che l’hanno generata.

Innanzitutto la totale incomprensione dei processi socio-economici indotti dall’epoca 4.0, in particolare rispetto al fenomeno della sharing economy. La sinistra pare tuttora affezionata ai polverosi modelli industriali novecenteschi, la destra guarda con accigliato sospetto ai processi di globalizzazione e digitalizzazione. La sinistra come la destra sono incapaci di vivere il presente.

Il secondo fattore riguarda un lascito culturale fascista: il corporativismo. Tanto a destra quanto a sinistra, si giudica moralisticamente il lobbismo trasparente delle democrazie liberali e si preferisce agire sotto traccia in favore di questa o quella corporazione, sia essa quella degli albergatori, sia essa quella dei ristoratori.

Il terzo fattore, il più significativo, è di natura storica. La Repubblica italiana nacque in un contesto geo-politico che costrinse il mondo cattolico e il mondo comunista a collaborare. Tutto sommato l’impresa si rivelò meno improba del previsto e chi ne fece davvero le spese fu il mondo politico liberale. Così si diede vita a una Costituzione di stampo catto-comunista che caratterizza tuttora la Repubblica e si è sedimentata una cultura nazionale che ha pervaso tutte le aree politiche. Tale cultura nazionale si fonda sull’idea che il lavoro non sia un’opportunità da costruire, ma una pretesa da rivendicare; è una cultura che premia il cittadino-lavoratore sul cittadino-cliente, guarda con diffidenza moralistica al profitto e, di fatto, ripudia la sacralità della proprietà privata, asse intorno al quale vengono costruire le democrazie liberali.

Si tratta di una cultura nazionale che ha permeato larghissima parte della società e che siamo chiamati a superare. In sostanza la rivoluzione liberale di cui parlava Berlusconi negli anni ‘90 va fatta davvero, così come va realizzata davvero quella seconda Repubblica di cui si ciancia, ma che è ancora di là da venire e non può che fondarsi su un profondo riesame costituzionale, non limitato alla seconda parte.

Chi può assumere la leadership di un processo di tale portata? Di certo non gli eredi di quei mondi politici cattolici e comunisti che hanno dato vita a quella prima Repubblica che siamo chiamati a superare. Neanche la destra sembra pronta senza un solido supporto liberale. Per questo è più che mai necessario mettere mano alla generazione di un’area politica liberale e umanistica che sappia parlare il linguaggio della nuova epoca e sia attrattiva per qualunque elettore. Non so grazie a chi, come e quando ciò potrà accadere, so però che di certo non accadrà, come invece ritengono alcuni terzopolisti, grazie a un cartello elettorale di partitini composti prevalentemente da ex-PD allargato agli ex-Radicali.

Alessandro Chelo. Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. 

L'itinerario della sinistra europea. Come la democrazia ha trasformato il socialismo e dimostrato che lo Stato non è la panacea di tutti i mali. La rubrica “Lessico riformista” di Alberto De Bernardi, professore e studioso di storia contemporanea. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia. Alberto De Bernardi su Il Riformista il 17 Luglio 2023 

In un lontanissimo 1875 in un piccolo paese tedesco Gotha si svolse il congresso del Partito operaio tedesco che può essere considerato l’atto di nascita della Socialdemocrazia tedesca, che per oltre un secolo sarebbe rimasta il laboratorio politico più attivo del socialismo europeo e del riformismo.

In esso venne presentato un programma – il “programma di Gotha” appunto – che esplicitamente rompeva con la teoria rivoluzionaria marxista che aveva dominato nella I internazionale e che era stata di fatto sciolta due anni prima, ponendo al centro la questione della democrazia e dello stato democratico. In questo piccolo partito era maturata la convinzione che lo Stato non era “il comitato d’affari della borghesia” come pensava Marx e i suoi seguaci marxisti, né tanto meno che ogni sua forma – autoritario, liberale, democratico – fosse indifferente per l’emancipazione del lavoro.

Lo scopo dello Stato –aveva scritto il suo fondatore Fernand Lassalle (nella foto) – consiste piuttosto, proprio nel mettere in grado i singoli, attraverso l’unione, di raggiungere quegli obbiettivi, e quel tenore di vita, che essi non potrebbero mai raggiungere in quanto singoli, e nel renderli capaci di accumulare un patrimonio di educazione, potere e libertà, che essi, considerati come singoli, non potrebbero possedere”.

Al congresso Marx non partecipò ma scrisse una pamphlet – La critica al programma di Gotha – che può essere considerato il suo più importante scritto politico dopo il manifesto del Partito comunista. In esso ribadiva la sua teoria dello stato ed evocava la dittatura del proletariato come chiave di volta per edificare il socialismo, concludendo in maniera irridente. Le sue rivendicazioni politiche non contengono nulla oltre all’antica ben nota litania democratica: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del popolo, armamento del popolo, ecc. Esse sono tutte rivendicazioni che, nella misura in cui non sono esagerate da una rappresentazione fantastica, sono già realizzate.

Perché sono andato così lontano per cercare il bandolo della matassa della riflessione della democrazia? Perche l’itinerario che ha portato la sinistra europea a riconoscersi pienamente nella democrazia è stato molto più complesso del previsto.

Cento anni dopo Norberto Bobbio in un famoso articolo (Quale socialismo?) tornava sull’argomento per dire che il pensiero marxiano non aveva nessuna teoria dello Stato e men che meno della democrazia, mettendo in luce come il movimento operaio in tutte le sue varianti ideologiche avesse dovuto scontare un ritardo teorico e ideologico su un tema cruciale lungo un secolo, per liberarsi a fatica della convinzione che la democrazia liberale non fosse semplicemente una fase di passaggio da utilizzare in tulle le sue potenzialità favorevoli a sostenere gli interessi dei lavoratori e il loro protagonismo politico, ma il contesto istituzionale e giuridico definitivo nel quale fare vivere l’eguaglianza e la giustizia sociale.

Il riconoscimento che pretendeva Bobbio andava ben oltre il riconoscimento della democrazia come spazio vitale della lotta politica e il rifiuto della rivoluzione che si era affermato nei partiti della Seconda internazionale seppur al prezzo di scissioni e di contrapposizioni radicali, ma chiamava in causa l’abbandono della “presa del potere” come esito della liberazione del lavoro dalla schiavitù del capitale, ma anche come scelta irreversibile di sistema.

Tutta la concezione togliattiana della “democrazia progressiva” e delle “riforme di struttura” esprimeva la convinzione che vi fosse un ”oltre” rispetto alla democrazia liberale e l’economia di mercato: nonostante l’accettazione della Costituzione e la convinta partecipazione alla costruzione della Repubblica democratica, per il Pci la scelta democratica si inseriva in una concezione processuale della democrazia come stadio verso la creazione dello stato socialista: uno Stato lontano dal socialismo reale, che conservasse come affermò più volte Berlinguer tutte le garanzie dello Stato di diritto, ma comunque diverso dalla democrazia liberale basato sul primato dell’eguaglianza e su una struttura economica di stampo statalista. Un disegno confuso nel quale il Pci rimase impigliato fino al suo scioglimento, ma che non scomparse con la sua fine e si è presentato attraverso numerose varianti nella cultura politica dei suoi eredi.

Ma anche nelle risoluzioni del famoso congresso di Bad Godesberg del 1958 nel quale la Spd abiurò il marxismo, condannò definitivamente il comunismo e scelse l’economia di mercato statalmente temperata da welfare, la fedeltà totale alla costituzione – non dissimile dal quella del Pci e del Psi in Italia – non si tradusse in una riflessione compiuta sulla democrazia, in virtù della quale il socialismo stesso avrebbe cambiato di natura e destino. Non dobbiamo dimenticare che in quell’occasione i giovani della Lega tedesca degli studenti socialisti (la SDS) rifiutarono quelle scelte, animando dieci anni dopo sotto la guida di Rudi Dutschke il sessantotto in Germania, a dimostrazione di quanto controverso fosse stato quel passaggio storico.

Ma se non c’è più nessun potere da prendere, se non c’è più nessun modello di sviluppo alternativo all’economia di mercato, se non c’è più nessuno “Stato nuovo” da fondare, se la democrazia è l’alfa e l’omega dell’azione dei lavoratori, del socialismo cosa resta? Infatti scegliere la democrazia ha comportato una mutazione sostanziale dei “presupposti del socialismo” nella misura in cui l’impresa, sentina dello sfruttamento, non solo è risultata migliore dello stato a garantire lo sviluppo, ma ha rappresentato una delle forme più alte della “libertà dei moderni”; se il mito dell’eguaglianza deve cedere il passo alla piena valorizzazione della libertà degli individui, se lo Stato non è la panacea di tutti i mali ma spesso è risultato l’esatto contrario, se della lotta di classe si sono perse le tracce.

Ma in questa epoca di crisi della democrazia colpita al cuore dal combinato disposto del populismo e del ritorno del sovranismo nazionalista quella sintesi tra liberalismo e socialismo che ha rappresentato il risultato migliore di due secoli di conflitti e di aporie non basta più ridefinirla e rafforzarla: c’è una nuova ricerca da avviare per trovare in quei due grandi sistemi di idee e valori le condizioni per nuove ricomposizioni.

Alberto De Bernardi. Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.

Feudo ereditario. L’ascesa di Afd e le (assurde) ragioni del pensiero anticapitalista di destra. La logica del mercato, Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023

La sintesi tra nazionalismo e socialismo esercita un forte fascino sugli elettori tedeschi, soprattutto nella Germania orientale, dove chi in passato votava per il partito radicale di sinistra Die Linke ora sostiene Alternative für Deutschland

Secondo gli ultimi sondaggi d’opinione, l’Alternativa per la Germania, o AfD, è attualmente la seconda forza politica più forte in Germania dopo la CDU, con circa il 19-20 per cento. Dalle elezioni federali del 2021, quando l’AfD aveva ottenuto il 10,3 per cento, il partito ha quasi raddoppiato il suo consenso nei sondaggi. L’AfD è particolarmente forte nella Germania orientale (cioè nell’ex DDR): in Turingia, ad esempio, l’AfD sta attualmente ottenendo circa il trenta per cento dei voti, risultando il primo tra tutti i partiti del Land.

Le ragioni del successo dell’AfD sono molteplici. Se si chiede agli elettori dell’AfD perché sostengono il partito, è chiaro che l’AfD tragga vantaggio soprattutto dall’insoddisfazione per le politiche sull’immigrazione del governo tedesco e per le politiche ambientali portate avanti dai Verdi. Le politiche di immigrazione di Angela Merkel, che hanno aperto le frontiere del Paese a milioni di immigrati (molti dei quali con motivazioni economiche), sono state a lungo una ragione dell’ascesa dell’AfD.

Ma anche sotto l’attuale Ampelkoalition (Coalizione Semaforo) che unisce i socialdemocratici dell’SPD, i Verdi e i liberali della FDP, milioni di migranti continuano a entrare nel Paese. E non solo dall’Ucraina, i cui rifugiati tendono a essere accettati in Germania in misura molto maggiore rispetto agli altri migranti, ma anche dall’Africa e dai Paesi arabi.

Un’altra causa di malcontento è la politica climatica della coalizione di governo che, nel confronto internazionale, è particolarmente radicale. Di recente, il ministro dell’Economia Robert Habeck, del partito dei Verdi, ha annunciato il suo piano che costerebbe ai cittadini centinaia di miliardi di euro. Il suo piano ha suscitato un enorme clamore in tutto il Paese. L’FDP è riuscita a evitare il peggio, ma in generale la politica per l’ambiente portata avanti dalla Germania è un’altra ragione dell’ascesa dell’AfD.

In molti Paesi europei sono emersi movimenti populisti di destra e di sinistra che, pur con tutte le loro differenze, sono accomunati dall’opposizione al liberalismo economico e al capitalismo. In alcuni casi, i partiti populisti di destra hanno iniziato promuovendo politiche economiche almeno parzialmente liberali, prima di trasformarsi in partiti anticapitalisti. 

Questo è esattamente ciò che è accaduto in Germania, dove l’AfD è stata inizialmente fondata nel 2013 come partito con un programma economicamente liberale. Certo, ci sono ancora membri dell’AfD in Occidente che sono favorevoli al libero mercato. Ma rispetto a dieci anni fa, quando l’AfD è nata, ora sono i populisti e gli anticapitalisti a detenere il maggior peso, mentre molti membri un tempo influenti e pro-mercato hanno lasciato il partito, in preda alla frustrazione.

L’anticapitalismo è particolarmente forte nella Germania orientale, dove si nutre del concetto di patriottismo sociale e conquista così molti elettori che in precedenza votavano per il partito di estrema sinistra Die Linke (l’ultima incarnazione della SED, che in passato governava la Germania dell’Est e che ha cambiato nome diverse volte negli ultimi decenni).

L’anticapitalismo di destra ha anche una base teorica, ad esempio grazie ad autori come Benedikt Kaiser e Götz Kubitschek del think tank di destra Institut für Staatspolitik. Essi si rifanno a una lunga tradizione storica di anticapitalismo di destra in Germania, dalla cosiddetta “rivoluzione conservatrice” della Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo.

La critica della destra anticapitalista al capitalismo e alle sue politiche economiche differisce solo leggermente da quella della sinistra. Nei suoi scritti, Kaiser, il più noto teorico di questo movimento, cita ripetutamente autori di sinistra, da Karl Marx e Friedrich Engels a Thomas Piketty, Erich Fromm e Theodor Adorno. I nemici, invece, sono i radicali del mercato, i neoliberali e i libertari, tra cui Ludwig von Mises, Milton Friedman e Friedrich August von Hayek. Per inciso, Kaiser è assistente del deputato AfD Jürgen Pohl dal 2023.

La tesi centrale degli anticapitalisti tedeschi di destra è che gli ideologi multiculturali di sinistra e le grandi imprese sono in combutta. I veri beneficiari dell’immigrazione di massa, sostengono, sono i capitalisti, che beneficiano dell’accesso a un’ampia riserva di manodopera a basso costo. Gli ideologi di sinistra che chiedono frontiere aperte, secondo questa tesi, stanno in realtà perseguendo una politica nell’interesse del capitale. Non è «la sinistra a guidare la migrazione di massa, anche se la approva per motivi ideologici e la acclama nei media. A guidarla è soprattutto quello che una volta veniva chiamato il ’grande capitale’, sotto forma di federazioni industriali e imprenditoriali».

Su questo punto in particolare, però, rimangono degli interrogativi. Non si capisce perché l’immigrazione di massa dovrebbe essere nell’interesse delle grandi imprese. Certo, le imprese vogliono che specialisti qualificati si trasferiscano in Germania, e questo non è solo nell’interesse delle aziende, ma della società nel suo complesso, perché non è chiaro come i problemi demografici possano essere realisticamente superati in altro modo. Ma questa immigrazione di lavoratori qualificati, che i dirigenti d’azienda invocano ripetutamente, incontra molti ostacoli in Germania. 

Gli ostacoli burocratici per i lavoratori qualificati sono innumerevoli, mentre l’immigrazione è relativamente molto più semplice per chi cerca di accedere ai benefici sociali: basta pronunciare la parola «richiesta d’asilo» alla frontiera. Per questo motivo, da anni in Germania si assiste a un’immigrazione di massa da parte di persone che cercano solo di sfruttare il sistema di welfare, il che ovviamente non è né nell’interesse delle grandi imprese né dei lavoratori – ed è anche qualcosa che la maggioranza dei cittadini tedeschi non vuole, come dimostrano tutti i sondaggi. 

In effetti, l’immigrazione di massa da parte di persone che cercano solo di sfruttare il sistema di welfare rende ancora più difficile la necessaria immigrazione di lavoratori qualificati, perché i problemi culturali che ne derivano riducono l’accettazione dell’immigrazione da parte della popolazione nel suo complesso. Come rivela questo esempio, la tesi secondo cui gli ideologi multiculturali di sinistra e le grandi imprese condividerebbero gli stessi obiettivi è assurda perché non fa distinzione tra tipi di immigrazione. Non c’è dubbio che oggi i leader d’azienda si pieghino spesso e volentieri allo Zeitgeist della sinistra ambientalista, ma questo è un segno di opportunismo e non una prova che essi siano la vera forza trainante dello spostamento a sinistra.

Così come gli anticapitalisti di sinistra in Germania sono per l’economia sociale di mercato, gli anticapitalisti di destra dicono di opporsi al capitalismo ma non all’economia di mercato. Ma il loro impegno per l’economia di mercato non può essere preso sul serio, dal momento che le caratteristiche centrali dell’economia di mercato, come la proprietà privata, vengono rifiutate con forza. Naturalmente, sia gli anticapitalisti di sinistra che quelli di destra oggi professano spesso il loro sostegno alla proprietà privata, ma, in base al primato della politica, vogliono che lo Stato ponga limiti molto stretti alla proprietà. 

Kaiser cita con favore Axel Honneth, un teorico della Scuola di Francoforte, che si chiedeva «perché la semplice proprietà dei mezzi di produzione dovrebbe giustificare qualsiasi pretesa sui rendimenti del capitale che genera». Di conseguenza, parti dell’economia dovrebbero essere nazionalizzate. 

Götz Kubitschek, una delle menti della destra anticapitalista, ritiene che «lo Stato dovrebbe garantire la fornitura di servizi di base nei settori dei trasporti, delle banche, delle comunicazioni, dell’istruzione, della sanità, dell’energia, degli alloggi, della cultura e della sicurezza, e non limitarsi a creare un quadro normativo per i fornitori privati, che si preoccupano principalmente di spremere i settori più redditizi». Il compito dello Stato, secondo Kubitschek, è quindi quello di «nazionalizzare e contemporaneamente ridurre la burocrazia» – anche se non sembra capire che più lo Stato interferisce nell’economia, più la burocrazia inevitabilmente prolifera. Kaiser sostiene la nazionalizzazione di tutti i settori economici cruciali per lo sviluppo del Paese, come l’industria pesante, la chimica e i trasporti. Non vede inoltre alcuna giustificazione per le centrali elettriche e gli acquedotti gestiti privatamente, ecc. D’altra parte, concede generosamente che le industrie leggere e dei beni di consumo possano rimanere «campi di attività per l’iniziativa capitalistica cooperativa e privata».

Marx, Engels e Lenin, a cui anche gli anticapitalisti di destra fanno spesso riferimento, avrebbero bollato l’ideologia degli anticapitalisti di destra come una critica reazionaria piccolo-borghese del capitalismo. Tutte le grandi imprese e le corporazioni sono considerate problematiche, mentre vengono idealizzate «le comunità di consumatori, le locande cooperative dei villaggi, che emettono un dividendo sotto forma di festa comunitaria, e le fattorie, che forniscono ai loro piccoli investitori cibo gratuito (rendimento delle azioni)». 

La Germania Est è stata scelta come terreno di prova per questi sogni anticapitalistici. Dopo tutto, sostiene Kaiser, i sondaggi mostrano che il settantacinque per cento dei tedeschi dell’Est è favorevole a un sistema socialista, ma ritiene che non sia mai stato attuato correttamente. Per Otto Strasser, il leader dei nazionalsocialisti di sinistra, Kaiser propone il concetto di «feudo ereditario» che potrebbe sostituire la proprietà privata. Di conseguenza, lo Stato rimarrebbe l’unico proprietario della terra e dei mezzi di produzione, lasciando la gestione all’individuo «in base alle capacità e al valore, come un feudo ereditario».

Sotto tutti gli altri aspetti, queste proposte di politica sociale sono strettamente allineate con quelle dei partiti di sinistra tedeschi. I ricchi devono essere maggiormente gravati sotto tutti i punti di vista, ad esempio aumentando le imposte sul reddito per chi guadagna di più e reintroducendo l’imposta sul patrimonio, che in Germania non è più stata applicata dal 1996. 

L’immagine di una “regolamentata economia sociale di mercato” o “economia sociale di mercato regolamentata del XXI secolo” (Kaiser) ha in realtà ben poco a che fare con una vera economia di mercato. La speranza della destra anticapitalista è di riunire elementi nazionali e sociali in un unico movimento, con un odio per i ricchi comune a entrambi. Kaiser cita con favore la richiesta dell’ex Segretario del Lavoro statunitense Robert B. Reich: «Dobbiamo creare un movimento che unisca destra e sinistra per combattere l’élite dei ricchi». Gli anticapitalisti di destra hanno innanzitutto puntato a respingere gli elementi economici liberali dell’AfD per far posto al patriottismo sociale propagandato da Björn Höcke, leader dell’ala destra dell’AfD in Turingia (Germania orientale). 

È importante non sottovalutare gli anticapitalisti di destra, perché hanno già sfiorato il loro obiettivo. La sintesi tra nazionalismo e socialismo esercita un forte fascino sugli elettori. Lo dimostrano non solo i recenti movimenti in Francia (come il Rassemblement National di destra o il movimento nazionalista di sinistra guidato da Jean-Luc Mélenchon), ma anche la storia tedesca, che mostra quanto possa diventare esplosiva questa miscela di nazionalismo e socialismo. Questo non significa che i nuovi anticapitalisti di destra siano nazionalsocialisti in senso tradizionale, ma il loro movimento combina certamente le ideologie del nazionalismo e del socialismo.

Questa strategia ha avuto particolare successo nella Germania orientale. Dopo oltre mezzo secolo di indottrinamento nazionalsocialista e socialista, l’anticapitalismo è molto più forte negli Stati orientali della Germania che in quelli occidentali, come confermano molti sondaggi. La miscela di anticapitalismo e nazionalismo, propagandata da Björn Höcke e da altri leader dell’AfD nella Germania orientale, ad esempio, ha avuto molto successo in tutta la regione. Molti elettori dell’est che prima votavano per il partito radicale di sinistra Die Linke ora votano AfD.

Die Linke e l’AfD hanno un’altra cosa in comune: l’antiamericanismo. E questo antiamericanismo è uno dei motivi principali per cui entrambi i partiti rifiutano il sostegno militare all’Ucraina e minimizzano l’imperialismo russo. L’amico di Putin, l’ex cancelliere della Germania Gerhard Schröder (SPD) e il leader dell’AfD Tino Chrupalla, hanno partecipato in modo dimostrativo a un ricevimento presso l’ambasciata russa a Berlino per celebrare l’anniversario della vittoria degli Alleati sulla Germania di Hitler.

Una netta maggioranza di tedeschi occidentali si schiera con l’Ucraina, ma nella Germania orientale il sostegno all’Ucraina è accolto con grande scetticismo. Questo è un altro fattore alla base della continua ascesa dell’AfD nell’Est.

Jean-Jacques, il Rousseau buono. E poi c'è "l'altro"...Scaduto il contratto sociale, Rousseau in versione Giano bifronte ruotò di 180 gradi la sua testolina ormai canuta e prese a osservarsi nei panni di Jean-Jacques. Daniele Abbiati il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

Scaduto il contratto sociale, e non più rinnovabile a causa della manifesta insoddisfazione delle (ipotetiche fra le ipoteche) parti contraenti, e chiuso a doppia mandata nel cassetto dei sogni lo stato sociale, Rousseau in versione Giano bifronte ruotò di 180 gradi la sua testolina ormai canuta e prese a osservarsi nei panni di Jean-Jacques. Ciò che vide non gli piacque, dunque lo considerò degno di essere romanzato. L'operazione richiese l'invenzione di un deuteragonista, subito individuato nel presunto (forse persino sperato...) complotto ai suoi danni, sicché Le confessioni e gli altri scritti affini e collaterali assunsero il rango di una diffusa memoria difensiva, peraltro arricchita da abilissime e strategicamente geniali auto-accuse volte a generare il pensiero controdeduttivo del lettore. Inoltre occorrevano due impulsi, uno psicologico e l'altro patologico, che giustificassero le molte azioni riprovevoli di JJ: ed ecco schierati in campo, da un lato lo spirito di emulazione, l'engouement per i cattivi esempi, e dall'altro una sorta di «crisi di assenza» o «crisi epilettica», insomma un momentaneo black out delle capacità di discernimento. Infine serviva ciò che a prima vista parrebbe paradossale, in un contesto memorialistico, ovvero l'oblio, l'arte del dimenticare che desse valore, mimetizzandola nei vari contesti, all'arte della memoria.

Sistemati sulla scrivania i suddetti strumenti di lavoro, il nonno (putativo) dalla Rivoluzione francese impiegò gli anni da pensionato a rivalutarsi come scrittore, dopo aver pagato decenni di contributi volontari da filosofo. E adesso siamo noi a spiare chi spiò se stesso, spesso vedendosi riflesso negli specchi deformanti, per oltre mezzo secolo. Il titolo del saggio di Bartolo Anglani, L'altro Rousseau (Le Lettere, pagg. 622, euro 35), paga il pegno di un aggettivo inflazionato, ma in compenso il sottotitolo acchiappa assai: «La memoria, l'impostura, l'oblio». Perché questo fu il Rousseau autobiografo: un pendolo in moto perpetuo fra ricordo e dimenticanza mosso da menzogne, omissioni, non-c'ero-e-se-c'ero-dormivo, distrazioni di comodo e scene mute. Per cogliere come Rousseau sia agli antipodi rispetto a Proust, basta notare che mentre il secondo alimenta la sua narrazione con cose viste, odorate, mangiate (la celebre madeleine), il primo fa perno su azioni (il nastro rubato, il pettine rotto...), e che mentre Marcel procede, sebbene mai in linea retta, verso un'unica direzione, JJ è maestro del voltafaccia e/o della giravolta, introdotti da un semplice «tuttavia» (cependant).

Anglani, citazionista di vaglia che si tratti del soggetto in questione o dei suoi innumerevoli interpreti e studiosi (al netto degli idillici e degli psicologisti, che aborre), ci suggerisce tre immagini del Rousseau confessionale: lo sbalestrato in lotta contro i mulini a vento da lui stesso inventati, come il Don Chisciotte di Cervantes; il trasformista compulsivo, come il Leonard Zelig di Woody Allen; e soprattutto il geneticamente bugiardo, come Pinocchio. Ma il pezzo forte della sua analisi resta quel magico verbo, oublier. «L'oblio - scrive - è il filtro che rende visibile il passato decomponendolo in frammenti e impedisce all'occhio di essere abbagliato dall'eccesso di presenza». Un filtro che funziona come un caleidoscopio, nel senso che trasforma pezzettini di caso in una sontuosa e simmetrica architettura.

"Anche il populismo della politica di oggi è figlio del 1789". Ci sono teorie e idee che dalla Rivoluzione francese portano sino alla contemporaneità, e alla politica di oggi, attraverso percorsi carsici non sempre evidenti e, spesso, trascurati dalla manualistica storica. Matteo Sacchi l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Ci sono teorie e idee che dalla Rivoluzione francese portano sino alla contemporaneità, e alla politica di oggi, attraverso percorsi carsici non sempre evidenti e, spesso, trascurati dalla manualistica storica. Eppure l'attuale populismo non potrebbe esistere se non fosse stato coltivato a partire da Rousseau e Robespierre. Ne parliamo con lo storico contemporaneista Marco Gervasoni (tra i suoi libri ricordiamo La Francia in nero. Storia dell'estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio 2017).

Professor Gervasoni, quanto è rimasto di vivo della Rivoluzione francese nella politica di oggi?

«Chiaramente tutta la politica dell'800 e '900 è determinata dalla rivoluzione francese. Basti pensare che la divisione tra destra e sinistra che utilizziamo abitualmente ha origine in quel contesto. Se la democrazia liberale è nata negli Usa e in Gran Bretagna, il concetto di volontà popolare è figlio dell'illuminismo continentale che ha determinato molti esiti della politica europea dalla Rivoluzione in poi. Ma definire cosa sia la volontà popolare è molto complesso. Già Edmund Burke mise in luce che è un'astrazione che può, facilmente, portare alla dittatura».

Quindi la rivoluzione francese è strettamente collegata anche alle dittature del Novecento?

«Indubbiamente c'è un legame diretto con il comunismo che è stato anche rivendicato e molto ben analizzato, ma questo rapporto era molto evidente anche nel caso del fascismo e in qualche modo c'era anche col nazionalsocialismo».

Nel caso del fascismo?

«Mussolini lo spiegò bene anche nella voce della Treccani, a sua firma, sul fascismo: disse che non si trattava affatto di un movimento di matrice reazionaria. De Felice ed Emilio Gentile hanno evidenziato, con cura, tutti i rimandi presenti nel fascismo che arrivavano direttamente dalla rivoluzione francese. Basti pensare al cambio del calendario. I partiti che hanno incarnato un millenarismo, da religione laica, il cui fondamento era pretendere di essere il Bene assoluto hanno ereditato un'attitudine tipica della Rivoluzione francese, figlia di modalità legate soprattutto, ma non solo, al pensiero di Rousseau, o meglio alla versione dei pamphlet giacobini basati su Rousseau».

Questo richiamo alla volontà popolare come strumento politico è ancora presente oggi?

«Era meno usuale durante il lungo periodo della Guerra fredda, dove i partiti e le élite economiche avevano un maggior ruolo di mediazione politica. Ora dalla destra di Le Pen sino alla sinistra di Grillo è tornata di assoluta attualità. Ovviamente è un richiamo che si scontra, molto spesso, con la gestione reale della complessità di governo. Del resto è un concetto così poco definito che molti di quelli che l'hanno usato, a partire da Robespierre, ci hanno messo poco a sovrapporre la volontà dei propri sostenitori a quella del popolo».

La Rivoluzione nata nei café. I social del 1789. Storia di Vittorio Macioce il 3 luglio 2023 su Il Giornale

Le masse si muovono quando inseguono una voce, una rabbia condivisa che si nutre di parole e si diffonde a ritmo esponenziale. Le rivoluzioni, come la musica, hanno bisogno di un'acustica, di amplificazioni. Parigi queste cose le sa, le ha già vissute. Non basta l'inquietudine, la disperazione, il senso d'ingiustizia o quella sensazione di non avere un futuro. Servono le parole. La presa della Bastiglia, in quel 14 luglio del 1789, è stata prima sognata nelle caffetterie. È al Café Procope, battezzato così da Francesco Procopio di Acitrezza, che le idee dell'illuminismo escono di casa. Le idee di un uomo venivano giudicate in base al Caffè che frequentava. C'è sempre qualcuno che trova un pulpito e incarna le paure e il rancore per segnare la strada della rivolta. «Alle armi! Alle armi!» È quello che il poeta Camille Desmoulins urlava, dopo parecchi bicchieri di troppo, il 12 luglio in precario equilibrio su un tavolo del Café de Foy. Non ha mai ricordato bene le parole del suo discorso, ma oltre a qualche passo del suo pamphlet La France libre suggerì di usare una coccarda verde come segno di riconoscimento. Alla fine tutti lo abbracciarono e lui pianse commosso. Due giorni dopo una folla disordinata saccheggiò il deposito di armi dell'Hôtel des Invalides (cannoni e moschetti, ma niente polvere da sparo) e si incamminò verso la Bastiglia. Il resto più o meno si sa. La carriera di rivoluzionario di Desmoulins finì male, fu ghigliottinato dal suo migliore amico e testimone di nozze, Maximilien de Robespierre. Tutto è rumore. Quando le masse entrano nella storia, e questo accade e riaccade nei secoli con sempre più fragore, non c'è più nulla di certo. I vecchi mondi sbandano e le istituzioni si sgretolano. È successo nella Roma repubblicana del primo secolo avanti Cristo, con le guerre civili e la dissacrazione del mos maiorum. E poi con le rivoluzioni mercantili che segnano il lento addio al Medioevo e ancora con la rivoluzione francese, con i café parigini che amplificano le voci degli intellettuali sradicati, fino a sollevare il popolo. Accade all'inizio del vecchio secolo, quando viene battezzata la modernità, in quell'Europa di moltitudini che non piaceva a Ortega y Gasset. L'ultimo arrivo è sotto i nostri occhi e le masse sono esponenziali, tanto da scardinare a colpi di like l'ordine di una civiltà che non crede più in se stessa. È quello che sta accadendo adesso in Francia. I social sono il luogo dove parole e sentimenti si ritrovano e rimbalzano e esondano. È la stessa logica dei café, con amplificatori da concerto heavy metal.

Un fondamento ideale allo stato sociale. Non c’è uguaglianza senza libertà e giustizia sociale: la ‘nascita’ nella rivoluzione francese e l’evoluzione socialista. La rubrica “Lessico riformista” di Alberto De Bernardi, professore e studioso di storia contemporanea. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia. Alberto De Bernardi su Il Riformista il 25 Giugno 2023

La parola uguaglianza irrompe nel lessico politico occidentale con le rivoluzioni americana e francese. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale di Parigi nel 1789 stabiliva che «gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti; quindi le distinzioni sociali non possono esser fondate che sull’utilità comune». Il principio di eguaglianza era in sostanza il riconoscimento che tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge indipendentemente dalle differenze di censo e di condizione sociale e rappresentava ilo sostrato materiale della libertà, che senza eguaglianza non poteva sussistere.

Ma già negli anni immediatamente successivi alcuni esponenti del movimento democratico e in particolare Filippo Buonarroti e Gracco Babeuf, organizzano una congiura contro il governo conservatore che si era imposto con la rivoluzione del 9 Termidoro che aveva posto fine al Terrore, in nome di una concezione radicale dell’egualitarismo di stampo comunistico.

L’eguaglianza restava formale per i congiurati che se non si aboliva la proprietà privata che era il luogo genetico della diseguaglianza. «Si strappino i confini delle proprietà, – si leggeva nel Manifesto degli eguali – si riconducano tutti i beni in un unico patrimonio comune, e la patria – unica signora, madre dolcissima per tutti – somministri in misura eguale ai diletti e liberi suoi figli il vitto, l’educazione e il lavoro». In queste poche righe si formulavano alcuni principi che avrebbero nel secolo successivo caratterizzato tutti i movimenti comunistici da Marx a Lenin: la statalizzazione della proprietà era la condizione perché tutti potessero godere in egual misura dei beni comuni. Se si aggiunge che nel Manifesto veniva teorizzata la necessità di un periodo di dittatura della minoranza rivoluzionaria che aveva preso il potere, la straordinaria modernità del pensiero di Babeuf e Buonarroti emerge in tutta evidenza.

Come era prevedibile la congiura fini male con Babeuf ghigliottinato e molti altri congiurati esiliati, ma lanciò un concetto destinato a durare nel tempo fino a giorni nostri, foriero di non poche contraddizioni: le libertà politiche non bastano a fondare l’eguaglianza se essa non è sostenuta dalla giustizia sociale, cioè da istituzioni e leggi che combattano le diseguaglianze che si creano nella società per le differenze di reddito e di ricchezza generati dai sistemi economico. L’estremizzazione di questo concetto ebbe vasta circolazione nei movimenti socialisti fino alla seconda guerra mondiale producendo una polarizzazione negativa tra libertà e eguaglianza, come se la prima fosse non solo un inutile orpello nella lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento e l’ingiustizia, ma un insieme di vuoti formalismo e di falsi principi utilizzati da potere per opprimere i lavoratori. La libertà per Marx è una idea astratta, fondamento dell’alienazione, perché nasconde ai lavoratori la materialità della loro iniqua condizione sociale. L’eguaglianza generata dalla rivoluzione comunista che aboliva la proprietà privava e statalizzava i mezzi di produzione rifondava anche una nuova idea di libertà che negava i formalismi dello stato di diritto ma metteva al suo centro il lavoro e la partecipazione alla costruzione dello stato socialista.

Da qui derivava l’idea che fino all’avvento dei totalitarismi ebbe largo seguito, che la lotta per la libertà, per i diritti civili o per la democrazia non appartenesse agli interessi dei lavoratori che si dovevano concentrare solo sulla lotta per l’eguaglianza che avrebbero realizzato solo nel nuovo stato socialista. Lo scontro tra Bernstein, uno dei dirigenti di spicco della socialdemocrazia tedesca e Lenin agli inizi del ‘900 verteva proprio su questo: per Lenin la democrazia e la libertà erano manifestazioni della falsa coscienza che sviava il movimento operaio dalla realizzazione della rivoluzione, mentre per Bernstein esse invece erano parte integrante della lotta per la giustizia sociale, senza le quali esse sarebbe progressivamente scivolata in un universo autoritario. E fu quello che puntualmente avvenne nell’Urss bolscevica o nella Cina maoista: la realizzazione violenta di una società egualitaria e la creazione di uno stato autoritario pensato come strumento che avrebbe dovuto garantirla contro i suoi nemici esterni e interni, produsse l’esatto contrario: una società di sudditi di una burocrazia potente e oppressiva senza libertà e senza eguaglianza.

Il fallimento del comunismo impose di ripensare all’eguaglianza come parte integrante dello stato di diritto. E nel 1931 fu Carlo Rosselli nel suo opuscolo Socialismo liberale a rompere il muro di una rigida polarità tra libertà e eguaglianza quando scrisse: “Il socialismo inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione. Il marxismo, e ancora una volta bisogna intendere per marxismo una visione rigorosamente deterministica della storia, ha condotto il movimento operaio a subire l’iniziativa dell’avversario, e una sconfitta senza precedenti… Il socialismo, colto nel suo aspetto essenziale, è l’attuazione progressiva della idea di libertà e di giustizia tra gli uomini: idea innata che giace, piú o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo d’ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitú della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero; possibilità di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda al demonio del successo e del denaro.

Nasce da questa sofferta riflessione nata nell’esilio antifascista e in un confronto serrato con il movimento comunista, la convinzione che il futuro dell’eguaglianza è dentro la libertà, ma anche che quello della libertà non può esistere senza l’eguaglianza. Essa ha tracciato un cammino ideale che non solo ha consentito di rifondare su basi nuove il riformismo, ma anche di dare un fondamento ideale allo stato sociale.

Alberto De Bernardi. Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.

 La mano (destra) invisibile. Chi pensa che Adam Smith fosse di sinistra si sbaglia di grosso. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 16 Giugno 2023

Il grande filosofo morale ed economista scozzese, nato trecento anni fa, criticava commercianti, imprenditori e ricchi ma era mosso da una certa diffidenza nei confronti del governo interventista e credeva che il miglioramento della vita fosse frutto dello sviluppo economico. E non della redistribuzione

Adam Smith è visto nella maggior parte dei casi come il padre del capitalismo moderno. Le sue opere sono citate da Milton Friedman, Friedrich August von Hayek e tanti altri pensatori liberali e libertari. Friedman spiegò che se Adam Smith «non fosse nato nel secolo sbagliato, sarebbe stato indubbiamente un docente dell’università di Chicago». L’università di Chicago è oggi considerata il centro del pensiero liberista. Nonostante l’elogio di Friedman, ci sono diverse opinioni differenti sul filosofo morale scozzese. Emma Rothschild, inglese e storica dell’economia, affermò in un saggio molto citato, che Adam Smith è stato un precursore tanto di quel che viene definita “sinistra” quanto di quella parte politico-culturale che viene chiamata “destra”. In più, il filosofo americano Samuel Fleischacker scrisse nel saggio Adam Smith e la Sinistra che «tanti accademici sono dell’opinione che Smith aveva delle tendenze socialdemocratiche».

La critica libertaria di Adam Smith

La critica più feroce di Smith, espressa da un esponente del libertarismo, è stata quella avanzata dall’economista Murray N. Rothbard, che nella monumentale opera Economic Thought Before Adam Smith: An Austrian Perspective on the History of Economic Thought afferma che, contrariamente a come viene abitualmente raffigurato, Adam Smith non era affatto un sostenitore dell’economia di mercato. Inoltre, sempre Rothbard, a causa dell’erronea teoria del lavoro espressa da Smith, vede quest’ultimo come una sorta di apripista di Karl Marx e sostiene che i marxisti sarebbero giustificati a citarlo e ad acclamarlo come l’ispiratore di Marx. Smith sarebbe stato un sostenitore dell’imposizione di un tetto sul tasso di interessi da parte dello Stato, di alte tasse sul consumo di beni di lusso e di un forte intervento pubblico. Secondo Rothbard, infine, Smith non comprese la funzione economica dell’imprenditore e, da un punto di vista teorico, non è stato all’altezza di economisti come Richard Cantillon. 

La sfiducia dello Stato

Nonostante alcune di queste critiche siano giustificabili, è sbagliato pensare a Adam Smith come a una persona di sinistra, perché era mosso da una certa diffidenza nei confronti del governo interventista e da una marcata fiducia per la “mano invisibile” che dirige il mercato nella direzione giusta. A parere di Smith, l’economia viene sempre danneggiata, non dagli imprenditori o dai commercianti, ma dallo Stato: «Le grandi nazioni non sono mai impoverite per la prodigalità e la cattiva amministrazione privata, sebbene talvolta questo avvenga per la prodigalità e la cattiva amministrazione dello Stato», scrisse nella sua celebre opera La ricchezza delle nazioni. 

In più, aggiunse con un tono ottimista: «Lo sforzo regolare, costante e continuo di ogni individuo per migliorare la propria condizione, principio da cui deriva l’opulenza sia pubblica e nazionale che privata, è spesso abbastanza forte per mantenere il corso naturale delle cose verso il progresso, nonostante la prodigalità del governo e i più gravi errori dell’amministrazione. Analogamente all’ignoto principio della vita animale, esso spesso ristabilisce la salute e il vigore nell’organismo non solo nonostante la malattia, ma anche nonostante le assurde prescrizioni del medico». Questa metafora è estremamente eloquente: i soggetti economici privati rappresentano attività salutari e positive, mentre i politici ostacolano l’economia con le loro assurde normative. Ai nostri giorni, Adam Smith sarebbe molto scettico se potesse vedere il crescente intervento nell’economia da parte dei governi europei e statunitensi, per non parlare di quei politici persuasi di essere più furbi del mercato.

Sempre nella Ricchezza delle nazioni scrisse: «Cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società (…) Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intende realmente promuoverlo». 

Risentimento per i ricchi, rispetto per i lavoratori

Un motivo per cui Smith può essere ritenuto di sinistra, deriva dal fatto che criticava commercianti, imprenditori e ricchi, mentre difendeva e richiedeva condizioni migliori per i lavoratori. Nella Ricchezza delle nazioni ci sono tanti passaggi che confermano questa sua visione: «I nostri commercianti e i nostri manifattori si lamentano molto dei cattivi effetti degli alti salari nell’aumentare il prezzo, e quindi nel ridurre le loro vendite tanto all’interno che all’estero. Essi non dicono nulla relativamente ai cattivi effetti degli elevati profitti. Essi tacciono sui dannosi effetti dei loro guadagni. Si lamentano soltanto dei guadagni degli altri». Oppure questo: «La gente dello stesso mestiere raramente si incontra, anche solo per divertimento e diporto, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro il pubblico o in qualche escogitazione per aumentare i prezzi».

Chi difende Smith, argomenta che in questi passaggi non esprime risentimento nei confronti dei ricchi o degli imprenditori, piuttosto dimostra il suo sostegno per la libera concorrenza e l’opposizione al monopolio. Nonostante questa argomentazione sia valida, è comunque importante far notare che Smith mostra una certa avversione nei confronti sia dei ricchi, che dei politici. Quindi, neanche Adam Smith, come altri intellettuali e persone istruite, era esente dal risentimento contro i ricchi.

Empatia come punto centrale della filosofia morale di Smith

Un altro punto che Smith non aveva compreso, era la funzione economica dell’imprenditore, aspetto che è stato spiegato successivamente da brillanti pensatori come Joseph Schumpeter. Invece che vedere l’imprenditore come una figura che porta innovazione, Smith erroneamente lo classificava principalmente come un manager e dirigente d’azienda. 

La “simpatia” è centrale nella filosofia morale di Smith e, infatti, nella Teoria dei sentimenti morali sottolinea l’importanza di questo concetto. Oggigiorno, dovremmo utilizzare il termine “empatia”, per descrivere l’abilità di capire e apprezzare i sentimenti degli altri. Smith ha individuato l’importanza dell’empatia, senza mai connettere il concetto all’imprenditorialità. Steve Jobs e altri imprenditori, invece, hanno compreso i bisogni e i sentimenti dei clienti, prima e meglio di loro, confermando che è l’empatia, e non l’avidità, la base per avere successo come imprenditore e il cardine del capitalismo. 

Le caratteristiche che posizionano Smith sulla sinistra dello spettro politico sono: la mancata comprensione del ruolo dell’imprenditore e il suo risentimento nei confronti dei ricchi. Inoltre, si è posto dalla parte dei lavoratori e aveva a cuore le loro condizioni. Ma, secondo Smith, il miglioramento della vita della gente comune non poteva essere raggiunto tramite la redistribuzione delle ricchezze o un eccessivo intervento dello Stato, bensì mediante i frutti dello sviluppo economico, che necessita di libertà economiche. Dunque, con la libertà economica si espande il mercato e di conseguenza aumenta il tenore di vita delle persone. Trecento anni dopo la sua nascita e circa duecentocinquant’anni dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni possiamo affermare che Adam Smith aveva ragione. 

Nazismo, Fascismo e Comunismo: la differenza spiegata in parole semplici. Scritto da FISAC CGIL il 23 agosto 2023.

Lo storico Alessandro Barbero spiega, in modo semplice e convincente, le differenze tra Nazismo, Fascismo e Comunismo.

Puoi scegliere in che modo seguire la sua spiegazione: leggendo il testo o guardando il video linkato alla fine dell’articolo.

Il Nazismo è una cosa che è stata inventata in Germania negli anni ‘20 e vent’anni dopo è finita: nel 1945 i capi nazisti sono morti tutti. Chiunque era stato nazista si è affrettato a buttare via il distintivo e a giurare che lui, per carità: “Sì, mi ero iscritto al partito per obbligo, però mai stato nazista in vita mia!” E il Nazismo lì è finito.

Poi voi direte “Ci sono ancora gli Skinheads in Germania Est che si ispirano a queste cose” (non ci stanno simpatici, magari): ma non è qualcosa di profondamente radicato e significativo. Il Nazismo, di per sé, è il Regime nazista: una roba che è stata messa su in Germania, che aveva lo scopo di rendere potente la Germania e sterminare gli Ebrei, scopo dichiarato fin dall’inizio. È stato quello. Tanto che, se voi trovate oggi uno che dice: “Io sono nazista”, è inutile chiedergli: “Ma Hitler ti sta simpatico?” Perché se uno è nazista, Hitler gli sta simpatico.

Il Nazismo aveva come simbolo la croce uncinata, la svastica; e la svastica vuol dire quello. Se uno oggi si volesse mettere una svastica all’occhiello, vuol dire: “Io sono per la dittatura, il militarismo, lo sterminio degli Ebrei, la grande Germania e così via”. Vuol dire quello.

E il Fascismo?

Il Fascismo è nato nel ‘19 e nel ‘45 è morto. È durato poco più di vent’anni anche lui. È morto il Fascismo ma non sono spariti i fascisti. L’Italia era piena di fascisti ed è tutt’ora piena di fascisti, perché il regime ha governato il Paese per lungo tempo, con un consenso diffuso anche se non generalizzato, ha fatto delle cose che una parte del Paese voleva. Nella memoria delle famiglie italiane moltissime famiglie hanno memoria di nonni antifascisti, operai finiti in galera, partigiani. Moltissime altre famiglie, invece, hanno memoria di nonni fascisti che hanno raccontato ai loro figli che nell’Italia fascista si viveva benissimo, non c’era nessun problema e non si capisce perché oggi si deve…. è così, questo è un dato di fatto. Però Il Fascismo in quanto tale, come fenomeno storico, dura dal ‘19 al ‘45. Dopo c’è il Neofascismo che è un’altra cosa. E infatti, se voi trovate qualcuno  (lo trovate di sicuro, anche qui nel quartiere penso sia pieno di persone che dicono “Ah, io sono fascista in realtà”) è inutile chiedergli: “E Mussolini ti sta simpatico?” Perché se uno è fascista, essere fascista vuol dire identificarsi col regime di Mussolini. Quello è. E il fascio littorio è il simbolo di quel regime, di quei valori. Quali sono i valori? Beh, l’Italia dev’essere forte, potente, unita, non bisogna litigare,  non ci devono essere partiti (che litigano fra loro), non ci devono essere giornali che scrivono cose scandalose. Dev’essere un Paese unito, forte, gerarchico. Non bisogna eleggere i Sindaci: decide il Governo chi dev’essere il Sindaco di Roma. Bisogna marciare tutti quanti per le strade, tutti inquadrati, e così l’Italia sarà forte, potente e rispettata. È una roba che piaceva a un sacco di gente. E a me, se qualcuno mi dice: “ Questa roba mi piace” mi sta anche bene. Ha tutto il diritto di dirlo, naturalmente. Però il Fascismo è quello.

Ma il Comunismo?

Ammettiamo pure che sia finito anche lui, perché nel mondo di oggi non lo si vede come una forza organizzata e attiva e neanche come un ideale preciso condiviso, come una cultura diffusa. Ammettiamolo pure. Ammettiamo che sia finito il Comunismo, che i Cinesi non siano comunisti, è tutta un’altra cosa (e lì sarebbe lunga), ma ammettiamo che sia finito.

È nato all’inizio dell’800 il Comunismo. Nel 1848 esce un librino firmato da Marx e Engels che comincia con le parole “Uno spettro si aggira per l’Europa”. E cioè i padroni, i ricchi hanno i brividi perché si sono accorti che i loro operai non si accontentano più di lavorare ed essere sfruttati ma si stanno organizzando e vogliono qualcosa. Vogliono cambiare il mondo.

Comincia nella prima metà dell’800 e dura fino a ieri. Centocinquant’anni. Il Comunismo è esistito in tutti i Paesi, nel senso che in tutti i Paesi del mondo ci sono state persone che dicevano “Io sono comunista, voglio il Comunismo”; ci sono state organizzazioni e partiti comunisti. Nella grande maggioranza dei Paesi non sono mai andati al potere, sono sempre stati perseguitati. Essere comunista voleva dire rischiare la galera o molto peggio. Perché ci sono tanti Paesi dove essere comunista a un certo punto voleva dire: ti sbattono al muro se ti trovano.

Dopodiché i partiti comunisti sono andati al potere in molti Paesi, per primo in Russia nel 1917 e poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel ‘45 in tanti altri Paesi. E non c’è nessun dubbio che al governo siano stati disastrosi. Non c’è nessun dubbio sul fatto che i Comunisti, dovunque sono andati al governo, hanno messo in piedi dei regimi fallimentari.

In Unione Sovietica è stato messo in piedi un regime omicida e assassino che ha dato tante cose – molta più eguaglianza che sotto il capitalismo – ma anche molta retorica vuota, molta propaganda insopportabile e molta violenza omicida. Stalin incarna un comunismo al potere che nei suoi anni, in quei vent’anni in cui Stalin è stato al potere in Unione Sovietica, ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler. Certo!

Dopodiché, il Comunismo è quello?

Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia appena unita di Vittorio Emanuele II che il Comunismo sono i campi di concentramento. Vallo un po’ a dire a quelli che si son fatti ammazzare in tanti Paesi lottando contro il colonialismo per esempio, e pensando che il Comunismo era una cosa meravigliosa.

Erano degli illusi? Può darsi benissimo. Però essere comunista, per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista, ha voluto dire: “Noi sogniamo un mondo migliore”. E cioè non un mondo dove marciamo tutti inquadrati e invadiamo l’Etiopia o la Polonia, beninteso: un’altra cosa. Un mondo dove sono tutti fratelli, tutti uguali.

Era un’utopia, erano degli illusi? È probabile. Quando hanno avuto la possibilità di applicarlo hanno fatto dei disastri! Verissimo. Dopodiché, la differenza mi pare evidente rispetto al Fascismo e al Nazismo. E se uno ignora questa differenza ignora la verità. Perché  la verità è che tu non puoi dire “Essere comunista è come essere nazista, la falce e martello è come la svastica”. Sono due cose diverse.

Il dibattito sul fascismo e la politica odierna. Sul fascismo antiliberista Canfora sbaglia, Mussolini non fu paladino delle fasce a basso reddito. Michele Prospero su Il Riformista il 13 Aprile 2023

Il Foglio ha segnalato la strana esortazione apparsa sul Corriere affinché Giorgia Meloni, “soggiogata intellettualmente da compagni di strada iperliberisti”, si mostri più coerentemente fascista nelle sue politiche fiscali. La firma autorevole, lo storico Luciano Canfora, ritiene che la destra di oggi, che nel suo afflato liberista dimostra che “la prosapia si è fatta trumpiana”, sia insensibile alle aperture sociali che hanno invece caratterizzato il fascismo nel secolo scorso. Stanno davvero così le cose per i “fratelli in camicia nera”? Che il programma elettorale dei Fasci di combattimento del 1919 contenesse la misura di una tassazione progressiva non costituiva invero una straordinaria novità nella cultura politica del tempo.

La stessa proposta venne formulata anche da Giolitti, il “bolscevico dell’Annunziata”. Nel discorso di Dronero dell’ottobre del 1919, in vista delle elezioni, lo statista liberale «chiedeva una riduzione delle spese militari, un’imposizione fiscale durissima e progressiva sui redditi, e un’imposta straordinaria sul patrimonio» (C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo, vol. II, Laterza, 1999). Quella tassazione progressiva che per Marx rappresentava una misura di riforma molto radicale (ben oltre “l’odore di zolfo giacobino”) divenne, dopo la grande guerra, una misura quasi obbligata. Giunto al potere, però, con le sue aperture liberiste Mussolini dimenticò del tutto le rivendicazioni diciannoviste. Nella concreta azione di governo, si comportò in modo opposto rispetto a un personaggio “filopopolare e antiplutocratico” (insomma un “rossobruno” di tutto rispetto), come invece Canfora lo raffigura. Già nei primi mesi del 1923, aveva mutato registro per sposare il verbo liberista e attrarre il risentimento della piccola impresa contro le tracce di socialismo di Stato contenute tra “le bardature di guerra”.

Il regime fascista, con le sue politiche economiche, sino a metà degli anni Trenta, favorì i grandi produttori e affittuari in virtù del tratto demoniaco della “progressività alla rovescia delle imposte (pari in media al 5 per cento sui redditi più alti contro il 10 per cento su quelli più bassi)” (V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi). L’elevata regressività del sistema tributario liberale non fu certo alterata dal fascismo (che, anzi, pur confermando le imposte sui consumi, abolì la tassa di successione all’interno del nucleo familiare per favorire profi tti e rendite, e ridusse le aliquote nei casi residui). A comprendere perfettamente il significato delle politiche fiscali e di bilancio del ventennio fu Gramsci. Nei Quaderni egli scrisse che «l’indirizzo corporativo sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono sulla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione». Le entrate di bilancio e la tassazione, nelle politiche corporative, miravano al “mantenimento dell’equilibrio essenziale a tutti i costi” e, per scongiurare temibili reazioni di rigetto nella classe media, creavano “occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo”.

Per sciogliere i nodi di una “materia tecnica” dalle grandi implicazioni teoriche e politiche, l’articolo del Corriere si affida a una ricostruzione storica di più ampia gittata. In essa, però, confonde alcuni concetti di base per cui paradossalmente – ha ragione Il Foglio a rimarcarlo – il proposito di demolire “la demagogia della nostra destra trumpiana” si rovescia nell’esaltazione nientemeno che di varianti storiche del principio “iperliberista” della flat tax, che una volta deliberata azzera tutti gli obiettivi redistributivi delle politiche fiscali. Secondo Canfora, l’attuale valore costituzionale della tassazione “informata” a “criteri di progressività” (un cardine di una Repubblica a forti tinte social-lavoristiche che si spinge oltre il modello di Weimar) «riprende quasi di peso l’articolo 25 dello Statuto Albertino» (una carta, però, dal chiaro fondamento proprietario-agrario), che riconduce il tributo dovuto dai “regnicoli” alla “proporzione dei loro averi”. A sua volta, il documento albertino, nel suo ancoraggio alla proporzionalità, è identico – si legge sempre sul Corriere – alla Costituzione del 1830 di Luigi Filippo.

Entrambe, nella sostanza, hanno “ricopiato di peso” il contenuto fiscale dalla Carta francese del 1814, quella della monarchia restaurata, che si aggrappa alla “proporzione” tra ricchezze e tassazione. Qualcosa, però, non torna: basti leggere il lucidissimo intervento alla Costituente del deputato democristiano Salvatore Scoca, che, tra le perplessità di Corbino, formulò il “sistema” della progressività dell’attuale articolo 53 della Costituzione in esplicita opposizione ai criteri proporzionali zoppicanti dello Statuto Albertino. Il filologo classico si concede una traduzione a senso, molto libera (diciamo pure “liberista”), dei documenti costituzionali sfornati tra Ottocento e Novecento. Non è solo il regime fiscale ad esserne lambito, anche l’istituto dell’espropriazione viene da lui sganciato dalla proclamazione della “funzione sociale” della proprietà privata, scolpita proprio nell’art. 42 della Costituzione italiana del 1948, e annacquato con genealogie dubbie che riconducono sempre alla Carta francese dell’età della Restaurazione, che presenterebbe così gli stessi principi-valori della legge fondamentale firmata da Terracini.

Tassazione proporzionale (orientata ad effetti di efficienza) e tassazione progressiva (finalizzata a scopi di redistribuzione) non sono l’identica cosa, come invece suggerisce il pezzo del Corriere. Una delle prime sistemazioni giuridiche del canone fiscale della proporzionalità si ebbe sotto l’impulso della dottrina cameralistica che, in opposizione all’Antico Regime, suggeriva nei domini asburgici l’adozione di grandi riforme dell’amministrazione e delle materie finanziarie. Anche in Lombardia, nel corso del ‘700, venne introdotta un’imposta fondiaria con “un tributo proporzionale alla ricchezza immobiliare”. La portata della riforma che, attraverso il riferimento al censo, istituiva la figura del proprietario-contribuente, in sostituzione della vecchia suddivisione della società in corpi distinti basata sui privilegi di status, fu notevole. «Con la proporzionalità si affermava il principio dell’equiparazione giuridica, rispetto allo Stato e alle funzioni pubbliche, tra il patriziato e la borghesia. Se ognuno era tenuto a contribuire in proporzione delle proprie rendite, cadeva il presupposto di uno status particolare per la nobiltà» (A. Padoa-Schioppa, Storia del diritto in Europa, Il Mulino, p. 415).

In virtù del suo significato storico, di sicuro innovativo rispetto all’antica società stratificata e corporativa, la tassazione proporzionale “instaura un principio di eguaglianza tributaria che si contrappone al privilegio” (F. Valsecchi, L’Italia nel Settecento, Mondadori, p. 511). L’imposta dovuta proporzionalmente, che assume tutti i contribuenti come soggetti astrattamente uguali, è però altra cosa rispetto ai principi della tassazione progressiva. Proprio la Costituzione francese del 1848, che Canfora rammenta, mentre richiama alla necessità di un versamento “en proportion de ses facultés”, esclude ogni possibilità di una contribuzione progressiva, che in vista del tributo recupera la differenza sociale tra gli attori. Le ragioni dell’avversione al gettito fiscale progressivo le ha ben colte Marx: «dalla tassazione progressiva, in cui la percentuale aumenti con l’aumentare del reddito, si cade direttamente in una sorta di socialismo molto incisivo», egli notava (Opere complete, vol. XII).

Il principio raccolto nella Costituzione italiana, e rimasto purtroppo una raccomandazione etico-politica che non sempre si è tradotta in efficaci disposizioni di legge, salda il richiamo all’eguaglianza sostanziale con l’obiettivo di una funzione redistributiva del tributo. Fatte salve le difficoltà di tracciare una qualificazione giuridica della ricchezza e di precisare una quantificazione delle imposte in un’economia a forte tasso di evasione, la tassazione progressiva disegna un’asticella mobile che, grazie alle differenti aliquote, si ispira a canoni solidaristici e mira a obiettivi autenticamente egualitari. L’opposto dell’imposizione proporzionale richiamata confusamente nell’articolo del Corriere. Nella sua filosofia, quest’ultima è molto vicina alla flat tax di Salvini in quanto contempla una quota fissa e si presenta senza legami con i doveri di solidarietà e con le finalità livellatrici proprie delle politiche fiscali. In un’imposta proporzionale, l’aliquota – come accade nell’Ires, che ne prevede una fissa al 24% – non sale perché non tiene mai conto della dimensione quantitativa delle ricchezze. La differenza è netta.

«Nella tassazione progressiva a mano a mano che aumenta l’imponibile aumenta anche la pressione in termini percentuali. La progressività può essere affidata alla scala delle aliquote, quando all’aumentare dell’imponibile l’aliquota cresca più che proporzionalmente» (M. Beghin, Diritto tributario, Giappichelli, p. 70). Il meccanismo proporzionale di contribuzione, invece, postula una percentuale uniforme, che non si eleva con l’incremento del reddito, e non intende incidere in alcun modo sulle ineguaglianze di mercato. Per questo, esso risulta essere il più simile ai marchingegni della flat tax. Le difficoltà amministrative dell’accertamento dei redditi rendono per taluni versi sterile la tassazione progressiva. La fuga del capitale dalla sovranità fiscale nazionale, d’altra parte, aumenta l’accanimento su alcuni tipi di reddito da lavoro e costringe a puntare sulle più inique imposte indirette. Tuttavia, sul piano teorico, “l’imposta progressiva rappresenta certamente l’imposta ideale dal punto di vista della funzione redistributiva del tributo” (ivi). Lo spiegano bene gli studiosi di scienza delle finanze: con il ricorso al meccanismo proporzionale o «utilizzando delle imposte a somma fissa uniformi, il grado di ineguaglianza generato naturalmente dal mercato rimane invariato. Con l’utilizzazione di imposte progressive l’ineguaglianza diminuisce e tende asintoticamente a 0» (R. Artoni, Lezioni di scienza delle finanze, Il Mulino, p. 261).

Gli epigoni di Reagan, oggi al governo, intendono ridurre le aliquote e, con la tassa piatta, promettono al tempo stesso meno gravami per i cittadini e maggiori entrate per lo Stato. Il presidente americano intervenne sul fisco tagliando di 23 punti il prelievo per ogni scaglione. Il risultato empirico della caduta dell’aliquota massima sulle persone dal 70% al 50% fu una miniera d’oro per i redditi più elevati, ma poco più di un nulla di fatto per le altre fasce sociali. Se, come lamenta Canfora, “la guerra delle tasse l’hanno vinta i privilegiati”, questo scacco avviene anche perché, nella battaglia delle idee, si confondono concetti fondamentali e soprattutto si insegue un fantomatico Mussolini antiliberista da proporre a Meloni come ideologo bizzarro di un immaginario rossobrunismo fiscale. Michele Prospero

Gli aiuti che non aiutano. Redazione L'Identità e Michele Gelardi su L’Identità il 14 Dicembre 2022.

I fautori dell’interventismo dello Stato in ogni campo della vita associata e perfino in quella privata ne sottovalutano le implicazioni perniciose, tra le quali il rallentamento dello sviluppo economico e l’incremento dell’invidia sociale. L’intervento della res publica è vincolato al rispetto della par condicio civium. Quando la pubblica amministrazione si limita a fare ciò che i soggetti privati non possono fare da sé, il canone egualitaristico non turba le relazioni sociali; quando invece lo Stato intende “aiutare” i privati a svolgere i loro compiti, si insinua nel tessuto sociale un veleno latente, perché il criterio della conformità cartolare diventa la chiave d’accesso all’”aiuto” di Stato. Ciò altera le condizioni della competizione economica e sociale, negata in radice dagli utopisti, ma ragionevolmente riconosciuta inevitabile dal buon senso comune, posto che ogni uomo, per sua natura, ambisce a conseguire un determinato successo in seno al consorzio sociale. Con l’invasione dello Stato-certificatore-autorizzatore la competizione si volge al basso, anziché all’alto. La libera concorrenza di mercato premia l’offerta che si adegua alla domanda, cosicché il consumatore è il vero dominus alla cui volontà deve obbedire il produttore. Il successo di quest’ultimo è legato alla sua capacità di offrire un prodotto migliore, rispetto a quello dei suoi competitors. Insomma, il dominio del consumatore indirizza gli sforzi produttivi verso il meglio. Viceversa, quando l’accesso e la permanenza nel mercato sono condizionati da un atto amministrativo, l’obiettivo d’impresa diventa la conquista dell’atto, prim’ancora che il miglioramento del prodotto. Questa dinamica di mercato, falsata e drogata dall’intervento burocratico, è stata ben descritta da Caprotti nel suo famoso libro “Falce e carrello”. L’offerta di “Esselunga”, molto apprezzata dai consumatori, è stata penalizzata dall’autorità politica a vantaggio della catena delle “cooperative rosse”. Supponiamo pure, ma Caprotti lo nega, che quelle cooperative offrissero un prodotto equivalente; sempre e comunque l’intervento pubblico di favore avrebbe comportato un danno per l’intera società, in ragione delle risorse umane sottratte alla ricerca del miglioramento del prodotto. È di tutta evidenza, infatti, che l’ingegno e le energie umane, applicate alla conquista dell’atto amministrativo, non possono al contempo essere impiegate per il miglioramento del prodotto, cosicché il mercato “protetto” dall’amministrazione pubblica rallenta lo sviluppo economico, indirizzando la competizione verso il “certificato”, piuttosto che verso il consumatore. C’è dunque motivo di stupirsi, se l’Italia soffocata dalla burocrazia di Stato perde competitività, a tutto vantaggio di economie meno “protette”? Al contempo la corsa al certificato avvelena i rapporti umani, facendo prevalere l’invidia distruttiva sulla spinta emulativa. Come la libera concorrenza è funzionale al miglioramento del prodotto, così la sana competizione sociale è funzionale al miglioramento delle professionalità della persona. Al contrario, la “droga” del certificato si rivela disfunzionale. La pubblica amministrazione può discriminare i competitors, solo in base ai requisiti “oggettivi” documentati dal certificato, sicché nei campi del suo intervento, la competizione non può che indirizzarsi verso la conquista dell’agognato certificato. Ognuno dei competitors desidera esserne il possessore monopolistico; vuole primeggiare, non già innalzando la propria professionalità, bensì impedendo agli altri di avere il medesimo certificato. Per questa via, l’invasività dello Stato nei campi un tempo regolati dallo jus privatorum, porta con sé inevitabilmente il veleno dell’invidia distruttiva, che volge al basso la competizione sociale.

I professionisti dell’antiliberismo. Lo statalismo autoritario degli ayatollah e la nostra ossessione per una parola che non c’è. Maurizio Stefanini su Linkiesta il 15 Dicembre 2022

L’ottanta per cento dell’economia dell’Iran è pianificata a livello centrale e passa dalle mani del potere dei mullah e dei pasdaran. Pensare che possa esistere un neoliberismo teocratico non ha senso, anche perché in italiano non si dice così

A volte ritornano, è il titolo di un famoso romanzo di Stephen King che è diventato un tormentone, e che parla di fantasmi. È appunto una sorta di fantasma quel «neo-liberismo» che in Italia torna non «a volte» ma abbastanza spesso. Adesso, ad esempio, in un saggio sulla rivista Il Mulino dove si analizzano le proteste in Iran in chiave di rivolta contro «anni di politiche di stampo neoliberista e repressione». Ma l’Iran può essere definito un Paese «neo-liberista»?

In Iran circa il sessanta per cento dell’economia iraniana è pianificata a livello centrale. Secondo la Banca Mondiale, il 17,5 per cento del Pil è costituito dal petrolio, che fornisce il sessanta per cento delle entrate statali, e che è monopolio della National Iranian Oil Company, appartenente al cento per cento allo Stato.

È vero che, dopo l’ondata di nazionalizzazioni seguite alla rivoluzione, le privatizzazioni del 2005-10 hanno ridotto il peso dello Stato sul Pil dall’ottanta al quaranta per cento. In questo senso si potrebbe paradossalmente dire che lo Stato iraniano ha subito un ridimensionamento «neoliberale», ma nello stesso senso in cui sui potrebbe dire che una persona costretta a dimagrire da trecento a centocinquanta chili per chi lo conosceva prima è diventato «secco da far paura».

Attenzione, però, che una caratteristica peculiare dell’economia iraniana è la presenza di grandi fondazioni religiose, i cui bilanci complessivi rappresentano più del trenta per cento della spesa del governo centrale.

Si stima inoltre che il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche controlli circa un terzo dell’economia iraniana attraverso filiali e trust. Si parla di legami con oltre cento aziende e di un fatturato annuo superiore ai dodici miliardi di dollari, in particolare nel settore delle costruzioni. Il ministero del Petrolio assegna alle Guardie miliardi di dollari in contratti senza appalto e in grandi progetti infrastrutturali.

Incaricato del controllo delle frontiere, il Corpo mantiene una sorta di monopolio del contrabbando, che costa alle aziende iraniane miliardi di dollari ogni anno, e che è incoraggiato dal sistema di sussidi generalizzato, con vasti controlli sui prezzi di cibo ed energia. Ma i Pasdaran gestiscono anche la società di telecomunicazioni e le cliniche per la chirurgia oculare con il laser; fabbricano automobili; costruiscono ponti e strade; sviluppano giacimenti di petrolio e gas.

Si potrebbe dunque dire che l’economia in Iran è ancora per oltre l’ottanta per cento sotto il controllo dello Stato. L’intreccio tra religiosi, milizia religiosa, istituzioni e economia rappresenta un sistema di monopoli armati che non c’entra niente con il neo-liberismo. E se le fondazioni religiose sono una caratteristica dell’Iran, il passaggio dell’economia dallo Stato a potentati militari è comune a vari Paesi che non a caso con l’Iran hanno stretti legami: dal Venezuela a Cuba passando per la Russia di Putin o per la Cina di Xi.

Anche a Cuba è in corso un ridimensionamento del ruolo dello Stato accompagnato da precarizzazione e passaggio di settori produttivi ai militari. E anche lì da un paio di anni si susseguono proteste sempre più dure. Pure a Cuba come in Iran è in corso una rivolta contro il neo-liberismo? Dipende ovviamente dalla definizione che si dà di neo-liberismo. Il direttore della rivista il Mulino Mario Ricciardi spiega che «nella letteratura recente neoliberalismo è il nome che è stato dato a una tendenza globale del capitalismo (non del mercato) che subordina – riducendole in modo sostanziale – le esigenze della giustizia sociale e della tutela dell’ambiente a quelle della crescita».

Un duro critico del neo-liberalismo è anche Vittorio Emanuele Parsi, che nel suo recente saggio Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale ha contrapposto il liberalismo doc a neo-liberalismo, proponendo un ritorno a Roosevelt e Churchill. Il passaggio dal primo al secondo, avvenuto con la fine della Guerra Fredda, avrebbe fatto aumentare diseguaglianze, incertezze e povertà, fornendo la base per la crescita di populismo e sovranismo: risposte sbagliate che hanno aggravato il problema, come dimostra il fenomeno Trump.

Il libro però ricorda che si è aperto anche lo spazio per un ritorno massiccio dell’autoritarismo, la cui forma più compiuta è in quello che Parsi definisce il «capitalismo di concessione cinese». Quindi, si può certamente pensare peste e corna del neo-liberalismo, ma non per questo fare di tutta l’erba un fascio.

Assieme a fenomeni che come appunto quelli di Cina, Russia, Iran, Venezuela o Cuba non si basano sulla «idolatria del mercato», ma su un incesto mafioso tra governanti autoritari, privati collusi e prestanome di militari e servizi segreti, dove al taglio di sussidi o garanzie non corrisponde affatto un aumento di libertà sindacali, associative o di informazione, che però in un sistema «neoliberale» dovrebbero essere garantiti.

A proposito di liberalizzazione, potremmo ricordare che ad esempio in Cina tra 1995 e 2001 le imprese a controllo statale scesero da 1,2 milioni a 468mila, e i dipendenti statali dal cinquantanove al trentadue per cento. Ma banche, energia, telecomunicazioni, trasporti restano saldamente statali. Ci sono poi le joint-ventures tra entità statali e privati: in genere, ma non sempre, stranieri. Frequenti nell’industria automobilistica, in logistica e in agricoltura. Ci sono i privati puri; che però dipendono pesantemente dallo Stato per il credito, e c’è il dubbio che i più importanti di loro siano prestanome delle Forze Armate. Ci sono le imprese collegate ai governi locali, specie nelle infrastrutture. E c’è il laogai: universo concentrazionario con almeno 250mila detenuti, da cui verrebbe ad esempio almeno un quarto del tè.

Sicuramente, la precarizzazione è diffusa, e anche parlare di controllo dello Stato non sarebbe del tutto corretto, se si dà al termine un senso occidentale. C’è piuttosto una consorteria che occupa allo stesso modo istituzioni e economia, confondendo i ruoli in modi inestricabili.

In effetti, definire «neoliberali» le varianti del capitalismo di concessione sarebbe più o meno come dare del «comunista» a ogni forma di dirigismo. Cioè, dire che il regime degli ayatollah è «neo-liberale» per il fatto che il novanta per cento dei rapporti di lavoro è temporaneo non è troppo diverso che definire «comunisti» Mussolini e la Democrazia cristiana per il fatto che tra la crisi del 1929 e le privatizzazioni degli anni Novanta attraverso l’Iri l’ottanta per cento del settore bancario italiano era in mano allo Stato.

Questo, sul «neo-liberalismo». Ricciardi e Parsi usano la parola, che è la traduzione letterale del termine inglese. Il saggio, però parla di «neo-liberismo». Appunto, siccome «a volte ritornano», possiamo anche noi tornare a quanto già scritto nel febbraio del 2020, quando il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador twittò «Colpa del neo-liberalismo» per spiegare l’omicidio di Fátima Aldrighett: una bambina di sette anni il cui cadavere era stato ritrovato in un quartiere popolare a sud-est di Città del Messico dentro a un sacchetto di plastica, e con atroci segni di torture. «No, signore, a Fatima non le hanno rubato un portafogli pieno di soldi per mangiare. Non è colpa del modello neoliberale. Non è colpa della povertà. È colpa della disumanizzazione e i suoi commenti non aiutano», gli risposero sui social.

Era una polemica in contemporanea a simili «allarmi» italiani, ed avevamo allora ricordato che, in realtà, in italiano il neo-liberismo non dovrebbe esistere. La distinzione cui Parsi fa riferimento è infatti quella tra il liberalismo come dottrina politica generale ispiratrice di partiti, e il liberismo come pratica di governo basata sul minor intervento possibile dello Stato nella gestione dell’economia. Che è poi un concetto astratto, da tradurre volta per volta in termini concreti. Ad esempio: la Brexit è stata liberista nel senso che ha tolto di mezzo le normative europee, o anti-liberista nel senso che ha frapposto al libero commercio nuove barriere doganali?

In concreto il liberismo è un aspetto del liberalismo: non il solo, visto che oltre alla libertà di azione economica ci sono anche la libertà di azione politica, la libertà di coscienza, più in generale la difesa dell’autonomia dell’individuo rispetto allo Stato.

Storicamente i partiti e i governi liberali storici hanno però spesso preso posizioni che comportavano invece un intervento dello Stato: dai liberali britannici che a inizio ‘900 sposarono quella battaglia di Henry George per la tassa unica sulla terra ancora ricordata nell’inno del partito; a Giolitti che promosse la nazionalizzazione di ferrovie e assicurazioni sulla vita.

Benedetto Croce fu un grande teorico del liberalismo italiano che dopo essere stato ministro di Giolitti ne difese l’operato nei suoi libri di Storia. Luigi Einaudi fu un altro grande teorico del liberalismo italiano che invece rispetto allo statalismo giolittiano era critico, pur se poi alla Costituente propose l’intervento dello Stato con un sistema di anti-trust, appunto per tutelare la concorrenza contro la formazione di monopoli.

Per Croce il liberalismo poteva essere separato dal liberismo: nel senso che il liberalismo era per lui un metodo di governo volto alla ricerca della libertà, e che volta per volta per difendere la libertà poteva anche essere necessario far intervenire lo Stato in economia. Einaudi ribatteva che senza pluralismo economico il pluralismo politico diventa impossibile. Considerazione sempre valida, anche se la condizione necessaria può non essere sufficiente, come dimostra la recente voga di governi autoritari e liberisti allo stesso tempo: dal Cile di Pinochet alla Cina. O, per lo meno, con l’immagine di liberisti.

Abbiamo ricordato come la Cina possa essere definita piuttosto un «capitalismo di concessione», ma anche Pinochet mantenne sempre il monopolio di Stato sul rame della Codelco, prima fonte di entrate per lo Stato in generale e per le Forze Armate in particolare. Proprio Pinochet, anzi, volle che una quota fissa dei proventi della Codelco andasse in spesa militare.

Se ricordiamo ancora che per Einaudi lo Stato poteva benissimo intervenire proprio per difendere il pluralismo economico, ci accorgiamo che in realtà le due posizioni non sono contrapposte in modo così radicale. Il famoso dibattito partì nel 1928 con una recensione di Einaudi ad alcuni scritti di Croce, e dunque acquisì un tono larvatamente polemico. Ma i due comunque si stimavano, erano in contatto epistolare intenso, e dopo il fascismo sarebbero stati entrambi tra i promotori del ricostituito Partito Liberale Italiano.

Ma la stessa distinzione logica che la lingua italiana ha espresso con la coppia di termini liberalismo-liberismo altre lingue la hanno espressa con altre coppie di termini. In inglese, ad esempio, il «liberal» è un liberale in senso crociano. Se si vuole specificare «liberista» si deve aggiungere: «classical liberal», o «free market liberal». In spagnolo, e specie in America Latina, i partiti liberali storici erano caratterizzati dall’anticlericalismo, dalla lotta per la democrazia e anche da richieste di ridistribuzione, più che dal liberismo.

Chi ha letto Cent’anni di solitudine ricorderà che i tre punti per cui combattevano i liberali di Aureliano Buendía nella guerra civile colombiana erano riforma agraria, separazione tra Stato e Chiesa, pari diritti tra figli legittimi e naturali. Per questo il «nuovo» liberalismo di provenienza europea e nord-americana che sull’onda della Scuola di Chicago e della Scuola Austriaca insisteva sulla lotta allo statalismo fu definito «neo-liberalismo». Che è un calco da un inglese «neo-liberalism» che si afferma in particolare dagli anni Cinquanta. Ma dopo l’esperienza di Pinochet il termine fu molto usato in senso critico e polemico in America Latina, e da lì attraverso circuiti terzomondisti rimbalzò nella sinistra mondiale.

Non sappiamo in realtà se perché il liberismo di Einaudi era in realtà più aperto all’intervento dello Stato che non il «neo-liberalism» o per fattori di moda, ormai anche in ambienti accademici italiani si è iniziato a usare «neo-liberalismo» con una sfumatura diversa da «liberismo». Si parla pure di un «ordo-liberalismo» di derivazione tedesca che accetta un intervento statale nell’economia non per correggere le ingiustizie del mercato ma per darvi regole, che è di fatto l’ideologia della Ue, e che forse è la variante più vicina alle posizioni che Einaudi difese alla Costituente.

Ma «neo-liberismo», modesta proposta, è forse un tipo di termine che sarebbe il caso di evitare. Non è traduzione letterale e crea confusione, nel momento in cui mette assieme e confonde i ragionamenti elevati del dibattito Croce-Einaudi con toni chiassosi da populismo latinoamericano.

La forza dei valori conservatori come argine al pensiero unico. "Tu sei il messaggio", ultimo saggio di Alessandro Nardone, spiega come i conservatori possano tracciare una rotta di resistenza alla pressione omologante del globalismo. Andrea Muratore il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Iper-tecnologizzazione delle società, individualismo diffuso, pensiero unico, politicamente corretto: i quattro cardini del globalismo, secondo l'analisi di "Tu sei il messaggio", ultima fatica editoriale di Alessandro Nardone, sono altrettanti elementi che contribuiscono in un modo o nell'altro a annacquare i valori tradizionali delle società occidentali.

Nardone, consulente di marketing digitale e docente di branding e marketing digitale all’Istituto Europeo di Design e all’International Academy of Tourism and Hospitality, è anche uno studioso di politica internazionale e di pensiero politico. Nel suo saggio edito da You Can Print, parla di come i conservatori e gli esponenti della cultura politica identitaria possano - e debbano - affrontare le sfide della cultura progressista, che tende verso il globalismo, senza battere in ritirata. Anzi, piuttosto che ritirarsi nella torre d'avorio del vittimismo e dell'autoreferenzialità, lamentando la fine dei tempi dei valori passati e accusando il mondo progressista e la sinistra di averlo demolito senza compiere azioni in risposta.

Società moderne sottoposte al dominio degli algoritmi che indicizzano le preferenze, chiamate a un consumismo indifferenziato senza neanche la garanzia della tutela di valori certi, sottoposti alla reprimenda del pensiero unico dei valori progressisti e censurate nella loro possibilità di esprimersi rischiano, nota Nardone, di "intimorire le persone" che non si conformano, "facendole sentire sbagliate per i valori in cui credono e riducendole, infine, al silenzio". Una sorta di "Psicopolizia" alla Orwell, per Nardone, "ha dato vita a una caccia alle streghe costruita ad arte come diversivo per imporre surrettiziamente un modello di società sempre più ibrido e destrutturato nel quale i disvalore soppiantano i valori e la cultura della cancellazione ha la meglio su quella della conservazione". Ogni essere umano, individuo dentro una collettività, è portatore di un messaggio di unicità e di valori che non può essere annacquato tra imposizioni culturali e omologazione dettatata dagli algoritmi e dalla loro spinta uniformatrice su costumi e consumi.

Che fare, dunque? Nardone invita i conservatori a non negare i temi su cui il mondo politicamente corretto e globalista insiste, ma ad affrontarli con spirito critico. La Sinistra parla massicciamente di ambientalismo? I conservatori devono porre l'accento sulla conservazione della natura e su uno sviluppo sostenibile fondato su progresso economico e tecnologia. La Sinistra nega i valori? La Destra deve diventare "la casa di tutti coloro che intendono difendere le nostre radici", in Italia come all'estero. Nel mondo della Silicon Valley divampa il positivismo tecnologico? I veri conservatori dovrebbero mettere tecnologie come l'Ia al servizio dell'uomo. Non "dovremmo limitare le tecnologie", nota Nardone, "ma i pochi uomini che attualmente le governano con l'obiettivo di fagocitare l'Io e il Noi". I progressisti si focalizzano su temi come la sostenibilità in maniera superficiale, ponendo l'enfasi sull'uso delle tecnologie in forma omeopatica per cambiare un sistema problematico? I conservatori dovrebbero pensare a sovranità digitale, progetti ambiziosi e agende per il futuro.

Su questi assi, e si potrebbe continuare, Nardone legge le sfide politiche del futuro. Di cui a suo avviso in Italia può essere interprete il governo di Giorgia Meloni, la quale già nel 2002, giovanissima presidente di Azione Giovani, denunciava l'esistenza di un progetto volto a "imporre a tutti un medesimo modo d'esistenza, una medesima pseudo-civiltà impoverente e distruttiva" a cui bisogna opporre la cultura dei valori e dello sviluppo. Per Nardone il governo Meloni e la destra italiana possono muovere una rivoluzione culturale capace di creare un modello di sviluppo alternativo in Europa capace di fare scuola: l'obiettivo di "costruire il futuro sulla base dei valori del passato, credere nel significato dell'appartenenza nazionale e nel valore della comunità in alternativa a una visione della società basata sempre di più sul relativismo postmoderno" già denunciato da grandi protagonisti del presente come Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI può essere realizzato. L'importante, si capisce dalle tesi di Nardone, è che i conservatori cessino di giocare di rimessa ma costruiscano un'agenda propositiva, che al sistema globalista e globalizzante contrapponga una spinta a essere protagonisti in questo mondo, senza conformarsi al mondo, cioé a un set valoriale omologante e che nega le differenze identitarie.

L’asse liberale. La grandezza di Cavour e l’eredità politica raccolta da De Gasperi. Giuliano Amato Linkiesta il 10 Novembre 2023

Nel libro “C’era una volta Cavour” (Il Mulino), Giuliano Amato introduce dieci grandi discorsi dello statista piemontese. E spiega che il leader della Dc ha dimostrato grande abilità nel consolidare l’Italia come una nazione occidentale, ancorandola solidamente all’Europa

Secondo l’opinione più condivisa fra i nostri storici, nei centosessant’anni successivi a Cavour due soli uomini, Giovanni Giolitti e Alcide De Gasperi sarebbero paragonabili a lui. Personalmente, sono ancora più restrittivo. Non nego a Giolitti di aver attinto anche lui alla grande politica. Si trovò a governare quando era iniziata da poco l’industrializzazione italiana e aveva cominciato a prender piede quella borghesia imprenditoriale sulla cui crescita Cavour aveva scommesso per la modernizzazione del paese.

In un’Italia nella quale da una parte erano ancora assai forti le visioni conservatrici oltre che gli interessi retrivi di larga parte della proprietà terriera, dall’altra cresceva il movimento socialista, con i suoi riformisti moderati, ma anche con i suoi massimalisti. Giolitti fu bravo a navigare al centro; arrivando a riconoscere, di fatto, il diritto di sciopero e a varare riforme istituzionali e sociali, coerenti con il respiro pluriclasse della società industriale.

Nessuno più perseguì gli scioperi non violenti, l’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli venne limitato a dodici ore (erano davvero altri tempi!), vennero nazionalizzate le ferrovie, mentre fiorivano sul piano locale le municipalizzate per i servizi pubblici, fu introdotta l’indennità parlamentare, consentendo così anche ai non abbienti di essere eletti. Non solo. Anche sul piano internazionale Giolitti mise l’Italia sulla strada giusta, riconducendola alle alleanze più coerenti con i suoi interessi e creando così le premesse che permisero poi l’ingresso nella Prima guerra mondiale (ingresso peraltro a cui lui era contrario) sul versante che ne sarebbe uscito vincente

Tutto questo è vero, ma purtroppo è anche vero che la sua guida del Partito liberale non riuscì a impedire lo sfaldamento dello stesso partito davanti al conflitto fra massimalisti di sinistra e conservatori di destra, che avrebbe portato all’incoronazione del fascismo. Le circostanze erano certo diverse da quelle nelle quali si era trovato Cavour e forse erano meno governabili. Certo è che non fu la sua visione a imporsi, ma prevalsero due visioni opposte e inconciliabili, che condannarono il paese a una profonda frattura. Né Giolitti sembrò capire, davanti alle prime mosse del movimento fascista, come questo avrebbe proceduto.

Ripenso a una sua frase famosa, quella dei vestiti che lui cuciva con la gobba, perché li faceva per un paese gobbo. In quella cruciale vicenda – come già notavo nel mio vecchio scritto su Cavour – il vestito restò nelle mani del sarto. E il paese si trovò a vivere il ventennio fascista. Non me la sento, in conclusione, di mettere Giolitti al fianco di Cavour.

Alcide De Gasperi si trovò a governare un’Italia ancora segnata dalla frattura di oltre vent’anni prima, ulteriormente alimentata dalla guerra e da quel forte sapore di guerra civile in cui la stessa Resistenza, sul piano interno, aveva finito per tradursi. Guidando un partito cattolico, era di sicuro connotato diversamente da Cavour, ma aveva con lui diverse analogie. Intanto, era similmente orientato da principi liberali e inoltre il contesto che aveva intorno ricordava per più versi i campi minati di Cavour.

Doveva muoversi avendo a destra una parte cospicua di borghesia italiana più reazionaria che conservatrice e fortemente nostalgica del fascismo; a sinistra, al di là di piccole rappresentanze di centro democratico e di sinistra moderata, un forte schieramento di socialisti e comunisti, nel quale prevaleva, per il futuro, la promessa di una vera e propria alternativa di regime. Analogia c’era anche per il contesto internazionale, nel quale anzi la situazione di De Gasperi era forse peggiore: il primo ministro dell’Italia sconfitta – come lui stesso notò parlando alla Conferenza di pace di Parigi – su null’altro sentiva di poter contare, se non sulla «personale cortesia» di chi lo ascoltava.

Ebbene, muovendosi in acque tanto difficili, De Gasperì riuscì ad aprire l’Italia alla vita democratica, ad ancorarla saldamente all’Occidente e addirittura a renderla protagonista dell’integrazione europea. Sul piano interno riassorbì una quota consistente della borghesia nostalgica entro le capaci volute del moderatismo democristiano, ma allo stesso tempo mantenne e anzi valorizzò la collaborazione con i partiti minori del centro.

Era la Democrazia cristiana, «partito di centro che guarda a sinistra» (così una celebre autodefinizione) e che, per questo stesso, ricordava almeno in parte il Connubio. Sul piano internazionale, da un lato seppe conquistare la fiducia degli Stati Uniti (anche se è vero che essi non avevano opzioni diverse per l’Italia), dall’altro compì il capolavoro di partecipare da socio fondatore alla creazione delle prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio, nel 1951. Di sicuro lo aiutò la solidarietà che si instaurò con Robert Schuman e con Konrad Adenauer in ragione della loro condivisa fede religiosa. Ma il risultato non è per questo meno rilevante.

Fu in questa cornice, fondata sul libero scambio e sulla conseguente accettazione della sfida della competitività sui mercati occidentali (rispetto ai quali gli anni dell’autarchia avevano fatto accumulare all’Italia un cospicuo ritardo) che l’economia italiana prese a crescere. E lo fece avvalendosi anche di una robusta industria di Stato, partecipe di primo piano, allora, del processo di modernizzazione.

Un dato è certo: quello di De Gasperi e dell’élite che con lui definì le direttrici future del paese fu un ruolo cavouriano, per certi versi ancora più cavouriano di quello di Cavour. Ricordiamoci che all’inizio il futuro da lui disegnato per l’Italia, occidentale, europeo, libero-scambista e ispirato all’economia sociale di mercato, non solo era condiviso da una sola parte degli italiani, ma la parte residua era decisamente contro e guardava alla sua alternativa. Anni dopo, e prima ancora della caduta del Muro di Berlino, la fede in quell’alternativa era caduta e il patrimonio dato all’Italia da De Gasperi divenne patrimonio comune. Per tutto questo considero De Gasperi l’unico statista, e politico, italiano collocabile alla stessa altezza di Cavour.

Da “C’era una volta Cavour”, di Giuliano Amato, Il Mulino, 344 pagine, 20 euro

LIBERISMO e LIBERALISMO…CHE DIFFERENZA C’È? Studente D'Errico Emma su medium.com

Nella lingua italiana i termini liberismo e liberalismo non hanno lo stesso significato: mentre il primo è una dottrina prettamente economica, il secondo è un’ideologia politica; nell’indagare tale distinzione bisogna innanzitutto essere consapevoli della natura prevalentemente italiana di essa.

Per LIBERISMO, si intende essenzialmente la libertà economica, ossia la libertà del mercato, della concorrenza fra industrie, aziende, semplici lavoratori, in qualsiasi condizione storica, geografica e sociale.

Liberismo è il pensiero che lo stato debba lasciare assoluta libertà di produrre e commerciare, quindi è quel pensiero concettualmente opposto al protezionismo.

Il Liberismo nasce da una riflessione sulle condizioni di produzione della ricchezza ed il padre del liberismo è Adam Smith (1776, La ricchezza delle nazioni), il quale teorizza l’importanza dell’accumulo di capitale, dell’investimento e della libera concorrenza, ma anche l’importanza della divisione del lavoro tra capitalisti e salariati: questi elementi, secondo Smith, condurrebbero alla conciliazione dell’interesse individuale e sociale.

Il LIBERALISMO è invece un’ideologia politica, che sostiene l’esistenza di diritti fondamentali e inviolabili facenti capo all’individuo, e che evidenzia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (eguaglianza formale). Il padre del liberalismo è sicuramente il filosofo John Locke, seguito da David Hume e dal sopracitato Adam Smith.

Dal liberalismo si genera lo STATO LIBERALE, una forma di Stato che si pone come obiettivo la tutela delle libertà e dei diritti inviolabili dei cittadini attraverso una Carta Costituzionale che riconosce e garantisce tali diritti fondamentali e sottopone la sovranità dello Stato ad una ripartizione dei poteri: nel nostro paese ad esempio, la Costituzione prevede che i tre poteri, quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario, siano affidati ad organismi specifici e differenti (per evitare la concentrazione dei poteri che aveva invece caratterizzato la dittatura fascista). Come si è visto, tale tipologia di stato, fu instaurata in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione, negli Stati Uniti e in Francia in seguito alle rispettive rivoluzioni settecentesche, e nel resto d’Europa con le rivoluzioni liberali.

Secondo il filosofo Benedetto Croce, il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello di liberalismo, tant’è che il liberismo è anche detto liberalismo economico: va da sé che si possa dunque essere liberisti senza essere liberalisti.

Tuttavia bisogna precisare che il liberalismo può contenere in sé il liberismo, ma non è universalmente confermato che ciò sia necessario.

Infatti, il liberalismo, si può definire come la continua lotta per la limitazione del potere in tutte le sue forme: talvolta vi possono essere momenti della storia in cui il potere da limitare sia proprio il potere dell’economia, ed è proprio questo il caso in cui il liberalismo non desume il liberismo.

La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana. Scrive Ernesto Paolozzi.

Liberismo e liberalismo La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana e non ha riscontro in altre culture mondiali. Però, a guardare a fondo, appare chiaro che i concetti e le idee che sono a fondamento di tale distinzione sono invece comuni a tutte le culture politiche, almeno del mondo occidentale. Cerchiamo, allora, di essere il più possibile chiari sul significato di tali concetti, senza troppo ricorrere all’antica e nota polemica fra Croce ed Einaudi dalla quale, appunto, ebbe origine la distinzione fra liberalismo e liberismo, almeno così come la conosciamo noi. Per liberismo si intende, essenzialmente, la libertà economica, ossia la libertà del mercato, della concorrenza fra industrie, aziende, semplici lavoratori, in qualsiasi condizione storica, geografica, sociale. Padri nobili del liberismo sono i liberali alla Adam Smith, tutti coloro che fra Settecento e Ottocento, propugnarono, contro i privilegi della nobiltà, dell’alto clero, dell’antico regime, la libera iniziativa economica. Nel nostro secolo, soprattutto, il liberismo lotta contro l’invadenza dell’iniziativa statale nel libero mercato e può essere ricondotta al nome del grande economista e grande studioso Hayek. Ora, bisogna innanzitutto sottolineare che, nel suo sorgere, quello che abbiamo definito liberismo fu un movimento rivoluzionario che intendeva essenzialmente battersi perché si realizzasse, contro vincoli di varia natura e varia provenienza, una libertà fondamentale dell’uomo: la libertà dell’iniziativa economica che già Locke aveva difeso allorché aveva inserito il diritto alla proprietà fra i diritti naturali. Allo stesso modo, anche nei confronti di uno Stato, e soprattutto di uno Stato non democratico, il liberismo più recente ha operato in senso rivoluzionario, intendendo garantire la libera iniziativa economica di gruppi o individui nei confronti di uno Stato troppo spesso oppressore. Sappiamo tutti che nei confronti di queste posizioni si sono generate posizioni polemiche, anche aspramente polemiche, in difesa della socialità, dello Stato inteso come comunità di cittadini, e così via.

Ma a noi interessa, in questa prospettiva, chiarire la differenza tra liberismo e liberalismo. Il punto nodale fondamentale a tal proposito è questo: la libertà dell’economia deve considerarsi come uno dei tanti aspetti con i quali si è presentata nella storia la lotta per la libertà o bisogna considerarla come la premessa indispensabile per ogni altra forma di libertà? Per dirla con una formula: la libertà politica è possibile soltanto in presenza della libertà economica o è possibile ipotizzare una società liberale di tipo diverso? Questo è il vero punto di discussione. E’ evidente che da un punto di vista squisitamente filosofico, così come hanno sostenuto anche i due più autorevoli filosofi liberali del nostro secolo, Croce e Popper, non è possibile legare, meccanicamente determinare, tutte le libertà, etiche, politiche, culturali alla pura libertà economica. Si cadrebbe, paradossalmente, nello stesso errore attribuito a Marx il quale, sia pure con scopi diversi, sembrava sostenere che al fondo di ogni processo sociale vi fosse sempre la struttura economica che determina le sovrastrutture. E’ un punto questo che mi sembra, in verità, innegabile. Non è dunque possibile asserire in maniera assoluta e definitiva né che senza la libertà dell’iniziativa economica non vi possano essere altre forme di libertà, né che, soprattutto, il libero mercato produca di per sé le libertà politiche. Abbiamo avuto esempi anche storici di paesi governati dalla socialdemocrazia nei quali l’intervento dello Stato nell’economia è stato preminente per molti anni, in cui non solo non si sono perse, ma si sono guadagnate molte libertà civili e politiche (penso alla Svezia e alla stessa Inghilterra laburista), ed altri paesi nei quali hanno convissuto il più aperto libero mercato e la dittatura più ripugnante e antiliberale. Dunque, la distinzione italiana fra liberalismo e liberismo può e deve essere mantenuta ed estesa, per la chiarezza della distinzione stessa, anche alle altre culture. Il liberalismo può contenere in sé il liberismo. Ma non può e non deve appiattirsi sul liberismo stesso. Il liberalismo, è stato detto cercando una impossibile definizione, è la continua lotta per la limitazione del potere in tutte le sue forme. Ora, vi possono essere momenti della storia in cui il potere da limitare sia proprio il potere dell’economia. Non voglio negare, né mai i citati Croce e Popper lo hanno fatto, che è difficilmente ipotizzabile, sul piano pratico, una società liberale nella quale non sia assicurato il massimo di libertà economica. Ma questo non è in contraddizione con l’idea che, per usare una vecchia terminologia marxiana, in ultima istanza il governo delle nazioni, il governo delle comunità, spetti all’etico-politico, ossia, nella mia prospettiva, al liberalismo. La questione si fa chiara ed evidente oggi, nel momento in cui ci troviamo a fronteggiare la cosiddetta globalizzazione dell’economia, quella che alcuni chiamano americanizzazione, altri sviluppo incontrollato del capitalismo, altri ancora liberismo selvaggio. Contro questo gigantesco e in apparenza inarrestabile movimento che sembra essere movimento delle cose stesse, si levano forze di varia natura e di diversa provenienza. Sulla sinistra estrema, i movimenti anarchici, ecologisti, veterocomunisti, anarcosocialisti, i quali credono, essenzialmente, che un mercato mondiale libero sia in realtà un mercato nel quale solo i ricchi e i potenti prosperino, a discapito dei milioni di diseredati, a nocumento dell’ambiente, che è un bene comune, a discapito dei valori fondamentali della civiltà nata con il cristianesimo, il liberalismo stesso, l’Illuminismo della Rivoluzione francese e il socialismo, i valori di giustizia e di fratellanza. A destra c’è chi rinviene nel processo di globalizzazione la fonte principale della distruzione di tutti gli antichi valori su cui si fondano le tante comunità sociali, etniche, storiche. Con la vittoria indiscriminata del consumismo capitalista, si distruggerebbero le tradizioni famigliari, le lingue nazionali e i dialetti, le culture e le religioni e perfino le tradizioni alimentari. Da un punto di vista liberale, che potrà sembrare mediocre ma che, se lo è, lo è nel senso aristotelico, si tratta invece di ricondurre lo sviluppo economico del capitalismo mondiale nell’ambito e nell’alveo del giudizio etico e politico. Non si tratta di distruggere un nemico ma di costringerlo a diventare amico. Si tratta di creare ed immaginare, attraverso la lotta politica quotidiana, un sistema di governo della politica mondiale, e dunque delle nuove Istituzioni adatte allo scopo, che siano in grado di governare il processo in modo che le palesi ed evidenti opportunità che il progredire dell’economia e della tecnologia contengono, non si tramutino in una tragedia collettiva, nell’oppressione dei pochi sui molti. Questo mi sembra un punto di vista autenticamente liberale. Rispettoso della libertà economica ma guardingo e preoccupato, pronto sempre a far valere le ragioni della politica sull’economia e, soprattutto, le ragioni dell’impegno etico-politico su quello che sembra essere, e non è detto che sia, e in effetti non è, un processo irreversibile e ingovernabile. Nulla nella storia è irreversibile ed è sempre l’uomo il signore del sabato. Sembrerà, lo ripeto, un punto di vista mediocre, come sempre sembra essere mediocre la ragionevolezza. Ma le gravi difficoltà che questo ragionamento incontra per affermarsi, i tanti nemici che contro esso si muovono, a cominciare dagli ottusi e integralisti liberisti a finire, come si è detto, agli estremisti della nostalgia a destra e ai velletarismi dei nuovi rivoluzionari, mostrano come, ancora una volta, il liberalismo sia destinato a rimanere minoranza benché sia forse il solo punto di vista veramente capace di prefigurare nuove e reali prospettive per il futuro.

Il saggio riproduce una lezione tenuta presso l’Associazione culturale UKMAR ed è pubblicato sulla rivista “C’E corriere d’Europa” (luglio 2002)

Il liberismo (detto anche liberalismo economico, liberismo economico o libertà di mercato) è un sistema economico nel quale lo Stato si limita ad assicurare funzioni pubbliche che non possono essere soddisfatte per iniziativa individuale, e a garantire con norme giuridiche la libertà economica e il libero scambio, e a offrire beni che non sarebbero prodotti a condizioni di mercato per assenza di incentivi.

È considerato il risultato dell'applicazione in ambito economico delle idee politiche e culturali liberali, per il principio secondo cui «democrazia vuol dire anche libertà economica», proposto da Friedrich August Von Hayek. I filosofi del diritto di orientamento liberista, come Bruno Leoni, si ritengono in antitesi col pensiero di quelli di orientamento statalista, come Hans Kelsen.

Storia

Lo stesso argomento in dettaglio: Adam Smith, Laissez faire, Libero mercato e Trattato Cobden-Chevalier.

Il liberismo, nato nel XVIII secolo dalle idee dello scozzese Adam Smith, si sviluppò ampiamente nel corso dell'Illuminismo scozzese, in parziale contrasto con la scuola fisiocratica, trovò forse una sua primordiale formulazione compiuta in Inghilterra nel corso del XIX secolo spinto dalla rivoluzione industriale, dalle battaglie per la pace e per il libero commercio condotte da Richard Cobden, nemico del protezionismo economico (con l'anti-corn-law league che contribuì alla revocazione di dazi e provvedimenti protezionisti in Inghilterra e in Europa) e dell'imperialismo coloniale.

Descrizione

Il liberismo è una filosofia orientata al libero scambio e al libero mercato, in base al quale il sistema economico non appare isolato (come nel caso di una nazione chiusa in un'economia protezionistica o autarchica), bensì come sistema aperto, affermando inoltre la tendenza del mercato medesimo ad evolvere spontaneamente verso una struttura efficiente e stabile, attraverso la "mano invisibile", in modo da massimizzare la soddisfazione di produttori e consumatori. Quindi, per il liberismo il sistema-mercato tende verso una situazione di ordine crescente.

Si oppone fermamente al mercantilismo, al socialismo, al comunismo, al nazismo, al fascismo, alla teocrazia, al verdismo e all'economia keynesiana. Storicamente è dunque una filosofia economica atta a sostenere e promuovere la cosiddetta economia di mercato nelle sue forme più pure. Una sua corrente di pensiero economico-politico contigua, sovente vista come versione più marcatamente anti-statalista del liberalismo e del liberismo, è quella del libertarianismo, che include anche le correnti più "estreme" che sono quella del miniarchismo, quella dell'agorismo e quella dell'anarcocapitalismo (vedi correnti del libertarianismo).

Liberismo e liberalismo

Nella lingua italiana liberismo e liberalismo non hanno lo stesso significato: mentre il primo è una dottrina economica che teorizza il disimpegno dello stato dall'economia (perciò un'economia liberista è un'economia di mercato solo temperata da interventi esterni), il secondo è un'ideologia politica che sostiene l'esistenza di diritti fondamentali e inviolabili facenti capo all'individuo e l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (eguaglianza formale).

Secondo Antonio Martino «il termine “liberista” (che non esiste in altre lingue) deve il suo successo in Italia a Benedetto Croce, che considerava la libertà economica di rango inferiore rispetto a quella politica. Tale tesi era stata peraltro già criticata anche da Einaudi, che aveva messo in luce che si trattava di una clamorosa svista del grande filosofo».

Nella lingua inglese i due concetti sono infatti sovrapposti nell'unico termine liberalism. Nella tradizione politica degli Stati Uniti, il termine liberal indica un liberalismo progressista molto attento alle questioni sociali, ma nel contempo geloso custode del rispetto dei diritti individuali. Secondo alcuni, i liberal nordamericani sono l'equivalente dei socialdemocratici europei, o, secondo un'accezione diffusa, dei liberali sociali. D'altro canto (von Hayek, La via della schiavitù, trad.it., ed. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, p. 19), viene ugualmente individuata nella comune accezione statunitense del termine liberal la messa in opera di un mero « ... mascheramento dei movimenti di sinistra ...», i quali, per poter meglio propagandare il socialismo all'interno di ambiti tendenzialmente ostili a tale ideologia, vengono ad esteriormente adottare le terminologie e le parole d'ordine del campo politicamente a loro avverso; questo, dopo averne radicalmente mutato il reale ed originario contenuto concettuale, al fine di poter rendere le relative nozioni effettivamente coincidenti, rispetto ai postulati del socialismo medesimo.

Alcuni danno come analogo inglese di liberismo il termine free trade (libero commercio). Un termine francese spesso usato in modo equivalente è laissez faire (in italiano: lasciate fare).

Neoliberismo

Entrato in difficoltà in seguito alla crisi del 1929 e al diffondersi delle teorie keynesiane e più in generale con il diffondersi di visioni collettiviste, il liberismo ha conosciuto una rinascita negli ultimi anni del XX secolo (neoliberismo) in seguito all'affermazione della globalizzazione e - ancor più - con la rinascita della cosiddetta "Scuola austriaca" (Carl Menger, Ludwig von Mises, Bruno Leoni, Murray N. Rothbard, Friedrich von Hayek). Da notare che tra gli ultimi due ci sono significative differenze: von Hayek sostiene che lo stato deve intraprendere azioni per consentire la concorrenza, mentre Rothbard punta ad una forma estrema di liberismo detta anarco-capitalismo. In realtà, il termine neoliberismo è stato coniato solo molto più tardi per indicare le politiche economiche di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan.

Monetarismo

In alcuni autori, tra i quali il più famoso è Milton Friedman (Premio Nobel per l'economia nel 1976), il liberismo economico si associa al monetarismo, il quale svolge un ruolo che non è esattamente di governo, ma almeno di regolazione dell'economia liberista. Anche Friedman sostiene però la necessità di difesa del libero mercato e l'insostenibilità di una scissione tra liberalismo economico e politico. Nota è la sua precisazione a questo riguardo relativamente alla necessità di una garanzia delle libertà individuali in Cile come base per la sostenibilità delle riforme di tipo economico da lui suggerite al governo di Pinochet in qualità di consulente (in particolare, relative al sistema pensionistico) insieme ad altri esponenti della scuola di Chicago.

Liberismo in Italia

Storicamente una prima forma limitata di liberismo e capitalismo si verificò negli antichi Stati italiani e nei liberi comuni con l'organizzazione delle prime importanti banche e successivamente, nel XIV secolo, con l'avvento dei primi banchieri o capitalisti; tra essi vi furono membri delle famiglie Frescobaldi, Bardi e Peruzzi e, nel secolo successivo, alcuni appartenenti alle stirpi dei Datini, Pazzi e Medici. Costoro, con i loro cospicui prestiti finanziari a sovrani francesi e inglesi, diedero l'impulso essenziale agli scambi commerciali europei. Facoltosi mercanti italiani furono i contribuenti fondamentali dello sviluppo del commercio nordeuropeo: difatti, nel 1487, Anversa si dotò di un edificio costruito per stabilirvi la prima borsa valori del mondo, ed essa fu prevalentemente frequentata da operatori italiani.

Nei secoli successivi, il concretizzarsi del liberismo non ebbe però modo di svilupparsi ulteriormente, sia in Italia che in Europa, questo a causa del succedersi delle numerose guerre e delle politiche economiche protezionistiche adottate dalle più ricche nazioni europee. Rimase perciò fondamentalmente confinato nell'ambito di teoria economica, tanto fortunata che, nel XVIII secolo, economisti e filosofi di vario tipo (come, per esempio, Ludovico Antonio Muratori o Antonio Genovesi) pubblicarono libri che ipotizzavano sistemi liberisti, anche se il termine usato per definirli era rappresentato dall'espressione liberi scambi commerciali internazionali. Questi studi furono presi quale ispirazione dall'economista Vilfredo Pareto, che successivamente analizzò i punti deboli del libero scambio e quelli dell'economia pianificata di tipo socialista, elaborando una propria originale teoria. A livello prettamente attuativo, solo una parte di politici seppe capire e promuovere i programmi liberisti. Tra illustri esponenti del liberismo italiano ricordiamo:

Francesco Ferrara (1810 - 1900) economista e politico di idealità liberali e risorgimentali.

Vilfredo Pareto (1848 - 1923), ingegnere, sociologo e economista (a lui si devono concetti quali il Principio di Pareto e l'ottimo paretiano) di pensiero liberista e anti-protezionista.

Antonio De Viti De Marco (1858 - 1943), economista e politico di pensiero profondamente democratico e liberale (fondatore della Lega Antiprotezionista), fu deputato del Partito Radicale e fermo oppositore del fascismo (si annovera tra i soli 15 docenti italiani che rifiutarono il giuramento di fedeltà al Fascismo).

Gaetano Mosca (1858 - 1941), conservatore, politico e filosofo, fu sostenitore di un liberismo moderato.

Giovanni Agnelli (1866 - 1945), imprenditore industriale tra i fondatori della casa automobilistica FIAT.

Gaetano Salvemini (1873 - 1957), storico, politico antifascista, meridionalista, federalista e precursore del socialismo liberale italiano. La sua sintesi tra pensiero socialista e liberismo è avversaria dell'accertamento e dell'intervenzionismo statale e si richiama alle idee della libertà economica come necessario e unico mezzo contro tutte le forme di protezionismo, di parassitismo politicante e burocratico, oltre che come argine al sorgere di privilegi e di monopoli d'individui, di gruppi e di categorie.

Luigi Einaudi (1874 - 1961), economista e politico liberale (è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti), difensore del liberismo e antikeynesiano (le cui teorie definì «storia scritta da un Marx in ritardo»). La sua politica economica da Ministro nel IV Governo De Gasperi pose la basi per il boom economico. Fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, dal 1948 al 1955.

Ernesto Rossi (1897 - 1967) politico (aderente al Partito d'Azione e successivamente al Partito Radicale), giornalista e antifascista, tra gli autori del Manifesto di Ventotene e tra i principali promotori del federalismo europeo. Il suo pensiero coniuga liberismo e radicalismo riformatore in chiave fortemente anti-monopolista.

Giovanni Malagodi (1904 - 1991), economista e politico del Partito Liberale Italiano.

Mario Pannunzio (1910 - 1968), giornalista e politico tra i fondatori del Partito liberale italiano e poi del Partito Radicale.

Bruno Leoni (1913 - 1967), filosofo del diritto ed editorialista, fu sostenitore delle idee liberiste in Italia nonché teorico politico il cui valore e fama sono particolarmente riconosciuti soprattutto negli Stati Uniti dove è annoverato tra i padri dell'Analisi economica del diritto.

Riccardo La Conca, pioniere del liberismo libertario in Italia e fondatore di Claustrobia, giornale liberista italiano.

Gianfranco Miglio (1918 - 2001), giurista, politologo, politico, sostenitore di idee liberali e soprattutto federaliste.

Luigi De Marchi, psicanalista, scrittore, ideatore della Teoria liberale della lotta di classe.

Marco Pannella (1930 - 2016), giornalista, politico, fondatore e leader del Partito Radicale, nonviolento, famoso in Italia per le sue lotte e referendum liberisti e anti-proibizionisti.

Nell'Italia dell'ultimo dopoguerra il liberismo ha avuto un ostacolo notevole costituito da una politica economica fondata sulle partecipazioni statali che dipendevano da un apposito ministero, istituito nel 1956 e abrogato da un referendum nel 1993. Successivamente tale tipo di aziende e enti statali (spesso di natura monopolistica) hanno subito forti processi di privatizzazione tramite la loro vendita a imprenditori e finanzieri. Tale fenomeno politico è stato ascritto come adeguamento ad un modello di cultura economica liberista; in realtà molto più che sul concetto di privatizzare, il liberismo è altresì propugnatore di politiche di liberalizzazione e di apertura del mercato alla concorrenza. Difatti, nell'indice della libertà economica, per diversi aspetti considerabile un "indice di liberismo", l'Italia risulta tuttora tra gli Stati meno liberi economicamente d'Europa (al 2020, 37° su 45) e terzultima tra gli Stati dell'Unione Europea.

Attualmente i partiti politici che vi si ispirano senza indugio sono i Radicali Italiani e i Liberisti Italiani]. Per quanto riguarda gli ambienti accademici e culturali i principali studiosi provengono dall'Istituto Bruno Leoni.

Liberismo e globalizzazione

Come sosteneva Marx, oltre alla classe operaia, anche il capitalismo è internazionale, infatti tutte le economie di mercato godono di regole di base molto simili, che favoriscono gli scambi commerciali tra le nazioni aumentandone l'interdipendenza reciproca. Questo fenomeno si è potuto constatare nella grande depressione del primo decennio del XXI secolo, soprattutto in Europa, infatti quando un paese entrava in una situazione di difficoltà arrivavano a sostenerlo aiuti esterni, quando arrivano brutte notizie per un paese vi sono ripercussioni negative nei mercati di tutto il mondo.

Critiche

Pesanti critiche al liberismo sono state mosse dal Premio Nobel per l'economia Amartya Sen, il quale avrebbe dimostrato l'impossibilità del rispetto contemporaneo dell'efficienza paretiana e del liberismo. Una risposta a Sen è venuta dal filosofo della politica Anthony de Jasay che ha contestato il teorema dell'impossibilità del liberale paretiano.

La critica di Keynes

Nella prima metà del XX secolo John Maynard Keynes ha elaborato una forte critica al liberismo classico incapace, a suo dire, di fronteggiare le crisi economiche del sistema laddove sarebbe necessario un intervento statale di regolazione del mercato in caso di squilibri, piuttosto che la cosiddetta mano invisibile e la tendenza ad un presunto equilibrio economico generale mini invece la stabilità del tutto (l'interesse privato distorcerebbe il sistema andando contro l'interesse pubblico). Tale riflessione è alla base dell'economia keynesiana promotrice dunque di una forma di economia mista. I teorici ed economisti liberisti rispondono spesso a questa critica keynesiana col fatto che l'intervento statale nell'economia in caso di "squilibri" porterebbe a monopoli, accrescimento del potere e dell'influenza del governo, deficit, debiti ed instabilità, distorcendo i meccanismi che fissano naturalmente i prezzi nel libero mercato (vedere, ad esempio, la tesi della Scuola austriaca riguardo alla Grande depressione).

L'obiezione di Gomory e Baumol

Nel 2000, MIT Press pubblicò "Commercio globale e interessi nazionali in conflitto" di Ralph Gomory e William Baumol. L'articolo mostra che esiste un termine di correlazione positivo fra la produzione e produttività di una nazione in un certo settore industriale e quelle delle aziende del settore considerato. La teoria del vantaggio comparato afferma che la ricchezza delle nazioni cresce con lo scambio e la specializzazione della produzione nazionale in alcuni settori e la concentrazione in ogni nazione della produzione mondiale di alcuni settori.

Se un'azienda si espande o investimenti stranieri aprono nuove realtà, produzione e produttività della nazione nel settore crescono; se le industrie emigrano in altre nazioni, la delocalizzazione produttiva ha un impatto negativo sulla produttività del settore.

Se un'impresa apre una realtà produttiva in un altro Paese, la produttività nazionale nel relativo settore crescerà anche se l'azienda nel Paese di origine presentava una produttività inferiore a quella del luogo in cui delocalizza. Questo significa che la produttività dell'azienda si allinea con quelle delle altre presenti sul territorio.

Perciò, un'azienda che vuole migliorare la sua produttività, delocalizzerà nella nazione in cui c'è la maggiore produttività nel settore di riferimento. Analogamente, le altre concorrenti delocalizzeranno nel solito territorio, creando "spontaneamente" una concentrazione della produzione mondiale. La nazione che registra la maggiore produttività in un settore, avrà anche la più alta quota della produzione mondiale nel settore di riferimento.

La presenza di un fattore di costo o di qualità che favorisce l'offshoring, crea un vantaggio che vale per tutte le società che operano in un dato settore, e produce nuovamente una specializzazione nazionale e una concentrazione della produzione mondiale nel territorio che offre tale vantaggio.

L'obiezione al libero scambio sollevata è che la presenza di un fattore di costo favorevole induce una delocalizzazione non solo delle società di un settore, ma di tutti i settori, e una concentrazione della produzione mondiale in genere in un solo territorio. In un modello semplificato di due nazioni produttrici e tre merci, la situazione finale è quella "degenere" di una nazione che produce tutto, e l'altra che non esporta niente. Il fattore non è di un solo settore, ma è comune a tutti i settori dell'economia: l'esempio è il fattore del lavoro a basso costo in Cina, che non genera una specializzazione di Cina e Stati Uniti in settori diversi e un libero scambio fra i due, ma una delocalizzazione dagli USA e una concentrazione in Cina della produzione mondiale un po' in tutti i settori.

Interventi governativi come sussidi e altri aiuti di Stato arrivano per compensare i profitti persi dalle aziende che scelgono di non delocalizzare; il costo di questi incentivi è più che ripagato dalla produzione e dalla competitività del settore, che ne sarebbero altrimenti colpite.

I sussidi divengono controproducenti se ogni Stato replica le stesse misure a difesa della propria economia; come non vede trasferimenti di industrie all'estero, nemmeno vedrà più investimenti stranieri nel proprio territorio.

Il commercio globale per una stessa situazione di crescita della ricchezza mondiale, ammette molteplici equilibri nella distribuzione dei profitti e allocazione della produzione fra i Paesi coinvolti nel libero scambio. Tali equilibri sono stabili e perdurano anche dopo la fine di un intervento volto a rendere il Paese il "low-cost global producer". Chi ottiene un vantaggio di costo blocca gli altri Paesi e finisce per attrarre la produzione mondiale di settore; un prezzo più basso aumenta la vendita di beni di quel Paese, accresce le economie di scala e il vantaggio di costo nei settori a monte e a valle di quello coinvolto.

Non necessariamente la produzione si sposta nel Paese più produttivo e il vantaggio di costo deriva dalla migliore tecnologia. Ottiene il vantaggio di costo il Paese che per primo inizia ad abbassare la sua curva di costo, stimolando la domanda interna, oppure la produzione e delocalizzazione dall'estero tramite sussidi.

Inefficienza allocativa di reddito e prodotto finito

Il liberismo è criticato anche per le inefficienze nella distribuzione del reddito e dei prodotti finiti, ossia per la cumulazione di beni invenduti. I marxisti rilevano l'importanza delle crisi da sovrapproduzione e di guerre periodiche per risollevare la domanda e la produzione ai massimi livelli, e prima ancora per trovare uno sbocco sul mercato alla ricchezza prodotta e non venduta.

Errata previsione della domanda

Causa di un incontro inefficiente fra domanda e offerta di mercato, e conseguente accumulo di scorte, può essere un livello di domanda inferiore all'offerta e una domanda poco elastica rispetto al prezzo, al limite a causa di un mercato saturo di un determinato prodotto, generando una situazione in cui nemmeno abbassando i prezzi al costo di produzione e contraendo al minimo i suoi profitti, il produttore riesce a vendere la sua merce.

Massimizzazione del profitto

Un'altra causa di accumulo a scorta può essere il fatto che il produttore abbia interesse a creare una carenza artificiale del bene perché la domanda spinga i prezzi al rialzo, o a mantenerli ai livelli alti raggiunti, evitando che un eccesso di offerta abbassi il prezzo. Può essere conveniente non soddisfare interamente la domanda e accumulare a scorta.

Se la domanda fosse un dato e sia il mercato l'esercitatore di un ruolo guida, è anche vero che il produttore sceglierebbe la combinazione del prodotto prezzo-quantità, che massimizzi il suo profitto. L'incontro fra domanda e offerta avviene quando il produttore decide la quantità da immettere nel mercato e il relativo prezzo. Per disegnare la curva di offerta e stabilirne il prezzo ottimale, si intenda che il produttore già disponga della quantità necessaria a coprire quella massima rappresentata nella curva di offerta, e che i costi totali siano costi affondati al momento dell'incontro domanda-offerta. Essendo i costi totali un dato, massimizzare il profitto significa massimizzare il fatturato, ovvero il prodotto prezzo-quantità.

D'altra parte, anche l'incontro fra domanda e offerta, quando avviene nel mercato puro, secondo la teoria liberista, riguarda un'infinità di piccole imprese che hanno una stessa struttura di costo minimo non migliorabile.

Scorte e utilizzo delle economie legate alla quantità

Il produttore potrebbe lanciare in produzione solamente la quantità che massimizza il suo fatturato, in modo da perseguire questo obiettivo senza avere delle scorte. La presenza delle scorte non è solo legata all'imprevidibilità della domanda, che è nota in modo sufficiente solo dopoché si è iniziato a produrre.

Il produttore ha talora interesse a produrre a scorta, anche merci deperibili che andranno distrutte dopo un certo tempo, pur di sfruttare economie di scala, di scopo e di apprendimento negli approvvigionamenti di materie prime ed energia, e nel fattore lavoro. L'abbattimento dei costi fissi e di taluni variabili sono talmente rilevanti da ripagare il costo variabile (e la perdita) dei prodotti messi a scorta.

Interesse a colludere

È dimostrato che le imprese hanno interesse a colludere, vale a dire non hanno interesse farsi concorrenza quanto a mettersi d'accordo su prezzi e quantità (e qualità) dei prodotti per dividersi le quote di mercato ed evitare una guerra di prezzo, ottenendo profitti mediamente più alti. Dall'incontro delle curve della domanda e offerta di mercato viene fissato un punto di equilibrio stabile in termini di prezzo di vendita e di quantità venduta del bene: (a parità di costo), il prezzo e quindi il ricavo e il profitto risultante per i produttori sono in ordine decrescente: monopolio, duopolio, oligopolio, dalla concorrenza monopolistica, mentre la libera concorrenza si colloca al livello più dei profitti più bassi. Ciò è vero nei mercati in cui la domanda è scarsamente elastica rispetto ad un aumento dei prezzi, in cui un prezzo di equilibrio più alto non determina di contro una contrazione della quantità.

Nel modello delle 5 forze competitive di Porter, l'asprezza della competizione è data dal numero di concorrenti ed è collegata ad una contrazione dei profitti. Pertanto, un singolo produttore ha un interesse teorico a fare concorrenza se questa situazione di libera concorrenza è temporanea per cui la pressione competìtitva tende a ridursi in tempi rapidi, vale a dire se il suo vantaggio sui costi e sulla qualità rispetto ai concorrenti è tale da portarlo in tempi rapidi a sottrarre quote di mercato agli altri produttori, fino a portarne fuori mercato un certo numero (o tutti) per venire a trovarsi in una situazione di oligopolio (o di monopolio).

Diversamente, se una impresa non ha maggiori possibilità di "imporsi" rispetto ad un'altra nel mercato, i produttori hanno un interesse a colludere su quantità e prezzi, e a praticare intese restrìttive alzando barriere all'ingresso di nuovi potenziali concorrenti nel mercato. Se l'impresa tende a massimizzare il profitto, tenderà ad un comportamento anticoncorrenziale, volto a ridurre il numero di concorrenti, e al limite ad arrivare al monopolio. Se questo non le è possibile, la collusione di prezzo e quantità prodotta, garantisce un profitto maggiore del libero mercato, anche fra un numero elevato di imprese come avviene in regime di concorrenza perfetta.

Proprio l'ipotesi di razionalità e simmetria informativa formulate per la concorrenza perfetta, garantiscono che i produttori, ancorché in numero elevato, non hanno grandi difficoltà a conoscere i prezzi dei concorrenti e a colludere, allineandosi con quello più alto presente sul mercato.

Quasi tutto quello che sai sul Neoliberismo è sbagliato. Thomas Fazi su L'Indipendente mercoledì 25 ottobre 2023.

È noto che le origini del neoliberismo siano da rintracciarsi nella crisi, a partire dai primi anni Settanta, del cosiddetto “regime keynesiano” che, pur con significative differenze tra Paesi, aveva dominato le economie occidentali fin dal secondo dopoguerra. Un aspetto che però si tende a sottovalutare di quella crisi, fondamentale per capire la genesi del neoliberismo, è che essa non fu solo una crisi economica ma, dalla prospettiva delle classi dominanti, anche e soprattutto una crisi politica. In breve, negli anni Settanta cominciarono a venire meno le premesse – sia economiche che politiche – su cui si basava la partecipazione delle classi capitalistiche al “compromesso di classe” keynesiano: dal punto di vista economico, la possibilità di coniugare una crescita stabile dei salari con una crescita stabile dei profitti; dal punto di vista politico, la possibilità di coniugare la partecipazione dei lavoratori, tramite i partiti di massa, alla determinazione delle politiche pubbliche, soprattutto di natura economica, con un dominio di fatto delle classi possidenti.

A partire dai primi anni Settanta, come si diceva, entrambe quelle premesse cominciarono a venire meno: dal punto di vista economico, la combinazione di diversi fattori – l’aumento del prezzo delle materie prime, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche, il rallentamento della produttività, ma soprattutto le lotte sindacali per il salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro – cominciarono a esercitare una crescente pressione sulle rendite e i profitti; dal punto di vista politico, la piena occupazione e il rafforzamento senza precedenti delle masse lavoratrici, e la loro integrazione nei sistemi politici tramite i grandi partiti di massa di ispirazione socialcomunista, nonché la fusione del movimento operaio con blocchi sociali di altro tipo (studenti, ecc.), aveva determinato una radicalizzazione delle rivendicazioni non solo in ambito lavorativo ma anche in ambito politico, nella direzione di un superamento, seppur graduale, di certe logiche capitalistiche.

Il terrore della democrazia sostanziale

[Manifestazione di operai in lotta durante l’autunno caldo, 1969]L’Italia è un ottimo esempio. La stagione che va grosso modo dal 1965 al 1975 fu sì caratterizzata da caos e disordini (e, in parte, da violenze, ma quelle arriveranno soprattutto dopo), ma fu anche una grande stagione democratica. Come argomenta il politologo americano Sidney Tarrow nel volume Democrazia e disordine, il “disordine” di quegli anni andrebbe letto soprattutto come il sintomo di un maggiore coinvolgimento dei normali cittadini nella cosa pubblica e dell’emergere di nuovi attori politici, “poiché quando si calmò la polvere del disordine, divenne chiaro che i confini della politica di massa erano stati estesi”. Proprio l’alta conflittualità di quegli anni, insomma, aveva allargato le maglie della democrazia, intesa in senso sostanziale e non solo formale, ovviamente. Come scrisse Romano Prodi in un saggio di inizio anni Settanta, all’epoca “per la prima volta le organizzazioni dei lavoratori entrano tra i protagonisti stabili di avvenimenti che [fino a quel momento] avevano, salvo qualche temporanea eccezione, subìto”.

Non è un caso che quel periodo, nonostante la congiuntura internazionale negativa – ricordiamo che il 1973 fu l’anno della prima crisi petrolifera –, fu anche una stagione di grandi riforme progressive, proprio grazie alla forza del movimento operaio e all’altissimo livello di conflittualità sociale e industriale: l’accordo sulla “scala mobile” (che rendeva automatici aumenti di stipendio in base all’inflazione), la riforma del sistema pensionistico, lo Statuto dei lavoratori, ma soprattutto (anche se ormai la stagione progressiva, a quel punto, volgeva già al termine) l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, nel 1978. Ciò che si andava determinando in quegli anni, insomma, era esattamente quella situazione (da incubo, dal loro punto di vista) che i primi teorici del pensiero neoliberale – Hayek, von Mises, Robbins e altri -, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, avevano prefigurato come prevedibile esito della democrazia di massa e del suffragio universale (fenomeno al tempo abbastanza recente e in realtà neanche pienamente compiuto): ovvero che le masse lavoratrici, una volta integrate nei processi politici e democratici, ed essendo ovviamente la maggioranza in qualunque società, avrebbero finito per utilizzare gli strumenti della democrazia rappresentativa per trascendere le logiche del capitalismo.

In questo senso, sbagliano coloro che vedono nel neoliberismo un’ideologia liberomercatista e antistatalista (interpretazione purtroppo ancora molto diffusa): al contrario, i neoliberisti della prima generazione erano perfettamente consapevoli del fatto che il mercato non si autoregola, ma che anzi il capitalismo necessita di uno Stato forte, anche autoritario – come dimostrato poi dalle varie esperienze golpiste degli anni Settanta, prima fra tutte il Cile di Pinochet – per imporre le logiche di mercato, tutelare gli interessi del capitale e garantire il dominio “di fatto” delle classi possidenti. In questo senso, i neoliberisti non avversavano affatto lo Stato, di cui anzi riconoscevano l’assoluta necessità, ma osteggiavano la democrazia di massa – il fatto che le masse si sarebbero un giorno potute appropriare delle leve dello Stato.

Cominciarono quindi a pensare a delle possibili soluzioni: posto che non disdegnavano soluzioni apertamente autoritarie – come dimostrerà l’esperienza cilena, esplicitamente difesa da Hayek –, sapevano bene che il processo di estensione formale della democrazia era una tendenza ormai iscritta nella storia, quantomeno in Occidente. Avanzarono dunque una soluzione che consisteva nel mantenere inalterati tutti gli aspetti della democrazia formale – libere elezioni, suffragio universale ecc. – ma erodendo la democrazia sostanziale attraverso una separazione tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico, soprattutto, ma non solo, attraverso il trasferimento di prerogative nazionali a istituzionali internazionali e sovranazionali, a-democratiche per definizione. Questa ideologia è quella che oggigiorno va sotto il nome di globalismo.

Il reale scontro di classe, obiettivo: espellere le masse dalla politica reale

[Franco Modigliani, uno dei più famosi neokeynesiani.]Nei primi decenni del secondo dopoguerra le idee dei neoliberisti rimasero piuttosto marginali, perché incompatibili con l’inevitabile allargamento dei margini della democrazia sostanziale conseguente all’integrazione dei lavoratori nei sistemi politici tramite i grandi partiti di massa. Ma furono riscoperte a seguito della crisi – economica ma soprattutto politica, come detto – degli anni Settanta. D’altronde, cosa era quella crisi se non la realizzazione dello scenario preconizzato dai neoliberisti mezzo secolo prima? Uno scenario in cui le masse lavoratrici si erano andate progressivamente rafforzando e politicizzando – tanto nel cuore dell’Occidente, come in Italia, quanto alla sua periferia, in Paesi come il Cile di Allende – al punto da rappresentare una minaccia, se non ancora per l’ordine capitalistico costituito in quanto tale, senz’altro per i rapporti di forza tra le classi.

Ciò che veramente preoccupava le classi dirigenti dell’epoca, insomma, più che la compressione dei profitti in quanto tale, era l’eccessivo peso politico che i lavoratori avevano acquisito all’interno dei processi democratici, al punto da riuscire a orientarne significativamente gli indirizzi politici, come disse Prodi. Furono piuttosto espliciti a questo riguardo. Basti pensare a un testo come La crisi della democrazia, pubblicato nel 1975 dalla Commissione Trilaterale, uno dei tanti centri studi (i cosiddetti think tank) neoliberisti che videro la luce in quegli anni, in cui per crisi della democrazia non si intendeva un deficit di democrazia, come verrebbe logico pensare, ma piuttosto un eccesso di democrazia, come scrivono gli autori. Da risolvere, ovviamente, dal loro punto di vista, con una compressione dei livelli di democrazia e di potere popolare. Compressione che in quegli anni assunse forme diverse: negli Stati della periferia, come in Cile, si passò alla cancellazione tout court della democrazia formale e all’instaurazione di regimi militari di vario tipo (soluzione che, come detto, godette dell’esplicito sostegno degli economisti neoliberisti); nei Paesi del nucleo occidentale, come l’Italia, per quanto non furono mai del tutto escluse soluzioni apertamente golpiste e autoritarie, si privilegiò invece una strategia più raffinata, che si richiamava proprio alle teorie sviluppate dai neoliberisti.

Come veniva indicato esplicitamente ne La crisi della democrazia, si trattava da un lato di minare le basi materiali della democrazia – il potere dei sindacati, i diritti sociali e tutte quelle protezioni che sono condizione necessaria per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (come recita l’art. 3 della Costituzione); dall’altro si trattava di ottenere “un grado maggiore di moderazione in democrazia” e una riduzione della partecipazione popolare alla vita politica, grazie anche alla diffusione di “una certa dose di apatia e disimpegno”. Si trattava, insomma, di espellere le masse dalla politica pur mantenendo in piedi gli assetti della democrazia formale. In questo senso, la congiuntura economica negativa degli anni Settanta fornì alle classi dirigenti occidentali l’occasione perfetta per mettere in atto questo progetto; per sferrare cioè un attacco decisivo al regime politico-economico del dopoguerra. Sul piano economico-distributivo questo attacco si caratterizzò per la compressione dei salari e, più in generale, per una riduzione del potere di contrattazione dei sindacati, operazione che politicamente fu “legittimata” da un lato addossando ai soli sindacati (e all’eccessiva spesa pubblica) la responsabilità della spirale prezzi-salari, nonostante la causa principale dell’inflazione risiedesse sul lato dell’offerta, cioè nell’aumento del costo del petrolio e delle materie prime; dall’altro, l’attacco si dipanò attraverso l’evocazione ossessiva del cosiddetto “vincolo esterno della bilancia dei pagamenti”, ossia l’idea che i salari troppo alti impedissero il necessario aggiustamento dei conti esteri dei Paesi in deficit (come era l’Italia in quegli anni) e che tale aggiustamento dovesse passare per una riduzione dei salari stessi.

Sul piano teorico si trattava di un’interpretazione molto discutibile, tuttavia questa ebbe un grande successo sul piano politico, anche per l’incapacità tanto degli economisti neokeynesiani quanto delle sinistre socialcomuniste di offrire un’interpretazione alternativa degli eventi. Un ruolo chiave in questa controffensiva ideologica fu giocato dalla scuola neomonetarista, che poggiava in buona parte sull’impianto monetarista classico di Milton Friedman, estremizzandone però alcuni aspetti. Il neomonetarismo ebbe una notevole influenza in particolare in Italia, anche grazie alla sostanziale convergenza che si venne a determinare tra le idee di Friedman e quelle di uno dei più famosi neokeynesiani dell’epoca: l’italiano Franco Modigliani.

La tesi di Friedman era in sostanza la seguente: esiste un solo livello salariale compatibile con la piena occupazione e, di contro, esiste un solo tasso di disoccupazione – il cosiddetto “tasso naturale di disoccupazione”, ancora oggi utilizzato dalla Commissione europea e altre istituzioni – compatibile con la piena occupazione. Qualunque intervento discrezionale di politica pubblica – di natura monetaria, fiscale o di altro tipo – volto ad aumentare l’occupazione o a difendere il salario avrebbe necessariamente comportato un aumento sia dell’inflazione che della disoccupazione. È evidente la portata politica di questa teoria: siamo di fronte a un ribaltamento radicale del principio keynesiano che aveva ispirato le politiche pubbliche ed economiche nel secondo dopoguerra, ovvero quello secondo cui il capitalismo è un sistema intrinsecamente instabile ed intrinsecamente incapace di garantire la piena occupazione, motivo per cui sono necessari interventi pubblici di vario tipo per garantire la piena occupazione e un’equa distribuzione di reddito e di ricchezza.

Le radici teoriche delle diseguaglianze che viviamo oggi

La teoria (solo apparentemente tecnica) di Friedman rappresentava un ribaltamento radicale di questa impostazione, volto a dimostrare la sostanziale impossibilità della piena occupazione e la dannosità di qualunque forma di intervento pubblico discrezionale. Ma, in un senso ancora più profondo, rappresentava un ritorno alla barbarie del capitalismo ottocentesco, in cui il lavoro era trattato alla stregua di una merce come qualunque altra, di fatto subordinando la vita stessa degli esseri umani, l’essenza stessa della società, alle leggi del mercato. Con l’obiettivo, evidente, di rimettere i lavoratori al loro posto, anche utilizzando lo strumento della disoccupazione. Purtroppo in Italia furono in pochi a comprendere la reale portata di quello che stava avvenendo.

Uno di questi fu l’economista Federico Caffè, che cercò di mettere in guardia soprattutto la sinistra sui rischi insiti nell’accettazione, anche solo parziale, di queste teorie: farlo avrebbe voluto dire spalancare un processo di regressione politica, economica e sociale potenzialmente senza fine – che è ovviamente quello che è successo, come conferma la drammaticità dello stato attuale del nostro Paese. Caffè fu tra i pochi a comprendere che l’enfasi ossessiva di quegli anni sul problema dell’inflazione e soprattutto la lettura antioperaia che veniva data del fenomeno erano da considerarsi funzionali a una strategia che non mirava realmente, o primariamente, a risolvere il problema dell’inflazione stessa – che era meno grave di quanto si voleva far credere, e per il quale esistevano comunque altre soluzioni ipotizzabili – ma piuttosto a sfruttarne lo spauracchio per raggiungere obiettivi politici ed economici di ben altra natura. «Oggi l’inflazione più che essere combattuta viene strumentalizzata, nel senso che evocando questo male dell’inflazione si intendono risolvere molti altri problemi di natura industriale, sindacale, rivendicativa e così via», scriveva Caffè. Qualche lettore noterà una certa assonanza con la situazione attuale. Caffè la chiamava «strategia dell’allarmismo economico»: una sorta di equivalente mediatico-narrativo della strategia della tensione di matrice propriamente terroristica. Proprio perché il nocciolo della questione era di natura politica – o meglio di classe – e non economica, Caffè si prodigò infaticabilmente in quegli anni per cercare di convincere la sinistra a non fare propria la narrazione dell’avversario sull’inevitabilità della disoccupazione. Ma i suoi avvertimenti rimasero perlopiù inascoltati.

Un altro aspetto del neomonetarismo era la sua insistenza sull’adozione del cambio fisso o semifisso – presentato come strumento economico, quale sicuramente era (stabilizzazione del cambio in senso anti-inflazionistico), ma che, come altre misure già discusse, aveva anche un importante componente politica, o meglio di classe: i cambi flessibili permettevano di accomodare le richieste salariali dei lavoratori, scaricando – in parte almeno – sul cambio l’aggiustamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti. Proprio per questo i neomonetaristi erano fautori dei cambi fissi, perché, per contro, non permettendo di scaricare gli aggiustamenti sul cambio, lasciavano come unica soluzione la compressione salariale. Ovviamente, nel contesto italiano ed europeo, il momento di svolta è l’introduzione del sistema di cambi fissi del Sistema monetario europeo (SME) nel 1979, che di fatto rappresenta il primo passo nel percorso di unificazione monetaria che porterà poi all’introduzione dell’euro. Non a caso, negli anni Ottanta sarebbe seguito l’attacco alla scala mobile e l’inizio di una drammatica stagnazione salariale e di una erosione dei diritti dei lavoratori che continua fino ai giorni nostri.

L’integrazione europea come realizzazione del progetto

Ma c’è una dimensione più prettamente politica alla radice del processo di integrazione europeo. In ultima analisi, tutto il processo di integrazione economica e monetaria europea può essere visto come la realizzazione di quel progetto teorizzato dai primi neoliberisti nei primi decenni del secolo scorso: trasferendo quote crescenti di sovranità nazionale – fino ad arrivare alla cessione del pilastro fondamentale dell’indipendenza economica di un Paese, la sovranità monetaria -, di fatto si riduce la capacità dei cittadini di influenzare gli orientamenti di politica economica di un Paese, per il semplice fatto che lo Stato è privo di tutti quegli strumenti necessari ad orientare gli indirizzi di politica economica. Si arriva così a recidere definitivamente il legame tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico: dal punto di vista formale, i Paesi rimangono democratici ma nella sostanza la democrazia viene svuotata dall’interno. Se consideriamo tutti questi elementi nel loro complesso, possiamo concludere che l’Italia è stato uno dei Paesi in cui il processo di neoliberalizzazione è stato portato alle sue più estreme conseguenze. È diffusa l’opinione secondo cui il neoliberismo non avrebbe mai preso piede in Italia, essendo il nostro Paese ancora oggi caratterizzato da un vastissimo apparato burocratico e da una spesa pubblica molto significativa in proporzione al PIL. Ma si tratta di lettura fallace della natura del neoliberismo, che si considera erroneamente volto alla minimizzazione del ruolo dello Stato.Come detto, il neoliberismo va inteso innanzitutto come un progetto politico finalizzato a indebolire il mondo del lavoro, a desovranizzare e de-democratizzare gli Stati, a ridurre la capacità delle masse di incidere sui processi economici e a consegnare le leve di politica economica a istituzioni sovranazionali che usano lo Stato per avanzare gli interessi dei ceti dominanti.

In quest’ottica, risulta difficile non concludere che controrivoluzione neoliberista sia stata, in Italia, un successo clamoroso dal punto di vista di chi la propugnava. Basti pensare a quanto siano diffusi nel nostro Paese i sentimenti di disillusione e di apatia nei confronti della politica – ovverosia esattamente lo scenario auspicato ormai cinquant’anni fa nel sopracitato testo La crisi della democrazia. Per concludere con una battuta amara, potremmo dire: l’operazione è stata un successo ma purtroppo il paziente – cioè la Costituzione materiale di questo Paese – è morto. [di Thomas Fazi]

Benessere diffuso. Perché il capitalismo non è responsabile della fame nel mondo. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 29 Luglio 2023

Negli ultimi decenni il declino della povertà è accelerato a un ritmo senza precedenti nella storia dell'umanità grazie alla crescita dei paesi che hanno accettato il libero mercato. Mentre le più grandi carestie provocate dall'uomo negli ultimi cento anni sono avvenute sotto dittature comuniste e stataliste

Quali sono le critiche che vengono solitamente rivolte al capitalismo? Mantiene povere alcune aree del mondo, crea disuguaglianze, distrugge l’ambiente, produce continue crisi finanziarie, avvantaggia solo i ricchi che dettano l’agenda politica, favorisce la nascita di monopoli, è guidato solamente dall’avidità e dalla ricerca del profitto, ci spinge a un consumismo sfrenato. In otto articoli, pubblicati a cadenza settimanale su Linkiesta, Rainer Zitelmann prova a rispondere a tali critiche, basandosi sui contenuti del suo recente libro, Elogio del capitalismo (IBL Libri, 2023). 

Prima dell’emergere del capitalismo, molte persone nel mondo erano intrappolate in una povertà estrema. Nel 1820, ad esempio, circa il novanta per cento della popolazione globale viveva in condizioni di assoluta povertà. Oggi, la cifra è meno del dieci per cento. E soprattutto: negli ultimi decenni il declino della povertà è accelerato a un ritmo senza precedenti nella storia dell’umanità. Nel 1981, il tasso di povertà assoluta era del 42,7 per cento; dal 2000 è caduto al 27,8 per cento, e nel 2021 è giunto sotto il dieci per cento. Questa tendenza, che è perdurata per decenni, è ciò che realmente conta. È vero che la povertà è cresciuta ancora negli ultimi due anni. Ma questo è ampiamente il risultato della pandemia globale di Covid-19, che ha esacerbato la situazione in nazioni dove la povertà era relativamente elevata.

Per capire la questione della povertà, dobbiamo guardare alla storia. Molte persone credono che il capitalismo sia la causa principale della povertà e della fame nel mondo. Essi hanno un’immagine completamente irrealistica dell’era pre-capitalista, plasmata sulla base di opere classiche, inclusa quella di Friedrich Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, 1820-1895. 

Engels denunciò le condizioni di lavoro sotto il primo capitalismo nei modi più drammatici e delineò un’immagine idilliaca dei lavoratori a domicilio prima che la nascita delle fabbriche e il capitalismo arrivassero a distruggere il loro armonioso stile di vita: «Così i lavoratori vegetavano in un’esistenza passabilmente confortevole, conducevano una vita di rettitudine e pace, caratterizzata da pietà e probità e la loro posizione materiale era di gran lunga migliore di quella dei loro successori. Essi non avevano bisogno di sovraccaricarsi di lavoro; non facevano più di quello che sceglievano di fare, e tuttavia guadagnavano ciò di cui necessitavano. Avevano tempo libero per un sano lavoro nell’orto o nei campi, lavoro […] e potevano partecipare alle attività ricreative e ai giochi con i loro vicini, e tutte queste attività, bowling, cricket, calcio, ecc. contribuivano alla loro salute fisica e al loro vigore. Essi erano, per la maggior parte, forti, robusti, con un fisico che metteva in evidenza poca o nessuna differenza rispetto a quello dei loro vicini di casa contadini. I loro figli crescevano all’aria aperta, e, se potevano aiutare i genitori al lavoro, lo facevano solo occasionalmente; mentre di otto o dodici ore di lavoro per loro non se ne parlava». 

L’immagine che molte persone hanno della vita prima del capitalismo è stata trasfigurata al di là di ogni riconoscimento da queste e simili rappresentazioni romantiche. Queste persone ritengono che la vita prima del capitalismo assomigliasse a una moderna gita in campagna. 

Diamo allora uno sguardo più obiettivo all’era pre-capitalista, negli anni e nei secoli precedenti al 1820. «I piccoli lavoratori del XVIII secolo», scrive il premio Nobel Angus Deaton nel suo libro The Great Awakening, «erano di fatto bloccati in una trappola nutrizionale: non potevano guadagnare molto perché erano fisicamente deboli e non potevano mangiare a sufficienza perché, senza lavoro, non avevano i soldi per comprare il cibo». 

Alcune persone si dicono entusiaste delle armoniose condizioni pre-capitaliste, quando il ritmo della vita era molto più lento rispetto a oggi, ma questa lentezza era principalmente il risultato di una stanchezza fisica dovuta a una malnutrizione permanente. Si stima che duecento anni fa, circa il venti per cento degli abitanti dell’Inghilterra e della Francia non era in grado di lavorare, semplicemente perché erano fisicamente troppo deboli a causa della malnutrizione. 

Le più grandi carestie provocate dall’uomo negli ultimi cento anni si sono verificate sotto il socialismo. Sulla scia della Rivoluzione Bolscevica, la carestia russa del 1921/22 costò la vita a cinque milioni di persone, secondo i dati ufficiali della Grande Enciclopedia Sovietica del 1927. Secondo altre stime, i morti per carenza di cibo sono stati tra i dieci e i quattordici milioni. Solo un decennio dopo, la collettivizzazione socialista dell’agricoltura voluta da Stalin e la liquidazione dei kulaki ha innescato la successiva grande carestia, che uccise tra i sei e gli otto milioni di persone. E “Il Grande Balzo in Avanti” (1958-1962) di Mao, il più grande esperimento socialista nella storia dell’umanità, costò la vita a quarantacinque milioni di persone in Cina.

Quando si usa il termine carestia, viene subito in mente di ricondurre il termine all’Africa. Nel XX secolo, tuttavia, l’ottanta per cento di tutte le vittime delle carestie è morta in Cina e in Unione Sovietica. È un tipico equivoco il fatto che quando si pensa a fame e povertà si colleghi questi concetti al capitalismo piuttosto che al socialismo, sistema, quest’ultimo, che è stato responsabile delle più grandi carestie del XX secolo.

Il sonno della globalizzazione. L’Italia demonizza il neoliberismo senza essere mai stata liberista. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023 

Il nostro Paese ha subito contraccolpi economici non certo per l’eccesso di concorrenza sul mercato mondiale, ma per le sue rigidezze. I difetti cronici si sono aggravati con le risposte dei governi: sussidi, aiuti pubblici e politiche sociali pagate non si sa come e da chi

Già trent’anni fa una letteratura seria spiegava che la cosiddetta globalizzazione, mentre avrebbe tirato fuori dalla povertà un paio di miliardi di persone del mondo arretrato, avrebbe impoverito decine, forse centinaia di milioni di individui appartenenti a quello progredito.

Si trattava del lavoro di osservatori non ripiegati ideologicamente in modo illiberale e anzi favorevolissimi al mercato e alla libera concorrenza, le cose che appunto negli ultimi decenni hanno strappato alla povertà tantissimi e impoverito una quota notevole degli altri.

Evidenziavano in buona sostanza che il libero mercato e la concorrenza, come elementi attuatori della globalizzazione, erano necessari ma non sufficienti a dar da mangiare come prima alle fasce sempre crescenti di impoveriti dei Paesi cosiddetti avanzati.

Ma suggerivano che si approntassero rimedi – tanto per intendersi – di compensazione, con investimenti rivolti non a correggere il gioco competitivo, non a limitare i rapporti di concorrenza, ma a rendere più duttili e aggiornati sistemi di welfare ormai incompatibili appunto perché confezionati sulla scorta di un mondo passato.

Il problema è che questo ragionamento molto serio non è mai stato fatto in un Paese come il nostro, nel quale al contrario il discorso pubblico imputa alle sfrenatezze del “neoliberismo” il pregiudizio sofferto da molti a causa dell’urto da globalizzazione. E si spiega.

Perché l’urto non si è qui prodotto su un assetto di compiuto sviluppo di un ordinamento della concorrenza e di mercato bisognoso di quelle compensazioni: si è prodotto su un impianto dell’economia e del lavoro marcatamente anti-concorrenziale, nemmeno sfiorato da qualsiasi insulto neoliberista per la semplice ragione che liberista non è mai stato.

Era bensì vero che la macchina utensile cinese, le valvole indiane, il tessile turco che decenni fa cominciavano ad aggredire i nostri mercati mettevano in crisi le corrispondenti produzioni domestiche e l’indotto interessato: ma era la crisi che si registrava nel Paese in cui l’impresa appartiene per il quarantacinque per cento al potere pubblico, nel sistema in cui è largamente sussidiata l’improduttività d’impresa, nella struttura dei rapporti tra impresa e potere statale in cui l’intermediazione burocratica grava più che ovunque in Occidente sull’iniziativa economica.

Era quindi un impatto tanto più devastante per difetto, non per eccesso di concorrenza della realtà sociale ed economica – la nostra – che lo subiva; per mancanza, non per sregolatezza del mercato; per rigidità, non per sbrigliatezza dell’organizzazione del lavoro.

E sono quelle mancanze e quei difetti, non il “neoliberismo”, ad impedirci di adoperare i frutti del mercato e della concorrenza per renderci compatibili con la cosiddetta globalizzazione: una creatura che infierisce tanto più proprio sui sistemi irrigiditi; quelli che sempre, non a caso, vogliono combatterla con politiche sociali pagate non si sa come e non si sa da chi.

Il capitalismo è democratico: i cittadini più poveri di oggi hanno a disposizione più beni, energia e vantaggi. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Ti fideresti di un avvocato che non conosce il concetto di contratto? Oppure di un medico che non conosce il funzionamento dell’apparato cardiocircolatorio? Ebbene, secondo la mia moderata opinione chi non conosce i concetti di prodotto interno lordo (Pil) e di produttività è indegno di usare la qualifica di economista, e pure quella di giornalista economico.

In breve: il Pil rappresenta il valore totale di tutti i beni e servizi finali prodotti in un certo periodo di tempo in un certo paese, di solito un anno o un trimestre. Chi compra questi beni e servizi? Le famiglie li acquistano per i propri consumi, mentre le imprese acquistano impianti e macchinari per rimpiazzare la propria dotazione oppure per aggiungerne di nuovi. Poiché l’economia è aperta agli scambi con l’estero, le esportazioni si aggiungono alla domanda di produzione nazionale (acquisti fatti dall’estero), mentre bisogna sottrarre il valore delle importazioni, in quanto si tratta di acquisti di beni e servizi prodotti altrove, cioè all’estero. E come conteggiare la spesa pubblica?

È facile il caso dell’acquisto di forniture utilizzabili nel breve termine (le famose “siringhe” dal prezzo selvaggiamente variabile da una regione all’altra) e quello delle infrastrutture pubbliche (strade, ponti, telecomunicazioni) mentre gli stipendi pubblici finiscono anch’essi dentro il lato della domanda perché sono una misura del valore dei servizi pubblici prestati alla cittadinanza (ad esempio: sanità e istruzione) quando non esiste un prezzo volontariamente pagato dai cittadini, ovviamente sostituito dal prelievo coercitivo sotto forma di imposte e tasse.

Se poi si divide il Pil totale per la popolazione si ottiene il Pil pro capite, cioè una misura media della produzione e del reddito. Qui spunta il concetto aggiuntivo di reddito, in quanto è piacevole osservare come per ogni acquisto di beni e servizi corrisponde un ricavo per i soggetti che li vendono, tipicamente imprese che utilizzano questi incassi per pagare dipendenti, fornitori, banche creditrici e azionisti. E chi compra la produzione nazionale?

A parte gli scambi con l’estero, il concetto grandioso è quello di “circuito del reddito”: le imprese che vendono con successo beni e servizi danno un reddito a lavoratori e capitalisti, il quale viene utilizzato da costoro per comprare beni e servizi finali, in un circolo virtuoso che diventa più ampio in termini assoluti se il Pil totale cresce, e in termini medi se il Pil pro capite cresce. Qui introduco il concetto di produttività, in quanto essa misura quanto –grazie a tecnologia, capitale umano, impianti e macchinari – in media il singolo cittadino (o lavoratore) è in grado di produrre.

Grazie alla sequenza di rivoluzioni industriali, il benessere medio degli esseri umani nei paesi sviluppati è cresciuto in maniera esponenziale, in quanto la crescita della produttività è stata fenomenale: dunque i cittadini più poveri di oggi hanno a disposizione più beni, energia e vantaggi rispetto a quanto il Re Sole poteva ottenere soltanto grazie al lavoro di migliaia di persone esclusivamente dedite a lui, e a pochi altri. Dunque potrei aumentare l’ansia di qualcuno sottolineando come il capitalismo sia essenzialmente democratico.

Riccardo Puglisi

It's the economy, stupid. Il capitalismo ha successo perché si adatta a ogni epoca e luogo. Riccardo Piccolo su L'Inkiesta l'11 maggio 2023.

Rainer Zitelman, autore di “Elogio del capitalismo. Dieci miti da sfatare”, spiega a Linkiesta che a differenza del socialismo «il libero mercato è un sistema spontaneo che non è stato inventato a tavolino da intellettuali». Per questo è applicabile a qualsiasi latitudine

Mentre lo spettro del socialismo continua ad aggirarsi per l’Europa, c’è chi come Rainer Zitelmann storico, saggista e imprenditore di successo nato a Francoforte sul Meno, si batte per difendere il sistema economico più bistrattato dagli intellettuali di sinistra. Nel suo nuovo libro Elogio del capitalismo. Dieci miti da sfatare, edito dalla casa editrice dell’Istituto Bruno leoni, Zitelmann l’apostata (perchè abbracciò la dottrina marxista in gioventù per poi ripudiarla con decisione), grande studioso dell’utopia socialista, riesce a spiegare con semplicità perché “il capitalismo ha una cattiva reputazione nonostante sia il sistema economico più di successo nella storia umana”. Attraverso poca teoria, ma moltissimi esempi storici che arrivano dritto al punto il professore smonta, dati alla mano, tutte le falsità che si dicono intorno al capitalismo. Riuscendo anche nell’intento, grazie alla sua personalità istrionica che poco si addice ad un carattere teutonico e alle sue t-shirt geniali (“Socialism kills” o “talk to invisible hand” sotto il faccione di Adam Smith), a rendere la scienza triste, ovvero l’economia, un poco più sexy. 

Nel suo libro spiega che molti falsi miti sul capitalismo derivano da un’idea ingenua sulla qualità della vita nelle epoche passate. Che ruolo gioca questa fantasia per criticare l’attuale stato delle cose?

Penso che le persone non conoscano abbastanza bene la storia e non abbiano idea di come vivevano le persone, ad esempio, trecento o quattrocento anni fa. Ma credo anche che tutte le persone istruite, come gli economisti anti-capitalisti, ammettono che ci sono stati enormi progressi avanti negli ultimi duecento anni grazie a questo sistema economico. Ho letto un libro poche settimane fa dell’economista tedesca Sahra Wagenknecht, il cui titolo è “Fine del capitalismo”. Anche lei, pur essendo una radicale di sinistra, ammette apertamente che il capitalismo è responsabile di aver portato fuori moltissime persone da una condizione di povertà. Ci sono alcuni eventi, relativamente recenti, di cui non si parla nemmeno a scuola, come il grande balzo in avanti voluto da Mao in Cina negli anni ’50 e ’60, che è stato il più grande esperimento socialista della storia e ha causato la morte di 45 milioni di persone. Ho notato che quando parlo di questo argomento in giro per il mondo, la maggior parte delle persone non ne ha mai sentito parlare. Questo è uno dei motivi per cui ho incluso il capitolo 11 nel mio libro, in cui parlo di alcuni esempi di cosa significava il socialismo nella storia. 

La continua crescita economica è compatibile con la lotta al cambiamento climatico? 

Secondo me, l’unica soluzione per affrontare il cambiamento climatico è il capitalismo, perché l’alternativa economia pianificata, non ha mai risolto alcun problema nella storia, anzi, ha creato molti problemi, soprattutto per l’ambiente. Se confrontiamo Germania Est e Ovest – che erano lo stesso Paese, con le stesse persone, la stessa lingua, ma sistemi economici diversi – si può vedere che le emissioni di CO2 nella Germania Est erano tre volte più alte rispetto a quelle della Germania Ovest. Inoltre, se paragoniamo l’indice di libertà economica dell’Heritage Foundation con il punteggio ambientale dei paesi, si può notare che quelli economicamente più liberi hanno punteggi ambientali migliori rispetto ai quelli meno liberi. Non è vero che più regolamentazioni e più governo siano meglio per l’ambiente. Ad esempio, in Germania ci sono molte regolamentazioni ambientali ma non abbiamo avuto risultati soddisfacenti nella lotta al cambiamento climatico. Il governo tedesco ha vietato le centrali nucleari, ha fatto dipendere il Paese dal gas russo e ha importato energia sporca da altri paesi, aumentando i prezzi dell’elettricità. Le imprese hanno spostato la loro produzione all’estero dove le condizioni ambientali sono peggiori. Pertanto, l’idea che il governo debba fare qualcosa per salvare l’ambiente non è sempre la risposta giusta. 

Il capitalismo è un sistema in grado di adattarsi ai cambiamenti sociali e alle nuove sfide economiche?

Negli ultimi duecento anni, il capitalismo è sempre mutato e questa è la ragione per cui ha avuto tanto successo. Al contrario, il socialismo è un sistema difficile da modificare. Si è tentato di riformarlo in molti paesi come Ungheria, Polonia e Jugoslavia, ma non ha mai funzionato. L’unico modo per far funzionare il socialismo infatti è corromperlo, come accaduto in Cina o Vietnam, dove hanno adottato una forma di economia di mercato, chiamata socialismo, ma che ovviamente non ha nulla a che fare con il socialismo originale. Il capitalismo, invece, è diverso. Si evolve costantemente ed è una rivoluzione costante, questo perché è un sistema spontaneo che non è stato inventato a tavolino da intellettuali. Adam Smith non ha scritto un libro per i politici perché lo mettessero in pratica: ha solo descritto ciò che accade nella realtà degli scambi sociali. In Cina e Vietnam, il capitalismo è nato dal basso grazie alle iniziative dei piccoli imprenditori. Quando finalmente il governo ha deciso di permettere l’economia di mercato, ha semplicemente permesso ciò che era già presente nella società, non è stato qualcosa di imposto. Gli intellettuali, in genere, preferiscono il socialismo perché in questo sistema hanno un ruolo più importante rispetto al capitalismo: hanno il compito di portare la “coscienza di classe” alle masse e di implementare le loro idee attraverso i politici. Invece, nel capitalismo, gli intellettuali non sono così importanti.  

In molti sostengono che la società capitalista abbia prodotto il culto della performatività, soprattutto nel mondo del lavoro. Non crede che questo possa avere un impatto sul benessere psicologico delle persone?

Penso che sia un modo facile di incolpare il capitalismo per i problemi del mondo. Per questo la chiamo religione politica, perché è simile al bigottismo dei contadini del passato che incolpavano il diavolo per tutti i mali che capitavano. Oggi, se fallisci o hai dei problemi puoi sempre additare il capitalismo come responsabile. Tuttavia, penso che per le giovani generazione, i problemi psicologici siano più causati dal movimento ambientalista che dal capitalismo. In Germania, ad esempio, molti giovani sono pieni di paura per il futuro del pianeta, pensando che la fine del mondo sia alle porte. Non vedo come la libertà economica possa causare problemi psicologici. Anzi, la libertà apre molte possibilità, anche se può portare ad avere paura del futuro. Tuttavia, l’alternativa sarebbe di avere un’economia pianificata e un regime oppressivo. 

Dalla sua idea di capitalismo sembra emergere una filosofia per la condotta del singolo, è d’accordo?

Credo nell’importanza delle responsabilità nella vita. Ci sono molte persone che odiano i ricchi e incolpano le persone benestanti per la loro situazione. Questo è vero, ma la domanda è: quale atteggiamento che aiuta di più? Qualche anno fa hanno messo una ghigliottina di fronte alla casa di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, come gesto dimostrativo. Questo atto non risolve il problema della disuguaglianza economica. Al contrario, ritengo che sia meglio imparare dalle persone di successo. Potremmo leggere un libro sulla vita di Jeff Bezos e chiederci: “Cosa posso imparare dal suo successo?”. C’è chi dice che il capitalismo sia il problema principale, e che non valga la pena provare a cambiare le cose. Io invece penso che sia giusto riconoscere che ci sono problemi nella società, ma che bisogna anche prendersi la responsabilità di cambiare la propria vita. Questo messaggio può dare speranza alle persone, al contrario di chi dice loro che non vale la pena provare a cambiare le cose, perché il capitalismo è troppo potente. Questo atteggiamento può solo portare alla frustrazione delle persone. 

Se è vero che i benefici apportati dal capitalismo sono così palesi perché ha una così cattiva reputazione?

Due mesi fa in Grecia c’è stato un terribile incidente ferroviario in cui sono morte cinquanta persone e c’è stata una grande protesta contro il governo capitalista. Ero in un hotel vicino al Parlamento e ho visto manifestanti di sinistra e comunisti protestare e suonare musica. Non riuscivo a capire le loro canzoni perché non conosco il greco, ma mi hanno toccato il cuore tanto erano intense. Allora, mentre li guardavo dal balcone ho pensato che loro sanno parlare ai sentimenti delle persone, mentre io ho solo i fatti dalla mia parte. Il loro metodo è molto più efficace dal punto di vista del marketing, perché sanno toccare l’emotività. Penso che i socialisti siano molto migliori di noi nel marketing e nelle relazioni pubbliche. Altrimenti non si spiegherebbe perché un sistema che ha fallito ben 25 volte nel secolo scorso e ha causato la morte di 100 milioni di persone, venga preferito ad uno che ha ridotto il numero di persone che vivono in povertà dal 90 per cento di cento anni fa al 9 per cento di oggi.

Cosa pensano gli italiani del capitalismo rispetto agli altri paesi?

L’analisi delle risposte ai sondaggi che abbiamo posto ci dicono che le dichiarazioni a favore di un ruolo più incisivo dello Stato nell’economia sono condivise nel 26 per cento dei casi, contro il 21 per cento di approvazione per le dichiarazioni a favore del mercato o della riduzione dell’intervento pubblico. Dividendo la media delle affermazioni positive con la media di quelle negative si ottiene un coefficiente di 0,81 – un coefficiente superiore a 1 significa che prevalgono le posizioni favorevoli alla libertà economica, mentre un coefficiente inferiore a 1 significa che prevalgono gli atteggiamenti contrari alla libertà economica. Seppure in diversi paesi occidentali abbiamo riscontrato un coefficiente minore a uno, abbiamo risultati interessanti e diverse tendenze in altri Stati. Ad esempio, la Polonia, un tempo uno dei Paesi più poveri d’Europa sotto il socialismo, e adesso diventata una storia di successo del capitalismo è la nazione più favorevole al capitalismo che abbiamo preso in esame. Anche la Corea del Sud e il Vietnam hanno subito riforme economiche nella direzione del libero mercato e sono ora più capitalistiche. Inoltre, l’Argentina sta diventando sempre più aperta al mercato, con molti giovani che sono a favore del liberalismo.

Estratto dell’articolo di Roberto Esposito per “la Repubblica” il 3 aprile 2023.

[…] Già nel 1960 Daniel Bell scriveva un libro — La fine delle ideologie — che sembrava chiudere la partita […] È davvero così? L’ideologia è una “parola controtempo”? […] La questione è posta con la solita finezza analitica da Carlo Galli in Ideologia, edito dal Mulino. […] Essa è insieme illuminazione e propaganda, critica e dogmatismo, interpretazione soggettiva e pretesa di oggettività.

 L’ideologia svela i tratti del dominio, ma tende a sostituirli con altri, talvolta anche più marcati. […] È efficace, crea egemonia, mobilita energia contro l’avversario di turno, fin quando non ne subisce la replica, essa stessa inevitabilmente ideologica. Anche se mai dichiarata tale. Ideologia è sempre quella degli altri.

Mai la propria, che si presenta invece come scienza, visione oggettiva delle cose. Per questo parlarne, tentare di definirla, è pericoloso […] Per tutti l’ideologia è uno strumento polemico funzionale all’edificazione di un nuovo ordine. L’intera modernità ne è attraversata, lacerata, ma anche, di volta in volta, ripensata in base a nuove prospettive. Se la modernità è una continua successione di crisi, le ideologie allo stesso tempo ne fanno parte e la interpretano in vista di nuove visioni del mondo.

 Dall’Ideologia tedesca (1945-6) di Marx e Engels a Ideologia e utopia (1929) di Karl Mannheim, la sua critica produce sempre nuove ideologie, a loro volte decostruite da Nietzsche, Lukács, Gramsci, Arendt, Schmitt, Foucault. Tutti, alla fine, presi nel cerchio ideologico che tentano di spezzare. Perciò Galli individua nel metodo genealogico l’unico modo di rapportarsi a una realtà così sfuggente. Più che chiedersi cos’è l’ideologia, o, peggio, come lasciarsela alle spalle, bisogna individuarne la provenienza […]

[…] fascismo, nazismo e comunismo […] sono ideologie scaturite dalle pieghe del Novecento. Dopo la loro sconfitta, i regimi liberaldemocratici e socialdemocratici raffreddano il tasso ideologico, ma non lo spengono. Destra e sinistra continuano ad esserci, malgrado i maldestri tentativi di negarne l’esistenza. […]

 Dopo che il ’68 ha contrapposto i movimenti alle istituzioni, a partire dagli anni Ottanta si è andata diffondendo l’ultima delle ideologie — quella appunto della loro fine. Prodotto dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica, il neoliberalismo è stato, più che una semplice dottrina economica, una vera concezione del mondo. Una macchina ideologica che vede nella società un’arena di competizione tra individui rivolti all’imperativo del guadagno in un mercato finanziario senza limiti spaziali e temporali.

Smaterializzazione virtuale del mondo e riduzione della storia a natura sembrano farla finita con le ideologie. Ma non è andata così. Presto i lampi delle Torri Gemelle, tornati a balenare nella guerra in Ucraina, hanno illuminato sinistramente una realtà diversa. Mostrando che la globalizzazione non porta necessariamente la pace e il mercato non produce solo sviluppo, ma anche ineguaglianza ed esclusione. […]

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 10 gennaio 2023. 

[…] La parte più interessante della nuova Business School della Columbia University, costata 600 milioni di dollari, è dentro la struttura. Qui si prepareranno gli economisti che cercheranno di attaccare il concetto predatorio del capitalismo, dell'autoritarismo 2.0, con l'obiettivo di disossare il mammuth della cultura monopolistica che punta solo allo sfruttamento del singolo, per aumentare i guadagni.

[…]«Le forze in atto nel mondo - spiega al New York Times il presidente della Columbia, Lee C. Bollinger - stanno spingendo a un ripensamento del sistema economico che abbiamo». Dal cambiamento climatico alle questioni di giustizia sociale, per arrivare a progetti economici legati al mondo della solidarietà.

L'idea di Milton Friedman che il business è solo guadagno viene superata. […] L'obiettivo è offrire una visione e mettere insieme persone in grado non solo di guardare il valore dei dollari, ma quello che vive e vegeta attorno. Tra gli economisti c'è chi pensa che una scuola di economia non possa andare oltre un'idea di business consolidata. In fondo si preparano economisti che poi dovranno lavorare in studi affermati e consolidati. […]

In gioco c'è la sfida alle gerarchie del potere. Per ora questa sfida l'hanno vinta gli architetti che hanno progettato la nuova Business School. […] Gli spazi sono immaginati per produrre colloqui informali, come la nuova Geffen Hall, vetri ovunque, strutture bianche e lisce, scale a spirale ma anche sale con soli sei posti per facilitare le interazioni. I professori non occupano posizioni dominanti.

[…] Le idee dei futuri economisti dovranno seguire quelle linee e interrogarsi su temi a cui la gente non pensava venti o cinquant' anni fa. «La visione ora - spiega il preside, Costis Maglaras - è mettere insieme le persone e discutere i temi più attuali nel mondo».

La logica del mercato. La regola bicentenaria. Il capitalismo aumenta la ricchezza di una nazione, e riduce anche la povertà. Rainer Zitelmann su L’Inkiesta il 24 Gennaio 2023

L’economia di mercato e i diritti di proprietà privata hanno creato milionari ma hanno anche aiutato milioni di persone nel mondo a uscire da condizioni di estrema indigenza

Ogni anno, Oxfam pubblica uno studio in concomitanza con il World Economic Forum di Davos. I rapporti precedenti erano spesso basati su dati errati e metodologie non scientifiche. Ciononostante, i media hanno sempre dedicato ampio spazio ai rapporti annuali di Oxfam. Questa volta, però, una delle conclusioni di Oxfam è corretta: per la prima volta in 25 anni, l’estrema ricchezza e l’estrema povertà sono aumentate contemporaneamente, e Oxfam ha puntato il dito contro questo andamento. Negli anni precedenti, tuttavia, è accaduto esattamente il contrario.

Il numero di miliardari è aumentato costantemente negli ultimi decenni, mentre il numero di persone che vivono in estrema povertà è diminuito costantemente.

Prima dell’avvento del capitalismo, la maggior parte delle persone nel mondo viveva in condizioni di estrema povertà. Nel 1820 circa il 90 per cento della popolazione mondiale viveva in condizioni di povertà assoluta. Oggi la percentuale è inferiore al 10 per cento.  E soprattutto: negli ultimi decenni il declino della povertà ha subito un’accelerazione senza precedenti nella storia dell’umanità. Nel 1981, il tasso di povertà assoluta era del 42,7 per cento; nel 2000 era sceso al 27,8 per cento e nel 2021 era inferiore al 10 per cento. Il numero di miliardari, invece, è aumentato di circa cinque volte dal 2000, secondo Forbes. È questa tendenza principale, che persiste da decenni, a essere cruciale.

È vero – contrariamente alle aspettative iniziali della Banca Mondiale, che compila questi dati – che la povertà è aumentata di nuovo negli ultimi due anni. Ma questo è in gran parte il risultato della pandemia globale di Covid-19, che ha esacerbato la situazione nei Paesi in cui la povertà era già relativamente alta. Anche altre tendenze a lungo termine portano all’ottimismo. Per esempio, il numero di bambini che lavorano nel mondo è diminuito in modo significativo, passando da 246 milioni nel 2000 a 160 milioni vent’anni dopo, nel 2020. E questo calo è avvenuto nonostante la popolazione mondiale sia aumentata da 6,1 a 7,8 miliardi nello stesso periodo.

Questo dimostra che ciò in cui credono gli anticapitalisti, cioè che i ricchi si arricchiscono a spese dei poveri, è un’idea sbagliata. In realtà, è vero il contrario: la crescita economica fa sì che all’aumentare del numero di ricchi diminuisca il numero di persone che vivono in povertà, su scala globale. Un esempio è la Cina: nel 1981, l’88 per cento della popolazione cinese viveva ancora in condizioni di estrema povertà. Poi Deng Xiaoping ha avviato le sue riforme pro libero mercato con lo slogan: «Lasciamo che alcuni si arricchiscano per primi». Prima di allora, la Cina non aveva un solo miliardario perché la proprietà privata non era consentita sotto il governo di Mao. Oggi, in Cina ci sono più miliardari che in qualsiasi altra parte del mondo, a eccezione degli Stati Uniti. E il numero di persone che vivono in estrema povertà è sceso a meno dell’1 per cento.

Un altro esempio è il Vietnam: nel 1993, ben l’80 pe cento della popolazione vietnamita viveva in povertà. Nel 2020, la percentuale era scesa ad appena il 5 per cento. Ciò è stato possibile grazie all’introduzione dei diritti di proprietà privata e alle riforme di libero mercato. Allo stesso tempo, questo ha portato alcune persone in Vietnam a diventare molto ricche e oggi ci sono persino diversi miliardari in un Paese che un tempo era uno dei più poveri al mondo.

Come si fa a combattere efficacemente la povertà e la fame? Molti credono che la risposta risieda negli aiuti allo sviluppo, nonostante il fatto che negli ultimi 50 anni questi aiuti non abbiano cambiato nulla in Africa. Ciò che invece ha funzionato molto bene in un gran numero di Paesi è l’introduzione dell’economia di mercato e dei diritti di proprietà privata.

Gli anticapitalisti come l’organizzazione Oxfam vedono il mondo in termini di “somma zero”. Ci dicono che i poveri sono poveri solo perché i ricchi sono ricchi. Ma se questo fosse vero, come si spiega il fatto che mentre il numero di persone estremamente ricche è aumentato, il numero di persone che vivono in estrema povertà è diminuito? Questa è la regola da 200 anni. Un anno in cui si è verificato il contrario, in gran parte a causa degli effetti della pandemia di coronavirus da un lato e di un mercato azionario molto positivo dall’altro, è un’eccezione molto rara.

Dove finisce un Paese. Il sistema degli Stati-nazione non può più essere dato per scontato. Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna su L'Inkiesta il 3 Ottobre 2023.

La visione attuale delle frontiere funziona solo se le nazioni sono immaginate uguali e sovrane. Come sostengono Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna nel nuovo saggio “Contro i confini”, una tale presunzione richiede un’amnesia storica sulle politiche di dominio

Cosa fanno i confini? Nell’interpretazione convenzionale, stabiliscono dove finisce un Paese e dove ne inizia un altro. Sono linee su una carta, permanenti e, all’apparenza, razionali. I confini delineano il territorio di una nazione e fanno da filtro agli spostamenti in entrata e in uscita di persone e di beni. Tengono fuori ciò che è proibito: somme di denaro non dichiarate, animali, specie vegetali invasive, malattie, droghe e, ovviamente, persone non autorizzate.

I ricchi abitanti del Nord globale attraversano le frontiere con relativa facilità, salvo il breve fastidio del controllo via scanner dei bagagli e del passaporto, prima del caldo abbraccio con la famiglia lontana e del languore delle vacanze. I viaggiatori rispettosi della legge accettano di buon grado le perquisizioni personali e la scansione a raggi x perché ritengono di non avere nulla da nascondere. E, a dirla tutta, perché hanno un desiderio condiviso di controllo, ordine e sicurezza.

È tale bisogno di controllo e sicurezza a definire le politiche sull’immigrazione, e quindi i titoli sui giornali e i discorsi politici contro i pericoli di un’immigrazione incontrollata. Ma a quanto pare questi confini vengono violati di continuo. Da qui le metafore liquide – “diluvio”, “ondate” o “marea” di migranti – superate soltanto dall’espressione, barbarizzante, “orda”. Gli immigrati vengono di solito messi a fuoco come un assortimento delle loro caratteristiche più minacciose, e il loro arrivo e la loro distribuzione sul territorio – troppi, troppo velocemente e del tipo sbagliato – sono visti soltanto come un rischio, che porta con sé insicurezza e declino di una nazione. 

In un contesto simile, i governi sembrano costretti a impegnare risorse sempre maggiori e tecnologie sempre più sofisticate per rafforzare i propri confini. Il recente aumento di governi di destra è stato accompagnato dal proliferare di muri, reticolati, barriere galleggianti, droni destinati alla sorveglianza dei migranti che attraversano deserti e oceani, respingimenti ai confini dell’Europa e valutazione delle richieste di asilo attraverso campi di detenzione offshore. L’intensificarsi di una politica di frontiera violenta e spettacolarizzata è intimamente connesso all’ascesa di governi razzisti e nazionalisti propria dell’attuale momento storico.

Ma non si tratta di un problema della sola destra. Da tutto lo spettro politico si alzano voci che affermano la ragionelezza e la necessità delle frontiere. Molti partiti e diversi sindacati ritengono che i confini proteggano la classe lavoratrice dall’abbassamento dei salari causati da un surplus di lavoro migrante, che evitino di sovraccaricare l’edilizia pubblica e i servizi al cittadino e preservino lo “stile di vita” e la “cultura nazionale” delle società meta di immigrazione. 

Si ritiene, inoltre, che le frontiere servano da contrasto al traffico di esseri umani e a quello a scopo sessuale, oltre a evitare che i talenti migliori abbandonino i Paesi più poveri. In tutte queste narrazioni, le persone in movimento vengono ridotte a numeri, unità di lavoro, minacce razionalizzate, vittime disperate e categorie legali. La loro umanità viene cancellata e i “fattori di spinta” (pushing factors) che guidano la loro decisione di migrare rimangono sullo sfondo: una sorta di miasma fatto di guerre, persecuzioni e collasso ecologico completamente slegato dagli atti e dalle storie dei Paesi del Nord globale.

Parte del problema è che il sistema degli Stati-nazione viene semplicemente dato per scontato, come se i Paesi e le ineguaglianze fossero naturali e permanenti. La cittadinanza – il sistema politico-legale che assegna gli individui agli Stati – non viene messa in discussione. E non solo: la cittadinanza è vista come un bene universale, segno di inclusione politica e soggettività, e si presuppone che ciascun individuo sia un cittadino a “casa propria”, lì dove ha legami culturali e sociali radicati, un luogo a cui, quindi, “appartiene”. 

In un simile contesto, il controllo dell’immigrazione è percepito come mirato esclusivamente all’applicazione di coerenti distinzioni legali e spaziali tra le varie popolazioni nazionali, tramite meccanismi burocratici quali visti, passaporti, controlli alle frontiere e accordi tra gli Stati. I confini tra gli Stati-nazione sono considerati vitali per la democrazia: delimitano il demos. Per sostenere una simile visione delle frontiere, tutti gli Stati-nazione devono essere immaginati come formalmente uguali e sovrani. Ma una tale presunzione richiede un’amnesia storica per quel che riguarda il colonialismo, e una volontà precisa di non tener conto delle attuali relazioni di dominio economico.

Ovviamente le cittadinanze non sono tutte uguali: i cittadini svedesi, neozelandesi o statunitensi hanno maggiori opportunità di una vita migliore e una ben diversa libertà di movimento rispetto ai cittadini del Bangladesh, della Repubblica Democratica del Congo o del Kirghizistan. Dunque, il controllo dell’immigrazione non si limita a dividere il mondo, ma rafforza distinzioni di spazi e diritti tra popolazioni nazionali estremamente ineguali. 

Da “Contro i confini” di Gracie Mae Bradley e Luke De Norohna, Add editore, 208 pagine, 17,10 euro.

Franchising ideologico. La brutale violenza del nazionalismo (post)coloniale. Mahmood Mamdani su L'Inkiesta il 17 Agosto 2023

In “Né coloni né nativi” (Meltemi), Mahmood Mamdani spiega come le società occidentali abbiano fallito nel riprodurre oltremare nazioni simili a quelle europee, adoperando una modernità politica basata sulla civilizzazione violenta, fino a forme di pulizia etnica e genocidio 

Il colonialismo e lo Stato moderno hanno la stessa data di nascita dello Stato-nazione. Il nazionalismo non ha preceduto il colonialismo. Né il colonialismo fu lo stadio più alto o finale nella formazione di una nazione. Si costituirono reciprocamente. La nascita dello Stato moderno tra pulizia etnica e dominio d’oltremare ci consegna una lezione diversa su cosa sia la modernità politica: meno un motore di tolleranza che di conquista.

In Europa la tolleranza emerse dopo Vestfalia come la chiave per assicurare la pace civile all’interno dello Stato-nazione. Le minoranze in patria venivano tollerate in cambio della loro lealtà politica, il che, in pratica, significò che venivano tollerate nella misura in cui erano percepite dalla maggioranza nazionale non come una minaccia. Questo regime di tolleranza ha consolidato la struttura dello Stato-nazione, definendo il rapporto tra maggioranza nazionale e minoranza. È questa struttura di tolleranza a essere considerata la definizione del carattere liberale della modernità politica. Ma questa è la modernità politica in Europa.

Nelle colonie d’oltremare e negli insediamenti di coloni dove non c’era una chiara divisione spaziale tra nazione e non nazione, la modernità politica e il suo liberalismo significarono qualcos’altro. Significarono conquista. In quanto ideologia e discorso politico eurocentrico, la modernità non richiedeva tolleranza fuori dai propri confini. Solo le persone ritenute civili dovevano essere tollerate. Altri, segnati dalle loro differenze culturali rispetto agli europei cristiani, dovevano essere civilizzati prima di guadagnarsi il diritto di essere tollerati. La luce della civiltà poteva risplendere ovunque le popolazioni si adeguassero agli ideali eurocentrici. Così gli europei si rivolsero alle colonie e cercarono di costruirvi l’incarnazione della modernità: lo Stato-nazione, così come esisteva in Europa. I francesi la chiamarono “mission civilisatrice”, che fu poi anglicizzata in “civilizing mission”.

Se la missione civilizzatrice avesse avuto successo, la modernità politica coloniale avrebbe potuto somigliare molto alla sua controparte europea, con Stati-nazione di tipo europeo in tutto il mondo, intenti a praticare il cristianesimo e la tolleranza vestfaliana.

La missione civilizzatrice tuttavia fallì, sfociando in una modernità coloniale che deviò nettamente dalla rotta perseguita dalla modernità europea. Mentre la tolleranza liberale si sviluppava nello Stato-nazione europeo, la conquista liberale infiammava le colonie.

Verso la metà del XIX secolo, l’imposizione forzata da parte del colonizzatore delle sue leggi, dei suoi costumi, delle pratiche educative, della lingua e della vita comunitaria provocò una feroce resistenza tra i nativi, termine che era impiegato per descrivere coloro che erano ritenuti incivili. Come risposta, gli inglesi misero da parte la fiaccola della civiltà per mantenere l’ordine. Il nuovo metodo coloniale prevedeva l’arruolamento di alleati nativi e la pretesa di proteggere i loro modi di vita. Nelle colonie non ci sarebbe stata così una maggioranza indigena costruita per assomigliare al colonizzatore; invece ci sarebbero state minoranze assortite, ciascuna mantenuta sotto la guida di una élite indigena.

Si diceva che il potere dell’élite nativa derivasse dalla consuetudine, ma era il sostegno del colonizzatore a rappresentare la vera fonte di autorità. Separati in così tante razze e tribù distinte, i nativi avrebbero guardato “a sé stessi”, piuttosto che l’uno all’altro in un’eventuale solidarietà che avrebbe potuto sfidare il colonizzatore. Sebbene gli inglesi fossero i più abili in questo metodo, non ne furono gli inventori. Lo furono invece gli americani, nel contesto del controllo del popolo che Colombo aveva chiamato “indiani”.

Abbracciare la modernità politica significa abbracciare la condizione epistemica che gli europei hanno creato per definire una nazione come “civilizzata” e, quindi, giustificare l’espansione della nazione a spese degli incivili. La sostanza di questa condizione epistemica risiede nelle soggettivazioni politiche che essa impone.

La violenza della modernità postcoloniale rispecchia la violenza della modernità europea e del dominio diretto coloniale. La sua manifestazione principale è la pulizia etnica. Poiché lo Stato-nazione cerca di omogeneizzare il proprio territorio, questo scopo è perseguito con l’espulsione di coloro che con la loro sola esistenza introdurrebbero pluralismo.

La pulizia etnica può assumere diverse forme. Queste includono il genocidio, per cui la popolazione minoritaria viene uccisa in massa, e il trasferimento di popolazione, per cui la minoranza viene rimossa dal territorio o concentrata in una parte minima di esso, lontano dalla maggioranza.

La pulizia etnica unisce questi esempi: gli Stati Uniti, che hanno perpetrato sia il genocidio sia il trasferimento di popolazione contro gli indiani d’America; la Germania, che ha perpetrato un genocidio contro gli ebrei ed è stata a sua volta vittima di trasferimenti di popolazione dopo la Seconda guerra mondiale; il Sudafrica, dove i coloni bianchi hanno costretto i neri nelle patrie tribali conosciute come Bantustan; il Sudan, dove gli inglesi segregarono arabi e subsahariani in patrie separate; la Palestina, dove i coloni sionisti hanno esiliato con la forza e concentrato i non-ebrei in un processo ancora in corso.

Armati di dottrine che non riconoscevano i diritti delle minoranze ai non-civilizzati – e giustificavano qualsiasi azione dei civilizzati a proprio vantaggio –, gli europei andavano per il mondo con l’intento di convertire le nazioni native in nazioni costruite a immagine europea. Questo tentativo fallì, ma il progetto dello Stato-nazione sarebbe rimasto nelle ex colonie. I colonizzatori dovettero rinunciare al loro obiettivo di costruzione della nazione nell’interesse di consolidare il potere e mantenere l’ordine in patria. Eppure, dove gli europei se ne andarono, i locali assunsero il modello nazionalista nella propria politica.

Il fallimento del progetto europeo innescò il passaggio dal governo diretto – la missione civilizzatrice – al governo indiretto, che vincolò la “tradizione nativa” al progetto politico coloniale. Il governo diretto cercava di costruire nazioni simili a quelle del colonizzatore, il governo indiretto si limitava a detenere e sfruttare i territori.

Il governo diretto rispecchiava la costruzione della nazione dall’alto in basso in Europa. Proprio come le conversioni forzate e le inquisizioni della Reconquista miravano a rimodellare gli eretici in membri di una nazione identificata come cristiana, il governo diretto nelle colonie cercava di trasformare i colonizzati in “membri” della nazione colonizzatrice.

Le leggi del colonizzatore furono importate in blocco. I costumi locali riguardanti la religione, la lingua, il matrimonio, l’eredità, l’uso della terra e così via furono sostituiti dalle pratiche europee. I colonizzatori non si illudevano di poter trasformare interamente le popolazioni colonizzate, quindi il peso dei loro sforzi era diretto alle élite locali. Inducendo le élite ad assumere il ruolo di nazione colonizzatrice, i colonizzatori speravano di introdurre una sorta di cavallo di Troia nelle società assoggettate.

Nel pensare il governo indiretto del XIX secolo, dobbiamo fare attenzione a distinguerlo dalle sue precedenti applicazioni. La storia del governo indiretto, inteso come governo attraverso la mediazione locale, risale all’Impero romano. Gli inglesi, tuttavia, aggiunsero una sorta di genio ai loro sforzi. Non si limitarono a resuscitare le pratiche romane del divide et impera, ma piuttosto aprirono la strada a una forma completamente diversa dell’arte di governo basata sul rimodellamento delle identità. Mentre i romani davano per scontata l’autocoscienza dei loro sudditi, il governo coloniale britannico cercò di rimodellare l’autocoscienza dei colonizzati. Un altro modo per dirlo è che i romani si accontentarono di governare i popoli come li trovavano, ma i britannici no. In questo senso, il governo indiretto del XIX secolo si rivelò essere un progetto molto più ambizioso di quanto lo fosse stato il governo diretto: mentre il governo diretto mirava a civilizzare le élite, il governo indiretto ricorreva all’imposizione di una soggettività nativa all’intera popolazione.

Ricordo di aver preso un autobus a metà degli anni Settanta da Dar-es-Salaam a Maputo, la capitale del Mozambico appena liberato. Quando l’autobus è entrato nella piazza nel centro della città, ho potuto vedere un enorme striscione su cui era scritta una citazione del rivoluzionario mozambicano Samora Machel: “Perché la nazione viva, la tribù deve morire”. La tribù qui non si riferiva al gruppo etnico, come in un gruppo di persone culturalmente uniche, ma all’identificazione politica con il gruppo etnico.

Come altri progetti nazionalisti, il nazionalismo postcoloniale è stato profondamente violento. In effetti, la violenza del progetto militante nazionalista è spesso percepita come una seconda occupazione coloniale. “Quando finirà questa indipendenza?”, ha chiesto un contadino congolese, in una storia che mi è stata raccontata dal professore dell’Università di Dar-es-Salaam, Ernest Wamba dia Wamba, durante il regno di Mobutu Sese Seko. Fu solo più tardi, durante e dopo il genocidio in Ruanda, che molti di noi studiosi africani iniziarono a pensare sistematicamente al motivo per cui, contrariamente a quanto ci aspettavamo, la violenza politica fosse esplosa anziché diminuire dopo l’indipendenza politica.

Abbiamo già dato. Conte sull’Ucraina e Salvini sui rifugiati, la doppia sfida del nazionalismo Nimby. Carmelo Palma su L'inkiesta il 18 Aprile 2023

L’anti-bellicismo dell’avvocato del populismo e l’anti-immigrazionismo del leader leghista sono due varianti della stessa sciocchezza: l’idea che il rule of law sia un lusso elitario e che dietro lo schermo dell’universalità dei diritti si celino interessi di quattrini del deep state globale

Oggi nell’aula del Senato si aprirà uno scontro sul ritorno alle norme dei decreti sicurezza della coppia Conte-Salvini a proposito della protezione speciale. Giorgia Meloni, cedendo al ricatto del leader leghista, ha deciso alla fine di inserirle nel cosiddetto decreto Cutro, che già di per sé era una combinazione tossica di populismo penale e demagogia securitaria e che ora certifica, a maggior ragione, l’implausibilità di un sovranismo normale.

Sicuramente questa decisione incontrerà la resistenza, nutrita di richiami alti e solenni, di quella sorta di coalizione Conte-ter che è l’opposizione demo-populista, la quale si scaglierà con veemenza contro l’abbandono, anzi contro la consegna ex lege di decine di migliaia di sventurati alla clandestinità criminale.

Eppure la vasta porzione pacifista di questa compagine – quella che «sulle armi all’Ucraina basta, abbiamo già dato», come il capo dei Cinquestelle ripete da un anno – non ha alcun diritto di contestare una posizione, che riflette le stesse doppiezze morali e le stesse ipocrisie politiche di chi oggi vorrebbe disarmare gli ucraini, per scongiurare l’escalation militare russa. Anche sugli immigrati abbiamo già dato, no?

Se si può dire, in nome della pace, che solo smettendo di armare l’Ucraina si farà finire la guerra, perché non si può dire, in nome della sicurezza, che se non si smette di accogliere, anziché rispedire «a casa loro», gli stranieri cui l’Italia riconosce forme di protezione complementare non si porrà mai fine all’invasione di reprobi camuffati da perseguitati?

Se si può dire che dietro la resistenza ucraina e dentro al desiderio di libertà di milioni di cittadini e di indipendenza di uno Stato sovrano, si nasconde una strategia vittimistica di dominio e di sopraffazione, al punto da rubricare l’aggressione russa come mera reazione a una «guerra americana», perché non si può sostenere, con la stessa logica, che dietro la richiesta e la difesa dei diritti umani di migliaia di derelitti che raggiungono le nostre coste c’è in realtà una strategia di killeraggio demografico dell’Italia bianca e cristiana?

Ad accomunare queste due posizioni, solo apparentemente diverse e schierate ai due estremi opposti dello spettro etico-politico, c’è l’idea che il rule of law sia un lusso elitario e una sovrastruttura padronale e che dietro lo schermo dell’universalità dei diritti e delle ragioni delle vittime della violenza si celino i sordidi interessi di quattrini e di potere del deep state globale.

Come Conte sostiene che il bene dell’Ucraina e del mondo vada sottratto alla soggezione bellicista e restituito all’equilibrio di una forza, per casi dire, naturale, di cui le pretese russe sono una rappresentazione forse sproporzionata, ma tutto sommato giustificata, così Matteo Salvini spiega che per il bene dell’Italia e del Terzo mondo occorra contendere alla propaganda buonista il monopolio delle buone ragioni e contrastare l’usurpazione del diritto sovrano degli stati da parte di istanze politiche e giuridiche astrattamente umanitarie, ma surrettiziamente affaristiche.

L’idea che la pace sia semplicemente l’essere lasciati in pace dalle guerre altrui e la sicurezza rimanere al riparo dai disordini del mondo sono due varianti del medesimo nazionalismo Nimby, che come tutte le forme di cattiva coscienza politica gli alibi internazionalistici non solo leniscono, ma accendono di indignate pretese. Anti-bellicismo e anti-immigrazionismo non diventano quindi solo forme di separatismo ideologico (la guerra fatela voi, gli immigrati accoglieteli voi) ma di vera e propria contestazione della legittimità delle questioni di diritto e di emancipazione delle ragioni di vera “giustizia” dalle bellurie leguleie.

Dottrina della decadenza Il sovranismo è un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e si teme di perdere. Alessandro Campi su L’Inkiesta il 13 Aprile 2023

Incapace di tradurre il suo sedicente patriottismo in un progetto politico concreto, nel corso dei secoli la destra italiana si è spesso abbandonata a nostalgici elogi della grandezza passata, disancorati da un disegno comunitario convincente

L’idea di nazione, dopo un lungo oblio, è dunque tornata centrale nella politica italiana grazie alla riproposizione che ne hanno fatto i partiti d’ispirazione populista e sovranista?

Da un lato è certamente così. In realtà, nell’uso enfatico e rivendicativo che questi ultimi fanno di termini quali «patria», «interesse nazionale», «lealtà nazionale», «appartenenza», «comunità nazionale» ecc. non mancano, come abbiamo visto, zone d’ombra e contraddizioni; sembrano dunque riproporsi le ambiguità che la destra politico-culturale italiana ha spesso manifestato nel corso della sua storia.

La prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo. Rispetto al nazionalismo storico al quale viene spesso (e impropriamente) paragonato, che era espansivo e dinamico, che puntava a proiettare fuori dai suoi confini storici la potenza economico-politica del proprio paese, il sovranismo è invece fortemente «protezionista».

Ma più sul piano politico-culturale o della mentalità che in senso tradizionalmente economico-produttivo. Dietro le sue critiche al rigorismo finanziario europeo o alle politiche di libero commercio mondiale, giudicate penalizzanti per l’industria nazionale, esso sembra tradurre soprattutto le paure inconsce e i risentimenti che attraversano ormai da anni la società italiana. […]

Il sovranismo, in altre parole, è l’espressione di un umore collettivo, di un sentimento di massa segnati sempre più da una sensazione di decadenza, debolezza e incertezza: è la traduzione, sul piano elettorale e della comunicazione politica, dell’angoscia e dello smarrimento provocati dal mondo globalizzato nella gran parte delle società europee (dove non a caso negli ultimi anni sono nati e si sono affermati numerosi movimenti nazional-populisti simili alla Lega o a Fratelli d’Italia).

Non per niente la propaganda di questi ultimi – rivelatasi elettoralmente assai efficace – ha giocato molto sul tema delle «frontiere chiuse» e dei confini nazionali da tutelare contro la minaccia degli immigrati e degli stranieri. Si tratta di una retorica difensiva, contro qualunque pericolo proveniente dall’esterno, che è stata applicata dai nazional-populisti, in una logica neo-autarchica, anche alla cucina e ai consumi alimentari, all’energia e al commercio: da qui gli inviti a consumare solo cibi e prodotti agricoli italiani, a preferire sempre e comunque il made in Italy in ogni tipo di produzione.

Un appello che, in un mondo segnato irreversibilmente dalla libera circolazione delle merci e da catene di produzione industriale altamente integrate su base globale, non ha ovviamente alcun senso pratico se non quello di alimentare la sensazione di accerchiamento e l’allarmismo delle fasce sociali più disagiate. Il sovranismo non spinge il proprio paese alla competizione, alla crescita o all’innovazione; suggerisce invece un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi.

Ma c’è un altro aspetto che dimostra quanto rischi di essere ideologicamente ambigua e puramente tattico-strumentale, dunque priva di respiro progettuale e politico, anche questa versione contemporanea del patriottismo.

Essa riguarda gli orientamenti di politica estera, la collocazione internazionale del paese e la difesa degli interessi vitali della nazione: un aspetto che nella prospettiva del nazionalismo storico è sempre stato considerato imprescindibile e irrinunciabile e che si è sempre tradotto, pur nel variare dei regimi e delle costellazioni storico-diplomatiche, in un’azione strategicamente finalizzata ad accrescere l’influenza dell’Italia nel bacino mediterraneo, intesa come punta avanzata dell’Europa verso il Nord Africa e il Medioriente.

E ciò sempre nel quadro dei vincoli di alleanza che la legano, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, all’Europa, agli Stati Uniti e in generale al blocco occidentale. Nel caso del populismo-sovranismo italiano – se si guarda in particolare all’esperienza del governo di coalizione tra Lega e M5S (giugno 2018-agosto 2019) – una propaganda anti-europeista molto accesa si è sommata a un’ambigua vicinanza, ideologica e geopolitica, a Stati e potenze che invece non sono mai stati alleati storici dell’Italia.

In altre parole, con l’idea di contrastare a ogni costo il disegno unificatore dell’Unione europea, considerato lesivo degli interessi italiani e frutto di un disegno globalista finalizzato ad annichilire i particolarismi nazionali attraverso le maglie della moneta unica e di una legislazione comunitaria centralizzata, si è finito per aderire o per simpatizzare, in modo del tutto acritico e ideologico, con il nazionalismo neo-imperiale di Putin, con l’espansionismo commerciale cinese, con l’anti-occidentalismo bolivarista o con il neo-autoritarismo democratico propugnato da Ungheria o Polonia.

Ciò ha comportato non solo un allentamento dei vincoli tra l’Italia e i suoi storici alleati europei, ma anche una pericolosa torsione rispetto alla sua tradizionale collocazione all’interno del sistema politico-militare euro-atlantico. Ne sono derivate, a più riprese, incomprensioni diplomatiche con gli Stati Uniti e un crescente attrito con Bruxelles, che hanno finito per gettare più di un’ombra sulla lealtà nazionale del fronte populista e sulla sua capacità-volontà di difendere realmente gli interessi strategici dell’Italia.

Tra l’altro, la vicinanza ideologica agli altri sovranismi europei (tra analisti e studiosi si è parlato, specie dopo l’elezione di Trump negli Stati Uniti, della nascita di una sorta di «Internazionale nazional-populista») non si è mai tradotta in una forma di solidarietà o di collaborazione politica: sulla questione dell’immigrazione, ad esempio, l’Italia non ha mai trovato il sostegno degli altri paesi europei sulla carta «amici» (Austria, Polonia, Ungheria).

In altre parole, nella pratica politica il sovranismo si è spesso rivelato un danno per l’Italia dal punto di vista politico e dell’immagine. Si è insomma risolto in una rivendicazione puramente verbale di sovranità e autonomia d’azione politica, come tale incapace di salvaguardare concretamente il tanto sbandierato, nei comizi e nei discorsi, «interesse nazionale».

Una rivendicazione al dunque fallimentare e di breve durata, come dimostra il brusco riallineamento geopolitico in senso euro-atlantista cui sono stati costretti sia la Lega salviniana sia il partito di Giorgia Meloni dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina.

Da “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo” di Alessandro Campi, 208 pagine, 15 euro.

Le figure a confronto. Berlinguer e Matteotti erano più simili di quanto si possa pensare. Si mossero ovviamente in contesti e tempi diversi, ma furono entrambi due riformisti atipici, rispetto al retroterra che li legava a Pci e Psi. E furono accomunati anche dal no al massimalismo. Roberto Morassut su L'Unità il 9 Giugno 2023

 Il 13 giugno, a Roma, la Fondazione Matteotti metterà a confronto, in un convegno originale, le figure di Giacomo Matteotti e di Enrico Berlinguer. I puristi già alzano il sopracciglio. Ma perché questa iniziativa? Giacomo Matteotti ed Enrico Berlinguer sono stati due grandi leader della sinistra e del socialismo italiano del Novecento, di cui stiamo celebrando i centenari, rispettivamente della morte e della nascita. Due leader ancora molto amati nonostante il tempo trascorso.

Due leader molto diversi e lontani sia temporalmente che politicamente; divisi dalla frattura storica tra socialisti e comunisti e da quella della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, seppur lontani e diversi Matteotti e Berlinguer furono due riformisti atipici nei loro rispettivi partiti. Per Berlinguer si può parlare, più opportunamente, di revisionismo anche se questo termine ha sempre avuto nel vocabolario comunista il senso di un disvalore, oggi fugato. Il riformismo in Matteotti si espresse nel costante tentativo di tenere unite le grandi idealità del socialismo come la giustizia sociale e la pace ed il gradualismo, la concretezza, il pragmatismo, lo studio concreto dei fatti e dei problemi attraverso i quali conseguire conquiste parziali ma fattuali.

Il rifiuto del massimalismo non si scoloriva mai nella svalutazione della frontiera ideale, che restava invece viva e pulsante. Per Matteotti il riformismo non fu mai opportunismo ma scelta ideale e vera strategia di lotta per il raggiungimento finale del socialismo inteso come sintesi di libertà e uguaglianza. Questa considerazione (o costatazione) può apparire banale ma non lo è se si considera invece la modesta fortuna che il riformismo socialista ebbe dagli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale fino, di fatto, alla fine del secolo XX. Il riformismo socialista italiano si è infatti spesso confuso con l’opportunismo e l’idea che si potessero determinare cambiamenti decisivi degli equilibri sociali gestendo pressoché esclusivamente posizioni di governo o di potere.

Veniamo a Berlinguer. Il revisionismo di Berlinguer fu la continuazione e lo sviluppo di un revisionismo iniziato con Togliatti ed ancor prima con Gramsci sui nodi cruciali della democrazia, delle vie per il raggiungimento del socialismo, del rapporto con l’Unione Sovietica.

Questo non salvò però il Pci da un messianesimo di fondo che lo tenne distante dal nodo del governo, almeno fino alle grandi vittorie nelle città della metà degli anni 70. Berlinguer, divenuto segretario nei primi anni 70, nel pieno di una grave crisi della democrazia italiana che rischiava, tra il terrorismo e le pulsioni golpiste di essere travolta, si trovò in condizioni analoghe a quelle di Turati e Matteotti alla vigilia dell’avvento del fascismo.

E anche se gli esiti delle due situazioni furono diverse entrambi dovettero fare i conti con la potente spinta al cambiamento delle masse, i rischi di divisioni interne e di sviluppo di frange estremiste e con la cecità reazionaria della borghesia italiana – nel primo caso – o della forza soverchiante degli equilibri internazionali nel secondo caso. Tanto i socialisti riformisti, quanto i comunisti italiani dovettero operare per tenere insieme la prospettiva generale del cambiamento e del socialismo con scelte politiche immediate e concrete sotto la pressione di forti spinte massimaliste, ideologiche o eversive capaci di confondersi e saldarsi con il fascismo stesso.

Naturalmente lo fecero in contesti completamente diversi ma in un Paese come l’Italia che sempre ha dimostrato la sua resistenza al cambiamento, la forza del suo retroterra conservatore e reazionario disposto a tutto pur di fermare l’ascesa dei lavoratori. C’è tuttavia un ultimo punto comune che va messo in luce e riguarda il loro profilo morale, assolutamente eccezionale e raro nel panorama politico italiano di sempre. Matteotti individuò subito il fascismo come un avversario irriducibile della democrazia e col quale era impossibile giungere ad alcun compromesso. Egli individuò il rapporto tra il fascismo, come nuova forma politica generata dalla disgregazione della democrazia liberale, l’affarismo della nuova classe politica salita al potere (il caso Sinclair Oil) e l’attacco alle posizioni della classe operaia attraverso l’attacco alla democrazia. La “questione morale” fu per lui una questione politica e sociale al tempo stesso.

Berlinguer fu segretario nel momento più critico della democrazia italiana tra gli anni 70 e 80. Si rese conto di come la condizione di democrazia bloccata stesse logorando le istituzioni repubblicane e i partiti e favorendo l’irruzione della violenza e del terrorismo nella politica; uno scenario simile a quello degli anni Venti con l’aggravante di un degrado morale degli stessi partiti. La paura della borghesia italiana e della Corona, negli anni di Matteotti – da un lato – e il timore di un ingresso dei comunisti al governo da parte del blocco militare occidentale – dall’altro – condussero, per un verso, alla fine della democrazia liberale e – per altro verso – alla crisi della democrazia repubblicana fondata sui partiti di massa, trasformati in macchine di potere.

Ed è qui, in questo nesso tra reazione e illegalità o addirittura crimine, molto simile a quello colto e denunciato da Matteotti, che Berlinguer individuò il valore politico e sociale della “questione morale” nella sua famosa intervista della fine di luglio del 1981. Due leader animati da un senso etico della loro missione e da un profilo ideale limpido accompagnato però da un senso pragmatico che oggi, in un’era di politica debole, li rende ancora moderni, popolari e amati.

*Deputato Pd e Vice presidente della “Fondazione Giacomo Matteotti”

Il destino del riformismo italiano. Matteotti, un uomo solo: un riformista inviso a destra e a sinistra. Riccardo Nencini Il Riformista il 9 Giugno 2023 

All’eroe, al martire, preferisco l’uomo. L’uomo di faccia a una scelta, l’uomo di fronte al destino di uomo. L’uomo che corre dove cova l’incendio per non abbandonare alla sorte i diseredati della sua terra, la provincia più povera d’Italia, la provincia dove il bracciante viene chiamato ‘instrumento vile’, meglio la vacca. L’uomo che, quasi alla cieca, combatte per la sua verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e, da lì, si sposta in ogni regione d’Italia per mettere in guardia dallo squadrismo agrario che ha ormai i connotati di squadra fascista.

Nel gennaio del 1921, dopo la prima interrogazione su omicidi e bastonature presentata a Montecitorio, viene rapito, seviziato e bandito da una squadraccia. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. L’uomo che crede profondamente in un’idea, a tal punto da mettere a rischio la vita. L’uomo che ama un’unica donna fin dal primo incontro all’Abetone, in Toscana, e affida alle lettere sentimenti e passioni perché da anni è un bastardo, un esule inseguito, braccato. L’uomo che abbraccia la vita proprio andando incontro alla morte perché se no non è vita, è rinuncia. L’uomo che lotta contro il ‘mussolinismo’ prima ancora che contro il fascismo, che capisce che Il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola e media borghesia privandola di risparmi e soprattutto del ruolo sociale che aveva prima della Grande Guerra.

L’antibolscevico che non crede nell’illusione della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia del Parlamento e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. L’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e a sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che nel pantheon della sinistra comunista non ha mai trovato diritto di cittadinanza.

Quando il cadavere di Giacomo viene scoperto, l’attacco più duro verrà proprio da Antonio Gramsci. Scriverà: “È morto il pellegrino del nulla” che nella vita politica ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, anzi: un socialfascista, l’epiteto usato contro Turati, contro Treves, contro Matteotti, contro i dirigenti riformisti della Cgl, a partire da Buozzi, dai vertici comunisti italiani. Giorni dopo, il comitato centrale del Pcd’I approva all’unanimità un documento che si conclude con una frase di fuoco: i nemici del proletariato sono Mussolini, Sturzo, Turati e Amendola. Tutti incredibilmente allo stesso livello. Perché? Perché i comunisti ritenevano, confidando nella linearità della storia e nella veridicità del marxismo, che il capitalismo fosse in crisi e dietro l’angolo vi fosse la rivoluzione imminente il cui sbocco finale era lo stato comunista. Dunque, chi immaginava accordi parlamentari allo scopo di defenestrare Il Duce altro non era che un traditore della classe operaia. I fatti smentiranno quell’analisi e obbligheranno Gramsci, dal carcere, a fare autocritica.

Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile opposizione politica al Duce e al fascismo e perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per avere raccolto le prove di una tangente di 30 milioni pagata dalla Sinclair Oil ad alti membri delle istituzioni oltre che ad Arnaldo, il fratello del capo. Ne avrebbe parlato alla Camera l’11 giugno 1924. Venne rapito e ucciso il giorno prima.

Un uomo solo, non un eroe lontano dal tempo. Un eretico, una voce fuori dal coro. Sarà per questo che non fu tanto amato, sarà per questo che lo ricordiamo.

Riccardo Nencini

L'assassinio del socialista. L’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, il leader socialista ucciso da fascisti. Milizie armate ai seggi per impedire il voto, schede taroccate, minacce e violenze. Il 30 maggio ‘24 il leader del Psi denuncia in Aula il voto farsa. Ecco il discorso che lo portò alla morte per ordine del Duce. Redazione su L'Unità l'11 Giugno 2023

Il 30 maggio del 1924 Giacomo Matteotti, leader socialista, prese la parola nell’aula di Montecitorio e pronunciò un durissimo discorso di condanna del fascismo. Questo discorso gli costò la vita. Dieci giorni più tardi fu rapito accoltellato e ucciso da una squadraccia mandata da Mussolini. Pubblichiamo ampi stralci di quel formidabile discorso. Il presidente della Camera era il giurista Alfredo Rocco, che l’anno successivo diventò ministro della Giustizia.

Presidente.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.

Giacomo Matteotti.

Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… (Interruzioni).

Voci al centro: “Ed anche più!”

cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti – Proteste – Interruzioni alla destra e al centro) L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza, Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso.

Una voce a destra:

“E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?”

Roberto Farinacci.

Potevate fare la rivoluzione!

Maurizio Maraviglia.

Sarebbero stati due milioni di eroi!

Giacomo Matteotti.

A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata… (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di “Viva la milizia”)

Voci a destra: “Vi scotta la milizia!”

Giacomo Matteotti.

… esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra, rumori prolungati)

Voci: “Basta! Basta!”

Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.

Giacomo Matteotti.

Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. In aggiunta e in particolare… (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero… (Interruzioni, rumori)

Roberto Farinacci.

Erano i balilla!

Giacomo Matteotti.

È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori a destra e al centro)

Voce al centro: “Hanno votato i disertori per voi!”

Enrico Gonzales.

Spirito denaturato e rettificato!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali. (Interruzioni)

Paolo Greco.

Voi non rispettate la maggioranza e non avete diritto di essere rispettati.

Giacomo Matteotti.

La presentazione delle liste – dicevo – deve avvenire in ogni circoscrizione mediante un documento notarile a cui vanno apposte dalle trecento alle cinquecento firme. Ebbene, onorevoli colleghi, in sei circoscrizioni su quindici le operazioni notarili che si compiono privatamente nello studio di un notaio, fuori della vista pubblica e di quelle che voi chiamate “provocazioni”, sono state impedite con violenza. (Rumori vivissimi)

Voci dalla destra: “Non è vero, non è vero.”

Giacomo Matteotti.

Volete i singoli fatti? Eccoli: ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata… (Rumori)

Maurizio Maraviglia.

Non è vero. Lo inventa lei in questo momento.

Roberto Farinacci.

Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!

Giacomo Matteotti.

Fareste il vostro mestiere! A Melfi… A Genova (Rumori vivissimi) i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati

Voci: “Perché erano falsi.”

Giacomo Matteotti.

Se erano falsi, dovevate denunciarli ai magistrati!

Roberto Farinacci.

Perché non ha fatto i reclami alla Giunta delle elezioni?

Giacomo Matteotti.

Ci sono. Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumori. I fatti o sono veri o li dimostrate falsi. Non c’è offesa, non c’è ingiuria per nessuno in ciò che dico: c’è una descrizione di fatti.

Attilio Teruzzi.

Che non esistono!

Giacomo Matteotti.

Da parte degli onorevoli componenti della Giunta delle elezioni si protesta che alcuni di questi fatti non sono dedotti o documentati presso la Giunta delle elezioni. Ma voi sapete benissimo come una situazione e un regime di violenza non solo determinino i fatti stessi, ma impediscano spesse volte la denuncia e il reclamo formale. Voi sapete che persone, le quali hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto, sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso. Già nelle elezioni del 1921, quando ottenni da questa Camera l’annullamento per violenze di una prima elezione fascista, molti di coloro che attestarono i fatti davanti alla Giunta delle elezioni, furono chiamati alla sede fascista, furono loro mostrate le copie degli atti esistenti presso la Giunta delle elezioni illecitamente comunicate, facendo ad essi un vero e proprio processo privato perché avevano attestato il vero o firmato i documenti! In seguito al processo fascista essi furono boicottati dal lavoro o percossi. (Rumori, interruzioni)

Voci: a destra: “Lo provi.”

Giacomo Matteotti.

La stessa Giunta delle elezioni ricevette allora le prove del fatto. Ed è per questo, onorevoli colleghi, che noi spesso siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione. (Applausi all’estrema sinistra) In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.

Una voce al banco della giunta: “Dove furono impedite?”

Giacomo Matteotti.

A Melfi, a Iglesias, in Puglia… devo ripetere? Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile. Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona. (Interruzioni, rumori) Volete i fatti? La Camera ricorderà l’incidente occorso al collega Gonzales. L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)

Enrico Gonzales.

I fatti non sono improvvisati!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’onorevole Amendola, e che fu impedita… Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che “qualcuno di noi ha provocato” e come “in seguito a provocazioni” i fascisti “dovettero” legittimamente ritorcere l’offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)

Un’altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l’unica garanzia possibile, l’ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l’unico controllo, l’unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e l’onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall’opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c’è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni…

Una voce, a destra: “Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti!”

Giacomo Matteotti.

Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l’Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all’ordine del giorno dal Presidente del Consiglio per l’atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la “regola del tre”. Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente.

Voci: “No! No!”

Giacomo Matteotti.

Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio. (Vivi rumori interruzioni)

Presidente.

Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda!

Giacomo Matteotti.

Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l’oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all’estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera) Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno… (Rumori) per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza.

Voci a destra: “Accettiamo” (Vivi applausi a destra e al centro)

Giacomo Matteotti.

[…] Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra – Vivi rumori) Redazione - 11 Giugno 2023

99 anni il delitto. Cosa c’era davvero dietro il discorso di Matteotti che gli costò la vita. Dieci giorni prima di essere rapito e ucciso, il deputato e segretario del Partito socialista unitario aveva pronunciato alla Camera un discorso durissimo per denunciare irregolarità e violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile. David Romoli su L'Unità il 10 Giugno 2023 

Lo chiamavano “Tempesta” per il carattere focoso e indomabile. Quando fu rapito e ucciso, il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti aveva 39 anni ed era segretario del Partito socialista unificato, l’ala più moderata del Psi, quella che faceva capo a Filippo Turati, espulsa dal Partito socialista nell’ottobre del 1922. Dieci giorni prima aveva pronunciato alla Camera un discorso fiammeggiante, nel quale denunciava le irregolarità e le violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile 1924, le ultime prima che fosse instaurata la dittatura.

Era stato un atto d’accusa clamoroso che aveva suscitato massima ira tra i fascisti: nei resoconti parlamentari si contano più o meno 60 interruzioni, sempre più minacciose. Matteotti aveva lasciato la sua abitazione vicino a Lungotevere Arnaldo da Brescia nel pomeriggio, forse diretto verso la Camera, forse verso il fiume allora balneabile. Fu preso e caricato su una Lancia Lambda presa a nolo alle 16.30, sul lungotevere. Si difese, scalciò, ruppe con un calcio il vetro che divideva i sedili posteriori da quelli anteriori, riuscì a lanciare dal finestrino il tesserino di parlamentare. Fu accoltellato a morte nella colluttazione.

Uccidere il leader socialista non era nei progetti dei rapitori: non avevano usato alcuna prudenza, si erano fatti notare sulla stessa auto mentre preparavano il sequestro nei giorni precedenti, dopo il rapimento proseguirono col clacson premuto a tavoletta. Non avevano neppure gli strumenti necessari per seppellire il cadavere: dovettero scavare la fossa con il crick. I fascisti coinvolti nell’azione facevano parte di quella che si definiva “Ceka”, come la polizia segreta bolscevica in Russia. Nome pomposo e inadeguato: in realtà si trattava di gruppi di picchiatori e squadristi, quasi tutti ex arditi, senza una vera struttura, violenti ma dilettanteschi e indisciplinati. Quando il parlamentare rapito si difese misero mano al pugnale come erano abituati a fare sin dalla guerra.

Quanti fossero i “cekisti” coinvolti nell’azione non è mai stato accertato. Di sicuro c’erano Amerigo Dùmini, capo della squadra, 30 anni. E con lui Albino Volpi, squadrista particolarmente feroce, probabilmente l’accoltellatore, poi Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria alla guida. Quando si ritrovarono con il cadavere in macchina senza averlo preventivato si limitarono a girare per qualche ora aspettando il buio per poi seppellirlo in una radura vicino Sacrofano, in una fossa scavata con mezzi di fortuna destinata a essere scoperta solo mesi dopo, il 16 agosto.

Gli assassini tornarono a Roma intorno alle 22.30 e Dùmini si recò al Viminale con la stessa macchina nella quale era stato appena ucciso Matteotti. I referenti dei sedicenti “cekisti” erano pezzi grossissimi: Cesare Rossi, capo ufficio stampa di palazzo Chigi e uomo di fiducia di Mussolini, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, ma anche, meno direttamente coinvolti, Aldo Finzi, sottosegretario e ministro vicario degli Interni, di cui era titolare lo stesso Mussolini, destinato a essere fucilato vent’anni dopo alle Fosse Ardeatine, e il capo della polizia, l’ex quadrumviro Emilio De Bono. A procurare la macchina era stato Filippo Filippelli, direttore di un giornale di recente fondazione e affarista senza scrupoli.

Dùmini e Filippelli, nel cuore della notte del 10 giugno, nascosero la macchina in un garage, progettando di ripulirla e cancellare le tracce nei giorni seguenti. Non ne ebbero il tempo. La Lancia era stata notata mentre sorvegliava la casa di Matteotti nei giorni precedenti l’assassinio, il portiere di uno stabile aveva preso il numero della targa sospettando la preparazione di un furto. Il capo della Ceka fu arrestato il 12 giugno, due giorni dopo l’attentato, in partenza per Milano con nella valigia i pantaloni della vittima tagliati a pezzi e le parti della tappezzeria della Lancia macchiate di sangue. Nei giorni seguenti furono arrestati anche gli altri componenti della squadraccia.

Perché fu decisa l’azione punitiva nei confronti di Matteotti, sfociata poi nell’omicidio? Il deputato socialista aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni ma certamente non ci sperava neppure lui. Il 6 aprile si era votato, per la prima e ultima volta, con la legge Acerbo, approvata dal Parlamento l’anno precedente: garantiva un premio di maggioranza sproporzionato, due terzi dei seggi, a chi avesse superato il 25% dei consensi. Il listone nazionale di cui il Pnf era asse portante ottenne il 60,9% e altri seggi furono conquistati grazie a una lista civetta. Nel complesso, anche senza il premio, il listone sarebbe arrivato intorno ai due terzi dei seggi.

Le elezioni si erano effettivamente svolte in un clima minaccioso e violento che aveva sicuramente condizionato il voto, ma non c’è dubbio sul fatto che i fascisti avrebbero comunque vinto nettamente. Il rischio di una invalidazione delle elezioni era inesistente. Matteotti si accingeva a pronunciare un secondo discorso, denunciando la corruzione di alcuni elementi del governo: una storia di tangenti pagati dalla società americana Sinclair per assicurarsi le ricerche petrolifere in Italia. Alcuni storici ritengono che il vero motivo dell’omicidio sia questo ma è un’ipotesi poco convincente, sia per le dimensioni relativamente limitate dell’affare sia perché era un segreto noto già a molti.

Senza contare che, se l’obiettivo fosse stato eliminare l’uomo politico per impedirgli di denunciare il giro di tangenti, l’azione sarebbe stata meno sgangherata e improvvisata. Matteotti decise l’attacco frontale, consapevole dei rischi che ciò comportava, con l’intento di frenare quella che per lui era la deriva più pericolosa, la seduzione delle aree moderate, politiche e sociali, da parte del fascismo. Mirava probabilmente a contrastare proprio l’obiettivo che perseguiva Mussolini in quella fase. L’antifascismo del leader socialista era in un certo senso diverso dall’antifascismo maturato negli anni della dittatura, poi delle leggi razziali e della guerra.

Tutto questo, nel 1924, era di là da venire. Lo Stato liberale esisteva ancora, la sua occupazione da parte del fascismo era appena agli inizi. L’antifascismo di Giacomo Matteotti era quello di chi, prima della dittatura, aveva individuato l’uovo del serpente e prevedeva i tragici sviluppi a venire con una lucidità di cui difettavano anche grandissimi intellettuali come Benedetto Croce. Per impedire la conquista dei moderati da parte del fascismo Matteotti si era esposto così tanto. Per lo stesso motivo, rovesciato, il delitto costituì per Mussolini un problema enorme. La reazione popolare fu imprevista e altissima.

Nonostante nel Paese i morti si fossero contati a decine e centinaia negli anni dello squadrismo all’attacco, l’uccisione di un parlamentare dell’opposizione fu uno shock per gli italiani. La popolarità del fascismo precipitò, la campagna di stampa fu martellante e l’eco del delitto all’estero enorme. Per un momento sembrò che il fascismo fosse destinato a crollare. Era davvero così? Fu davvero un’ultima occasione, sprecata, per evitare la dittatura? Probabilmente no. L’indignazione popolare era reale e diffusa ma priva di sbocco politico.

Il 13 giugno Mussolini parlò alla Camera, negò ogni responsabilità, promise di fare giustizia. Subito dopo il presidente Rocco sospese i lavori sino a novembre. I partiti d’opposizione, nella stessa giornata, annunciarono la decisione di abbandonare l’aula. La scelta, definita poi “Aventino”, sarebbe stata confermata due settimane dopo quando i partiti d’opposizione annunciarono la decisione di non partecipare più ai lavori della Camera sino a che non fosse stata ripristinata la legalità e sciolta la Milizia fascista. Nella stessa giornata ci fu anche il solo sciopero generale dell’intera crisi: per soli 10 minuti.

La strategia dell’opposizione fu certamente inadeguata, debole e insufficiente, ma in ogni caso difficilmente la crisi avrebbe potuto concludersi con l’abbattimento del regime in formazione. Un tentativo di insurrezione sarebbe stato senza dubbio stroncato nel sangue e avrebbe legato ancor di più i moderati al fascismo. Per rovesciare il fascismo in Parlamento sarebbe stato necessario che tutti i non fascisti eletti nel listone e anche alcuni esponenti del fascismo più moderato si schierassero contro Mussolini, cosa che si verificò solo in minima parte. La caduta di Mussolini poteva essere provocata solo da un intervento imperioso e diretto del re. Gli aventiniani ci speravano, ma era una speranza del tutto vana e infondata.

Mussolini, del resto, reagì con l’abilità politica che gli aveva già fruttato l’ingresso a palazzo Chigi nel 1922. Mise subito alla porta Marinelli e Rossi. Quest’ultimo e Filippelli furono poi arrestati. Il capo del fascismo impose le dimissioni di Finzi agli Interni e abbandonò lui stesso il ministero lasciando il posto a Federzoni, nazionalista approdato al fascismo solo di recente, e operò un rimpasto di governo facendo entrare quattro esponenti della destra liberale o conservatrici ma non fascista. Mussolini contava soprattutto sul tempo, convinto che la tensione si sarebbe abbassata col passare dei mesi e vinse la scommessa.

Nel corso dell’estate non successe nulla e già questo fu un successo per il governo. Priva di prospettive politiche l’indignazione popolare, si attenuò, si riaccese per un attimo dopo il ritrovamento del cadavere del leader assassinato a metà agosto, poi si spense. Quando la Camera riaprì, il 12 novembre, Giolitti passò all’opposizione e si formò così un’opposizione non aventiniana alla quale si aggiunsero poi i comunisti, che abbandonarono l’Aventino per rientrare in aula. Gli altri partiti scelsero però di proseguire nella strategia aventiniana e anche la remota possibilità di dar corpo a una opposizione in aula che avrebbe potuto attrarre una parte dei deputati fascisti più moderati si perse così. Il vento era cambiato, Mussolini era uscito indenne dal momento più critico, neppure la pubblicazione dei memoriali dal carcere di Rossi e Filippelli, che lo chiamavano direttamente in causa, lo mise davvero in difficoltà.

A premere, ora, erano i duri del fascismo. Il 31 dicembre, 33 comandanti della Milizia si recarono a palazzo Chigi chiedendo di passare alla controffensiva cosa che peraltro Mussolini aveva già deciso di fare. Il 3 gennaio, in aula, Mussolini passò all’attacco: “Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione”. Quello storico discorso, nel quale il duce rivendicava tutto l’operato del fascismo, chiuse la crisi seguita al delitto Matteotti e spalancò le porte alla dittatura, che sarebbe stata formalizzata tra il 1925 e il 1926 con le leggi fascistissime.

I responsabili del delitto furono processati a Chieti, nel marzo 1926, per omicidio preterintenzionale. I mandanti furono tutti assolti e così Malacria e Viola. Dùmini, Volpi e Provenzano furono condannati a 5 anni e 11 mesi ma a tutti e tre furono subito condonati 4 anni per amnistia. Dùmini fu processato di nuovo nel 1947 e condannato all’ergastolo, commutato in una pena di trent’anni per l’amnistia Togliatti. Fu scarcerato nel 1953 per l’amnistia Pella e graziato nel 1956. Subito dopo la grazia si iscrisse al Movimento Sociale Italiano. David Romoli il 10 Giugno 2023

Matteotti riformista del futuro. Pubblicato martedì, 02 aprile 2019 da Corriere.it. Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere». A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti. Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17) Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando. Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione.  Giacomo Matteotti (1855-1924) È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce. Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica. Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento. Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali. Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità. Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli. Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.

Il racconto del segretario del partito socialista. Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte. Corrado Ocone su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo. Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza. Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui. Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano. Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti. Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto. Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale. Corrado Ocone

Complotti per il Potere. Mussolini, lo storico Petacco sul blog di Grillo: "Non fece uccidere Matteotti, fu un complotto contro Benito", scrive “Libero Quotidiano”. "Mussolini è estraneo al delitto Matteotti": a novant'anni dal delitto dello statista socialista, lo storico Arrigo Petacco, sul blog di Beppe Grillo, lancia nuove teorie sull'omicidio avvenuto nel 1924, che portò alla famosa "secessione sull'Aventino" e di cui Mussolini si professò responsabile il 3 gennaio dell'anno successivo, con un famoso discorso in Parlamento. La ricostruzione dei fatti - "Il fatto è questo", spiega Petacco: "Quel 10 giugno, Matteotti passeggia sul lungo Tevere, e all'improvviso arriva una macchina, una Lancia con tanto di targa che il portiere si affretta anche a registrare. Scendono giù 4 manigoldi, squadristi e lo caricano in macchina, non gli sparano, non lo ammazzano, lo caricano in macchina. Evidentemente è solo un rapimento, solo che durante il tragitto in macchina, il Matteotti cacciato addirittura a forza sotto il seggiolino posteriore della macchina, scalcia: era un uomo forte robusto e coraggioso, scalcia, smadonna, addirittura morde i polpacci di quelli che gli stanno seduti sopra, e alla fine uno dei quattro, con una mano, trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide". Questa la ricostruzione del delitto: e Mussolini? "Il Duce, in quel periodo, voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti". Alla fine furono proprio loro ad impedire l'apertura di Mussolini ai socialisti: "Lui fu, casomai, vittima di uno scontro tra la destra estremista fascista e la sinistra estremista sociale comunista, che volevano impedire a Mussolini di creare un governo moderato, perché Mussolini in quei giorni sognava ancora di avvicinare i socialisti moderati e fare un partito con loro". E quindi, secondo Petacco, "questo cadavere servì moltissimo alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che volevano impedire a Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura. Quindi Mussolini fu spinto a destra da chi voleva impedirgli il suo avvicinamento ai socialisti, e la situazione fu tale che, ad un certo punto, lui stesso fu costretto a proclamare la dittatura il 3 gennaio del 1925. Visto che non riusciva più a liberarsi di questa colpa, fece un discorso alla camera in cui disse che se i fascisti erano una massa di delinquenti, lui era il comandante di questa banda criminale". Sono almeno tre, secondo Petacco, le ipotesi sul movente dell'omicidio. "Matteotti venne ucciso perché si apprestava a rendere di pubblico dominio intrighi e traffici sporchi di autorevoli personaggi del governo, coperti da potenti coalizioni finanziarie. Oppure Matteotti venne ucciso perché era uno dei principali esponenti del partito socialista, al quale Mussolini meditava di rivolgersi affinché non impedisse la formazione di un nuovo governo basato sulla più stretta collaborazione con la Confederazione generale del lavoro e con le masse operaie. L’ultima per il coraggioso discorso in Parlamento, in cui accusava il fascismo di aver manipolato i risultati elettorali". Insomma, "Mussolini fu coinvolto involontariamente nel delitto Matteotti: lui non c’entrava affatto, non aveva nessun motivo per uccidere il capo dell’opposizione, che aveva battuto clamorosamente alle elezioni di un mese prima. Per il resto è tutta fantasia politica e strumentalizzata che ha praticamente falsato questa vicenda. Comunque il delitto Matteotti fu casuale, non era premeditato, questo è molto chiaro". Ci sono molte perplessità, da parte degli stessi attivisti del blog grillino, sull'intervista a Petacco. Da un "Ci stiamo autodistruggendo", firmato Dino, ad un "Io credo veramente che vi siate bevuti il cervello. Cose incredibili, una giornata in cui si deve solo riflettere e chiedersi come mai abbiamo perso, ve ne uscite con queste troiate: VERGOGNATEVI! C'era gente, tanta, che ha creduto in voi!". Ironico Fausto: "Grazie a questo post risolveremo tutti i problemi del paese. Stiamo proprio perdendo il senno". Ironico anche Bob: "Per la serie 'Caro amico ti scriiivooo, cosi ti distraggo un pò...'". Secondo tanti, l'attenzione di questo post è volta soltanto a spostare l'attenzione dal disastroso risultato delle elezioni regionali, come viene ribadito anche in questo post: "Ho il sospetto che si voglia parare in qualche parte, non sono un complottista, ma questo mi da addito a dei dubbi due o tre, visto l'importanza della giornata odierna... Me li tengo per me, vedremo i prossimi sviluppi, mi sa che qua si è allo sbando".

I riformisti? Sempre animati dalla passione per la realtà, non per l’ideologia. Matteo Renzi su Il Riformista il  2 Maggio 2023 

Chi è il riformista? Uno che non va di moda. Perché oggi funzionano i sovranisti a destra, gli estremisti a sinistra. E i populisti, ovunque. Nel tempo degli slogan il riformista studia, propone, lotta. Poi sbaglia, cade, riparte. Ma sempre a viso aperto, sempre animato dalla passione per la realtà, non per l’ideologia. Il tema di giornata sono le tasse.

La destra sogna la flat tax, la sinistra sogna la patrimoniale. Gli italiani, nel mezzo, vivono l’incubo di un fisco che è complicato prima che esoso. Il riformista chi è? Quello che, passo dopo passo, prova a ridurre le tasse, a semplificare le procedure, a cambiare le cose che si possono cambiare. Il riformista non fa il botto sui social, perché la flat tax e la patrimoniale esaltano le rispettive tifoserie. Ma non cambiano la vita delle persone.

C’è bisogno di riformisti in Italia e in Europa. Persino quando i riformisti stessi non lo capiscono o si attardano a discutere tra di loro su questioni di terz’ordine. Dal buon risultato dei riformisti dipenderà molto delle alleanze europee nel 2024 e molto di come cambierà la politica italiana. Il mondo sembra impazzito. Prima la pandemia, poi la folle decisione russa di invadere i confini ucraini causando una guerra devastante di cui Mosca è responsabile, quindi le tensioni geopolitiche a cominciare da Taiwan fino all’Africa. Siamo cresciuti con il mito di esportare la democrazia e invece oggi rischiamo, anche in Europa, di importare modelli autoritari.

Noi daremo spazio alle idee riformiste. Che vengano dagli amministratori del centrodestra o da Forza Italia (a proposito: un abbraccio e i migliori auguri a Silvio Berlusconi) o che siano espressioni del PD che non si rassegna alla svolta radicale o del Terzo Polo. Ma anche le idee riformiste della società, del mondo dell’impresa, della rappresentanza, dell’associazionismo.

Perché questo è il Riformista. Una casa aperta al confronto. Una palestra di idee. Un luogo di libertà. Ringrazio l’editore, Alfredo Romeo, soprattutto per credere e investire nell’informazione quando non lo fa più nessuno. Ringrazio il direttore, Piero Sansonetti, che è stato l’anima di questo giornale per quasi quattro anni e si accinge a riportare in edicola “L’Unità”. Proveremo a far riflettere e anche a divertirci, insieme al mio amico Andrea Ruggieri e a tutta la redazione.

Chi ha paura del futuro è terrorizzato da ciò che potrà fare l’intelligenza artificiale. Io non riesco a vedere tutte le implicazioni che potrà provocare. Vedo però tutti i giorni le implicazioni che provoca la stupidità naturale, che mi fa molta più paura dell’intelligenza artificiale. E allora cerchiamo di fare del Riformista un luogo dove far crescere le intelligenze. Anche quelle naturali.

Matteo Renzi

Il paradosso del mito del progresso? Ci ha resi incapaci di pensare al futuro. Magnoli Bocchi indaga il senso di impotenza che attanaglia l'Occidente. Luigi Iannone il 26 aprile 2023 su Il Giornale.

Ne Il mito del progresso (Carocci, pagg. 200, euro 22) Giovanni Battista Magnoli Bocchi compie un viaggio nel senso di impotenza e inutilità di questa vocazione ossessiva e lo inaugura con una operazione maieutica di cui ne svela subito gli approdi. Descrive infatti la prima lezione di ogni anno accademico in cui ripercorre la biografia di Alessandro Magno il quale, poco più che ventenne, pur agitandosi fra tormento, incoscienza e ribellione, sfida l'ignoto e si muove con un esercito alla conquista dell'Asia. Infine, rivolgendosi a uno dei suoi studenti, conclude con la medesima domanda: «E tu che progetti hai?».

Da quando Prometeo donò il fuoco, gli uomini si sono sempre mossi fra parole d'ordine e adorazione fanatica del futuro trasformando a poco a poco la forza attrattiva di questo modello in una omologante sintassi planetaria. Ma l'utopia dell'avvenire, partendo da un fondo di realtà e di radicamento, arricchiva e non ingarbugliava i singoli avanzamenti, perché sempre stretti nell'antico legame tra memoria storica e futuro. Odisseo, per esempio, l'eroe che più di tutti volge lo sguardo al futuro, pur bramando la scoperta e il superamento di ogni limite, è avvinto dal desiderio del ritorno a Itaca. Non siamo di certo alla fine degli accadimenti, ma qualche ingranaggio della trionfante narrazione pare essersi inceppato e Bocchi conduce l'interlocutore verso questa verità. Le grandi scoperte, la gestione dell'energia naturale, la contrazione dello spazio e del tempo connessa allo sviluppo delle reti informatiche e la planetarizzazione dell'economia segnalano traguardi collettivi che hanno mutato in meglio il nostro vivere, soprattutto quando queste forme di avanzamento sono diventate generali e distributive e hanno sollecitato un'armonizzazione egualitaria sul fronte sociale.

Ma la condizione straniante di una hybris che assume prerogative divine, che pone gli umani di fronte all'idea di un progresso infinito, ha fatto dimenticare che esistono dei costi e pure degli imprevisti. E così è in crisi l'idea stessa di progresso. In crisi perché contaminata da un astratto giudizio di valore positivo che abbiamo visto sgretolarsi quando sono spuntate emergenze dal nulla (quella pandemica, le crisi finanziarie e la guerra su suolo europeo). Nell'indefinibile ma inebriante spazio postumo del futuro esse hanno evidenziato non solo un senso di impotenza ma la messa in crisi dei processi democratici, di talune sicurezze e libertà individuali. Peraltro, se il futuro viene solo avvertito come fonte di opportunità efficaci e produttive, cresce l'aspettativa, e nel momento in cui queste situazioni inaspettate rallentano la corsa prospera un fattore ansiogeno.

Per rappresentare l'ingovernabile Jünger utilizzerà l'allegoria del Titanic dove «l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe». Ancor prima, nel 1818, il manifesto dolente del Frankenstein di Mary Shelley e poi, le denunce profetiche arrivate nei decenni successivi fino alla distinzione pasoliniana tra sviluppo e progresso perché la discrepanza tra ciò che è miglioramento misurato attraverso una sedimentazione nel tempo e ciò che invece rovina nella teleologia, ha radici profonde e antiche. Ce lo ricorda Berdjaev: non abbandonando mai la dimensione mitica e simbolica, l'adorazione fanatica del futuro diventa religione, una sorta di teoria darwiniana dello sviluppo.

Ciò accade perché la grande e inebriante stagione del progresso si trova di fronte ad un cambio radicale di prospettiva dove la storia non è più magistra vitae, il passato rischia di divenire sempre meno rilevante e, come scrive Hans Jonas, tutto inizia a ruotare intorno «ad una forza senza precedenti e ad un impulso incessante» provocati dal binomio scienza-economia che non di rado «crea disequilibrio e insicurezze». Non è un cambio di prospettiva recente. Reinhart Koselleck colloca questo crinale fra il 1750 e il 1850. Altri, al tempo della rivoluzione scientifica. Taluni, al fermento sociale e politico di fine ottocento, ai nuovi modi di pensare con la psicoanalisi e alla teoria della relatività dove il futuro viene proiettato in una straordinaria dimensione e l'escatologia rivoluzionaria riscrive l'antico rapporto di temporalità.

Bocchi rimarca il definitivo screditamento di questo rapporto e lo pone al centro dell'equivoco della modernità perché senza Filippo non ci sarebbe stato Alessandro Magno, e senza ciò che è stato non sarebbe stata possibile la storia successiva. Ma per tirarci fuori dal ripiegamento della storia e dalle reiterate citazioni sul tramonto dell'occidente e la morte di Dio, bisogna elaborare il lutto del «mito del progresso».

Che fine ha fatto quel coraggio riformatore di trenta anni fa? Il referendum del 1993 segnò l’epilogo della lunga fase di una democrazia bloccata. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 23 aprile 2023

La politica italiana non brilla per la memoria. Dimenticare presto fa comodo. Eppure il trentesimo anniversario del referendum elettorale del 18 aprile 1993 merita l’ostinazione di ricordare.

Quel giorno la storia della Repubblica è cambiata e si è avviata una lunga transizione tutt’altro che risolta.

La storia cambiò perché venne certificato l’epilogo della lunga fase di una democrazia bloccata, incastrata nella tenaglia della guerra fredda.

Il 60 per cento degli elettori italiani impressero con il loro voto una svolta maggioritaria al sistema politico, consentendo, dopo la caduta del muro di Berlino, la possibilità di una democrazia compiuta, quella democrazia dell’alternanza, preconizzata da Aldo Moro e da Roberto Ruffilli, entrambi vittime del terrorismo brigatista. Purtroppo, allo stato, l’incompiutezza permane.

Ciò non toglie che il referendum del 1993 sia uno spartiacque. È stata l’unica riforma che abbia inciso significativamente sul sistema politico. Quel referendum è un atto d’accusa nei confronti di una politica inconcludente, che da decenni preannunzia riforme che non arrivano mai. Inoltre, l’ispirazione che ne fu alla base non strizzava l’occhio alle derive populiste della democrazia diretta, ma aveva come obiettivo di riqualificare la democrazia rappresentativa, proprio per evitare quelle derive.

La storia di quella vicenda dev’essere ancora completamente scritta, malgrado gli importanti contributi offerti dai suoi protagonisti a cominciare da Mario Segni che ne fu il leader indiscusso.

La cronaca invece fa spesso registrare giudizi liquidatori, così da far diventare quel referendum una sorta di capro espiatorio del nostro declino. Operazione tanto più facile perché non si ha prova del contrario. Di cosa sarebbe cioè successo se esso non ci fosse stato. Ma la storia non si fa con i se e con i ma e dunque vediamo rapidamente che cosa è successo.

Innanzitutto è successo che il movimento referendario con il suo irrompere fu in grado di scrollare la politica dalla palude dell’immobilismo e consentì che venissero approvate riforme come l’elezione diretta dei sindaci e, poi, quella dei presidenti di regione.

La legge elettorale, pur non completamente maggioritaria, consentì di riesumare i collegi uninominali esaltando il ruolo degli elettori nella legittimazione degli eletti. I parlamentari uninominali, persino quando “catapultati” da Roma, erano costretti a fare i conti con il proprio collegio, c’era la loro faccia per le strade delle città, dei paesi e dei quartieri. E questa responsabilità molti la sentivano. I cittadini sceglievano.

Ma legge elettorale non era una legge interamente maggioritaria perché il referendum che la introdusse subiva i vincoli tecnici di ogni referendum abrogativo. Rimase la quota proporzionale senza la quale il referendum non sarebbe mai stato dichiarato ammissibile.

Così, un inconveniente tecnico divenne il cavallo di Troia per sabotare gli effetti del cambiamento. Con la quota proporzionale i partiti si contavano e su quelle basi definivano i rapporti di forza nelle coalizioni, concedendosi ribaltoni e ribaltini.

La verità è che la legge elettorale da sola non basta a cambiare il corso delle cose. Sarebbe stato necessario che le forze politiche raccogliessero la domanda di cambiamento e accompagnassero il referendum con una riforma costituzionale che mettesse in sicurezza la svolta compiuta.

Il paradosso è che i cittadini risposero, ma la politica fece orecchie da mercante.

E così da allora continuano a farsi elezioni dopo le quali gli impegni elettorali vengono traditi, le alleanze continuamente modificate e l’avversario delle urne diviene il sodale del governo di turno. In nessuna grande democrazia sia assiste a una tale disinvoltura. E in nessuna grande democrazia i governi durano mediamente un anno e qualche mese, come accade in Italia dal 1861 a oggi. Che cosa si può realizzare in un anno e tre mesi?

Senza riforme che assicurino stabilità e governabilità l’effetto delle leggi elettorali si arresta alla sera delle elezioni.

Per questo la riforma costituzionale rimane il convitato di pietra della crisi italiana. E per questo c’è da augurarsi che le forze politiche, sia quelle che hanno vinto le elezioni, sia quelle che aspirano a farlo, non rimangano abbagliate dall’illusione di una stabilità, che, come già accaduto in passato, rimane esposta a rischi continui di dissoluzione.

La responsabilità dell’iniziativa spetta alla maggioranza che ha vinto le elezioni. All’opposizione spetta quella di non cadere nella tentazione di scommettere sull’ennesimo fallimento, magari agitando lo spettro di scenari autoritari, con una retorica che rischia di diventare il bene rifugio per nascondere una profonda crisi di identità.

È possibile che prevalga la rassegnata tentazione dello status quo. Ma, come avvenne nel 1993, nella storia arriva sempre il momento in cui accade l’imprevisto. Il cigno nero che non si era visto arrivare. E ci si ritrova travolti da eventi che si sarebbero potuti invece anticipare e guidare.

Ecco. L’ultima postilla. Il referendum del 1993 si fondò su una straordinaria convinzione: l’Italia non è figlia di un dio minore; si merita di più. E non c’è nessun motivo perché non lo possa avere.

Antonio Giangrande: Il dogma del liberale: la Libertà è fare quel che si vuole nel rispetto della Libertà altrui.

La libertà propria è la Libertà altrui sono diritti assoluti e nessuno di questi diritti deve essere limitativo o dannoso all’altro.

Il socialismo (fascio-comunismo) è il potere dato in mano a caste, lobbies, massonerie e mafie.

Antonio Giangrande: Il programma politico di Antonio Giangrande: un Sindaco che Avetrana ha mai voluto…

"Dapprima ti ignorano. Poi ti ridono dietro. Poi cominciano a combatterti. Poi arriva la vittoria". Mahatma Gandhi.

Si deve portare l’attenzione verso i fondamentali concetti della democrazia quali bene comune, cosa pubblica (res publica), trasparenza, legalità, merito, servizio, serietà e mantenimento della parola data, ascolto e partecipazione della cittadinanza. Per essere rappresentanti dei cittadini ed al servizio di tutta la comunità e non solo di una parte, bisogna osteggiare il palesarsi ad una appartenenza politica di vecchio stampo. Chi si dichiara appartenere ad una vecchia ideologia è esso stesso vecchio e stantio oltre che motivo di tensione, attrito e, quindi, di divisione. Il partigiano non può far parte del rinnovamento. Sono le idee vive e geniali che fanno progredire e non le ideologie morte, spesso prone ai Poteri forti. Nelle piccole comunità i capaci ad amministrare son pochi e non bisogna disperderli in sciocche divisioni. Nella amministrazione pubblica non ci sarà posto per chi, egocentrico, ha ambizioni personali e pensa alla politica come strumento di realizzazione. Si dice che un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni. Facciamo sì che non ci si debba vergognare, ma essere onorati di chi ci rappresenta. Ci si deve impegnare ad essere di esempio per gli altri.

IL PROGRAMMA.

LA POLITICA, LA PARTECIPAZIONE E LA TUTELA. La politica non è speculazione. La politica deve essere servizio al cittadino ed il cittadino deve partecipare alla politica. Il candidato, sia a Sindaco che a Consigliere Comunale, libero da vincoli di provenienza o appartenenza politica o familiare, deve essere capace, competente, serio, disponibile e non prono ai Poteri Forti. Non deve essere stato condannato in modo definitivo per reati gravi. Il candidato eletto deve lavorare per la comunità ed avere diritto all’equo compenso. Il cittadino, anche associato, deve far sentire i suoi bisogni e proporre le soluzioni. All’associazionismo deve essere dato sostegno ed esso deve aiutare gratuitamente l’Amministrazione alla gestione del bene comune. Per la tutela del cittadino deve essere istituita la figura del Difensore Civico con virtù e qualità maggiori di quelli del Sindaco e del Consigliere Comunale e scelto dal Consiglio Comunale tra i cittadini locali per la tutela dei diritti dei membri della comunità nei confronti della Pubblica Amministrazione locale e nazionale. Il Sindaco, gli Assessori ed il Presidente del Consiglio Comunale devono mettersi in aspettativa per il proprio lavoro o professione ed essere sempre presenti presso la casa comunale per ascoltare le esigenze della gente e controllare il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Ognuno di loro, per un contatto immediato e diretto, deve avere un recapito di posta elettronica ed avere una pagina social periodicamente aggiornata.

LA TRASPARENZA ED IL SERVIZIO AI CITTADINI. Si deve istituire l’ufficio dell’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico), al servizio dell’utenza per la conoscenza dell'iter della pratica amministrativa e del rispetto del tempo ad essa riservato dalla legge. Ciò nell’ottica di far percepire il Comune come un servizio al cittadino e non come un esattore e basta. Ai dipendenti deve essere data istruzione di disponibilità relazionale e comunicabilità adeguata rispetto all'utenza. Deve essere dato risalto dell'attività dell'amministrazione e degli eventi organizzati da essa o dalle associazioni locali sul sito web dell'istituzione e su bollettini periodici da distribuire dei punti di ritrovo e commerciali. Si deve verificare il percorso di assunzione dei dipendenti e collaboratori dell'Ente e l'evoluzione dei contratti in essere, scaduti e rinnovati senza gara e con mancanza di verifica di economicità. Si deve controllare modi e costi delle consulenze esterne ed interne. Si deve verificare ogni intervento reso ai cittadini ritenuti disagiati, affinchè non nasconda voto di scambio. Bisogna migliorare la tracciabilità di appalti e subappalti attraverso la pubblicazione online dei bandi di gara e dei risultati delle stesse ed avere l’autorizzazione scritta del Comune per qualsiasi tipo di subappalto. Ogni gara di appalto deve contenere l'impegno ad assumere un numero indeterminato di disoccupati locali, secondo la specializzazione richiesta. Bisogna aumentare le responsabilità degli appaltatori, attraverso regole di appalto che riconducano unicamente all’appaltatore le responsabilità di lavori non eseguiti nei termini od a regola d’arte o di danni provocati dal sub appaltatore, anche durante tutto il periodo di garanzia. Bisogna migliorare il sistema delle gare d’appalto. Rivedere il sistema delle gare economicamente vantaggiose (lo spirito della gara dovrebbe essere di chi fa l’offerta migliore) introducendo, come avviene in molti altri enti pubblici, un sistema di valutazione delle offerte attraverso l’utilizzo di parametri oggettivi e non soggettivi da parte della commissione scelta dalla stazione appaltante. Controllare che i lavori effettuati per conto proprio o per conto delle aziende terze sul suolo comunale siano effettuati a regola d’arte.

RISPETTO DELLA LEGGE, FISCALITA' E LOTTA ALLA EVASIONE. Il cittadino deve rispettare la legge, per la sicurezza, il rispetto dell'ambiente ed il quieto vivere. Bisogna essere inflessibili, ma non fiscali. Per contenere la pressione fiscale e garantire maggiore equità contributiva al cittadino bisogna chiedere il minimo indispensabile, agevolandolo per la riscossione, e il richiesto tradurlo al massimo in termini di servizi ed opere. Per la lotta all'evasione bisogna essere inflessibili, previo tentativo di verifiche e di conciliazione e mediazione. Tutelare la prima casa ed i cittadini poveri. I disoccupati possono pagare i tributi con una prestazione d'opera. Le associazioni devono essere agevolate sulla fiscalità. La Pubblica Amministrazione da parte sua deve rispettare i tempi dei procedimenti amministrativi e pagare i debiti entro 30 giorni dalla fattura.

TUTELA PATRIMONIO COMUNALE. Bisogna censire il patrimonio immobiliare del Comune (canoni riscossi per gli immobili concessi in locazione, canoni corrisposti per quelli di proprietà di terzi acquisiti in locazione). Elaborare un piano pluriennale di utilizzo, razionalizzazione e cessioni del patrimonio comunale. Valutare eventuali riqualificazioni, conversioni, cambi di destinazione d’uso e verificate possibilità di intervento, con riguardo alle priorità dei fabbisogni di spazi idonei e accessibili per sede degli uffici e dei servizi comunali e per sedi e attività delle associazioni.

URBANISTICA E TERRITORIO, AMBIENTE ED AGRICOLTURA. Basare una riqualificazione del territorio concentrata sul recupero e sulla ristrutturazione dell’esistente; agevolare il diritto alla prima casa con nuove costruzioni e la distribuzione dei servizi dal centro alle periferie; una gestione ambientale basata su una mobilità che valorizzi e crei percorsi di viabilità ecologica, ciclabile e podistica; sul valore della forestazione e la piantumazione di piante e la relativa cura; politiche socio culturali ed economiche che promuovano uno stile ambientalista ed allo stesso tempo sfrutti le risorge offerte dal riciclo dei rifiuti, con creazione di posti di lavoro, ed agevolazioni per l'istallazione e lo sfruttamento di fonti di energia alternativa sui propri fabbricati; salvaguardia delle attività agricole, rilanciando la funzione dell’agricoltore e di attività collegate (mercati a filiere corte, promozione di prodotti a km 0, accordi tra agricoltori e proprietari dei fondi agricoli per mantenere i terreni coltivati, etc.). Stop al consumo del territorio per i nuovi impianti con pannelli fotovoltaici e favorire la loro realizzazione su capannoni industriali o fabbricati agricoli. Si deve controllare la viabilità e la salute delle strade, come l’ordinato parcheggio.

LAVORO. Attuare corrette misure di salvaguardia e di intervento e sfruttare le risorse di valore Storico, Archeologico, Paesaggistico e Naturalistico del territorio Comunale. Predisporre luoghi ed aziende per lo sfruttamento del turismo, specialmente dove è maggiore la vocazione turistica. Incentivare gli spostamenti in bicicletta verso le zone turistiche attraverso apposte iniziative comunali. Promuovere e gestire itinerari turistici culturali. Rendere la viabilità ciclabile appetibile grazie a percorsi più sicuri e rapidi. Predisporre un sistema di raccolta porta a porta per tutto il territorio comunale e favorire la crescita di un economia locale legata al recupero, riciclo e riutilizzo dei materiali post consumo, compreso lo sfruttamento del prodotto di sfalci e potature di viti ed ulivi. Predisporre e gestire in modo corretto, etico e trasparente un canile/gattile e favorire l'adozione degli animali. Predisporre le modalità di attuazione delle prestazioni di lavoro occasionale di tipo accessorio come disciplinate dall'art. 4 della L. n.30/03, dal D.Lgs. n. 276/03 (artt. 70-73), e successive integrazioni e modificazioni. Con lo "strumento" voucher si offre la possibilità di occupazioni temporanee a soggetti che si trovano in situazioni di svantaggio economico, di difficoltà finanziaria, di disagio personale e/o familiare. Uno strumento che dà la possibilità a tutti i disoccupati di prestare la loro opera per un dato periodo di tempo per lavori di pubblica utilità. Per incentivare ogni altra forma di impresa e debellare il fenomeno dell'usura, l'amministrazione si farà garante verso gli istituti di credito di ogni progetto presentato ed approvato dal Consiglio Comunale e comunque di favorire l’accesso al credito attraverso il sostegno economico ai Confidi (consorzi di garanzia) o forme similari di categoria o comunque la verifica degli immobili agibili e sfitti di proprietà diretta o indiretta del comune per locazione agevolata alle attività imprenditoriali giovanili (fino a 35 anni). Predisporre un front office turistico multilinguistico di presentazione del territorio, con tour tematici.

SANITA’.

Predisposizione telematica di conoscenza del medico disponibile nel momento del bisogno.

SICUREZZA.

Predisposizione di aree e vie pubbliche videosorvegliate e potenziamento del corpo di Polizia Municipale, con collaborazioni temporanee, coadiuvato da associazioni di cittadini locali per il controllo delle aree rurali.

PROMOZIONE DEL TERRITORIO.

Promuovere e sostenere ovunque ogni eccellenza locale nel settore dello sport, cultura e spettacolo o ogni altra forma di realizzazione e manifestazione. Tutelare la reputazione di Avetrana e della sua comunità con ogni mezzo e senza remore.

SPORT.

Curare e gestire in modo economico ogni struttura comunale e renderla fruibile a tutti.

FINANZIAMENTO.

Vogliamo farci conoscere in Europa per le nostre risorse naturali, storiche, culturali, artistiche. Abbiamo un patrimonio da valorizzare grazie alla progettazione europea. Si dovrà formare un gruppo compatto di professionisti locali o non locali, remunerato per presentare progetti ed accedere ai Fondi strutturali.

Come funziona il libero arbitrio? La ricerca cerca di fare luce su uno dei misteri della mente. Gloria Ferrari su L'Indipendente mercoledì 8 novembre 2023.

Stai navigando online alla ricerca di un tappeto da stendere in salotto, ai piedi del divano. Trovi un modello che ti piace fra centinaia di altre tipologie, ma sei incerto sul colore: rosso o grigio? Opti per il primo, perché ti convince di più. Lo aggiungi al carrello e sei contento di aver preso una decisione autonoma, libera e consapevole. Ma è davvero così?

Chi crede nel libero arbitrio, quindi nel potere di prendere decisioni o eseguire azioni indipendentemente da qualsiasi evento o stato precedente dell’universo, risponderebbe di sì. Ma la questione è molto più complessa di così. Per secoli molti filosofi, fisici e religiosi hanno tentato di dimostrare o smentire l’esistenza della libera decisione, nonostante Noam Chomsky (filosofo, linguista, e scienziato cognitivista) abbia ribadito che tale traguardo potrebbe non essere raggiunto mai. Negli anni nel dibattito si sono inserite anche le neuroscienze. Ma provare a delineare un quadro più chiaro attorno al tema è una questione delicata: arrivare ad una conclusione, in una o nell’altra direzione, cambierebbe drasticamente l’approccio alla vita individuale e quella sociale.

Se infatti gli esperti riuscissero a dimostrare che il libero arbitrio non esiste, significherebbe di fatto che, seppur rinascendo una seconda volta, ci comporteremmo esattamente allo stesso modo, perché così è scritto e così è fatto il nostro cervello (il cosiddetto determinismo). Una dichiarazione che avrebbe enormi implicazioni: se in qualche modo le nostre scelte sono predeterminate e non libere, che senso ha, per esempio, tormentarsi sui dilemmi morali?

La fisica quantistica ha dimostrato che il verificarsi di alcuni eventi è letteralmente casuale. Una scoperta che però non risolve il problema, anzi, lo rende ancora più intricato. Se da una parte il determinismo annulla ogni possibilità che il libero arbitrio esista, dall’altra anche il concetto di casualità lo fa: significherebbe infatti che ogni singola azione non è determinata dalla nostra volontà di scelta, ma, appunto, dal caso. In pratica un cane che si morde la coda e che solo l’intervento della genetica, delle neuroscienze e della biologia evoluzionistica può forse salvare dalla dannazione – ma anche all’interno di questi campi convivono posizioni diverse.

Partiamo dai fatti. Fin dall’inizio delle loro ricerche i neuroscienziati si sono accorti che l’attività cerebrale si mette in moto alcuni secondi prima che il soggetto acquisti la consapevolezza di voler intraprendere quell’azione. Negli anni ’60 infatti alcuni studi avevano scoperto che quando le persone eseguono un movimento semplice e spontaneo, il loro cervello mostra un aumento dell’attività neurale (chiamato “potenziale di prontezza”) prima di compierlo. Un’intuizione confermata negli anni ’80 dal neuroscienziato Benjamin Libet, secondo cui il potenziale di prontezza precedeva addirittura l’intenzione dichiarata di una persona di muoversi, non solo il suo movimento. Più recentemente un gruppo di ricercatori ha scoperto che alcune informazioni su una decisione imminente sono già presenti nel cervello fino a 10 secondi in anticipo rispetto alla presa di posizione su una certa azione. Risultati che, però, non hanno posto fine agli interrogativi – o meglio, hanno comunque diviso le interpretazioni.

La questione di fondo è che gli studi condotti fino ad oggi si sono concentrati principalmente su azioni arbitrarie, ripetitive, che ormai facciamo distrattamente e inconsciamente e che quindi potrebbero essere prive di un vero significato ai fini della comprensione del libero arbitrio – come scegliere di mettere il piede sinistro davanti al destro per camminare o viceversa. Movimenti che la nostra attività cerebrale traccia prima ancora che ci rendiamo conto che stiamo per farli. Cosa avviene invece dentro di noi quando prendiamo decisioni più importanti, che fanno davvero la differenza nelle nostre vite? Quando decidiamo se lasciare il lavoro? O quando valutiamo di trasferirci altrove?

Anche in questo caso due neuroscienziati hanno provato a fornirci una risposta. Nel 2019 gli esperti Uri Maoz, Gedeone Yaffe, Christof Koch e Liad Mudrik hanno chiesto ai partecipanti al loro esperimento di scegliere, premendo il pulsante destro o sinistro, tra due organizzazioni no-profit a cui donare mille dollari. Ad alcuni individui è stato poi specificato che in ogni caso, a prescindere dalla scelta, entrambe le organizzazioni avrebbero ricevuto 500 dollari. Ai restanti è stato invece ribadito l’importanza di ponderare bene tutte le condizioni, perché per via della loro scelta uno dei due gruppi sarebbe rimasto a secco.

Dai risultati è emerso che le scelte prive di significato erano precedute da un potenziale di prontezza, le altre no. In altre parole, quando ci preoccupiamo di una decisione e delle sue conseguenze, il nostro cervello sembra comportarsi in modo diverso rispetto a quando la decisione è arbitraria. Gli esiti sono però incompatibili con i risultati di un sondaggio pubblicato nel 2022, in cui tre esperti hanno chiesto a 600 persone di valutare il grado di libertà delle scelte compiute dagli altri. Queste sono state giudicate tutte tendenzialmente e ugualmente libere, senza distinzione tra quelle più significative e quelle meno importanti.

La questione dunque è tutt’altro che risolta, e gli scenari da indagare sono ancora decisamente ampi, con importanti esperti che si schierano con decisione da una parte (Robert Sapolsky, acclamato biologo e neuroscienziato statunitense, crede che il libero arbitrio non esista e che le nostre scelte siano condizionate dalla biologia, dagli ormoni, dall’infanzia e dalle circostanze della vita) e altri che rimangono nella sfera del possibile. Tuttavia negli anni, oltre ad essere cambiati gli strumenti di indagine, si è evoluta anche la consapevolezza che il libero arbitrio, che esista o meno, non è probabilmente come ce lo siamo immaginato. Ma la partita non è ancora finita. [di Gloria Ferrari]

LIBERISMO e LIBERALISMO…CHE DIFFERENZA C’È? Studente D'Errico Emma su medium.com

Nella lingua italiana i termini liberismo e liberalismo non hanno lo stesso significato: mentre il primo è una dottrina prettamente economica, il secondo è un’ideologia politica; nell’indagare tale distinzione bisogna innanzitutto essere consapevoli della natura prevalentemente italiana di essa.

Per LIBERISMO, si intende essenzialmente la libertà economica, ossia la libertà del mercato, della concorrenza fra industrie, aziende, semplici lavoratori, in qualsiasi condizione storica, geografica e sociale.

Liberismo è il pensiero che lo stato debba lasciare assoluta libertà di produrre e commerciare, quindi è quel pensiero concettualmente opposto al protezionismo.

Il Liberismo nasce da una riflessione sulle condizioni di produzione della ricchezza ed il padre del liberismo è Adam Smith (1776, La ricchezza delle nazioni), il quale teorizza l’importanza dell’accumulo di capitale, dell’investimento e della libera concorrenza, ma anche l’importanza della divisione del lavoro tra capitalisti e salariati: questi elementi, secondo Smith, condurrebbero alla conciliazione dell’interesse individuale e sociale.

Il LIBERALISMO è invece un’ideologia politica, che sostiene l’esistenza di diritti fondamentali e inviolabili facenti capo all’individuo, e che evidenzia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (eguaglianza formale). Il padre del liberalismo è sicuramente il filosofo John Locke, seguito da David Hume e dal sopracitato Adam Smith.

Dal liberalismo si genera lo STATO LIBERALE, una forma di Stato che si pone come obiettivo la tutela delle libertà e dei diritti inviolabili dei cittadini attraverso una Carta Costituzionale che riconosce e garantisce tali diritti fondamentali e sottopone la sovranità dello Stato ad una ripartizione dei poteri: nel nostro paese ad esempio, la Costituzione prevede che i tre poteri, quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario, siano affidati ad organismi specifici e differenti (per evitare la concentrazione dei poteri che aveva invece caratterizzato la dittatura fascista). Come si è visto, tale tipologia di stato, fu instaurata in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione, negli Stati Uniti e in Francia in seguito alle rispettive rivoluzioni settecentesche, e nel resto d’Europa con le rivoluzioni liberali.

Secondo il filosofo Benedetto Croce, il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello di liberalismo, tant’è che il liberismo è anche detto liberalismo economico: va da sé che si possa dunque essere liberisti senza essere liberalisti.

Tuttavia bisogna precisare che il liberalismo può contenere in sé il liberismo, ma non è universalmente confermato che ciò sia necessario.

Infatti, il liberalismo, si può definire come la continua lotta per la limitazione del potere in tutte le sue forme: talvolta vi possono essere momenti della storia in cui il potere da limitare sia proprio il potere dell’economia, ed è proprio questo il caso in cui il liberalismo non desume il liberismo.

La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana. Scrive Ernesto Paolozzi.

Liberismo e liberalismo La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana e non ha riscontro in altre culture mondiali. Però, a guardare a fondo, appare chiaro che i concetti e le idee che sono a fondamento di tale distinzione sono invece comuni a tutte le culture politiche, almeno del mondo occidentale. Cerchiamo, allora, di essere il più possibile chiari sul significato di tali concetti, senza troppo ricorrere all’antica e nota polemica fra Croce ed Einaudi dalla quale, appunto, ebbe origine la distinzione fra liberalismo e liberismo, almeno così come la conosciamo noi. Per liberismo si intende, essenzialmente, la libertà economica, ossia la libertà del mercato, della concorrenza fra industrie, aziende, semplici lavoratori, in qualsiasi condizione storica, geografica, sociale. Padri nobili del liberismo sono i liberali alla Adam Smith, tutti coloro che fra Settecento e Ottocento, propugnarono, contro i privilegi della nobiltà, dell’alto clero, dell’antico regime, la libera iniziativa economica. Nel nostro secolo, soprattutto, il liberismo lotta contro l’invadenza dell’iniziativa statale nel libero mercato e può essere ricondotta al nome del grande economista e grande studioso Hayek. Ora, bisogna innanzitutto sottolineare che, nel suo sorgere, quello che abbiamo definito liberismo fu un movimento rivoluzionario che intendeva essenzialmente battersi perché si realizzasse, contro vincoli di varia natura e varia provenienza, una libertà fondamentale dell’uomo: la libertà dell’iniziativa economica che già Locke aveva difeso allorché aveva inserito il diritto alla proprietà fra i diritti naturali. Allo stesso modo, anche nei confronti di uno Stato, e soprattutto di uno Stato non democratico, il liberismo più recente ha operato in senso rivoluzionario, intendendo garantire la libera iniziativa economica di gruppi o individui nei confronti di uno Stato troppo spesso oppressore. Sappiamo tutti che nei confronti di queste posizioni si sono generate posizioni polemiche, anche aspramente polemiche, in difesa della socialità, dello Stato inteso come comunità di cittadini, e così via.

Ma a noi interessa, in questa prospettiva, chiarire la differenza tra liberismo e liberalismo. Il punto nodale fondamentale a tal proposito è questo: la libertà dell’economia deve considerarsi come uno dei tanti aspetti con i quali si è presentata nella storia la lotta per la libertà o bisogna considerarla come la premessa indispensabile per ogni altra forma di libertà? Per dirla con una formula: la libertà politica è possibile soltanto in presenza della libertà economica o è possibile ipotizzare una società liberale di tipo diverso? Questo è il vero punto di discussione. E’ evidente che da un punto di vista squisitamente filosofico, così come hanno sostenuto anche i due più autorevoli filosofi liberali del nostro secolo, Croce e Popper, non è possibile legare, meccanicamente determinare, tutte le libertà, etiche, politiche, culturali alla pura libertà economica. Si cadrebbe, paradossalmente, nello stesso errore attribuito a Marx il quale, sia pure con scopi diversi, sembrava sostenere che al fondo di ogni processo sociale vi fosse sempre la struttura economica che determina le sovrastrutture. E’ un punto questo che mi sembra, in verità, innegabile. Non è dunque possibile asserire in maniera assoluta e definitiva né che senza la libertà dell’iniziativa economica non vi possano essere altre forme di libertà, né che, soprattutto, il libero mercato produca di per sé le libertà politiche. Abbiamo avuto esempi anche storici di paesi governati dalla socialdemocrazia nei quali l’intervento dello Stato nell’economia è stato preminente per molti anni, in cui non solo non si sono perse, ma si sono guadagnate molte libertà civili e politiche (penso alla Svezia e alla stessa Inghilterra laburista), ed altri paesi nei quali hanno convissuto il più aperto libero mercato e la dittatura più ripugnante e antiliberale. Dunque, la distinzione italiana fra liberalismo e liberismo può e deve essere mantenuta ed estesa, per la chiarezza della distinzione stessa, anche alle altre culture. Il liberalismo può contenere in sé il liberismo. Ma non può e non deve appiattirsi sul liberismo stesso. Il liberalismo, è stato detto cercando una impossibile definizione, è la continua lotta per la limitazione del potere in tutte le sue forme. Ora, vi possono essere momenti della storia in cui il potere da limitare sia proprio il potere dell’economia. Non voglio negare, né mai i citati Croce e Popper lo hanno fatto, che è difficilmente ipotizzabile, sul piano pratico, una società liberale nella quale non sia assicurato il massimo di libertà economica. Ma questo non è in contraddizione con l’idea che, per usare una vecchia terminologia marxiana, in ultima istanza il governo delle nazioni, il governo delle comunità, spetti all’etico-politico, ossia, nella mia prospettiva, al liberalismo. La questione si fa chiara ed evidente oggi, nel momento in cui ci troviamo a fronteggiare la cosiddetta globalizzazione dell’economia, quella che alcuni chiamano americanizzazione, altri sviluppo incontrollato del capitalismo, altri ancora liberismo selvaggio. Contro questo gigantesco e in apparenza inarrestabile movimento che sembra essere movimento delle cose stesse, si levano forze di varia natura e di diversa provenienza. Sulla sinistra estrema, i movimenti anarchici, ecologisti, veterocomunisti, anarcosocialisti, i quali credono, essenzialmente, che un mercato mondiale libero sia in realtà un mercato nel quale solo i ricchi e i potenti prosperino, a discapito dei milioni di diseredati, a nocumento dell’ambiente, che è un bene comune, a discapito dei valori fondamentali della civiltà nata con il cristianesimo, il liberalismo stesso, l’Illuminismo della Rivoluzione francese e il socialismo, i valori di giustizia e di fratellanza. A destra c’è chi rinviene nel processo di globalizzazione la fonte principale della distruzione di tutti gli antichi valori su cui si fondano le tante comunità sociali, etniche, storiche. Con la vittoria indiscriminata del consumismo capitalista, si distruggerebbero le tradizioni famigliari, le lingue nazionali e i dialetti, le culture e le religioni e perfino le tradizioni alimentari. Da un punto di vista liberale, che potrà sembrare mediocre ma che, se lo è, lo è nel senso aristotelico, si tratta invece di ricondurre lo sviluppo economico del capitalismo mondiale nell’ambito e nell’alveo del giudizio etico e politico. Non si tratta di distruggere un nemico ma di costringerlo a diventare amico. Si tratta di creare ed immaginare, attraverso la lotta politica quotidiana, un sistema di governo della politica mondiale, e dunque delle nuove Istituzioni adatte allo scopo, che siano in grado di governare il processo in modo che le palesi ed evidenti opportunità che il progredire dell’economia e della tecnologia contengono, non si tramutino in una tragedia collettiva, nell’oppressione dei pochi sui molti. Questo mi sembra un punto di vista autenticamente liberale. Rispettoso della libertà economica ma guardingo e preoccupato, pronto sempre a far valere le ragioni della politica sull’economia e, soprattutto, le ragioni dell’impegno etico-politico su quello che sembra essere, e non è detto che sia, e in effetti non è, un processo irreversibile e ingovernabile. Nulla nella storia è irreversibile ed è sempre l’uomo il signore del sabato. Sembrerà, lo ripeto, un punto di vista mediocre, come sempre sembra essere mediocre la ragionevolezza. Ma le gravi difficoltà che questo ragionamento incontra per affermarsi, i tanti nemici che contro esso si muovono, a cominciare dagli ottusi e integralisti liberisti a finire, come si è detto, agli estremisti della nostalgia a destra e ai velletarismi dei nuovi rivoluzionari, mostrano come, ancora una volta, il liberalismo sia destinato a rimanere minoranza benché sia forse il solo punto di vista veramente capace di prefigurare nuove e reali prospettive per il futuro.

Il saggio riproduce una lezione tenuta presso l’Associazione culturale UKMAR ed è pubblicato sulla rivista “C’E corriere d’Europa” (luglio 2002)

L'Occidente è la patria di ogni vera libertà. In un recente saggio Franco Cardini parla di deriva della nostra civiltà. Ma i suoi valori sono universali. Giampietro Berti il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La vittoria planetaria dell'Occidente ha diffuso in maniera impressionante la laicità di quella concezione del mondo che principia dall'illuminismo, fonte primaria dei caratteri fondamentali della modernità: razionalismo, diritti naturali, universalismo, unità del genere umano, individualismo; vale a dire quell'insieme riassumibile nel binomio secolarizzazione capitalismo, cioè la forza trainante del processo storico degli ultimi secoli. Ciò ha provocato una reazione di rigetto incontrollabile nei nemici della società aperta che si manifesta in una tendenza all'arroccamento nella propria identità; ha estremizzato il bisogno di un senso esistenziale religiosamente forte, unica diga per far fronte all'avanzata del moderno e alla sua invadenza laico-edonistica, costituita dall'intreccio indissolubile fra nichilismo e libertà. Negli ultimi decenni contro questa realtà si sono scagliate, a ondate successive, tutte le ventate reazionarie di rigetto ieri comunismo, fascismo, nazismo; oggi islamismo jihadista e forme di radicalismo di destra e di sinistra , volte a bloccare o a distruggere il dilagare laico del non senso prodotto da tale processo.

All'interno di questa tendenza storico-culturale va inserito il libro di Franco Cardini, uscito in questi giorni presso Laterza: La deriva dell'Occidente in cui l'autore nega il valore universale della cultura occidentale, contestando la tesi di Fukuyama, secondo cui il mondo ha un solo destino, il capitalismo. La guerra in Ucraina dimostra a suo avviso che la storia non è così univocamente determinata. Per Cardini l'Occidente ha espresso in realtà una volontà di potenza volta a egemonizzare l'intero globo terracqueo. La stessa teoria dei diritti umani altro non sarebbe che un'espressione di questa volontà. E con ciò siamo, come si vede, all'opposto di Max Weber, che si domandava: «per quale concatenamento di circostanze è avvenuto che proprio sul suolo occidentale, e qui soltanto, la civiltà si è espressa con manifestazioni, le quali si sono inserite in uno svolgimento, che ha valore e significato universale»?

Di qui l'obbligata constatazione che la possibilità della libertà e la sua esistenza storica si sono realizzate soltanto nell'Occidente perché la convivenza pluralistica dei valori, delle fedi e delle culture non è qualcosa di spontaneo, ma è una creazione soggetta a determinate coordinate spazio-temporali. Occorrono, cioè, specifiche visioni del mondo (il razionalismo), specifiche istituzioni economiche (il mercato) e, infine, specifiche istituzioni politiche (regimi a struttura liberal-democratica) perché le aspirazioni della libertà possano avere sviluppo e consolidamento effettivo. La libertà, in quanto creazione storica, non si rinviene in tutte le culture e in tutte le civiltà. Essa vive di un paradosso: la sua valenza è universale, ma la sua genesi e la sua determinazione sono particolari.

Dunque, è la libertà la vera e decisiva discriminante che distingue l'Occidente da ogni altra civiltà umana. Solo la libertà ha un valore universale, perché solo essa è l'unica realtà capace di valere per tutti. Come argomenta Edmund Husserl, non si può rinunciare alla libertà perché è la condizione imprescindibile della civiltà umana; questa libertà è autentica solo se è universale; non si può concepire una libertà universale, se non pensandola innanzitutto in senso filosofico; si può rintracciare l'universalità filosofica soltanto nell'unica cultura che l'ha generata e sviluppata: l'Europa. Husserl intreccia la dimensione della libertà con la dimensione della filosofia; un intreccio concepito come la vera e originaria identità spirituale europea. La libertà si incrocia con la filosofia esprimendosi come facoltà critica motivata dalla domanda del dubbio permanente. In tal modo la coscienza europea si legittima nell'autocritica.

Si deve dar conto del perché l'Europa esprima filosoficamente una realtà politico-culturale che ha iscritta in sé stessa la meta finale verso cui tende il divenire spirituale di tutta l'umanità: racchiude, infatti, il telos particolare delle singole nazioni e dei singoli popoli in una prospettiva infinita. È questo il suo destino.

Scrive infatti Husserl: l'idea teleologica della cultura europea mostra che l'Europa è in grado di determinarsi liberamente nell'autonoma ragione. Rispetto all'umanità, essa rappresenta la massima forma di sviluppo perché riassume in sé tutte le formazioni culturali e tutti i sistemi culturali che già sono sorti nel corso della storia.

Si deve pertanto attribuire alla cultura europea la posizione più elevata fra tutte le culture storiche. Husserl afferma la superiorità dell'Europa (e quindi per conseguenza dell'Occidente) su ogni altra civiltà proprio perché solo essa è originariamente filosofica e solo essa reca in sé l'universalismo, che consiste nella volontà di essere un'umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così. La sua umanizzazione è l'umanizzazione di tutte le umanità pregresse perché annuncia la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo. La sua posizione eurocentrica eleva la sua stessa cultura a «lingua universale» come rimedio alle crisi di identità dell'umanità intera.

Arbitrio e Costituzione, i progressisti confondono il "dirittismo" con la libertà. Pietro Di Muccio De Quattro su Libero Quotidiano il 14 settembre 2023

Intervenendo in video al Tempo delle donne nella Triennale di Milano, la presidente Giorgia Meloni, sollecitata dal direttore del Corriere della Sera, ha dichiarato che da sempre interpreta la libertà come impegno e citato Giovanni Paolo II, secondo il quale «La libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve».

Anche nel discorso programmatico alle Camere, la presidente Meloni attribuì la frase a papa Wojtyla, che gliel’avrebbe detta in un’udienza privata. Ma la frase non è di quel pontefice, bensì del liberale conosciuto come Lord Acton, che ha incarnato il filone del liberalismo etico: «Liberty is not the power of doing what we like, but the right of being able to do what we ought», cioè «Libertà non è il potere di fare ciò che ci piace, ma il diritto di poter fare ciò che dobbiamo». La presidente Meloni ha precisato: «Libertà non è semplicemente avere dei diritti, è dimostrare di essere in grado di fare sulla base dei diritti che si hanno».

La prima proposizione della precisazione è esatta; la seconda, no. Lo stesso giorno, intervistata pure lei dal direttore del Corriere della Sera, la presidente della Corte costituzionale, professoressa Silvana Sciarra, ha dichiarato tra l’altro, che «le capacità devono diventare diritti... le libertà sono il cuore della democrazia... le libertà aprono all’esercizio dei diritti». Anche la presidente Sciarra, come la presidente Meloni, sembra condividere l’idea diffusa, secondo la quale, se non proprio sinonimi, libertà e diritti sarebbero termini in certo modo intercambiabili: un’idea che rappresenta il portato forse più caratteristico e caratterizzante il “progressismo” politicamente inteso.

Il “progressismo” così concepito, che risale indietro nel tempo, ha fatto nascere negli anni più vicini una specifica dottrina giuridica, che altrove ho voluto chiamare “dirittismo”, così definito: «Ogni pretesto genera la pretesa di un diritto». Ma il dirittismo ha poco e niente a che fare con lo Stato di diritto e il costituzionalismo. 

L’Italia ha purtroppo conosciuto e praticato il dirittismo fin dal 1968, persino contro il semplice buon senso, per esempio il 18 garantito e l’esame di gruppo nei corsi universitari, il salario variabile indipendente del lavoro subordinato. Tra l’altro il dirittismo confligge innanzitutto con la libertà perché ne mina il fondamento, consistente nell’eguale trattamento della legge che i Greci chiamarono isonomia e dalla quale derivarono la democrazia, non viceversa; inoltre, fraziona la società in innumerevoli micro posizioni individuali arbitrarie nella definizione formale e ingiustificate nel contenuto sostanziale; infine, contro le migliori intenzioni, “corporativizza” i rapporti sociali ingessandoli a discapito dell’autonomia personale.

Il IX Emendamento (1791) della Costituzione americana afferma che «L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non potrà essere interpretata in modo che ne rimangano negati o menomati gli altri diritti conservati dal popolo». Si riferisce ai diritti naturali, non male intesi alla maniera progressista ma bene intesi come consustanziali alla libertà da restrizioni, costrizioni, interferenze, esterne o governative. È la concezione della libertà come nucleo incomprimibile e indivisibile, espansione massima dell’indipendenza e dell’azione individuali, non già come contenitore delle facoltà di agire accordate dal governo e dalle leggi. La libertà non è partecipazione, la libertà è uno spazio libero: all’opposto, il bravo Gaber impartì la lezione sbagliata. Gli usi della libertà sono molti e, se legali, possiamo pure chiamarli diritti, ma la libertà ha un’altra natura, sebbene adoperiamo la parola per dire che un essere umano è autorizzato a fare determinate cose. Nel qual caso caso possiede una libertà. Mentre nessuno ha espresso, in breve, l’essenziale diversità tra la libertà e le libertà-diritti meglio del più grande pensatore liberale del ventesimo secolo, Friedrich von Hayek: «La differenza fra la libertà e le libertà è quella che c’è fra una condizione nella quale quanto non è proibito da norme generali è consentito, e una in cui è proibito quanto non è esplicitamente permesso».

Il personaggio. Chi era Vilfredo Pareto, il liberale scettico che odiava la democrazia. Inorridito dall’eguaglianza, lo studioso simpatizzante del fascismo vede nel suffragio universale e nelle classi più deboli solo degli intralci. A governare, spiega, devono essere i più ricchi e i più forti.  Michele Prospero su L'Unità (comunista) il 30 Agosto 2023

Negli anni Venti fu agevole per molti liberali convertirsi al fascismo trionfante. Più arduo è percorrere oggi il tragitto inverso e dal postfascismo governante approdare ad un pensiero liberalconservatore. È da poco ricorso il centenario della morte del sociologo ed economista Vilfredo Pareto, che del cedimento dell’aristocrazia post-unitaria dinanzi ai fermenti totalitari rappresentò un esempio significativo.

Indagare lo sviamento di questo “liberale scettico” può aiutare a penetrare in alcuni persistenti enigmi della cultura politica. Secondo Pareto, la democrazia di massa, che venera “questo nuovo dio che ha nome «suffragio universale»”, è solo la forma politica della decadenza dello Stato. La classe politica, con i suoi “elementi scadenti”, rinuncia alla “legge del volume sociale della violenza” come criterio risolutore delle tensioni che attraversano la modernità. Una borghesia irresoluta non garantisce la difesa degli assetti consolidati dagli attacchi delle nuove classi sempre più combattive, disposte a frantumare la stabilità del quadro politico in vista della realizzazione della “tirannide rossa”.

Serve perciò una critica delle ideologie progressive le quali offuscano la politica come fenomenologia della forza e volontà di potenza di una minoranza che ambisce al comando. Contro “i signori metafisici” che discettano di legge, consenso, legittimazione, Rechtsstaat, Pareto adotta parole liquidatorie. Egli così presenta lo “Stato di diritto”: una “bella entità che, per quante ricerche abbia fatto, mi è rimasta perfettamente ignota, e preferirei avere da descrivere la Chimera”. Le forme della moderna statualità non cambiano il volto del potere politico, che, a detta del teorico dell’elitismo, è per sua essenza sempre incentrato sulle dinamiche della forza. Anche negli ordinamenti che riconoscono “la santità della maggioranza”, sono i pochi ad avere lo scettro contando su un’adesione passiva dei molti o sulle prassi di acquisizione di un consenso “guidato, comprato, manipolato”.

Per Pareto, bisogna afferrare le invarianti della politica come influenza e potere, dato che “tutti i governi si basano sulla forza, e tutti asseriscono di avere il fondamento nella ragione”. Non esiste una vera differenza qualitativa tra i regimi politici giacché “nei fatti, con o senza suffragio universale, è sempre un’oligarchia che governa”. Questa verità elementare viene oscurata dalle dottrine democratiche che, negando la politica come potenza e circolazione-conservazione del dominio delle élite, conducono alla dispersione della sovranità, la quale frana al cospetto dei simboli della “moderna teologia proletaria”.

Bersagli prediletti di Pareto sono le credenze politiche edificanti che accarezzano le idee di uguaglianza, cioè “la teologia del Progresso”, le “tabe dell’umanitarismo”, “la pietà pei delinquenti”, i “governi deboli”. Questi sentimentalismi infrangono il valore della gerarchia, la pregnanza della disciplina e dell’obbedienza. L’autorità si rivela una fortezza sguarnita perché da un secolo ormai “la repressione è diventata sempre più mite” e, davanti alla conflittualità più aspra, si replica con “l’indulgenza sempre crescente”. Come emblema di una esiziale caduta delle prerogative sovrane, lo scienziato sociale rammenta gli scontri di Padova tra “rossi e bianchi” dell’aprile del 1920, quando “il potere centrale non si fece vivo per mantenere l’ordine; guardava benigno la guerra privata”. Dietro al disordine cova il rammollimento della minoranza governante, che esita a decidere le controversie con più spiccate “qualità virili”. Accantonato il pugno di ferro, il governo ripara nel clientelismo e nello scambio quali meccanismi di integrazione dei soggetti organizzati.

In Pareto la crisi dello Stato monoclasse è evidenziata dalle “rovine della sovranità centrale”, allorché compaiono “piccole sovranità locali” e strutture quasi feudali, come i sindacati, provviste di “piccole sovranità particolari”. A suo avviso, “oggi il reggimento «democratico» di molti paesi si può definire, sotto alcuni aspetti, una feudalità in gran parte economica. Qui come mezzo di governo si usa principalmente l’arte delle clientele politiche”. Scompare ogni visione pubblica dei problemi sociali, e tutto l’apparato di governo sembra ridotto a pratica di commercio, particolarismo, scivolamento continuo dell’amministrazione nell’allocazione arbitraria delle risorse. “Lo Stato italiano – sostiene Pareto – altro non è se non una grande clientela”, sicché “da quell’edificio non potete togliere una pietra senza sfasciare tutto”.

La dimensione statuale tende ad allargare la propria sfera d’intervento, e il gigantismo burocratico si disvela come l’espressione di una società in cui la libera iniziativa dei privati viene surrogata con la gestione amministrativa della produzione e ripartizione dei beni. La forma partito tratteggiata da Pareto vede al vertice un nucleo assai ristretto di dirigenti con minimi “fini ideali”, e poi uno strato più ampio ricoperto da figure pronte ad accordare il loro supporto perché mosse da convenienze tangibili. Quando i partiti giungono al potere, “gli uomini che mirano risolutamente a fini ideali sono per loro una specie di zavorra che serve a dare una tinta di onestà al partito; ma assai meglio servono gli uomini che si contentano del godimento del potere e degli onori, che sono una merce non tanto abbondante e perciò ricercatissima dai partiti”.

Il politico paretiano è un abile tessitore di legami con i gruppi di interesse: “occorre, con arte sottile, trovare nella parte economica combinazioni di protezione economica, di favori alle banche, ai trusts, di monopoli, di riforme fiscali ecc. e nelle altre parti, distribuzioni di onorificenze, pressioni sui tribunali ecc., che giovino a coloro che assicurano il potere”. Le idealità si affacciano come semplici maschere all’interno di un recinto politico in cui la supremazia è un bene strategico che si conquista solo con l’elargizione di incentivi materiali. La classe dirigente tradizionale, per Pareto, è responsabile del declino della vecchia Italia, priva di energia vitale da esibire in risposta ai sovversivismi operai. L’età liberale ha sottovalutato nel complesso i “profondi mutamenti che la guerra aveva recato nei sentimenti e negli interessi”, cosicché i governi si trovano senza i fondi “per soddisfare i desideri, i bisogni e la cupidigia” della popolazione.

In definitiva, “i bisogni della politica vengono per tal modo a sovrastare a quelli dell’economia”. Entro un clima di perdurante lassismo, di appannamento dei sommi attributi del potere costretto a negoziazioni e baratti, occorre avere il coraggio di affermare che “il dominio dei forti è generalmente migliore del dominio degli imbelli”. La perdita del senso dell’autorità ha conseguenze devastanti in un contesto marcato da contrapposte concezioni del mondo. Di fronte all’impotenza del potere, Pareto auspica che un movimento radicale, con novelle “legioni di Cesare”, spazzi via il decrepito ordinamento costituzionale. Al parlamento, che non si dimostra altro che “una riunione di combriccole”, il fascismo – in certa misura, “gli eredi dei nostri sindacalisti e dei nostri anarchici” – ha il pregio di opporre la vita, la freschezza politica, la violenza risanatrice, il giovanilismo. Questo richiamo alla nazione, al principio gerarchico fornisce un orizzonte di segno opposto capace di sgonfiare le simbologie agitate dalla sovversione sociale.

L’epoca presente appare a Pareto, le cui lezioni a Losanna sono forse saltuariamente frequentate da Mussolini, e che è anche corrispondente di Sorel, come l’era del mito politico (“ora si rinnovano miti e profezie”). Idoli come la democrazia, il governo dei consigli operai, lo sciopero generale, la Società delle nazioni, si manifestano sul proscenio della politica. L’appiglio mitico mostra una indubbia “efficacia per spingere gli uomini ad operare”, ma non è certo uno strumento utile per “conoscere la realtà sperimentale”, per cui i ceti dominanti devono serbare un lucido disincanto nell’analisi. Dunque, contrariamente agli irrazionalisti stregati dalla rivoluzione conservatrice, Pareto propugna un saldo aggancio ai canoni di una sociologia che sposi un rigoroso metodo “esclusivamente sperimentale, come la chimica, la fisica ed altri simili scienze”.

Alla fabbrica delle mitologie spetta sfornare in serie le semplificazioni necessarie per sedurre la moltitudine altrimenti catturata dai sovversivi. L’ordine, la patria, la sicurezza sono i vessilli branditi per spegnere i sogni di cambiamento e l’effervescenza del conflitto sociale. Lo scenario che Pareto dipinge è quello caratteristico di una guerra civile: “si ha un’indulgenza ognora crescente per i delitti commessi in occasione di scioperi o di altre contese economiche, sociali, politiche”; il governo compie un gesto di resa quando “impone agli agenti della forza pubblica di non fare uso delle armi”; svanita la cura armata della polizia, “la repressione per mezzo dei tribunali si fa pure ognor più fiacca”.

L’universalismo democratico, secondo Pareto, prelude al tracollo dello Stato. Egli ribadisce la sua convinzione che “gravissima illusione è quella degli uomini politici che si figurano potere supplire con inermi leggi all’uso della forza armata”. È per lui insostenibile l’assioma secondo cui il sedizioso “non merita la pena di morte”. Da un liberalismo dai tratti conservatori il sociologo sprofonda così in una prospettiva autoritaria, che contesta l’opinione comune secondo la quale “se gli agenti della forza pubblica non si lasciano accoppare senza usare le armi, si dice che mancano di ponderato giudizio, che sono impulsivi, neurastenici”.

Non stupisce la convergenza di un cultore della forza con il fascismo. Denunciato il consenso democratico come una fede falsa, rigettata come mistificazione la “teologia della ragione”, rifiutate le procedure elettorali egualitarie di investitura del potere, non resta che glorificare la rottura della legalità come invariante (“nel mondo non vi è alcun reggimento politico che non abbia per origine l’illegalità”). Tuttavia, in questo modo, la spiegazione causale dei fenomeni sfuma fatalmente in una metafisica degli istinti, nel naturalismo. La psicologia, l’agire puro allontanano dalla regolarità, dalle costanti sistematiche.

Un analista dei comportamenti irrazionali delle masse segue – egli stesso! – l’onda dell’irrazionale dandosi in preda alla terapia fascinosa dell’autoritarismo. Dietro l’abbaglio politico c’è un nodo speculativo ben colto da Parsons, quando scrive che “Pareto aprì la strada allo sviluppo esplicito di una teoria volontaristica dell’azione”. L’accasamento del (solamente nominato) senatore Pareto nel palazzo del fascismo non è il mero deragliamento di uno studioso smarrito. Anche in virtù dell’intreccio concettuale, l’ideatore di un sistema sociale che non si può modificare che per “gradi insensibili” si affida al totalmente altro, ad un fattore di destabilizzazione che, nella sua furia perturbatrice, viene però salutato come opportunità per ristabilire l’equilibrio razionale perduto. Michele Prospero 30 Agosto 2023

 Scettico, cinico, elitario: un Pareto duro da scalare. Anticipò il concetto di conoscenza probabilistica. E lesse la storia come un succedersi di "minoranze". Francesco Perfetti l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Un autentico ma eccentrico liberale come Paolo Vita-Finzi dedicò a Vilfredo Pareto un intero capitolo di quel suo delizioso libretto intitolato Le delusioni della libertà (IBL Libri) che, apparso nel 1961, offriva una panoramica suggestiva (ma per molti dei lettori dell'epoca alquanto urticante) di intellettuali, francesi e italiani, che sarebbero stati «inconsapevoli precursori del fascismo», avendo messo in discussione principi e meccanismi del parlamentarismo. Egli ci presenta il grande economista e sociologo come «critico implacabile di tutto e di tutti», un personaggio che richiama alla mente «un Longanesi scientifico con la barba bianca alla d'Aragona» il quale «dovunque colpisce lascia il segno» anche se «a dispetto dell'ostentata imparzialità le sue frecce più frequenti e più puntute sono dirette contro la democrazia parlamentare».

In effetti, una caratteristica di Pareto fu proprio quel gusto della polemica e dell'invettiva che egli alternava, o combinava, in maniera apparentemente contraddittoria e paradossale con l'esaltazione della «neutralità» della ricerca scientifica. Scettico con qualche venatura di cinismo, nemico di tutte le ideologie assimilate a religioni laiche, passionale e ironico, cultore della libertà e delle libertà, era, a ben vedere, un vero conservatore.

Rampollo di una famiglia dell'aristocrazia ligure, egli nacque nel 1848 a Parigi, dove il padre si era rifugiato come esule politico perché mazziniano. Compiuti gli studi in Italia si laureò in ingegneria al Politecnico di Torino e si trasferì a Firenze, dove entrò in rapporti di amicizia con i moderati toscani. Qui, accanto all'attività professionale iniziò il lavoro pubblicistico in difesa del libero-scambio e contro le politiche di tipo protezionistico.

Nell'ultimo decennio del secolo decimonono - scoperta l'economia pura e, grazie a Maffeo Pantaleoni, Léon Walras, del quale sarebbe stato successore nell'insegnamento di economia politica all'Università di Losanna - si dedicò alla attività scientifica e accademica abbandonando altri impegni pratici. Apparvero, così, le sue opere più importanti, dal Cours d'Économie politique (1896-1897) al Trattato di sociologia generale (1916) passando per Les systèmes socalistes (1902) e il Manuale di economia politica (1906). E si precisarono le tappe di un edificio teorico e scientifico la cui solidità non è stata intaccata dal trascorrere del tempo.

Indossando le vesti dello scienziato, Pareto sosteneva che l'economia dovesse essere studiata come si studiano le scienze naturali, aggiungendo che, comunque, non sarebbe stata mai possibile la conoscenza, «in tutti i suoi particolari», di «alcun fenomeno concreto», potendosi al più «soltanto conoscere dei fenomeni ideali, che si avvicinano sempre più al fenomeno concreto»: anche le «leggi» scientifiche perdevano, così a suo parere, il carattere di certezze assolute e si trasformavano in «uniformità» destinate a ripetersi rebus sic stantibus, cioè a parità di condizioni. Era, questa, una affermazione rivoluzionaria che introduceva a livello epistemologico quel concetto di conoscenza probabilistica che avrebbe caratterizzato poi - si pensi alla meccanica quantistica e al «principio di indeterminazione» di Werner Karl Heisenberg - le scienze esatte.

Il passaggio dall'economia alla sociologia fu naturale: per esempio la curva di distribuzione dei redditi equivale alla curva di eterogeneità sociale, che illustra la stratificazione sociale, cioè la disposizione dei ceti all'interno della società e mostra anche come il ceto borghese rappresenti il vero e proprio serbatoio delle élites tanto economiche quanto politiche.

Il nome di Pareto sociologo è legato indissolubilmente, insieme a quelli di Gaetano Mosca e di Roberto Michels, alla cosiddetta «teoria delle élites», un filone speculativo che si innesta sulla tradizione «machiavelliana» di realismo politico. A tale teoria egli offrì un contributo fondamentale introducendo i concetti di «circolazione delle élites» e di «velocità di circolazione». Una frase famosa - «la storia è un cimitero di aristocrazie» - sintetizza il suo pensiero e la sua visione della storia che non è affatto «ciclica», ma «ondulatoria» con situazioni che possono riproporsi in circostanze e modalità tuttavia diverse e delle quali sono, comunque, protagoniste le élites. In altre parole la storia è un continuo succedersi di «minoranze», le élites appunto, che, di volta in volta, si formano, entrano in competizione e, ricorrendo alla forza e all'astuzia, conquistano il potere, ne profittano, decadono e sono puntualmente sostituite da altre «minoranze» a loro volta in grado di imporsi.

Indagatore delle «azioni logiche» e di quelle «non logiche» proprie dei comportamenti individuali e collettivi, Pareto sosteneva la «neutralità» e la «avalutatività» della ricerca scientifica. Cionondimeno seguiva la vicende politiche ed economiche con partecipazione e passionalità cercando di spiegarle, a sé e agli altri, con i risultati dei suoi studi. In questo quadro rientra, per esempio, quella lucida analisi della disgregazione dell'autorità statale e della degenerazione della «democrazia» in «plutocrazia demagogica» contenuta negli articoli poi confluiti in Trasformazione della democrazia (1921) che costituiscono una eccellente spiegazione del formarsi delle condizioni favorevoli all'avvento del fascismo al potere.

Al movimento fascista egli guardò con simpatia e attenzione. Nell'aprile del 1923 a un giornalista ch'era andato a intervistarlo nella villetta di Céligny dove viveva in compagnia di tanti adorati gatti, disse che a «questo fenomeno politico di particolare interesse» aveva guardato con «la visione assolutamente obiettiva» usata «nell'esame d'altri molti fenomeni politici, economici e sociali» cioè col suo «solito metodo sperimentale». E il giudizio era stato positivo: all'inizio il fascismo si era presentato come «una reazione spontanea e un po' anarchica d'una parte della popolazione contro la tirannide rossa a cui i precedenti Governi avevano concesso ogni licenza», poi si era affermato perché aveva dato «una meta attiva alla religione nazionalista di difesa dello Stato e di rinnovamento sociale».

Mussolini si considerava suo discepolo, tant'è che lo fece includere nella lista da sottoporsi al Re per la nomina dei senatori del Regno. In realtà quella nomina non andò a buon fine perché Pareto non esibì i documenti richiestigli non già - come è stato erroneamente sostenuto - per antifascismo, ma perché non erano in regola essendo egli nel frattempo divenuto cittadino fiumano per poter divorziare. La verità è che, morto il 19 agosto 1923, egli del fascismo vide solo l'inizio e, al pari di tanti liberali di orientamento conservatore, ne fu sedotto. Forse, se fosse vissuto di più, ne sarebbe diventato un avversario. Ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che la sua opera, tanto economica quanto sociologica, resta un monumento insuperato. E, probabilmente, insuperabile.

La libertà è meglio dell'uguaglianza. Parola di Karl Popper. In "La società aperta e i suoi nemici", il filosofo esorta a non sognare "il paradiso in terra". E a porre al centro di ogni decisione la volontà degli individui. Dario Antiseri il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.

Ricorda Ralf Dahrendorf in Erasmiani: «Karl Popper rientrò dall'emigrazione nel 1946 (...). Lavorò alla London School of Economics fino alla pensione e oltre come professore di logica e di metodo scientifico. Rimase un docente spesso arrabbiato, sempre polemico. A mano a mano che i suoi libri allargarono la loro influenza, in particolare fra i leader politici, questi cominciarono a recarsi da lui - o a invitarlo - per riceverne consigli. Era orgoglioso del fatto che a ricercarlo fossero leader politici di ogni orientamento democratico, e per questa via portò molte delle sue opinioni, spesso intransigenti, fra la gente». E proprio qui sta una delle ragioni che ha ravvivato la non mai sopita questione se Popper sia un liberale o un socialista. Ma molti anni prima degli episodi richiamati da Dahrendorf, era stato Rudolf Carnap a chiedere a Popper da quale parte stesse, se fosse cioè un liberale o un socialista.

«Diventai marxista nel 1915, all'età di 13 anni, e antimarxista nel 1919, quando ne avevo 17. Ma rimasi socialista fino all'età di 30 anni, sebbene nutrissi dubbi crescenti sulla possibilità di vedere associati libertà e socialismo». Questo ha dichiarato Popper in una intervista alla televisione bavarese il 5 gennaio del 1971. Dunque, il rifiuto del marxismo non scosse «in un primo tempo» la fede del giovane Popper nel socialismo: «Il socialismo era per me un postulato etico, nient'altro che l'idea della giustizia. Un ordinamento sociale in cui esistevano grande ricchezza e grande povertà mi appariva ingiusto e intollerabile». E così - fa presente Popper nella sua autobiografia - «per diversi anni rimasi socialista, anche dopo il mio ripudio del marxismo; e se ci fosse stato qualcosa come un socialismo combinato con la libertà individuale, sarei ancora oggi un socialista. E, infatti, non potrebbe esserci niente di meglio che vivere una vita modesta, semplice e libera in una società egalitaria. Mi ci volle un po' di tempo per riconoscere che questo non era nient'altro che un sogno meraviglioso; che la libertà è più importante dell'uguaglianza; che il tentativo di attuare l'uguaglianza è di pregiudizio alle libertà; e che se va perduta la libertà, tra non liberi non c'è nemmeno uguaglianza».

«Dev'essere uno dei princìpi di una politica razionale - scrive Popper ne La società aperta e i suoi nemici - la persuasione che noi non possiamo realizzare il cielo in terra». E va, inoltre, subito precisato che - per dirla con Karl Kraus - «ogni politica consiste nello scegliere il male minore. E i politici dovrebbero manifestare il massimo zelo nella ricerca dei mali che le loro azioni devono necessariamente produrre, invece di nasconderli (...)». Per tutto ciò - è sempre Popper a parlare - «penso che, in politica, sia ragionevole adottare il principio di essere pronti al peggio, nella misura del possibile, anche se, naturalmente, dobbiamo nello stesso tempo cercare di ottenere il meglio. Mi sembra stolto basare tutti i nostri sforzi politici sull'incerta speranza che avremo la fortuna di disporre di governanti eccellenti o anche competenti». La domanda che sta a fondamento di una società libera, della società aperta, non è, infatti, Chi deve comandare? ma quest'altra: «Come ci è possibile controllare chi comanda? Attraverso quali istituzioni governanti incapaci e/o corrotti possono venir rimossi senza spargimento di sangue?».

La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti - è aperta al maggior numero possibile di concezioni sull'uomo, su Dio, sulla storia, sulla politica, sul bene e sul male - ma è chiusa, pena la sua autodissoluzione, ai violenti e agli intolleranti. La società aperta non sarà mai perfetta. E la verità è che in ogni utopista si agita un totalitario assetato di sangue. «In politica e in medicina - annota Popper - chi promette troppo non può essere altro che un ciarlatano. Noi dobbiamo cercar di migliorare le cose, ma dobbiamo sbarazzarci dell'idea di una pietra filosofale, di una formula che converta senz'altro la nostra corrotta società umana in puro oro perenne». Conseguentemente - in una conferenza tenuta a Siviglia nel 1992 - Popper sosterrà che «dovremmo tentare di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra. Penso che questo sia un traguardo difficile da conseguire. Ma sono, tuttavia, sicuro che si tratta di una cosa possibile».

In una lettera del 6 gennaio del 1947 Popper scrive a Rudolf Carnap che in politica è necessario essere «meno religiosi e più concreti» e che il pericolo principale del socialismo è quell'elemento utopico e messianico che «lo spinge così facilmente in una direzione totalitaria». Di contro, l'idea popperiana di un rasoio liberale: «I poteri dello Stato non devono essere moltiplicati oltre necessità». E da qui anche l'idea stando alla quale: liberale è «un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità».

E qua giunti, in un orizzonte come quello delineato, la questione inevitabile è: che fare? E dinanzi a tale interrogativo Popper traccia la grande distinzione tra ingegneria gradualista e ingegneria utopica: «Si tratta della differenza tra un metodo ragionevole di migliorare la sorte dell'uomo e un metodo che, se realmente tentato, può facilmente portare ad un intollerabile accrescimento della sofferenza umana». Non esiste un metodo razionale per determinare quale sia la società perfetta e se è impossibile trovare un accordo su quale sia la città ideale, non è invece particolarmente difficile mettersi d'accordo su quelli che sono i mali più intollerabili della società e sulle riforme sociali da intraprendere con la maggiore urgenza. I mali reali e concreti di cui gli uomini soffrono «ci stanno di fronte qui ed ora. Si può averne esperienza, e li sperimentano ogni giorno persone immiserite e umiliate dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle persecuzioni, dalla guerra e dalle malattie».

Questo scriveva Popper oltre settanta anni fa ne La società aperta e i suoi nemici e si tratta di una proposta valida ieri come oggi. E se è vero che «se la libertà va perduta, tra non liberi non c'è nemmeno uguaglianza», è anche vero - dirà Popper a Carnap - che «la libertà non possa essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, vale a dire senza aumentare l'uguaglianza economica». Da qui: la razionalità di una ingegneria sociale gradualistica che in una Società aperta, cioè libera, esige il massimo impegno del singolo, dei corpi intermedi e dei partiti (non più sorgenti di Verità, ma di proposte) per la risoluzione di problemi reali e di mali concreti piuttosto che baloccarsi, irresponsabilmente, nei sogni dei visionari, nelle nefaste prediche degli ideologi e in quel sonno della ragione che genera mostri.

Il nuovo assolutismo. "Le minoranze sono sfruttate per eliminare ogni dissenso". Eleonora Barbieri su Il Giornale il 30 Aprile 2023

Michael Walzer è da poco tornato a New York da Princeton, dove è Professore emerito all'Institute of Advanced Study e dove ha trascorso anche il periodo della pandemia, come racconta nel nuovo saggio Che cosa significa essere liberale (Raffaello Cortina, pagg. 182, euro 19), scritto proprio mentre era chiuso in casa a causa del Covid. Nato nel 1935 a New York, direttore per trent'anni della rivista Dissent, si è sempre occupato di filosofia politica e morale da una prospettiva liberale ed è celebre per la teoria della «guerra giusta». Ora, come dice durante una chiacchierata via zoom, il suo saggio riflette su «che cosa significa essere un qualcosa liberale: un democratico liberale, un socialista liberale, un nazionalista liberale, una femminista liberale, un ebreo liberale...».

Professor Walzer, perché «liberale» è diventato un aggettivo, come sostiene nel suo libro?

«Il liberalismo c'è ancora, ci sono persone che si identificano in esso. In Europa è una ideologia più vicina alla destra, ovvero quello che noi americani chiamiamo libertarismo: il laissez-faire, l'orientamento al mercato, l'individualismo radicale. In America è un liberalismo in stile new deal, socialdemocratico. In ogni caso non è una ideologia singola e coerente, perciò credo sia più utile pensarlo come un aggettivo, che qualifica altre ideologie».

Per esempio?

«In democrazia, il governo è determinato dalla maggioranza popolare. Ma i democratici liberali ci dicono che la maggioranza non può fare tutto ciò che vuole: esistono dei limiti, definiti dai diritti umani e dalle libertà».

A quali valori si riferisce l'aggettivo «liberale»?

«Apertura mentale, scetticismo, ironia, non fanatismo, desiderio di andare incontro all'ambiguità, riconoscimento delle pluralità e delle diversità. Tutto questo, appunto, qualifica ideologie come la democrazia, il socialismo e il nazionalismo».

Quella ad aggettivo non è una riduzione?

«Credo di no. È importante, perché le sue risposte sono importanti, tanto da qualificare ideologie diverse».

In America però il neoliberalismo esiste: spiega che è stato declinato sia dai Tea Party, sia nelle politiche di Clinton e Obama.

«In America, il neoliberismo è una ideologia economica orientata al mercato che è stata distruttiva e ha provocato l'ascesa del trumpismo».

Anche Clinton e Obama l'hanno favorita?

«Sì, anche loro: Clinton e Obama hanno abbandonato la classe lavoratrice, sono fuggiti... Hanno vinto le elezioni grazie alla classe media altamente istruita e alle minoranze; e questa è stata una strategia elettorale vincente, che ha avuto successo per un po', ma che ha alienato la vecchia base dal Partito democratico. E il trumpismo ha conquistato questa base».

Qual è la differenza fra democrazia liberale e illiberale?

«In quella illiberale, la maggioranza è incarnata da dei líderes máximos, che possono fare quello che vogliono. La democrazia implica che ci siano dei contenimenti alla maggioranza, dei limiti ai poteri del governo, dei pesi e contrappesi, la separazione dei poteri. E poi il riconoscimento dei diritti dell'opposizione, della libertà di espressione e di stampa, e l'idea che le maggioranze siano tutte temporanee: questa volta hai vinto ma, magari, alla prossima perderai... Questi sono i vari strumenti della democrazia liberale».

Lei sostiene che la sensibilità liberale sia universale...

«Lo sappiamo perché i valori liberali sono sotto attacco dappertutto. L'atteggiamento è universale, poi i nomi che prende sono particolari: per esempio posso parlare di ebreo liberale, come di cristiano liberale, musulmano liberale o buddista liberale, perché se ne vedono anche versioni illiberali».

Se questi valori sono sotto attacco, sono anche da proteggere?

«Dovremmo vivere secondo questi valori, e discutere su che cosa significhino davvero, in un certo luogo e in un certo momento».

Lei però è famoso per la teoria della guerra giusta.

«Se non ci fossero altri mezzi disponibili, anche se rifletterei a lungo prima di usare la forza militare, sì. Valori come quello dell'autodeterminazione dei popoli e dell'integrità del territorio nazionale sono difesi dall'Ucraina in questo momento, e sono dei valori base, liberali ma anche nazionali e democratici: valori che devono essere affermati in casa propria, e anche militarmente, se si viene attaccati dall'esterno. Non sono frettoloso a dire di sì a una guerra, ma credo che la loro sia giustificata».

Nel libro parla anche del movimento woke. Dal punto di vista liberale come lo considera?

«Negli Stati Uniti, woke è un nome non del tutto chiaro: generalmente significa molto consapevole dell'oppressione, molto sensibile all'insulto e molto desideroso di difendere le minoranze. E queste possono essere istanze valide, fino a che non prendono una forma molto illiberale, che si traduce nel reprimere chiunque non sia woke, o non lo sia abbastanza. E non provo nessuna comprensione per questo tentativo di negare il diritto di qualcuno di parlare, solo perché pensi che dirà qualcosa con cui non sei d'accordo... Nel mondo molti vogliono ascoltare soltanto le persone con cui già sanno che concorderanno: non è un atteggiamento liberale, è una imposizione».

È una forma di assolutismo?

«Sì, lo è. È il rifiuto di ammettere la possibilità che esistano altre visioni e posizioni politiche».

Nel libro scrive che gli aggettivi «assoluto e «liberale» non si sposano bene.

«Credo che non vadano d'accordo. Se sei a favore della libertà di espressione, e ne ammetti dei limiti, per esempio nei casi di incitamento alla violenza e all'odio, credo che quello che dovremmo fare sia metterci a discutere su quali siano questi limiti, di volta in volta; e forse scopriremo che non sono gli stessi, in luoghi diversi».

E la cancel culture, che pretende di riscrivere la storia?

«È una nuova forma di censura, che arriva sia da destra, sia da sinistra. Nelle università americane, soprattutto da sinistra: gli studenti si rifiutano di ascoltare quelli con cui non sono d'accordo; in politica, soprattutto da destra: ci sono legislazioni statali che proibiscono i libri e i corsi scolastici che danno un resoconto reale della storia americana. Sono molto, molto contrario a entrambe le versioni».

Chi sono i nazionalisti liberali?

«Questo è vostro, la versione italiana: Giuseppe Mazzini è stato il primo di essi, e lo ha provato, sostenendo l'autodeterminazione degli altri popoli, oltre al suo. Questo lo rende un nazionalista liberale. In Cina, per esempio, lo sarebbe un cinese che affermasse i diritti dei tibetani. Il principio è: è la nazione che viene dopo a costituire il test per le nazioni liberali. Il nazionalismo illiberale è, invece, quello di chi respinge i diritti altrui, ad accezione di quelli della propria nazione».

Dice di avere scritto questo libro per «speranza». Quale?

«Spero nel successo dell'aggettivo liberale nei diversi Paesi; spero in una politica decente, come si intitola il libro in originale».

Che cos'è lo scetticismo liberale?

«È un senso di incertezza rispetto alla vita politica: ci sono persone che pretendono di conoscere il corso della storia e che sono sicure di essere in marcia verso una fine che coincide con il destino... Beh, forse non è così: forse quello che cerchiamo di realizzare sarà qualcosa per la quale combatteremo per sempre, forse è una visione che bisogna sempre inseguire e che non si è mai capaci di attualizzare del tutto».

Sostiene che ai ragazzi vada insegnato l'«empirismo critico». Che cos'è?

«Nel mio Paese, e forse anche nel vostro, un gran numero di persone crede a cose che è chiaramente impossibile che possano essere vere, alle teorie complottiste e alle bugie dei demagoghi; perciò è importante che nelle scuole si insegni l'empirismo critico, ovvero imparare a capire quello che è evidente, che cosa significa e che cosa è una argomentazione coerente, e a porre domande critiche e a cercare le prove».

Lei dice che ci si concentra più su altre cose come l'identità, il genere sessuale, la diversità.

«Sono cose importanti, per esempio la storia americana va insegnata con onestà, per quanto riguarda la schiavitù e la discriminazione. Ma credo che si possa anche esagerare l'importanza della diversità e far concentrare troppo i ragazzi su ciò che hanno di diverso dagli altri, mentre bisognerebbe concentrarsi su ciò che hanno in comune».

Che cosa?

«Sono i futuri cittadini della società democratica: tutti hanno questa identità in comune, qualsiasi siano le loro diversità: e l'enfasi, secondo me, deve essere su questa cittadinanza comune».

Convinzioni morali. Il liberalismo non è più un ismo come tutti gli altri. Michael Walzer su L'inkiesta il 28 Aprile 2023

Questo atteggiamento etico-politico non descrive una specifica ideologia e si comprende meglio come aggettivo anziché come sostantivo, dice Michael Walzer in “Che cosa significa essere liberale” (Raffaello Cortina Editore)

Il liberalismo è un ismo come tutti gli altri ismi? Credo lo sia stato in passato. Nel xix secolo e per alcuni anni, e in alcuni contesti, del xx secolo, il liberalismo è stato un’ideologia che abbracciava il libero mercato, il libero commercio, la libertà di parola, le frontiere aperte, lo Stato minimo, l’individualismo radicale, le libertà civili, la tolleranza religiosa, i diritti delle minoranze. Oggi però questa ideologia viene chiamata libertarismo e la maggior parte degli americani che si identificano come liberali non la accetta o, perlomeno, non del tutto.

Tra i liberali degli Stati Uniti, lo Stato minimo e il libero mercato sono stati sostituiti da differenti versioni della regolamentazione, del welfare garantito e della redistribuzione (assai modesta); l’individualismo radicale è stato sostituito da un grado maggiore o minore (perlopiù minore) di mutuo soccorso e di impegno condiviso.

[…]

Oggi in Europa il liberalismo è rappresentato da pochi partiti politici, come il Partito liberale democratico tedesco (fdp), che è libertario in senso contemporaneo e quindi di destra, ma anche da partiti, come i Liberal Democrats nel Regno Unito, che si collocano a fatica tra i conservatori e i socialisti, prendendo dagli uni e dagli altri politiche e programmi ma senza avere un proprio credo forte. Al contrario, il liberalismo statunitense, come ho già indicato, è la nostra versione della socialdemocrazia: il “liberalismo del New Deal”.

Negli ultimi decenni è stato ferocemente attaccato come ideologia di estrema sinistra, cosa che certamente non è. E non è neppure un credo forte, come abbiamo potuto vedere quando molti liberali che si supponeva fossero fedeli a esso sono diventati neoliberali. Il programma neoliberale degli anni Novanta e degli anni Duemila – austerità economica, deregolamentazione e riduzione del welfare garantito – ha rappresentato un mezzo ritorno alla dottrina del xix secolo. Non era del tutto libertario ma ci andava molto vicino, come suggerisce il successo del Tea Party tra i repubblicani. Gli attivisti del Tea Party hanno descritto la loro critica al big government come una difesa della libertà contro il potere statale, ma non hanno fatto una critica simile alle banche e alle imprese che rappresentano il potere economico.

Di conseguenza, la libertà non ha goduto di una difesa su larga scala, mentre la disuguaglianza è stata promossa in modo efficace e, probabilmente, intenzionale. La versione democratica del neoliberalismo negli anni di Clinton e di Obama è stata una politica tiepida e intermedia: un’austerità dal volto umano; la fine, ma non completa, del welfare come lo conoscevamo (l’Affordable Care Act, con i suoi molti compromessi, è stata una parziale eccezione). I politici democratici hanno più o meno abbandonato l’impegno dei liberali del New Deal per il benessere di quanti stavano in fondo alla gerarchia capitalistica. Hanno assistito al costante declino dei sindacati, facendo ben poco per impedirlo. Hanno reciso, di fatto, i legami instaurati un tempo con la classe lavoratrice e non sono stati in grado di affrontare il populismo e il nazionalismo che le loro politiche hanno contribuito a provocare. Il neoliberalismo non è mai stato un credo duraturo o sostenibile ed è probabile che negli anni a venire lo vedremo abbandonato dalla maggior parte dei suoi difensori.

Il presidente Joe Biden e i suoi consiglieri e alleati hanno provato ad abbandonarlo completamente e a ripristinare il New Deal, ma senza riscuotere il successo che avevano promesso nel 2020. I liberali sono ancora un gruppo identificabile, e presumo che i lettori di questo libro ne facciano parte. Forse ci sfugge l’accezione più antica del termine, che descrive una vita vissuta nell’ozio a coltivare la mente; ma non l’ozio dei ricchi indolenti: semmai, un impegno dal passo lento e riflessivo nelle “arti liberali” e nell’apprendimento della cultura classica.

Il gentiluomo di un tempo – e talvolta anche la gentildonna – non era soltanto il detentore di un certo rango nella gerarchia sociale, ma anche e soprattutto una persona di modi gentili e mente curiosa. Credo che oggi i liberali come noi siano meglio descritti in termini morali anziché in termini politici o culturali: noi siamo, o aspiriamo a essere, di mentalità aperta, generosi e tolleranti. Siamo in grado di convivere con l’ambiguità, siamo pronti ad affrontare dispute che non sentiamo di dover vincere. Qualunque sia la nostra ideologia, qualunque sia la nostra religione, noi non siamo dogmatici, non siamo fanatici. O, come disse l’attrice Lauren Bacall a un intervistatore, un liberale è qualcuno che “non ha una mente piccola”.

La sensibilità liberale che si accompagna alla morale è quasi certamente meglio rappresentata in letteratura che in politica. O, quantomeno, ho imparato a percepire questa sensibilità e a valorizzarla leggendo poeti come la polacca Wisława Szymborska, l’israeliano Yehuda Amichai e tre americani: Philip Levine di Detroit, Philip Schultz di New York e C.K. Williams di Princeton. Ce ne sono anche altri, ma sono loro cinque in particolare ad avermi insegnato qualcosa sulla generosità, sulla compassione, sull’umorismo e sull’ironia gentile che si accompagnano all’aggettivo “liberale” ma che non escludono la rabbia e un feroce realismo.

La morale liberale viene talvolta sintetizzata dal detto “Vivi e lascia vivere”, che però non è del tutto corretto, perché noi non siamo relativisti. Riconosciamo i limiti morali; soprattutto, ci opponiamo a ogni sorta di intolleranza e di crudeltà. La mia maestra e amica Judith Shklar, in un libro delizioso sui sette peccati capitali, sostiene che dovremmo sempre “mettere la crudeltà al primo posto” tra i peccati che cerchiamo di non commettere (Vizi comuni, 1984). È una buona introduzione alla morale liberale. Credo che Democratici e Repubblicani, democratici e repubblicani con la minuscola, libertari e socialisti possano e debbano essere liberali di questo tipo.

Per tutti questi gruppi, considerati al loro meglio, la morale liberale viene con il territorio. Ma né il liberalismo vecchio stile, né il neoliberalismo, né il socialismo democratico, né alcuna ideologia onnicomprensiva sono imposti dalla morale liberale o dalla sensibilità liberale: conosciamo tutti democratici e repubblicani, libertari e socialisti che sono dogmatici e intolleranti.

[…]

Il nostro legame con il liberalismo si manifesta in modo molto differente da quanto suggerito dal sostantivo e dall’ismo. Io lo interpreto come una connessione aggettivale: noi siamo, o dovremmo essere, democratici liberali e socialisti liberali. Io sono anche un nazionalista e un internazionalista liberale, un comunitario liberale, un femminista liberale, un professore e talvolta un intellettuale liberale, un ebreo liberale.

L’aggettivo funziona più o meno allo stesso modo in tutti questi casi, e il mio obiettivo è descrivere la sua forza in ognuno di essi. Come tutti gli aggettivi, “liberale” modifica e complica il sostantivo collegato, con un effetto talora vincolante, talora ravvivante, talora trasformativo. Definisce non le persone che siamo, ma in che modo siamo le persone che siamo, ovvero come mettiamo in atto i nostri impegni ideologici. Nel suo significato originario, il liberalismo era un’ideologia occidentale, il prodotto dell’Illuminismo e il trionfo (in letteratura e in filosofia, se non nella vita quotidiana) dell’individuo emancipato – una figura dell’Occidente.

Ma gli aggettivi “liberale” e “illiberale” possono utilmente descrivere i membri di altre culture che utilizzano sostantivi diversi per dare un nome ai propri impegni e che qualificano tali sostantivi in un idioma differente. Presumo che la morale liberale e la sensibilità liberale siano universali. Devono esserlo, giacché oggi sono visibilmente sotto attacco in tutto il mondo – anche qui negli Stati Uniti. Esaminerò, capitolo per capitolo, i sostantivi che definiscono i miei impegni, e in un capitolo la mia vocazione, e poi cercherò di descrivere esattamente come l’aggettivo “liberale” qualifichi l’impegno.

La mia argomentazione, molto semplicemente, è che l’aggettivo non può stare in piedi da solo come comunemente viene fatto credere (aggiungendo l’“ismo”); ha bisogno dei suoi sostantivi. Ma i sostantivi, gli impegni sostantivati, non saranno mai ciò che dovrebbero essere senza l’aggettivo “liberale”. Senza l’aggettivo, i democratici, i socialisti, i nazionalisti e tutti gli altri possono essere, e spesso lo sono, monisti, dogmatici, intolleranti e repressivi. L’aggettivo, come cercherò di dimostrare, impedisce l’uso della forza e favorisce il pluralismo, lo scetticismo e l’ironia. 

Da “Che cosa significa essere liberale” (Raffaello Cortina editore), di Michael Walzer, p. 171, 19€

I cent'anni vincenti dei liberali. Guarda guarda, chi si rivede: i liberali. Ma non erano estinti? Paolo Guzzanti il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guarda guarda, chi si rivede: i liberali. Ma non erano estinti? Al contrario, se avete seguito la politica politicante degli ultimi anni, c'è sempre un momento in cui sia a destra che a sinistra e salvo rare eccezioni, tutti si dichiarano liberali. Tanto, che cosa costa? Dichiararsi liberali, è liberatorio. I liberali rappresentano una vera e unica ideologia vincente sulle finte ideologie illiberali derivate dai rimasugli dell'hegelismo un utero comune per comunisti, fascisti, socialisti. Invece, il liberalismo è il pensiero sopravvissuto alle tristi guerre degli illiberali, oggi ancora sparsi e alla ricerca della strada di casa. La novità è che a cento anni dalla nascita il Partito liberale riparte non come vecchiume ma come una necessità già annunciata a Roma con una celebrazione pubblica cui ha partecipato, con il centro destra e Forza Italia promotrici, alla ricerca dei liberali sparsi alla ricerca della via di casa. Oggi, ci sarà un'uscita a Prato con il segretario nazionale Roberto Sorcinelli, il presidente Francesco Pasquali e tanti altri. Perché gioire della rinascita dei liberali? C'è un'Italia che è stata sempre maggioritaria che vuole riconquistare la sua leadership e che ha tutte le energie per farlo, Suona di parte? È vero. I liberali sono di parte e della parte giusta, quella che affiancò Berlusconi nel momento in cui fu impedita la presa del potere dei comunisti guidati da Occhetto, non appena caddero i muri.

Antonio Martino fece conoscere all'Italia Friedman, ispiratore di Reagan e Thatcher. Il ricordo della senatrice Biancofiore: "Siamo cresciuti con la rivoluzione liberale dell'inizio di Forza Italia nel cuore". Il ministro Sangiuliano: "È stato l'unico interprete del pensiero di Milton Friedman". Luca Sablone l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.

Un'iniziativa per tramandare il ricordo di idee intramontabili che hanno segnato la cultura liberale del nostro Paese e che ancora oggi rappresentano un patrimonio da salvaguardare. Proprio per questo motivo si è tenuta al Senato della Repubblica, su iniziativa della senatrice Michaela Biancofiore, la conferenza dal titolo La parola a Friedman, ricordando Martino a poche settimane dall'anniversario della morte di Antonio Martino. All'evento hanno preso parte anche parlamentari e accademici.

Il promotore dell'evento è stato Milton Friedman Institute, l'istituto politico-economico italiano che si occupa di promuovere la figura politico-accademica dell'economista e di divulgare le sue teorie liberali e liberiste. Quelle di Martino e Friedman sono due personalità di cui l'Italia ancora oggi avrebbe bisogno.

Biancofiore: "Le radici di Forza Italia"

Importante è stato il ricordo di Michaela Biancofiore, che ha indicato Martino come un prezioso "punto di riferimento per la mia generazione, per noi ragazzi cresciuti con la rivoluzione liberale dell'inizio di Forza Italia nel cuore". La senatrice ha annotato che quella del passato era "la miglior classe dirigente liberale" dell'Italia, che poteva così contare su un livello culturale che allo stato attuale è assai complicato trovare.

Biancofiore ha poi posto l'attenzione sull'importanza delle teorie dell'economista americano, un pensiero che ancora oggi risulta essere molto attuale specialmente se si considera l'assistenzialismo sfrenato ad esempio del reddito di cittadinanza: "Entrambi sostenevano che nei fatti l'assistenzialismo e il socialismo creassero la povertà, come dimostrato tra l'altro dall'aumento esponenziale dei poveri registrato durante il governo delle sinistre, e che invece lo sviluppo venisse portato avanti dall'impresa, la cui etica è quella del profitto".

La senatrice di Forza Italia ha affermato che al centro della visione di ogni governo dovrebbe esserci il pensiero di uomini del liberalismo come Martino e Milton Friedman. A tal proposito si è detta ottimista grazie all'operato dell'esecutivo guidato da Giorgia Meloni: "Con questo governo dobbiamo provare in ogni modo a realizzare la rivoluzione liberale che purtroppo con i precedenti governi di centrodestra è rimasta incompiuta".

Sangiuliano: "Martino l'unico interprete"

Dal suo canto Gennaro Sangiuliano ha riconosciuto ad Antonio Martino quello che può essere considerato un vero e proprio grande merito storico: "È stato l'unico interprete del pensiero di Milton Friedman quando nessuno in Italia sapeva chi fosse". Il ministro della Cultura ha ricordato che Friedman rientra nell'area di quegli economisti che hanno sentito la necessità di rielaborare il pensiero economico in chiave antimarxista per porre l'individuo al centro.

Anche Sangiuliano ha voluto dedicare parte del suo intervento all'attualità delle lezioni di Friedman. Poi ha citato un esempio per quanto riguarda una linea di Martino: "Diceva che si possono fare due cose: o tassare i cittadini e con i proventi delle tasse organizzare degli spettacoli culturali che il cittadino sarà costretto a seguire, oppure lasciare i soldi nelle tasche del cittadino che autonomamente sceglierà quale spettacolo andare a vedere tra i teatri in concorrenza tra loro".

Infine il ministro della Cultura ha invitato a ricordare cosa fosse l'Occidente negli anni Settanta del secolo scorso. "Ipersindacalizzato con una macchina produttiva anchilosata e obsoleta. E fu la rivoluzione di Margaret Thatcher e Ronald Reagan - ha concluso -, ispirata da Milton Friedman, a rimettere in moto l'economia e a modernizzare la società".

"Fu un uomo straordinario". Il ricordo per Antonio Martino. Federico Bini il 28 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Il 5 marzo 2022 moriva Antonio Martino. Economista, politico, intellettuale, è stato uno degli italiani più stimati del XX secolo. Rispettato ma non ascoltato, i suoi insegnamenti sono oggi attualissimi e preziosi

Piccola premessa. Ha ragione Daniele Capezzone quando a metà dell’evento in ricordo di Antonio Martino, in maniera un po’ provocatoria – come tipico del suo stile - ringraziando il presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana afferma che nei confronti dell’ex ministro liberale “c’è stata parecchia avarizia in ogni sede istituzionale”. In effetti l’evento di oggi, ha rappresentato un punto importante di svolta nella storia del liberalismo italiano. Martino è tornato a casa, e lo ha fatto dalla porta principale che conduce verso quel Salone della Regina dove lo attendono i vertici militari, uomini dello Stato, parlamentari, esponenti del mondo culturale e giornalistico, nonché tanti estimatori.

In una sala gremita e tirata a lucido dal cerimoniale come per le grandi occasioni, a farla da padrone, con il suo fare garbato, è Gianni Letta. È forse suo il ritratto più bello e commosso che emerge in questa tranquilla e uggiosa mattinata romana. Lui che aveva già conosciuto Gaetano Martino, il padre di Antonio, ministro degli Esteri (Pli), stimatissimo da De Gasperi, e tra i fondatori dell’Europa. All’apparenza poteva essere un’infanzia agiata, ma anche pesante, di mezzo c’era quel cognome che avrebbe spaventato chiunque. Invece lui, in punta di piedi, e sempre con il rispetto e i consigli del padre, suo vero esempio, decise di seguirne le orme. E quando Berlusconi nel 1994 varò il primo governo preferì andare alla Farnesina, divenendo ministro degli Esteri, per onorare la memoria paterna (e della famiglia). Era il raggiungimento e il coronamento di una carriera che fece di questo “figlio d’arte” uno dei più autorevoli economisti, pensatori e politici del ‘900 italiano e internazionale.

Il presidente Fontana lo ha omaggiato come “un anticonformista, rispettoso degli avversari, autorevole economista, dalla battuta ironica e dal sarcasmo amaro”, ma soprattutto ne ha evidenziato il suo profondo amore per quella libertà che fu alla base di ogni scelta della sua vita: “Libertà per la quale aveva un autentico culto”. È proprio dal concetto di libertà che si inserisce l’intervento appassionato di Gianni Letta, segnato da qualche appunto che si era portato con sé, utile giusto per citare alcune frasi di Martino ed altri amici. Per il resto lo storico direttore del Tempo, alla soglia di 90 anni, è un vortice di ricordi, aneddoti e battute, grazie alle quali riesce a prendere lentamente per mano il pubblico rendendolo partecipe del suo sentito e commosso ricordo. “Quella di Antonio è stata una vita straordinaria, di un uomo straordinario… Le sue lezioni erano fuochi d’artificio”, ma aggiunge: “Era un liberale di minoranza che gioiva ad essere controcorrente e per convinzione non si piegava alla cultura dominante e conformista. Fu un liberale autentico, e dopo di lui non ho più trovato uomini così autenticamente liberali”.

E quindi c’è spazio per alcuni episodi poco noti della prestigiosa e impegnata vita intellettuale e politica di Martino, come quando da studente di Giurisprudenza fece una tesi su Keynes. Smontò le sue teorie, prese 110/110 e lode, nonostante il professore fosse uno dei più attenti e impegnati studiosi dell’economista britannico: “Fu un paradosso, eppure ci riuscì” (G. Letta). Fu Fedele Confalonieri, al vertice del gruppo, con Letta vicepresidente, a chiamarlo ad un tavolo settimanale in cui c’erano anche Marconi, Bozzo, Urbani, Del Debbio, per dare maggiore spessore culturale alla comunicazione del gruppo televisivo. Berlusconi, venuto a conoscenza di queste riunioni, si fece mandare le varie schede, ascoltava Martino con attenzione “e forse”, dice Letta, “fu in quel cenacolo che Silvio prese la decisione di scendere in campo…”.

Raimondo Cubeddu, professore di filosofia politica, menziona commosso quando – a Pisa - in occasione di una conferenza “tra amici liberali, si presentò anche Antonio, e per me fu un grandissimo onore. Io e la mia famiglia non dimenticheremo mai”. In quella occasione, ebbe modo di presentargli il suo nipotino di cinque anni a cui disse: “Adesso non lo sai, ma un giorno capirai con chi stai parlando”. La conclusione non poteva non essere affidata ad uno dei migliori allievi di Martino, Nicola Porro, autore del libro Il padreterno è liberale in cui omaggia il suo maestro. Davanti ad una Carol Erickson Martino emozionatissima, il vicedirettore del Giornale, ha riconosciuto una delle principali caratteristiche del politico liberale: il suo essere semplicemente anticonformista. E ha concluso, tra gli applausi: “Il suo grande insegnamento non è tanto di essere liberali, ma quello di essere aderenti alla realtà e non pensare che se tutti dicono una cosa, quella cosa vuol dire che sia giusta”.

Tributo a Martino a un anno dalla morte. Gianni Letta: "L'Europa nacque a casa sua". Il ricordo dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. La commozione di Fontana e gli elogi di Capezzone e Porro. Lanfranco Palazzolo l’1 Marzo 2023 su Il Giornale.

Europeista, filoatlantico, liberale, ma soprattutto un grande uomo. Questo è il ricordo che ha tributato ieri la Camera dei deputati ad Antonio Martino, economista, ministro degli Esteri e della Difesa ed esponente di Forza Italia. Ad un anno dalla scomparsa, a Montecitorio erano presenti la moglie Carol Erickson, le figlie Alberta ed Erica, il nipote Pietro Marcellino e tanti amici e uomini delle istituzioni che si sono uniti alla famiglia Martino. E la commozione del presidente della Camera Lorenzo Fontana ha confermato che quello di ieri non è stato un ricordo convenzionale. La terza carica dello Stato ha definito Martino come un «protagonista della vita politica e intellettuale degli ultimi decenni». Ad introdurre l'evento è stato il giornalista Daniele Capezzone, che ha ringraziato il presidente della Camera Fontana «perché un anno fa, i giorni successivi alla scomparsa di Martino, ci fu molto rispetto ma anche tanta avarizia in ogni sede istituzionale e nei media nel suo ricordo». Gianni Letta, che è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio del primo governo Berlusconi, ha definito Antonio Martino «un gran signore, una persona spumeggiante che amava la battuta sferzante, ma sempre nel rispetto degli avversari». Letta ha sottolineato che l'ex ministro «ha visto nascere l'Europa a casa sua a 13 anni», quando suo padre Gaetano Martino, da ministro degli Esteri, nel 1955, «invitò i ministri degli Esteri del futuro MEC a Messina» per una Conferenza che segnò la svolta per i trattati di Roma (1957). Letta ha tracciato il coraggio dell'esponente politico di Forza Italia della difesa del «primato della persona» e «contro le politiche dirigiste», definite dallo stesso Martino come «dispotiche».

Il filosofo Raimondo Cubeddu ha illustrato il pensiero di Martino. Prendendo le mosse dal suo liberalismo, il docente ha ricordato un aspetto poco conosciuto della vita accademica di Martino, la presidenza della prestigiosa Mont Pelerin Society, fondata da Friedrich von Hayek, preceduta da quella di Bruno Leoni. Aspetto che è stato ricordato anche dall'economista Guido Stazi. Il vicedirettore de il Giornale Nicola Porro, autore di un saggio su Antonio Martino dal titolo «Il Padreterno è liberale. Antonio Martino e le idee che non muoiono mai» (Piemme), ampiamente citato da Gianni Letta, ha spiegato che su Martino è stato commesso un errore quando è stato definito «iperliberista», solo perché «non era un conformista. Questo non significa affatto che fosse un estremista».

Il padreterno è liberale. Il libro di Nicola Porro su Antonio Martino è un’occasione persa. Beppe Facchetti su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

L’intento dichiarato è quello di rendere omaggio all’ex ministro degli Esteri di Berlusconi, intellettuale controcorrente che merita gli elogi dell’autore. Ma gli spunti interessanti vengono nascosti da una serie di divagazioni che mettono in secondo piano la figura principale

Fëdor Dostoevskij l’aveva motivato un po’ meglio di Nicola Porro, nel suo libro “Il padreterno è liberale” (Piemme), perché senza scomodare il Principale, aveva attribuito a Cristo il ruolo del liberale eversivo. È lo straordinario capitolo de “I fratelli Karamazov” dedicato al Grande Inquisitore, che fa incarcerare a Siviglia il Cristo ritornato sulla terra, perché non porti di nuovo scompiglio con le sue idee di libertà.

Ma ignorare il copyright non è il punto critico principale del volume del vicedirettore del Giornale e conduttore di una trasmissione tv che ha qualche merito, ad esempio quello di aver raccontato molto bene, nell’indifferenza degli altri media, la triste vicenda Palamara.

Il problema è che il libro cerca troppi bersagli polemici contemporaneamente e finisce per essere dispersivo. L’intento dichiarato, e cioè un legittimo e commosso omaggio ad Antonio Martino, viene annegato in una serie di divagazioni spesso troppo rancorose, su destra e sinistra, liberismo e liberalismo, che finiscono per mettere in secondo piano la testimonianza sul ministro degli Esteri del primo governo Berlusconi, recentemente scomparso.

È un peccato, perché non mancano approfondimenti e riferimenti anche inediti di indubbio interesse, dato che Porro è stato suo collaboratore diretto alla Farnesina nella breve vicenda di quel Governo, che pagò quasi subito l’azzardo di un progetto che pure aveva sconfitto alle elezioni la macchina da guerra di Achille Occhetto, grazie all’acrobatica alleanza al Nord con i secessionisti bossiani e al Sud con i nazionalisti di Alleanza Nazionale. Un ossimoro politico.

Vero è che in seguito avremmo visto di peggio, con il tutto e contrario di tutto dei due esecutivi di Giuseppe Conte (per non dire dell’attuale tragicomica versione progressista), ma una cosa del genere – a ripensarci – era davvero l’inizio della fine della politica, che tuttora stiamo pagando. Perché quando si abbandonano i fondamentali, inseguendo favole nuoviste, si finisce solo per perdere la bussola e risvegliarsi populisti.

Un tale disinvolto modo di mettere insieme un Governo vincente nelle urne – furono Bossi e Buttiglione ad abbatterlo dopo pochi mesi – dovette comunque piacere molto a Martino, perché il professore siciliano era un delizioso anticonformista, che godeva ad essere controcorrente.

Non a caso, nell’Italia già allora pseudokeynesiana, dominata dal pensiero unico di Franco Modigliani e dei suoi seguaci, fino a Mario Draghi compreso, Martino aveva scelto il posizionamento accademico più scomodo, quello del seguace di Milton Friedman, un premio Nobel mai digerito dall’intellighenzia italiana che disconosceva il liberalismo e in economia aborriva acriticamente il liberismo.

Quando uscì – tanti anni dopo – un libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi intitolato “Il liberismo è di sinistra” l’avevamo appena acquistato in libreria quando incontrammo casualmente per strada il professore e sadicamente glielo mostrammo, attenuando l’offesa con un parere negativo sulla scelta del titolo (era meglio dire liberalismo, non liberismo) ma Antonio – che era un gran signore – abbozzò solo un sorriso che nascondeva una smorfia. La parola sinistra lo faceva star male.

Per lui, il liberismo di Friedman, come il Porro biografo racconta bene, era stata una scelta di vita, una sliding door che lo aveva bloccato a Chicago al seguito del grande economista americano.

Antonio Martino, oltre ad essere un gran signore, era una persona davvero di qualità umana e intellettuale straordinaria. Un liberale autentico, anche quando era difficile condividere le sue opinioni, comunque mai banali. Amava forse fin troppo lo scandalo intellettuale e di questo eccesso è prova, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, lo scetticismo sull’Europa, che andava ben oltre la giusta critica sulle istituzioni di Bruxelles.

In una delle sue ultime uscite pubbliche, forse proprio l’ultima, invitato da uno pseudo Partito Liberale europeo, uno dei tanti velleitari tentativi di organizzare improbabili liberali, gli sentimmo dire in streaming, cose terribili, che lasciarono sconcertati gli stessi organizzatori, che fino a pochi minuti prima, avevano sciorinato tutto il consueto bagaglio retorico in materia. Sembrava quasi emergere un complesso conflitto psicologico postumo con il grande padre Gaetano Martino, fondatore dell’Europa dei trattati.

Ma Antonio era fatto così, ti disarmava con il suo sorriso gentile, con il suo garbo, con i modi antichi e cortesi. Non potevi non volergli bene, anche se il Martino politico era diverso, forse inadatto a questa funzione, pur esercitata per cinque legislature e tre mandati governativi.

Doveva essere molto arduo conciliare il suo anticonformismo con un partito padronale come Forza Italia, tutto obbedienza, devozione, cori e musichette, quanto di più lontano dalla sua mentalità. Ma la politica, con certe sue comodità se sei nella fase ascendente, è anche dolorosa contraddizione, vedi alla voce Meloni.

Sta di fatto che la parabola da tessera numero 2 del partito all’emarginazione, è stata quella di un progressivo distacco fino alla rinuncia finale. Esito che ha peraltro riguardato un po’ tutta la pattuglia dei liberali del centrodestra, inizialmente blanditi ma poi evocati solo come ipotesi identitaria da sventolare nelle convention.

Nicola Porro nel suo libro, evoca con toni elegiaci il Congresso del Pli del 1988, del quale Antonio Martino fu protagonista con una candidatura improvvisata alla segreteria, contro Renato Altissimo, ma trascura il dato politico della strumentalizzazione di questa scelta da parte della minoranza del partito, che mandò il professore allo sbaraglio. Ciò non toglie che Martino sostenne la parte con grande dignità e alta qualità intellettuale. Il suo fu un discorso di pregio, senza le smussature che avrebbe poi usato nelle battaglie interne di Forza Italia. Accadeva nella Prima Repubblica che i congressi conoscessero momenti di questo valore anche morale, con intensità ed emotività sconosciuti a chi nei decenni successivi li ha sostituiti con le file ai gazebo.

Ma Porro non ricorda come fu sconfitta l’opzione liberista, per quanto apprezzata dalla platea che non era un parco buoi come fa pensare l’autore. Parlò, in replica, Valerio Zanone, ottenendo un’ovazione decisiva quando respinse l’idea che nella società e nell’economia dovesse prevalere il metodo della Rupe Tarpea, che elimina cinicamente chi non ce la fa in una selezione inesorabile e irreversibile.

Un pensiero in continuità con quello di Giovanni Malagodi, che nelle sue relazioni fiume ai convegni giovanili liberali (in una di esse dedicò almeno un’ora all’esegesi di quel Cristo “liberale” che ricordavamo all’inizio) aveva elaborato la tesi della “Libertà nuova” in cui – anni Sessanta del secolo scorso – evocava già la sfida dell’innovazione informatica e climatica.

Ebbene, Malagodi (a lungo presidente dell’Internazionale Liberale ed autore del brillante aggiornamento del relativo Manifesto) in una di quelle occasioni criticò a fondo quelli che definì con efficacia i “liberali oligarcici”, cioè quei liberali elitari e sdegnosi indisponibili al confronto con i diversi da sé. Per questo, appare francamente offensiva non tanto la battuta, molto martiniana, del Malagodi “non liberale”, quanto la sua accettazione da parte di Porro, che defiinisce “deriva socialista” l’atteggiamento dello storico segretario liberale. Una cosa surreale, fuor d’opera.

In quel Congresso, respingendo la “rupe Tarpea”, Valerio Zanone evocava semplicemente un liberalismo diverso, applicato da segreterie che hanno riportato il Partito Liberale Italiano al Governo in nome di un dialogo tra laici e socialisti, ed è singolare che Nicola Porro metta sullo stesso piano l’opzione di stare al Governo, che è la legittima finalità della politica, con l’essere statalisti.

Per non cadere in contraddizione, Porro accompagna la critica aspra e ingenerosa verso un Partito, il Pli, che è stato al governo complessivamente pochi anni, con solo una flebile riserva verso Forza Italia, nonostante il ventennio ministeriale berlusconiano, ma alla fine tutto si risolve troppo semplicisticamente con la motivazione che “non hanno consentito” a Berlusconi di fare come voleva.

Eppure, lo stesso pentapartito molto criticato, è uno sbocco della crisi italiana dopo il fallimento del compromesso storico, dal quale il Partito Liberale di Zanone si era tenuto lontano, unico ad opporsi.

Da un giornalista cresciuto in una redazione guidata dal rigore di Paolo Battistuzzi forse sarebbe stato giusto attendersi una ricostruzione meno faziosa.

Ciò non toglie che il libro meriti attenzione, con alcune chicche molto interessanti, ad esempio l’ultima intervista a Antonio Martino, in cui l’economista inanella una serie di giudizi non proprio ortodossi, sempre stimolanti.

L’ambientalismo? Una «bestia tremenda», peggio del marxismo. Per non dire del «climatismo» e del «sanitarismo», che ha chiuso la gente in casa. Guido Carli? Non certo un liberale e poi «neppure un granché». La Confindustria? Un’accolita di seguaci di Federico Caffè, che a sua volta rincorreva i propri studenti di sinistra. Il Partito Liberale? I veri liberali ne erano fuori, dentro c’erano solo quelli di sinistra, in particolare i giovani. Berlusconi? Inadatto alla politica, intenzionalmente senza buoni collaboratori. La capacità di scegliere imbecilli l’ha sempre avuta. La Fondazione Einaudi? Un’associazione a delinquere, perché Malagodi non era liberale, salvo nel 1963. I cattolici? Sciocchi in politica, confondono la carità con lo statalismo. Olivetti imprenditore illuminato? Le sue macchine da scrivere facevano schifo. Gli intellettuali? Esistono, ma sono antipatici.

Difficile invece provare antipatia con un intellettuale controcorrente come Antonio Martino, che tra le varie attitudini liberali, sceglie forse quella più identitaria, la provocazione come frutto ma anche come premessa del dubbio, il più sicuro indizio del liberale autentico. Lo ricordiamo anche noi con nostalgia.

Da libertari a censori. Così negli anni Novanta la sinistra ha inseguito le sirene del politicamente corretto. Luca Ricolfi su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Come spiega Luca Ricolfi in “La mutazione” (Rizzoli), i dirigenti del PDS-DS-PD costruirono la loro identità essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra

Gli anni di Moravia e Pasolini, di Visconti e Antonioni, con gli intellettuali e gli artisti compattamente schierati contro la censura e a difesa della libertà di espressione, sono un ricordo lontano. Ormai la mutazione è avvenuta: difendere la libertà di espressione non fa più parte del DNA della sinistra, limitare quella libertà per far valere le ragioni del politicamente corretto è diventata un’opzione possibile.

Ma quando si è prodotta quella mutazione? Quando è accaduto che la sinistra smarrisse la sua vocazione libertaria, e incominciasse a inseguire le sirene del politicamente corretto?

Difficile indicare un momento preciso, ma a me pare che il periodo critico siano stati gli anni Novanta. È in quegli anni, infatti, che la globalizzazione falcidia i ranghi della classe operaia, tradizionale base di consenso della sinistra. È in quegli anni che nella sinistra riformista matura l’illusione che il mercato sia in grado di promuovere equità e merito, e forse pure la credenza che, tutto sommato, agli operai superstiti non sia necessaria una speciale protezione. È in quegli anni, infine, che la presenza e gli arrivi degli immigrati diventano massicci, e offrono alla sinistra una nuova opportunità di definire sé stessa.

È da questi cambiamenti epocali che, verosimilmente, ha preso le mosse il lungo percorso che – complice l’arrivo sulla scena del male assoluto Berlusconi – ha indotto i dirigenti della sinistra ufficiale a costruire l’identità del nuovo soggetto PDS-DS-PD essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra.

Anziché cercare di darsi una base elettorale a partire da un programma economico-sociale, la sinistra ha provato a ridefinirsi come paladina dei nuovi ultimi (gli immigrati) e dei nuovi diversi (LGBT) e, al tempo stesso, come rappresentante della «parte migliore del Paese». Insomma come custode del Bene, argine insostituibile all’avanzata delle destre, fonte perenne di autostima per i propri elettori, sempre più reclutati fra i ceti medi istruiti e urbanizzati.

E come poteva, una sinistra siffatta, non entrare in sintonia con le istanze del politicamente corretto? Come non aderire a un movimento che proclama rispetto delle minoranze, difesa dei deboli, apertura ai diversi, lotta alle discriminazioni, antirazzismo, antisessismo, giustizia sociale, cultura dei diritti? L’antico riflesso condizionato, che per tanto tempo ha portato la cultura di sinistra a giudicare il comunismo per i suoi (nobili) fini, anziché per gli (ignobili) mezzi con cui ha tentato di imporli, ha condotto e conduce la sinistra attuale a giudicare il politicamente corretto per gli obiettivi di giustizia che proclama, anziché per gli strumenti illiberali che adotta.

(…)

Il vero pericolo che corre la sinistra è che la sua ostinazione nel difendere il politicamente corretto e le sue pulsioni censorie offrano alla destra una insperata occasione di intestarsi la difesa della libertà di espressione: una battaglia storicamente non sua, ma che potrebbe benissimo diventarlo in futuro. Sarebbe un esito paradossale, una sorta di secondo swap dopo quello delle basi sociali di destra e sinistra. Se questo dovesse accadere, ci troveremmo di fronte a un inedito assoluto: una destra che difende la libertà di espressione e raccoglie il voto dei ceti popolari, contro una sinistra che difende la censura e attira il voto dei ceti istruiti e delle élite.

Da “La mutazione – Come le idee di sinistra sono migrate a destra” di Luca Ricolfi (Rizzoli), 256 pagine, 18 euro

Il malessere della politica? Il liberalismo perduto e confuso con il liberismo. L’epoca in cui viviamo da ormai trent’anni ha visto il prevalere di una sola concezione, quella liberista e questa è una delle ragioni della crisi che attanaglia le società e gli individui. Marcello Foa su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Gennaio 2023

Inizia oggi la collaborazione con la Gazzetta di Marcello Foa, giornalista, saggista e già presidente della Rai dal 2018 al 2021. Il suo ultimo libro è «Il Sistema (in)visibile» (Guerini e associati, 2022)

All’origine del malessere politico che attanaglia la politica italiana c’è un grande equivoco. A sinistra, il PD si dice liberale, Calenda e Renzi pure, la Bonino sicuramente. A destra, Berlusconi non ha mai smesso di predicare una grande rivoluzione liberale, mentre la Lega e Fratelli d’Italia si sono spostate su posizioni moderate. Ma sono tutti davvero liberali? La risposta è no, perché dopo il crollo del Muro di Berlino si è generato un gigantesco equivoco. Con l’avvento della globalizzazione liberalismo è diventato sinonimo di liberismo perpetrando, in termini filosofici, un vero e proprio delitto: perché il liberismo è di fatto una dottrina economica che per sua natura è utilitaristica, si propone di ridurre ai minimi termini il ruolo delle Stato, secondo certi pensatori addirittura azzerandolo, e massimizza la ricerca del profitto economico ovviamente a vantaggio dei privati, confidando nella capacità del mercato di autoregolarsi.

Il liberalismo classico, invece, non è meramente economico ma ha una sua dimensione spirituale, esistenziale, in certi autori addirittura metafisica. Pone l’individuo al centro della propria riflessione ma ritenendolo parte di una comunità e di un processo comunque in divenire, caratterizzato dall’esercizio del dubbio e di continuo perfezionamento interiore. Anche il liberale classico diffida di uno Stato onnisciente, oppressivo ed esalta l’intraprendenza del singolo, anche economica, ma come componente di un approccio più ampio e alto.

L’epoca in cui viviamo da ormai trent’anni ha visto il prevalere di una sola concezione, quella liberista e questa è una delle ragioni della crisi che attanaglia le società e gli individui. Perché l’homo è senza dubbio oeconomicus, ma non solo. E perché la conversione repentina della sinistra non è stata accompagnata da un processo di elaborazione intellettuale e filosofica, ma da una conversione dei fini; il che si è tradotto in una paradossale contaminazione: il massimalismo e la tendenza all’omologazione tipica del marxismo sono stati messi al servizio della nuova «ideologia» - il liberismo, appunto - ignorando le virtù più alte del liberalismo e anche il dibattito che ha animato i pensatori liberali dalla fine del Settecento fino al 1990.

Un dibattito che Corrado Ocone propone con maestria nel suo ultimo saggio Il non detto della libertà (Rubbettino editore), ricordando come John Stuart Mill ritenesse che il nemico della libertà fosse la «tirannia della maggioranza» e individuando nell’omologazione delle società occidentali una delle ragioni della loro decadenza. Mill ammoniva che «l’Europa sta avanzando risolutamente verso l’ideale cinese di rendere simili tutte le persone». Parole scritte nel 1859 con straordinaria preveggenza. E che si ricollegano a Tocqueville e che riecheggiano nell’ultimo grande politico autenticamente liberale del Novecento, Raymond Aron, che riteneva a sua volta come il conformismo, l’appiattimento e il dogmatismo rappresentassero le peggiori insidie alla libertà e al liberalismo stesso. Ma il mondo in cui viviamo è la trasmutazione dei loro timori. Il dibattito politico è sterile, superficiale, strumentale e, soprattutto, sui grandi temi fondamentali della nostra esistenza, massimalista e intollerante fino all’integralismo. Non sono più ammessi né il dialogo, né il confronto e chi osa dissentire o anche solo riflettere viene emarginato e bollato come eretico. Un atteggiamento incoraggiato dal mondo culturale, che è prevalentemente di sinistra, e dai partiti «progressisti», che non hanno ancora capito cosa significa essere davvero liberali. Ma il problema si pone anche a destra, perché quei partiti non hanno saputo mantenere la rotta, non hanno riconquistato la guida culturale, smarrendo la profondità del pensiero liberale e subendo l’agenda stabilita dal matrimonio tra globalisti e post marxisti che si sublima nel vincolo di un liberismo sterile e dogmatico.

Ci troviamo così in una società in cui il liberalismo è diventato un feticcio, mentre dovrebbe rappresentare la soluzione per una società che anela al Bene Comune tramite l’elevazione, la continua crescita dell’Individuo. E che vede nel confronto con chi pensa in modo diverso non una minaccia, ma la salvezza.

Trent'anni fa la Dc decise di sciogliersi: ci fu un solo voto contrario. Orlando Sacchelli il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Dopo aver governato l'Italia per quasi 50 anni nel luglio 1993 la Democrazia Cristiana decise di scrivere la parola stop, azzerando tutto e cambiando nome e simbolo. Nulla sarebbe più stato come prima

Nel luglio 1993 scompariva un partito che per cinquant'anni aveva guidato l'Italia, traghettandola dalle macerie del dopoguerra al benessere e alla stabilità. Stiamo parlando della Democrazia cristiana, il partito dei cattolici impegnati in politica, nato in clandestinità, negli ultimi anni del fascismo, sulle ceneri del disciolto Partito popolare di don Luigi Sturzo. Con Alcide De Gasperi e diversi altri leader la Dc fu protagonista del "miracolo italiano", in un lungo e faticoso cammino che si snoda su quasi cinque decenni. La fine la conosciamo tutti: la Dc, come gli altri partiti della maggioranza, furono spazzati via da Tangentopoli. Nel 1994 sarebbe nata la cosiddetta Seconda Repubblica e la politica italiana non sarebbe mai stata la stessa.

C'è una data che segna la fine della Dc, l'autoscioglimento. È il 26 luglio 1993. Il segretario, Mino Martinazzoli, mise ai voti dell'assemblea del partito la propria relazione (quella che avrebbe dovuto decidere il rilancio dopo i duri colpi inferti dalle inchieste giudiziarie). Si decise di tracciare una riga, di porre fine a un'esperienza e di ripartire da zero. "L’Assemblea - c'era scritto nel documento - decide di dar vita al nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana e popolare, destinato ad aprire la terza fase della presenza dei cattolici democratici nella storia d’Italia".

Al segretario veniva dato il potere di azzerare tutte le cariche e decidere il da farsi in termini di strategia e alleanze. Il cambiamento fu grosso fu il nome e il simbolo: basta scudo crociato e Dc, si rispolverò il vecchio nome, Partito popolare italiano. A favore di questo grande cambiamento furono 499 delegati su 500, uno solo si espresse in modo contrario.

La Dc era giunta a questa decisione drammatica, l'autoscioglimento, per cercare di trovare una soluzione alle gravissime difficoltà vissute in quel tumultuoso inizio degli anni Novanta: da un lato per i colpi inferti dalla magistratura con le inchieste sulle tangenti ai partiti (e la conseguente delegittimazione in termini elettorali per la semplicistica equazione vecchi partiti=corrotti), dall'altro, invece, per le gravissime accuse di connivenze con la mafia rivolte contro uno dei propri leader, Giulio Andreotti, quando pochi mesi prima erano stati uccisi due giudici simbolo della lotta anti mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In un clima infuocato, con la classe politica sempre più screditata, un forte attacco speculativo alla lira (con maxi manovra lacrime e sangue da parte del governo di Giuliano Amato) e un'onda del cambiamento che premeva dal basso tramite i referendum, gli italiani si apprestarono a cambiare profondamente - o almeno a provarci - la propria classe dirigente.

La nuova formazione politica, il Ppi, nacque basandosi su una convinzione: i giudici che stavano indagando (in primis il "pool" di Mani pulite) andavano difesi e incoraggiati, perché stavano "ripulendo" il sistema politico italiano. Volevano una "rinascita" della politica, una sorta di purificazione, dimenticando però che i problemi erano di sistema e, quindi, non risolvibili solo nelle aule dei tribunali. Alle Politiche del 1994 il Ppi si alleò con il "Patto Segni" (fondato dall'ex Dc Mario Segni), pensando di potersi incuneare tra i Progressisti di Occhetto e il centrodestra di Berlusconi, Fini e Bossi. Ma il tentativo non ebbe molta fortuna.

Non d'accordo con questa linea alcuni esponenti del vecchio scudo crociato decisero di creare una piccola formazione politica che guardasse al centrodestra, il Centro Cristiano democratico (Ccd). Tra questi Pierferdinando Casini, Clemente Mastella, Francesco D'Onofrio e Ombretta Fumagalli Carulli. Il Ccd si alleò con l'alleanza di centrodestra imbastita da Silvio Berlusconi.

Nelle Politiche del 1992, con la crisi dei partiti già iniziata (Tangentopoli ufficialmente scoppia nel febbraio di quell'anno), la Dc raccolse 11 milioni e seicentomila voti alla Camera (29,66%) e 9.088.000 voti al Senato (27,27%). Nel giro di un anno, un anno e mezzo, cambiò tutto. E non solo per le già citate inchieste giudiziarie. Decisive furono alcune mosse della classe politica che, tentando di assecondare la rabbia crescente dei cittadini, di fatto andarono a distruggere le basi stesse della Prima Repubblica. Dopo due anni dall'insediamento delle Camere, il parlamento fu sciolto, ufficialmente per due motivi: la presenza massiccia di corrotti (ma non c'era neanche una condanna passata in giudicato), la nuova legge elettorale, il Mattarellum, che recepiva le indicazioni espresse dagli italiani nel referendum per il maggioritario. Niente sarebbe più stato come prima. I cattolici in politica non sparirono. Semplicemente si sparpagliarono, a destra, a sinistra e al centro.

La ricorrenza. Trent’anni fa l’addio alla Dc. Il 26 luglio 1993 la fine dello scudo crociato con Martinazzoli. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Luglio 2023 

Tutti in piedi, ieri alla Camera, per onorare la scomparsa di Arnaldo Forlani. Il grande leader democristiano, scomparso il 6 luglio scorso, viene ricordato dal Presidente della Camera, Lorenzo Fontana, in piedi. “Un uomo di pace che ha servito le istituzioni”. Scroscio di applausi. Quella di Forlani è una scomparsa che permette allo scudo crociato, cui ha dedicato la vita, di ricomparire. Sia pure solo per fare capolino: ma è già un buon segno che quel ricordo riaffiori con il sorriso.

Forse anche con una punta di nostalgia, disvelata dall’applauso che tutta l’aula della Camera rivolge ad uno degli ultimi grandi segretari della Dc di Piazza del Gesù. Il suo ricordo arriva alla vigilia di questo 26 luglio che è nella storia della Democrazia Cristiana l’epigrafe finale su quel ceppo funebre che al tempo, nell’infuocata estate del 1993, i suoi dirigenti posero pensando fosse una pietra miliare. Un blocco di marmo che in quei giorni, all’Eur, doveva servire a segnare il nuovo inizio, la fase due della Dc. E invece ne segnò, appunto, l’ultimo giorno.

Cosa successe? Che il più grande partito dell’intera prima repubblica, che da De Gasperi e da quel 18 aprile 1948 del primo Parlamento aveva accompagnato, spronato e guidato con continuità tutta la fase politica dal dopoguerra a Tangentopoli, finì sotto le macerie di quel terremoto giudiziario. I tanti processi aperti – quelli a Forlani per Mani pulite, quelli ad Andreotti per associazione a delinquere e associazione mafiosa – avevano messo in ginocchio lo Scudo crociato. Il capo ufficio stampa di Arnaldo Forlani, il giornalista Enzo Carra, venne condotto davanti alle telecamere tirandolo per i polsi incatenati. Fu l’esposizione al pubblico ludibrio del trofeo di caccia del pool di Mani Pulite.

Un gesto ancora oggi doloroso, nel ricordo di chi l’ha vissuto: l’umiliazione della politica ad opera dei magistrati che poi provarono ad ottenere – come ammise il capo del pool, Francesco Saverio Borrelli, “Pronto, se le istituzioni chiameranno” – a prenderne le redini. E così la caccia alla Balena bianca, come si definiva la Dc, prese corpo. Le elezioni del 1992 la videro per la prima volta scendere sotto la soglia del 30% (29,7%).

Dopo l’insuccesso delle elezioni provinciali del 1992, il segretario Forlani si dimise e il 12 ottobre il Consiglio Nazionale elesse per acclamazione il bresciano Mino Martinazzoli nuovo segretario. Quindici giorni dopo Rosa Russo Iervolino divenne Presidente del Consiglio Nazionale andando a sostituire un altro nume tutelare del partito, Ciriaco De Mita. Proseguirono a colpi di indagine giudiziaria le dimissioni e le sostituzioni dei dirigenti, con una serie di abbandoni che riguardarono, a un certo punto, anche Mario Segni, scettico sulla possibilità di rilanciare il partito.

Martinazzoli si convinse di dover reinventare il centro. Ipotizzò nel giugno ’93 di rifondare la Dc, chiamandola Centro Popolare. Una idea non ancora matura: i maggiorenti democristiani provarono a frenare. Martinazzoli presentò le dimissioni, che però vennero respinte. Venne convocata una Assemblea nazionale costituente per mettere in discussione l’iter rifondativo. L’ incontro si tenne a Roma, all’Eur, tra il 23 e il 26 luglio. Fu proprio trenta anni fa che concludendo quei lavori Mino Martinazzoli fece approvare l’idea di aprire la “terza fase storica della tradizione cattolico-democratica” con un partito nazionale di programma, fondato sul valore cristiano della solidarietà da chiamare Partito Popolare.

La maggioranza approvò, la Dc si sciolse in un applauso, sovrastato dal grido un po’ teatrale di De Mita: “Che Dio ti aiuti, Mino”. Erano le dieci del mattino del 26 luglio 1993 e la Democrazia cristiana era stata sciolta, davanti a cinquecento delegati. Una storia lunga 50 anni e 129 giorni, secondo il calcolo dello storico Gabriele De Rosa.

Il Partito Popolare Italiano (che riprese il nome da quello primigenio, voluto da Don Luigi Sturzo), prima con Martinazzoli, poi con Castagnetti, raccolse solo un frammento dell’elettorato democristiano. Fu allora che Berlusconi iniziò a lavorare al suo progetto, Forza Italia, tentando – invano – di incaricarne il Dc Mario Segni. Il Ppi confluirà poi nella Margherita di Francesco Rutelli, che nel 2007 diventerà con i Ds uno dei due soggetti cofondatori del Pd. Tante deviazioni, dopo una lunga strada maestra. L’eredità di quella grande storia lascia ancora oggi un vuoto al centro – ancor più dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi – che la politica deve riuscire a colmare.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Una classe dirigente di grande autorevolezza e di rara qualità. La Democrazia Cristiana ha garantito una stagione di benessere straordinaria: assurdo infangarne la memoria. Giorgio Merlo su Il Riformista il 21 Luglio 2023

«La Dc è come un vetro infrangibile. Quando si rompe va in mille pezzi e non è più ricomponibile». Le parole sono di Guido Bodrato, scomparso qualche settimana fa e uno degli ultimi grandi testimoni del cattolicesimo democratico italiano e leader indiscusso della Dc e della sua sinistra interna. Parole semplici, le sue, ma essenziali e come sempre intelligenti che racchiudono una profonda verità. E cioè la DC – che ha chiuso i battenti proprio 30 anni fa in un torrido giorno di luglio a Roma – è stata un «fatto storico».

Ovvero un prodotto politico concreto di una precisa ed irripetibile fase storica italiana. Non a caso continuano ad esistere i «democristiani» ma non esiste più la DC. E questo per la semplice ragione che i valori, la cultura, i principi e lo «stile» dei democristiani continuano ad essere straordinariamente attuali e contemporanei ma la forma partito è frutto e conseguenza di una stagione ormai storicizzata e consegnata agli archivi. Cioè agli storici. Com’è giusto che sia. E, pertanto, tutti i tentativi – goffi e anche un po’ patetici – di candidarsi ad eredi esclusivi o parziali della Dc – oltre ad essere un’operazione irrituale e anti storica – rende anche un cattivo servizio al ruolo politico, culturale, istituzionale e di governo esercitato per quasi 50 anni dalla Democrazia Cristiana nel nostro Paese.

Certo, non mancano – tutt’oggi – gli storici detrattori della DC. Cioè tutti coloro che, ieri come oggi, continuano ad individuare nella Dc e nella sua straordinaria classe dirigente una esperienza o «criminale» o semplicemente «nefasta» per la salute della democrazia italiana, per la credibilità delle nostre istituzioni e per il governo del paese. Una narrazione che, appunto ieri come oggi, è riconducibile prevalentemente al campo della sinistra politica, culturale, editoriale, intellettuale ed accademica. Un campo che, purtroppo, e al di là delle frasi di circostanza, non riesce a spogliarsi di questa caricatura, strumentale e rancorosa.

Eppure la storia e l’esperienza della Dc non solo hanno garantito una lunga stagione di democrazia, di benessere e di crescita all’intero paese in un periodo carico di difficoltà e di contraddizioni ma, soprattutto, hanno saputo dispiegare – seppur tra alti e basi – un «progetto di società» capace di coniugare sviluppo e giustizia sociale, libertà e autonomia, dritti e doveri, pluralismo e rispetto dell’azione di governo.

Insomma, una visione complessiva della società che affondava le sue radici nel patrimonio culturale e storico del cattolicesimo democratico, popolare e sociale. Per dirla con parole più semplici, nella storia e nell’esperienza del cattolicesimo politico italiano. Il tutto, come ovvio, con una classe dirigente di grande autorevolezza e di rara qualità.

È appena sufficiente scorrere i nomi e i cognomi dei leader storici delle tanto vituperate «correnti» – che, è sempre bene ricordarlo, erano strumenti democratici di elaborazione politica e culturale e, soprattutto, rappresentavano pezzi di società e legittimi interessi sociali – per rendersi conto che la classe dirigente della Dc non è più stata eguagliata nel tempo. Certo, sarebbe offensivo anche solo il confronto con quella della seconda repubblica per non parlare del «niente della politica», per dirla con Mino Martinazzoli, che ha caratterizzato la stagione populista, anti politica, demagogica e qualunquista di questi ultimi anni. Con l’aggiunta della deriva di impronta trasformistica e opportunistica.

Ecco perché, se le parole di Bodrato pronunciate tempo fa sono e restano inappellabili, è compito e dovere di noi cattolici democratici, popolari e sociali far sì che, oggi, la storia e l’esperienza della Dc non continuino ad essere infangati e derisi da un lato e che dall’altro quei valori e quella cultura abbiano piena ed attiva cittadinanza nella cittadella politica italiana. Non per il bene dei cattolici democratici e popolari ma, soprattutto, per la qualità della nostra democrazia, per la credibilità delle nostre istituzioni e per la stessa efficacia dell’azione di governo.

Giorgio Merlo

Da Leone XIII a Sturzo: così la Chiesa si fece partito. Dalla breccia dell’enciclica si apre il varco per l’impegno in politica che culmina pochi anni dopo nel Partito popolare. Franco Vittoria su L'Unità il 24 Giugno 2023 

Lo stralcio che proponiamo qui di seguito è parte del libro “I cattolici e la questione politica” (editoriale Scientifica) di Franco Vittoria, docente di Istituzioni politiche all’università Federico II di Napoli. L’obiettivo del libro è di far emergere il cammino del cattolicesimo politico attraverso il continuo dilemma tra Chiesa e libertà. Il libro affronta l’opera della ricostruzione “ideologica” del cattolicesimo, dove emerge la figura dell’intellettuale francese Jacques Maritain. Con il pensatore francese termina l’assioma “cattolicesimo uguale a conservazione” e si inizia a ragionare elaborando una nuova idea di “cristianità politica”.

Il progetto di una “nuova cristianità” incrocia senza dubbio l’enciclica leoniana “rerum novarum”, nella quale prende forma una nuova rappresentanza per i militanti cattolici. Il libro di Franco Vittoria affronta il cammino storico-istituzionale dei cattolici attraverso la dimensione religiosa, fino a interrogarsi in quali forme le idee cristiane in questo tempo nuovo si faranno carne. A seguire un ampio stralcio del secondo capitolo, intitolato Le radici del cattolicesimo politico, le encicliche sociali.

Con l’enciclica Rerum novarum prende forma per i cattolici impegnati in politica una nuova forma di rappresentanza per i militanti della “nuova cristianità”. Fondamentale è il pontificato di Leone XIII, il suo interesse per gli studi sociali sono un viatico per “riorganizzare” una nuova missione dei cattolici che guardano con una nuova dimensione alla vicenda operaia. Già con l’enciclica Inscrutabili Dei consilio del 21 aprile 1878, solo pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio affermava nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa ed augustissima autorità della Chiesa, che a nome di Dio presiede al genere umano e di ogni legittimo potere è vindice e tutela. Così come nella successiva enciclica Quod apostolici muneris del 28 dicembre 1878, Leone XIII si “oppone” alle teorie del socialismo e del nichilismo poggiando sulla sapienza cattolica.

La Chiesa, affermò Leone XIII, riconosce che nel possesso dei beni c’è disuguaglianza tra gli uomini e aggiunge che il papa non può dimenticare la causa dei poveri. Il pontificato di Leone XIII guarda con grande interesse a come elevare la causa dei poveri a nuova missione della Chiesa, costruendo case ed ospedali per avere la massima cura di questa nuova cristianità. È un tempo nuovo quello che disegna il pontificato di Leone XIII. «Le critiche dei padri gesuiti – osserva De Rosa ne L’opera dei congressi – e le encicliche leoniane sulla questione operaia, astrattamente considerate, appaiono inadeguate a risolvere i problemi della miseria e dell’emancipazione operaia sollevati dall’individualismo moderno e dallo svolgimento di un’economia privatistica fondata sulla legge del profitto. In effetti quelle critiche non rappresentarono in sé un manifesto, un programma economico; non pretesero di essere un formulario di scienza economico-sociale. La loro forza stava nella premessa, cioè nella condanna della pregiudiziale privatistica e borghese come criterio assoluto del fenomeno economico, stava nella denuncia del divorzio che la “rivoluzione libera- le” aveva operato tra città e campagna, tra economia e legge morale, tra società civile e religiosa, stava nel rifiuto del lavoro come merce, come condanna della vita dell’uomo alla schiavitù della macchina e dei processi accumulativi dell’economia borghese. Il socialismo e il nichilismo non erano “mali in sé”, ma “mali” nati dalla borghesia, che aveva sottratto alla Chiesa le grandi masse operaie, masse che però ora i governi non riuscivano più a controllare e a contenere. Il papa invece dava rimedio a questo “male”, il ritorno tutto intero, integrale della società, nei suoi servizi e nei suoi specifici attributi moderni, sotto la tutela della Chiesa».

Insomma, la Rerum novarum significò un grande balzo in avanti e soprattutto incarnò un nuovo modo di essere dei cattolici nei confronti della questione operaia, incarnando anche una presa di coscienza per il miglioramento della questione degli operai. Una vera e propria rivoluzione culturale per i tempi che fa dire a Luigi Sturzo che si sentiva figlio della libertà cristiana: «Destò […] gran meraviglia – dice Sturzo nel discorso del 1903 a Caltagirone su Leone XIII e la civiltà moderna – quando questo vecchio di circa 82 anni, nel 1891 pubblicò l’enciclica Rerum novarum sulla condizione degli operai, e parve allora, nell’agitarsi delle teorie che presiedono allo sviluppo di questa nuova corrente sociale, parve quasi socialistica, e persino i governi ancora liberali, anche ecclesiastici, di questa nuova forza unita al popolo; e dalle lontane Americhe si volevano scon-fessati i cavalieri del lavoro e dell’Austria vicina i cristiani sociali di Lueger, e dalle nazioni latine i democratici cristiani».

La Rerum novarum incise in modo significativo in tutti movimenti democratici cristiani europei e rafforzò l’azione dei preti e dei militanti cattolici che si sentivano legittimati a difendere le ragioni degli operai e non quelli dei padroni. L’Enciclica più importante di Leone XIII non fu una ricerca improvvisata della questione sociale «[…] ma il sigillo della suprema autorità a una dottrina lentamente ma sicuramente svi- luppatasi per merito dello studio e dell’attività di dotti e ardimentosi membri della gerarchia e del laicato cattolico», annota mons. Giovanni Antoniazzi ne L’Enciclica «Rerum novarum». Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali. La Rerum novarum maturò nei vari dibattiti che i cattolici non solo italiani, ma francesi piuttosto che tedeschi organizzarono in giro per l’Europa, e questo significò un nuovo sentire da parte della Chiesa. Troppe erano le agitazioni sociali e la povertà che coglieva milioni di persone, non poteva la Chiesa rimanere spettatore di una umanità che apriva problemi intensi alla religione.

«Rispetto anzi a questi fenomeni, allo stato della questione sociale, l’enciclica – annota De Rosa ne L’Opera dei congressi – arrivò con ritardo: ben quarantatré anni dopo il Manifesto di Marx, e quando lo sviluppo delle dottrine e delle organizzazioni socialistiche, specialmente in Francia e in Germania, era ormai avanzatissimo». Il cammino intellettuale della Rerum novarum fu affidata a grandi personalità con formazione filosofica come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, uno dei temi più controversi e più tormentati nell’elaborazione dell’enciclica fu relativo alla misura del salario e al salario familiare come si evince dalle modifiche. Il primo schema era molto più avanzato della stesura definitiva, che risente delle indecisioni, dei dubbi e delle discussioni che allora dividevano su tale questione i cattolici.

Nel confronto fra il primo e secondo schema si ricava che mentre per lo Zigliara, il Papa è Vicario di Cristo, via, verità e vita, il Liberatore aveva indicato l’abolizione delle corporazioni, che non è invece esplicitamente indicata dallo Zigliara; mentre il Liberatore distingue soltanto due classi, i ricchi e i poveri, lo Zigliara ne aggiunge una terza, quella di coloro che, come emerge ancora nell’Opera dei congressi di De Rosa, «stanno in uno stadio intermedio, e vivono una vita più o meno agiata, più o meno laboriosa». L’elaborazione intellettuale della Rerum novarum affronta anche la possibilità dell’operaio di accumulare risparmio per consentirgli di poter acquistare proprietà e così che le distanze sociali tra i ricchi e i poveri si possano accorciare per costruire, attraverso le società di mutuo soccorso una nuova società.

La grande intuizione di Leone XIII consente ai cattolici militanti di procedere verso la nuova costruzione dell’impegno politico dei cristiani. Così la nascita nel primo dopoguerra del primo partito d’ispirazione cattolica, come il partito popolare, rappresentò una assoluta novità anche per molti cattolici, una novità, come scrive De Rosa, per quelle correnti clerico-moderate sempre attente per paura del socialismo ad accogliere con favore l’appoggio clericale. Sturzo non aveva l’ambizione di costruire il popolarismo come «ideologia politica di tutti i cattolici in quanto tali […] il Partito popolare sentì indubbiamente più vicina a sé l’esperienza generosa della prima democrazia cristiana, senza però disdegnare gli apporti dei moderati più sensibili ai temi del costituzionalismo moderno». Il popolarismo riuscì dove si fermò «il sociologismo attivistico dei murriani» il senso dello stato e la libertà politica.

«Il Partito popolare – scrive De Rosa ne Il Partito popolare italiano – sorse e in parte agì come partito che conservava ancora l’eredità del pensiero politico cattolico dell’ultima parte dell’Ottocento, come partito cioè di opposizione al principio e alla prassi del liberalismo statalistico, anche nella sua tendenza giolittiana, e come partito concorrenziale del socialismo; nacque come espressione di un’Italia rurale e contadina, sospettosa e arcigna verso quelle forme di politica operaistica, che colludevano con le ragioni specifiche del protezionismo industriale; nacque ancora come reazione alla cultura e alle forme politiche dell’anticlericalismo militante, antipapale e antiecclesiastico. Esso però si trovò ad operare negli anni difficili del primo dopoguerra, quando il vecchio mondo giolittiano, riformistico-borghese, con la sua fiducia ottimistica che il socialismo sarebbe rimasto né più né meno che un fenomeno economico di dilatazione e distribuzione sociale delle risorse del mondo capitalistico, fu messo in crisi dalla comparsa di un altro socialismo, che traeva la sua forza non già dalle ideologie dell’umanitarismo positivistico, ma dal trasferimento del machiavellismo sul piano mondiale della lotta di classe. La rivoluzione del 1917 stava per mutare i termini e la dimensione dei problemi di sicurezza di tutti gli Stati europei, stava per sconvolgere i criteri fonda-mentalmente interni e nazionali della lotta politica; per la prima volta metteva a nudo le radici assai deboli della nostra democrazia liberale eccitando le forze sopite e sparse dell’individualismo anarchico borghese. Croce aveva dato per morto da parecchi anni il marxismo, ma questi si presentava ora rinvigorito e armato dell’acuminata dialettica leninista. Il popolarismo di Sturzo fu come il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro: concepito come strumento per l’affermazione evolutiva delle istanze democratiche cristiane, in una prospettiva di partito politico di centro, dovette scendere in trincea, dissanguandosi, attraverso crisi e fughe di ogni specie, in una lotta disperata di resistenza fra un socialismo che non aveva più le vesti del generoso e romantico concorrente umanitario dei principi del secolo, e il rapido rifluire delle forze di tradizione moderata e conservatrice laica nel grande e livido fronte della concentrazione controrivoluzionaria, guidata da Mussolini».

Prima del discorso di Caltagirone, Sturzo aveva invitato alla riflessione anche gli amici di Murri, proponendo l’idea di una forza capace di spezzare l’egemonia della vecchia classe dirigente liberale, rafforzando un modello di partito che credesse nelle libertà e nei corpi intermedi e che potesse agire per spezzare l’egemonia giolittiana. Murri apprezzò molto il discorso di Caltagirone, ma non accolse l’invito di Sturzo alla prudenza, anche perché la Chiesa aveva colpito l’Opera dei Congressi quando sembrava che il movimento dei cattolici stesse per modernizzare il proprio pensiero. La nascita del popolarismo è legato indiscutibilmente alla figura del prete di Caltagirone e tutto l’impegno e la genialità di Sturzo fu quello di poter dare gambe alle idee dell’esperienza democratica cristiana e soprattutto dell’età leoniana.

L’intuizione di Sturzo fu quella di saper includere nel nuovo programma del popolarismo anche le altre esperienze dei cattolici «che avevano accettato il terreno della lotta politica su terreno costituzionale: dai democratici cristiani murriani che avevano alimentato le agitazioni contadine nella Romagna e in Toscana – annota ancora De Rosa – ai sindacalisti cristiani da Grandi a Miglioli, dai cattolici ex albertariani come Filippo Meda ai conservatori nazionali come Carlo Santucci. La fondazione del Partito popolare trovò un terreno fertile con la riforma voluta da Benedetto XV che assegnò compiti di diretta responsabilità ai militanti cattolici nella vita pubblica, e questo rappresentò un fatto di notevole importanza per la costruzione di una nuova militanza cattolica.

La nascita del Partito Popolare è indubbiamente un fatto di notevole importanza tanto che lo storico Federico Chabod scrisse che «[…] l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specialmente in rapporto al secolo precedente: il ritorno ufficiale, massiccio, dei cattolici nella vita politica italiana». Ma la stampa del tempo non colse l’importanza di questa nuova formazione politica e così anche Gramsci spiegò che l’operazione di Sturzo serviva come strumento provvisorio di un’organizzazione destinata a lavorare a favore del movimento socialista «non era proprio un’allegra prospettiva, però, era un passo in avanti rispetto alle banalità del vecchio socialismo anticlericale e al livore di quel moderatismo, che, meno che mai, era disposto a prendere per buona la comparsa di un Partito Popolare, che entrava nella cittadella dello Stato liberale, minacciando di mandare all’aria usi e costumi della prassi paternalistico-clientelare».

Franco Vittoria 24 Giugno 2023

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Nella vita di ognuno due cose sono certe: la vita e la morte.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Gli animali, da sé, per indole emulano ed imitano, imparando atteggiamenti e comportamenti dei propri simili. Senonché sono proprio i simili, a difesa del gruppo, a inculcare nella mente altrui il principio di omologazione e conformazione.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

ODIO OSTENTAZIONE, IMPOSIZIONE E MENZOGNA.

Tu esisti se la tv ti considera.

La Tv esiste se tu la guardi.

I Fatti son fatti oggettivi naturali e rimangono tali.

Chi conosce i fatti si chiama esperto ed esprime pareri.

Chi non conosce i fatti esprime opinioni e si chiama opinionista.

Le opinioni sono atti soggettivi cangianti.

Le opinioni se sono oggetto di discussione ed approfondimento, in TV diventano testimonianze. Ergo: Fatti.

Con me i pareri e le opinioni cangianti, contrapposte e in contraddittorio, diventano fatti.

Con me i fatti, e la Cronaca che li produce, diventano Storia.

Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Sono un saggista, autore indipendente. Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni. E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. C’è sempre qualcuno pronto a dirci quello che dobbiamo fare: la Famiglia, la Scuola, lo Stato, la Confessione religiosa, ecc.

Nei testi di Filosofia si legge che bisogna separare l’Osservazione dalla Valutazione: “Quando mescoliamo l’osservazione e la valutazione gli altri saranno propensi a udire una critica e quindi a porsi sulla difensiva. Al contrario le osservazioni dovrebbero essere circostanziate nel tempo e nel contesto. Il nostro repertorio di parole utili per affibbiare etichette alle persone è spesso assai più grande del nostro vocabolario di parole che ci permettono di descrivere con chiarezza il nostro stato emotivo. Ciò che gli altri dicono o fanno può essere stimolo, ma mai causa dei nostri sentimenti”.

Nel valutare ed esprimere giudizi ci si deve affidare ai pareri degli esperti di chiara credibilità ed attendibilità, discernendole dalle opinioni di gente ignorante sul tema in discussione.

La Sociologia Storica, studia la Società contemporanea, attraverso il suo passato che si evolve nel futuro.

La Sociologia Storica non guarda la Forma degli atti o l’Apparenza dei Fatti o delle Persone, ma guarda nella Sostanza delle cose. Guarda sul retro della medaglia, cosa che nessuno studioso o mediologo fa.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica – D- Maxi” lunedì 30 ottobre 2023.

La predicazione della virtù è cosa molto antica e come tale probabilmente insita nell'animo umano - il che consiglia senz'altro di accoglierla con il più sano e giustificato scetticismo, ieri come oggi. 

L'età d'oro può collocarsi alla fine del Medioevo, quando l'Italia era instancabilmente percorsa da vere e proprie star dell'ammaestramento morale capaci di mobilitare vastissime platee che correvano nelle piazze ad ascoltare Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Giovanni da Capestrano, Roberto Caracciolo da Lecce, Girolamo Savonarola, che per breve tempo giunse al potere a Firenze, anche se poi, come accade a parecchi moralizzatori, fece una brutta fine. 

(…) 

Quindi niente storia o morale, ma pura attualità, o per meglio dire utile analogia. Per cui se con i sermoni quattrocenteschi nasce, come autorevolmente acclarato, l'idea moderna di pubblico, ecco che al giorno d'oggi gli antichi pulpiti sono diventati elettronici e in buona sostanza, secondo il perenne viavai delle umane vicende, i predicatori delle pubbliche virtù sono tornati fra noi, in tv e sui social, a riprova che nulla mai sparisce per sempre.

Il tutto espresso in modo consono alla fascia oraria, quindi con parole infuocate o ridanciane, e in tal modo passa o meglio ripassa l'insegnamento e l'intrattenimento morale del XXI secolo, amen. Veniamo rapidamente alle ragioni di questo ritorno predicatorio che ha a che fare con la fine delle utopie, il tramonto degli ideali, l'esaurirsi delle culture politiche e lo svuotamento delle istituzioni che si combinano con l'evoluzione tecnologica al grado zero delle idee e dei progetti. 

Per quanto riguarda l'Italia grosso modo la riattivazione, o risveglio che sia, può farsi risalire alla stagione di Mani Pulite, là dove fin dal nome sembrava di cogliere un'ansia di purezza.

Quanto all'identificazione dei ruggibondi quaresimalisti, così come dei giocosi giullari dell'assoluto, si buttano lì alla rinfusa i nomi di Celentano e Beppe Grillo, Saviano e Mario Giordano, il fronte no-vax e gli apocalittici di Last generation, fino ad arrivare al mondo alla rovescia del generale Vannacci; anche se poi l'elenco, a partire dall'urlo di guerra "onestà! onestà!" dei cinque stelle tende a ingrossarsi fino a comprendere gli infiniti video nei quali in pratica tutti gli esponenti dell'attuale classe politica accarezzano bambini, abbracciano vecchiette, donano il sangue, consolano i sofferenti, coccolano cuccioletti, baciano rosari e crocifissi, ostentano i frutti del lavoro e della terra e mangiandoseli - àmmete! - fanno il bene della nazione ed esercitano la loro conclamata bontà, fede, generosità e amore per il prossimo. 

Elementare, generica e soprattutto senza passato e senza spigoli, la pubblica virtù diventa così comodo patrimonio di ciascuno e di tutti purché compresi nel novero degli educatori e moralizzatori. Mos italicus era detto lo stile italiano, appunto, attraverso cui in modo più che espressivo gli antichi omelisti si aiutavano con le mani, le smorfie, le imitazioni, pure ballando e cantando.

Così, al pensiero dei "vaffa-day" è irresistibile evocare Bernardino da Siena che diversi secoli prima aveva sollecitato la platea a uno sputo di massa per spegnere il fuoco del peccato, "e parve che tuonasse" "Ad predicationem!" era il segnale. Ma già allora Dante, Boccaccio e poi gli umanisti diffidavano. Per forza di cose anche il sospetto che i predicatori fossero vanitosi e imbroglioni faceva riferimento alla virtù, ma che ci si può fare? Dopo tutto la storia insegna che tutto passa e basta solo prendere la vita un po' meno sul serio e aspettare.

La morte della Politica: L’Opinionismo. Ideologia personale e forma di Governo:

Una volta si parlava di ideologia. Lo spunto era economico:

1 Comunismo-Economia pianificata a tutela dei più deboli.

2 Liberismo o Liberalismo-Economia basata sul libero Mercato.

La scelta di Governo era data da quella maggioranza di cittadini che sposava una Ideologia, anziché l'altra.

Oggi domina il primato del parere personale.

I Fatti son fatti oggettivi naturali e rimangono tali.

Chi conosce i fatti si chiama esperto ed esprime pareri.

Chi non conosce i fatti esprime opinioni e si chiama opinionista.

Le opinioni sono atti soggettivi cangianti.

Le opinioni se sono oggetto di discussione ed approfondimento, in TV diventano testimonianze.

Nel valutare ed esprimere giudizi ci si deve affidare ai pareri degli esperti di chiara credibilità ed attendibilità, discernendole dalle opinioni di gente ignorante sul tema in discussione.

Le opinioni si identificano in varie forme secondo da chi vengono profuse:

Editoriale per i giornalisti.

Corrente di pensiero per gli Intellettuali.

Motivazione per i Giudici.

Parere per gli esperti.

Da “Posta e Risposta” - “la Repubblica” il 3 ottobre 2023.

Caro Merlo, non trovo giusto che gli ospiti dei talk show vengano compensati. L'opinione pagata non può essere libera. Marcella Marchini - Rieti 

Risposta di Francesco Merlo: 

Non tutti chiedono “il gettone”. Paolo Mieli, per esempio, non accetta compensi e da tempo propone che, nel sottopancia, venga scritto se l'ospite è pagato. Non c'è nulla di male nel gettone, ma gli spettatori debbono saperlo perché il compenso cambia la natura della partecipazione. 

Il talk show è infatti diventato un copione al servizio del pubblico dove i ruoli, ormai fissi, sono distribuiti come a teatro: lo strampalato e l'ingenua, l'indignata e lo spaesato, l'aggressivo e l'emozionata, sino all'esperto in sbranamento e calci in bocca.

Lettera di Alberto Arbasino a "la Repubblica" del 27 ottobre 2010

Recentemente , in occasione dei vari screzi, si sono trattate anche sui media le cifre dei compensi per i partecipanti a programmi e iniziative televisive. Cachet superiori ai redditi dei ricercatori e precari. Però, mai oggetto di contestazioni o provocazioni di massa. 

Nelle varie categorie, quelle cifre sono assolutamente normali. Anche perché ognuno sa che per cantanti e suonatori bisogna rivolgersi alle agenzie. Ma del resto anche i medici e gli avvocati e i tecnici non parrebbero lusingati dovendo visitare gratis un capufficio o dar consigli gratis a un industriale o riparare gratis la lavatrice di una gentildonna. Anche gli artisti, dopo tutto, non regalano volentieri le loro opere a tutti quelli che le domandano. 

Sembra che soltanto la categoria degli scrittori faccia delle eccezioni. Per vanità? Per pubblicità? Mah, dicono gli ingenui. Forse retaggio dei tempi quando il letterato veniva trattato come lacchè.

Certamente, però, ogni giorno quasi ogni scrittore viene richiesto «eccezionalmente» e «perché ci tengono tanto» di fare qualche lavoro gratis. Presentando, presenziando, parlando, scrivendo. Per enti, sistemi, organismi, reti, strutture, talmente signorili e fini che chiedono un lavoro professionistico a un professionista. Ma lo vogliono gratis. Pagheranno «altri»? Ma chi, fra i tagli ai bilanci e l'industria del lusso? Altro che occupare le facoltà e i tappeti rossi...

La stanza di Feltri. Basta professionisti dell'ospitata in tv. Anche a me certi ospiti televisivi, definiti opinionisti (ma senza opinioni proprie, bensì riciclate) risultano repellenti. Vittorio Feltri il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

llustre Direttore,

la leggo e l'ascolto sempre con piacere anche perché offre un punto di vista che spesso si distingue da quello diffuso e dominante, stimolando in questo modo le mie riflessioni, quantunque non sempre sia d'accordo con lei. Le sono per questo molto grato. Noto che in televisione da alcuni anni si tende ad invitare sempre gli stessi giornalisti o opinionisti, che ripetono sempre le stesse cose e non forniscono alcun contributo se non quello di replicare commenti già fatti da loro stessi o da altri. Ad esempio, quando mi imbatto in questa tizia, Claudia Fusani, una giornalista che, non si capisce per quale ragione, è ospite ovunque e prende parte a qualsiasi dibattito e su qualsiasi tematica, io cambio automaticamente canale come se vedessi Dracula ed i miei familiari fanno lo stesso, come terrorizzati. Per carità, la signora è libera di dire quello che le pare, ma anche noi siamo liberi di non subirla ad ogni ora del giorno e della notte e su tutte le reti. Ne abbiamo fatto indigestione oramai da anni. Davvero gli autori televisivi sono così a corto di fantasia e di inventiva da dovere invitare sempre la stessa gente negli studi? Della Fusani, come di Cecchi Paone, anche lui inflazionato e noioso, potrei anticipare benissimo le dichiarazioni, considerato che sono terribilmente prevedibili. Non ci serve che vadano in tv a proporci sempre la medesima solfa politicamente corretta e vomitevole. La banalità ha rotto le scatole. Alessandro Buzzi

Amico mio,

come ti capisco! Anche a me certi ospiti televisivi, definiti opinionisti (ma senza opinioni proprie, bensì riciclate) risultano repellenti. Quasi mi sembra di avere sviluppato una sorta di allergia, forse dovuta alla eccessiva esposizione ai cumuli di luoghi comuni che ci propinano da mattina a sera. Ormai c'è gente che fa questo di mestiere, che ha trasformato l'ospitata televisiva, che una volta era occasionale, in una professione vera e propria, che implica quindi un impegno costante, addirittura quotidiano. Certi soggetti campano grazie a questa attività, ecco perché li vedi saltare da una rete all'altra, da uno studio all'altro, da un programma all'altro, da un tema all'altro, sono i tuttologi della tv, capaci di ciarlare di Grande Fratello o Isola dei Famosi, a cui non disdegnano di partecipare, di virus, di medicina, di politica, di finanza, di economia, di costume, di criminologia, di religione, di sesso, di educazione sentimentale, di femminicidio, di guerra, di relazioni internazionali, di smog, di cambiamento climatico, di immigrazione, di diritti umani e chi più ne ha più ne metta. E sono prevedibili perché sono perfettamente coscienti che oggigiorno, per mantenere il culo sulla poltrona tv, devono per forza essere scontati, ordinari, ovvi, non politicamente scorretti. Quando inviti questi individui, puoi stare tranquillo, sai cosa aspettarti, sai cosa diranno, e il blocco televisivo fila liscio che è una bellezza.

L'unica cosa che non sono in grado di fare è chiudere la bocca riconoscendo, come faceva il saggio Socrate, di non sapere. E se non sapeva Socrate, figuriamoci questi signori qui la cui dote fondamentale sembra l'arroganza. Alcuni trasudano ipocrisia, falsità. Ecco perché ci sono tanto indigesti. Esprimono bene questo conformismo da due lire, che domina un po' ovunque. Sono l'emblema della società odierna: sono sovraesposti ma non ci lasciano nulla, se non il desiderio, come tu dici, di cambiare canale per tutelarci dalla loro presunzione scoppiettante. Taluni non esitano ad attaccare violentemente chi non la pensa come loro, eppure si dicono gentili, civili, antifascisti, antimaschilisti, antiomofobi. Bella gente che tollera tutto meno l'opinione opposta alla loro. Ne avrei una lunga sfilza da citare. Tuttavia, evito perché alla mia età si conquista una certa saggezza, la consapevolezza che non sempre vale la pena di polemizzare, di fare il punto, di inveire. Attenzione: non mi sono mica raffreddato. Il mio temperamento è sempre focoso, la mia temperatura sempre alle stelle, ma mi sono rassegnato al fatto che il mondo è dominato dalla stupidità. Come puoi pretendere, caro Alessandro, di non trovarla in tv?

Cinismo volutamente spinto oltre ogni limite. Meloni, Giambruno e il libero arbitrio degli influencer (Lucarelli e Bizzarri) schiavi dell’algoritmo. Domenico Giordano su Il Riformista il 26 Ottobre 2023

Luca Bizzarri e Selvaggia Lucarelli sono due degli influencer più seguiti e bravi in questo mestiere. I loro account su X hanno da tempo sforato e di molto il muro del milione di follower. Entrambi sfidano il conformismo con una overdose di cinismo che non sempre è giustificabile o comprensibile. È successo in passato centinaia di volte ed è successo ancora in questi ultimi giorni quando i due hanno pubblicato ripetutamente opinioni e post ironici sulla vicenda Meloni-Giambruno.

Una scelta dettata dalla conoscenza del funzionamento dell’algoritmo delle piattaforme, progettato per essere cinico e tribale. Senza alcuna differenza. La natura algoritmica dei social è priva della pietas, non eleva la dignità dell’essere umano a valore morale, non si ferma davanti a nulla, al cospetto di una tragedia, di una guerra e della morte.

Anzi, il cinismo è volutamente spinto oltre ogni limite, perché riesce ad alimentare la bulimia con la quale l’algoritmo crea e consuma quei contenuti che “aumentano – come scrive Max Fisher in La macchina del caos – al massimo l’attività online degli utenti”. È il cinismo che ci tiene connessi più del dovuto e del necessario, a renderci in parte dipendenti dalle piattaforme e dallo smartphone, che in media controlliamo poco più di 150 volte ogni giorno, festivi compresi.

Questa dinamica è ben nota anche agli influencer, che in modo diverso la sfruttano per aumentare la loro audience social, in quanto vale la pena rammentare costoro non sono dilettanti allo sbaraglio, perditempo a zonzo su questa o quella piattaforma, ma l’influencer è “un professionista che grazie ai propri numeri produce valore (in termini di visibilità), e quel valore deve essere portato all’attenzione e riconosciuto dalle istituzioni ed equamente remunerato dal mercato”. Questa è la definizione chiara ed esaustiva che della professione ne dà Assoinfluncer, l’associazione italiana di categoria.

Per catturare la visibilità, merce sempre più rara per tutti, brand e influencer, e per la ricerca del like quale metro di validazione sociale del proprio mercato, Selvaggia Lucarelli e Luca Bizzarri hanno postato in due giorni sui loro account X poco meno di venti contenuti, ben 13 lei e altri 8 lui, che hanno contribuito a raddoppiare la media dell’engagement, l’indicatore principale del coinvolgimento dei follower, dei rispettivi account, risalito dallo 0,37% all’0,80% per la giornalista e dallo 0,25% allo 0.48% per l’attore-presentatore genovese.

In particolare, a spingere a fondo il pedale del cinismo salva-audience è stata proprio la Lucarelli che ha utilizzato la fine della relazione per scagliarsi contro le “amiche di sinistra”, ripostando le parole di Elena Bonetti, e contro “le finte progressiste di sinistra”, per censurare Alessandra Moretti, colpevoli a suo dire per aver manifestato sui social la loro vicinanza e solidarietà femminile alla Meloni.

Ma a differenza dei noi comuni e anonimi follower, agli influencer invece è data la possibilità di svincolarsi a volte dal determinismo della visibilità, di esercitare il libero arbitrio dal cinismo dell’algoritmo che ci confina nelle bolle cognitive e la crisi della relazione di coppia, così come il modo in cui si è conclusa, tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno poteva essere anche l’occasione per Bizzarri e Lucarelli di fare silenzio ed esercitare quel libero arbitrio che distingue oggi l’uomo e la donna dalle macchine, l’intelligenza artificiale da quella umana. La scelta del silenzio, che ha comunque un costo negativo per i protagonisti, può rappresentare la prima norma valoriale dell’algoretica, esempio virtuoso di come aiutare la macchina a imparare dall’intelligenza umana, a sperimentare il lato sano della fallibilità dell’essere.

Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).

Better call Gennaro. Bellicapelli, la cultura dei fuorionda e l’ignoranza televisiva degli editorialisti in tv. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2023

Nel mio settimo articolo sulla giambruneide vi spiego due cose: la prima regola è non ingarellarsi con Antonio Ricci, la seconda è che se ti fai beccare a dire cose stupide con le telecamere sempre accese non sei un tapino distratto, ma un esibizionista

Giornali italiani, abbiamo un problema. Più di uno, ma uno è quello su cui intendo concentrarmi oggi. E sì, è un problema svelato dalla saga di Bellicapelli. Ma collaterale, ragione per cui mi rifiuto di considerare questo il mio settimo articolo sulla giambruneide.

Anche perché, diciamolo: se della giambruneide mi fossi occupata oggi, l’avrei fatto per scrivere una biografia del miglior personaggio emerso da questo pasticcio, Gennaro Capasso detto Gennarononsbagliamai. E invece.

E invece ieri apro La Stampa, e scopro che Flavia Perina ha violato una regola che in confronto «non si parla del Fight Club» era robetta. In un evidente attacco di delirio d’onnipotenza, Flavia Perina si è ingarellata (mi scuso per il romanesco, è per farmi capire meglio da Perina stessa) con Antonio Ricci.

Ora, prima di proseguire col racconto dei fatti occorre che ci accordiamo sulle regole d’ingaggio. Prego di non proseguire nella lettura tutti i sensibili beoti convinti che esista il giornalismo con-la-G-maiuscola che racconta la-verità-con-la-V-Maiuscola.

Prego di procedere solo se siete abbastanza adulti da essere consapevoli che la comunicazione è l’arte di rigirare frittate, e che nessuna persona di buonsenso, in questo balordo paese, pensa di saperle rigirare meglio di Antonio Ricci (è la ragione per cui ha fatto molti più soldi di noi: chi ha successo ha ragione).

Ricostruzione dei fatti. L’altroieri Flavia Perina firma, sempre sulla Stampa, un articolo sulla cultura dei fuorionda. È un articolo a tesi, e quindi mette insieme un po’ a forza cose diverse, tra cui il caso Mesiano, che in quest’epoca di presentismo sembra preistoria. Nel 2009 Studio aperto mandò in onda delle immagini del giudice che aveva multato Silvio Berlusconi dicendo che i suoi calzini azzurri dimostravano che era un personaggio bizzarro.

Perina lo riporta come un esempio di quel format dello sputtanamento che avrebbe conosciuto il suo tipping point (mi scuso per il malcomgladwellismo, è per farmi capire meglio al Dams) col caso Giambruno; ma dimentica – credo per autentica non conoscenza dei gineprai in cui si avventura, e non per selettiva omissione – due dettagli.

Il primo è che gli unici sputtanati all’epoca furono quelli di Studio aperto: Claudio Brachino venne persino sospeso dall’Ordine dei giornalisti, che non conta un cazzo ma in questo secolo innamorato dei gesti simbolici è già qualcosa; in generale, non c’è uno spettatore che all’epoca abbia detto «ah!, i calzini azzurri, lo sapevo che non c’era da fidarsi», e non «ma tu guarda questi imbecilli di giornalisti».

I calzini azzurri divennero per qualche settimana patrimonio della comicità nazionale, non quanto Giambry ma poco ci manca, e spero che ormai a tutti, dopo anni che Ricky Gervais e io predichiamo invano, sia chiara la differenza tra il bersaglio di una battuta e il suo oggetto, e che quindi le battute sui calzini azzurri erano battute sullo stato del giornalismo in questo derelitto paese.

Il secondo dettaglio che non è chiaro a Perina sta nell’ultimo rigo di questo suo primo articolo sul tema dei fuorionda, ed è un vibrante «no, questa non è informazione». Trattenetevi dal moto spontaneo a concludere «Festivalbar con la cassa dritta», e fate attenzione: non sta più parlando dei calzini al tg, sta parlando di Striscia la notizia.

Ci sta dicendo che un varietà con le risate registrate, condotto da due comici (o da Alba Parietti, a seconda dei momenti storici), con le Veline che sculettano, e come protagonista principale un pupazzo rosso che parla in genovese, ci sta svelando che – ohibò – quella non è informazione. Maggiùra.

Ora io so bene cosa stanno pensando i miei amici con la mistica del giornalismo: ma in principio fu Antonio Ricci, e quelle cose che lui fa ridendo altri le fanno sul serio, e hanno imparato a farle da lui. Cattivi maestri, si diceva ai tempi in cui Perina e Ricci erano giovani.

Però c’è una differenza che fa tutta la differenza del mondo, e che risiede in quella frase ricciana che ho citato già in un migliaio di articoli: a Striscia «Vergogna!» può dirlo solo il Gabibbo, che è un pupazzo.

Se nei decenni trascorsi dall’invenzione di Striscia tutta la tv d’informazione – e persino alcuni varietà emuli, anch’essi con balletti, che ritengono di fare informazione – ha adoperato lo stilema dell’inviato che corre dietro al derelitto del giorno urlandogli domande scomode, probabilmente è responsabilità di Antonio Ricci. Se l’hanno fatto e lo fanno tutti prendendosi sul serio, decisamente no. Gli inviati di Piazzapulita o delle Iene sono convinti di fare informazione scomoda, mica d’essere il Gabibbo.

Non è che Perina sia sola, in questa confusione di generi. Annalisa Cuzzocrea, ospite d’un programma minore su La7, ha ritenuto di dire «io mi sono chiesta, ma io, avessi avuto quella cosa, quel materiale lì, cos’avrei fatto?», e di concludere che lei non l’avrebbe mandato in onda. Ma Cuzzocrea fa la giornalista, mica l’autrice di varietà.

La confusione di generi è un problema minore rispetto alla piattissima curva d’apprendimento di editorialisti di quotidiani che passano tutto il tempo che possono dentro studi televisivi dei quali sono riusciti finora a non comprendere il funzionamento.

Qualche giorno fa, su Repubblica, Stefano Cappellini scriveva: «Se Meloni si ritiene colpita dolosamente, la domanda è obbligatoria: da chi? Da qualcuno che ha recapitato i fuori onda di Giambruno a Striscia?». Credevo, fino a ieri, che quello di Cappellini fosse un caso isolato.

Il caso eccezionale di uno che non sa – pur facendo di secondo lavoro l’ospite televisivo, e avendo una moglie conduttrice – che esiste la bassa frequenza (cioè: le immagini degli studi televisivi trasmesse sui monitor a circuito chiuso dentro l’azienda televisiva). E che, se sei quello che si è inventato il concetto di fuorionda, plausibilmente avrai dei redattori perpetuamente seduti di fronte a quei monitor.

Specie se in uno degli studi della tua azienda c’è il marito della presidente del Consiglio, le cui eventuali spacconate durante la pubblicità saranno materiale da intrattenimento più prezioso di quelle del conduttore delle previsioni del tempo.

Mi scuso con Cappellini: credevo fosse l’unico al mondo così scevro di nozioni televisive da pensare che i «fuorionda» qualcuno li debba «recapitare», da ignorare che sono più di vent’anni che i «fuorionda» non sono più tali. Non sono più distrazioni colpose di tapini inconsapevoli: sono scelte dolose di esibizionisti aggravati.

Ieri, La Stampa ha pubblicato una lettera firmata «l’ufficio stampa di Striscia la notizia». Antonio Ricci, essendo più bravo di me e di voi a rigirare le frittate, sostanzialmente dice: e allora voi, che avete pubblicato video e quattrocento articoli del rinfaccio di corna tra Seymandi e Segre (forse ve ne ricordate, fu lo scandalo che per un quarto d’ora c’intrattenne quest’estate).

Invece di, scusate il romanesco, fare pippa, Perina pensa bene di rispondere. E di rispondere in un modo che qualcuno – un parente, un amico, un caposervizio – avrebbe dovuto scoraggiare, dicendole che insomma, se una vuole suicidarsi ci sono modi meno ridicoli.

Sostiene Perina che il caso Seymandi aveva una caratteristica che il caso Giambruno non avrebbe: «Pubblico il luogo, pubblica la scenata, pubblici i filmati, evidente l’intenzione del protagonista di dare la massima pubblicità alla sua intemerata».

Continua l’ingenua Perina: «Il caso Seymandi a me pare l’esatto contrario di un fuorionda, che come dice il termine è la diffusione di conversazioni carpite all’insaputa dei diretti interessati». All’insaputa. In uno studio televisivo. Con le telecamere accese. Col microfono addosso. Te ne stai bello sereno come nel tinello di casa tua con tuo cugino e poi, ma tu guarda, arriva Ricci a sputtanarti. Una dinamica talmente imprevista che nello stesso fuorionda c’è qualcuno che gli dice qualcosa tipo: guarda che se ti sente Striscia sono guai.

Ma no, dice Perina che se molli la tua fidanzata parlando in un microfono a una festa, e lo fai nel 2023, quando in ogni telefono c’è una telecamera, devi ragionevolmente aspettarti di venire sputtanato; se invece sei lì col microfono e la telecamera e la tradizione del programma principale della rete che sputtana i suoi conduttori, allora non c’è ragione di pensare che finirà male.

L’unica domanda ragionevole da farsi è: Giambruno è corrente Emilio Fede o corrente Gennaro Capasso? Fede ci mise un bel po’ a capire che Ricci i suoi filmati li prendeva dalla bassa frequenza delle telecamere del Tg4. Era convinto che Striscia avesse una telecamera nascosta nel suo studio.

Gennarononsbagliamai, invece, in un video in cui spiega la propria vocazione dice che «oggi l’uomo vuole sentirsi una star: ci rendiamo conto che l’uomo oggi è molto più vanitoso di una donna». E forse è questa, la questione.

Che uno che ha cinquant’anni meno di Emilio Fede e sa come funziona la tv non finisce in un fuorionda per caso, nel 2023. Ci finisce per vanità. A meno che non sia un editorialista di quotidiano, di quelli che si fanno firmare la liberatoria dal direttore per andare a mostrare le piume in tv, ma poi neppure capiscono verso quale telecamera indirizzare la ruota.

Dottori, medici e sapienti. Fenomenologia di Elena Basile e degli spettacoli in televisione. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2023

Controstoria sonciniana del livello grottesco dei talk show politici italiani: l’ambasciatrice (chiamiamola così) e il conduttore (chiamiamolo così) non fanno giornalismo geopolitico, sono personaggi di una recita popolare che rimanda più ai varietà di intrattenimento che a Woodward e Bernstein

«Questo è un discorso, mi scusi dottor Mieli, sottoculturale, che non mi aspetterei da lei, che stimo tantissimo, di cui conosco l’erudizione, di cui seguo gli spettacoli in televisione». È da poco iniziato “Otto e mezzo” di mercoledì scorso, quando una signora che nessuno di noi aveva mai notato, tale Elena Basile, decide di fare la televisione.

Non abbiamo neanche cominciato a farci le domande fondamentali – è corretto definire la signora «ambasciatrice»? E Paolo Mieli, che lei chiama «dottore», è dunque medico? – quando Dietlinde Gruber decide di fare la sua parte, che in quel caso consiste nel fingere di non sapere cosa sia la tv, e la corregge: «Mieli comunque non fa spettacoli in televisione: fa trasmissioni storiche».

Ovviamente Gruber non è una di quelle Pollyanne, tra le quali il direttore di questo giornale, che pensano la tv non sia tv: che possa fare giornalismo, possa fare ragionamenti razionali e compiuti, possa esistere senza i mostri; senza coloro che la metà del pubblico guarda dicendo «ma chi è questo punto più basso della razionalità che si sia mai visto», e l’altra metà dicendo «bravo, gliele ha cantate, finalmente».

(La sera dopo, Basile dirà «Le mando tutte le mail delle persone che mi dicono che finalmente sentono dire la verità in televisione»; Formigli fingerà di considerarla mitomane, «Cerchiamo di non scivolare nel ridicolo», ma non può non sapere che sta dicendo la verità: vive in questo secolo anche lui, no?).

Gruber la tv la sa, e infatti dopo la puntata si fa promettere dalla signora – che già i social stanno insultando e difendendo come accade quando la tv svolge la propria porca funzione – che non andrà in altri programmi, che non la tradirà: non avrai altre piste di circo al di fuori di me.

Naturalmente la tv non si fa da soli: coloro che nelle rubriche degli autori televisivi dei talk vengono gelosamente custoditi nel faldone «freaks» hanno bisogno di spalle. La spalla perfetta di mercoledì sera è Aldo Cazzullo, che si presta a indignarsi – «finché stiamo scherzando è un conto» – quando la signora coi capelli più televisivi visti da parecchio tempo, l’ambasciatrice, la nuova star delle nostre serate nel tinello dice che gli americani sarebbero stati più propensi a una trattativa se Hamas avesse avuto ostaggi americani.

Senza la teatrale reazione di Cazzullo – «si vergogni della sua erudizione»: mai «erudizione» era stata una parola televisiva, prima di mercoledì, la sera in cui divenne un insulto – l’affermazione sarebbe sembrata ovvia a chiunque avesse mai visto un film con Bruce Willis. Spero che a fine puntata Totò Basile abbia mandato un mazzo di fiori a Peppino Cazzullo, senza il quale non sarebbe diventata la star di cui aveva bisogno questa stagione, già annoiata di Orsini e insofferente verso il «famolo strano» sempre uguale a sé stesso di Mauro Corona.

Il metro che questo decennio disperato usa per misurare l’appetibilità d’un’opinione sono i disgraziati che gestiscono le piattaforme internet. Quando vado su quella di La7 per vedere la star di cui tutti parlano, sulla homepage c’è «La gaffe di Elena Basile»: alcuni secondi della puntata in cui, ohibò, ella ha detto «sì, dottor Galluzzo», prontamente corretta da Dietlinde Gruber, che precisa «Cazzullo» ma non precisa che neanche lui è medico (almeno credo).

La cosa interessante della donna che farà fallire i coloristi con quel grigio così telegenico è che ella ha un eloquio antitelevisivo quanto quello di Mike Bongiorno, pieno di divagazioni e premesse: «E Andreotti non era il mio politico preferito, eh, io seguivo Bocca e le sue filippiche sferzanti».

Tuttavia, la sera dopo, quando si consuma il tradimento, mi arrivano quasi altrettanti messaggi di quanti ne giravano quando la tv era tv, e Walter Nudo rifiutava di dormire comodo dicendo alla produzione dell’“Isola dei famosi” che «o tutti e quattro o niente».

La sera dopo, Elena Basile è a “Piazzapulita”. Corrado Formigli, forse per risparmiarsi i dibattiti social sull’opportunità di definirla «ambasciatrice», la presenta come «dottoressa»: quanti medici, in questa televisione. Cambia però, quella sera, qualcosa d’importante. Qualcosa che attiene alla presentabilità sociale e all’istinto televisivo.

Formigli non è Gruber, cui basta uno sprezzante «non fa spettacoli» per prendere le distanze dall’ospite invitata in quota impresentabili. Formigli è un Giletti dei socialmente rispettabili, è il king of tamarri con gli anelli d’argento, è uno che crea mostri non per sonno della ragione ma per svegliezza del dato di share, ma poi ha bisogno di dire al suo pubblico che lui è una personcina presentabile, mica un domatore da circo.

Esattamente come ha creato Alessandro Orsini per poi mollarlo e atteggiarsi a quello che fa la tv dei reportage (buonanotte), con la stessa abilità professionale con cui blandisce fuori onda ed esaspera in onda le ragazzine ambientaliste, Formigli convince la Basile a tradire la Gruber e ad andare lì a far fare un po’ di share anche a lui, e poi una volta che è lì la tratta come un vero cafone.

La Basile, un istinto televisivo come non se ne vedevano da quando Cavallo pazzo disse «questo festival è truccato e lo vince Fausto Leali», dice «perché abbiamo paura della verità?», dice «solo io rappresento la voce del dissenso», mugola non inquadrata «finalmente» dallo studio quando in collegamento c’è un’ospite che difende i palestinesi, esala «perché dobbiamo soffrire» quando viene annunciato un video con Giuliano Ferrara; soprattutto, sparge come Pollicino briciole del terzo atto fin dall’inizio.

Formigli, cui fa da spalla Mario Calabresi (cui però viene da ridere: teatralmente meno rigoroso di Cazzullo), vuole arrivare esattamente dov’è televisivamente giusto arrivare: alla discendenza culturale di «Ciro, oddio chi parla, oddio chi è». I talk di politica non servono a niente, se una Sandra Milo non corre via dallo studio. Ma la Sandra Milo di questo secolo bisogna che non sia in conduzione, bisogna sia un’ospite, non importa se ragazzina di Ultima Generazione o signora del corpo diplomatico.

Basile, che conosce il proprio ruolo, inizia abbastanza presto a dolersi, «Ho detto che non volevo venire, lei mi ha pregato di venire qui e non mi fa parlare». Formigli è un po’ scocciato da questa rivelazione di trattativa per il tradimento, già si vede Gruber davanti al televisore che borbotta ah, lo stronzo l’ha pure pregata. Sbuffa «Se non vuole venire, la prossima volta non venga», Basile fa la fidanzatina delusa, «Mi ha detto facciamo un patto, non l’ha rispettato». Lui, king of tamarri, le dà le spalle.

«Dottor Calabresi, ora parlo io, ora basta». Tra i suoi altri meriti, Basile riporta anche il vocativo «dottore» a ciò che è: non indicazione che tu sei medico, ma che io sono parcheggiatore. Lo fa nel crescendo dei vari «posso parlare», «io me ne vado», «io non mi calmo», «non ho finito, lei mi blocca sempre», «Robert Kagan: hai letto un libro, Formigli?» che fanno aumentare nel pubblico l’attesa dell’inevitabile, che fanno del finto tentativo di dibattito geopolitico un pezzo di vera televisione.

La parte più struggente del siparietto è una Pollyanna lì ospite che, ignara del contesto-SandraMilo in cui si trova, all’ennesimo darle sulla voce di Basile la ammonisce: «Non devi per forza cercare lo scontro». Pulcina. Chissà se capisce qualcosa di più del mondo quando, qualche minuto dopo, Formigli decide di dirsi da solo che il re, cioè lui, è nudo.

Accade infatti che, nel gioco delle parti sandramilesco, la Basile menta, «Io credo in un giornalismo che non fa spettacolo», e Formigli dica la verità: «Lo spettacolo lo sta facendo lei tantissimo, stasera: speriamo che ci aiuti negli ascolti».

Non è allora, che Basile se ne va. È un animale televisivo, mica una ragazzina di Ultima Generazione. Se ne va solo dopo che Formigli ha detto «Voglio chiudere con Mario Calabresi», solo quando capisce che stanno chiudendo quel pezzo di trasmissione, che manca un minuto e il gran gesto ora o mai più, che non potrà più appropriarsi di turni di parola, tra poco arriva il microfonista a disarmarla. Se ne va, come gli amanti crudeli, quando non ha più niente da perdere.

Formigli le urla «è stato un piacere», come gli amanti che si scoprono usati. Non vedo l’ora che sia il 2043, quando Elena Basile sarà venerata maestra, e qualche emergente televisiva le dirà: mi meraviglio di lei, guardo sempre i suoi spettacoli.

Contro la filosofia dei pareri (urlati). Oggi sono tutti opinionisti con le idee degli altri. Ma il saper pensare è merce rara. Luca Gallesi il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il titolo è ambizioso, ma il contenuto mantiene quanto promesso: L'essenziale (Castelvecchi, pagg. 96, euro 13,50) è un saggio scritto da Silvano Petrosino e Roberto Righetto che tratta, come spiegato dal sottotitolo, della «Globalizzazione della chiacchiera e resistenza della cultura». Un professore di Filosofia teoretica e un giornalista che ha diretto per vent'anni le pagine culturali del quotidiano Avvenire dialogano su ciò che conta veramente, in un mondo avvelenato dalla dittatura del politicamente corretto e dominato dall'apparenza e dalla superficialità.

Il dialogo parte da una considerazione quasi banale, e cioè che, grazie alla rivoluzione tecnologica e al conseguente diffondersi dei personal computer, il dilagare incontrollato su Internet di ogni genere di informazioni ha annacquato il sapere, rendendo quasi impossibile ogni reale approfondimento critico. Detto più semplicemente: la profusione di informazioni proveniente dalla Rete, a cui tutti attingiamo indiscriminatamente, invece di essere utile ci rende molto più ignoranti e, soprattutto, sempre più presuntuosi, perché ci convinciamo di sapere tutto, o di poterlo fare senza difficoltà. Certo, questa osservazione non è affatto una novità: già Heidegger, avvertono gli autori nell'Introduzione, aveva messo in guardia dalla «diffusione della chiacchiera, che allontana dalla vera comprensione, spingendo il soggetto verso la tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere tutto». Il problema, però, è che dalla chiacchiera da bar, condivisa tra amici ed estesa, nella peggiore delle ipotesi, alla cerchia dei conoscenti, siamo passati alla diffusione incontrollata di un oceano di notizie e informazioni che, trasmettendo un fasullo senso di onniscienza, precludono l'accesso al sapere vero.

Gli autori non perdono occasione per ribadire la differenza tra un parere e un pensiero: per il primo basta attingere alla pletora di uomini marketing e di opinionisti che affollano ogni mezzo di comunicazione, garantendo, con i loro rassicuranti sorrisi, che con un semplice click la verità è alla portata di tutti. Il sapere, invece, è frutto di una faticosa elaborazione personale, lontana dall'incontenibile entusiasmo dei sedicenti esperti, finalizzato a non sollevare mai alcun dubbio.

La tranquillizzante presunzione di chi confonde un parere con il pensiero è il marchio di fabbrica di tutti coloro che vogliono sembrare degli intellettuali e, non essendolo, giocano a fare i filosofi. «Oggi - lamenta Righetto - siamo passati da Bobbio a Odifreddi, Pievani o Galimberti (e Scalfari, aggiunge Petrosino). O a giornalisti che si ergono a maîtres-à-penser come Augias, Gruber, Bignardi e De Gregorio, che esprimono un livello davvero basso della provocazione senza nessun contenuto vero e profondo». Insomma, il «tradimento dei chierici» denunciato un secolo fa da Julien Benda è ancora tale, ma ha prodotto conseguenze molto più gravi visto che, se il 70 per cento degli italiani è composto da analfabeti funzionali - cioè sono incapaci di comprendere e di valutare un testo scritto - è altrettanto scioccante che il 38 per cento di imprenditori, dirigenti e liberi professionisti dichiari di non leggere nemmeno un libro l'anno, percentuale che scende al 25 tra i laureati. Comunque, il problema non si risolverebbe se i lettori aumentassero di numero: come suggerisce Petrosino, infatti, bisogna «evitare ogni idolatria del libro (così frequente all'interno della tribù di coloro che, godendoci, non esitano un istante a confessare di spendere tutti i propri risparmi per acquistare libri), e bisogna ribadire con forza che per ragionare e riflettere ci vuole tempo». Inutile, dunque, spargere lacrime per i «bei tempi andati» o illudersi che sia possibile tornare a un mondo prima di Internet, perché la rivoluzione digitale è irreversibile.

Bando alle nostalgie e avanti con l'approfondimento: bisogna recuperare la capacità di ragionare, si devono sollevare dubbi, attivare il cervello e ridimensionare il dominio del pensiero scientifico-tecnologico a discapito di quello umanistico-letterario. «Mettiamo da parte scientisti e nichilisti per riscoprire poeti e profeti», suggeriscono gli autori, il che non significa rifiutare la scienza, anzi: va ricordato, infatti, che il pensiero scientifico nasce proprio da una riflessione e da un'analisi della realtà, e non va confuso con il dominio della tecnologia, oggi inestricabilmente associata al consumismo e ai suoi (non) valori assolutamente dominanti, sintetizzabili nella triade «tutto-subito-sempre». Usciamo dal torpore, scuotiamoci dalla pigrizia, leggiamo, o rileggiamo, la letteratura di tutto il mondo, riprendiamo lo studio della filosofia e soprattutto ricordiamoci sempre, come sosteneva un grande poeta americano, che «sono autorizzati a esprimere un'opinione soltanto coloro che sono titolati ad averla». Luca Gallesi

La cronaca e quell’irresistibile corsa a creare mostri: senza linciaggio vi sentite meno buoni?

Secondo Piero Sansonetti fior di intellettuali mobilitati per spiegarci come è possibile la loro perfidia, chi l’ha generata, quanto sta degenerando la nostra gioventù, i telefonini, i videogiochi, la droga… È stato un incidente stradale, e quando si svolgerà il processo vedremo quanta e quale fosse la colpa di chi guidava la Lamborghini. Noi oggi non lo sappiamo. E allora inventiamo, inventiamo, inventiamo. È il bisogno di linciaggio che mi colpisce. Il linciaggio come liberazione dai propri incubi. Il linciaggio come gioia e prova della propria innocenza. Il linciaggio come dimostrazione di forza. Di eticità. Di incorruttibilità. Di sapienza. Sostenuto e lodato e magnificato e amplificato dall’intero sistema dell’informazione.

Secondo Maurizio Assalto: “Narrazione” è uno dei termini chiave della comunicazione pubblica contemporanea. C’è la narrazione di Giorgia Meloni «underdog» e la narrazione di Elly Schlein che «non ci hanno visti arrivare». C’è la narrazione di Giuseppe Conte “avvocato del popolo”, quella di Matteo Renzi “rottamatore” e ci sono state le metamorfiche narrazioni di Silvio Berlusconi “presidente imprenditore”, “operaio”, “contadino”, “ferroviere”… Anziché affidare come un tempo le loro idee a soporiferi saggi che nessuno legge, o a deprimenti articoli su riviste che nessuno compra (e che del resto neppure si pubblicano più), i leader politici hanno scoperto il business (anche commerciale) delle biografie e pseudo-autobiografie che, attraverso il racconto di una vicenda proposta come implicitamente esemplare, trasmettono la propria visione dell’Italia e del mondo (del resto, oggetto tipico delle narrazioni sono le storie, le favole, fole, spesso sinonimo di “balle”).

Non ci sono però soltanto le narrazioni della politica: c’è la narrazione d’impresa (variante più manageriale: la narrazione strategica d’impresa), la narrazione del brand, la narrazione del prodotto, la narrazione dei beni culturali, la narrazione dei musei, la narrazione della scienza, la narrazione enogastronomica, la narrazione ecologista, la narrazione pacifista e quella bellicista, la narrazione terrapiattista, le narrazioni complottiste, le narrazioni no vax, no tav, no tap… A ognuno la sua narrazione.

Ma anche Platone, in epoca ormai risolutamente letteraria, intercala volentieri la sua opera filosofica, che è già in sé una filosofia narrata, con la narrazione di un mito che ha lo scopo dichiarato di sciogliere i nodi concettuali più intricati: nel Protagora, al celebre sofista che si accinge a esporre la sua tesi sull’insegnabilità della virtù politica, viene messa in bocca la domanda «Preferite che io, come anziano che parla ai giovani, ve la dimostri narrando un mito, oppure con un ragionamento?»; e poiché gli interlocutori gli rimettono la scelta, Protagora opta per la prima soluzione, in quanto «più piacevole». La forma narrativa assolve in questo modo a una funzione didattico-esplicativa, che in altri casi si specifica ulteriormente come più efficace in termini persuasivi-emozionali.

Secondo Matteo Giangrande, il buon debater può usare il riferimento all’autorità nella parte del discorso argomentativo dedicata alle “evidenze” e, insieme, non può usare il riferimento all’autorità nella parte dell’argomento dedicata al “ragionamento”. E ciò perché il ricorso all’opinione di un esperto è un modo ragionevole per rendere “credibile” un’affermazione. Ma, al contempo, non la “dimostra”.

L’argomento dell’autorità (o argomento ad verecundiam) diventa una fallacia subito dopo aver illustrato la funzione di evidenza che la citazione del parere di un esperto può svolgere all’interno dell’argomento complessivo.

Gli esperti: tutti si elevano a professoroni in tv nel parlare di qualcosa che non si conosce e quindi che non conoscono. Sballottando di qua e di là i cittadini, in base alle loro opinioni cangianti dalla sera alla mattina.

I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. Alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

La cronaca è fortemente inquinata da un forte pregiudizio mediatico e fa sentire i suoi effetti presso una parte dell’opinione pubblica disposta a bersi qualunque dichiarazione. Ciò nonostante, la parte anomala è quel “ci dovrebbe essere un contraddittorio”, ossia, ogni volta che qualcuno esprime un’opinione su qualcun altro deve esserci anche l’altro. E’ macchinoso come metodo ed è sempre disatteso. 

Quindi esprimere un’opinione senza che l’oggetto dell’opinione sia presente non è corretto.

E’ opinione, quindi, quella tesi oratoria fine a se stessa senza portare evidenze documentali che la sostengano.

«Siamo noi». Dove quel «noi» sta per opinione pubblica. Le leadership per emergere devono prima sparare cazzate per bucare lo schermo e poi consolidarsi con un ruolo di guida assoluta, attorniandosi con gli uomini più leali. Naturalmente queste ascese repentine e di gruppo segnalano, una volta al governo, le difficoltà a risolvere i problemi della collettività 

Ideologia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'ideologia è il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale. Il termine ideologia appare per la prima volta nell'opera Mémoire sur la faculté de penser del 1796 di Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836) con il significato di «scienza delle idee e delle sensazioni».

In seguito il termine ha assunto il significato più generico di «sistema di idee» più o meno coerente e organizzato (secondo un logos, di volta in volta con connotazioni negative, positive o neutre) soprattutto per opera di Karl Marx e della sua critica dell'idealismo. In particolare, il termine è usato in riferimento a dottrine politiche, a movimenti sociali caratterizzati da un'elaborazione teorica, a orientamenti ideali-culturali e di politica economica e sociale.

Storia del termine. 

L'"ideologia" si riferisce originariamente agli "idéologues" (ideologi), una corrente di pensiero attiva in Francia tra il XVIII e il XIX secolo.

Gli ideologi si riferivano principalmente al pensiero di Helvetius, di John Locke e di Condillac. Ricorrendo ad una base fortemente materialistica e utilizzando anche gli studi sulla fisiologia del sistema nervoso di Pierre Jean Georges Cabanis, essi cercavano di indagare l'origine delle idee attribuendola ai dati sensoriali, che per successive composizioni avrebbero originato ogni fenomeno psichico. Anche la morale, intesa in senso utilitaristico, e la politica, concepita in senso liberistico, venivano considerate come "ideologia applicata".

Gli ideologi, rifiutando la metafisica ed insieme i contenuti ideali del pensiero illuministico, si dedicarono a campi d'indagine ristretti di carattere sociale ed economico, ai quali applicavano metodi matematici e statistici allo scopo di ottenere delle previsioni attendibili in settori della realtà umana generalmente ritenuti imprevedibili e impossibili da dirigere razionalmente.

Per l'opposizione espressa dagli ideologi al suo sistema di governo, Napoleone trasformò in modo dispregiativo il senso del termine, indicando negli ideologi i "dottrinari", coloro i quali avevano poco contatto con la realtà e scarso senso politico.

Il significato originario del termine infatti, come metodo del corretto ragionare, discorso razionale sulle idee, assunse un significato peggiorativo con Napoleone, il quale non aveva più bisogno di atteggiarsi a sostenitore delle idee illuministe di questi ideologi, progressisti atei e razionalisti, dei quali si era servito agli inizi della sua carriera. Egli affermava in un suo discorso del 1812:

«È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell'uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia.»

Da quel momento, il significato originario di ideologia come atteggiamento filosofico e scientifico si perse così quasi subito, come anche il legame col materialismo e il sensismo, acquisendo connotati sempre più vicini alla nozione moderna, assai vicina a quelle di dogmatismo e faziosità. Il termine cominciò quindi ad assumere per ragioni politiche il significato di una visione distorta della realtà, con la fallimentare ambizione di voler dare un ordine razionale alla società, di voler fondare scientificamente l'ordine sociale.

L'ideologia in Europa. 

Le concezioni degli ideologi francesi suscitarono interesse anche in Italia, con Melchiorre Gioia, uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di statistica alla gestione economica dei conti pubblici e autore dell'opera "Ideologia" (1822) e con Carlo Cattaneo, che sosteneva il carattere sociale dell'esperienza umana, considerata come il fondamento di una nuova psicologia sociale.

Osservava Cattaneo che se «l'atto più sociale dell'uomo è il pensiero», i risultati di questa attività speculativa presenteranno un «poliedro ideologico», una vastissima varietà di idee e di comportamenti legati alla civiltà, che potranno essere indagati e definiti da una «ideologia sociale» o «ideologia delle genti» intesa come «istoria delle idee nei popoli» così come avevano intuito sia Vico che Hegel.

Karl Marx.

Il termine ideologia si trasmette in Marx ed Engels con il significato negativo, datogli da Napoleone, di vuota espressione dottrinaria.

Con l'analisi di Karl Marx tutte le teorie filosofiche, politiche, morali, religiose non sono autonome ma, essendo prodotti umani, sono vincolate alle condizioni di vita degli uomini; per cui appaiono autonome solo in una società dove, nei rapporti (Verkehr) di produzione, i mezzi per produrre e il loro uso sono divisi tra classi.

In altre parole, l'ideologia è il modo di vedere la realtà della classe sociale dominante.

Marx utilizza il termine ideologia anche nel suo significato letterale derivato dalla parola tedesca Ideenkleid, «vestito d'idee», per cui ideologica è ogni concezione che voglia rivestire di idee e principi astratti la concreta realtà dei fatti materiali, mascherandoli e dandone una surrettizia giustificazione.

Così sono dei puri ideologi i giovani hegeliani e i "veri socialisti" tedeschi, i quali sostengono che lo scontro delle idee si riflette nella situazione storica dove prevalgono gli ideali superiori.

Bruno Bauer, Feuerbach, Max Stirner si illudono quindi che si possa modificare la realtà sociale tramite un'astratta critica delle idee, in nome di un materialismo senza base economica e storica, altrettanto metafisico quanto l'idealismo hegeliano.

L'ideologia dunque nasce dalla separazione di teoria e prassi che in un secondo tempo Marx approfondì nella concezione di sovrastruttura e struttura: queste sono legate da un rapporto di complementarità secondo il quale se è vero che le sovrastrutture, teorie filosofiche, economiche, politiche ecc., nascono sulla base delle reali strutture storiche, materiali, della società, è pur vero che queste formazioni ideologiche non rimangono isolate nella loro astrattezza, ma possono tornare a modificare anch'esse la società esistente.

Antonio Gramsci.

Una considerazione positiva dell'ideologia si trova in Antonio Gramsci, che la intende come «concezione del mondo», a patto che essa non sia il risultato di astratte teorie individuali ma strumento di organizzazione delle masse, utile a raggiungere un compromesso tra interessi storici contrapposti.

Georges Sorel.

Anche Georges Sorel nelle sue Considerazioni sulla violenza ritiene che l'ideologia sia un "mito", che tuttavia è utile come guida e stimolo all'azione politica delle masse, eccitate e stimolate dall'esaltazione di valori.

Vilfredo Pareto.

Con gli studi di Vilfredo Pareto l'ideologia si contrappone alla scienza perché le due discipline fanno riferimento a campi opposti: la prima riferisce al campo del sentimento e della fede, la seconda a quello dell'osservazione e del ragionamento. Viene così stabilito un punto importante: la funzione dell'ideologia, che non è altro che la razionalizzazione di sentimenti ed impulsi, è in primo luogo quella di persuadere, cioè di dirigere l'azione.

Karl Mannheim.

Karl Mannheim distingue poi un concetto universale ed uno particolare di ideologia. In senso particolare s'intende per essa l'insieme delle contraffazioni della realtà, che un individuo compie più o meno coscientemente. In senso generale significa l'intera "visione del mondo" di un gruppo umano, per es. una classe che trovandosi in una condizione subordinata aspira ad una trasformazione e in questo senso di parla di "ideologia generale" .

La prima va analizzata dal punto di vista psicologico, la seconda da quello sociologico.

Nel confronto tra ideologia e utopia Mannheim ritiene che siano entrambe realtà trascendenti distinte, delle quali solo la seconda è realizzabile come una realtà che non c'è ma che può essere realizzata: un progetto di realizzazione in anticipo sui tempi ma che spinge all'azione fin da ora.

Funzioni psicologiche.

Chiara Volpato esplicita le funzioni psicologiche delle ideologie : «le ideologie servono a risolvere l'incertezza e a soddisfare l'umano bisogno di comprendere e prevedere ciò che accade. Le persone sono motivate a percepire il mondo e a interpretare quanto succede a loro in modi che confermino la loro ideologia: mantenere fede alla propria visione del mondo e essere all'altezza degli standard contemplati da tale visione è essenziale per fronteggiare l'ansia e mantenere l'autostima. La conferma della propria ideologia aumenta il senso di sicurezza, tanto importante per gli esseri umani, la disconferma provoca invece ansia e accresce il senso di vulnerabilità. Quando l'ideologia in cui credono è in pericolo, le persone si impegnano per riaffermarla, il che fa sì che il legame tra ideologia e comportamenti sia più stretto quando l'ideologia è minacciata.»

«La psicologia sociale dalle sue origini ha studiato le varie ideologie legittimanti l'ipotesi del mondo giusto, l'etica protestante, l'autoritarismo, il conservatorismo politico, il sessismo, l'orientamento alla dominanza sociale, l'ideologia meritocratica, l'ideologia del libero mercato ), trovando che tutte condividono» alcuni bisogni psicologici di superamento della paura e dell'insicurezza ed «inoltre sono foriere di conseguenze simili, sia individuali che di gruppo o di sistemi, quale l'inibizione di risposte emotive come l'indignazione e i sensi di colpa...»

Cosa resta dell’ideologia? Damiano Palano, Direttore Dipartimento di Scienze politiche - Università Cattolica, il  03 maggio 2023. Testo pubblicato sull'edizione di mercoledì 3 maggio del Giornale di Brescia 

Siamo abituati a ritenere che l’epoca delle ideologie si sia definitivamente conclusa sul finire del Novecento. Ma è proprio vero? Le «grandi narrazioni» ottocentesche hanno certamente perso gran parte del loro fascino, ma molti studiosi ritengono che le ideologie sopravvivano anche nella politica contemporanea. Per riconoscerle, per comprendere il loro legame con il passato e per interpretare la loro influenza odierna, abbiamo però bisogno di nuovi strumenti teorici ed empirici.

È proprio attorno a questo obiettivo che discuteranno politologi di atenei italiani e stranieri nei due giorni del convegno “Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca”, che si terrà a Brescia, nella sede di Via Trieste dell’Università Cattolica, il 4 e 5 maggio.

Nel corso dei lavori, organizzati da Polidemos (Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici) in collaborazione con l’Osservatorio Democrazia a Nordest dell’Università di Padova e la Società Italiana di Scienza Politica (SISP), saranno innanzitutto oggetto di discussione i diversi metodi di indagine utilizzati per studiare le ideologie contemporanee, ma verranno anche illustrati i risultati di ricerche sul repertorio ideologico di formazioni populiste e radicali, sull’ideologia tecnocratica, sull’intreccio fra ideologie ‘sottili’ e vecchie linee di frattura.

Ormai quasi trentaquattro anni fa, la caduta del Muro che divideva in due l’Europa non concluse solo la stagione della Guerra fredda, ma pose simbolicamente la parola «fine» anche all’epoca delle ideologie. Un’epoca iniziata per molti versi nel Diciottesimo secolo, quando gli intellettuali illuministi iniziarono a dipingere la storia come un interminabile «progresso», e continuata nei due secoli seguenti. Proprio nel 1989 quell’epoca terminò. E il «sol dell’avvenire», i cui raggi erano diventati nel tempo sempre più tiepidi, si tramutò repentinamente in un crepuscolo, portando con sé l’ideologia ‘forte’ per eccellenza, quella su cui tutte le visioni alternative si erano modellate.

A profetizzare la «fine delle ideologie» era stato in realtà, già all’inizio degli anni Sessanta, il sociologo americano Daniel Bell. A suo avviso, il rapido sviluppo economico delle società occidentali e la diffusione del benessere anche presso le classi lavoratrici avrebbero fatto declinare i grandi sistemi dottrinari. I conflitti si sarebbero così tramutati in contrasti fra proposte pragmatiche, interne a una cornice di valori condivisi. Paradossalmente, solo alcuni anni dopo la previsione di Bell si scontrò con una clamorosa smentita, perché emersero ovunque conflitti in cui proprio le ‘vecchie’ ideologie giocavano un ruolo tutt’altro che secondario. Ma alla fine degli anni Settanta la previsione di Bell iniziò davvero a diventare una formidabile fotografia di un presente che tagliava i ponti con tutti i progetti di trasformazione radicale coltivati dalle «grandi narrazioni». E da allora – prima ancora che a Berlino il Muro mostrasse le prime crepe – tutti ci siamo convinti di vivere in un mondo ‘post-ideologico’.

A distanza di più di tre decenni, ci possiamo chiedere però se le cose stiano davvero così. E non tanto perché, a ben guardare, anche la tesi della «fine delle ideologie» potrebbe essere considerata come un’ideologia. Ma soprattutto perché la discussione pubblica non ha affatto lasciato posto a pacate argomentazioni razionali. Complici le trasformazioni comunicative, la polarizzazione nelle posizioni politiche è anzi cresciuta. E hanno fatto la comparsa leader e partiti dalle posizioni radicali, che non si richiamano alle ‘vecchie’ ideologie, ma che sembrano comunque provvisti di un armamentario ideologico, spesso assai poco elaborato ma in grado di mobilitare. Il populismo, il nazionalismo e l’ecologismo sono stati per esempio definiti ideologie «sottili»: ideologie con un cuore concettuale estremamente semplice, ma che proprio per questo possono combinarsi con valori di destra o di sinistra, progressisti o conservatori.

Forse allora le ideologie non sono davvero scomparse. Semplicemente, siamo stati noi – ancorati a un’immagine ingombrante dell’ideologia, segnata dalla «politica assoluta» del Novecento – a non riconoscerle più. Ed è anche per questo che dobbiamo aggiornare i nostri strumenti di interpretazione. Riconoscendo forse che anche la politica contemporanea è popolata da ideologie. Anche se si tratta di camaleontiche e spesso sfuggenti ideologie ‘sottili’. Testo pubblicato sull'edizione di mercoledì 3 maggio del Giornale di Brescia

L’ideologia e la sua critica (a cura di Maurizio Ricciardi e Luca Scuccimarra).

Ideologi prima dell’ideologia. Linguet e i paradossi sociali della politica.

Questo saggio affronta la dottrina politica di S.N.H. Linguet, analizzando l’uso sistematico dei paradossi al suo interno. La critica dell’ideologia fisiocratica consente a Linguet di individuare il nesso tra scienza e politica quale fondamento dell’ideologia della società e della sua critica. La costellazione concettuale formata da proprietà, appropriazione, patrimonialismo e patriarcato stabilisce le coordinate della sua teoria politica dei concetti sociali. La categoria di rapporto sociale non esprime la coordinazione tra soggetti indifferenti, ma la subordinazione di alcuni individui al potere sociale dei proprietari. La critica di Montesquieu, del suo concetto di legge e di dispotismo asiatico, conduce Linguet ad affermare la necessità di uno Stato burocratico che, grazie al suo diritto positivo sia in grado di governare i movimenti della proprietà che per Linguet è il centro reale del sistema politico.

L'incidente a Casal Palocco. La cronaca e quell’irresistibile corsa a creare mostri: senza linciaggio vi sentite meno buoni?

La morte di un bambino piccolo, strappato via ai genitori, commuove chiunque. Ma che bisogno c’è di disegnare come creature del demonio le figure di ragazzi dei quali non sappiamo niente? Piero Sansonetti su L'Unità il 18 Giugno 2023 

Ma proprio non ce la fate a vivere senza mostri? Qual è il problema? Vi sentite un po’ scadenti e avete voglia di essere sicuri che esista gente molto peggiore di voi? Oppure – e questo per quel che riguarda i giornalisti – avete bisogno di vendere qualche copia in più e non trovate nessun altro sistema se non quello di accarezzare il linciaggio?

Noi sappiamo in realtà pochissimo dell’incidente, a Roma, che è costato la vita a un bambino piccolo. Manuel, 5 anni. Naturalmente la morte di un bambino piccolo, strappato via ai genitori, commuove chiunque. I santi come gli sciagurati. Tocca i nostri sentimenti più semplici e più giusti. Questo va bene. Ma che bisogno c’è di disegnare come creature del demonio le figure di ragazzi dei quali non sappiamo niente? I giornali di questi giorni e le loro ancor più “assetate” versioni online sono impressionanti: una corsa a chi riesce a demonizzare più degli altri alcuni ragazzi sconosciuti di circa 20 anni. E anche i loro genitori.

Fior di intellettuali mobilitati per spiegarci come è possibile la loro perfidia, chi l’ha generata, quanto sta degenerando la nostra gioventù, i telefonini, i videogiochi, la droga… È stato un incidente stradale, e quando si svolgerà il processo vedremo quanta e quale fosse la colpa di chi guidava la Lamborghini. Noi oggi non lo sappiamo. E allora inventiamo, inventiamo, inventiamo. È il bisogno di linciaggio che mi colpisce. Il linciaggio come liberazione dai propri incubi. Il linciaggio come gioia e prova della propria innocenza. Il linciaggio come dimostrazione di forza. Di eticità. Di incorruttibilità. Di sapienza. Sostenuto e lodato e magnificato e amplificato dall’intero sistema dell’informazione. Piero Sansonetti 18 Giugno 2023

Dibattiti aperti a tutti Silvano Agosti su L'Indipendente il 18 giugno 2023.

Vedo emergere nel caseggiato in cui abito, una serie di piccole guerre tra inquilini. Mi chiedo come sia possibile che gli abitanti del mio caseggiato, tutti cattolici confessi, siano disponibili a perdonare qualsiasi cosa alle autorità e non perdonino il minimo torto al loro vicino di casa.

Mi domando quale invincibile angoscia regni nei loro cuori che rende indispensabile tanta conflittualità.

Gli abitanti del Pianeta finiscono con accettare, in un silenzio di massa, terremoti, inondazioni, epidemie, guerre e genocidi, sterminio quotidiano di innocenti, con 30.000 bambini che muoiono di fame ogni giorno, etc.

Accettano tutto questo ma diventano eccessivi e ingiusti nel valutare colpe e difetti di un proprio simile, causati magari solo da sbalzi d’umore o quando l’altro insiste a non adeguarsi al proprio punto di vista. Propongo dibattiti aperti a tutti, su come risolvere i problemi legati alla conflittualità quotidiana, dovuta ai difetti o a una inevitabile fragilità del nostro prossimo. Dato che ognuno è alle prese con problemi quotidiani legati a un lavoro logorante, alla disoccupazione, alle malattie, ai mutui, alle bollette, alle multe, alle tasse etc. i comportamenti che ne derivano spesso appaiono sbagliati.

Nell’esprimere questi pensieri sorrido ed ecco come gran parte dei miei simili mi rimproverano: «Tu sorridi sempre. beato te, ma il sorriso non serve certo a trovare un lavoro!». Quasi a dire: «Sei fuori dal percorso comune, sapessi come anche tu smetteresti di sorridere se fossi nei nostri panni».

In realtà credo proprio di esserci anch’io nei loro panni, anche se ciò non mi impedisce di sorridere.

[di Silvano Agosti – regista, sceneggiatore, poeta e scrittore]

 Saggio breve sull’Italia. Storia dell’educazione nazionale, dal Tuca Tuca a TikTok. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Giugno 2023

L’era di Raffaella Carrà e il malanno del presente con noi che dobbiamo correre dietro a cinquecento polemiche al giorno e non abbiamo tempo di capire cosa c’è scritto in un articolo 

Sabato sera in tv c’era la Carrà, come nei sabati sera di quaranta autunni fa. Ieri avrebbe compiuto ottant’anni, e quindi Techetechetè ha assemblato dei pezzi di Carrà delle nostre infanzie (c’era moltissima Carrà degli anni Ottanta perlopiù dimenticata, e niente delle straviste Carrà e Mina).

A un certo punto c’era un’intervista di quaranta inverni fa. La Carrà parlava d’uno spettacolo che stava facendo a teatro, e faceva dei paragoni d’impatto. Aveva concluso Fantastico 3 – i vegliardi lo sanno, all’epoca il varietà autunnale finiva il giorno della befana, con l’estrazione dei biglietti della lotteria: quanto Novecento – e diceva che in tv, «se sei fortunato» come lo era stata lei, ti vedono in venticinque milioni.

Poiché sabato erano quarant’anni dall’arresto di Enzo Tortora, Luca Bizzarri mi aveva raccontato che, nel suo podcast Non hanno un amico, voleva spiegare che Sanremo adesso se va benissimo totalizza quattordici milioni di spettatori, e Portobello ne faceva dieci in più. Ho pensato: non lo capiranno.

Non lo capiranno perché chi ha vent’anni oggi è cresciuto con quell’abisso di differenza nei consumi che è l’on demand. Non gli fanno nessuna impressione i numeri dell’Auditel, perché è abituato a vedere tutto quel che decide di vedere dopo, sul telefono, senza venire conteggiato.

Non gli fanno nessuna impressione anche perché i numeri hanno smesso d’essere eloquenti: ogni carneade che compare su un palco viene introdotto da una litania di numeri di streaming su Spotify e di visualizzazioni su YouTube (se non pagano per ascoltarti, vale come quando mettevamo da parte la paghetta per comprare un album? No. Se i tuoi numeri sono dovuti al fatto che mille ossessionati ascoltano mille volte la tua canzone, vale come quando Baglioni vendeva milioni di copie di La vita è adesso? No).

Quando su un palco arriva Gianni Morandi, per dirne uno che è rimasto sul mercato anche da venerato maestro ottuagenario, nessuno sente di dover comunicare al pubblico che quello che stanno per vedere è uno importante sciorinando numeri a caso: non serve, di Morandi tutti sanno le canzoni, non è che dici «e ora Fatti mandare dalla mamma, che è molto strimmata».

Il fatto è che quell’epoca lì, quella in cui Fantastico 3 lo guardavamo tutti, è stata brevissima. La generazione prima spesso non aveva il televisore in casa e doveva andare al bar se voleva vedere qualcosa. La generazione dopo ha avuto la tv nel telefono.

C’è una generazione sola che ha avuto un modello di cultura popolare che era davvero biografia di una nazione. Tra i miei coetanei nessuno, neanche i più studiosi, ha incontrato per la prima volta l’aggettivo «nazionalpopolare» leggendo Gramsci.

Abbiamo tutti sentito quella parola perché, nell’87, il presidente della Rai Enrico Manca disse che Pippo Baudo faceva programmi nazionalpopolari, e quello rispose «vorrà dire che d’ora in poi cercherò di fare dei programmi regionali e impopolari».

Non c’era la possibilità di non saperlo, neanche se eri, com’ero io, una quattordicenne che non sapeva cosa fosse un consiglio d’amministrazione e legittimata a non conoscere il nome di chi presiedeva quello Rai: lo sapevi perché guardavi i tg, leggevi i giornali, e lo facevi perché c’erano poche cose con cui intrattenersi.

Non c’erano cinquecento polemiche al giorno né cento cose da guardare ogni sera. Non vorrei citare troppe volte il podcast di Bizzarri, ma l’altro giorno a proposito degli youtuber che hanno sventatamente ammazzato un bambino ha detto una frase tipo «non è che noi a vent’anni leggessimo Proust». Ecco, sono un po’ imbarazzata a derogare dal mio io narrante rigorosamente analfabeta, ma leggere Proust è esattamente ciò che facevo io a vent’anni.

Perché in tv c’era Baricco a farmene venir voglia, sì; ma anche – soprattutto – perché non c’era molto altro da fare. Certo: potevi (e lo facevi) andare in discoteca, sbronzarti, scopare, guardare i varietà in tv, andare al cinema, spettegolare con le amiche – non mancavano le distrazioni. Ma leggere era una di esse. Non perché eravamo più colti: perché il telefono era attaccato al muro, e serviva per telefonare.

Se avessi avuto un telefono che faceva le foto, non avrei mai letto un romanzo. Se avessero avuto telefoni con le foto e i giochini e i fatti degli altri dentro, le servette di quando i romanzi erano considerati cose da servette non avrebbero mai letto Dickens e Balzac. È un’ovvietà così ovvia che mi vergogno a rimarcarla, eppure mi pare non se ne tenga conto, nei discorsi sul degrado contemporaneo e sui giovani di oggi scemi come sono sempre stati i giovani ma anche scemi in un modo nuovo e anabolizzato.

Io non credo che le scuole di una volta ci preparassero meglio, e a dimostrarlo è la deprimente quantità di miei coetanei che, all’articolo di sabato, ha risposto «come osi paragonare», a un articolo che non fa paragoni (io non uso similitudini e aborro il concetto di «sinonimo», ve lo dico per la prossima volta in cui volete polemizzare proiettando il vostro debole per le imprecise parole: pratico con tutto il rigore che mi riesce la religione dell’unicità di ogni storia e situazione).

I miei coetanei non sanno leggere esattamente come non sanno leggere i ventenni, e tutti insieme obiettano «non mettersi la crema solare è dannoso per sé stessi, ammazzare qualcuno è un reato» a un articolo che prevedeva questa distinzione (sono intelligentissima, ma soprattutto i lettori sono assai prevedibili) e ne rimarcava esplicitamente la mancanza di senso.

Non sappiamo più leggere perché viviamo immersi nella stessa velocità imprecisa, nella stessa approssimazione vorticosa in cui dobbiamo correre dietro a cinquecento polemiche al giorno e non abbiamo tempo di capire cosa c’è scritto nell’articolo che vogliamo contestare, figuriamoci di leggere Proust.

Quando è venuto a Bologna a presentare un ciclo di suoi film, Scorsese ha detto che “Quei bravi ragazzi”, che uscì nel 1990, lo strutturò in modo convulso, «volevo che fosse un film dove ogni minuto succede qualcosa: se lo guardi adesso, sembra un film al rallentatore».

Un paio d’anni fa ho rivisto “Rocky”, che nel 1976 era il massimo esempio di filmone popolare capace di tenere l’attenzione delle masse: in questo secolo, è lento che sembra Bergman. Si sono modificati i neuroni a noi, figurarsi ai ventenni per cui i montaggi convulsi sono una formazione e non un gusto acquisito.

E quindi può essere che un domani ci sia una Carrà, una che ha abbastanza talento e tigna da studiare per fare i balletti e i dischi, invece di guadagnare la stessa cifra agitando il culo su TikTok, perché i talenti e le determinazioni eccezionali probabilmente esisteranno sempre, e saranno sempre eccezioni.

Ma non avremo mai più i codici condivisi di quando venticinque milioni di persone davvero guardavano un programma o un film o leggevano un romanzo; non erano il numero di iscritti a un profilo Instagram di cui forse si ricordavano di guardare i video ma comunque scorrendoli al cesso con sai quale soglia d’attenzione.

Quella cosa lì è irreversibile, non la risolvi vietando i social ai minori (ma poi come, che sono quasi tutti proprietà di società statunitensi, cioè di un posto in cui l’idea del documento d’identità è considerata un sopruso?). Alle ragazze un secolo fa s’insegnava a suonare il pianoforte, non per renderle colte o concertiste ma perché suonassero qualcosa distraendo la famiglia stufa di sentire solo e sempre le proprie voci. Poi arrivò la radio, e non ci fu più bisogno di mandare le bambine dal maestro di musica. Sto provando a immaginare una polemica d’epoca: chiudiamo la radio, ci rende più ignoranti.  

Né la risolvi dicendoti che era verde la tua valle quando, vuoi mettere, gli italiani andavano forte in macchina per sbruffoneria gratuita, senza uso di streaming. Di sicuro non la risolvi dicendo, come ho sentito dire a una mia coetanea famosa, che ai giovani va data la cultura.

Mamma, mi piace questo youtuber che rischia di morire o di ammazzare qualcuno come principale tratto narrativo in montaggio sincopato. Piccino, vieni con me a vedere l’Aida, ti passerà tosto questa degenerata abitudine, ti appassionerai di certo all’opera lirica. Pensavo anche a tredici atti di Il lutto si addice a Elettra, mi sembrano una valida alternativa a TikTok, certo che possiamo curare le nuove generazioni dal malanno del presente, io ho la soluzione, diamine.

L’ultima parola. L’abusivismo semantico di “narrazione” e l’improprietà lessicale di “narrativa”. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 19 Giugno 2023

Questo termine così di moda nella società di oggi usurpa le prerogative di altri vocaboli come: affermazione, interpretazione, rappresentazione, versione. L’ennesima conferma della confusione e dell’impoverimento del nostro lessico

“Narrazione” è uno dei termini chiave della comunicazione pubblica contemporanea. C’è la narrazione di Giorgia Meloni «underdog» e la narrazione di Elly Schlein che «non ci hanno visti arrivare». C’è la narrazione di Giuseppe Conte “avvocato del popolo”, quella di Matteo Renzi “rottamatore” e ci sono state le metamorfiche narrazioni di Silvio Berlusconi “presidente imprenditore”, “operaio”, “contadino”, “ferroviere”… Anziché affidare come un tempo le loro idee a soporiferi saggi che nessuno legge, o a deprimenti articoli su riviste che nessuno compra (e che del resto neppure si pubblicano più), i leader politici hanno scoperto il business (anche commerciale) delle biografie e pseudo-autobiografie che, attraverso il racconto di una vicenda proposta come implicitamente esemplare, trasmettono la propria visione dell’Italia e del mondo (del resto, oggetto tipico delle narrazioni sono le storie, le favole, fole, spesso sinonimo di “balle”).

Non ci sono però soltanto le narrazioni della politica: c’è la narrazione d’impresa (variante più manageriale: la narrazione strategica d’impresa), la narrazione del brand, la narrazione del prodotto, la narrazione dei beni culturali, la narrazione dei musei, la narrazione della scienza, la narrazione enogastronomica, la narrazione ecologista, la narrazione pacifista e quella bellicista, la narrazione terrapiattista, le narrazioni complottiste, le narrazioni no vax, no tav, no tap… A ognuno la sua narrazione.

Che la forma narrativa si presti meglio di quella logico-argomentativa ai fini della trasmissione e della memorizzazione di un messaggio minimamente complesso è noto fin dagli albori della civiltà. In età orale, come ha spiegato in studi illuminanti il grande filologo classico Eric Havelock, i poemi omerici erano una sorta di Enciclopedia Britannica in cui gli ascoltatori, attraverso le vicende di una lontana guerra e di un favoloso viaggio per mare, potevano reperire una quantità di informazioni sull’universo fisico e spirituale del tempo e di istruzioni su come ci si comporta nelle diverse situazioni, con gli ospiti stranieri, con gli dèi, con gli anziani, su come si combatte, come si naviga, come si costruiscono le navi e così via.

Ma anche Platone, in epoca ormai risolutamente letteraria, intercala volentieri la sua opera filosofica, che è già in sé una filosofia narrata, con la narrazione di un mito che ha lo scopo dichiarato di sciogliere i nodi concettuali più intricati: nel Protagora, al celebre sofista che si accinge a esporre la sua tesi sull’insegnabilità della virtù politica, viene messa in bocca la domanda «Preferite che io, come anziano che parla ai giovani, ve la dimostri narrando un mito, oppure con un ragionamento?»; e poiché gli interlocutori gli rimettono la scelta, Protagora opta per la prima soluzione, in quanto «più piacevole». La forma narrativa assolve in questo modo a una funzione didattico-esplicativa, che in altri casi si specifica ulteriormente come più efficace in termini persuasivi-emozionali.

Nei suoi trentaquattro dialoghi (più l’Apologia di Socrate e le tredici lettere) Platone ricorre a 25 narrazioni di questo tipo. Nella nostra epoca iper-letteraria (o forse post-letteraria e neo-orale) non solo la comunicazione, nei diversi campi del comunicabile, tende a prediligere la forma narrativa, ma lo stesso vocabolo “narrazione” sempre più viene chiamato in causa, occupando un campo semantico tanto esteso quanto abusivo.

È una parola di moda che corre contagioso di bocca in bocca: una sorta di emulazione ecolalica ammantata di presunta ricercatezza, che vorrebbe denotare sintonia con lo Zeitgeist linguistico e invece attesta soltanto confusione e impoverimento del lessico. Un torto arrecato tanto al vocabolo in questione, che perde il suo significato proprio, quanto a quelli di cui usurpa le prerogative, ossia affermazione, interpretazione, rappresentazione, versione. Non è un caso, come di recente ha fatto notare Vittorio Coletti in una consulenza linguistica per l’Accademia della Crusca, che nei discorsi di chi la usa – e, aggiungiamo, di chi la contesta – la “narrazione” è spesso accompagnata dall’aggettivo “sbagliata”: «una narrazione può essere bella o brutta, convincente o deludente, noiosa o coinvolgente, ma non sbagliata, semmai mal fatta. Sbagliata è un’interpretazione, una rappresentazione concettuale».

Ma l’improprietà lessicale tocca vertici surreali quando, per salire un altro gradino nella ricercatezza, anziché “narrazione” si usa “narrativa”, per lo più seguita da “secondo/per cui/la quale”: «la narrativa per la quale le banche europee siano state vittime di una crisi del sistema bancario», «la narrativa secondo cui i russi sono interessati alla diplomazia, e l’Ucraina no». Basta sfogliare un qualsiasi giornale, o compulsare la rete, per trovare copiosi esempi. Peccato che nella lingua italiana la parola “narrativa” sia essenzialmente un aggettivo, e semmai un aggettivo sostantivato soltanto quando serve per indicare il genere letterario diverso dalla saggistica e dalla poesia. Probabilmente la confusione nasce da un maldestro riecheggiamento dell’inglese narrative, che significa “narrazione” e non “narrativa”: un errore nell’errore. Ma un errore al quale ormai è vano aspettarsi un rimedio: siamo diventati un popolo di narratori (santi, poeti e navigatori sono pregati di accomodarsi in coda). 

Tornano i congressi, torna la politica. Ed è un bene. Lorenzo Castellani su Panorama il 19 Giugno 2023.

 Dopo il Pd anche Forza Italia annuncia il congresso. Altri dovrebbero imitarli per ridare credibilità, voce, idee alla politica

A cosa servono oggi i partiti? È una domanda sempre più difficile da rispondere per chi segue la politica italiana. La scomparsa di Silvio Berlusconi costringe Forza Italia, un partito personale, ad interrogarsi sul proprio futuro: disperdersi oppure cercare di organizzarsi. Ma l’ex partito del Cavaliere non è una eccezione nel panorama italiano quanto una regola. Perché, ad esempio, il terzo polo non è mai nato come partito unico e oggi Calenda e Renzi sono separati in casa? Perché Giorgia Meloni da capo del governo è ancora capo del proprio partito? Perché il Movimento della democrazia diretta oggi è il partito personale di Giuseppe Conte? Fondamentalmente perché nessuno nella politica moderna è disposto a intessere compromessi per realizzare una organizzazione con regole e procedure. Ogni politico che riesce in qualcosa si sente leader e oltre la leadership non c’è quasi nulla nella politica italiana. E dunque a tutti loro, i capi, basta la popolarità: non servono regole, congressi, divisioni di ruoli, presenza territoriale. L’unica cosa che conta sono la presenza mediatica, il personaggio e il messaggio. In altre parole nella democrazia del pubblico conta soltanto la leadership e la sua comunicazione. Il leader tuttofare pensa, agisce, comunica, sceglie il personale politico. Si prenda ad esempio il più antico partito italiano, la Lega Nord, dove Matteo Salvini è da un decennio segretario plenipotenziario con poche possibilità di essere scalzato con meccanismi di democrazia interna. Che ne è dei congressi di partito? Certo resta il Pd, la formazione che più somiglia ad un vecchio partito, ma anche qui siamo di fronte ad un cartello tra correnti che cede non appena ci sono primarie aperte. Schlein ha vinto con l’appoggio di alcune correnti capaci di inventare manovre opportunistiche e con l’entrismo di alcuni gruppi di sinistra. Ma anche il Pd non ha più una dimensione territoriale: esiste in Toscana ed Emilia, nei centri delle prime città italiane, ma è sparito dalle province e vive una tensione perenne tra governatori e sindaci e direzione nazionale. La ditta è ciò che più somiglia ad un vecchio partito, ma non è anch’esso più assimilabile ad un partito radicato e di massa. Sono anche spariti i partiti-esperimento o single-issue come i radicali o il popolo della famiglia, un segno che anche su quel fronte l’opinione pubblica non è più disposta ad inseguire una sola idea da promuovere nell’agone politico. Quali fattori pesano in questa trasformazione della politica che ha distrutto i partiti? Senza dubbio la trasformazione mediatica e digitale, i costi di una organizzazione che oggi non sembrano più sostenibili, meccanismi di personalizzazione della politica che sono l’unico viatico per il successo in una politica priva di ideologie forti, una offerta politica pensata sempre più come intrattenimento che come progetto, una certa debolezza decisionale della politica nazionale derivante dal ruolo di supplenza delle istituzioni europee e giudiziarie. In Italia poi tutto questo è aggravato dalla composizione istituzionale del paese: diversi sistemi elettorali per comuni, regioni e politica nazionale; una legge elettorale per le elezioni politiche che incentiva le leadership a riempire di fedelissimi le liste e a catapultarli su territori che non conoscono e dove non sono conosciuti; l’impossibilità per la popolazione di sanzionare partiti e parlamentari nel rapporto tra locale e nazionale. Tutto questo crea un quadro parcellizzato in cui le leadership per emergere devono bucare lo schermo prima e poi consolidarsi con un ruolo di guida assoluta, premiando gli uomini più leali in questa cavalcata. Naturalmente queste ascese repentine e di gruppo segnalano, una volta al governo, le difficoltà ad aprirsi a personalità esterne al partito: è valso per Renzi e il suo giglio magico, vale oggi per Meloni con i suoi fedelissimi. Infine, questa leaderizzazione assoluta mette a repentaglio la vita dei partiti stessi poiché quando una leadership fallisce rischia di trascinare a fondo partiti che sono fondati soltanto su una personalità. È difficile che questo scenario in Italia possa cambiare, almeno fino a quando non ci saranno meccanismi elettorali ed istituzionali differenti. Tuttavia, la lungimiranza dei leader - in particolare di quelli che oggi governano - potrebbe far fare uno scatto in avanti al sistema politico italiano: disegnare regole e organizzazione interna, avvalersi di pensatoi e fondazioni, preparare la successione e favorire la competizione interna, coinvolgere quanto più possibile i cittadini per dare legittimità alle istituzioni e ai partiti stessi. Non c’è fretta, ma sarebbe bene iniziare a prepararsi. I meccanismi e le regole di competizione interna possono sembrare fastidiosi per un leader di successo oppure per un partito che non riesce a immaginare ancora il suo futuro ma che nel lungo periodo possono preservare la vita del partito e l’eredità stessa del leader. C’è vita oltre il leader, ci sono i partiti oltre le tribù parlamentari.

Politico influencer o influencer politico? Da Synergia-net.it Synergia Magazine Politico influencer o influencer politico? di Emma Arillotta, Davide Madonini, Magdalena Nechita e Lara Nichetti.

Dalla rubrica "Lavori di ricerca empirica degli studenti dell'Università di Pavia" Negli anni, i social media hanno acquisito sempre più rilevanza, giocando un ruolo fondamentale nella vita quotidiana. L’influenza sull’opinione pubblica di questi mezzi è cresciuta esponenzialmente, modificando le modalità d’interazione tra le persone e il modo di fare comunicazione. Oggi, molti negozi, organizzazioni ed enti possiedono il proprio account social per promuovere i loro fini e coinvolgere una fetta sempre maggiore di persone; per farlo, tutte le azioni fatte attraverso il web vengono profilate e utilizzate per scopi commerciali e non. In questo modo, è nato un nuovo metodo di fare marketing, basato sulle preferenze e gusti di ogni singolo consumatore. Con il diffondersi di questi strumenti, anche la comunicazione politica ha intrapreso questa strada, coniando il termine political marketing, cioè una vera e propria strategia attraverso cui fare propaganda politica: vengono raccolte le informazioni degli utenti e proposti contenuti “su misura” per influenzarli. Attraverso uno studio, fatto durante il corso di Statistica Sociale presso l’Università degli Studi di Pavia, si è cercato di misurare l’impatto e le conseguenze del marketing politico. Per raccogliere i dati è stato creato un questionario attraverso Google Form, che è stato inviato tramite Whatsapp, Facebook e Instagram. Le risposte ottenute sono state in totale 402, di cui il 64,4% donne e il 34,1% uomini. La ricerca si prefigge di comprendere, anzitutto, se esiste una differenza tra diverse fasce d’età e l’utilizzo dei social per ottenere informazioni politiche; successivamente si è voluto analizzare la consapevolezza delle persone e la giustizia attribuita da esse al political marketing; infine, si indaga se esistono dei fattori che permettono di prevedere l’impatto e il livello di influenza di questo tipo di comunicazione. Partendo dall’età delle persone intervistate, sono stati creati due gruppi: coloro con un’età inferiore di trent’anni e coloro con un’età superiore. I risultati dell’indagine evidenziano che i più giovani tendono a seguire maggiormente l’argomento “politica” attraverso i social e ritengono che sia giusto utilizzarli per parlare di questo tema. Inaspettatamente rispetto a quanto inizialmente ipotizzato, si è notato che il primo gruppo (0-30) tende ad esporsi e condividere le proprie idee politiche con una minore frequenza rispetto al secondo (30+). Tuttavia, questo risultato viene messo in discussione ed è possibile affermare che non ha rilevanza statistica poiché dipende dal campione trattato, infatti, il 77,6% degli intervistati rientra nella prima classe, mentre il resto nella seconda. Per quanto riguarda il secondo punto, si evidenzia che tra coloro che seguono assiduamente la politica sui social, il 70,97% ritiene che sia appropriato sviluppare il tema attraverso degli account sul web, il restante 20,03% si dichiara contrario. Oltre a questo si è voluto testare se esiste una relazione tra l’ideologia politica di appartenenza e ritenere adeguato trattare contenuti partitici sui social, tuttavia non c’è nessuna evidenza di qualche legame tra le due variabili. Dall’indagine si sottolinea che, in generale, tutti gli intervistati sono a conoscenza delle figure politiche più attive attraverso i loro profili social. Infatti, i volti più conosciuti sono Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Matteo Renzi, cioè le figure istituzionali che investono maggiormente nel political marketing. Avendo come riferimento chi segue la politica sui social e chi non, il risultato precedentemente ottenuto è simile in entrambe le classi. Spostando l’attenzione sulla conoscenza della profilazione e targettizzazione dei dati resi disponibili attraverso le interazioni fatte sul web, si conclude che le persone con un’età superiore ai trent’anni sono maggiormente consapevoli di essere targettizzati dal punto di vista politico. Rispetto alla frequenza con cui si segue la politica sui social e l’affluenza di contenuti politici ricevuti, è possibile affermare che all’aumentare della frequenza con cui si segue questo argomento, di conseguenza aumentano anche i contenuti politici proposti. Infine, gli intervistati sono stati divisi in due gruppi: coloro che sono a conoscenza di essere politicamente targettizzati e quelli che non ne sono consapevoli. Al contrario di ciò che ci si aspettava, il primo gruppo è maggiormente influenzato rispetto al secondo. Per concludere, sono stati paragonati i dati ottenuti dalla ricerca con dei risultati, reperiti dal web, di studi simili fatti su un campione americano. È stata scelta questa comparazione dato il caso emblematico del political marketing negli Stati Uniti, avvenuto durante le scorse presidenziali. Confrontando i dati ottenuti attraverso le due diverse fonti possiamo affermare che il 29% degli Italiani è a favore della condivisione politica sui Social Network, a differenza degli americani dove la percentuale scende al 15% che è all’incirca la metà del dato italiano. Successivamente la ricerca è proseguita andando a paragonare due politici che possiedono un’impronta “Social” molto marcata ovvero Matteo Salvini e Donald Trump. Il leader leghista per promuoversi spende su Facebook 253.466 euro, mentre la spesa di Trump si attesta sulla cifra di 137 milioni di dollari. Rapportando l’esborso economico al numero degli abitanti dei rispettivi stati e attribuendo una simile parità del potere d’acquisto all’euro e al dollaro, è immediato constatare che la spesa pro capite negli Stati Uniti è di gran lunga superiore a quella italiana, rispettivamente di 0,41 dollari contro 0,004 euro per abitante.

Influencer leader politici del futuro? Attenti all’impegno senza contesto. 

La comunicazione politica degli influencer propone temi di discussione ma in formato monologo, su un tema, contro un nemico. A sparire è il contesto circostante in cui soppesare i temi, misurarli, valutarli. Ben vengano la schiettezza e il conflitto dialettico, ma siamo sicuri siano totalmente estranei ad altre logiche?

Pubblicato il 05 Ottobre 2021 da Sabino Di Chio, Docente di Media e Consumi Culturali, Università degli Studi di Bari 

Dal “Che schifo che fate politici” di Chiara Ferragni a luglio al “Fedez, sei un politico” (non con il tono di un complimento) di Salmo ad agosto, l’estate 2021 ha posto all’attenzione generale il tema del rapporto tra celebrity digitali e impegno politico. Per anni il dibattito si era concentrato sul versante opposto dell’adattamento dei politici alle novità del digitale. Dall’exploit di Nichi Vendola su Facebook nel 2010, ai tweet quirinalizi di Matteo Renzi fino all’ingresso di Matteo Salvini su TikTok, l’attenzione era concentrata sulla capacità di domare la bestia social, riportandola nell’alveo degli strumenti di gestione del consenso. Compito complesso: la rete livella le posizioni, amplificando le voci senza pretendere tesserini. Per molti osservatori, lo stile populista di buona parte della comunicazione politica degli anni ’10 arriva proprio da qui, da mezzi senza gerarchia in cui assomigliare al pubblico è sembrata a lungo la formula magica.

Indice degli argomenti

I Ferragnez primi protagonisti dei social a “sconfinare”

Fedez al Concertone del Primo maggio

Il conflitto torna al centro della scena

Influencer leader del futuro?

I Ferragnez primi protagonisti dei social a “sconfinare”

La comunicazione digitale, però, evolve rapidamente: i suoi protagonisti si affermano come idoli trasversali e si sentono pronti a sostenere conversazioni più complesse, oltre le terre sicure dell’influencer marketing o dell’intrattenimento. In Italia, il ruolo di apripista spetta a Chiara Ferragni e Fedez, sodalizio pubblico/privato tra i maggiori interpreti di un ruolo ibrido in cui le professionalità di partenza (imprenditrice di moda di caratura internazionale, lei; rapper da hit parade nazionale, lui) si fondono e confondono con quelle di testimonial, opinionista, socialite, genitore e narratore della quotidianità.

Da mesi i due sono impegnati in azioni di contrasto agli effetti della pandemia e nel sostegno al ddl Zan contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Nell’affrontare questi temi, i due non hanno cambiato l’approccio tipico fatto di autoproduzione dei contenuti (le stories sono la tribuna dal quale si detta l’agenda), coinvolgimento dei follower (gli appelli al crowdfunding hanno permesso di raccogliere quasi 5 milioni di euro in pochi giorni per convertire una tensostruttura in un nuovo reparto di terapia intensiva del S. Raffaele), narrazione intima (la critica alla gestione della campagna vaccinale lombarda prende spunto ad aprile dalle difficoltà incontrare dalla nonna di Fedez nell’ottenere una prenotazione). L’engagement è totale, il linguaggio colloquiale, diretto, senza alcun filtro che possa far sospettare ai follower un deficit di sincerità.

Fedez al Concertone del Primo maggio

L’impatto tra lo stile Instagram e la ritualità televisiva deflagra durante il Concerto del Primo Maggio su Rai 3. Fedez annuncia un intervento sui tentativi della Lega di ostruire l’approvazione in Senato del disegno di legge. Contemporaneamente, aggiorna i follower sul negoziato con la Rai per ottenere la piena libertà di espressione, arrivando a pubblicare, per testimoniare i tentativi di censura, l’audio delle telefonate con i dirigenti Rai registrate senza preavviso. Il confronto appare impietoso: da un lato la burocrazia novecentesca della tv, dall’altro la trasparenza radicale dei social, certo. Ma anche, da un lato un’azienda di servizio pubblico che deve svolgere il suo ruolo di mediatore tra le istanze differenti che permeano la società, dall’altra, un utente di Instagram che gode di tutto il potere che la piattaforma gli concede per gestire, in assenza di qualunque controllo editoriale, contenuti a 12,8 milioni di follower.

La schiettezza è l’ingrediente che rende affascinanti le prese di posizione delle celebrity digitali in ambito sociale e politico. Non è solo una questione di linguaggio: da tempo la politica si è sintonizzata sul colloquiale, ed anche qualche gradino più in basso. Sono convinzione e costanza a colpire, perché radicalmente estranei ad uno scenario post-democratico dominato dall’immobilismo del “non c’è alternativa”. La politica contemporanea è affollata di immagini ecumeniche: la concertazione, l’unità nazionale, le larghe intese. A Roma e Bruxelles attualmente, il timone del governo è in mano a esecutivi di coalizione che si fanno interpreti di un presupposto perseguimento dell’interesse generale, raggiungibile esclusivamente attraverso misure motivate dalla razionalità tecnica e blindate dall’emergenza.

Il conflitto torna al centro della scena

L’integrazione è un dovere, il dissenso critico una minaccia alla stabilità del sistema che assomiglia alla diserzione. È così che il conflitto represso si trasfigura online in scontro tribale tra appartenenze sanguigne, identitarie, claniche che non possono contemplare conciliazione né persuasione. L’altra faccia della neutralizzazione è l’incancrenirsi delle identità in monoliti che danno riparo alla fragilità del soggetto ma trasformano la sfera pubblica in uno scenario dilaniato, al limite dell’incomunicabilità. Paradossalmente gli influencer hanno il merito di riportare al centro della scena una forma di conflitto aperta, dialettica, seppure su temi di emancipazione individuale e non collettiva. Un piglio che arriva dalle esperienze commerciali e da quelle mutua la fiducia nel futuro e la concentrazione sul risultato, selezionando topic dotati di inerzia positiva come il riavvio dell’industria culturale dopo la pandemia o il ddl Zan, sui quali il consenso popolare è molto più vasto e trasversale degli equilibri parlamentari, facendo ipotizzare un lieto fine non impossibile, a portata di mano.

Influencer leader del futuro?

La positività associata alla chiarezza delle rivendicazioni, messa a confronto con le oscillazioni dei professionisti, spinge una porzione dell’opinione pubblica a vedere negli influencer il prototipo di leader del futuro in grado di lottare per le cause che gli stanno a cuore senza ripensamenti, codardie o compromessi al ribasso e i giornali a ventilare discese in campo gratificate da sondaggi con percentuali rilevanti. Addirittura, Matteo Renzi, politico nativo digitale per la media italiana, accusato frontalmente da Ferragni di complottare per il rinvio dell’approvazione del ddl, ha dovuto utilizzare una cifra inedita di caratteri per spiegare quanto la politica sia studio, approfondimento, attesa, compromesso, serietà, passione, fatica. Invecchiando, però, di colpo rispetto all’immagine decisionista e irriverente che ne ha accompagnato l’ascesa, di fronte ad una “avversaria”, libera, globale, indipendente perché dotata di un apparato mediale autonomo che la pone in simbiosi immediata con una fanbase entusiasta.

Se la libertà è partecipazione, l’impegno politico di qualunque cittadino è sempre auspicabile e la storia recente italiana insegna che i veri game changers del settore (Berlusconi e Grillo) sono arrivati, non a caso, proprio dal mondo dei media e dello spettacolo. Occorre piuttosto chiedersi, dunque, quali caratteristiche l’impegno politico delle celebrity digitali prenderà in prestito dai canali che ne hanno sancito il successo. Lorenzo Pregliasco ha parlato di “politica Netflix”: gli influencer offrirebbero al pubblico una politica single-issue in cui ogni elettore può scegliere “on demand” una causa di riferimento (ambiente, diritti civili, ecc.) isolandolo da un sistema ideologico classico sull’asse destra-sinistra con l’effetto collaterale di esasperare le posizioni in campo e aumentare la frammentazione dell’opinione pubblica. Il sociologo Marco Pedroni, invece, pone l’accento sullo statuto profondamente commerciale della presenza online dei protagonisti. Difficile eliminare il sospetto che ogni esposizione sia in realtà strumentale alle esigenze di marketing di self entrepreneur costantemente mobilitati per l’espansione delle fanbase.

A queste analisi va aggiunta una considerazione sui limiti del mezzo: la comunicazione digitale ha il grande merito di mettere l’utente direttamente in contatto immersivo con il contenuto che desidera. Di conseguenza, però, ha anche il grande difetto di eliminare tutto il resto: l’oggetto dei desideri su Amazon o StockX diventa tale anche perché si erge in solitaria sulla vetrina dello schermo senza l’ingombrante confronto con un negozio circostante pieno di oggetti, stimoli, ripensamenti. Una notizia su Facebook si impone con tutto il suo peso in assenza di una pagina di giornale che le assegni una posizione o una dimensione. E così una destinazione su Google Maps rispetto allo spazio che la circonda, una canzone su Spotify rispetto all’album che la contiene o una stanza su Booking rispetto alla città che la ospita.

Allo stesso modo, la comunicazione politica degli influencer propone temi di discussione ma il formato più efficace è il monologo, su un tema, contro un nemico. A sparire è il contesto circostante in cui soppesare i temi, misurarli, valutarli. La principale preoccupazione è dunque l’idea di un dibattito pubblico trasformato in una successione di allarmi, appelli e scontri, in cui i temi senza sponsor perdano appeal, in cui per decidere insieme ci si renda incapaci di guardarsi da lontano, dall’esterno, dandosi tempo.

Matteo Giangrande 13 dicembre 2018: Mi capita di frequente in corsi di argomentazione per il Debate durante l’esposizione dei modelli argomentativi (AREL o anche Toulmin), del ruolo delle evidenze all’interno dell’argomento e delle loro diverse tipologie, o anche durante l’illustrazione delle fallacie di rilevanza, di esser chiamato a rispondere a domande relative agli argomenti che la maggior parte dei manuali di logica informale e di critical thinking cataloga come “di autorità”.

Nei corsi di dibattito sostengo, come una sorta di indicazione puramente pragmatica, che il buon debater può usare il riferimento all’autorità nella parte del discorso argomentativo dedicata alle “evidenze” e, insieme, non può usare il riferimento all’autorità nella parte dell’argomento dedicata al “ragionamento”. E ciò perché il ricorso all’opinione di un esperto è un modo ragionevole per rendere “credibile” un’affermazione. Ma, al contempo, non la “dimostra”. Spero di chiarire questa posizione, assolutamente personale nel mondo del dibattito, nel seguito del post.

Le perplessità dei colleghi e degli studenti sono spesso suscitate dal fatto che spesso presento l’argomento dell’autorità (o argomento ad verecundiam) come una fallacia subito dopo aver illustrato la funzione di evidenza che la citazione del parere di un esperto può svolgere all’interno dell’argomento complessivo.

Occorre, dunque, chiarire e distinguere i due casi, ossia l’evidenza da auctoritas e l’argomento da auctoritas.

Evidenza da auctoritas

La citazione del parere di un esperto svolge all’interno di un argomento complessivo svolge una funzione di evidenza perché sostanzia (o “puntella” o “fonda”) la plausibilità o la credibilità di una delle premesse che compongono il ragionamento sottoposto all’attenzione del pubblico considerato come agente razionale. Nella tradizione dibattimentale si è soliti chiamare evidence la parte dell’argomento finalizzata a mostrare, a illustrare, a porre dinanzi agl’occhi il collegamento, la corrispondenza tra il ragionamento, che l’oratore presenta al pubblico, tra le opinioni espresse e la realtà effettiva, i fatti del mondo. Funzione delle evidenze è far vedere al pubblico che la visione che l’oratore difende trova un riscontro oggettivo nella realtà.

Si consideri il seguente argomento informale:

Una delle funzioni della scuola è preparare i giovani all’inserimento nel mondo del lavoro

Il futuro mondo del lavoro richiederà un maggiore sviluppo delle competenze in critical thinking

Le attività di dibattito regolamentato sviluppano efficacemente il pensiero critico

Il livello di competenze di pensiero critico degli studenti italiani non è adeguato a quanto richiede il futuro mondo del lavoro.

Nella scuola italiana non si praticano attività di dibattito regolamentato.

La scuola italiana dovrebbe promuovere attività di dibattito regolamentato.

Sebbene l’argomento sembri funzionare, qualcuno potrebbe obiettare o avere delle riserve sulla veridicità o plausibilità delle singole premesse e controbattere che esprimono affermazioni senza fondamento nella realtà.

Il buon dibattente, il buon costruttore di argomenti, allora, prevedendo le possibili obiezioni della squadra avversaria, si pone l’obiettivo di fornire di stabile fondamento, di rendere credibile e avvalorare con prove ciò che altrimenti verrebbe considerato soltanto come un pregiudizio soggettivo senza riscontri effettivi. E, quindi, il dibattente potrebbe iniziare a sostanziare l’enunciato 2 supportandolo così:

“Il report del World Economic Forum, pubblicato nel 2016, Future of Jobs. Employment, Skills and Workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution, indica il critical thinking come “parte crescente delle competenze fondamentali richieste dalle industrie” e lo pone in vetta nella classifica delle competenze chiave in molti settori lavorativi”.

Oppure, il buon costruttore di argomenti potrebbe comprovare l’enunciato 3 così:

“La meta-analisi di 19 studi, pubblicata nella rivista Communication Education, conclude che la formazione nel dibattito genera un aumento significativo della competenza in critical thinking”.

In breve, in un discorso argomentativo le evidenze descrivono o narrano, mostrano o illustrano concretamente la plausibilità delle affermazioni e del ragionamento, inteso come insieme di premesse e conclusioni. Le evidenze sono le “testimonianze”, le “attestazioni” che avvalorano le premesse che compongono il ragionamento.

A livello teorico, nel dibattito, le evidenze sono le “deposizioni”, ossia informazioni desunte da affermazioni pubblicate sotto “l’impegno a dire la verità”. Rientrano nella categoria delle evidenze non solo le testimonianze in senso stretto, ma anche i saggi considerati scientifici e, in generale, tutta la pubblicistica dotata di sufficiente credibilità.

Argomento da actoritas

Subito dopo aver esposto i modelli argomentativi e la funzione che svolge l’evidenza nell’argomento solitamente nei corsi di argomentazione per il Debate illustro brevemente le fallacie, e tra queste dedico particolare attenzione a quelle catalogate come “di rilevanza”: gli argometni ad baculum, ad misericordiam, ad hominem, ad populum, ad ignorantiam e, non ultimo per importanza, l’argomento ad verecundiam o di autorità.

Considero l’argomento dell’autorità generalmente fallace perché il timore reverenziale che dovremmo o potremmo provare nei confronti delle autorità non ci vieta di contestarne le tesi. (Qui si considera autorità l’esperto. L’argomento di autorità non esperta è sempre una fallacia).

Alcuni esempi di argomenti di autorità:

“Non ti convince la previsione del prof. Sempronio? Ma il prof. Sempronio ha due lauree e insegna all’Università”.

“E’ certamente vero, perché lo ha sostenuto anche Aristotele”.

“Fonti governative lasciano trapelare che presto la manovra sarà in aula”.

Tutti comprendono il motivo per cui l’argomento di autorità è una fallacia. Il fatto che Aristotele sostenga una tesi, di per sé, non prova né che la tesi sia vera né che sia falsa, cioè non dimostra alcunché. La nozione di verità non fuoriesce da quella di dimostrazione. E il fatto che una tesi sia supportata da un’autorità di per sé non costituisce una dimostrazione.

Tuttavia, quotidianamente ci fidiamo del parere degli esperti, e in situazioni nei quali è in gioco la nostra stessa esistenza. Si immagini la situazione ordinaria:

Dott. Caio: “Prenditi due pasticche al giorno: una al mattino e una la sera”.

Sig. Rossi: “Va bene”.

Il sig. Rossi esce dallo studio, si reca in farmacia, acquista il medicinale e lo assumere regolarmente seguendo la prescrizione del suo dottore, di cui ha piena fiducia.

Realmente consideriamo il comportamento del Sig. Rossi come drammaticamente deficitario dal punto di vista del pensiero critico perché non ha chiesto le ragioni della prescrizione? Davvero il comportamento del Sig. Rossi può essere considerato come dissennato?

A ben guardare, il comportamento del Sig. Rossi è ingenuamente giustificabile poiché il sig. Rossi evidentemente si fida del dott. Caio.

Le perplessità dei corsisti sorgono da una sorta di contraddizione che la nozione di autorità esperta contiene: da un lato, da un punto di vista logico, non dimostra la verità; dall’altro, come accade nella vita quotidiana, da un punto di vista pragmatico, il suo parere è credibile anche se non viene spiegato.

Sulla questione dell’argomento di autorità diversi manuali di pensiero critico si esprimono convergendo sull’idea che sebbene il parere di un esperto non sia dimostrativo, è comunque credibile, plausibile e probabilmente vero.

Ad esempio, nel libro “Introduction to Logic” di Copi e Cohen si argomenta che: “quando argomentiamo che una data conclusione è corretta sulla base del fatto che un’autorità esperta è giunta al medesimo giudizio, non commettiamo una fallacia. Infatti, un tale ricorso all’autorità è necessario per molti di noi e su molte questioni. Di certo, il giudizio di un esperto non costituisce una prova conclusiva; gli esperti sono tra loro in disaccordo, e anche se fossero tutti d’accordo potrebbero sbagliare; ma l’opinione dell’esperto è sicuramente un modo ragionevole per supportare una conclusione”.

In un diverso manuale “Essentials of Logic” degli stessi autori si può leggere: “Credi alla maggior parte delle cose che il tuo professore ti dice. Quando parlano all’interno della loro area di studio e di ricerca, è ragionevole farlo. Sono autorità nei loro campi. Ciò non significa che hanno sempre ragione — ognuno occasionalmente sbaglia — ma c’è una buona ragione per ritenere che hanno ragione la maggioranza schiacciante delle volte”.

E ancora in Logic, di Baronett: “Il ricorso alla testimonianza degli esperti rafforza la probabilità che la conclusione sia corretta, se l’opinione rientra nel campo dell’esperto”.

Parere e plausibilità: definizione operativa dell’argomento di autorità

Cerchiamo di analizzare quanto le posizioni sopra elencate ci raccontano del modo in cui l’argomento dell’esperto viene pensato.

Lo possiamo formalizzare nel modo seguente:

“L’esperto E dice che p”. Dunque, “p è estremamente plausibile”.

Il parere dell’esperto è estremamente più plausibile dell’opinione dell’uomo della strada perché è significativamente molto più probabile che l’esperto si avvicini alla verità rispetto all’opinione dell’uomo della strada, perché l’esperto conosce e l’uomo della strada no.

Ma cosa significa in sostanza? 

Written by Matteo Giangrande Docente di storia e Filosofia

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2023.

Povertà di linguaggio significa anche povertà di ragionamento. Alcuni esempi. Martedì sera mi sono soffermato sul dialogo tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona (Rai3). La prima impressione è la solita: l’incontro tra la «cittadina» e «l’uomo della foresta» che straparla su tutto, magari impreziosendo di citazioni i suoi verdetti perché non si sente accettato da quella che lui chiama «l’intellighenzia di sinistra». Sembra un dialogo da osteria.

Intanto su Rete4, Mario Giordano urla più del solito, sbraita, si accalora e si accanisce contro il «nemico» mosso dai suoi «astratti furori»: il gesticolare sovrasta la voce.

Ospite di Floris su La7, Michele Santoro, come un vecchio leone cacciato dal branco, non riesce a trattenere il suo livore nei confronti di Lucia Annunziata e Fabio Fazio. È livido di rabbia: la sorte di chi si è ribellato troppo in tv è di non avere più energie per pensare. Le riserva solo alla delusione.

Da tempo, ormai, i toni rissosi e triviali, la violenza verbale, il repertorio folklorico rappresentano l’ossatura espressiva del populismo tv, come se non ci fosse altro linguaggio, come se il distacco dei cittadini dalla politica fosse anche il distacco da ogni complessità argomentativa, al limite dell’analfabetismo.

[…] diamo la colpa ai talk show ma è molto probabile che i social abbiano fatto più danni ancora […] È il populismo che ci domina, il suo essere figliastro del manicheismo (o con me o contro di me), la sua irrefrenabile pulsione a pontificare, ad assolvere e scomunicare. Le frequenti apparizioni di Marco Travaglio in video stanno a significare che al dibattito razionale si preferisce la guerra di religione, che è in atto una lotta all’ultima parola tra onesti (lui) e disonesti (gli altri), tra libertari e tiranni. Questo linguaggio scalda i cuori (e forse gli ascolti) ma raffredda la mente […]

Così la politica si è trovata senza più intellettuali. FEDERICO ZUOLO su Il Domani il 31 marzo 2023

In un recente volume, Giorgio Caravale (Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni) ricostruisce il decadimento del contributo degli intellettuali alla politica e l’origine del rifiuto anti-intellettuale del populismo 

Giorgio Caravale (Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, 2023) ricostruisce la fine del prestigio culturale degli intellettuali prestati alla politica

Le nuove figure di intellettuale pubblico sono legate alle leadership personali, come effetto della crisi dei partiti

L’emergere degli esperti, come tipo particolare di intellettuali, ha ulteriormente confuso le acque poiché ha creato fenomeni di nuovi tuttologi mediatici o aspettative di oggettività scientifica impossibili da soddisfare

La denuncia della degenerazione del ruolo politico degli intellettuali ha ormai creato un genere letterario a sé. Ma a differenza di altri luoghi comuni, questo indica un fenomeno reale. Il libro di Giorgio Caravale, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni (Laterza, 2023) ricostruisce abilmente la fenomenologia sparpagliata di una figura che una volta godeva di stima condivisa e che ora si presta a giochi politici di bassa lega o, sdegnosa, se ne sta nella propria vita accademicamente distaccata.

Quando si parla del rapporto tra politica e intellettuali si è soliti pensare all’intellettuale organico di gramsciana memoria. Ma oltre al rapporto di sintesi e articolazione del partito rispetto alle masse, l’intellettuale (per lo più di sinistra) ha conosciuto anche figure di grande indipendenza, pur rimanendo vicine all’area del Pci o del Psi. A sinistra, questa dialettica di organicità o indipendenza si è polverizzata negli anni ’90 con una politica a tratti insofferente verso le pretese degli intellettuali (D’Alema) o a tratti smaniosa di riceverne legittimazione (periodo dei girotondi).

Frutto di due debolezze, il rapporto tra sinistra e intellettuali si è schiantato contro l’anti-intellettualismo dei populisti di destra, centro e sinistra. Ma la debolezza politica non è stata, ovviamente, solo a sinistra. Anzi, per colmare il deficit di legittimità, anche altre parti hanno cercato un accompagnamento degli intellettuali. In una prima fase della seconda repubblica la politica ha cercato di usare in maniera strumentale gli intellettuali disponibili per la costruzione di una nuova identità (Forza Italia, Alleanza nazionale, Pds).

Negli ultimi anni, invece, l’uso si è via via personalizzato, e gli intellettuali, da riferimenti di area, sono diventati riferimenti di politici individuali (basti pensare al rapporto personalizzato di Renzi con Baricco o Recalcati).

Se nella prima repubblica e nella prima fase della seconda repubblica gli intellettuali si sono spesso resi disponibili a ricostruire la storia a fini partitici, negli ultimi anni, alcuni intellettuali si sono prestati a fornire consulenze comunicative tarate sul messaggio del leader. In sostanza, da ideologi della storia a storyteller.

ESPERTI

Da questa apparente parabola discendente sarebbe facile trarre un giudizio moralistico, una lamentela della degenerazione dei tempi. Ma la misura dei tempi va fatta secondo il metro giusto. Così come non va necessariamente sopravvalutata l’onestà intellettuale del passato, che sovente si prestava a pesanti manipolazioni ideologiche, non va nemmeno sottovalutata l’abilità dello storytelling attuale. Ciò che certamente costituisce una novità è la costruzione della figura del leader, indipendentemente da un movimento collettivo, come unico elemento politico rilevante.

Caravale offre una ricostruzione godibile e pregevole per impegno e onestà intellettuale. E in tal senso contribuisce ad affrontare la situazione, delle cui lacune il libro è una denuncia appassionata. Ma l’analisi di un’evoluzione storica non può che registrare un cambiamento delle categorie, oltre che dei fenomeni.

Se l’emblema dell’intellettuale politico di cui si lamenta la scomparsa era una persona competente su alcuni ambiti ma capace di spaziare su molti altri, oggi l’emblema della professione intellettuale è l’esperto specialistico. Ovviamente non si tratta di due categorie distanti o opposte.

Gli esperti sono intellettuali, e talvolta gli intellettuali di tipo più tradizionale sono anche esperti. Nell’ambito politico l’esperto è un certo tipo di intellettuale, poiché non proviene da una carriera di politica professionale e gode del prestigio in un certo ambito del sapere (economia, medicina, legge, etc.).

Nello slittamento delle figure, Caravale dedica pagine interessanti di analisi della crisi dell’intellettuale umanista, schiacciato dalla ovvia prevalenza dell’economista, novello consigliere del Principe-politico. Ma Caravale esprime, senza formalizzare, una deriva implicita nella storia che fa slittare le aspettative e le categorie corrispondenti. Lo spostamento da intellettuale generico all’esperto comporta diverse aspettative.

OPINIONISMO GENERICO

L’intellettuale impegnato politicamente di cui si denuncia la scomparsa poteva avere una specializzazione (giuridica, economica, letteraria, storica, etc.) ma il suo ruolo dipendeva piuttosto dalla capacità di analisi critica e dallo sguardo non schiacciato sul presente. Invece, l’esperto del giorno d’oggi è chiamato dalla politica o dai media a rispondere a questioni specifiche (debito pubblico, crisi ambientale, epidemia, etc.), ma il suo successo mediatico ne fa spesso un’autorità generica chiamata a pronunciarsi sullo scibile umano.

Quindi, sono corrette le accuse di presenzialismo e narcisismo verso gli esperti mediatici, ma non possono essere risolte appellandosi all’onestà intellettuale dei singoli. Anche se questo gioverebbe, non si può nemmeno pretendere che un esperto si esprima pubblicamente solo su ciò di cui è esperto. L’esperto infatti può anche ambire a diventare un intellettuale generico, sebbene più spesso finisca per essere un opinionista tuttologo.

Ciò capita non soltanto a causa della vanità dei singoli, ma anche a causa di un dibattito pubblico in cui non sempre si percepisce il valore aggiunto di un discorso fatto da intellettuali generici. Infatti, quest’ultimi sono vittime a loro volta di un opinionismo presenzialista o di un atteggiamento ieratico: in entrambi i casi si dissolve la bontà del loro contributo al dibattito pubblico e al lavoro politico. Ritornando al rapporto tra intellettuali e sfera politica, al volume di Caravale si può aggiungere che l’attuale cortocircuito deriva da un malinteso sull’autonomia: della politica e degli intellettuali. Il rapporto tra le due aree funziona se ciascuna ha un interesse per l’altra, pur mantenendo l’autonomia del proprio funzionamento.

Ma negli ultimi anni abbiamo visto una politica incapace di accettare l’autonomia intellettuale, così come intellettuali ossessionati dalla propria integrità e incapaci di manifestare una vicinanza politica senza sentirsi compromessi. Il risultato è stato, da un lato il sorgere dell’anti-intellettualismo rivendicato (M5S, Lega, Forza Italia), dall’altro il fidarsi ciecamente degli esperti, come se non fossero a loro volta persone che sotto molti aspetti non possono che esprimere opinioni di parte.

Come uscirne? Gli esperti dovrebbero riconoscere che discutere di questioni al di fuori della propria competenza richiede abilità (capacità critica, conoscenza storica, cultura generale) che non sono ovvie.

Gli intellettuali generici dovrebbero invece mostrare di poter dare un contributo diverso da un opinionismo generico o apocalittico. Non rivolgo consigli alla sfera politica, per non cadere in un’inutile lista di vuoti auspici. Ma è possibile che una sfera intellettuale più conscia dei propri limiti presti meno il fianco alla demagogia anti intellettuale che inquina il dibattito recente. FEDERICO ZUOLO

L’Opinionismo da Treccani

s. m. Tendenza a rispecchiare e a esprimere opinioni su eventi e orientamenti che mirano a influenzare le posizioni e le scelte dell’opinione pubblica.

L’impressione è che la politica italiana in questa fase della vicenda nazionale non possa prescindere da una certa materialità, sono i territori e gli interessi i veri driver. Quello che Giuseppe De Rita chiama «il circuito dell’opinionismo», appare totalmente autoreferenziale. La società italiana chiede rappresentanza e ciò che vale oggi per il mondo dei piccoli, imprese e partita Iva, varrà domani per i giovani e gli extracomunitari integrati. (Dario Di Vico, Corriere della sera, 23 settembre 2010, p. 1, Prima pagina)

Perché a questa generazione di giovani allora non ricordiamo quando i nostri avi dovettero espatriare per motivi di lavoro e di sopravvivenza? C’è solo una parola che dobbiamo fissare nel nostro cuore: unità! Il volerci uniti prima di tutto! Sballottati dalle onde della precarietà, diciamo no a certi opinionismi di basso conto. Diciamo «sì» invece a chi si pone di fronte all’altro per accoglierlo e non per cacciarlo via; per rispettarlo e non per offenderlo, facendolo sentire di troppo. (Giancarlo Bregantini, Adige, 15 gennaio 2012, p. 61, Lettere & Commenti)

E i pasticci, grazie al cielo, non sono ancora considerati crimini e quindi non vengono perseguiti. Almeno penalmente. Rimangono i nostri ditini puntati e l’immensa capacità mitopoietica del biondo ragazzo Agnelli. Generatore automatico di barzellette, meme, gif, imbattibile nel mettersi nei guai, nel farsi carne da macello per l’opinionismo isterico e moralista. E perché nessuno possa dire di non essersene accorto, Lapo Elkann si fa fotografare vestito coi colori dell’arcobaleno. (Repubblica, 28 gennaio 2017, p. 28, RClub).

- Derivato dal s. f. opinione con l’aggiunta del suffisso -ismo.

- Già attestato nel Corriere della sera del 24 aprile 1988, p. 11, Le opinioni (Giuliano Ferrara).

L’opinionismo e il diritto alla verità. Gerardo Villanacci su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Non sono in discussione la libertà e il diritto di esprimersi ma il contrasto alla manipolazione e alla menzogna

 Il dibattito di questi giorni è indicativo della attuale tendenza culturale che, soprattutto negli ultimi tempi, rischia di travolgere la progettualità per la risoluzione di problematiche concrete che da tempo ci affliggono. Una condizione che inevitabilmente si ribalta sul piano della politica che, come è noto, attraversa un periodo particolarmente significativo poiché unitamente alla attuazione delle aspettative che dovrebbero condurre al rilancio del Paese, obiettivo per il quale vi è la dichiarata disponibilità delle forze di maggioranza e di opposizione e, soprattutto, di risorse finanziarie straordinarie, deve far fronte a contrapposte istanze della società civile. In primo luogo, quelle relative alla sospensione oppure continuazione, anche con l’invio di armamenti, del sostegno del popolo ucraino nella sanguinosa guerra con la Russia.

Il pericolo maggiore è rappresentato dall’opinionismo, che non riguarda l’effettiva valutazione dei fatti, bensì la loro negazione; una attitudine che determina un sempre più accentuato distacco dalla realtà. L’opinione diventa essa stessa realtà e si surroga alla vita reale fino a pretendere che quest’ultima vi si adegui. La spinta di forze non sempre spontanee e raramente espressive di interessi generalizzati, incide sensibilmente sulle scelte politiche, nel mentre le istanze delle persone comuni, volte ad abbattere le barriere dell’indifferenza e delle disfunzioni in settori vitali, come la sanità e la giustizia, sono trascurate. È evidente che sempre più l’opinionismo tende a superare anche i principi e valori costituzionali.

Le opinioni vengono espresse su altre opinioni senza tenere in alcun conto i fatti comprovati semmai attraverso testimonianze, anche filmate, raccolte da eroici operatori e giornalisti, come nel caso delle fosse comuni scoperte a Irpin e Bucha e, notizie di questi giorni la decisione della Corte Penale Internazionale di incriminare il Presidente russo per il deplorevole delitto di deportazione di bambini. Appare a dir poco contraddittoria la posizione di chi, allo stesso tempo, sostiene la pace e il disarmo dello Stato aggredito, ben sapendo che ciò determinerebbe solamente l’annientamento di quest’ultimo e una concreta minaccia per la intera umanità.

La politica è una scienza empirica che deve studiare e risolvere le problematiche sociali misurandosi costantemente con la coscienza comune. Il punto non è mettere in discussione, neanche implicitamente, la libertà di esprimere opinioni. Un diritto sacrosanto, inviolabile e irrinunciabile, bensì contrastare la manipolazione o, peggio ancora, l’obliterazione della verità che deve restare al centro degli interessi e obiettivi dello Stato costituzionale il quale è tenuto alla sua continua ricerca, essendo la verità indissolubilmente legata alla tutela delle libertà fondamentali. È su questi presupposti che può parlarsi di un vero e proprio diritto del cittadino alla verità e quindi del correlato benché contrapposto, divieto di menzogna che, come evidenziato in tempi certo non recenti da Emmanuel Kant, rappresenta una violazione della «dignità dell’uomo nella sua persona».

Per altri versi, quelli più propriamente legati alla ricerca del consenso, è bene che i politici considerino il dato incontrovertibile che il circolo di vita di una notizia falsa è molto più breve rispetto a quello di una notizia vera. È tempo , quindi, che gli stessi superino la perenne mediazione nelle scelte da compiere e, sia pure nel rispetto dell’avversario, sostengano fino in fondo le proprie idee convenendo, tuttavia, nella individuazione dei nemici comuni tra i quali, forse il più insidioso, è la disinformazione.

Il politico del futuro, nelle società democratiche, deve combattere la distorsione della verità che manipolando l’opinione pubblica genera, per dirla con Karl Marx, una «falsa coscienza», e garantire la verità dei fatti sulla cui base potranno essere assunte le decisioni ed i provvedimenti più in linea con le effettive esigenze delle persone e della società.

Mai sembrare allegri, urlare e propinare slogan: sei consigli utili per aspiranti opinionisti tv. Ray Banhoff su L’Espresso il 23 marzo 2023.

Quella dei commentatori e degli intellettuali del piccolo schermo è la lobby più potente in Italia. Un circolo per pochi eletti. Per entrarci, infatti, bisogna seguire talune regole di comportamento

Altro che poteri forti, la lobby più potente in Italia è quella degli opinionisti tv, gli influencer degli over 45. Un po’ giornalisti, un po’ agitatori, sono loro l’ariete per far breccia nelle menti degli italiani. Trattasi di un’élite di pochissimi, con agenti che si occupano dei loro cachet (il gettone di presenza che ne monetizza il titolo, come in una Borsa della cultura). Gli opinionisti sono in grado di spostare più voti di un politico poiché non devono fare, ma commentare. Per essere tra queste poche decine di eletti si deve anzitutto avere una presenza che «buca» lo schermo con concetti rapidi e chiari. Siamo nell’era del pensiero polarizzato, conta più come si dice una cosa di quello che si dice.

Ma che cosa serve per diventare un intellettuale tv in Italia?

Urlare. In tv se non urli non hai senso. Quando il dibattito sta morendo in tecnicismi e vicoli ciechi, il vero opinionista, il fuoriclasse s’inalbera in una sonora incazzatura che sfoga urlando. La risposta urlata, o molto piccata in stile Francesco Borgonovo, serve a non far annoiare il pubblico e a sottomettere l’avversario, per cui dev’essere un flusso verbale continuo: non si può interrompere per ascoltare argomentazioni o repliche.

Look. Devi essere riconoscibilissimo, avere la tua divisa. Esempi: Mauro Corona vestito da scalata nel bosco, Giampiero Mughini con gli occhialini, Vittorio Sgarbi con il suo ciuffo che si sposta sempre (quando non sta al cellulare), le cravatte di Antonio Caprarica, Selvaggia Lucarelli con un look stile Lana Del Rey, Massimo Cacciari e l’outfit da prof di filosofia, ecc.

Mood preso male. Guai a sembrare una persona allegra, devi essere intriso di dramma, diventare un totem di sofferenza e contenere nei tuoi discorsi tutti i problemi del mondo come se non li stessi raccontando pagato da uno studio televisivo, ma se li stessi vivendo. Attiverai così il transfert nel pubblico, che, preso dal senso di colpa per il suo privilegio, sentirà di aver espletato i suoi dieci minuti al giorno di interesse civico.

Rispondere alle domande con i tuoi slogan. Se ti fai imbrigliare in un dibattito vero e proprio sei finito perché non ci sarà mai il tempo di spiegare un concetto per intero in tv («è leeeento, non funzionaaa», letto con la voce di David Parenzo che imita Carlo Freccero). Il conduttore esperto, che sia Massimo Giletti o Barbara Palombelli, appena nota che la tua risposta non è adrenalinica cerca di tagliarti per evitare che lo spettatore cambi canale. Quindi, a ogni domanda scomoda si risponde con una tesi che non è una risposta in tema, ma un teorema nuovo in cui crediamo profondamente e che serve a sostenere una causa più importante: noi. Sviato il discorso, al telespettatore rimarrà il cookie del nostro concetto e l’avversario resterà allibito dal nostro dribbling.

Lasciare lo studio. Un colpo di teatro solamente per i veri king, ma quando ci si arriva deve dare una gran soddisfazione.

Manifestare superiorità. Qui i maestri sono Andrea Scanzi e Marco Travaglio. Questa tecnica, che manda letteralmente in panne gli avversari, consiste nel fissare l’interlocutore con un sorrisetto sardonico e poi schernirlo lasciandosi scappare commenti a bassa voce come se l’altro non potesse sentire.

Ecco un consiglio utile a tutti i frequentanti dei master in Giornalismo. Potrete vincere tutti i premi che volete e firmare importanti inchieste, ma niente darà mai una spinta alla vostra carriera come prendersi uno schiaffo da Roberto D’Agostino.

Giuseppe De Rita: «La cultura dominante? L’opinionismo». Il Messaggero Martedì 26 Aprile 2022

‘’C’è una cultura dominante, quella dell’opinione. L’opinionismo ha distrutto le altre culture, quella umanistica, scientifica e sociopolitica.’’ È uno dei passaggi chiave dell’intervista sulle due (tre culture) al presidente del Censis, Giuseppe De Rita, da parte di Mario Nanni, direttore editoriale della rivista on line di politica e cultura beemagazine, del Gruppo The Skill.

De Rita, che per 50 anni con i suoi Rapporti annuali del Censis ha scandagliato i fenomeni anche più profondi della società italiana, sviluppa così il suo ragionamento: ‘’oggi siamo tutti opinionisti. Basta vedere la tv. Sul virus sparano opinioni Cacciari, Burioni e tanti altri. Invece di una dialettica che si sviluppi all’interno della cultura, abbiamo tante scuole di opinione.

Con quale risultato? Siamo in una crisi grave, mentre dovremmo parlare di una terza cultura,  quella socio-politica, oltre quella umanistica e quella scientifica, imperversa la cultura dell’opinione, e tengono la scena dieci scienziati che dicono tutto e il contrario di tutto’’

E poi – aggiunge De Rita – la stessa scena si vede, anche in tv, quando si parla della guerra. Lei li vede come si svolgono i dibattiti e soprattutto su che cosa? Non c’è discussione vera sulla guerra, sulle stragi ma sul dilemma se Putin è buono o cattivo, se Zelensky è serio o è rimasto un comico. Questo è il livello. E poi un’altra cosa: la pandemia è in calo, ma anche in questi dibattiti sulla guerra il virologo c’è sempre’’.

Del fenomeno della cosiddetta cancel culture che idea si è fatto, Professore?

Anche qui De Rita non ha dubbi: questo fenomeno è figlio della vittoria dell’opinionismo.

Un altro tema affrontato nell’intervista: si parla tanto di nuovo umanesimo, con la maiuscola e la minuscola, in una ideale ‘’carta del nuovo umanesimo’’, quali valoro fondamentali inserirebbe?

‘’Il vecchio umanesimo, diciamo pure l’Umanesimo storico, coltivava e guardava al passato. Ma l’Umanesimo storico ci ha poi dato il Rinascimento, che guardava al futuro r costruiva l’avvenire. Quindi un nuovo umanesimo deve continuare a guardare avanti. Le culture che sono andate avanti sono quelle che hanno espresso il valore della relazione, il valore dell’uomo per l’altro uomo. ‘’Il volto di Dio comincia dal volto dell’altro’’, ha detto Levinas.

Invece oggi – il grande nemico sa qual è?

Le farò un esempio: il ‘’vaffa’’ è la rottura della relazione. Con questa rottura la società italiana è andata indietro di mille anni’’.

Non sembri una esagerazione e le spiego perché, continua De Rita: il ‘’vaffa’’ è una lacerazione, una interruzione, una distruzione del dialogo. Significa dire all’altro: di quello che dici, di quello che pensi, di quello che senti non m’importa nulla. E così torniamo alla barbarie dell’uomo insulare, dell’uomo che non si relaziona. Ecco perché uno dei problemi del nostro tempo, se non ‘’ il ‘’problema, è cercare di recuperare il senso, la necessità, il bisogno della relazione. Solo su questo si può costruire’’

La potenza dell’opinione, inarrestabile e preoccupante. Giuseppe De Rita su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2022

Ormai non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: domina il primato del parere personale. Ma non è dato sapere tale dinamica dove ci porterà

Dicevano i nostri vecchi che «la matematica non è un’opinione», sicuri che le verità indiscutibili non possono essere scalfite da ondeggianti valutazioni personali, spesso dovute a emozioni interne e collettive.

Temo che quella sicurezza non abbia più spazio nell’attuale dinamica culturale. Se qualcuno si esponesse a dire che due più due fa quattro, si troverebbe subito di fronte qualcun altro che direbbe «questo lo dice lei», quasi insinuando il dubbio che non si tratta di una verità, ma di una personale opinione. Vige ormai da tempo qui da noi la regola «uno vale uno». Non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: tu la pensi così, ma io la penso al contrario e pari siamo. Non ci sono santi, dogmi, decreti, ricerche di laboratorio, tabelle statistiche; vale e resta dominante il primato dell’opinione personale.

Siamo così diventati un popolo prigioniero dell’opinionismo, e ormai non solo per tradizione di tifo calcistico, ma di lettori di tutti i problemi e gli eventi su cui si svolge la nostra vita collettiva. Basta comprare al mattino un quotidiano e si rimane colpiti da prime pagine piene di riferimenti che annunciano tanti articoli interni, quasi tutti rigorosamente legati a fatti d’opinione, a personaggi d’opinione, a polemiche d’opinione, in un inarrestabile primato dell’Opinione regina mundi.

Da vecchio opinionista (lo sono su questo giornale dal 1976) mi sorprende quanto siano ampie e forti le ondate quotidiane d’opinione, il loro rimpallarsi a circolo, l’enfasi che ci si mette per mantenersi l’uditorio, la propensione a sentirne la potenza di convincimento quasi la presunzione di far parte di un mondo, non condizionato da altri poteri, un «mondo potente di suo».

Non ci rendiamo però conto che restiamo tutti prigionieri di livelli culturali bassi, inchiodati alle proprie opinioni, refrattari a livelli più alti di conoscenza, restii all’approfondimento, al confronto, alla dialettica. Non interessa la dimensione scientifica di una malattia, vale l’onda d’opinione che su quella malattia si è formata o si può formare; non interessa la dimensione complessa di un testo di legge o di una sentenza, vale l’onda d’opinione che si forma su di esse; non interessa la incontrovertibilità di un dato economico o di una tabella statistica, vale l’onda d’opinione che ci si può costruire sopra; non interessa la lucidità di una linea di governo del sistema, vale lo scontro di opinioni (di gradimento o di tradimento, direbbe Adriano Sofri) che su di essa si scatena. Ma senza confronto e senza dialettica non si fa cultura, non si fa sintesi politica, non si fa governo delle cose; con l’effetto finale che nel segreto del dominio dell’opinione si attua una trasfigurazione in basso e banale della realtà.

Viene addirittura il sospetto che si sia in presenza di un uso primordiale ma sofisticato dell’opinione; e non si sa chi e come la gestisce. Qualcuno può ricordare quando a fine Ottocento arrivò a cittadinanza pubblica l’uso primordiale dell’immagine e della visione (prima con le fotografie e poi con il cinema); ma nessuno si preoccupò dei pericoli che ne sarebbero venuti alla vita sociale e all’equilibrio politico. Nessuno, neppure dei grandi come Baudelaire e Benjamin, aveva previsto il fascino tenebroso delle hitleriane parate di massa; e nessuno, neppure Giulio Bollati, avrebbe previsto che l’elitaria esaltazione di D’Annunzio per le foto della «gemmata» Regina Margherita sarebbe un giorno sfociata nel compiacimento piccolo borghese per le foto di Mussolini a petto nudo durante la «campagna del grano».

Non c’è dato comunque di sapere (visto che pochi lo studiano) dove potrebbe portarci la progressiva potenza dell’Opinione, un fattore fra l’altro più subdolo e sfuggente dell’immaginario visivo dei nostri padri. Converrà però cominciare a pensarci sopra, magari partendo dal preoccuparci che la nostra comunicazione di massa si ingolfa troppo nell’opinionismo autoalimentato e senza controllo. So che i greci avrebbero difeso quel che chiamavano la «Necessità» (in questo caso: la inarrestabile potenza dell’opinione) ma sarà permessa anche la modesta «necessità» collettiva del bisogno collettivo di non cedere alle sabbie mobili del regno dell’opinione.

Cari colleghi, i talk sono in crisi ma ammettiamo i nostri vizi: opinionismo oracolare e contiguità con ogni potere.  Fabio Martini il 2 Giugno 2022 huffingtonpost.it

Solo in un Paese in crisi il modello tv non è Zavoli ma Santoro che per 25 anni ha alimentato un immaginario indignato-vittimista, che ora si è saldato al giornalismo “senza onere della prova”

Il sospetto era nell’aria da anni, ma la notizia è diventata di dominio pubblico: il talk show all’italiana è un prototipo assai originale, senza eguali nei Paesi più evoluti. Soltanto dalle nostre parti i “talk” sono così assidui, così accoglienti con tutti, così sbrigliati nel filo narrativo. Da settimane una accesa discussione pubblica sta investendo il modo di fare informazione televisiva e ora il contrasto ha investito anche i vertici Rai.

Ma la crisi oramai conclamata dei talk show sta dentro un malessere più grande, che investe la credibilità stessa del mondo dell’informazione. Per chi lavora in questo campo sarebbe un’occasione d’oro per mettersi in gioco, inoltrandosi nel territorio inesplorato dell’autocritica. Quella vera. Quella che può trasformare una crisi - se non in una catarsi – quantomeno in una riflessione utile.

Il vero vizio dei talk

Si può partire proprio dai talk show. In queste settimane si sono formate due opinioni contrapposte: «Troppo spazio ai simpatizzanti putiniani, più o meno camuffati». Si ribatte: «Va difeso a tutti i costi il pluralismo delle idee». A prima vista argomenti ragionevoli. Ma non reggono. Neanche un po’. Perché rimuovono la “missione” specifica dei media, che non sarà mai quella di limitarsi a garantire un malinteso pluralismo, ma invece sforzarsi di raccontare come stanno le cose, raccogliendo la maggior quantità di informazioni vere e provando a restituirne il senso. Fatti e senso: per congiungerli in una sintesi che non sarà mai “la” verità, ma il massimo di verità possibile.

Fatti e senso. Per provare ad afferrarli, servono le armi fondamentali del mestiere: ogni volta la massima accuratezza possibile, ogni volta la massima indipendenza possibile, ogni volta portandosi dietro la memoria dei precedenti, vicini e lontani. Non c’è altro. Sembra poco ma è tantissimo. E infatti è il contrario di quel che è accaduto in diversi talk show. Ma non in tutti e la differenza si è vista.

Le critiche meglio argomentate sono tre. Primo: il format-talk è più condizionato dallo share che dalla ricerca della “verità” possibile. Secondo: gli ascolti si conquistano, attirando la “clientela” con un menu fisso (la solita compagnia di giro) e qualche “piatto” del giorno: personaggi non importa se incompetenti, purché capaci di bucare lo schermo. Terzo: si formano “cast” volutamente eclettici, perché in grado di parlare a segmenti diversi di opinione pubblica. Lo share si alza (anche) con la somma di pubblici diversi.

Tutti rilievi documentabili. Anche se il vizio più serio è un altro e lo potremmo definire dispersione del filo narrativo. Chi guida un talk show dovrebbe aiutare a capire come stanno le cose, seguendo un filo e lasciando il giudizio finale a chi guarda. E invece se tutto si risolve, dando la parola su qualsiasi argomento agli opposti “pareri”, a quel punto è ineluttabile che si apra una gara puramente emozionale: la caccia al brivido. La fine è nota: uno spettatore sempre più confuso.

Con un’aggravante. Per non compromettere la credibilità dello spettacolo, gli ospiti più “scomodi” non possono essere delegittimati e dunque spesso sono lasciati liberi di esprimere falsità sesquipedali, senza che i conduttori intervengano. Dovrebbero farlo: non per bacchettare le opinioni “scandalose” (guai!), ma semmai per stroncare gli sfondoni.

E infatti una delle più grandi mistificazioni di questi mesi sono stati i “competenti” (i cripto-putiniani e qualche zelota di parere opposto) che si sono ammantati di “scienza”, richiamandosi a verità fattuali, al solo scopo di spacciare letture faziosissime. Spesso oscene: non perché filo-putiniane, ma perché basate sulla manipolazione. Di chi la “colpa”? Dei falsari o di chi li invita? La risposta non è difficile.

Un’ultima domanda, sempre a chi seleziona gli ospiti: chi guida un “talk” in Italia può totalmente ignorare che da anni i russi lavorano con sapienza per infiltrare il mondo accademico e dell’informazione? All’inizio può essere ignoranza, ma puoi continuare ad ignorarlo dopo 14 settimane? E d’altra parte le severe analisi sui talk show italiani scritte su “Politico” e “Liberation” segnalano che la fama di questi mesi potrebbe diventare proverbiale.

Santoro, l’unico modello

Eppure la piegatura emotiva dei talk show viene da lontano e chiama in causa un personaggio, Michele Santoro, mai compreso nella sua importanza: quella di essere stato – ebbene sì – una delle personalità più incisive nella storia e nell’immaginario italiano degli ultimi 30 anni. Dalla primavera del 1987, col suo “Samarcanda”, un grande professionista come Santoro ha via via sperimentato un sentiment, che allora venne (invano) spiegato da Beniamino Placido, che notò la notevole capacità del conduttore di fare informazione di qualità, ma servendosi di una piazza «populistico-vittimista». Dando sempre «ragione a tutti quelli che protestano sempre e dovunque».

Il pubblico, dalle piazze e dalle case, parteggiava e intanto si smarriva il confine tra vero e verosimile, anche perché a nessuno (a cominciare dal conduttore) interessava comprendere come stessero esattamente le cose. Ma semmai orientarle. Lo spettacolo, come si sa, è piaciuto. Con trasmissioni dai nomi cangianti Santoro trascinava 4-5 milioni di telespettatori per puntata: moltiplicati per oltre 20 anni, si può ben dire che quei “talk” abbiano formato una fetta di opinione pubblica, stabilmente sensibile ad un mood indignato e vittimista. Un pubblico che, strada facendo, ha indurito sempre più il suo sguardo.

Ma solo in un Paese in declino il modello televisivo da decenni è Santoro e non, per esempio, Sergio Zavoli. Oltre ad un giornalismo d’inchiesta che cercava di raccontare un problema sociale, anziché limitarsi alla denuncia di una delle parti in causa, Zavoli dimostrò che si possono intervistare tutti, persino gli assassini. Non per riabilitarli e neppure per umiliarli, ma semmai per capire perché si spinsero sin lì. L’intervista al brigatista Franco Bonisoli resta memorabile. Per le risposte. Ma anche per le domande. Prive di autocompiacimenti e senza mai sovrapporre il giudizio del giornalista. Un dettaglio misura la distanza da certi chiacchiericci odierni: di Zavoli si ascoltano le domande e non si vede mai il viso. Perché ciò che conta non è il parere di Zavoli, ma sono le risposte di Bonisoli: le uniche che possono aiutare a penetrare il senso di una tragedia.

L’ opinione come oracolo

E quanto a Santoro ad un certo punto dovette cedere il testimone ad un altro mattatore, Beppe Grillo, che nel 2007 capì che dall’Italia profonda saliva una voglia di rottura. Per Giuseppe De Rita quello è stato l’inizio della stagione dell’opinionismo, «la rottura della relazione», la mancanza di dialogo, il rifiuto di quel che dice l’altro. Insomma, se quello dice una cosa, io ne dico un’altra e ognuno ha ragione.

E’ esattamente quel che sta accadendo da qualche anno in Italia e che i talk show replicano. Una parte dei cosiddetti “opinionisti” sono i campioni di questo approccio, diciamo così, autoreferenziale. Nei” talk”, ma anche sui Social, non si offrono commenti argomentati ma sentenze lapidarie. Io lo dico, quindi è vero. Senza preoccuparsi dell’onere della prova. Un opinionismo oracolare, flaccido e da ultrà, agli antipodi con le sacrosante opinioni, partigiane e trasparenti, ma argomentate e poggiate sui fatti, di maestri di quel tipo di giornalismo: Eugenio Scalfari o Giuliano Ferrara.

In fondo tutte le posture – il giornale-partito, il “terzismo, il rigore anglosassone – se interpretate da professionisti, restituiscono sensi e “verità”. Sono i mestieranti e i pavoni che preferiscono l’auto-promozione. E chi se ne importa se l “utente” va in confusione.

Farsi potere

Eppure l’informazione in Italia si porta dietro una storia tutta sua. Si sono scritte e si scrivono da decenni grandi pagine di giornalismo ma con un vizio congenito: la vocazione a “farsi” potere. Un modello che sta scritto nel Dna nazionale, ancora potente nei grandi giornali: non aver mai condiviso una vocazione al quarto potere, preferendo sempre la tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri.

Poteri non soltanto di governo. Si può diventare un potere anche stando all’opposizione, fiancheggiando un partito. O un “potere-contro”. E d’altra parte il consociativismo è diffuso in tutti i rami dell’informazione: i giornalisti giudiziari sono (spesso) indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici lo sono (spesso) con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo sportivo, culturale, sindacale, economico. Con una tentazione comune. Partecipare al gioco. Consigliare il potente. Esserne amico. Condizionarlo. Dettargli la linea.

Naturalmente mai generalizzare: in questa fase bellica i giornali (i grandi e quelli di nicchia) e in genere le trasmissioni delle Reti sotto tiro (la 7 e Rai) che dipendono dalle testate giornalistiche sono stati inappuntabili, così come i principali Tg. E d’altra parte contributi assai puntuali sui “talk” sono venuti da parte di diversi giornalisti, a cominciare da Enrico Mentana. Mentre sul piano operativo una informazione rigorosa e seria arriva ogni giorno dai podcast professionali e dai giornali online più seri.

Tutto ciò premesso, e staccando dall’universo “talk”, alla fine l’unico affresco che non passa mai di moda resta quello dipinto da un grande giornalista fuori dai “giri”, Enzo Forcella. Nel 1959, dimettendosi dal quotidiano «La Stampa», Forcella scrisse per «Tempo presente» un articolo titolato “Millecinquecento lettori”, scolpendo un brano memorabile: «La caratteristica più tipica del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana (…) è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».

Sono passati 63 anni da quel saggio, da allora qualcosa è cambiato, ma non la sostanza. A cominciare dalla postura preferita da tanti liberi giornalisti: pensare che l’indipendenza sia un’ingenuità.

Estratto dell’articolo di Marcello Veneziani per “la Verità” martedì 28 novembre 2023.

[…] Il populismo torna a pulsare anche da noi in forme variabili, come si addice a una creatura polimorfa e mutante. […] A sinistra non vogliono vederlo ma i tratti essenziali del populismo si ritrovano non solo nel populismo grillino, e nella sua battaglia sul reddito di cittadinanza e nella logica aberrante dell’uno vale uno; ma anche nell’ecologismo e nell’ideologia di mobilitazione popolare nel nome del pianeta da salvare e del popolo verde di Greta. Il pianeta salvato dai ragazzini è un’utopia populista.

[…] Il 25 novembre scorso è stato consacrato un populismo nuovo, anche se ha quasi sessant’anni: è quello femminista, che assegna alle donne il ruolo di vittime, giustiziere e portatrici di diritti, affibbiando invece ai maschi il ruolo di potenziali colpevoli, da sorvegliare, punire e rieducare, portatori di doveri e mea culpa. Il nuovo femminismo sostiene che il cambiamento potrà avvenire solo con la militanza di massa e la mobilitazione popolare.

L’idea assurda che i crimini di alcuni squilibrati, frutto di una società nichilista ed individualista, fondata sui desideri illimitati e su una famiglia ormai disgregata, debbano ricadere sull’intera collettività e sull’intera storia dei rapporti tra uomo e donna e che si debba risolvere sul piano politico, generale, educativo quel che sorge invece sul piano individuale, patologico e ossessivo, è una forma di populismo.

Il Popolo delle donne contro il Potere dei Maschi. Le piazze e i cortei, le mobilitazioni generali, la marea fucsia del femminismo, fiancheggiate dai corpi speciali di omotrans e queer, più i maschi che si vergognano di essere tali e le avanguardie isteriche dell’oltranzismo, sono la nuova forma di populismo radicale, fanatico, manicheo. 

Il populismo femminista si fonda sulla manipolazione della realtà: da un fatto reale, un episodio di violenza o un femminicidio, e da una statistica, si passa a universalizzare il tema per demolire da un verso la famiglia naturale e tradizionale e dall’altro contrapporre il popolo delle donne all’etnia dei maschi che non rinnegano la loro natura e la storia da cui provengono, in una nuova lotta di classe che è lotta di genere.

Del tutto rimosso e silenziato è il contrasto tra il populismo femminista e la massiccia presenza di migranti che mantengono il predominio maschile e la sottomissione della donna. Anche in queste forme pseudoprogressiste emergono i tratti negativi del populismo: semplificazione, generalizzazione, radicalizzazione, più tanta retorica e demagogia. […]

Menzogna e sovranismo. La vittoria di Wilders e il trionfo del populismo nella democrazia senza verità. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 27 Novembre 2023

Lo stravagante politico olandese ha vinto le elezioni nei Paesi Bassi perché milioni di europei hanno imparato a credere alle bugie ripetute in questi anni sulla presunta sostituzione etnica, la globalizzazione, la società aperta. Una paralisi intellettuale e morale che sarà sempre più difficile contrastare

Gli uomini di mondo, una volta, avevano fatto tutti il militare a Cuneo. Oggi, a quanto pare, hanno fatto in molti le ore piccole nei bar di Amsterdam e ne traggono (e vieppiù ne trarranno, di qui alle prossime elezioni europee) la conclusione che la vittoria di Geert Wilders è una giusta punizione per quanti si ostinano a liquidare la Vandea populista e sovranista, che assedia la democrazia, per così dire, euro-illuminista, come un fenomeno di grave sottosviluppo politico e non come l’espressione di ragioni, che sarebbe sbagliato iscrivere tutte dalla parte del torto. 

Questa lettura del trionfo di Wilders come di un tonfo tutto sommato salutare del mainstream europeista, liberal-progressista e liberal-conservatore non alligna solo tra gli zelatori del new deal melonian-salviniano, ma anche tra gli osservatori, analisti e studiosi formalmente indipendenti, che non sembrano neppure riuscire a nascondere un ghigno di soddisfazione e di scherno per le disgrazie della vecchia Casta politica euro-atlantica nell’Occidente prigioniero delle sue passioni tristi. Già pregustando peraltro la cavalcata del redivivo golpista americano, Donald Trump, contro il presidente statunitense Joe Biden.

Come Antonio Guterres ha sostenuto che il pogrom di Hamas del 7 novembre non era nato dal nulla, intendendo che qualche ragione e giustificazione si sarebbe potuta trovare anche nel comportamento delle vittime, così le letture “scientifiche” del sovranismo populista si accordano tutte nella conclusione che la malconcia democrazia europea queste dolorose bastonate, tutto sommato, se le sia cercate, denigrando le richieste di protezione e sicurezza del popolo negletto come fisime inventate e istanze parassitarie.

Se gran parte della classe dirigente italiana, non formalmente schierata dalla parte di Benito Mussolini, un secolo fa era riuscita a pensare che perfino l’ordine politico criminale del fascismo potesse omeopaticamente guarire, con una malattia uguale e contraria, la sindrome d’impotenza del vecchio e consunto stato liberale, non c’è in fondo nulla di strano che in Italia oggi si pensi che per salvare l’Europa e farne qualcosa di migliore e più efficiente possa pure funzionare il definitivo collasso degli equilibri ideologici e istituzionali dell’attempata Unione europea. Progetto che, al di là del suo prudente moderatismo diplomatico-governativo, è il vero obiettivo politico di Giorgia Meloni e non solo del suo alleato leghista.

Rimane però il fatto che il successo degli sfasciacarrozze dell’Europa e dei suoi stati membri non è il sintomo di una malattia, ma è esso stesso la malattia. Il paradossale statuto di verità ormai ufficialmente conquistato da tutti i capitoli dei nuovi Protocolli dei Savi di Sion di quell’internazionale reazionaria, che miscela nativismo, tradizionalismo e protezionismo in una pozione democraticamente velenosa, è il vero cancro politico del discorso pubblico occidentale ed europeo. Non è ciò da cui bisogna partire, per cercare soluzioni più moderate. È ciò che bisogna provare a distruggere per trovare proposte alternative.

Wilders non vince nei Paesi Bassi perché gli olandesi patiscono gli effetti dell’impoverimento, dell’insicurezza o della sottomissione, ma perché la cronicizzazione fobica di queste paure è la realtà politica attorno a cui si costruiscono e si distruggono i castelli di consenso. In Italia, peraltro, più che nei Paesi Bassi, visto che l’agenda politica di Wilders in Italia persuade ben più di un elettore su quattro, come è avvenuto invece in Olanda.

Milioni di europei (e in proporzione maggiore di italiani) credono davvero che sia in corso una sostituzione etnica programmata e che quanti più immigrati arrivano, tanti più delitti si compiono ai danni dei nativi; che la globalizzazione economica non risponda a variabili tecnologiche e demografiche non controllabili, ma sia un progetto organico di dominio teleguidato da un sinedrio di potenti senza volto; che il mondo chiuso degli stati nazionali possa moltiplicare i pani e pesci, di cui invece i meccanismi di integrazione politica ed economica internazionale fanno sottrazione e divisione; che la società aperta sia troppo vulnerabile senza acconce discriminanti politiche etnico-razziali, culturali e religiose ad assicurarne la coesione; che quel sant’uomo di Putin ha perso la pazienza, ma che gliel’abbiamo fatta perdere noi, ficcando il naso nel cortile della Russia e accerchiandola militarmente…

Milioni di europei credono a tutto ciò esattamente come in buona fede i due milioni di abitanti di Gaza credono che gli ebrei dominino il mondo, affamino gli arabi e quindi meritino di essere ammazzati. Lo credono perché, semplicemente, hanno imparato a crederlo.

La lotta a tutto questo e la probabilità, peraltro incerta, di scamparne gli effetti peggiori nel futuro prossimo venturo passa dalla contestazione, non dall’omaggio a questa montagna di inoppugnabile pregiudizio. Il populismo e il sovranismo, come il fascismo o il comunismo, non sono fenomeni reattivi, ma prodotti culturalmente e politicamente originali. Non sono una conseguenza di un male esterno, sono la causa di quella paralisi intellettuale e morale, che avviluppa i problemi nella rete della menzogna rendendoli, per questo solo fatto, razionalmente indiscutibili e democraticamente irrisolvibili.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica – D- Maxi” lunedì 30 ottobre 2023.

La predicazione della virtù è cosa molto antica e come tale probabilmente insita nell'animo umano - il che consiglia senz'altro di accoglierla con il più sano e giustificato scetticismo, ieri come oggi. 

L'età d'oro può collocarsi alla fine del Medioevo, quando l'Italia era instancabilmente percorsa da vere e proprie star dell'ammaestramento morale capaci di mobilitare vastissime platee che correvano nelle piazze ad ascoltare Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Giovanni da Capestrano, Roberto Caracciolo da Lecce, Girolamo Savonarola, che per breve tempo giunse al potere a Firenze, anche se poi, come accade a parecchi moralizzatori, fece una brutta fine. 

(…) 

Quindi niente storia o morale, ma pura attualità, o per meglio dire utile analogia. Per cui se con i sermoni quattrocenteschi nasce, come autorevolmente acclarato, l'idea moderna di pubblico, ecco che al giorno d'oggi gli antichi pulpiti sono diventati elettronici e in buona sostanza, secondo il perenne viavai delle umane vicende, i predicatori delle pubbliche virtù sono tornati fra noi, in tv e sui social, a riprova che nulla mai sparisce per sempre.

Il tutto espresso in modo consono alla fascia oraria, quindi con parole infuocate o ridanciane, e in tal modo passa o meglio ripassa l'insegnamento e l'intrattenimento morale del XXI secolo, amen. Veniamo rapidamente alle ragioni di questo ritorno predicatorio che ha a che fare con la fine delle utopie, il tramonto degli ideali, l'esaurirsi delle culture politiche e lo svuotamento delle istituzioni che si combinano con l'evoluzione tecnologica al grado zero delle idee e dei progetti. 

Per quanto riguarda l'Italia grosso modo la riattivazione, o risveglio che sia, può farsi risalire alla stagione di Mani Pulite, là dove fin dal nome sembrava di cogliere un'ansia di purezza.

Quanto all'identificazione dei ruggibondi quaresimalisti, così come dei giocosi giullari dell'assoluto, si buttano lì alla rinfusa i nomi di Celentano e Beppe Grillo, Saviano e Mario Giordano, il fronte no-vax e gli apocalittici di Last generation, fino ad arrivare al mondo alla rovescia del generale Vannacci; anche se poi l'elenco, a partire dall'urlo di guerra "onestà! onestà!" dei cinque stelle tende a ingrossarsi fino a comprendere gli infiniti video nei quali in pratica tutti gli esponenti dell'attuale classe politica accarezzano bambini, abbracciano vecchiette, donano il sangue, consolano i sofferenti, coccolano cuccioletti, baciano rosari e crocifissi, ostentano i frutti del lavoro e della terra e mangiandoseli - àmmete! - fanno il bene della nazione ed esercitano la loro conclamata bontà, fede, generosità e amore per il prossimo. 

Elementare, generica e soprattutto senza passato e senza spigoli, la pubblica virtù diventa così comodo patrimonio di ciascuno e di tutti purché compresi nel novero degli educatori e moralizzatori. Mos italicus era detto lo stile italiano, appunto, attraverso cui in modo più che espressivo gli antichi omelisti si aiutavano con le mani, le smorfie, le imitazioni, pure ballando e cantando.

Così, al pensiero dei "vaffa-day" è irresistibile evocare Bernardino da Siena che diversi secoli prima aveva sollecitato la platea a uno sputo di massa per spegnere il fuoco del peccato, "e parve che tuonasse" "Ad predicationem!" era il segnale. Ma già allora Dante, Boccaccio e poi gli umanisti diffidavano. Per forza di cose anche il sospetto che i predicatori fossero vanitosi e imbroglioni faceva riferimento alla virtù, ma che ci si può fare? Dopo tutto la storia insegna che tutto passa e basta solo prendere la vita un po' meno sul serio e aspettare.Antonio Giangrande: I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.

I Governi sono in balia degli umori del popolo.

I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.

I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.

Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!

La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….

Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.

I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.

Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).

Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”

Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.

Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.

Matteo 7:

1 Non giudicate, per non essere giudicati;

2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.

3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave?

5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.

7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;

8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?

10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe?

11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!

12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;

14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.

16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?

17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;

18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.

19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.

20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?

23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.

25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.

26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.

27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:

29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.

Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Gli indistinguibili. La grillizzazione del Pd e la maschera di sinistra dei grillini. Mario Lavia su L'Inkiesta il 18 Agosto 2023.

Dichiarazioni pubbliche, apparizioni nei media e condotta politica dei due partiti di opposizione sembrano essere sempre più interscambiabili. Ma non è ancora chiaro se è Schlein a essere passata sul campo del populismo oppure Conte su quello della politica

In questa fase il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sono indistinguibili. Dicono le stesse cose, fanno fronte comune, le dichiarazioni serali nei Tg o le apparizioni nei talk estivi sono interscambiabili: non si capisce se chi parla sia del Nazareno o un post-grillino. Elly Schlein e Giuseppe Conte li diresti dello stesso partito. L’unica differenza è la posizione sull’Ucraina, ma se ne parla poco ormai, anzi per nulla. Non ci pare dunque – come paventa Gianfranco Pasquino su Domani – che il problema sia l’eccesso di competizione tra Pd e M5s: semmai la questione politicamente inquietante è dove andrà a parare questa crescente convergenza. Sicuramente, tanto per dirne una, porterà a una radicalizzazione a sinistra con l’inevitabile autoesclusione dal gioco politico in favore della politica di rappresentanza di un disagio sociale ovviamente minoritario, il che tornerebbe a tutto vantaggio del governo. 

Dentro questo schema frontista certo, Schlein e Conte se la giocheranno per la leadership ma per ora, se non sapessimo tutti che le resistenze nei rispettivi elettorati e le scorie di un passato del M5s completamente ostile al Pd sarebbero troppo forti e il protagonismo geloso dei propri ruoli dei dirigenti pure, si potrebbe pensare persino a un processo unitario anche organizzativamente: la grillizzazione del Pd e la metamorfosi di sinistra del M5s (si veda l’intervista di Stefano Patuanelli a Repubblica di qualche giorno fa) sono due facce della stessa medaglia. 

Il cemento è la battaglia sul salario minimo orario a nove euro dove Schlein e Conte procedono spediti insieme con la petizione anche a livello organizzativo, infatti è sorto un apposito comitato Pd-M5s (Azione e Più Europa ne sono rimasti fuori per non chiari «motivi tecnici», verosimilmente non si sono voluti ficcare in una sede unitaria anche se solo organizzativa), e i due partiti sono impegnatissimi con le loro strutture a raccogliere le firme, che sono già duecentomila. 

La petizione, strumento democratico fin dai tempi della Rivoluzione francese, con l’avvento del web certo rischia di essere meno mobilitante: che ci vuole a mettere una firma online come ormai tutti fanno per le più svariate questioni? Detta così, chi può essere contrario a un salario minimo? E dunque sì, c’è sicuramente un’oncia di populismo in questa campagna estiva dei due partiti più grandi dell’opposizione, appaiati nei contenuti e non distanti nei sondaggi ma se le cose funzionano alla fine l’obiettivo di un milione di firme verrà raggiunto e superato, pur con tutte le firme ripetute che i responsabili politici dovrebbero trovare il modo di inibire. 

L’intesa Schlein-Conte verrà infine benedetta ancora una volta da Maurizio Landini nella manifestazione della Cgil del 7 ottobre che si profila come una grossa iniziativa contro la politica economica e sociale del governo Meloni (vedrete che nella piattaforma non si insisterà molto sulla guerra in Ucraina), una data che pare azzeccata visto che si sarà alla vigilia della presentazione della legge di Bilancio e della proposta del governo su salario minimo e dintorni. 

Se Meloni sarà abile tirerà fuori una proposta non indigeribile per pezzi di sindacato, Azione e Più Europa e persino esponenti del Pd autoproclamatisi riformisti, rompendo il campo largo. In quel caso Carlo Calenda, che ha scelto di stare dentro la battaglia sul salario minimo puntando a un accordo con il governo, a un certo punto potrebbe trovarsi in compagnia di gente che punta invece non a un accordo ma a una rottura con Meloni e si potrebbe trovare molto ma molto a disagio a seguire la strada di Elly e dell’avvocato del populismo. 

Perché quei due, cascasse il mondo, resteranno fianco a fianco, per convinzione più che per convenienza, ed è questo che ha in sé qualcosa di scabroso almeno finché non sarà chiaro se è Schlein a essere passata sul campo del populismo oppure Conte su quello della politica. Dopodiché se la giocheranno alle elezioni Europee, dove ognuno farà la sua partita spaccando la mela dell’opposizione radicale. E si ricomincerà da capo, mentre la destra guarda e sorride.

Come diceva, appunto, 30 anni fa quel signore lì, Giorgio Gaber. Quel mettere alla berlina destra e sinistra evocando minestrine e reggicalze fu la più clamorosa delle pernacchie ai luoghi comuni. Claudio Velardi su Il Riformista il 16 Luglio 2023 

Sono passati quasi 30 anni da quella geniale, ironica invettiva che mise davvero la parola fine alle ideologie del Novecento, più della caduta del Muro e dei Chicago boys. Quel mettere alla berlina destra e sinistra evocando minestrine e reggicalze, mortadelle e karaoke, docce e Marlboro, fu la più clamorosa delle pernacchie nei confronti delle resistenti e rocciose convinzioni, fatte di pregiudizi e luoghi comuni, che animavano l’Italia dell’epoca. Oddio, ho detto dell’epoca? E oggi, non siamo più o meno allo stesso punto?

Intendiamoci bene, destra e sinistra non sono categorie di cui ci si può liberare con qualche giravolta tattica. Fanno parte del nostro vissuto, del linguaggio quotidiano, dell’immaginario collettivo. Sono le chiavi di lettura che usiamo per etichettare il prossimo, e di conseguenza per approvare o condannare, creare schieramenti, separare gli amici dai nemici. E per darci così un’identità. Che è la vera ossessione che ci perseguita, nella società fluida. Non riusciamo ad abituarci al mondo libero che noi stessi abbiamo creato, per questo sentiamo il bisogno di incasellarci, di auto collocarci da una parte o dall’altra, dentro zone di conforto largamente posticce.

D’altronde, pensare di fare a meno delle due categorie, inventarne di nuove, non è semplice. Spesso chi tenta di uscire dalle gabbie contrapposte viene bollato come un sognatore astratto o – peggio – come un opportunista, un traditore, un voltagabbana. Le sole possibilità per avviare l’impresa – per chi ne abbia voglia – sono, in ordine crescente di importanza: 1) fottersene delle accuse, quindi procedere con coraggio, perché bisogna nuotare controcorrente; 2) avere molta pazienza, perché raggiungere l’isola che (al momento) non c’è, richiede tempo e fatica; 3) nel frattempo costruire un nuovo pensiero all’altezza delle ambizioni. Che è poi, quest’ultimo, il punto cruciale. Perché solo il pensiero può farci conquistare risultati utili: si tratti della nascita di qualcosa che vada oltre i recinti, con contenuti solidi e innovativi; oppure, comunque, dell’avvio di un dialogo vero, proficuo tra diversi.

Vaste programme, avrebbe detto il generale, e sarà anche il prevedibile riflesso sarcastico di molti, che sfideremo con l’evento del prossimo 4 settembre, promosso dalla Fondazione Ottimisti&Razionali e da Nazione Futura. Due luoghi di riflessione e di elaborazione, network culturalmente differenti che hanno deciso di mettere insieme le forze per ragionare intorno a coppie tematiche di cui non si può negare attualità e rilievo: giustizialismo/garantismo, uomo/natura, globalizzazione/sovranismo, relativismo/valori. E se il nuovo pensiero non arriva, perché le differenze sono troppo sedimentate per essere superate? O perché continuano a riflettere effettivamente posizioni diverse presenti nella società, nel mondo reale? Nessun problema, se resta in campo e cresce il dialogo. E cioè la possibilità, il gusto, la passione del parlarsi per cercare il nucleo di verità nel pensiero dell’altro, per nutrirsi dei punti di vista altrui. Niente di più bello. È quello che cercheremo di fare, evitando di “continuare ad affermare un pensiero e il suo perché, con la scusa di un contrasto che non c’è, se c’è chissà dov’è, se c’è chissà dov’è”. Come diceva, appunto, 30 anni fa quel signore lì, Giorgio Gaber.

Claudio Velardi

"Anche il populismo della politica di oggi è figlio del 1789". Ci sono teorie e idee che dalla Rivoluzione francese portano sino alla contemporaneità, e alla politica di oggi, attraverso percorsi carsici non sempre evidenti e, spesso, trascurati dalla manualistica storica. Matteo Sacchi l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Ci sono teorie e idee che dalla Rivoluzione francese portano sino alla contemporaneità, e alla politica di oggi, attraverso percorsi carsici non sempre evidenti e, spesso, trascurati dalla manualistica storica. Eppure l'attuale populismo non potrebbe esistere se non fosse stato coltivato a partire da Rousseau e Robespierre. Ne parliamo con lo storico contemporaneista Marco Gervasoni (tra i suoi libri ricordiamo La Francia in nero. Storia dell'estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio 2017).

Professor Gervasoni, quanto è rimasto di vivo della Rivoluzione francese nella politica di oggi?

«Chiaramente tutta la politica dell'800 e '900 è determinata dalla rivoluzione francese. Basti pensare che la divisione tra destra e sinistra che utilizziamo abitualmente ha origine in quel contesto. Se la democrazia liberale è nata negli Usa e in Gran Bretagna, il concetto di volontà popolare è figlio dell'illuminismo continentale che ha determinato molti esiti della politica europea dalla Rivoluzione in poi. Ma definire cosa sia la volontà popolare è molto complesso. Già Edmund Burke mise in luce che è un'astrazione che può, facilmente, portare alla dittatura».

Quindi la rivoluzione francese è strettamente collegata anche alle dittature del Novecento?

«Indubbiamente c'è un legame diretto con il comunismo che è stato anche rivendicato e molto ben analizzato, ma questo rapporto era molto evidente anche nel caso del fascismo e in qualche modo c'era anche col nazionalsocialismo».

Nel caso del fascismo?

«Mussolini lo spiegò bene anche nella voce della Treccani, a sua firma, sul fascismo: disse che non si trattava affatto di un movimento di matrice reazionaria. De Felice ed Emilio Gentile hanno evidenziato, con cura, tutti i rimandi presenti nel fascismo che arrivavano direttamente dalla rivoluzione francese. Basti pensare al cambio del calendario. I partiti che hanno incarnato un millenarismo, da religione laica, il cui fondamento era pretendere di essere il Bene assoluto hanno ereditato un'attitudine tipica della Rivoluzione francese, figlia di modalità legate soprattutto, ma non solo, al pensiero di Rousseau, o meglio alla versione dei pamphlet giacobini basati su Rousseau».

Questo richiamo alla volontà popolare come strumento politico è ancora presente oggi?

«Era meno usuale durante il lungo periodo della Guerra fredda, dove i partiti e le élite economiche avevano un maggior ruolo di mediazione politica. Ora dalla destra di Le Pen sino alla sinistra di Grillo è tornata di assoluta attualità. Ovviamente è un richiamo che si scontra, molto spesso, con la gestione reale della complessità di governo. Del resto è un concetto così poco definito che molti di quelli che l'hanno usato, a partire da Robespierre, ci hanno messo poco a sovrapporre la volontà dei propri sostenitori a quella del popolo».

La contraddizione principale. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Mix tra vittimismo e ribellismo e la ricerca di un nemico su cui scaricare i propri insuccessi. La rubrica “L’umanista” di Alessandro Chelo, esperto di leadership e talento. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. Alessandro Chelo su Il Riformista il 19 Giugno 2023 

Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Sono i versi del ritornello di una celebre canzone che Giorgio Gaber compose nel ‘94. Il testo del brano si sviluppa sul filo dell’ironia e nella strofa finale spiega il senso della canzone: è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché, con la scusa di un contrasto che non c’è. Se c’è chissà dov’è. Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra: è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra. Insomma, già trent’anni fa Giorgio Gaber si interrogava intorno alla fondatezza di questo conflitto ideologico. Nello stesso anno, il filosofo Norberto Bobbio pubblicava la prima edizione del pamphlet Destra e Sinistra nel quale si interrogava sulle differenze fra questi due mondi ideologici.

Con l’avvento della nuova epoca globale e digitale, le vecchie categorie ideologiche ci appaiono ancora più datate e un approfondimento sul tema è d’obbligo, con buona pace del tipico intellettuale “di sinistra” che, non appena poni il tema del superamento dello schema destra/sinistra, ti accusa di essere, implicitamente, “di destra”. Un po’ come se uno che si dichiarasse “né Guelfo né Ghibellino”, fosse accusato di essere implicitamente Ghibellino. Eh no amici, le categorie politiche, contrariamente a quelle morali, hanno un ciclo di vita, fatevene una ragione. Ma qualcuno proprio non riesce ad abbandonare le vecchie appartenenze, così finisce per considerare destra e sinistra alla stregua di categorie morali, quasi antropologiche, la qual cosa è molto pericolosa, considerato che non c’è totalitarismo che non nasca proprio dalla trasformazione delle categorie politiche in categorie morali.

Ma allora, qual è oggi la contraddizione principale? Quali sono le contraddizioni secondarie? L’insorgere della nuova epoca ha generato nuove opportunità, nuove prospettive, nuovi bisogni e, soprattutto, ha radicalmente modificato le relazioni fra gli individui e la relazione fra ogni individuo e la società. La narrazione neo-populista offre una lettura di questo nuovo scenario. Essa è caratterizzata da un mix di vittimismo e ribellismo, la ricerca di un nemico su cui scaricare la responsabilità dei propri mancati successi, la retorica del popolo buono vessato da un potere occulto e malvagio. Questa narrazione fa breccia trasversalmente, tanto a destra quanto a sinistra e il fenomeno del rossobrunismo ne é fulgida testimonianza.

La contraddizione principale è oggi dunque fra questa narrazione neo-populista e la narrazione alternativa che ancora, compiutamente, non c’è. Riempire di contenuti ideali trasversali la narrazione alternativa a quella neo-populista, è oggi il principale compito degli innovatori. E la contraddizione destra/sinistra? Essa è totalmente archiviabile? No, si tratta di una contraddizione secondaria che si consuma nell’ambito del fronte neo-populista. Ma qualcuno proprio non riesce ad andare oltre, è troppo affezionato alle sue vecchie appartenenze e allora propone nuovi temi sui quali costruire nuovi steccati. Gli innovatori non devono cascarci, il loro compito non consiste nel trovare un pretesto per schierarsi sulle macerie ideologiche della vecchia epoca, il loro compito consiste invece nell’elaborare, con un nuovo linguaggio, un impianto ideale alternativo a quello neo-populista. Questo compito non può certo essere affidato alla “sinistra riformista” o alla “buona destra”, deve invece essere affidato a chi, scevro dai vecchi condizionamenti, non cerca le risposte sfogliando i vecchi libri, ma intende prendere carta e penna e scriverne uno tutto nuovo.

Alessandro Chelo. Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. 

I Quaderni cent'anni dopo. Cosa è il populismo, Grillo e Salvini descritti da Gramsci cento anni fa…Il populismo è oggi una categoria tra le più inflazionate. Non manca chi sentenzia: visto il carattere onnipervasivo del fenomeno, anche la sinistra dovrebbe aderire allo spirito del tempo e diventare una forza populista come le altre. In tal senso, Ernesto Laclau, accettando la contrapposizione tra moltitudine ed élite, cerca di ricavare da Gramsci una “ragione populista” rivolta alla fabbricazione di un capo carismatico che avanza con la maschera antisistema. Michele Prospero su L'Unità il 23 Maggio 2023

Il populismo è oggi una categoria tra le più inflazionate. Non manca chi sentenzia: visto il carattere onnipervasivo del fenomeno, anche la sinistra dovrebbe aderire allo spirito del tempo e diventare una forza populista come le altre. In tal senso, Ernesto Laclau, accettando la contrapposizione tra moltitudine ed élite, cerca di ricavare da Gramsci una “ragione populista” rivolta alla fabbricazione di un capo carismatico che avanza con la maschera antisistema.

È corretto un uso populista di Gramsci? Nei Quaderni, la locuzione “populismo” indica la rinuncia al ruolo fondativo del conflitto di classe per l’inseguimento di un popolo concepito come unità mitica. In direzione di una comunità fittizia, non sconvolta dal conflitto sociale, il populista si specializza nella “esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi)” (Q, p. 812).

Gramsci legge i populismi, nel campo letterario e in quello politico, come un momento connesso alla separazione delle élites dal popolo: “Non solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki ecc.)” (Q, 397). Questo tipo di populismo evoca un’inclinazione alla radicalizzazione della protesta sotto la direzione di ceti intellettuali insoddisfatti che rifiutano la politica organizzata e il conflitto di classe.

Il ricorso a certi “sentimenti critici elementari”, che inventano il popolo come un’entità coesa e perciò mitizzata, implica anche una forma di democratismo. Il limite di questa cultura, agli occhi di Gramsci, è quello di appartenere a sensibilità sorte prima del 1848 e quindi inadeguate a cogliere il proletariato come soggetto storico che reclama differenze, impone partizioni. La saldatura operaia tra condizione economica e soggettività politica rende anacronistica ogni concezione unitaria della comunità.

Secondo Gramsci (Q, 915), il popolo quale organismo compatto non è un dato reale, dal momento che “l’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde”. Esistono cioè dissidio e conflitto, non c’è omogeneità. Lontano da un pensiero critico, il populismo assume le forme dell’antipolitica e lo stile retorico demagogico. Alle “frasi superficialmente scarlatte” Gramsci preferisce il politico realista, che avversa la manipolazione e gli schemi moralistici. Contro i manicheismi che vedono un popolo buono opposto a una élite cattiva, i Quaderni assumono un conflitto aperto e costruttivo “per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l’«antitesi»” (Q, 1595).

Le deformazioni populiste, che delegittimano l’avversario, le élite, la “casta”, agli occhi di Gramsci impongono una regressione rispetto alla civiltà del conflitto. In opposizione agli stampini del linguaggio dei populisti, i Quaderni recuperano uno spirito di scissione, cioè la soggettività della classe che si percepisce nella sua autonomia (Q, 333). La soluzione populista prevede una ostilità demagogica verso la politica e il ricorso a polemiche “di carattere psicologico o moralistico”.

Il populismo nega ogni ancoraggio della politica alla geografia delle classi sociali e richiede quadri deformanti, scorciatoie semantiche. La mentalità demagogica si riduce alla “forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L’attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi” (Q, 1595).

Mentre auspica un pensiero critico-sistematico, Gramsci (nulla a che vedere con il culto del senso comune alla De Man e con la “scienza popolare”) disprezza la “letteratura popolare in senso deteriore” vista come “degenerazione politico-commerciale”, che però va studiata e compresa lo stesso: anche le costruzioni intellettuali scadenti possono rivelare tendenze reali. La fraintesa categoria di “nazionale-popolare” rinvia piuttosto a Shakespeare, alla tragedia greca, alla più elevata produzione culturale, e non ha nulla di riconducibile al primitivo, agli “ammiratori del folklore”, agli “stregonisti” (Q, 329).

Le suggestioni populiste, che Laclau ricava dai Quaderni, cozzano con la struttura del pensiero gramsciano. Il rifiuto dell’antipartitismo (il partito-filtro è un essenziale veicolo della modernità politica) e il ruolo fondamentale assegnato alla mediazione (cultura, scuola, organizzazioni, società civile, rappresentanza) rendono evidente il divario tra Gramsci e le visioni populiste. La critica del capo carismatico (la leadership esige il riconoscimento della capacità di direzione entro aperti canali di raccordo), la valorizzazione della funzione dell’élite (la costruzione di nuovi gruppi dirigenti è il compito della politica), il rigetto di ogni interpretazione complottistica delle complesse vicende storico-politiche e dei processi di mondializzazione dell’economia e delle culture, rendono Gramsci incompatibile con ogni vago populismo di sinistra.

Più attenta al profilo analitico dei Quaderni si mostra l’antropologa Kate Crehan (Gramsci, Culture and Anthropology, Londra 2002, p. 155), la quale comprende che Gramsci è “radicalmente estraneo a qualsiasi forma di populismo”. L’antidoto a una narrazione suggestiva e potente capace di sfidare la logica e la coerenza, non risiede nella velleità di fabbricare da sinistra, come alternativa ai modelli trionfanti a destra, un linguaggio uguale e contrario, cioè un populismo gauchista che rinunci al materiale per rifugiarsi nell’immaginario. Secondo Crehan (The Common Sense of Donald J. Trump: A Gramscian Reading of Twenty-First Century Populist Rhetoric, Londra 2018), con l’arsenale di Gramsci è possibile comprendere come contrastare la “retorica populista” dell’era Trump.

Dinanzi a un imprenditore che con un “movimento del senso comune” indossa il costume del politico-antipolitico, non basta la celebrazione della serietà, del rigore, della competenza. A nulla serve graffiare il tycoon rilevandone le contraddizioni, gli errori grammaticali nei tweet, lo scarto tra promesse e realizzazioni possibili, le seriali bugie. L’incoerenza è un principio costitutivo del “senso comune” populista.

La bassa oratoria “irrazionalista” di Trump, che si scaglia contro il modo di vivere dell’élite metropolitana, prevale perché, con le sue metafore sempre politicamente scorrette, riesce a “collegarsi con una vasta schiera di americani arrabbiati attraverso latrati reiterati all’infinito. Come ha osservato Gramsci, la ripetizione è il miglior mezzo didattico per lavorare sulla mentalità popolare” (Crehan). Un magnate che sfonda con un linguaggio rozzo ma apparentemente “autentico” parla un gergo che suona come veritiero al cospetto della sensibilità modellata dai social e dalla tv spazzatura. Per mettere sotto scacco il leader populista, non serve contrapporre al suo dialetto antipolitico la serietà del mestiere della politica, né tantomeno rincorrerlo sul terreno del “common sense”.

Contro l’assenza di rigore logico-sistematico (il “lorianesimo”) e la “teratologia intellettuale”, il pensiero gramsciano respinge ogni schematismo elementare. Per il pensatore sardo, “riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso” (Q, 1440). In vista di una indagine critica, “il senso comune è un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme” (Q, 1399), che va maneggiato con coerenza analitica per afferrare la complessità dei processi. Per smontare il populismo, che naviga nell’apparenza e nel simbolico, è indispensabile riportare le narrazioni al livello delle sofferenze materiali, delle diseguaglianze, dei conflitti. Così si rende tangibile, sul piano dell’esperienza reale, il peso dell’esclusione e con il supporto della cultura critica si dà un quadro coeso all’alternativa politica.

Questo sembra essere il suggerimento che Gramsci ricava dalla lettura dell’esperienza del boulangismo come ribellione antipolitica. Sebbene sia evidente che dietro ai movimenti di tipo populista c’è lo zampino di poteri esteri e di centri nazionali di influenza, l’analisi non può ridursi a una scoperta degli intrecci oscuri, finanziari e organizzativi. Gramsci precisa che, al di là di ogni “tinta moralistica” che voglia rintracciare la presenza di mire opache e calcoli interessati, l’attenzione “deve dirigersi alla ricerca degli elementi di forza e degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l’ipotesi «economistica» afferma un elemento di forza, la disponibilità di un certo aiuto finanziario diretto o indiretto (un giornale che appoggi il movimento è un aiuto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco. La ricerca quindi, come ho detto, dev’essere fatta nella sfera del concetto di egemonia”. Va superato “l’errore teorico e pratico” di chi, postulando l’esistenza di un “raggruppamento dominante”, rinuncia a comprendere le cause e la capacità espansiva dei movimenti populisti. Il concetto di egemonia, nota Gramsci, suggerisce invece un’altra strada. “Quando un tale movimento si forma l’analisi dovrebbe essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale del movimento; 2) rivendicazioni che i dirigenti pongono e che trovano consenso in determinati strati sociali; 3) le esigenze obbiettive che tali rivendicazioni riflettono; 4) esame della conformità dei mezzi adoperati al fine proposto; e 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non in forma moralistica, presentazione dell’ipotesi che tale movimento necessariamente sarà̀ snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci credono. Invece quest’ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (dico che appaia tale con evidenza e non per un’analisi «scientifica» [esoterica]) esiste ancora per suffragarla, cosi che essa appare come un’accusa morale di doppiezza e di malafede ecc. o di poca furberia, di stupidaggine. La politica diventa una serie di fatti personali”.

La connessione del populismo con le domande sociali insoddisfatte nell’ordine politico esistente sollecita un riconoscimento del fondamento oggettivo, al di là delle semplificazioni, dei movimenti di protesta. Il “nucleo di verità” del fenomeno populista non può essere trascurato proprio se si intende denunciare il carattere “necessariamente snaturato” di forze che agitano simboli e riferimenti tra loro contraddittori. Percepire i dati reali, ricostruire il senso delle cose a partire dal vissuto, dare significato ai singoli frammenti quotidiani, questo è il percorso che Gramsci suggerisce per definire una politica capace di ristabilire momenti di connessione emotiva dopo la crisi di rappresentanza.

Se vedo, non credo. Il profilo dettagliato dello scettico moderno. Antonio Sgobba su L'Inkiesta il 28 Novembre 2023

Come spiega Antonio Sgobba nel suo libro "Sei scettico? Una filosofia antica per i tempi moderni", edito da Einaudi, gli scettici sono più vicini di quanto immaginiamo. Sono risentiti, emotivi, dipendenti dalla tecnologia, creduloni e diffidenti allo stesso tempo

Sentiamo di frequente parlare di scettici e di scetticismo oggi, quasi sempre ci si riferisce a persone o a teorie che mettono in dubbio o negano l’esistenza di qualcosa, spesso sulla base di cosiddette ricerche portate avanti autonomamente. Ci sono gli scettici dei vaccini, gli scettici del covid, gli scettici della scienza in generale. Possiamo leggere per esempio un articolo del «New York Times» che descrive atteggiamenti, abitudini, convinzioni dei cosiddetti scettici del Covid-19: vengono trattati come malati, i medici tentano di curarli con più informazioni, per correggere le loro convinzioni errate, ma questo non basta. Non basta mai.

Questi scettici di oggi sono ossessionati dalla purezza del proprio corpo e della propria mente, non vogliono contaminarli né con sostanze né con idee diverse dalle loro. Parlano molto spesso di libertà e dicono di non aver nessun atteggiamento di deferenza nei confronti di chi occupa una posizione di potere. «È davvero difficile fargli cambiare idea con i fatti e le informazioni. Non puoi ragionare così con loro», constatano sconsolati gli esperti consultati. Gli scettici dei nostri giorni pensano spesso ai complotti: una fantasia di complotto è rassicurante, un riparo in tempi difficili, un modo per portare ordine dove l’ordine non c’è.

(…) I cosiddetti scettici di oggi sembrano non trovare pace. Sono divorati dai dubbi, dalla paura, dall’ansia. Leggo tra le pagine online di uno dei più importanti quotidiani italiani: «Quando l’Italia ha iniziato a vaccinare, molti cittadini, per svariate ragioni, erano scettici». L’ho sempre pensato. Gli scettici sono più vicini di quanto immaginiamo. Certo, non credevo cosi tanto vicini: nei primi mesi del 2021 scopro di essere praticamente circondato. L’articolo riporta un’indagine effettuata in tutti i ventisette paesi dell’Unione europea dall’agenzia Eurofound. Qui posso trovare anche un profilo dello scettico mio connazionale: chi si definisce scettico «è uomo, ha un’età compresa tra i trentacinque e i quarantanove anni (diciassette per cento), è disoccupato (ventisei per cento); ha un livello educativo mediamente basso (trenta per cento); ha una salute molto buona (ventitré per cento) e vive in aree rurali (trentaquattro per cento) […] si informa per lo più tramite social media (trentuno per cento)».

Questo scettico mi somiglia: ha la mia età, il mio genere, la mia provenienza, la mia salute, sta sempre attaccato allo smartphone come me. D’accordo, un lavoro e un’istruzione io ce li ho, e può essere una differenza non da poco. Ma questo scettico credo di conoscerlo, di sicuro qualche volta ci avrò parlato. Potrebbe essere un mio parente, un mio compagno di scuola, l’avrò incontrato al bar.

La ricerca è europea, gli scettici non sono quindi solo un prodotto tipico statunitense o italiano. Leggo: «Sulla base delle quasi cinquantamila risposte analizzate, Eurofound stima che la percentuale di scetticismo in Europa segue una sorta di divisione geografica». I più scettici di tutti sono i paesi dell’Est, seguono quelli dell’Europa centrale, poi vengono i paesi mediterranei e infine quelli del Nord, i meno scettici del continente.

Nel dettaglio: in Danimarca, Malta e Irlanda a rifiutare il vaccino è solo il dieci per cento dei cittadini; in Slovenia, Croazia, Lettonia e Bulgaria la percentuale è superiore al quaranta per cento. In comune gli scettici europei hanno un’abitudine: «Secondo i nostri dati, coloro che si aggiornano tramite post e tweet sono due volte più propensi a essere scettici riguardo al vaccino, rispetto a coloro che usano i tradizionali mezzi di informazione; e sono quattro volte più propensi a credere che il Covid-19 non esista». E una condizione: «le categorie che hanno sperimentato una maggiore insicurezza professionale e finanziaria, come i disoccupati e liberi professionisti, sono coloro che hanno una maggior propensione a credere che il covid non esista, oppure che sia tutta una cospirazione».

Che cos’è successo a queste persone per ritrovarsi così? «Hanno accumulato un forte risentimento nei confronti delle istituzioni a causa dell’impatto economico che la crisi ha avuto su di loro e quindi non accettano le indicazioni espresse da chi li rappresenta: non tollerano le misure di contenimento del virus, come i lockdown e le quarantene, e rifiutano i vaccini», scrivono i ricercatori che mettono anche in relazione il tasso di scetticismo con un altro indice: «può essere riconducibile alla fiducia che la popolazione ha nel proprio servizio di sanità pubblica: più alta è la fiducia, minore è lo scetticismo». Risentiti, emotivi, dipendenti dalla tecnologia, creduloni e diffidenti allo stesso tempo. Oggi gli scettici vengono descritti così. Io me li ricordavo diversi.

Da “Sei scettico? Una filosofia antica per i tempi moderni”, di Antonio Sgobba, Einaudi, 184 pagine, 18 euro

Stefano Cappellini per “la Repubblica” - Estratti giovedì 26 ottobre 2023.

Il cospirazionismo è come una slot truccata ma al contrario: per vincere comunque.

C’è sempre un modo di “dimostrare” che la tesi complottista è vera, anche quando l’evidenza dimostra il contrario. 

Uno degli esempi più clamorosi è l’assalto golpista a Capitol Hill del gennaio 2021. Come difendere un atto così violento e antidemocratico? 

Semplice: sostenendo che non era un assalto e tantomeno un golpe. Le porte del Campidoglio sono state aperte a trabocchetto, e i manifestanti gentilmente accolti all’interno, solo affinché le intemperanze di qualche testa calda potessero essere scaricate su tutti i manifestanti e sul loro nume tutelare, The Donald. 

Una surreale versione sostenuta già il giorno dopo i fatti, sul canale Byoblu, dall’ex giornalista Rai Fulvio Grimaldi, ex Lotta continua ed ex Rifondazione comunista: 

(...)

Byoblu è da svariati anni una centrale del rossobrunismo italiano: un misto di antimperialismo da campo Hobbit e anticapitalismo da Terza posizione, servito in salsa complottista. Nel suo libro manifesto del 2021, Il disallineato , pubblicato da Rizzoli, il fondatore Claudio Messora, ex M5S, si presenta così: «Ho deciso di raccontarvi quello che ho imparato negli anni, osservando come si muovono dietro le quinte i guru dell’informazione, spesso più importanti dei politici stessi. Ho lavorato al loro fianco e appreso le loro tecniche senza tuttavia mai utilizzarle perché credo in una dimensione diversa dell’impegno per il bene comune. Perché quel mondo funziona solo se nessuno rende pubblici i suoi segreti ». Il fatto che il principale spin doctor al cui fianco Messora ha lavorato quando era in politica sia Rocco Casalino dovrebbe già dare il senso delle cose.

(...) L’iniziato vede ovunque indizi del complotto e chiavi per decrittare i misteri del potere. Per questo sui forum di discussione in Rete e nei canali Telegram le chat cospirazioniste sono indistinguibili da quelle degli appassionati di crime che si scambiano informazioni e pareri sulla soluzione dei cold case . Da notare il passaggio di Messora sul fatto che gli spin doctor siano i veri depositari del potere, ben più dei politici, loro burattini. 

Una suggestione che contiene al suo interno uno dei pilastri della trama cospirazionista: il deep State, lo Stato occulto, l’idea che il potere non stia nelle mani di chi lo detiene formalmente bensì in quelle nascoste e avide e omicide e sataniche di chi gestisce il Piano. Se pensate che questa griglia di lettura sia usata solo da frange di fanatici, riascoltate il discorso che Giorgia Meloni ha inviato ai militanti di Fratelli d’Italia domenica scorsa: depurata degli eccessi, c’è dentro tutta la mitologia del deep State che sabota il governo democraticamente eletto, che briga, trama, spodesta.

L’esistenza del Piano è uno dei capisaldi del pensiero, a definirlo tale, di Qanon. Cos’è Qanon? Una comunità e una corrente politica, una teoria del complotto e al contempo un gioco di ruolo, un horror alla Wes Craven e una trama di Dan Brown. 

Per i seguaci di Qanon la Terra è dominata da una setta occulta di potenti, Cabal, accento sulla a, chiaro rimando agli ebrei, che tutto controlla e dispone e che rapisce bambini per seviziarli e ucciderli, ma soprattutto per estrarre dalle loro ghiandole adrenocromo, una sostanza usata come elisir di lunga vita. L’adrenocromo, inteso come sostanza alchemica, nella paperinesca tavola degli elementi dei complottisti si affianca al grafene, il metallo che sarebbe iniettato a tradimento nei corpi dei “sierati”, versione spregiativa dei vaccinati.

Tra i principali esponenti di Cabal ci sarebbero Hillary Clinton, George Soros, Bill Gates, attori e cantanti come Tom Hanks e Beyoncè. Ci sarebbe però all’opera un’altra setta segreta, questa volta di buoni che combattono Cabal, il cui capo in incognito è Donald J. Trump. Lui, Trump. Arrivato infine alla presidenza per completare l’opera di distruzione di Cabal grazie all’unica istituzione rimasta immune al potere pervasivo dei satanisti pedofili, cioè l’esercito (Vannacci, ci sente?). 

Su Telegram il canale italiano The Storm Q-17, che deve il suo nome a una battuta di Trump adottata da Qanon come il segnale dell’inizio della rivoluzione, «the quiet before the storm», la calma prima della tempesta, ha radunato 41 mila iscritti. Questa è la chiamata alle armi: «Nulla è come appare. Sappi che tutto ciò che vedi accade per un motivo ben preciso. Ogni pedina del sistema corrotto sarà fatta fuori al momento giusto. È in atto l’operazione di intelligence più grande della storia. La chiave siamo noi. Abbi fede. Enjoy the show».

Qanon deve il suo nome a Q, un fantomatico funzionario infiltrato nel Sistema che dal 2017 - prima sulla piattaforma 4Chan, quindi su 8Chan – ha cominciato a pubblicare brevi e criptici messaggi, una via di mezzo tra la Sibilla cumana e Chance il giardiniere, il personaggio del film Oltre il giardino che diventava un guru di Palazzo grazie alla sua naturale produzione di aforismi idioti che i politici scambiavano per geniali consigli o premonizioni. 

In Italia la maggior parte degli sherpa complottisti ha un curriculum sinistrorso, ma anche negli Usa sono numerosi i fan di Bernie Sanders risucchiati da Qanon dopo la delusione per la mancata nomination del leader dell’ala sinistra dei dem.

Quando due anni fa il mensile del Fatto quotidiano (giornale che gode del primato di citazioni nei canali Telegram qanonisti) ha pubblicato un numero monografico sul cospirazionismo italiano, il curatore delle interviste ha preso atto che alcuni tra i più attivi membri del Qanon italiano erano elettori di sinistra che avevano smesso di essere tali. Il rovesciamento delle parti o, se preferite, il cambio di segno – una cornice di sinistra per un quadro di destra - è particolarmente evidente in Italia e ha una spiegazione che precede Qanon e ne prescinde, E ha anche un nome: Beppe Grillo.

ANTI FAKENEWS. Come i media mainstream strumentalizzano l’accusa di “complottismo”. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 27 maggio 2023.

Immancabile come la scadenza delle tasse, arriva l’ennesimo sondaggio volto a fotografare lo stato del complottismo in Italia. Lo schema è sempre lo stesso: associare le teorie alternative al mainstream al complottismo, inserire sotto il capello di questo termine un insieme variegato di convinzioni estreme, colorite e strampalate, accostandole a posizioni che variano dallo scetticismo a ricerche ben documentate del giornalismo indipendente.  Lo scopo, infatti, è screditare chi pensa in maniera critica, libera e indipendente, per accomunarlo al tipico cospirazionista da vignetta con lo scolapasta in testa. 

I sondaggi periodici emessi da qualche organismo “indipendente” di dubbia indipendenza (tutto ciò evoca la tecnica della “terza parte indipendente” di Edward Bernays) offrono un’aura di autorevolezza che piace al mainstream e ricoprono un ruolo importante nel sistema informativo odierno. In particolare, i sondaggi sul complottismo servono a semplificare un fenomeno e a descrivere coloro che dubitano della narrazione del sistema alla stregua di analfabeti funzionali, bifolchi con disagio abitativo, sprovveduti alla stregua di coloro che credono alle apparizioni della Madonna (ci aveva già pensato Galimberti ad associare i fedeli di Medjugorje ai No Vax, invocando per loro un TSO). Tant’è che i titoli degli articoli finiscono sempre per dileggiare i complottisti (Il Giornale: «Ogni mattina un terrapiattista si sveglia e guarda il Sole sorgere. […] Ogni mattina un complottista si sveglia, prende il sussidiario di quinta elementare e strappa un po’ di pagine. Non hanno ragione di essere lette») o persino per compatirli, descrivendoli come dei beoti che si bevono qualunque panzana (L’Espresso titola: “Il complottista è tanto ingenuo da fare tenerezza”).

Ci troviamo di fronte a un’alchimia di ingredienti sapientemente miscelati: l’atteggiamento arrogante dello scientista (per lui sono tutti idioti, dai credenti ai No Vax); la presunzione dell’autoproclamato professionista dell’informazione che si ritiene depositario della verità e la certifica con il suo bollino di qualità; la solerzia, tanto ossessiva quanto sadica, del moderno inquisitore digitale volta a perseguitare chiunque non la pensi come lui; la malizia del ricorso a tecniche di ingegneria sociale (per esempio il framing); la patologizzazione del dissenso. 

Questo processo ha subito una accelerazione durante il triennio pandemico e perdura ancora oggi. Da Le Iene (“Paura e delirio a Chivasso”) a MilanoToday, i “No Green Pass” sono stati dipinti come dei soggetti deliranti, dei paranoici cospirazionisti pronti a propagare ogni strampalata teoria alternativa su qualsiasi cosa, senza eccezione alcuna. La Repubblica ha dedicato un articolo ai “cattivi maestri” affermando che «il fiume carsico del complottismo italiano è tornato con prepotenza a galla: la battaglia contro il Green Pass è il nuovo punto d’approdo». 

Il Foglio, Rolling Stone, L’Espresso, Huffpost, Il sussidiario, Il Giornale e altri media hanno ripreso un recente sondaggio Swg che certifica che il 15 per cento degli italiani crede che la Terra sia piatta, il 18 per cento crede ai Rettiliani, il 17 per cento ritiene che “l’Olocausto non è mai avvenuto”; il 18 per cento che “alcune celebrità decedute sono ancora vive e si trovano nascoste in un’isola”. A questi si vanno ad aggiungere coloro che sostengono lo sbarco sulla Luna non sia mai realmente avvenuto (il 29%), mentre il 25 per cento degli italiani è convinto che “i vaccini sono un metodo di controllo di massa attraverso il 5G”.  

La percentuale sale ancora per quanto riguarda i dubbi sull’11 settembre: il 32 per cento pensa che “l’attentato delle Torri Gemelle è stato organizzato dagli Stati Uniti”. Qua dovremmo domandarci, semmai, se il 68% creda davvero alla ricostruzione ufficiale: che un manipolo di terroristi che aveva poche ore di volo sui simulatori, sia stato in grado di orchestrare l’attacco, di dirottare e pilotare dei Boeing, (Ivan Chirivella, l’istruttore di volo di Mohamed Atta, quando venne intervistato in merito alla competenze acquisite dal suo ex allievo, affermò che «Atta non era in grado di portare a termine una simile manovra», ossia centrare la Torre con un Boeing), di far collassare l’edificio 7 per empatia (franò su se stesso alla velocità della caduta libera senza essere impattato dagli aerei) e di effettuare sul Pentagono con il 757 una virata di 270° che nemmeno il più abile pilota di caccia sarebbe riuscito a fare… 

Ci dovremmo anche chiedere se dubitare dell’efficacia dei sieri anti-Covid, mai testati sulla trasmissione, certificandone la mole di reazione avverse, rientri in qualche forma di paranoia o non sia, invece, sano scetticismo, avvalorato dai fatti e dai recenti scandali. 

Il Foglio, però, è sicuro: «Siamo nella paranoia». E la paranoia la certifica, secondo il quotidiano, la percentuale di coloro che credono che il Covid sia il prodotto di laboratorio (tra il 36 e il 42%). Eppure, proprio negli ultimi due anni, si sta facendo sempre più spazio la possibilità concreta, rilanciata da media internazionali e dalle istituzioni (la Casa Bianca in primis), che il Sars-CoV-2 sia fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan. Ma niente, per i media italiani sono panzane, a priori. 

In cima alle convinzioni degli italiani, osserva il Foglio, «c’è poi la migliore delle teorie, la madre di tutti i complotti: il 60 per cento degli italiani sostiene che “un’élite di poteri forti controlla il mondo”». E qua viene da sorridere. Forse costoro sono all’oscuro di come i fondi di investimento (per es. BlackRock) siano più potenti delle nazioni stesse, di come la “filosofia del dono” abbia permesso a filantrocapitalisti del calibro di Warren Buffett, George Soros o Bill Gates di estendere il loro raggio d’azione ovunque, finendo per dettare l’agenda dei governi e di organizzazioni come l’OMS? O ancora, citando i rapporti Oxfam, come il divario tra paperoni e poveri si faccia sempre più marcato? O, infine, come il gotha mondialista si riunisca in cenacoli come il Gruppo Bilderberg, per pianificare il destino di miliardi di persone? Ovviamente, in segreto e a porte chiuse. Ma a pensar male, per i quotidiani mainstream, si è inesorabilmente complottisti. [di Enrica Perucchietti]

Lente distorta. In che modo le nostre convinzioni trasformano la realtà che percepiamo. Massimo Polidoro su L'Inkiesta il 5 Maggio 2023.

In un’epoca di post-verità è sempre più difficile districarsi nel caos informativo crescente, ma non è (solo) colpa della tecnologia o della natura umana, scrive Massimo Polidoro in “La scienza dell’incredibile” (Feltrinelli)

La guerra in Ucraina? È solo una grande simulazione costruita dai media occidentali per attaccare la Russia di Putin.

Il Covid? Una leggera influenza, amplificata per imporre una dittatura sanitaria.

Le elezioni americane? Un furto per sottrarre la vittoria a Donald Trump.

Il riscaldamento globale? Normali fluttuazioni climatiche, esagerate da chi pretende ingiuste restrizioni al nostro stile di vita.

In quest’epoca di post-verità sembriamo aver perso la bussola che, fino a poco tempo fa, ci aiutava a trovare l’orientamento per distinguere il vero dal falso. Diventa sempre più difficile districarsi nel caos informativo crescente, e anche conoscenti, amici o famigliari, persone che ci erano sempre sembrate serie e affidabili, dall’oggi al domani iniziano a inseguire e a sostenere le idee più balzane, indifendibili se non palesemente false. Pensare che il mondo sia improvvisamente impazzito, magari per colpa del Web o dei social, però, sarebbe un errore. La tecnologia non fa altro che amplificare ciò che siamo e, in particolare, qualcosa che è profondamente radicato dentro di noi: il bisogno di credere. Si potrebbe infatti ricordare che da sempre gli esseri umani sono portati a credere a ciò che li fa stare bene, a ciò che li rassicura, a ciò che conforta i loro punti di vista, e a rifiutare ciò che non capiscono o che rischia di metterli in crisi. Ma sarebbe riduttivo.

Dunque, per capire che cosa ci porta a credere alle idee più incredibili o totalmente assurde, e che cosa ci induce a scambiare per prove convincenti quelle che sono solamente suggestioni, illusioni o, al massimo, convinzioni ideologiche o fideistiche, è necessario allargare lo sguardo e, magari, fare un lungo passo indietro nel tempo. Del resto, anche nella scienza si trovano sempre idee e teorie che sulle prime sembrano “incredibili”, ma che poi, con il progresso delle conoscenze e l’accumularsi delle conferme si rivelano molto credibili, dall’evoluzione al Big Bang, per citarne solo due. E, naturalmente, all’opposto, sono spesso esistite ipotesi e spiegazioni credute vere per decenni, in qualche caso per secoli, su entità mai osservate, e che si sono poi rivelate del tutto sbagliate: dall’idea del flogisto, che sembrava spiegare bene il fenomeno della combustione, a quella dell’etere, con cui si cercava di comprendere il propagarsi della luce.

Per capire come si formano le nostre convinzioni e le nostre credenze, e come il processo dell’evoluzione abbia trasformato il nostro cervello in un sistema formidabile per dare un senso al mondo, occorre dunque risalire alle origini. In fondo, ci basta poco: un collegamento casuale tra due avvenimenti del tutto scollegati, l’indizio di un’intenzione dietro un fatto occasionale… e si forma una convinzione, che si rafforza a posteriori e diventa certezza, grazie anche al rinforzo del gruppo cui apparteniamo e che condivide le nostre credenze. Spesso queste convinzioni sono fondate, l’esperienza le dimostra vere e queste scoperte ci permettono di far progredire le nostre conoscenze.

È un percorso che troviamo nella scienza, certo, ma anche nell’economia, nella politica, persino nell’amore. Altre volte, però, i medesimi meccanismi li vediamo in azione in coloro che credono di scovare complotti ovunque e si convincono che entità nascoste e malvagie manipolino il mondo a loro piacimento. Li ritroviamo in chi compie atrocità, ma è sicuro di essere nel giusto e di fare il bene dei suoi simili. Li riconosciamo in coloro che cercano conforto in idee come quella degli extraterrestri, considerati guardiani e protettori dell’umanità, ma anche in chi crede in entità spirituali, dagli angeli ai diavoli, agli dèi di ogni tipo, e dà spiegazioni sovrannaturali alla realtà.

Per quanto a volte ci possano sembrare assurde, però, queste idee hanno una loro funzione. In fondo, la costruzione e la condivisione di storie e miti sono alla base della civiltà e della cooperazione umana. E non serve nemmeno che tali storie siano vere: ciò che conta è che le crediamo vere. Se siamo riusciti a costruire città e società complesse, infatti, è solo perché grandi masse di persone hanno scelto di aderire agli stessi potenti sistemi di credenze politiche, ideologiche o religiose, vere o false che fossero.

Queste credenze sono come lenti attraverso le quali vediamo e interpretiamo il mondo e gli eventi che in esso si verificano. È questo il motivo per cui il medesimo fenomeno o accadimento può essere visto e interpretato in maniera radicalmente differente da gruppi di persone differenti. Subito dopo un attentato terroristico, per esempio, può esserci chi individua i responsabili in un gruppo rivoluzionario impegnato a seminare il terrore e chi, all’opposto, immagina si tratti di un’operazione segreta voluta dalla stessa nazione colpita: un pretesto per sopprimere ogni dissenso. Oppure, può anche esserci chi afferma che non ci sia stato nessun attentato e che si tratti solo di una simulazione mediatica. Le nostre credenze, insomma, hanno la capacità di trasformare la realtà che percepiamo; di conseguenza, chi non la vede come noi ci sembra irrazionale, ignorante o, peggio, in malafede. A volte questo porta a incomprensioni e discussioni, ma nei casi più gravi può motivare l’odio e la violenza, fino ad arrivare alla guerra.

Da “La scienza dell’incredibile” (Feltrinelli), di Massimo Polidoro, p. 256, 17€

Il complottista è tanto ingenuo da fare tenerezza. Ray Banhoff su L'Espresso il 26 Aprile 2023.  

A suo modo, quella dei complotti è una fede nell’assurdo nutrita per sopportare una realtà assurda.

Nonostante tutto, è difficile avercela con i complottisti: la loro ingenuità fa quasi tenerezza. Abboccare alle bufale è così rassicurante rispetto alla fatica che comporta la razionalità o a una realtà dove il merito è svalutato dalla burocrazia e poche persone hanno successo, a discapito di masse che si spaccano la schiena per campare. Deve esserci qualcosa che non torna, ci stanno fregando. Partendo da questo assioma, pensate che bello infervorarsi per qualcosa all’infuori di noi stessi, partecipare a gruppi Telegram insurrezionalisti e sentirsi parte di un’élite di pochi che ha capito tutto. Il complottismo a suo modo è una fede nell’assurdo messa in piedi per sopportare una realtà altrettanto assurda.

Desacralizzate le religioni, le istituzioni secolari, le vecchie credenze, viviamo nella luce della razionalità e della tecnologia. Che, però, non ci scalda il cuore abbastanza.

Per mappare la cosmogonia di questa nuova tipologia di credenti, l’istituto di ricerca Swg ha pubblicato un’indagine secondo cui, tra gli italiani, sono diffuse le teorie del complotto più assurde. Partiamo dalle basi del sondaggio per cui: la Terra è piatta (15 per cento); non siamo mai sbarcati sulla Luna e le foto che abbiamo dell’allunaggio sono scattate su un set (29 per cento); le Torri Gemelle le hanno buttate giù gli Usa (32 per cento); la Shoah non è mai avvenuta (17 per cento); Elvis, Adolf Hitler e molte celebrità decedute sono ancora vive e si trovano nascoste su un’isola misteriosa (18 per cento).

Internet, i social, il Deep Web, i gruppi Telegram, le teorie del «comblotto» si diffondono velocissime e arrivano fino al presente, che appare dominato dal deep state e da Big Pharma. Le conosciamo bene: il Covid-19 è stato creato dalla Cina come arma per distruggere l’Occidente e favorire le case farmaceutiche (36 per cento).

Ora, possiamo anzitutto ridere di questi teoremi, oppure provare a capire cosa spinge una persona a crederci. Credere prevede un’epica di martirio e salvezza. Si attende un messia, un capopopolo, una sorta di insurrezione per ribaltare l’ordine costituito che ci opprime. Credere dà una sorta di marcia in più, una grinta da contrapporre all’apatia del depresso sconfitto che produce, consuma e infine crepa. Anche essere stati grillini agli inizi penso sia stata una sensazione simile.

Il complottista è un sognatore imperterrito. Spesso poco istruito, sì, ma attenti a non fare l’errore di ritenerlo solo ignorante. «Il tasso di laureati cospirazionisti si assesta attorno al 5 per cento» (Il Foglio).

Eravamo forse più razionali nei secoli precedenti, nonostante ci affidassimo alla magia e alle credenze popolari. Quantomeno non eravamo andati nello spazio, potevamo ancora dubitare di qualcosa. Eppure, tutta la nostra modernità non basta a rassicurarci.

Scriveva Bataille in un testo apparso nel 1970: «La misura e la banalità si sono lentamente impadronite del mondo; orologi sempre più precisi hanno rimpiazzato le vecchie clessidre ancora cariche di un senso funebre. La terra è stata così perfettamente svuotata di ciò che rendeva tremante la notte. Ne risulta che l’avidità umana non è più diretta come una volta verso limiti potenti e maestosi: essa aspira al contrario a ciò che libera da tranquillità e stabilità» (Georges Bataille, “Il labirinto”, Se Edizioni, 2003). Diciamo che per avere più di cinquant’anni è un pensiero invecchiato bene.

La mani pulite europea. Il flop del Qatargate: la Mani Pulite europea finisce sotto inchiesta. Il 9 dicembre 2022 gli arresti di Panzeri, Giorgi, Kaili e Figà Talamanca. In seguito quelli di Cozzolino e Tarabella. Oggi sono tutti liberi. Il procuratore Claise ha lasciato l’indagine e i giudici dovranno valutare eventuali violazioni, incluso il coinvolgimento dei servizi. Se scandalo c’è stato, ha riguardato la giustizia belga. Marco Perduca su L'Unità il 9 Dicembre 2023

Il 9 dicembre del 2022 Antonio Panzeri, Francesco Giorgi, Eva Kaili e Niccolò Figà-Talamanca sono stati arrestati nell’operazione divenuta nota mediaticamente col nome di Qatargate a cui la Procura federale di Bruxelles aveva dato il nome di “mani pulite”. L’accusa? Associazione per delinquere con finalità di riciclaggio di denaro e corruzione.

Stando a quanto dichiarato dal Procuratore responsabile dell’indagine, l’associazione era camuffata dal lavoro di due Ong, Fight impunity, fondata nel ‘19 da Panzeri e Non c’è pace senza giustizia, fondata da Marco Pannella e Emma Bonino nel ‘94; il denaro proveniva da Qatar, Marocco e Mauritania mentre la corruzione era volta a influenzare le decisioni del Parlamento europeo anche grazie alla presenza della vice-presidente Kaili e del suo compagno già assistente parlamentare di Panzeri e ora in forze a un altro eurodeputato del PD.

Di lì a qualche mese sarebbero stati arrestati e interrogati Marc Tarabella e Andrea Cozzolino – eurodeputati socialdemocratici. Tutti e sei i coinvolti sono tornati a casa: Figà-Talamanca liberato dopo due mesi senza condizioni, gli altri prima con braccialetto e poi senza, Kaili, Tarabella e Cozzolino partecipano ai lavori del Parlamento.

Secondo Politico.eu le indagini sarebbero iniziate nel 2018 incrociando movimenti di soldi con attività di lobby per attenuare le critiche al Qatar, dove si sarebbero tenuti i mondiali di calcio, non attaccare il Marocco, punto di partenza per migranti verso la Spagna e da anni in conflitto con l’Algeria per via del Sahara occidentale e aiutare la Mauritania a impedire che un militante anti-schiavista vincesse il premio Sakharov.

Malgrado in Belgio le procure non siano loquaci quanto le nostre, la sera del 9 dicembre le Soir, il maggior quotidiano belga, dettagliava le malefatte dei quattro sposando in toto il teorema del Procuratore Michel Claise dando il la a un’infamante campagna stampa che, incurante delle biografie dei coinvolti, li dichiarava già tutti responsabili di quanto accusati. Le poche informazioni che trapelavano facevano sapere che l’indagine sarebbe partita dal lavoro dei servizi segreti di cinque paesi tra cui alcuni extra-europei.

Nell’estate del 2022, Non c’è pace senza giustizia aveva invitato decine di eurodeputati alla presentazione del rapporto “Undue Influence” (Influenza indebita) prodotto dall’organizzazione “Diritto al diritto” che dettagliava nomi e modus operandi di eletti, personalità, funzionari, banche e associazioni che negli ultimi anni avevano messo in moto una campagna di pressione istituzionale per favorire gli Emirati arabi.

Lo stesso lavoro che la Procura di Bruxelles stava facendo sulla la lobby a favore di Qatar, Marocco e Mauritania era stato fatto da una ricercatrice indipendente e presentato pubblicamente in una seduta del Comitato diritti umani del Parlamento europeo (ospite d’onore Rula Jebreal) senza che nessuno se ne fosse interessato.

A metà dicembre, fonti vicine alle indagini lasciarono trapelare la partecipazione dei servizi emiratini all’inchiesta prevedendo presto sarebbero stati coinvolti eletti francesi e tedeschi (cosa mai accaduta).

Nella primavera scorsa, poco dopo la liberazione di Niccolò Figà-Talamanca, il quotidiano Domani, parte del Consorzio di giornalismo investigativo, ha pubblicato stralci di un documento che costruiva una “costellazione” di persone e organizzazioni attive per favorire il Qatar – e vicine alla Fratellanza musulmana -: tra gli italiani il sottoscritto e Figà-Talamanca sui quali l’agenzia di “consulenze” ALP Services aveva redatto un dossier per squalificarci di fronte a banche e istituti di credito internazionali.

Individuare negli Emirati la fonte di quanto poi è accaduto sarebbe agire come la Procura di Bruxelles, è infatti innegabile che a casa di Panzeri e Giorgi siano state trovate valigie piene di soldi (un milione e mezzo in tutto), ma approfondire quanto preparato dai servizi segreti prima di privare della libertà qualcuno, senza fargli neanche di conoscere i capi di imputazione, poteva esser (almeno) preso in considerazione.

Pochi giorni di “interrogatori” trasformarono Panzeri in un “pentito”, Dopo aver fatto qualche nome, l’ex eurodeputato firmò un accordo con Claise dettagliando qualche circostanza. Con una multa di 80.000 euro e l’accordo a passare un anno in carcere chiuse la faccenda per sé e la sua famiglia. A parte quelle confessioni, peraltro inutili, né la procura né i servizi avrebbero più prodotto niente, tant’è vero che Fight Impunity o Non c’è pace senza giustizia non sono state indagate.

Secondo una sorta di prassi belga, prima di un paio di mesi in galera non si è interrogabili, come tutte le prassi che si rispettino, alla vigilia del 60esimo giorno Figà-Talamanca è stato interrogato e immediatamente liberato. Kaili, la più importante dei tre rimasti in carcere e che si era sempre dichiarata estranea alla “associazione”, al quarto mese dopo l’interrogatorio è stata liberata con braccialetto.

Se con il passare del tempo non emergevano elementi che potessero consolidare, o chiarire, i capi di imputazione, l’allargamento dei coinvolti, in particolare il belga Tarabella, ha aperto un fronte di contro-offensiva. Grazie ad alcune ricerche dei legali dell’eurodeputato socialista si è scoperto che i figli del Procuratore Claise e dell’eurodeputata Marie Arena, che a più riprese era stata segnalata dalla stampa come molto vicina a Panzeri, erano partner in affari. Per evitare di danneggiare l’inchiesta con possibili conflitti d’interesse, a metà giugno il giudice Claise ha preferito lasciare le indagini.

Allo stesso tempo il team di avvocati di Kaili ha progressivamente messo in crisi il teorema dell’accusa facendo sì che dall’estate scorsa la “mani pulite” belga è sotto inchiesta per attività non corrispondenti al modo con cui un’indagine dovrebbe essere condotta – ivi compreso il coinvolgimento dei servizi -; starà alla Corte d’Appello di Bruxelles rilevare eventuali violazioni commesse durante la fase istruttoria.

Il 25 ottobre il CSM belga ha nominato il Procuratore federale Raphael Malagnini, responsabile fin dall’inizio delle indagini, revisore dei conti del lavoro a Liegi – non proprio una promozione.

Il 24 ottobre, dopo 10 mesi di indagini, l’Unione europea ha comunicato a Non c’è pace senza giustizia di “aver dimostrato la propria eleggibilità a rimanere nel Registro della Trasparenza” confermando che “non c’era stata alcuna violazione del Codice di Condotta dell’Ue”. Nel frattempo però la polizia belga ha sequestrato l’80% dei fondi a disposizione della Ong ipotecandone il futuro.

Poche ore dopo i quattro arresti, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola si riferì al “Qatargate” definendolo il più grave attacco alla democrazia europea; se uno scandalo c’è stato in buona parte ha riguardato l’amministrazione della giustizia di uno dei fondatori della Comunità europea e il modo in cui l’Europarlamento ha reagito piegandosi al populismo giustizialista. Sarà utile ricordarsene in un anno elettorale. Marco Perduca 9 Dicembre 2023

«Io, Eva Kaili, un trofeo dei giudici per colpire la democrazia europea».  

Eva Kaili, ex vice presidente del Parlamento Europeo

Intervista esclusiva all’ex parlamentare Ue simbolo del Qatargate, un anno dopo il suo arresto. Simona Musco su Il Dubbio l'8 dicembre 2023

Le nuove rivelazioni sul cosiddetto Qatargate arrivano quando l’intervista è ormai terminata. Riguardano Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo, indicata dai media come anello di una catena che mirava a influenzare le istituzioni europee a favore di Qatar e Marocco. Un’accusa che non compare nemmeno nelle carte, dove i servizi segreti appuntano l’impossibilità di ritenerla parte della presunta associazione a delinquere capeggiata da Antonio Panzeri, ex europarlamentare e lobbista che, curiosamente, è l’unico pentito del caso.

Un pentimento forzato, secondo i suoi stessi legali, dal momento che poco prima di confessare la corruzione ammette le proprie responsabilità per evasione fiscale. Ma questa versione cambia quando arriva l’annuncio peggiore che un uomo possa sentirsi fare: moglie e figlia sono in carcere. Così la storia si trasforma e Panzeri si decide a fare dei nomi. Il Qatargate, dopo aver popolato le prime pagine di tutto il mondo, smette poi di appassionare. Fino a quando i media di vari Paesi iniziano a notare le varie storture dell’inchiesta. Fino a quella più assurda: i servizi segreti hanno spiato l’attività del Parlamento da dentro il palazzo. E proprio mentre tutto crolla e la procura lamenta una fuga di notizie - questa volta pro-indagati -, nuovi documenti finiscono sui giornali. Ma sono parziali, spiega Eva Kaili al Dubbio. Come le chat tra lei e la presidente del Parlamento Roberta Metsola, selezionate, dice, per creare la storia giusta. Sul punto i chiarimenti arriveranno in un secondo momento, promette.

Ma intanto, esattamente un anno dopo il suo arresto, l’ex vicepresidente racconta la sua versione di una vicenda che rappresenta, a suo dire, il punto più basso della storia delle istituzioni europee. Istituzioni violate, sottolinea, mentre lei subiva «torture» per confessare reati mai commessi.

A un anno dal suo arresto, cosa resta del Qatargate?

Doveva essere il più grande scandalo per l’Ue, ma è piuttosto un BelgianGate, come lo chiamano i miei avvocati. Il vero scandalo è che sono state violate le leggi comunitarie e internazionali. I servizi segreti sorvegliano i politici, la polizia sotto copertura analizza le opinioni politiche all'interno delle Commissioni, vengono compilati dossier arbitrari contro i deputati utilizzando la carcerazione preventiva per estorcere menzogne come prova. Si sono verificate ulteriori violazioni dei diritti umani. E poi: collusione, omissione di informazioni dal fascicolo, ricusazione di un giudice per conflitto di interessi con un sospettato chiave nelle indagini, abbandono dell’inchiesta da parte del pubblico ministero, mancati accertamenti sulle persone indicate dai servizi segreti, parzialità, e infine un pentito che ovviamente è stato costretto a mentire. Queste rivelazioni sono sconcertanti e sollevano seri interrogativi sulla salute delle nostre democrazie.

Qual è lo stato attuale delle indagini?

È una caccia alle streghe. Sembra che Panzeri inizialmente abbia detto la verità: è stato pagato come consulente, ma non lo ha dichiarato e non ha corrotto nessuno. I servizi segreti si sono concentrati sulla politica del Marocco nell'Ue e sul lavoro della Commissione Pegasus (incaricata di esaminare l'uso di Pegasus e di spyware di sorveglianza equivalenti, ndr). Inizialmente si trattava di un caso finanziario da sottoporre alla procura europea che riguardava altri, non me. Invece è stato dato al giudice belga Michel Claise. Non è cambiato nulla da quando i servizi segreti hanno concluso che non sono implicata. Claise ha poi dovuto dimettersi per conflitto di interessi, poiché suo figlio lavorava nel business della cannabis legale con il figlio di Maria Arena (eurodeputata belga, ndr), uno dei contatti più importanti di Panzeri.

Avete chiesto una verifica della regolarità delle indagini?

Abbiamo presentato ricorso alla Corte per parzialità delle indagini e violazione dell'immunità parlamentare. Solitamente il tribunale impiega alcune settimane per decidere. In questo caso ci vorrà un anno, e questo la dice lunga. Nelle conclusioni alla Corte d'appello, il pubblico ministero sostiene che non sono stati adottati provvedimenti investigativi contro politici prima del 9 dicembre 2022 (giorno del suo arresto in flagranza. Senza revoca dell’immunità non sarebbe stato possibile effettuare indagini su Kaili, ndr). Nel fascicolo, invece, ci sono numerose relazioni che dimostrano il contrario, tra cui la presenza di poliziotti in borghese nel corso dei lavori di una Commissione parlamentare e il fatto che i servizi segreti fossero fuori casa mia anche quando ero sola (cioè senza il marito Francesco Giorgi, assistente parlamentare coinvolto nell’inchiesta, ndr). Usare il “reverse engineering” per costruire accuse di flagranza contro di me, pur sapendo sulla base delle investigazioni che non sono implicata e usare un processo mediatico per condannarmi è allarmante per il Parlamento europeo.

Come ne escono le istituzioni europee?

Il Parlamento europeo era paralizzato dalla paura e dalla subordinazione all'autorità giudiziaria e alla trappola dei media, che minava la presunzione di innocenza. È stato diffamato da un'ipotetica storia di corruzione e interferenza. Ora dobbiamo difendere l'integrità del Parlamento poiché abbiamo la responsabilità di far emergere la verità prima delle elezioni. Il presidente spagnolo della Commissione affari giuridici rimanda da sei mesi la fissazione di una data per la mia udienza - forse è conveniente per lui continuare ad attaccare i socialisti nel suo Paese -, ma ora che il team legale del Parlamento europeo ha pieno accesso a tutto il fascicolo del caso possono verificare tutte le violazioni. Abbiamo tutte le prove e le intercettazioni telefoniche che dimostrano che Panzeri ha utilizzato i suoi assistenti per ricevere i pagamenti per le sue consulenze poiché senza di loro non può comunicare in francese o inglese. Il mio coinvolgimento si basava su bugie estorte e sullo stereotipo secondo cui i politici sono corrotti.

In casa sua sono stati trovati molti soldi. Come lo spiega?

Il giorno dell'arresto di Francesco (Giorgi, ndr) lessi sui media di Panzeri. Sapevo che Francesco aveva in casa una somma di denaro proveniente dal suo stipendio. Ma ho scoperto una borsa sconosciuta e ho capito che era di Panzeri. Ho perfino chiamato la polizia per avere informazioni su Francesco, ma è stato inutile, quindi, sotto shock, ho pensato che la cosa giusta da fare fosse restituirgliela e chiedergli di ritirarla in un ristorante dell'hotel, dato che non riuscivo a trovare il suo indirizzo. Se lo avessi saputo non avrei mai permesso che accadesse ciò in casa mia. Dieci mesi dopo, per fortuna, abbiamo scoperto le intercettazioni telefoniche che dimostrano che Panzeri utilizzava i suoi assistenti per ricevere i pagamenti per suo conto fino a quando non fosse stato nelle condizioni di riceverli. Due anni dopo, tutto è provato. Sulle banconote non c'erano le mie impronte digitali. I miei conti bancari sono cristallini, contrariamente alle false notizie di milioni nelle banche panamensi.

Come valuta la posizione di suo marito in questa vicenda?

Francesco ha iniziato a lavorare come assistente di Panzeri quando aveva appena vent'anni. Panzeri parla solo italiano e si affidava ai suoi assistenti per la traduzione, anche dopo essere passato al settore privato. In passato, per anni, ha preso in prestito soldi dallo stipendio di Francesco, approfittando di lui. Mio marito aspettava che Panzeri gli restituisse quanto gli doveva. D’altronde, come hanno concluso i servizi segreti e la polizia, la posizione di Francesco era subordinata e non ha ricevuto tangenti.

Ha mai sospettato delle attività di Panzeri?

Attorno alle istituzioni gravitano oltre 12mila lobbisti con fatturati miliardari. Sapevo che Panzeri era consulente e presidente di una Ong. Stava sostenendo buone cause nel campo dei diritti umani. Dopo quello che è successo tutto sembra sospetto, allora però non lo era. Fare consulenze e lobbying non è corruzione, la diplomazia parlamentare non è corruzione. I servizi segreti hanno concluso che non sono implicata nella sua rete: non credete che lo avrebbero saputo? Una domanda seria è: come mai il giudice Claise non sapeva che suo figlio faceva affari con il figlio di uno dei principali sospettati, che lui stesso aveva protetto per un anno? Come mai Maria Arena non sapeva che i suoi familiari erano in possesso di 280mila euro in contanti? Nessuno è stato arrestato. Evidentemente c'è un'immunità speciale e doppi standard.

La notizia del conflitto di interessi del giudice Claise l'ha sorpresa? Crede che l'eurodeputata Maria Arena - il primo nome fatto da Panzeri nel corso della sua confessione, ma poi da lui stesso scagionata - sia stata favorita?

Le dimissioni del giudice la dicono lunga sulla credibilità dell'indagine che avrebbe dovuto far crollare le istituzioni dell'Ue. Molto prima delle sue dimissioni avevo denunciato il fatto che la persona chiave di questa inchiesta godeva di un'immunità speciale, mentre io non avevo nulla a che fare con questo caso. La recente decisione della procura di non chiedere la revoca dell'immunità di Arena per non arrestarla dimostra che l'indagine del giudice Claise è stata parziale e ha concesso un accordo ad un pentito che mente, contraddicendo quanto rivelano le intercettazioni. Questi elementi sono stati nascosti per mesi, violando il diritto alla mia difesa. Sono indici di persecuzione politica arbitraria. Grazie a giornalisti coraggiosi, la verità sta venendo alla luce, nonostante i continui attacchi diffamatori che ricevo da parte dei media che non si preoccupano dei fatti, ma delle loro convinzioni e della loro viralità, per distogliere l'attenzione dal vero scandalo.

Gli avvocati di Panzeri sostengono che la sua confessione sia stata estorta. Hanno provato a fare lo stesso anche con lei?

I suoi avvocati hanno presentato ufficialmente denuncia per confessioni estorte sotto intimidazioni sfruttando l'arresto della figlia e della moglie. Per compiacere le autorità, Panzeri aveva fatto subito il nome di Arena, ma gli è stato chiesto di fare altri nomi, contrariamente alle prove. Quindi i fatti non avevano importanza. Non ero con lui in Qatar nel 2019, non ero membro di comitati legislativi o gruppi di amicizia di suo interesse. Qualsiasi vicinanza a Panzeri fa finire i politici sotto inchiesta. Io ho seguito la linea politica ufficiale dell’Ue il 22 novembre (in occasione della risoluzione sulla Coppa del Mondo, ndr). Come ho dimostrato, il mio discorso e i miei voti riflettono la linea ufficiale dell’Ue espressa dall’Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il socialista Josep Borrell, e le conclusioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La Presidente del Parlamento Roberta Metsola era consapevole di questi sforzi per costruire ponti con i Paesi sotto osservazione e io ero la persona che doveva seguirli. Nulla che fosse legato a Panzeri, che era un consulente sul versante dei sindacati. È tutto nel fascicolo. Per quanto mi riguarda, invece, per mia figlia di 20 mesi si sono rivolti ai servizi sociali, con lo scopo di estorcermi “confessioni” per qualcosa che non avevo fatto. Mi è stato chiesto di mentire contro i politici in posizioni elevate. Mi sono rifiutata di farlo. Solo grazie ad Amnesty International Italia, che ha paragonato il Belgio alla Bielorussia, ho potuto incontrare mia figlia dopo un mese. Il sistema ha cercato di schiacciarmi. Ma il modo in cui rispondiamo alle cose che ci accadono è ciò che alla fine ci definisce.

Crede che l'inflessibilità nei suoi confronti fosse un modo per inviare un messaggio trasversale ad altri europarlamentari?

I miei avvocati hanno detto che la giustizia belga mi considerava un trofeo, in quanto vicepresidente del Parlamento. Il prestigio dei titoli dei giornali di tutto il mondo potrebbe aver alimentato la vanità dei potenti, grazie allo stereotipo secondo cui i politici sono corrotti. È una coincidenza preoccupante che sia stato il mio lavoro politico contro gli spyware illegali a interessare i servizi segreti. La mia immunità è stata violata nonostante prevalga la legge europea e il fatto che i servizi segreti fossero appostati fuori casa mia lo dimostra. Ciò potrebbe creare un pericoloso precedente per tutti i politici.

Come sono stati quei quattro mesi di prigione? Lei ha addirittura parlato di tortura.

Sono stata messa in isolamento per alcuni giorni. Mi è stato portato via il cappotto nel freddo gelido di dicembre, hanno tenuto le luci sempre accese, mi hanno negato la possibilità di contattare il mio avvocato o la mia famiglia, mi hanno mentito per convincermi ad accettare un accordo e tenuta in prigione come esempio di lotta alla corruzione. Pensa che se fossi stata una vicepresidente tedesca o francese sarei stata trattata in modo così degradante? Sono stata testimone di intimidazioni e trattamenti crudeli. Sono sopravvissuta grazie al sostegno della mia famiglia e di eroici avvocati, ma non tutti hanno questo privilegio. Spero di riuscire a dare voce a coloro che non possono essere ascoltati, che hanno subito tale ingiustizia. Soprattutto le madri.

Qual è stato il momento peggiore della sua incarcerazione?

Il momento più buio è stato quando ho rivisto mia figlia dopo un mese. Era gelida ed è stato devastante. L'ho abbracciata cercando di nascondere le mie lacrime. Mi sto battendo affinché in futuro la mia Arianna possa essere fiera della sua mamma. È una ragazzina forte che è dovuta crescere troppo in fretta.

La giustizia belga funziona?

Posso parlare della mia esperienza personale e dire che ci sono delle carenze. Mentre ero detenuta perché considerata una “minaccia per la democrazia”, un terrorista era libero di passeggiare per Bruxelles. Le riforme sembrano necessarie.

Recentemente la procura si è lamentata della fuga di notizie: come si è comportata la stampa nel suo caso?

Abbiamo presentato una denuncia per le fughe di notizie mirate di specifici media che fungono da ufficio stampa degli interrogatori. Il vento però ora soffia in una direzione diversa e ci sono giornalisti coraggiosi che hanno messo in discussione il mainstream e hanno rivelato il vero BelgianGate. Il Dubbio è tra questi e gliene sarò per sempre grata.

Ci sono molti elementi che fanno pensare che lei sia stata spiata dai servizi segreti. Ma l’intelligence può svolgere attività di polizia giudiziaria in Belgio?

Come cittadina e come politica trovo sconcertante che le indagini siano iniziate e portate avanti da servizi segreti di vari paesi, anche extraeuropei. Per fortuna il loro logo è nel fascicolo del caso. Come può un parlamentare svolgere liberamente il proprio mandato sapendo che in Belgio i servizi segreti possono entrare nella sua abitazione, intercettare chiunque e ascoltare le conversazioni in modo arbitrario? Quanto accaduto in questo caso, deve suscitare indignazione e seria riflessione. Ho molto apprezzato il fatto che il mio collega, il vicepresidente della Commissione Affari costituzionali, Giuliano Pisapia, abbia rivelato che l'ingresso della polizia nel Parlamento è di per sé una "brutale aggressione contro la democrazia europea".

Come risponderà il Parlamento europeo a queste violazioni?

Spero di poter essere ascoltata presto in Commissione affari giuridici per fare luce sui punti oscuri. Il principio di buona cooperazione ha ingannato il Parlamento europeo. L’immunità parlamentare non è un privilegio personale, ma una garanzia per esercitare liberamente un mandato senza essere esposti a persecuzioni politiche arbitrarie. In quanto tale, garantisce l’indipendenza e l’integrità del Parlamento nel suo insieme. Nel mio caso ciò non può portare all’impunità, ma non consentirà che si crei un precedente rispetto ad altri. È un principio che garantisce pari ruolo e rispetto alla politica nei confronti dell'autorità giudiziaria.

Ritiene che negli alti organi comunitari siano stati privilegiati gli interessi del Qatar e del Marocco e se sì da chi?

La posizione ufficiale dell'Ue è stata favorevole nei confronti di questi Paesi per varie ragioni politiche, geopolitiche, energetiche, eccetera. Un lobbista insignificante non può influenzare decisioni strategiche di così alto livello. Per quanto riguarda Marocco e Qatar, negli ultimi due anni in Parlamento abbiamo votato addirittura due risoluzioni molto dure nei loro confronti. In Qatar hanno usato il Mondiale per fare dei cambiamenti. Prendiamo atto dei problemi ma anche delle cose positive. L'Alto commissario Borrell ha affermato che, paradossalmente, le riforme per i diritti dei lavoratori non sono state attuate dalle aziende occidentali.

Continuerà a fare politica?

Ho dedicato tutta la mia vita alla politica perché la considero una forma nobile di altruismo. Rappresentare una comunità, lottare per una società giusta, opporsi alle ingiustizie, alle disuguaglianze, alle discriminazioni, dare voce agli emarginati con l'obiettivo finale di migliorare la vita delle persone è il motivo per cui sono entrato in politica. Se riesco a dare speranza a chi ha affrontato queste difficoltà forse ne verrà fuori qualcosa di buono. Ma non posso prevedere quando.

Qatargate, l’avvocato di Giorgi: «Violato brutalmente il suo diritto di difesa»

Appunti difensivi sequestrati e  cimici in casa per ascoltare le conversazioni dell’ex assistente di Panzeri con il suo avvocato. «Mai viste cose del genere. La giustizia è responsabile della fuga di notizie. In questa storia i giornalisti hanno preso il posto degli inquirenti». Simona Musco su Il Dubbio il 9 dicembre 2023

Fughe di notizie «organizzate», diritto di difesa violato, confessioni estorte. C’è tutto nell’intervista di Pierre Monville, avvocato di Francesco Giorgi, marito di Eva Kaili ed ex braccio destro di Antonio Panzeri, al quotidiano La Libre. Un’intervista che fa sorgere ulteriori dubbi sull’impianto accusatorio del cosiddetto “Qatargate” - ribattezzato dai legali di Kaili “BelgianGate” -, quello che avrebbe dovuto essere il più grosso scandalo europeo sulla corruzione e che si sta rivelando una vera e propria raccolta di violazioni dei diritti.

Monville parla dopo l’ennesima fuga di notizie, che sembra scientificamente studiata per ribaltare la narrazione degli ultimi mesi, durante i quali diversi quotidiani hanno iniziato a far emergere le stranezze dell’inchiesta. Così, dopo aver denunciato pubblicamente violazioni del segreto istruttorio e presunte pressioni da parte della stampa per far deragliare l’inchiesta, ecco che nel circuito dei media pro-procura è stata iniettata nuova linfa vitale. Con documenti che non tengono conto del punto essenziale: la veridicità delle dichiarazioni del super pentito Antonio Panzeri - la cui confessione, secondo i suoi legali, è stata estorta.

Le “nuove” carte raccontano anche la versione di Giorgi, sul quale, svela Monville, le pressioni non sono state da meno. Con in più una violazione forse senza precedenti del diritto di difesa. «In questa storia i giornalisti hanno preso il posto degli inquirenti - spiega Monville -. Hanno una copia completa del fascicolo. E vediamo, in tutti gli articoli, che ne hanno anche una copia aggiornata. Elementi coperti dal segreto difensivo del mio cliente gli sono stati rubati per essere inseriti nel fascicolo dell'indagine in violazione delle regole procedurali fondamentali». Elementi ora in mano alla stampa, che non si interroga sul perché queste carte siano state concesse con tale semplicità. Giorgi, spiega il suo legale, era disposto a collaborare con le autorità giudiziarie e di polizia. Ed «ha dimostrato una lealtà assoluta nei confronti degli inquirenti. Ma non è stata ripagata», si lamenta l'avvocato. Arrestato il 9 dicembre, un venerdì, il lunedì successivo le sue dichiarazioni erano sulla stampa. «Ciò significa che qualcuno che lavora nella giustizia è responsabile delle loro fughe di notizie», sottolinea l’avvocato. La stessa fuga di notizie di cui oggi la procura si lamenta. «Il mio cliente è stato quindi arrestato il 9 dicembre, lo stesso giorno della sua compagna, Eva Kaili. Bisogna sapere che sono i genitori di una bambina che, all'epoca, aveva meno di due anni. In un caso “normale”, quando due genitori sono privati della libertà, uno di loro può stare con il minore, ad esempio, con un braccialetto elettronico. Ciò non era consentito e la loro bambina si è ritrovata quindi sola, con i nonni che conosceva a malapena. Questa situazione è stata vissuta molto male psicologicamente da Francesco Giorgi. E le autorità hanno approfittato di questa situazione per estorcergli le informazioni che volevano». In che modo? «Trascorso un mese di detenzione preventiva, dato che le condizioni degradanti di St Gilles non lo permettevano, la polizia gli ha offerto la possibilità di vedere sua figlia». Cosa gli hanno detto gli investigatori? «“Se non vuoi vedere tua figlia crescere dietro le sbarre è meglio che parli, soprattutto contro tua moglie”. Non è questo un tentativo di destabilizzare il signor Giorgi?», si chiede Monville. Un fatto agghiacciante e tranquillamente passato in sordina da chi, oggi, pubblica quei verbali senza porsi alcuna domanda. Ma non solo: come evidenziato già dal Dubbio nei mesi scorsi, Giorgi e Panzeri - uomo chiave dell’inchiesta - sono rimasti tre giorni insieme in cella, dieci giorni dopo l’arresto, dunque nel periodo peggiore della loro detenzione. «Ricordo che nei procedimenti penali la carcerazione preventiva è giustificata per impedire, in particolare, che persone potenzialmente coinvolte nello stesso caso possano incontrarsi e, ad esempio, mettersi d'accordo sui fatti - sottolinea Monville -. Per evitare collusioni con terzi, come si dice in gergo. Possiamo allora spiegarci come mai Francesco Giorgi abbia condiviso tre giorni la cella con il signor Panzeri? Qualcuno dirà che è pura incompetenza, è possibile. Ma possiamo legittimamente chiederci quale sia la natura di questa indagine fin dall’inizio».

Le violazioni non finiscono però qui. Giorgi, infatti, avrebbe dovuto essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti il 27 aprile 2023 per consentirgli di fornire ulteriori dichiarazioni spontanee. Il giorno precedente l’ex braccio destro di Panzeri ha chiesto di incontrare Monville, al quale ha confidato di non voler più parlare: non era pronto per nuove dichiarazioni. Un suo diritto, spiega il legale, che il giorno dopo accompagna il suo assistito in udienza per comunicare il passo indietro. Ma proprio in quel momento gli investigatori stavano perquisendo casa di Giorgi, in assenza di elementi nuovi che giustificassero tale azione. «Abbiamo appreso anche che nell'appartamento di Francesco Giorgi erano stati collocati dei microfoni - ha aggiunto Monville -. Ciò significa che quando sono andato a trovarlo per parlare con lui in via confidenziale per preparare la sua difesa, siamo stati intercettati. E indovinate cosa? Ebbene, nel corso di questa perquisizione sono state sequestrate le memorie della difesa di Francesco Giorgi. Questo era anche l'unico scopo della manovra: recuperare documenti ultra-confidenziali sui quali il signor Giorgi aveva deciso di non commentare. A parte il fatto che si tratta di documenti riservati che non avrebbero mai dovuto essere sequestrati, abbiamo constatato con stupore che questi elementi sono stati aggiunti al fascicolo dell'indagine senza alcuna ulteriore formalità e senza riferirsi al Presidente dell'Ordine degli Avvocati che avrebbe assolutamente dovuto essere consultato. L'intera strategia di difesa di Francesco Giorgi è stata quindi smascherata ed è ora accessibile a tutti, stampa compresa. Non ha più alcun margine di manovra per potersi difendere secondo le elementari regole del diritto». Un’assoluta assurdità, commenta Monville: «Nei miei 33 anni da avvocato, non ho mai visto cose del genere. Mai».

Il legale torna poi sul rapporto tra Panzeri e Giorgi. «Tendiamo a dimenticarlo, ma il mio cliente era un subordinato di Antonio Panzeri, un assistente parlamentare, e non un grande decisore - spiega -. Il signor Panzeri faceva i suoi affari e il signor Giorgi non aveva molto da dire al riguardo». E «non dico che il signor Panzeri menta. Ma dice il contrario della verità», aggiunge. Cosa dire dei soldi? «Abbiamo verificato che i soldi ritrovati non appartengono al signor Giorgi ma al signor Panzeri che di fatto ha affidato i suoi soldi ai suoi assistenti parlamentari? Abbiamo verificato che il signor Giorgi aveva prestato dei soldi al signor Panzeri qualche anno fa e che quest'ultimo ha deciso di restituirglielo, in contanti, a partire dal 2022? No. Niente è stato verificato. Su questo argomento sulla stampa si trovano solo oscure allusioni. Nessuna verità». A ciò si aggiunge che all'inizio del 2023, il giudice istruttore Michel Claise ha revocato i mandati di arresto nei confronti del ministro del Lavoro del Qatar e dell'ambasciatore del Marocco. «Se questo è il caso più grave che la democrazia europea abbia mai conosciuto, potete spiegarmi perché sono stati revocati i mandati di arresto nei confronti dei presunti corruttori? - si chiede l'avvocato – Se non esiste più un presunto corruttore, esiste ancora un caso di presunta corruzione?».

Il sondaggio di Pagnoncelli, magistratura: italiani divisi, ma oltre il 50% vede fini politici. Storia di Nando Pagnoncelli su Il Corriere della Sera venerdì 1 dicembre 2023.

I l rapporto con la magistratura è tema complesso e centrale nella vita politica italiana almeno da trent’anni, da quando, con Tangentopoli, il sistema politico italiano fu sottoposto a una crisi drammatica e a una profonda trasformazione in cui i giudici ebbero un ruolo centrale, positivo (quando non palingenetico) per alcuni, negativo (quando non eversivo) per altri. Il conflitto politica/magistratura oggi torna al centro delle cronache, di nuovo con drammaticità, dopo l’intervista concessa su queste pagine dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Il quale ha ventilato possibili rischi per il governo che verrebbero appunto da una fazione della magistratura decisa ad affossare l’attuale esecutivo.

La fiducia nella magistratura ha subito un pesante calo negli ultimi anni. Dalle punte più elevate del 2011 (forse l’anno più drammatico della nostra storia recente, con i cittadini che cercavano rassicurazioni da realtà esterne alla politica, che fossero il governo tecnico di Mario Monti o appunto la magistratura) quando l’indice di fiducia nel terzo potere dello Stato arriva al 67, fino al punto più basso nel 2021, ancora segnato dalla vicenda Palamara e dai coinvolgimenti di parte del Csm nello scandalo delle nomine pilotate, quando l’indice cala al 38. Più recentemente invece la fiducia cresce, sia pur di poco, salendo nel 2022 al 41 (probabilmente anche sull’onda del tema della restrizione alle intercettazioni, invisa a buona parte dei cittadini) fino al 45 di oggi (crescita forse proprio collegata alle polemiche di cui stiamo parlando).

Entrando nel merito delle affermazioni espresse dal ministro Crosetto, poco più di un quinto degli italiani (il 22%) condivide l’idea che ci sia un gruppo organizzato di magistrati che si oppone al governo, ma il 35% pensa che, sia pure in modo non organizzato, esistano magistrati che si pongono obiettivi politici. Insomma, l’idea che un qualche «inquinamento» politico sia presente nel potere giudiziario è maggioritaria. Solo il 13% infatti ne nega l’esistenza. E, sia pur con diversa intensità, è un’opinione condivisa trasversalmente sia nel centrodestra (in particolare tra gli elettori di FdI è maggioritaria l’idea dell’esistenza di un gruppo organizzato) sia tra le forze di opposizione (dove invece tende a prevalere l’idea che si tratti di atteggiamenti individuali).

Una delle critiche rivolte al ministro è stata che le accuse esposte sarebbero in realtà notizie di reato da non esporre in un’intervista, ma da sottoporre al Csm e al presidente della Repubblica, che lo presiede. Qui le opinioni si dividono: il 32% pensa che Crosetto abbia fatto bene a rendere pubbliche le sue preoccupazioni (opzione maggioritaria tra gli elettori del centrodestra), il 30% pensa il contrario (opzione prevalente tra gli elettori di opposizione).

Quanto alle dimensioni del consenso su questa polemica, l’elettorato di centrodestra tende maggiormente a ritenere che ci sia una condivisione, non solo nella propria area politica ma anche nell’insieme degli elettori, mentre il contrario avviene tra gli elettori di opposizione, che tendono di più a ritenere che si tratti di opinioni condivise solo dal ceto politico o al più degli elettori di centrodestra.

Nell’ultimo Consiglio dei ministri è stata approvata anche la cosiddetta dei magistrati. Una scelta che riscuote un certo consenso: la approva il 36% degli intervistati (maggioranza assoluta, naturalmente, tra gli elettori di centrodestra), il 26% invece la disapprova (ma tra gli elettori di opposizione lo fanno con forza solo gli elettori del Pd, gli altri tendono a dividersi). Molti (38%) non si esprimono, come d’altra parte avviene un po’ per tutte le domande di questo sondaggio.

Da ultimo abbiamo chiesto se questo scontro serva in qualche modo al Paese. Il 39% pensa di no, che si tratti di una polemica dannosa che aggiunge inutili tensioni in un momento già difficile (scelta maggioritaria tra gli elettori di centrosinistra); al contrario il 30% la pensa utile, al fine di arrivare una volta per tutte ad un chiarimento sull’esistenza di una magistratura politicizzata (opzione prevalente tra gli elettori di centrodestra). Anche su questo oltre il 30% non si esprime.

In sostanza la magistratura ha perso parte importante della fiducia dei cittadini, pur con qualche crescita recente, ed è diffusa l’idea che ci sia una presenza politicizzata (in forme organizzate o individuali). Ma l’intervento di Crosetto non convince, divide per «fazioni» politiche e tutto sommato non muove sentimenti profondi. Serve forse, questo sì, a rinsaldare l’elettorato di riferimento.

Antonio Giangrande: la Magistratura? Ordine al servizio dello Stato, non Potere dello Stato.

La separazione tra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario)? Solo nella Francia di Montesquieu (esecutivo, legislativo, giudiziario) e nella mente dei comunisti, da usare come clava contro I Governi avversi.

Cosa dice la Costituzione.

Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Cos'è la sovranità popolare e come si esercita?

Al Popolo è riservata l'effettiva capacità, votando, di decidere in prima persona o tramite rappresentanti eletti sulle questioni politiche di fondo: secondo la formula (sviluppata dal francese Burdeau) della democrazia governante, è il popolo stesso ad assumersi così la responsabilità del proprio destino.

Che cosa vuol dire che la sovranità appartiene al popolo?

Con esso, conformemente all'etimologia del termine democrazia (dal greco antico δῆμος, dêmos, "popolo" e -κρατία, -kratía, "potere"), si intende che la sovranità, cioè il potere di comandare e di compiere le scelte politiche che riguardano la comunità, appartiene al popolo.

Come i cittadini esercitano la sovranità?

Non ci sono alternative; infatti la sovranità si esercita attraverso la delega (Parlamento e di conseguenza Governo), oppure attraverso lo strumento diretto del referendum o con una serie di strumenti giuridici (es. l'iniziativa di legge) che sfociano pur sempre nella delega, perché se una legge non viene discussa da un Parlamento, non entra in vigore.

Art. 104. La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.

In ambito concettuale-letterale prevale il termine Ordine o Potere?

E’ chiaro il senso letterale dell’articolo. Si stabilisce che la Magistratura è un Ordine, autonomo ed indipendente dagli altri Poteri, ma non elevato al pari di essi.

Magistratura come Potere?

Roberta D’Onofrio, giudice Tribunale di Campobasso, l’1/07/2020 su unicost.eu

SOMMARIO: 1. La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente. – 2. La magistratura come “potere”?. – 3. La magistratura come “servizio”.

1- La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente

La terminologia costituzionale per definire la magistratura varia secondo i punti di vista adottati di volta in volta.

La magistratura è disciplinata nel  Titolo V della Costituzione. Nel primo comma dell’art. 101 la funzione è definita come giustizia; nel secondo comma dell’art. 101 -nella sua stesura iniziale- si faceva riferimento ai magistrati e non alla magistratura, perché andava tutelata l’indipendenza dei singoli. Per l’art. 102 sono i magistrati ordinari, “istituiti e regolati dalla norme sull’ordinamento giudiziario”, ad esercitare la funzione giurisdizionale. Nell’art. 104 la magistratura, composta dai magistrati ordinari, costituisce un “ordine”. Per l’art.107, primo comma, i magistrati (quelli ordinari) sono inamovibili, mentre per l’ultimo comma il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario. Si prevede, poi che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della forza pubblica ai sensi dell’art. 109.

Ebbene, il Costituente ha utilizzato una terminologia ed un lessico tanto vari che sostenere il superamento della qualifica della magistratura come “ordine”, stabilito nel primo comma dell’art. 104, avrebbe bisogno di qualche ulteriore elemento di sostegno.

Nella sua relazione l’on. Ruini, che presiedeva la sottocommissione della Costituente che si occupò della stesura del Titolo IV, non ebbe dubbi: “la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un ordine; è sostanzialmente un potere dello Stato, anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dare luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente”.

A proposito dell’art. 107 si era discusso, in seno all’Assemblea Costituente, se alla magistratura requirente andasse estesa la disciplina di quella giudicante.

C’era stato chi (l’on. Bettiol) avesse rilevato che il pubblico ministero “in tutti i regimi liberali … è considerato come organo del potere esecutivo”. Sulla stessa scia si era posto l’on. Leone, il quale aveva proposto di modificare l’ultimo comma nel senso di stabilire che “Il pubblico ministero è organo del potere esecutivo. Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza”; ma successivamente l’on. Leone rinunciò alla proposta, aderendo all’idea di lasciare alla legge ordinaria la disciplina relativa al pubblico ministero.

Mentre nel concetto di “ordine” rientrano tutti i magistrati ordinari, al pubblico ministero non sono applicabili le norme sui giudici. Ancora l’on. Leone rilevò che “Tale formula (l’emendamento che si stava discutendo) esprime questa nostra opinione: che, essendosi creato l’ordine giudiziario, nel seno di questo ordine occorre una gerarchia di funzioni. Così la Corte di cassazione è la competenza più alta rispetto agli organi inferiori di merito; ma in questa gerarchia non devono giocare i gradi come per gli impiegati dello Stato … Occorre soprattutto esprimere questo desiderio e questa aspirazione: che in seno alla magistratura non si discuta di gerarchia di gradi …, ma che vi sia diversità di funzioni, cioè di attribuzioni di organi, che possono essere maggiori o minori, ma esprimono maggiore o minore ampiezza di giurisdizione, non di grado”.

Che questo principio inserito nel terzo comma dell’art. 107, secondo l’on. Leone, non andasse esteso al pubblico ministero, è confermato dalla sua proposta di rimettersi alla disciplina della legge ordinaria, come poi previsto nel quarto comma dell’art. 107.

Si è così arrivati oggi al d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106.

2. La magistratura come “potere” ?

L’articolo 101 della Costituzione sembra escludere che si possa considerare la magistratura come  un “potere” secondo lo versione ormai tradizionale: infatti, intesa come corpo che esercita la giurisdizione, rimane soggetta soltanto alla legge come è confermato dal secondo comma dell’art. 101 della Costituzione.

E, allora, come la magistratura possa ritenersi indipendente dal “potere” legislativo?

Siffatta imprecisione, pertanto, dovrebbe orientare a non enfatizzare il tenore letterale del primo comma dell’art. 104 della Costituzione, laddove la magistratura è definita come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, così da indurre i commentatori a ritenere che anche la magistratura sia concepita dal Costituente come “potere” dello Stato.

La nozione di potere ha da sempre richiamato l’interesse dei cultori di diverse discipline, filosofi compresi. Andrebbe seguita, almeno in questa sede, la nozione positiva desumibile dalla struttura dello Stato che si ricava dalla Costituzione: la nozione di “potere” legittima a compiere scelte di fondo, ad individuare i fini da perseguire e i mezzi da utilizzare. Il popolo, anche se sovrano, per la sua struttura diffusa non è in grado di predisporre ed attuare direttamente programmi operativi, sicché ne delega il compito ai suoi rappresentanti.

Pertanto il potere primigenio -facente capo al popolo- non viene esercitato direttamente, ma passa al rappresentante scelto attraverso elezioni periodiche: in via diretta al Parlamento che provvede attraverso le leggi; in via indiretta al Governo che compie le scelte entro i limiti fissati dalle leggi.

Mentre il Parlamento deriva il suo potere direttamente dal popolo, al Governo perviene attraverso la volontà parlamentare.

La giurisdizione può essere definita “potere”?

Al giudice non è richiesta né consentita una scelta di opportunità tra diverse soluzioni, ma l’applicazione delle norme nei casi che gli sono sottoposti attraverso l’interpretazione della legge.

Interpretazione che è caratterizzata dalla c.d. “discrezionalità tecnica” e, cioè, è condizionata dalla scelta tecnico-giuridica influenzata dalla preparazione e dallo spessore culturale del singolo magistrato, nonché inevitabilmente dal suo profilo umano, dal suo modo di vedere la realtà e le cose, dalla sua sensibilità.

Per questo la qualifica di magistrato non deriva da una investitura, diretta o indiretta, da parte del titolare della sovranità, ma dal superamento di prove tecniche.

E Salvatore Satta, in spregio ai positivisti cultori dell’assoluta certezza del diritto, lanciava lo slogan: la forza del diritto è quella di essere un’opinione.

Opinione, aggiungo, che si forma sulla base del bagaglio tecnico e culturale in possesso del singolo magistrato.

3- La magistratura come “servizio”

La valutazione dell’ “in se” della funzione giurisdizionale porta a propendere per la definizione più appropriata della stessa come finalizzata a svolgere un “servizio”. 

Per servizio, accompagnato dall’aggettivo pubblico, si intende in genere l’attività di natura imprenditoriale che, per gli interessi generali che soddisfa, è regolata dal diritto pubblico e svolta da soggetti pubblici o da privati, ma sempre in base ad un rapporto di diritto pubblico.

Non è detto, però, che solo questi possano essere definiti servizi; infatti vi possono rientrare senza dubbio anche quelle attività, che ugualmente non richiedono valutazioni di opportunità e -anche quando sono discrezionali- lo sono solo nella scelta delle soluzioni tecniche.

Il giudice svolge un servizio predisposto nell’interesse delle parti tra le quali è insorta una contestazione, decidendo caso per caso -senza effetti per chi non vi ha partecipato- dopo avere individuato la legge applicabile attraverso un’indagine di natura tecnica.

Come per certi servizi pubblici è consentito che siano svolti da privati, così il giudice, a certe condizioni, può essere sostituito da arbitri la cui decisione si inserisce nel sistema complessivo della giustizia. Se si fosse di fronte ad un vero potere, questa sostituzione sarebbe difficilmente giustificabile.

Quella del giudice di merito nella valutazione dei fatti, che sono provati, si può chiamare discrezionalità, purché sia chiaro che non possa essere esercitata secondo criteri di opportunità: il giudice deve ricostruirli nella configurazione coerente con gli elementi emersi nel processo e ne deve dare contezza attraverso la motivazione.

Quanto all’attività interpretativa, poi, una volta che la Corte di Cassazione abbia enunciato il principio di diritto, non ci dovrebbero essere questioni ulteriori, perché il principio enunciato in riferimento al caso concreto deve essere declinato dal giudice sempre allo stesso modo, nel pieno rispetto del principio di uguaglianza.

Succede, invece, che della stessa norma la Corte di Cassazione dia interpretazioni diverse.

Alcuni costituzionalisti, chiamati a discuterne, pur concordando sul mancato rispetto del principio di uguaglianza, hanno concluso che -per come è strutturato il procedimento- non sia possibile portare la questione davanti alla Corte Costituzionale.

Inoltre, secondo alcuni commentatori, lo sconfinamento della giurisdizione si spiegherebbe, e si giustificherebbe anche, con l’insufficienza della politica attuale che spesso non in grado di assolvere ai propri compiti; in questa evenienza la magistratura sarebbe costretta ad intervenire per risolvere problemi che altrimenti rimarrebbero insoluti. Sarebbe l’applicazione di una specie di legge di vasi giuridici intercomunicanti: quando viene meno la pressione di uno (la politica), interviene automaticamente la compensazione dall’altra (la giurisdizione).

A ben vedere, però, siffatta evenienza rappresenta una forte anomalia, atteso che la stessa ragione fondante la giurisdizione è costituita dalla soggezione del giudice unicamente alla legge e dall’obbligo di fornire interpretazioni sempre costituzionalmente orientate, laddove non sia proprio strettamente indispensabile investire la Corte Costituzionale.

Ebbene, per segnare il confine fra attività interpretativa legittima e corretta gestione del “servizio” giustizia, la soluzione non può essere -nell’attuale contesto storico- che quella di individuare nel Valori e nei Principi fondamentali disegnati nella Carta costituzionale gli sbarramenti invalicabili dell’esercizio della discrezionalità tecnica spettante al magistrato, ovunque egli stia svolgendo le sue funzioni ed esercitando le sue prerogative: ciò sia nell’esercizio della giurisdizione quale giudice di merito o di legittimità, sia nello svolgimento di attività amministrative come fuori ruolo che nelle prerogative di componente del C.S.M..

La concezione della magistratura come “servizio” pubblico va fondata sul rispetto dei valori della Costituzione (solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale, libertà e centralità della persona, buona amministrazione, rispetto delle minoranze e delle peculiarità territoriali), riconoscendo in questi valori i propri limiti e confini invalicabili.

In questo modo si può restituire dignità alla delicata funzione riconosciuta dall’ordinamento agli  interpreti e garanti dell’inviolabilità dei diritti.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Considerazioni giuridico-costituzionali di un giovane avvocato

Quanto della famosa separazione tra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario) operata da Montesquieu – e alla base delle moderne democrazie – è stata accolta nella nostra Costituzione ? E, soprattutto, cosa accade quando si è in presenza di una “cronica” debolezza del potere esecutivo e legislativo ? A cura di Redazione Diritto su fanpage.it il 15 febbraio 2013

Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro  di Brindisi. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora  pubblicato  numerose  opere di saggistica a carattere storico – giuridico..

La magistratura in Italia: ordine o potere?

Considerazioni giuridico – costituzionali di un giovane avvocato.

Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante  al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura.

Se il pensiero del filosofo francese poteva andar bene in un periodo in cui tutti e tre i poteri erano concentrati – nell’ottica del dispotismo assoluto – nelle mani del re, nel corso dei due secoli successivi la situazione ha avuto uno sviluppo differente.

A mio modesto parere, la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere – in senso stretto – dello Stato, infatti per poter parlare tecnicamente di potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio.

Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo).

Per rendere maggiormente masticabile questo meccanismo, è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale.

A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli scudieri – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di potere. Se si legge il Titolo Quarto della Carta costituzionale è scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost. : <<La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…>>.  Fatti chiaramente salvi i principi di autonomia e indipendenza contro i quali nessuno mai si sognerebbe di scrivere neppure un rigo, osservi il lettore che la Costituzione parla – addirittura in maniera esplicita– solo di Ordine, guardandosi bene dall’usare il termine potere.

Se fino alla fine degli anni Ottanta questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo. E mi riferisco, ad esempio, a quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista e giacobina racchiusa nelle parole <<resistere, resistere, resistere…>>! Alla “faccia” della Costituzione e del principio della separazione dei poteri!

Non me ne voglia nessuno, ma quando si ha intenzione di difendere la Costituzione bisogna sempre farlo in buona fede e con imparzialità, e non solo quando risulta utile al fine di tutelare gli interessi corporativi di una categoria.

Mai la Magistratura deve sentirsi legittimata a sostituirsi alla politica; anche di fronte a periodi di debolezza di quest’ultima, la Magistratura non deve mai indossare una veste che non sia quella che le ha ricamato su misura la Costituzione e, allo stesso tempo, mai la politica deve utilizzare la giustizia per i propri scopi. Atteggiamenti differenti hanno prodotto e continueranno a produrre gravissimi danni allo Stato di Diritto ed ai principi di libertà e democrazia.

A tal proposito, se non ricordo male nel 2010, vidi sulla prima pagina dei giornali alcuni magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. Ne rimasi basito! Se si vuole difendere la Costituzione, e lo si vuole fare per davvero, la si deve prima rispettare… anche a costo di perdere determinate posizioni privilegiate. Riprendendo per un attimo quanto ho scritto pocanzi su quel gruppetto di magistrati che circa vent’anni fa andò in televisione per contrastare alcune legittime e sovrane decisioni del potere legislativo e di quello esecutivo, non ricordo di aver visto all’epoca giudici togati talmente affezionati alla Costituzione – come invece lo sono adesso – a tal punto da tenerne una copia tra le braccia con l’intento di difenderla…

E che dire, per esempio, di alcune sentenze della Corte di Cassazione?! Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse. Tutte queste deformazioni, se vogliamo continuare a vivere in uno Stato di Diritto, devono al più presto cessare!

Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica,  ma allora perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura si sono formate delle vere e proprie correnti? Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? Per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie? Perché assistiamo a tutto questo? Preferisco che sia il lettore, nella meravigliosa solitudine del proprio libero pensiero, a darsi una risposta.

Al momento mi è sufficiente trovare consolazione nel sapere che esiste una maggioranza di magistrati – e vi posso garantire che sono tantissimi – che svolgono onestamente il loro lavoro con professionalità, preparazione e serietà, senza alcuna mira o ambizione che non sia quella nobile e disinteressata di essere al fianco di tutti gli operatori del diritto – seppur ciascuno nel rispetto del proprio ruolo – per garantire ai cittadini l’unica cosa che conta per davvero: la Giustizia! Avv. Giuseppe Palma

Meloni da Dubai: «Nessuno scontro con le toghe, ma una parte di esse ci contrasta». La risposta di Magistratura democratica: «L'aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha alcuna giustificazione ma vorrebbe costringerci a rendere conto di una libertà, quella di associarsi e di riunirsi, prevista dalla Costituzione». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 dicembre 2023

«Una piccola parte della magistratura va fuori dalle righe e contrasta le misure del governo». L’ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, da Dubai a margine della Cop28 sul clima, che lascerà domani per dirigersi in Serbia e incontrare il presidente Alexander Vucic prima di far ritorno a Roma.

La presidente del Consiglio poi glissa sul rinvio a giudizio per il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. «Alcuni magistrati ritengono che debba essere rinviato a giudizio, il pm che il caso dovesse essere archiviato, a questo punto è il caso di aspettare una sentenza passata in giudicato prima di dichiararlo colpevole», dice Meloni prima di entrare nel vivo delle polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha parlato di una «opposizione giudiziaria».

L’inquilina di palazzo Chigi rivendica che «il governo ha lavorato per rafforzare la magistratura» e dice che non c’è «nessuno scontro tra politica e toghe». «Per chi viene da destra lo Stato è sempre un punto di riferimento, questo non vuol dire che non si debbano regolare delle cose che in alcuni ambiti abbiano dei problemi», conclude. 

Alle parole di Meloni risponde, con una nota, Magistratura democratica, il sindacato contro cui ha puntato il dito Crosetto. «Negli ultimi giorni Magistratura democratica è stata oggetto di gravi attacchi da parte di esponenti di primo piano del governo e dei media – si legge nella nota delle toghe - è stata accusata di avere coltivato 'scopi cospirativi' e di voler svolgere un ruolo di 'opposizione giudiziaria'. Md respinge con fermezza tali accuse». E ancora: «L'aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha dunque alcuna giustificazione ma vorrebbe costringerci a rendere conto di una libertà, quella di associarsi e di riunirsi, prevista dalla Costituzione».

Guido Crosetto, "in Aula ho visto qualcosa di strano". Libero Quotidiano il 2 dicembre 2023

In aula alla Camera per "processare" Guido Crosetto "c'era poca gente. Ringrazio Schlein e Conte per la loro presenza. Hanno dimostrato che era vera la loro attenzione, mi è dispiaciuto che tanti di quelli che in questi giorni avevano detto che era grave non ci fossero questa mattina", le parole del ministro della Difesa una volta uscito da Montecitorio. L'atteggiamento delle opposizioni in Aula, sottolinea, è stato "strano, dovevano essere contenti. Sono venuto oggi, ho detto che volevo andare in commissione e non mi hanno voluto, ho detto che tornerò anche in Aula. Più di così? Posso passare il pranzo di Natale a casa di tutti...".

E' piuttosto amara l'ironia di Crosetto, protagonista dell'interpellanza chiesta da +Europa dopo l'intervista al Corriere della Sera in cui domenica scorsa aveva evocato possibili "manovre giudiziarie" contro il governo di Giorgia Meloni. "Ho sessant'anni e non sono mai stato sfiorato da nulla, non ho paura di nulla", rivendica davanti ai deputati il fondatore di Fratelli d'Italia. Orgoglioso della sua "libertà" di esprimere giudizi sul dibattito politico che coinvolge i magistrati e sulle posizioni espresse da alcuni di essi. "Forse ho sbagliato a non farlo di più, a non riprendere un ruolo politico, ne parleremo molto più diffusamente nella riunione che faremo prossimamente", ha affermato ancora, garantendo la sua disponibilità a una informativa come quella richiesta dalle opposizioni: "Se volete che venga verrò mille volte in Parlamento". 

Crosetto denuncia di essere vittima di attacchi concentrici: "In questi giorni - afferma nel suo intervento a Montecitorio - è stato messo su un plotone di esecuzione ad personam: trasmissioni, insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. Stia tranquillo l'onorevole Della Vedova, quando ho elementi per denunciare vado a denunciare, in questo caso era una cosa molto più semplice: una riflessione da fare in questo luogo. Poi parleremo anche di altri numeri che non sono quelli dello scontro fra politica e magistratura: di 30.778 innocenti finiti in manette negli ultimi vent'anni, tutti sconosciuti; parleremo delle scarse dotazioni che hanno i magistrati per fare il loro lavoro".

Sulle sue dichiarazioni è in atto un "tentativo di mistificazione", sostiene il ministro. "Rileggo in italiano: 'A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura'. Ho mai detto incontri segreti? Cospirazioni?". Per Crosetto a muoverlo è solo la preoccupazione "da cittadino" per parole che giudica "gravissime. Io - spiega - ho trovato alcuni magistrati - ho sentito esponenti di Area (una delle correnti della magistratura associata, ndr) - che vedono nel governo un attacco alla magistratura, quasi che non voglia farla lavorare. C'è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto". 

L'esponente di Fratelli d'Italia rivendica di non aver "mai attaccato la magistratura" nel suo complesso ma aggiunge: "Prima o poi questo scontro tra politica e magistratura dovrà finire". Poi rassicura: "Non penso che possa esistere una riforma della giustizia che vada contro la magistratura. Non penso e l'ho sentito anche in molti interventi di Area dire che si possa pensare 'a un conflitto permanente tra la magistratura e la politica'". 

Toghe senza freni: manette a 30.778 innocenti. Il titolare della Difesa riferisce sulle frasi relative alle manovre dei giudici: "Mistificate". Camera semivuota. Fabrizio De Feo il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

«Non pensavo che qualcuno potesse contestare un ministro che viene a rispondere a una interpellanza». Guido Crosetto, febbricitante, parla nell'Aula semivuota di Montecitorio. Nel mirino delle opposizioni c'è l'allarme lanciato dal ministro della Difesa sulle possibili inchieste ai danni del governo. «Mi hanno chiesto di essere presente in Antimafia? Certo. Me lo ha chiesto il Copasir e io certo. Ho dato la disponibilità a venire alla Camera? Certo. Sono venuto a rispondere con 39 di febbre. Però mi è stata chiesta una cosa (era stato il Pd a richiederla ndr) a cui ho detto no. Di sostituire l'informativa sul Medio Oriente di mercoledì che è fondamentale e importante».

L'aula non è certo gremita. Sono una trentina i deputati presenti a Montecitorio: tra questi i leader di M5S e Pd, Giuseppe Conte ed Elly Schlein, mentre c'è l'assenza pressoché totale di Alleanza Verdi Sinistra che pure aveva tuonato nei giorni precedenti. «In questi giorni è stato messo su un plotone di esecuzione ad personam: trasmissioni, insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. Onorevole Della Vedova, sono profondamente colpito dal tentativo di mistificazione delle mie parole. Che anche lei, che conosco da decenni, sta cercando di mettere in piedi». Un botta e risposta al vetriolo che poi si stempererà più tardi con un caffè condiviso dai due alla buvette.

Crosetto mette il dito nella piaga: «Parliamo di numeri. Ad esempio, dei 30.778 innocenti in manette negli ultimi 20 anni, disconosciuti, non importanti...Possiamo parlare di tutto se volete». Il vero caso è questo.

«Non ho nessun problema a confrontarmi su frasi che io non trovo gravi. Non ho attaccato e non attaccherò mai le toghe - spiega - Non ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni. Do lettura di alcuni interventi pubblici che reputo gravissimi in cui qualcuno ha parlato di una magistratura che deve avere una fisiologica funzione antimaggioritaria a tutela dei diritti». Crosetto, insomma, non nasconde la convinzione che in Italia sia pressoché impossibile aprire un dibattito sereno sul rapporto tra politica e magistratura. «C'è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto. Ho ricevuto messaggi che mi dicono sei un pazzo, che coraggio, farai la fine di Craxi, sarai un obiettivo. Ma non mi sono posto il tema della mia tranquillità personale, ho posto il tema di riflettere su un argomento», «forse ho sbagliato in questo ultimo anno a non riprendere una parte di quel ruolo politico che il ruolo di ministro della Difesa mi ha impedito di fare per senso delle istituzioni».

In serata il ministro non nasconde una certa amarezza per alcune reazioni della magistratura. «In Parlamento ho auspicato una riflessione serena. Per tutta risposta, alcuni magistrati mi attaccano, dimostrando di non avere nemmeno colto il senso del mio discorso» spiega. «Ve lo confesso: sono molto turbato da questa aggressione gratuita e ingiustificata al ministro della Difesa, in un momento così delicato. Ad esempio la replica tanto arrogante e offensiva quanto gratuita del segretario di Md, che fa finta di non capire e stravolge il mio pensiero, non può essere liquidata in modo così sbrigativo».

Nessun passo indietro. Opposizione giudiziaria, Crosetto non fa dietrofront: “Toghe politicizzate”. IL MINISTRO IN AULA riferisce fatti noti e contrattacca, la giustizia super partes è nell’interesse di tutti. Davide Faraone (Iv) rilancia: avanti con riforme di Nordio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Dicembre 2023

GUIDO CROSETTO – MINISTRO DELLA DIFESA

«Il governo può essere messo a rischio da una forma di opposizione giudiziaria»: sulle parole del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, sulle quali si è ricamato a lungo, il titolare del dicastero di via XX Settembre ha riferito in aula ieri. E se è stato Benedetto Della Vedova di PiùEuropa, un garantista che viene dalle fila del partito radicale, ad aver richiesto l’audizione urgente del Ministro, c’è da immaginare che volesse andare a vederne le carte più per consonanza che per scetticismo. Perché il tema della magistratura associata che opera per correnti politicizzate è notorio. E l’opposizione giudiziaria un fatto storicamente accertato e difficilmente contestabile: c’è anche un manuale che illustra le istruzioni per l’uso politico della giustizia.

Lo ha scritto il capo della magistratura associata, Luca Palamara, nel momento in cui l’ha lasciata. Nel suo bestseller “Il Sistema” ha dettagliato come funziona il bilancino del contropotere giudiziario: con quali accordi interni, per quali vie sotterranee, attraverso quali canali la magistratura associata decida chi mettere nel proprio mirino. Il come, il perché viene dopo. Con l’installazione di decine di trappole, di telecamere, di captatori sui telefonini del politico-target: alla fine qualcosa deve venire fuori, l’obiettivo deve essere raggiunto. Colpito e possibilmente, affondato. Basta l’apertura di un’indagine, e non la sua conclusione, a segnare il cammino di una maggioranza di governo, a silurare l’esperienza di un politico. Ecco che le avvertenze di Crosetto, più che destare preoccupazione, suonano sin troppo scontate all’orecchio dei garantisti. E chi sperava di far risuonare nell’Aula di Montecitorio le circostanze precise di una qualche trama, è rimasto deluso.

«C’è un tentativo di mistificazione delle mie parole: le rileggo in italiano come lo saprebbe interpretare un qualunque bambino delle elementari: ‘a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’ Ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni? No». E Crosetto è andato avanti per diradare ogni polverone: «Io non attaccherò mai la magistratura e quando c’è stata la necessità di rivolgermi a un magistrato per denunciare dei fatti gravi l’ho fatto e se vi ricordate quest’estate anche lì da solo. Se vi ricordate questa estate abbiamo discusso del caso dossier, che è ancora in corso e che mi auguro arriverà alla fine, che parte da una mia denuncia coraggiosa, ai magistrati. C’erano cose di cui sono stato informato da denunciare? Mi sono affidato alla magistratura, perché io ho totale fiducia nella magistratura». D’altronde, è ancora il pensiero del ministro Crosetto, «Non penso che possa esistere una riforma della giustizia che vada contro la magistratura».

E difatti: «Non si può pensare a un conflitto permanente tra la magistratura e la politica», ha ribadito. Tuttavia, se richiesto, Crosetto si è detto pronto a «portare in aula decine di frasi che mi preoccupano». E poi ha incalzato: «Ho sollevato un problema perché non ho paura di nulla, sono pronto a venire altre mille volte in Parlamento. Qualcuno ha detto che ho detto queste cose perché temo le inchieste. No, in 60 anni non sono mai stato sfiorato da nulla». Racconta di aver ricevuto numerosi attestati di solidarietà: «In questi giorni ho ricevuto dei messaggi: ‘sei un pazzo’, ‘che coraggio’, ‘farai la fine di Craxi‘, ‘ti sei reso un obiettivo’… Sono illazioni, non sarò un obiettivo per nessuno”. Poi entra nel cuore della questione: “Io mi chiedo: il ruolo della magistratura è quello di riequilibrare la volontà popolare? E’ possibile che in questo Paese non si possa fare una riforma della giustizia? Sarà un caso che dal ’92 – De Mita ’92, D’Alema nel ’97 – ci sia stato un sommovimento che ha bloccato ogni tipo di riforma? Io non penso che si possa fare una riforma della giustizia contro la magistratura. Io penso che chi ha responsabilità deve essere terzo».

Crosetto si concede anche una battuta: «Voi mi avete tirato per i capelli che non ho a parlare di questo in un giorno in cui non sto bene, ma non mi sottraggo… Non mi sottraggo, perché ritengo un tema fondamentale non quello della magistratura contro il governo, ma quello di ridefinire gli ambiti in cui costituzionalmente ogni organo dello Stato deve esercitare il suo ruolo e potere…». Nessun passo indietro, dunque, ma anche una fotografia che inquadra lo stallo in cui versa la riforma della giustizia. E su questo punto i garantisti hanno fatto sentire la loro voce. «Le parole del ministro Crosetto sono da sottoscrivere punto per punto», ha detto Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. «La domanda però resta la stessa: perché Giorgia Meloni non fa partire le riforme, anche per dare sostanza alle proposte di Crosetto e del guardasigilli Nordio? Il tema degli innocenti stritolati nella macchina della giustizia è sempre più pressante: il governo ha intenzione di muoversi concretamente? Accogliamo con soddisfazione la disponibilità reiterata anche oggi dal titolare della Difesa, di tornare presto in Aula per consentire un dibattito ampio aperto a tutti i gruppi. Servono proposte di legge da votare in fretta, non tesi da convegno», conclude.

Della Vedova non è soddisfatto, alla fine replica: «Non ha risposto nel merito». Crosetto e Della Vedova si rivedono fuori dall’Aula, alla buvette. Hanno tutti e due la gola secca e davanti a loro, in fila, c’è Elly Schlein. Il deputato di PiùEuropa torna a stuzzicare il ministro, chiedendogli conto anche delle presunte interferenze sulla magistratura del sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, denunciate dal quotidiano ‘Il Domani’. «Hai chiamato in causa me ma in realtà volevi Mantovano», scherza Crosetto, congedandosi. Il clima torna disteso. Ma la questione dell’opposizione giudiziaria rimane, ed è drammaticamente grave, quali che siano gli obiettivi del momento a Palazzo Chigi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

«La magistratura? A me fecero una porcata. E Nordio è troppo timido». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 dicembre 2023

Clemente Mastella, che della guerra tra politica e magistratura fu vittima, parla oggi di una politica «troppo timida» e di un ministro Nordio «poco deciso». «Manca coraggio - dice - io subii una veraporcata».

Mastella, la guerra dei trent’anni tra magistratura e politica non è ancora finita?

Diciamo che ci sono ancora dei filamenti di quel periodo. Ma attenzione, non è corretto parlare di guerra tra magistrati e politica, ma tra alcuni magistrati e alcune parti della politica. Una guerra che di certo continua ancora oggi, perché non appena si affaccia all’orizzonte un tentativo parlamentare o governativo che sembra toccare l’autonomia dei magistrati scattano elementi che creano tensioni, difficoltà, incutono paura. Tentativi, chiariamo bene, che non toccherebbero minimamente l’autonomia della magistratura perché nessuno vuole mettere il potere giudiziario in subordine rispetto al potere esecutivo. Sarebbe incostituzionale e nessuno ci pensa.

Eppure alcuni tentativi in passato ci sono stati, e non appena qualcuno attacca una parte della magistratura, vedi il ministro Crosetto, si scatena il finimondo…

È come una partita di calcio. C’è una squadra che attacca, cioè la politica, e una squadra che difende, cioè la magistratura. Se il difensore comincia a tirare calci al centravanti quello si prende paura e smette di attaccare, per paura di prendere un calcio più forte, magari nelle parti basse. Il dato sconfortante è che la politica è fatta di partiti che hanno sempre tifato per la magistratura così da ottenere lo scalpo del partito avversario, non capendo che prima o poi viene preso lo scalpo di tutti. Da questo punto di vista è importante che non si faccia una battaglia singola. I curiazi soccombono sempre.

Lei ha combattuto per anni una battaglia da solo contro tutti: cosa ricorda di quel periodo?

La mia vicenda è quella di uno che era espressione del governo di centrosinistra e sono stato fottuto ugualmente. Quello che mi hanno fatto è stato di una brutalità incredibile. Mio figlio è stato per due anni sotto gogna mediatica perché un finto pentito diceva di avergli regalato una macchina quando ero ministro, e lui chiedeva di essere ascoltato e non lo ascoltavano. Ho subito umiliazioni incredibili. Alcune di quei magistrati hanno fatto pure carriera.

D’altronde anche i magistrati del caso Tortora hanno fatto carriera: ci sono altri episodi dei quali ancora non si dà una ragione?

Sono finito sotto processo a Napoli per concussione a Bassolino per una serie di nomine. Ebbene, Bassolino non è stato mai chiamato, non gli hanno mai chiesto se Mastella l’aveva concusso e per cosa. È come se a una donna stuprata non le viene chiesto chi l’ha stuprata. L’ho dovuto chiamare io a testimoniare anni dopo. Un pm dell’epoca disse che se avessero chiamato Bassolino e lui avesse detto di non essere stato concusso sarebbe finito il processo a Mastella. É stata una barbarie indicibile. Per fortuna c’è stato un giudice a Berlino, ma dopo 11 anni. Facevo il ministro, non l’usciere. Chi mi ridà la mia dignità? Andreotti mi disse «a me perlomeno hanno salvato la famiglia, a te neppure quella». Ero arrivato a 100 anni di galera. A mia moglie hanno dato una misura che non si dà nemmeno ai mafiosi. Non poteva muoversi, andare da sua madre, nulla. E questa gente ha fatto carriera.

Oggi però si parla di riforme, da quella sulle intercettazioni alla separazione delle carriere: andranno a buon fine?

Penso che il ministro Nordio si debba decidere. Sta facendo solo annunci da un anno, ad esempio sull’abuso d’ufficio. Ha una maggioranza granitica, io con la mia maggioranza sterile ho fatto l’indulto. Si dovrebbe abolire l’abuso d’ufficio, mettere mano alla legge Severino, poi concentrarsi su altro. La separazione delle carriere è più complicata, ma se si annuncia e poi non si realizza si finisce per perdere credibilità. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è una richiesta bipartisan che arriva da tutti i sindaci.

Eppure sulla separazione delle carriere Forza Italia si è impuntata, paragonandola a premierato e Autonomia: c’è il rischio di uno strappo in maggioranza?

Se la devono vedere tra di loro. Le riforme si fanno tra maggioranza e opposizione o con spicchi di maggioranza in cui uno va avanti e l’altro retrocede. Ma la separazione delle carriere è ancora più importante del premierato, perché la giustizia tocca direttamente la vita dei cittadini.

Pensa che Nordio si senta un po’ tirato per la giacchetta dai partiti?

Nordio si trova in questa situazione imbarazzante per cui alcuni politici non si fidano di lui in quanto ex magistrato e alcuni magistrati non si fidano di lui perché passato alla politica. Ma come si dice dalle mie parti “scurdammoce ‘ o passato”. In base ai numeri della sua maggioranza deve portare avanti certe cose. Forza Italia si indigna, ma per cosa? Si vedono forse i risultati di questa indignazione? È il cittadino che deve indignarsi per una giustizia che funziona male, nonostante una marea di magistrati seri e preparati.

Crede che le correnti indeboliscano o rafforzino la magistratura?

Le correnti nella magistratura sono come le correnti della DC. Cioè si dividono nella discussione quotidiana ma poi, di fronte agli attacchi della politica, si uniscono. Ma chiariamo che io sono favorevole al dialogo tra politica e magistratura. Nonostante le botte che ho subito e le recriminazioni sul piano umano e di politica giudiziaria, visto che mi hanno fatto una porcata e spero che il Padreterno li giudicherà.

Cosa manca al ministro Nordio e alla politica per non farsi mettere i piedi in testa dalla magistratura?

Manca coraggio. C’è sempre timidezza. Mentre la magistratura, appena la si tocca, attacca sparata contro la politica, quest’ultima è timida. Immaginate se i protagonisti della vicenda Palamara fossero stati tutti dei politici: sarebbero stati arrestati tutti. Invece quanti sono stati arrestati per quei fatti? A qualcuno forse è stato contestato il traffico d’influenze?

C’è molto dibattito sulla questione intercettazioni: che ne pensa?

Penso che la discussione sia fuorviante. Tranne qualche imbecille, nessuno pensa che bisogna diminuire le intercettazioni contro la mafia. Ma bisogna avere il coraggio di dire che ci sono intercettazioni fatte oltre l’ordine costituzionale. A me hanno intercettato i figli, la scorta, di tutto, e non avete idee di cosa hanno combinato. A un certo punto scambiarono lo stipendio che prendevo da parlamentare europeo come un tesoretto all’estero, solo perché lo mettevo in una banca olandese.

Cosa direbbe oggi ai magistrati di allora?

Li ringrazio, perché mi hanno fatto finire nei libri di storia.

 Procuratore Antimafia chiama, governo esegue. La finta guerra tra politica e magistratura: grave squilibrio democratico. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 2 Dicembre 2023

È sorprendente come la politica italiana si ostini ad immaginare ciclicamente implausibili complotti orditi dalla magistratura, e si rifiuti di cogliere e risolvere, invece, la vera patologia che da un trentennio affligge il nostro Paese. Immaginare riunioni carbonare di magistrati, o di correnti della magistratura, impegnate a pianificare assalti al governo inviso, serve solo a ridurre a caricatura un problema invece serissimo.

Il potere giudiziario ha consolidato un peso anomalo, che condiziona il libero e pieno esercizio di quelli legislativo ed esecutivo. Naturalmente, questo è accaduto per lo stratificarsi di complesse ragioni storiche, sociali e -certamente- anche politiche, che non è questo il luogo per ripercorrere. Siamo però tutti in grado di individuare almeno due anomalie che hanno reso possibile questo grave squilibrio democratico, e dunque siamo -o meglio, saremmo- in grado di intervenire seriamente, se solo lo volessimo, invece di cianciare di complotti.

La prima è quella della totale irresponsabilità del potere giudiziario. Mentre il potere legislativo risponde agli elettori e l’esecutivo al Parlamento, il potere giudiziario non risponde mai dei propri atti a nessuno. Nessuna responsabilità civile (legge storicamente e statisticamente disapplicata), nessuna responsabilità professionale (99,7% di promozioni). E appena ti azzardi ad immaginare qualche rimedio, come il fascicolo personale ed il vaglio delle performance, si scatena l’inferno. E subito il potere politico, mentre finge di ringhiare favoleggiando ridicoli complotti, si precipita, mansueto, a sterilizzare la riforma (il controllo, diversamente da quanto previsto dalla Cartabia, sarà ora “a campione”!).

La seconda anomalia, di dimensioni planetarie (siamo l’unico Paese al mondo a farlo), è l’esercito di magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo, con un buon centinaio al Ministero di Giustizia, tutti nei posti chiave dove si fa la politica giudiziaria, o nella più moderata delle ipotesi si impedisce che venga fatta, quando sgradita alla casta. Dunque il potere giudiziario invade diffusamente l’esecutivo, condizionandolo in nome della “competenza tecnica”, mentre se ti azzardi ad ipotizzare una riforma del Csm che preveda una percentuale solo paritaria di membri laici (se ne parlò a lungo nella Costituente), ti saltano alla giugulare in nome della indipendenza violata della magistratura.

Ed ancora una volta, il mansueto governo si premura di sterilizzare quei pochi ma efficaci interventi previsti dalla riforma Cartabia, affidando la riscrittura delle norme sui fuori ruolo ad una commissione composta per i due terzi… da fuori ruolo! Morale della (triste) favola: non è in corso nessuno scontro tra politica e magistratura. Sono scenette per i gonzi, in favore di telecamera. La politica giudiziaria è saldamente nelle mani del potere giudiziario, per espressa e giuliva volontà politica (anche) di questo governo. E, quando non basta, il Procuratore nazionale Antimafia chiama, ed il governo esegue.

Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane

Magistratura contro governo, è tutto scritto nei documenti ufficiali. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 28 novembre 2023

A suo modo la diagnosi di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dei magistrati, è semplice: l’Italia ha un problema chiamato «maggioritarismo», che in sostanza è la pretesa della maggioranza di legiferare e governare autonomamente, forte della legittimazione elettorale. Ed è un problema perché i valori di chi ha vinto le elezioni deviano dalla Costituzione o sono addirittura «parafascisti», come ha spiegato il giurista ed ex giudice Luigi Ferrajoli al congresso di Md. La terapia sono loro, i magistrati. O meglio: «la magistratura e la sua fisiologica costituzionale funzione anti-maggioritaria a tutela dei diritti fondamentali», come ha detto due mesi fa Stefano Musolino, segretario di Md, al congresso di Area, la lista cui appartiene la sua corrente. Congresso dedicato proprio al «ruolo della giurisdizione all’epoca del maggioritarismo». È una vecchia convinzione, quella per cui la magistratura ordinaria, anziché applicare le leggi o sollevare questione di costituzionalità se le ritiene in contraddizione con la Carta, debba opporsi ad esse e a chi le ha varate. Già nella mozione con cui nacque Md, nel 1964, si legge che «il Costituente ha contrapposto il potere legislativo e il potere esecutivo da un lato e il potere giudiziario dall’altro, attribuendo quindi a quest’ultimo una posizione di formale e sostanziale autonomia». L’idea che il magistrato sia autonomo solo se si «contrappone» è rimasta, e la vittoria del destra-centro alle elezioni l’ha rafforzata.

LE RADICI NEGLI ANNI ’70

A Napoli, nel congresso di Md che si è svolto dal 9 all’11 novembre, Ferrajoli ha denunciato «la stretta alleanza tra le destre liberiste e le destre sovraniste e parafasciste», che in Italia è caratterizzata dalla «disumanità nei confronti dei ceti più deboli». Il «ruolo di Md», ha spiegato, deve essere allora «la critica e la garanzia dei diritti di fronte alle politiche illiberali e antisociali e, insieme, alle manomissioni della Costituzione promosse dalla destra». Del resto Ferrajoli, che oggi è professore emerito di Filosofia del diritto, fu uno degli autori del “libretto giallo» scritto in occasione del congresso di Md del 1971, nel quale si proponeva, «attraverso il collegamento organico con il movimento di classe, una cultura giuridico-politica alternativa all’ideologia tradizionale del diritto e della giustizia borghese». 

Magistratura democratica ha una rivista, Questione Giustizia. Nell’ultimo numero l’editoriale di Rita Sanlorenzo, magistrato di Cassazione ed ex segretaria di Md, si conclude con un appello a fare muro dinanzi a governo e maggioranza: «Le più recenti prese di posizione della giurisdizione contro gli aspetti della legislazione che più macroscopicamente risultano in rotta di collisione con la nostra Costituzione e con la normativa eurounitaria lasciano ben intendere che, lungi dal seguire i venti della propaganda e dall’arrendersi al sentire della maggioranza, i giuristi ben sanno che cosa si richiede loro, tanto più in questi tempi così difficili». Chiaro il riferimento a Iolanda Apostolico e a suoi colleghi di Catania, che si sono rifiutati di applicare il “decreto Cutro”. 

Il modello di magistrato che applica le leggi o le rinvia alla Consulta è ritenuto inaccettabile. La «funzione di garanzia» delle toghe, ha spiegato a marzo su Questione Giustizia l’ex giudice Nello Rossi, direttore della rivista, «non può essere assunta da un magistrato burocrate e richiede che l’interprete attinga nel compiere le sue scelte a valori indicati nella carta costituzionale e nelle carte dei diritti che si sono venute affermando». Il «burocrate» in toga è chi applica le leggi, «l’interprete» è colui che le osserva con la lente delle proprie convinzioni, arrivando a scelte come quelle della giudice Apostolico. Il «ruolo di garanzia dei diritti e della dignità delle persone e delle molte minoranze» spetta infatti ai magistrati. Ad esempio, spiega Rossi, per «l’affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita», ma anche per l’eguaglianza di genere, per la protezione dei diritti dei migranti e così via. Un programma di resistenza e supplenza a governo e parlamento. E il fatto che sia tutelato dalla libertà d’espressione non toglie che Guido Crosetto e i suoi colleghi abbiamo ottimi motivi per vedere dietro a questo profluvio di proclami il dispiegarsi di un’opposizione non parlamentare. 

I magistrati fanno politica invece dell'unica cosa che serve davvero: una giustizia che funzioni. Andrea Soglio su Panorama lunedì 27 novembre 2023

I magistrati fanno politica invece dell'unica cosa che serve davvero: una giustizia che funzioni Le ennesime polemiche tra politica e magistratura hanno stufato i cittadini che chiedono e meritano una cosa ben diversa Dopo che da ieri siamo nel pieno dell’ennesimo braccio di ferro tra politica e magistratura stamane ho fatto una ricerca nell’archivio storico di Panorama. Il primo pezzo che tratta la questione è del 1987 e a leggerlo si scopre (a parte cambiare i nomi dei protagonisti di allora su entrambi gli schieramenti) quanto sia attuale. Quindi il messaggio che arriva dal profondo del cuore è semplice: basta, smettetela. Lo sappiamo, gli italiani lo sanno benissimo che c’è una parte della magistratura che fa politica stando fuori dal palazzo. Sono decenni che la cosa è evidente; da Tangentopoli ad oggi ce n’è per tutti i gusti: inchieste cosa è evidente; da Tangentopoli ad oggi ce nè per tutti i gusti: inchieste contro presidenti del Consiglio, ministri, familiari al momento giusto, iscrizioni nel registro degli indagati arrivate casualmente a certe redazioni prima che all’indagato stesso, così, giusto per fare un po’ di rumore. Quindi la cosa non ci stupisce, ci stanca soltanto. La Costituzione stabilisce che il nostro Paese sia basato sull’equilibrio tra tre poteri: esecutivo (Governo), legislativo (Parlamento) e giudiziario (magistratura). Un equilibrio dove ognuno ha il 33,3% delle azioni di una società ma dove, è nella natura delle cose, c’è sempre chi vuole anche fosse solo un briciolo di più, il 34% o 35%. Quello che però non va bene è che Parlamento e Governo sono di fatto rappresentazione della volontà democratica e popolare attraverso il voto mentre la magistratura è una corporazione a se, senza legami diretti con i cittadini e che, unica, si giudica da sola. Questa è l’anomalia, la stranezza. Ma, davvero, non se ne può più di queste polemiche inutili. Inutili poi per due motivi. Il primo è che la soluzione è a portata di mano: si faccia una seria riforma della giustizia che metta fine a questo equivoco e malessere interno al nostro ordinamento. Sarebbe quindi il caso che, oltre a denunciare i tentativi di «golpe» delle toghe, chi è al governo ed in Parlamento si applichi sul tema. C’è poi un’altra cosa che stride in tutto questo. La gente non ne può più di vedere che la magistratura si occupi di mali «esterni» al proprio settore di impiego mentre la giustizia italiana ha problemi strutturali enormi. Ad oggi, ad esempio, in alcuni tribunali si stanno discutendo ricorsi presentati 6 o 7 anni fa. È giustizia quella che tiene in attesa persone e vite per così tanto tempo? È degno di un paese civile tutto questo? Gli italiani, noi, meritiamo di più, per primo dai magistrati. È l’unica cosa che interessa davvero.

Stasera Italia, Facci smaschera la magistratura: “Lotta per il proprio potere contro la politica”. Il tempo il 27 novembre 2023

L’intervista del ministro Guido Crosetto al Corriere della Sera e il tema della giustizia sono al centro della puntata del 27 novembre di Stasera Italia, talk show di Rete4 che vede Nicola Porro alla conduzione. Per commentare le parole del titolare della Difesa viene interpellato Filippo Facci, giornalista di Libero: “Il Ministro Crosetto ha detto che teme un'azione della Magistratura, non ha detto che ci sarà, temere un’azione della magistratura nei confronti di un governo in Italia è un pensiero legittimo, quanto più di ovvio ci sia, questo alla luce della storia del nostro Paese. Ogni amministrazione, ogni governo, anche di sinistra, dovrebbe avere quasi come ragione sociale l’incrociare le dita e temere che non ci sia un’azione di un singolo magistrato, non dell’intera magistratura. Un singolo indipendente anche dall’azione dell’Anm, che ricordiamolo non è un partito politico, ma è come se lo fosse, perché un sindacato, unico, che esprime una posizione ovviamente politica praticamente su qualsiasi cosa, dalla guerra in Ucraina alle questioni che la riguardano". 

Non è – specifica ancora Facci - particolarmente un’azione della magistratura contro il governo Meloni, è un’azione della magistratura, ritenuta un potere e non un ordine, contro il potere politico, che dovrebbe avere il primato, ma in Italia non è così. C’è un condizionamento scritto nella Costituzione per il quale è la politica rispetto alla magistratura a venire in secondo piano, quindi questo condizionamento è possibile. Nel 2000 la magistratura fece anche ricorsi alla Corte Costituzionale quando c’era il governo D’Alema, che diede il colpo più forte mai tirato alla magistratura, sull’ex articolo 11 della Costituzione”. “E’ un potere non elettivo che davanti a qualsiasi governo, magari alcuni in particolare, vuole ergersi a status in qualsiasi condizione politica, è più sensibile ad alcuni colori politici che ad altri, ma in linea di massima la magistratura lotta per il proprio potere, che non ha eguali per come è configurato strutturalmente. Non è così in nessun Paese del mondo, vuole rimanere tale”, le parole con cui il giornalista vuole smascherare le toghe.

Il decreto approvato dal Cdm. Pagelle magistrati, come funziona la valutazione di professionalità e le gravi anomalie. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2023

Due i decreti legislativi sulla giustizia approvati dal Consiglio dei Ministri. Dopo aver escluso l’ipotesi test psico-attitudinali, l’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha dato il via libera a due provvedimenti: il primo riguardante le ‘disposizioni sul riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili’. Il secondo relativo alle ‘disposizioni in materia di riforma ordinamentale della magistratura’ e in particolare sulle valutazioni di professionalità, le cosiddette pagelle per giudicare il lavoro dei magistrati.

Fino ad ora – si sottolinea nel decreto legislativo – si raccoglieva ogni quattro anni la documentazione utile per la valutazione del magistrato; ora il fascicolo viene alimentato costantemente e si specifica cosa deve necessariamente essere contenuto, ampliando le fonti di conoscenza ad ogni elemento suscettibile di interesse per la valutazione. In tema di valutazioni di professionalità si prevede che il periodo trascorso fuori ruolo o in aspettativa per lo svolgimento di incarichi elettivi o di Governo (anche presso gli enti locali) non è utile alla maturazione del quadriennio, e quindi il magistrato che assuma tali incarichi vedrà di fatto sospesa la propria progressione in carriera ed economica.

Viene inoltre dato maggiore rilievo, rispetto al passato, alla sussistenza di gravi anomalie concernenti l’esito degli affari nelle successive fasi e gradi del procedimento e del giudizio, e dunque al rigetto delle richieste formulate dal magistrato requirente o alla riforma dei provvedimenti del magistrato giudicante che siano dovuti a motivi particolarmente gravi o che siano particolarmente numerosi. (Si stabiliscono quali sono le gravi anomalie: devono essere particolarmente gravi o particolarmente numerose).

Snellito inoltre il procedimento per la valutazione prevedendo la predisposizione, da parte del Csm, di moduli standard estremamente semplificati e l’acquisizione del parere del consiglio dell’ordine degli avvocati. Si è introdotta, in caso di valutazione positiva, l’espressione di un giudizio solo sulla capacità organizzativa del magistrato (le voci di valutazione di un magistrato sono tante: indipendenza, imparzialità, produttività, laboriosità, ecc. Solo sulla capacità di “organizzare il lavoro” – voce che viene esminata al momento di concorrere per incarichi direttivi e semi-direttivi – la valutazione viene espressa secondo una scala di giudizio, da discreto a ottimo. Il giudizio non riguarda gli aspetti più strettamente correlati allo svolgimento del lavoro). In caso di valutazione non positiva o negativa, sono state ridotte le ipotesi di dispensa dal servizio, prevedendo comunque penalizzazioni economiche e di carriera per il magistrato. (Attualmente dopo una valutazione negativa, per non essere escluso dalla magistratura occorreva per il magistrato avere obbligatoriamente una valutazione positiva. Con la riforma, ora può esserci anche una valutazione non-positiva (che è diversa da negativa): in questo caso il magistrato rimane in magistratura, è rivalutato dopo un anno e perde aumento di stipendio e progressione di carriera. Ma c’è più tempo per recuperare, sul presupposto che da negativo il magistrato è già passato a non-positivo).

Magistrati fuori ruolo: le nuove disposizioni

L’altro decreto legislativo riguarda le disposizioni per il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili. Sono precisati alcuni requisiti di anzianità per il collocamento fuori ruolo e per un nuovo collocamento fuori ruolo: nel dettaglio non si può essere collocati fuori ruolo prima del decorso di dieci anni di effettivo esercizio della giurisdizione e, fatti salvi incarichi presso istituzioni di particolare rilievo, sono necessari tre anni di esercizio della funzione giurisdizionale prima di un nuovo collocamento fuori ruolo se il primo incarico fuori ruolo ha avuto una durata superiore a cinque anni.

Viene codificato il principio della necessaria sussistenza di un interesse dell’amministrazione di appartenenza per consentire l’incarico fuori ruolo. Viene ridotto il numero massimo di magistrati collocati fuori ruolo: 180 per la magistratura ordinaria, comprendo in tale numero anche quelli che secondo la normativa previgente non erano considerati nel numero massimo dei magistrati fuori ruolo. Viene posto il principio che il numero di magistrati fuori ruolo presso organi diversi dal Ministero della Giustizia, degli esteri, Csm e organi costituzionali non può essere superiore a 40. Viene precisato che la disciplina non si applica agli incarichi elettivi e di governo, il cui periodo non si considera ai fini del computo del termine massimo di permanenza fuori ruolo. Il decreto legislativo si compone di 17 articoli. Nel Consiglio dei ministri di oggi non si è parlato dell’ipotesi – emersa questa mattina nel pre-Consiglio – di inserire test psico-attitudinali per le toghe.

Crosetto: «Gruppi di magistrati contro il governo». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023

Il ministro della Difesa: temo attacchi da qui alle Europee. Le polemiche della Lega? Ogni partito cerca visibilità. Sul conflitto israelo-palestinese l’Italia media dall’inizio, senza ambiguità

È appena tornato da una visita a Gerusalemme dove ha incontrato il suo omologo israeliano Yoav Gallant e segue da vicino e con preoccupazione l’evoluzione della fragile tregua che di ora in ora sembra o funzionare o bloccarsi. Ma ci spera Guido Crosetto, ministro della Difesa: «La pausa umanitaria e la liberazione degli ostaggi sarebbero la vittoria di un ampio fronte di Nazioni, fra le quali l’Italia, che vi ha avuto un ruolo di spicco. La scelta di discernere tra Hamas e popolo palestinese, l’impegno che abbiamo immediatamente preso per offrire aiuti umanitari — e siamo stati i primi, dopo essere stati gli unici, fra gli Stati occidentali, a farlo già per la Siria — ci permette di godere del riconoscimento internazionale di essere un Paese capace di saper discernere ed essere terzo, quando è giusto esserlo. Ci dà credibilità, possibilità di operare e anche maggiore sicurezza interna. Un grande risultato: non per il governo, ma per il Paese».

L’Anm: «Ministro fuorviante, la magistratura non fa opposizione ai partiti»

Crosetto parla a tutto campo. Sul caso Lollobrigida (che difende), sulla preoccupazione per la realizzazione delle opere del Pnrr, fino a lanciare una sorta di clamoroso allarme: «Questo governo può essere messo a rischio solo da una fazione antagonista che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria. Non mi sorprenderebbe, da qui alle Europee, che si apra una stagione di attacchi su tale fronte».

Partiamo da Israele: cosa sta facendo l’Italia?

«Abbiamo inviato moltissimi aiuti, sia in medicinali che strutturali, a partire da una nave ospedale, lo stato maggiore sta già preparando un ospedale da campo anche su terra, da installare al sud di Gaza, in territorio palestinese. Questo significa avere un rapporto equilibrato con entrambe le parti in causa. E va avanti fin dall’inizio un’incessante operazione di mediazione, anche grazie ai rapporti che intratteniamo con Israele e con i Paesi arabi. Come con il Qatar che ha avuto un ruolo importante in questa trattativa sugli ostaggi».

Che le ha detto il ministro della Difesa di Israele?

«Lo choc del 7 ottobre è per loro una ferita apertissima: non c’è più nessuno, in quel Paese, che si senta al sicuro, perché pensano che, ai loro confini, c’è chi voglia solo distruggerli. Quindi vogliono risolvere il problema di Hamas una volta per sempre».

In Italia l’opinione pubblica ha molti dubbi sulla risposta israeliana e c’è forte solidarietà ai civili palestinesi. Come tenere assieme sostegno ad Israele con questo?

«Il governo interpreta un sentimento diffuso quando dice che siamo per due popoli, due Stati. In modo chiaro e non ambiguo. Sappiamo bene che Hamas utilizza i civili come scudi umani per proteggere — sotto asili, scuole, ospedali, case — basi da cui si muovono armi e missili. Ma ad Israele diciamo che le Nazioni democratiche che si riconoscono nel diritto, Nazioni come la loro, non possono agire con i metodi che da quel diritto sono fuori, hanno un compito di protezione dei civili che sempre ci si deve porre, anche se purtroppo il nemico non lo fa».

Conte vi ha accusato di codardia. È deluso?

«Il male della politica italiana è l’attacco a prescindere, per interesse di parte. Ho 60 anni e conosco questa debolezza così come conosco l’attitudine di Conte a cambiare idea a seconda del ruolo che ricopre. Non mi stupisce».

Si divide anche la maggioranza: la Lega ha giudicato inopportuno il comportamento del ministro Lollobrigida. Lei?

«Lo scendere da un treno che portava due ore di ritardo, fermo, come lui stesso ha spiegato, e assieme ad altre persone, non mi sembra un privilegio. Trovo surreali queste polemiche».

E perché la Lega le fa?

«Perché ci sono le Europee, e tutti i partiti hanno necessità di mantenere spazi di visibilità. Il partito di maggioranza è sempre quello che subisce di più: quando era FI, con Berlusconi, ne ha dovuti inghiottire tanti di bocconi amari... Ora tocca a noi».

Sul Pnrr invece l’Italia ha ottenuto una promozione: d’ora in poi si aspetta la strada tutta in discesa?

«Le dico cosa ho scritto a Fitto in un messaggio subito dopo l’approvazione: sei stato molto bravo, non ne avevo dubbi, ma adesso la mia preoccupazione è se il tessuto burocratico, industriale, privato sarà davvero in grado di tradurre in opere i piani. Più quello privato, mi preoccupa, in verità».

Si riferisce alle aziende che hanno vinto gli appalti?

«Io dico che, per le opere pubbliche e industriali, mi auguro che le aziende, soprattutto la più grande del settore, che ha vinto moltissime gare sia in grado, cioè abbia la capacità tecniche, organizzative e finanziarie di realizzarle davvero, nei tempi previsti».

È questo il più grande pericolo per la continuità di questo governo?

«L’unico grande pericolo è quello di chi si sente fazione antagonista da sempre e che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria».

Ma cosa intende?

«A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Siccome ne abbiamo visto fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese, mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle Europee...».

Complotto dei magistrati contro il governo: Crosetto ascoltato dall’Antimafia. Dopo le dichiarazioni che hanno scatenato forti polemiche, il Ministro della Difesa sarà ascoltato dalla Commissione. Crosetto ha anche dato disponibilità per confrontarsi con l'Associazione Nazionale Magistrati. Redazione Web su L'Unità il 27 Novembre 2023

Lo scontro tra la politica e la magistratura torna a scaldarsi. Il complotto dei magistrati contro il governo, evocato dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, è finito all’Antimafia. Secondo quanto riportato da La Repubblica, il Partito Democratico ha chiesto alla presidente della Commissione Chiara Colosimo di fissare un’audizione con il Ministro. La data sarà scelta domani. Lo stesso Crosetto ha sempre dato la propria disponibilità anche per riferire in Parlamento e dinanzi al Copasir.

Complotto dei magistrati contro il governo: Crosetto ascoltato dall’Antimafia

A proposito, secondo quanto riportato dall’Ansa, al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica non è arrivata nessuna comunicazione e nessuna richiesta di audizione. Il caso è esploso dopo un’intervista rilasciata da Crosetto a Il Corriere della Sera. Nel rispondere a una domanda, il Ministro ha parlato di alcune riunioni svolte da una delle correnti della magistratura, nelle quali si sarebbe deciso di, “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni“.

Intanto Crosetto ha dato la sua disponibilità per confrontarsi con l’Associazione Nazionale Magistrati (Anm): “Se interessati, incontrerei molto volentieri il Presidente dell’associazione Magistrati Santalucia ed il suo direttivo per chiarire loro le mie parole e le motivazioni. Così capiranno che alla base c’è solo un enorme rispetto per le istituzioni. Tutte. Magistratura in primis”. Parole giunte dopo le forti critiche rivolte al Ministro dallo stesso Santalucia che aveva dichiarato:

Guido Crosetto e il complotto della magistratura contro il governo: l’Anm

“Non è più l’Anm a essere accusata di interferenza, ma la magistratura nell’esercizio delle sue funzioni. Dopo l’indagine sulla ministra Santanchè e dopo la notizia che un gip ha esercitato una prerogativa del codice è stata una nota di Palazzo Chigi di non meglio precisate fonti governative che ha accusato una parte della magistratura di schierarsi faziosamente nello scontro politico. Un’accusa pesantissima che colpisce al cuore la magistratura. Un attacco ancora più insidioso perché lasciato a fonti anonime di Chigi. Quello con la politica è uno scontro che stiamo subendo e che si è innalzato senza che noi si sia fatto nulla“.

La nota di Crosetto

“Mi stupisco dello stupore suscitato dalla mia intervista. Leggo commenti indignati di alcuni magistrati, come il presidente dell’Anm Santalucia, che dice che loro ‘non fanno opposizione politica’, o dell’opposizione che sostiene che ‘minaccio’ i giudici. Curioso e surreale. Intanto perché tutto ho fatto, tranne che minacciare o delegittimare qualcuno. Ma poi, davvero, dopo i casi Tortora, Mannino, Mori e la storia di centinaia di persone dal 94 ad oggi, si può nascondere come si è comportata, nella storia italiana, una parte (non certo tutta, ripeto) della magistratura? Penso proprio di no. Veramente dopo quanto ha raccontato (non e mai smentito) Palamara, qualcuno si stupisce di un mio passaggio, peraltro incidentale, in una lunga intervista che verteva su altro?

Crosetto e la magistratura: audizione in Parlamento e al Copasir

Ho fatto quel passaggio non superficialmente, non a cuor leggero, con l’amarezza di chi crede nelle istituzioni ed ha fiducia nella stragrande maggioranza della magistratura e che quindi si sente indignato qualora fosse vero quanto gli è stato riferito. Tra l’altro, mi sono premurato anche di comunicare anche ad altri le notizie che mi erano state riferite (da persone credibili) e che ritenevo gravi, ove e se confermate. Ho visto che alcuni parlamentari, come Della Vedova, mi invitano anche a riferire in Parlamento. Lo farò con estremo piacere, se sarà possibile farlo in commissione Antimafia o Copasir, per la necessità di riservatezza e di verifica delle notizie che ho ricevuto Redazione Web 27 Novembre 2023

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” – Estratti lunedì 27 novembre 2023

I politici di questo tempo scordarello, anche quelli che si ritengono di scarpe grosse e cervello fino, adorano lanciare allarmi generici quasi quanto abbandonarsi a grossolane semplificazioni. In realtà la storia delle contorte vicende italiane non parte da Atreju e il ministro Crosetto, che pure non risulta appassionato di fantasy, dovrebbe sapere che il grave e annoso conflitto fra politica e magistratura è questione un tantino più complicata di come l’ha messa giù lui – «ne abbiamo viste di tutti i colori» – parlando di «opposizione giudiziaria» a partire da un convegno cui era presente il suo collega Nordio. 

Perché a nessuno piace apparire superbi e ancora meno saputelli, ma già dai primi anni ’80 il presidente del Consiglio Bettino Craxi, disturbato da scandali e indagini a ripetizione, ebbe i suoi guai con i giudici, tanto da indire un referendum, perso; e poi li ebbero i governi a guida Dc, sul caso Cirillo, la camorra e dintorni; e quindi il presidente della Repubblica Cossiga, in fase picconatoria, che se la prese con i «giudici ragazzini », uno dei quali era Rosario Livatino, assassinato dalla Stidda a 38 anni, la cui camicia intrisa di sangue è stata esposta all’inizio dell’anno in varie sedi istituzionali anche per l’impegno benemerito dell’altro suo collega, il sottosegretario ed ex magistrato Alfredo Mantovano.

(...)

E insomma (...) scontato l’indubbio protagonismo delle Procure, qualcosina avrà pure a che fare con la crisi di rappresentanza e il deficit di credibilità del ceto politico. 

E qui di nuovo dispiace che suoni saccente, ma attribuire all’ordine giudiziario la caduta dei governi di centrodestra è approfittarsene troppo della mancanza di memoria, che è già una disgrazia per conto suo. 

Per cui il primo Berlusconi ebbe sì una bella botta da Di Pietro (cui peraltro qualche mese prima aveva offerto il Viminale!), ma intervennero ulteriori fattori a mandarlo a picco.

Il secondo si dimise a causa di elezioni perse e impicci fra alleati, il terzo per la fine della legislatura, il quarto perché in Europa ci ridevano dietro e stavano per saltare i conti dello Stato. 

Il Cavaliere, che certo non era un santo, dovette battagliare assai, ma aveva più fantasia e anche più coraggio. In vent’anni disse il peggio dei giudici, toghe rosse, giustizia a orologeria, colpo di stato, infiltrati, giacobini, brigatisti, dittatura, eversione, persecuzione; una volta sostenne che per scegliere quel lavoro dovevano essere «mentalmente disturbati », avere delle «turbe psichiche»; ma visto che ci siamo, è pur vero che incontrando gli alti gradi della Suprema Corte prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2010 non seppe resistere: «Ma come siete belli con quegli ermellini addosso!». 

Ciò detto, se si deve pensare a un governo affossato dalla magistratura, il pensiero corre al Prodi bis e alle esplicite dimissioni, in questo senso, del Guardasigilli Mastella dopo l’arresto ai domiciliari della moglie. Così, sommariamente e con inevitabili lacune, si sarebbe provato a sintetizzare le vicende della «fazione antagonista», asettico preziosismo crosettiano. Altra faccenda è se c’è qualche scandalo ad alto impatto che già bolle nel pentolone delle indagini. Qualche altro ministro evasore, qualche ulteriore figliolo sconsiderato, qualche affaraccio, qualche storiaccia. Di solito il potere non fa diventare più buoni.

Quei magistrati “engagé” ormai sembrano un partito. La mozione di Area Dg è un programma politico: le toghe “progressiste” si dicono pronte a uscire dalle aule dei tribunali. Davide Varì su Il Dubbio il 3 ottobre 2023

«Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l'effettività dei loro diritti». E poi: «Dobbiamo farlo, possiamo farlo e sappiamo farlo, perché siamo in possesso delle chiavi di lettura necessarie per capire la direzione che si sta prendendo e le conseguenze negative che ne verranno, mettendo in campo le nostre migliori risorse». E, dulcis in fundo: «Toccherà a noi tenere accesa la luce quando il buio si farà più fitto».

Qualcuno, leggendo queste frasi, potrebbe pensare che si tratti di parole rubate al programma di un nuovo partito, di un nuovo movimento, insomma, di un soggetto in cerca di consensi su quella che un tempo si sarebbe chiamata una “piattaforma politica”.

Niente di tutto questo: quelli che avete appena letto sono alcuni estratti - in effetti c’è molto altro - della “mozione conclusiva” dell'ultimo congresso di Area Dg, la corrente progressista dei magistrati italiani che si è riunita qualche giorno fa a Palermo alla presenza, pensate un po’, di Elly Schlein e Giuseppe Conte, ovvero i due maggiori leader dell’opposizione che sono andati a rendere il “doveroso omaggio” alla corrente di “sinistra” delle toghe.

Intendiamoci, il dibattito offerto da Area Dg, soprattutto in tempi di aridità e pochezza politica, è stato di assoluto livello. È chiaro che Area è uno dei pochi “soggetti” che ha ancora una lettura complessa, articolata e (in una parola) politica della realtà. È questa la sua forza ma forse è anche il suo limite.

E però ci chiediamo: davvero il compito dei magistrati è quello di uscire dalle aule dei tribunali per partecipare al dibattito pubblico? E ancora: è legittimo che un’associazione di magistrati cerchi il consenso dei cittadini su battaglie politiche così definite e così critiche nei confronti di una maggioranza eletta dal popolo sovrano?

Intendiamoci, qui non si tratta di discutere la qualità e il valore delle loro battaglie, qui si discute della legittimità delle toghe di condurre queste battaglie senza che questo rappresenti un graffio nel nostro fragile equilibrio tra poteri, un sfilacciamento e uno strappo nel tessuto della magistratura italiana, vista non più (o non solo) come garante della giurisdizione ma come “istituzione engagé”.

Se è infatti vero che la costituzione garantisce libertà di espressione per ogni persona, è altrettanto vero, però, che difficilmente un magistrato così “politicizzato” che un giorno si ritroverà a giudicare un cittadino (e magari un cittadino impegnato in politica), oppure a “istruire” un processo, potrà apparire davvero imparziale e libero da preconcetti.

E qui torniamo alla questione della giudice di Catania che non ha convalidato il fermo dei 3 migranti tunisini. Il Giornale ha scovato un paio di sbandate anti-salviniane postate “ingenuamente” su Facebook. Un precedente che oggi pesa come un macigno sulla legittima decisione di quella magistrata.

Insomma, è evidente che “uscire dalle aule dei tribunali" - anche virtualmente - come invoca il documento di Area non è mai una buona idea. Anche perché in quello slogan sembra di risentire l’eco dei versi di Majakovskij, ricordate? “Non rinchiuderti, Partito, nelle tue stanze”. Ma era il 1924 e quel partito era il Pcus…

I problemi della giustizia in Italia. La magistratura è politicizzata, ha ragione Sabino Cassese. Alberto Cisterna su Il Riformista l’8 Febbraio 2023

L’articolo di Sabino Cassese di pochi giorni or sono (“Qualche numero”, Il Corriere della sera, 27 gennaio) contiene un’analisi in larga misura condivisibile dello stato della giustizia nel nostro Paese. Tra cifre snocciolate e proposte mirate per porre rimedio alla crisi profonda del servizio giustizia, l’illustre studioso non manca di elevare il livello del confronto su un piano che, a oggi, è rimasto latente, quasi nascosto nell’antagonismo pur aspro delle tifoserie. Resta, infatti, sempre in ombra quali siano i veri connotati, per così dire, l’identità, il nome e cognome degli epigoni dei due fronti che si danno battaglia.

Cassese ne offre una descrizione a spanne, ma che certo contiene una buona dose di verità: «Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia». Non ci sono i nomi, ma insomma tutti hanno presente all’incirca di chi si stia parlando; sono le vittime collaterali della riforma di legge posta a tutela della presunzione d’innocenza che ha praticamente ammutolito i procuratori e costretto i più riottosi a prendere a sportellate leggi, ministri, ex ministri, dispensando pagelle e opinioni a ruota libera, per continuare ad avere un qualche strapuntino mediatico. La legge tutela la presunzione d’innocenza dei cittadini, ma non sanziona le sgrammaticature mediatiche a largo raggio.

Sin qui, in verità, si potrebbe dire nulla di nuovo. Il problema è noto e di non facile soluzione poiché occorre mediare tra il riserbo e la continenza pretesi dalla funzione giudiziaria – in applicazione del precetto costituzionale che impone a qualunque pubblico dipendente “disciplina e onore” (articolo 54 Costituzione) – e la libertà di manifestazione del pensiero che compete ai magistrati come a qualunque altro cittadino. Persino prefigurare norme disciplinari è complesso in questa materia in cui la partecipazione al dibattito civile su temi generali costituisce anche esercizio del dovere di ciascun lavoratore di concorrere «al progresso materiale o spirituale della società».

Questo non vuole dire che la toga di turno possa prendere a randellate qualunque malcapitato reo, ai suoi occhi, di attentare all’autonomia o all’indipendenza della magistratura sol perché pretende la separazione delle carriere o vuole limitate le intercettazioni o critica l’ergastolo ostativo. Insomma, ci vuole un punto di equilibrio che, al momento, la corporazione non sa imporsi e la politica non sa neppure dove cercare. Avrà ecceduto il ministro Nordio nell’affermare che alcuni procuratori condizionano l’agenda parlamentare, ma non si può stare a braccia conserte nel sentire dispensati quarti di nobiltà antimafia o patenti di incompetenza, se non peggio, da questo o quel magistrato, in servizio o in quiescenza.

Cassese ha presente il problema e ha ben diritto di inserirlo tra i “numeri” che minano l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario di cui ha detto il vicepresidente del Csm nel suo discorso di insediamento ricordando il martire Rosario Livatino. Eppure, nell’analisi di Cassese, c’è un punto di evidente novità, messo in chiusura delle proprie considerazioni, quasi fosse banalmente cascato tra le righe di una riflessione che sembrava complessivamente scivolare su altri versanti: «L’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo».

Il tema della «politicizzazione endogena» è scottante, urticante, provocatorio. Un calcio negli stinchi. Ma è anche un invito ad affondare il bisturi in una postura ideologica della magistratura italiana che appare ormai acquisita, consustanziale, divenuta congenita in settori non marginali delle toghe. Lenin, Bakunin, Marcuse, come noto, si sono impegnati a lungo nel cogliere limiti e prospettive della cosiddetta “aristocrazia operaia” ossia di quel gruppo di lavoratori che, per un motivo o per l’altro, si trovano ai vertici del proletariato, godendo così di una situazione di superiorità e di privilegio rispetto agli altri. La categoria politica potrebbe servire a gettare una luce, almeno in parte, sulla condizione politica, istituzionale, persino psicologica della magistratura italiana.

Concepita dai padri della Costituzione come un insieme di operai, come una classe di funzionari senza gerarchia e senza subordinazione, addetti paritariamente alla giurisdizione (articolo 107:«I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»), la magistratura ha finito per ricevere e farsi dare un assetto ordinamentale che troppe volte collide con il progetto di una “isocrazia” di eguali, ciascuno dei quali esercita la funzione in piena autonomia e indipendenza e senza controlli esterni. Il problema, soprattutto dalla riforma del 2006 in poi, è particolarmente avvertito negli uffici di Procura che, come noto, censiscono al proprio interno molti tra i «più chiassosi» di cui parla Cassese e ove i condizionamenti sono innegabili e vanno dalle indagini che attingono al potere economico e politico alle prescrizioni d’impiego della polizia giudiziaria, dalla destinazione dei fascicoli più delicati alla costituzione, dopo il 1993, delle oligarchie che si occupano di mafia e terrorismo nei più importanti uffici del paese.

Una realtà complessa, competitiva, a volte opaca, malmostosa come dimostrano anche vicende recenti e non solo. E’ evidente che la materiale separazione delle carriere che già connota la magistratura italiana dal 2006 a oggi, in cui i passaggi di funzioni da requirente a giudicante e viceversa sono pochissimi, abbia portato al formarsi di una “aristocrazia operaia” che ha una propria ideologia e che ha generato la propensione politica endogena di cui parla Cassese. L’esercizio dell’azione penale – a stento e in minima parte circoscritto dalla riforma Cartabia – è uno strumento politico per sua definizione, tant’è che in molte democrazie liberali il pubblico ministero ricade comunque nel perimetro della responsabilità dell’esecutivo o è addirittura elettivo.

Decenni di sostanziale discrezionalità nell’individuazione delle indagini da svolgere e dei soggetti da sottoporre a investigazioni ha impresso nel codice genetico del potere inquirente stimmate di «politicizzazione» che è difficile rimuovere. A questa discrezionalità di fatto si è associata l’elaborazione, inevitabile e conseguenziale, di politiche criminali che rendono ancora più autorevole e sofisticato l’intervento della «aristocrazia operaia» su questi temi con una capacità di annichilire la gran parte degli oppositori adoperando argomentazioni non certo banali o marginali. Il lungo scontro, ad esempio, tra il Ros dei Carabinieri e alcune Procure in anni passati ha radici profonde in questa disparità di sensibilità e di vedute, in questa insofferenza delle toghe verso progetti investigativi elaborati nelle strutture di élite delle forze di polizia e non negoziati con i procuratori che intravedevano, nell’affermarsi di queste inedite progettualità inquirenti, il rischio di essere retrocessi a meri «avvocati della polizia».

Una stratificazione e una costruzione sapienziale quella dei magistrati inquirenti, edificata su una cultura politica e tecnica di livello, che ha generato una “egemonia” difficile da contendere, soprattutto da parte di una politica in gran parte inadeguata e sprovvista di una visione così complessiva e globale del sistema repressivo e giudiziale. Ecco, perché, “in cauda venenum” le parole conclusive di Cassese dischiudono le praterie di una dibattito che, a oggi, manca di una compiuta riflessione e che, certo, non può esaurirsi in poche righe. Tuttavia è necessario comprendere che malamente si accusa questa parte di magistratura militante e combattente di essere prevenuta, accanita, inaffidabile istituzionalmente.

Certo ci sarà e, soprattutto, ci sarà pure stato un manipolo di farabutti, ma la questione appare molto più radicale e affonda nel tessuto connettivo più profondo che caratterizza la magistratura inquirente italiana. Lasciata per anni, anzi voluta dalla politica, alla guida delle politiche criminali non poteva che adoperare l’azione penale nel senso più congruente rispetto ai risultati che doveva conseguire trasformandosi in tal modo – naturalmente e senza nessun preordinata scalata golpista – in un’aristocrazia ideologica e di potere capace di resistere a ogni rivoluzione e vocazionalmente refrattaria a ogni mutamento.  Alberto Cisterna

Magistrati indipendenti dal Parlamento? Permettetemi di dubitare. Le toghe devono seguire la legge come il prete il vangelo, ma spesso l’Anm decide di dare “consigli” alle Camere. Giuseppe Benedetto, presidente Fondazione Einaudi, su Il Dubbio il 31 gennaio 2023.

Siamo tutti contenti e soddisfatti quando ripetiamo il mantra “la magistratura deve essere indipendente”. Ma poi è forse il caso di chiedersi: indipendente da chi e da cosa? Indipendente dall’esecutivo (cioè da governo)? Benissimo, siamo tutti d’accordo. Per carità. Tuteliamo le vestali del diritto, anche se ci permettiamo sommessamente di osservare che in tanti Stati democratici, vedi la Francia per tutti, la pubblica accusa è alle dirette dipendenze del governo. Ma in Italia questo nessuno lo vuole!

La questione si complica un po' quando la magistratura militante interpreta l’indipendenza come indipendenza dal Parlamento. E lì non solo chi si richiama alle liberal-democrazie dei Paesi occidentali non può essere d’accordo, ma occorre denunciare la pericolosa deriva eversiva che ne conseguirebbe rispetto ai principi costituzionali.

Il Parlamento è il luogo sacro (direbbe Einaudi) dove in una democrazia si estrinseca il volere del cittadino-elettore. Se vi fosse un corpo dello Stato che potesse agire al di fuori della volontà popolare, quello sarebbe fuorilegge. Volontà popolare che si esprime attraverso gli atti del Parlamento, cioè le leggi. Dunque, ogni corpo dello Stato, compresa la magistratura, deve osservare le leggi del Parlamento. In caso contrario, verrebbe meno lo Stato di diritto.

L’art. 101 della Costituzione dispone che “i giudici sono soggetti soltanto alle legge” e l’art. 112 sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Ne deriva, ovviamente, che il Ministro della Giustizia non possa impartire direttive. Allo stesso tempo, però, ne consegue che il giudice e il pubblico ministero debbano osservare la legge come il prete segue gli insegnamenti del vangelo. Dovrebbero essere ispirati da una fedeltà assoluta verso la legge, sacra verrebbe da dire. Non è altro che un corollario del principio di divisione dei poteri: il legislativo produce le norme e il giudiziario le applica. È agevole dedurre che più il giudice si allontana dalla lettera della legge e maggiori sono i pericoli di sentenze discrezionali, ispirate più dai sentimenti e dalle opinioni personali piuttosto che dai sacri principi del diritto.

Qui giungiamo alle principali contraddizioni dei nostri tempi. La “discrezionalità giudiziaria” regna imperante, come sanno tutti coloro che entrano nelle aule dei tribunali. La Corte di Cassazione riscrive le leggi con poteri creativi e i pubblici ministeri scelgono autonomamente quali reati perseguire in via prioritaria. In tutto ciò, a fronte di una politica corresponsabile, trionfano le norme penali indeterminate, come il traffico illecito di influenze. Un reato talmente generico che ogni procura d’Italia lo riempie del significato che più le aggrada.

Dunque, a differenza di quel che pensavano i nostri Costituenti, taluni magistrati italiani non si sentono affatto soggetti alla legge. Chi parla di “lettera della legge” oggigiorno è qualificato come un temibile nostalgico del passato. Invece, come ricordato da Andrea Davola nella postfazione al mio libro “Non diamoci del tu”, la tradizione italiana del diritto pianta le sue radici nel positivismo giuridico, che trova il suo principio ispiratore proprio nell’interpretazione letterale.

Conosciamo bene il sistema anglosassone fondato sul giusnaturalismo, dove le sentenze non sono una rigida applicazione delle norme, ma sono frutto delle sensibilità politico-culturale del singolo magistrato. Ma i nostri esimi pm fanno finta di ignorare che ivi il rappresentante della pubblica accusa non solo è sotto lo stretto controllo dell’esecutivo, ma addirittura nel caso degli USA spesso viene direttamente eletto dai cittadini. Di fronte ad una prospettiva del genere alcuni pubblici ministeri minaccerebbero di darsi fuoco nella pubblica piazza, accompagnati dal coro delle prefiche del giustizialismo militante.

Ma non è finita qui, purtroppo. Alla luce di una discrezionalità giudiziaria senza alcun indirizzo del Parlamento, la ANM ha pensato bene di poter iniziare a commentare e contestare le leggi sotto il profilo strettamente politico.

Se il Parlamento intende introdurre dei criteri seri di valutazione del magistrato, la ANM pensa bene di scioperare. Se la maggioranza parlamentare ritiene che vi sia un problema di indiscriminata pubblicazione delle intercettazioni, taluni pm non esitano a mostrare la loro contrarietà. Ma a che titolo lo fanno? Sono soggetti alla legge, o adesso vorrebbero anche scriverle? Chissà cosa penserebbe Montesquieu...

Antonio Giangrande: Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.

Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.

Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.

Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.

Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.

Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.

Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.

Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.

E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.

Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.

Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.

Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.

Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”. Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto. Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.

Cosa c’è di strano direte voi.

E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?

Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”

Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.

Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto.

Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?

Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.

Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.

Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.

Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".

Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).

In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".

Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.

Caro dottor Bruti Liberati, perché affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici? L’ex capo della Procura di Milano partendo dal caso Santanchè interviene sulle “dimissioni per opportunità”. Errico Novi su Il Dubbio il 30 luglio 2023

Bruti Liberati è una voce autorevole della magistratura. Da ex capo non solo della Procura di Milano ma anche di una storica corrente dell’Anm, Magistratura democratica, ci ricorda che il contributo delle toghe nel dibattito politico ( sulla giustizia ovviamente) può essere prezioso. E infatti il suo intervento di due giorni fa su La Stampa a proposito delle “dimissioni per opportunità” è tra i più stimolanti in materia. Scrive a partire da Santanchè. Sostiene che affidare all’eventualità di un rinvio a giudizio l’estromissione di una ministra coinvolta in un’indagine significa scaricare troppe responsabilità sui magistrati. Ricorda pure i tanti casi di esponenti politici che, in altri Paesi, si sono dimessi il giorno dopo la pubblicazione di imbarazzanti scoop sul loro conto.

Poi aggiunge, con una certa serenità, un dettaglio devastante: in diversi di quei casi, il politico in questione è risultato innocente ( l’ex presidente della Repubblica tedesco Wulff) o addirittura, tanto per tener vivo il parallelo con Santanchè, la pubblica accusa ha chiesto, nei suoi confronti, l’archiviazione ( l’aspirante presidente della Francia Strauss- Kahn). Dopodiché, conclude Bruti Liberati, il quarto potere, quello della stampa, non può essere ignorato, né si può ingigantire quello di noi toghe. Ecco, qui il passaggio è delicatissimo.

Da giornalisti vorremmo chiedere a Bruti Liberati:

e perché mai noi dovremmo avere il potere di silurare politici innocenti? Detto proprio così: gentilissimo procuratore, perché mai? Dovremmo incenerire il principio per cui è sempre meglio lasciare impuniti cento colpevoli che infliggere una condanna ingiusta a un solo innocente: il cardine del diritto penale liberale. Sostenere il contrario, cioè che il semplice sospetto avanzato da un’inchiesta giornalistica deve produrre la fine di una carriera politica, persino a costo di scoprire che il poveretto era estraneo alle accuse, be’ no, proprio no.

È la fine della democrazia. Il macello delle classi dirigenti, lasciate nelle mani degli interessi, incontrollabili dalla rappresentanza democratica, che possono muoversi dietro un’inchiesta giornalistica. Meglio non santificare nessuno. E lei, procuratore Bruti Liberati, non santifichi neppure noi giornalisti, che possiamo essere più o meno onesti o sospettabili esattamente al pari degli altri.

La politica recuperi l’etica pubblica e non scarichi sulle toghe le sorti dei suoi. I legislatori decidano dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: possono attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non hanno rilevanza penale. Edmondo Bruti Liberati su Il Dubbio il 31 luglio 2023

In un corso della Scuola Superiore della Magistratura Anna Maria Testa, grande esperta di comunicazione, in un breve efficacissimo intervento videoregistrato ci ammoniva: «In comunicazione non esiste “Tu non mi hai capito”, c’è solo: “Io non mi sono spiegato, mentre avrei avuto la responsabilità, da comunicante, di farmi capire”»..

Da almeno trent’anni, in saggi su riviste giuridiche, libri, interventi in convegni e contributi giornalisti affronto il tema “responsabilità penale/responsabilità politica”. Da ultimo ho svolto alcune considerazioni al riguardo su La Stampa del 27 luglio. In quest’ intervento evidentemente non mi sono spiegato, se su questo giornale l’ottimo Errico Novi il 29 luglio mi ha rivolto una garbata critica sotto il titolo “Caro dottor Bruti Liberati, perché affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici?”. E allora chiedo ospitalità per cercare di raccogliere l’insegnamento della cara amica Anna Maria Testa. Provo a spiegarmi meglio. In sintesi tre punti.

1. Non intendo affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici.

2. Non io, ma la tradizione liberaldemocratica affida alla stampa il ruolo di controllo sull’esercizio di chiunque eserciti un potere pubblico. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha qualificato la stampa come “cane da guardia della democrazia”. Il giudice Hugo Black nella sua «opinione concorrente” della sentenza della Corte Suprema USA New York Times Co. v. United States, 403 U.S. 713 (1971) scrive: «La stampa è al servizio dei governati e non dei governanti. […]Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l'inganno nel governo». Una presa di posizione forte, tanto più perché adottata nel pieno della guerra del Vietnam: si trattava della pubblicazione di documenti riservati “Pentagon papers”. Questo ruolo della stampa è così sentito negli Stati Uniti, da essere trasmesso al grande pubblico con i film. Alla vicenda dei “Pentagon papers” si ispira il film The Post del 2017, diretto da Steven Spielberg con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks. La battura finale di Humphrey Bogart nel film L'ultima minaccia (titolo originale Deadline, 1952) diretto da Richard Brooks «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!» ha assunto un significato di principio, oltre l’occasione specifica in cui è pronunziata.

3. Nelle democrazie è la politica che si assume la responsabilità politica, il “potere” di valutare se dati di fatto pubblicati dalla stampa, da inchieste giornalistiche comportino la “rovina” di una carriera politica, prima, a prescindere e indipendentemente da un’indagine penale, che talora può addirittura non esserci, perché si tratta di fatti e comportamenti ritenuti disdicevoli, ma che non costituiscono reato.

Il presidente Nixon si dimette, anticipando una richiesta di impeachment, a seguito dell’inchiesta giornalistica sul caso Watergate. Karl-Theodor zu Guttenberg, già segretario generale del partito Csu, Ministro tedesco della difesa, nel 2011 si dimette da ogni incarico dopo che sulla stampa è stato segnalato il plagio di brani nella sua tesi di dottorato in diritto internazionale di qualche anno prima. Nei confronti di Christian Wulff, già presidente del partito Cdu, ora Presidente della Repubblica Federale Tedesca il 16 febbraio 2012 la procura di Hannover chiede la revoca dell'immunità prevista per il capo dello Stato in relazione ad una indagine per un finanziamento di 500.000 euro con un mutuo a tasso agevolato del 4%, che Wulff avrebbe ottenuto da un amico imprenditore, per la realizzazione di un appartamento in Bassa Sassonia, in cambio di favori. Il giorno dopo si dimette: il 27 febbraio 2014 è stato assolto dal Tribunale di Hannover dall'accusa di corruzione. Helmut Kohl, presidente onorario del partito Cdu, artefice della riunificazione tedesca, si dimette da ogni incarico quando nel 2000 emergono cospicui finanziamenti che aveva ricevuto in nero per la sua carriera politica. E’ noto quanto abbia giocato nella “rovina” politica di Boris Johnson la notizia diffusa dalla stampa della festicciola svolta a Downing Street in piena emergenza Covid: nessun rilievo penale per il Partygate, semmai alto tasso alcolico.

Occorre distinguere con grande cura tra criteri e regole della responsabilità penale e quelli della responsabilità politica. Il codice penale e quello di procedura penale raccolgono e precisano i principi di una tradizione di civiltà: In dubio pro reo. Con la modifica adottata nel 2006 l’art.533 al comma 1 prevede: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputati risulta colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ancora: l’inutilizzabilità processuale di elementi di prova decisivi per la condanna, ma illegittimamente acquisti, porta alla assoluzione. Di più, il principio del ne bis in idem preclude la possibilità di riprocessare l’imputato assolto, quando successivamente emergano anche prove clamorose della sua colpevolezza. All’opposto il principio della intangibilità del giudicato deve cedere alla possibilità di revisione ove emergano prove di innocenza. Criteri e principi sacrosanti, spesso difficili da far comprendere alla pubblica opinione, sui quali dobbiamo sempre vigilare. Ma operano solo nel ben delimitato campo di applicazione della norma penale.

Nessuno di questi criteri opera nel campo della responsabilità politica, ove, anzi, operano spesso criteri opposti. Se al di sopra di ogni sospetto deve essere la moglie di Cesare, a maggior ragione lo deve essere Cesare.

Occorre che la politica si riappropri del suo ruolo, faccia un passo avanti e valuti comportamenti attribuiti a suoi esponenti secondo il metro dell’etica pubblica, indipendentemente e a prescindere dai profili penali.

Sta alla politica decidere dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: può attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non abbiano rilevanza penale o all’opposto può non attivare questo giudizio di fronte a fatti penalmente rilevanti, ma ritenuti di non particolare gravità.

\Solo pochi anni addietro due governi tecnici hanno alzato e di non poco l’asticella del livello di etica pubblica: due ministre dimesse per casi di non particolare gravità. Nella vicenda che coinvolge una attuale ministra la confusione è totale. Laddove la politica, il governo, dovrebbe assumere la responsabilità “politica”, una valutazione autonoma sui fatti, il dibattito in Parlamento si è svolto come in una esercitazione degli studenti di un corso di procedura penale sul “certificato dei carichi pendenti”, sulla “informazione di garanzia” e infine sul “rinvio a giudizio”. Nel mio recente intervento non ho espresso opinione alcuna sul rilievo dei fatti “addebitati” dalla stampa ad una ministra. Ho invece preso atto della motivazione addotta dalla maggioranza: delegare sostanzialmente una scelta squisitamente politica, come lo è la nomina o la sfiducia per un ministro, ad una decisione della magistratura, il “rinvio a giudizio”, per di più in una fase iniziale della procedura giudiziaria. Apparentemente rispettosa della magistratura è una alterazione del rapporto politica giustizia.

La vecchia saggezza popolare ammoniva: non mischiate le mele con le pere. Non “mischiamo” responsabilità penale e responsabilità politica, il confine va rigorosamente delimitato.

Caro dottor Bruti Liberati, come mai “i cani da guardia del potere” non abbaiano mai al potere giudiziario? Gian Domenico Caiazza, avvocato penalista, su Il Dubbio il 3 agosto 2023

Non esiste inchiesta giornalistica su qualsivoglia vicenda giudiziaria o sulla gestione di una procura

Le riflessioni che il dott. Bruti Liberati ha svolto qualche giorno fa sulle pagine de Il Dubbio, relative all’annoso tema del rapporto tra responsabilità penale, responsabilità politica e stampa, non mi convincono. Intendiamoci: lo schema dell’argomentazione è all’apparenza ineccepibile. La responsabilità politica deve restare distinta dalla responsabilità penale; un uomo pubblico può doversi dimettere dalle proprie cariche anche per condotte penalmente irrilevanti, ma eticamente significative; e per converso, fatti penalmente rilevanti potrebbero essere tali da non risultare incompatibili con l’esercizio della funzione pubblica. Segue elenco di vicende accadute in altri Paesi (ministri dimessisi per la tesi copiata, il mutuo agevolato etc), a conferma dell’assunto. In questo quadro, ecco implacabile il solito richiamo al ruolo della stampa quale “cane da guardia della democrazia”. Tutto bene, tutto bello. Senonchè questo quadro ideale di come debba funzionare un sistema democratico, manca di due tasselli fondamentali: mancano, a fianco della responsabilità della politica, quella del potere giudiziario e quella della stampa. Eccola qui la vera, clamorosa anomalia del nostro sistema Paese: chi svolge una indagine giudiziaria che, dopo aver fortemente impattato sull’ordinato svolgersi della vita democratica e delle istituzioni politiche, si rivelerà del tutto infondata sin dalle sue scaturigini, non ne risponderà in alcun modo. Né in termini risarcitori (ed è il male minore), né in termini di carriera professionale (e questo è semplicemente intollerabile). Al tempo stesso, quei giornalisti o quelle testate giornalistiche che lanciano – per finalità politiche o di semplice mercato- campagne di stampa violentissime poi dimostratesi infondate, cioè basate su circostanze non adeguatamente verificate o del tutto contrarie al vero, ne risponderanno, se mai ne risponderanno, con sanzioni patrimoniali risibili (qui -chiedo- non valgono le comparazioni con gli altri Paesi?) e con nessuna conseguenza professionale.

La prova del nove di quanto sia veritiera la ricostruzione di questa anomalia risiede nel fatto che, non a caso, da oltre trent’anni questi due poteri irresponsabili (formidabili ed irresponsabili) si sono quasi naturalmente coalizzati in un tacito patto di reciproca protezione. I processi civili e penali per diffamazione sono gestiti da Procure e Tribunali con una indulgenza prossima alla garanzia di impunità per i giornalisti (salvo mirate eccezioni per alcune privilegiate categorie di persone offese, magistrati in primis); e i famosi “cani da guardia del potere” abbaiano contro ogni potere che non sia quello giudiziario, salve alcune benemerite e minoritarie eccezioni. Qualcuno mi faccia la cortesia di citare, in questi ultimi decenni, una qualche inchiesta giornalistica, di quelle ficcanti, spietate, con titoli cubitali e protagonisti implacabilmente inseguiti dal microfono del giornalista d’assalto, su qualsivoglia vicenda giudiziaria, o di gestione di un ufficio giudiziario, o di gestione di un processo. Un esempio, solo il più recente, per tutti. Gli avvocati penalisti calabresi lanciano un forte grido di allarme sulla amministrazione della giustizia in quelle terre. Hanno ragione o torto? Sono dei calunniatori o, peggio, portatori di minacce per conto terzi, oppure hanno qualche ragione e raccontano verità? Non lo sapremo mai, perché ANM e CSM insorgono a tutela, la stampa -senza eccezioni- fa da indignato megafono a quella reazione, ma a nessuno viene neppure in mente di verificare quali verità possano eventualmente -per carità, dico solo: eventualmente- trovare riscontro in quella denuncia pubblica. E d’altronde, come stupirsi? ancora oggi, a quarant’anni di distanza, nessuno ha seriamente cercato di capire le ragioni dello scandaloso processo ad Enzo Tortora, i cui responsabili nella magistratura, beninteso, furono tutti promossi con encomio.

Dunque, il dibattito su questo tema così complesso non uscirà dalle paludi della retorica se non si determinerà ad affrontare la questione della responsabilità delle funzioni pubbliche o di rilevanza pubblica, che funziona solo se varrà senza eccezioni, senza sacche di privilegio, senza ipocrisie, senza riserve di impunità. Un sistema democratico funziona se tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche o socialmente rilevanti rispondono, con efficacia e durezza, dei propri errori. Che è esattamente ciò che manca nel nostro Paese.

Caro dottor Bruti-Liberati, ma non si è accorto che il giornalismo d’inchiesta non esiste più? Tiziana Maiolo, editorialista dell'Unità. Altro intervento dopo l’articolo di Bruti Liberati sul nostro giornale e la replica di Caiazza. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 5 agosto 2023

Rinfacciare al Parlamento e al mondo della politica la propria incapacità a lavarsi e vestirsi ogni mattina senza l’aiuto di un magistrato, come ha fatto il dottor Edmondo Bruti Liberati, già capo della procura di Milano e anche del sindacato delle toghe, è una grande verità e anche una cocente umiliazione. E’ pur vero, come l’ex magistrato ha scritto sulla Stampa e sul Dubbio, che nel caso della presentazione da parte delle opposizioni della richiesta di dimissioni della ministra Daniela Santanché il Parlamento non ha dato grande prova di sé. Quasi i deputati fossero a un corso di procedura penale al primo anno della facoltà di giurisprudenza, ha commentato il dottor Bruti Liberati con tono irridente e un po’ sprezzante, eccoli lì a disquisire di informazioni di garanzia e di carichi pendenti. Il che sarebbe non più di un peccato veniale. La cosa più grave è che qualcuno ( solo qualcuno, per fortuna) ha ipotizzato che si possa chiedere a un ministro in carica di andarsene qualora un giudice lo abbia rinviato a giudizio. E il principio costituzionale di non colpevolezza? Non scaricate su di noi magistrati, dice l’ex procuratore di Milano, questa responsabilità, che è solo di “etica politica”. In molti Paesi dell’occidente democratico importanti uomini di governo si sono dimessi quando un’inchiesta giornalistica ne ha disvelato una presunta “immoralità” di comportamento, a prescindere dall’inchiesta giudiziaria, al termine della quale molti sono risultati innocenti. Dovremmo compiacercene?

Alcune riflessioni sono indispensabili, anche perché il dottor Bruti Liberati vuol farci credere di vivere su un altro pianeta e non in Italia dove, come ha ben spiegato il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, il problema della responsabilità viene sempre richiesto, giustamente, ai soggetti politici, ma mai alle toghe. E neanche a certi giornalisti di certe testate, che escono spesso vincenti da processi in cui giocano sempre in casa. Ma ci sono altri argomenti, che l’ex magistrato pare ignorare, nonostante i ruoli di vertice che ha ricoperto. Il primo è che in Italia non esiste più il giornalismo d’inchiesta, da quando molti cronisti hanno scoperto essere moto più comodo e redditizio fare gli scoop con le veline del pubblico ministero. E da quando gli stessi pm hanno capitalizzato in pubblicità personale e carriera professionale il traffico di notizie coperte da segreto investigativo. Poiché stiamo raccontando una realtà che è sotto gli occhi di tutti, ci sembra strano che un magistrato prestigioso come Bruti Liberati non si sia reso conto di quel che sta succedendo da almeno trent’anni a questa parte. Né potrebbe mai descrivere una realtà diversa - visto che anche lui c’era a quei tempi- a chi ha svolto per vent’anni il ruolo di cronista giudiziaria a Milano. C’è però un argomento che andrebbe ricordato invece alla politica, e soprattutto a coloro che, dopo aver letto qualche articolo sul Fatto o su Domani, chiedono a un ministro di dimettersi, sulla base, apparentemente, del famoso giornalismo d’inchiesta. Ma la verità è che queste notizie partono sempre da un’inchiesta giudiziaria. Il fascicolo del pm c’è sempre. Ed è inutile che ci si affanni a dire che si vogliono cacciare ministri non per l’inchiesta giudiziaria ma «per motivi di opportunità politica». E’ così solo in apparenza, perché è il cane che si morde la coda. Poiché il cronista non è autonomo e le carte gliele dà il magistrato, è chiaro che le dimissioni vengono chieste solo in quanto c’è un’inchiesta giudiziaria.

Questa è l’Italia da almeno trent’anni, caro Edmondo Bruti Liberati. E lasciamo perdere un altro argomento, anche se non è secondario, ed è quello dell’” onorabilità”, che profuma tanto di spirito rousseauviano e di Stato etico. Qualcuno si è inventato persino un partito sull’ “onestà”, che spero non piaccia a un fiero militante di sinistra come lei. Ma due nuovi fatti sono accaduti intanto in questi giorni, la fuga di notizie su una denuncia presentata dal ministro Guido Crosetto ben nove mesi fa, e una dignitosa rivendicazione del deputato del Pd Piero Fassino sul significato di politica e della sua nobiltà, proprio in contrapposizione all’andazzo moralistico- demagogico di cui pare essere prigioniero quasi l’intero Parlamento. Tanto che, a quanto pare, solo un deputato di Forza Italia, Roberto Bagnasco, gli ha dato solidarietà e sostegno in aula. Sulla vicenda del ministro della difesa non si può che prendere atto del fatto che siamo in presenza di ben due violazioni del segreto investigativo, una sulla rivelazione di una privata e legalissima retribuzione che l’ex dirigente d’azienda ha ricevuto da Leonardo, e la successiva sull’esistenza di un’inchiesta penale in seguito alla sua denuncia. Ma si tratta di giornalismo d’inchiesta, ovviamente, nessuno ha passato le carte. Perché “è la stampa bellezza!”, direbbe l’ex procuratore Bruti Liberati citando Humphrey Bogart. Sul discorso tenuto da Piero Fassino alla Camera due giorni fa, il punto centrale non è sull’entità dell’indennità parlamentare, da lui esibita a dimostrazione del fatto che non si tratta di “stipendio d’oro”, su cui si sono scatenati i miseri moralismi di destra e di sinistra. Ma il coraggio di dire a voce alta, dopo trent’anni di umiliazioni e autoflagellazioni della politica, che mettersi al servizio della comunità è un fatto alto e nobile. A testa alta, con le “mani pulite” delle persone per bene, che non hanno bisogno del bollino blu di qualche toga per decidere se un ministro possa continuare a fare il proprio lavoro.

Giustizia, la sinistra sulle barricate come ai tempi di Berlusconi. Cristiana Flaminio su L'Identità il 18 Luglio 2023

Non dite a Giorgia Meloni che non s’è inventata niente. Il partito conservatore, in Italia, esisteva già ed è il Pd. Sono pochi, pochissimi, i capisaldi di una sinistra in perenne stato di confusione, che non sa dove andare né a chi affidarsi. Uno di questi è la magistratura. Tutto deve cambiare, dall’economia fino al costume, ma l’amministrazione della giustizia deve rimanere uguale a se stessa. Più conservatori di così. Anche perché, questo, è un argomento capestro. Se c’è un’eredità che ci ha lasciato il trentennio che va da Tangentopoli ai giorni nostri è che chiunque tenti di ragionare sulla giustizia, di sicuro avrebbe qualcosa di oscuro, losco, da nascondere. Alla faccia del garantismo. La Guerra dei Trent’anni non è finita, come dice Marina Berlusconi. E nemmeno va in soffitta l’armamentario dem che, da tre decadi, sibila e tuona e rimbomba, nel dibattito politico.

Walter Verini, senatore Pd e membro della commissione Antimafia, ha bollato le parole di Marina Berlusconi come “messaggio inquietante che si inserisce in una situazione inquietante”. Le parole hanno un peso. Verini, in un post chilometrico pubblicato sui social, calca la mano: “C’è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l’impegno contro le mafie e per la legalità. La responsabilità principale è del governo della maggioranza, che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli”. Dopo aver passato in rassegna il codice degli appalti e tutte le novità ritenute dubbie, sotto il profilo della legalità, il senatore evoca il “manganello” e denuncia: “In questi giorni abbiamo assistito con grande preoccupazione ad attacchi diretti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Da parte dello stesso Guardasigilli, da parte delle fonti di Palazzo Chigi e Via Arenula. Da parte di professionisti del manganello verbale contro magistrati e giornalisti. Si, perché sotto attacco stanno magistratura e giornalismo, in particolare quello d’inchiesta”.

Tutti sotto attacco, tutti sotto accusa. Chiaramente, se le cose stanno così, il Pd, è pronto a ritirare il pass, a Meloni, per le manifestazioni in ricordo di Paolo Borsellino: “Come si fa ad apprestarsi a ricordare l’anniversario della strage di via d’Amelio, il sacrificio di Paolo Borsellino mentre il tuo governo, certi ministri come quello della Giustizia offrono questi segnali, colpiscono strumenti di legge, norme, meccanismi che nacquero proprio su impulso di martiri e simboli come Falcone, Borsellino, La Torre, Chinnici e tanti altre vittime, magistrati, politici, servitori dello Stato?”. Giorgia, scansati. I conservatori non stanno con te. Ma dall’altra parte.

Giustizia, parla Palamara: la solita sinistra usa i magistrati contro la riforma. Gaetano Mineo su Il Tempo il 19 luglio 2023

Il concorso esterno in associazione mafiosa è certamente «un tema di discussione». Così come è convinto della separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. Luca Palamara parla a tutto campo. Sferra anche un affondo all’ex pm, Giancarlo Caselli, in merito al cosiddetto processo Borsellino, dal quale «mi attenderei un gesto di coraggio, contribuendo a far accendere i riflettori su come è andata all'interno della magistratura». Non solo giustizia, ma c’è anche politica nell’arringa dell’ex magistrato, visto che annuncia la sua discesa in campo per le elezioni europee.

Dottor Palamara, la norma sul concorso esterno è da rivedere o no?

«Bisogna essere molto chiari quando si affrontano temi così delicati, tenendo presente che il livello della lotta alla mafia non può mai essere abbassato e deve essere sempre un obiettivo centrale di qualunque maggioranza sia al governo. Detto questo - al di là dell'opportunità o meno e del segnale politico che può essere dato con il tema del concorso esterno, così come su quello della trattativa - non bisogna essere ipocriti, è un tema sul quale si è sempre discusso, soprattutto in ambito dottrinario e giurisprudenziale, su una fattispecie, quella del concorso esterno che, come ha ben detto il ministro Nordio, comunque è un tema di dibattito tra gli studiosi. Poi mi fa piacere leggere, ad esempio, che colui il quale ha avuto sempre parole critiche nei confronti del concorso esterno, il professor Giovanni Fiandaca, oggi dice attendiamo, perché non è questo il momento. Tuttavia, va detto che questo reato ha rischiato di portare dentro i processi persone che in quel contesto non erano realmente inserite. Ed è questo, penso, che debba essere un tema di discussione». 

Oggi si ricorda la strage di via D’amelio dove hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Per l'ex magistrato Caselli «va ricordata per il clamoroso depistaggio che ha impedito a lungo un regolare processo». Lo stesso Caselli ha anche attaccato Nordio in merito al concorso esterno, in quanto «fa il gioco delle tre carte».

«Sì, ho letto quest'articolo di Caselli. Lo spunto del concorso esterno, ovviamente, viene preso per attaccare il ministro Nordio, perché evidentemente il «missionario» non è dello stesso colore politico di Caselli. E questo dà un po’ l'idea e lo spessore sul tema dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura e soprattutto dell'indipendenza della politica. Caselli fa riferimento al depistaggio di Scarantino? Io penso che su questo tema, che è uno dei temi che ho trattato nel mio ultimo libro "Lobby e logge", bisogna quanto mai dare ascolto alla famiglia Borsellino, che ancora oggi chiede di capire e di comprendere perché questo sia accaduto e chiede di comprendere anche quello che è stato il ruolo della magistratura. Ecco, io mi attenderei un gesto di coraggio da parte di Caselli, di capire, anche di contribuire a far accendere i riflettori, al di là di quelle che sono state le recenti sentenze processuali, su come è andata all'interno della magistratura».

In merito al processo, invece, che ci può dire?

«Io penso che quello che è accaduto con il Borsellino quater nel 2017, dove per la prima volta viene certificata l'inattendibilità di Scarantino, sia qualcosa di assolutamente devastante e sconvolgente, ovvero il non capire e non comprendere cosa realmente sia accaduto e chi ci fosse dietro quella vicenda».

Lei sostiene, sintetizzando: tutto ciò che non è sinistra al governo, viene attaccato.

«Oggi mi sembra di rivivere un po’ le situazioni che già avevamo vissuto nel periodo 2008-2011. I protagonisti sono sempre gli stessi nella maggior parte dei casi, anche se abbiamo delle importanti new entry: i soliti organi di informazione, i soliti giornalisti che utilizzano la solita intervista di questo o quel magistrato appartenente ad una determinata area giudiziaria. Addirittura abbiamo una figura, quella di giornalisti che si trasformano in giuristi, richiamando convenzioni internazionali e mettendo in guardia dai pericoli per la democrazia, facendo passare il ministro della Giustizia Nordio, uno che nella vita ha fatto il magistrato, come l'ultimo degli improvvisati, che non sa nemmeno di quello che parla. Penso che così è un po’ troppo».

Marina Berlusconi ha dichiarato: «Mio padre continua a essere perseguitato anche dopo la morte», riferendosi alle inchieste della procura di Firenze sulle stragi del ‘93-’94.

«Questa è una storia che all'interno della magistratura gira oramai da circa un trentennio. È un’indagine sulla quale, ripetutamente, sono state svolte indagini. È anche un'indagine in relazione alla quale, io penso, sia giusto porsi delle domande e capire se debba o meno esserci un limite a disposizione di chi debba indagare. Oppure se un conto sono le norme scritte, quelle che si studiano all’università, e un conto l'applicazione pratica, cioè quello che è scritto sulle leggi non conta in qualche modo nulla. Dall'altro lato, c’è la ricerca della verità. Ma la ricerca della verità, ovviamente, deve sempre avvenire secondo i crismi e le regole del codice di procedura penale. E penso quindi che l'idea di capire cosa e perché ci possa essere dietro sia una domanda quanto mai legittima».

Pensa che la riforma sulla giustizia del governo Meloni arriverà in porto?

«Penso che in questa occasione, da quello che capisco, non ci sia una voglia di indietreggiare, quindi su questo non resterà che essere spettatori fino in fondo e capire quello che accadrà. Di certo, la riforma deve avere uno spirito riformatore con interventi oltre che sulla giustizia penale, anche sul rapporto tra politica e magistratura, cosa che la riforma Cartabia non è stata in grado adeguatamente di risolvere». E il Palamara politico? «Stiamo lavorando all’interno della compagine del centrodestra. Al di là dell'esperienza dei partiti, mi rivolgo agli elettori e anche a quella parte di italiani che non vota e che si è mostrata molto sensibile a una battaglia sul tema della giustizia e che è mio intendimento portare avanti». Ma scenderà in campo per le Europee? «Direi nì. O meglio, diciamo più sì». 

Concorso esterno in cattiva fede. Così la politica vile tira il carretto del potere togato sulla guerra alla mafia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 18 Luglio 2023

Ormai chiunque sostenga la necessità di ristabilire un minimo di certezza del diritto per un reato di invenzione giurisprudenziale è considerato un sabotatore dell’autonomia e della libertà dei giudici

Pochi giorni prima di morire, collegato telefonicamente alla trasmissione “Il Testimone” di Giuliano Ferrara, Enzo Tortora rispose così all’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo, che gli chiese retoricamente cosa la magistratura associata avesse mai voluto difendere con quel silenzio sulla macelleria giudiziaria napoletana, di cui era (per lui ingiustamente) accusata: «Volevate difendere la vostra cattiva fede».

Come ha giustamente ricordato Guido Vitiello nella presentazione a Bologna del libro “La giustizia penale di Alessandro Manzoni” di Gaetano Insolera, l’idea di Tortora sugli orrori della giustizia italiana mutò profondamente nel corso della vicenda di cui fu vittima e si fece, potremmo aggiungere, a un tempo più politica e più inconsolabile.

All’inizio Tortora pensava che la giustizia «per pentito dire» fosse semplicemente un prodotto di norme eccezionali, cambiate le quali le cose sarebbero potute tornare alla normalità. Alla fine, forse anche per il modo in cui il risultato del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu impudentemente ribaltato in Parlamento nel giro di pochi mesi, Tortora si convinse che fosse vero piuttosto il contrario: le norme eccezionali servivano alla mostruosa normalità della giustizia italiana e alla cattiva fede della magistratura associata, di cui i politici – ricordò sempre Tortora in quella occasione, rivendicando il privilegio di potere «ridere in faccia al dottor Criscuolo» – si erano semplicemente messi a «tirare il carretto».

A proposito del concorso esterno in associazione mafiosa, stiamo assistendo a una dinamica analoga, per non dire identica a quella a cui Tortora, per estremo oltraggio, fu costretto ad assistere nei suoi ultimi giorni di vita: c’è il solito carretto della cattiva fede giudiziaria trainato dal solito corteggio di politici zelanti e impettiti, un po’ interessati a lucrare la rendita dell’intransigenza antimafia, un po’ a scampare il discredito per il sospetto di mafioseria, che colpisce implacabile chiunque sostenga la necessità di ristabilire un minima di certezza del diritto per un reato di invenzione giurisprudenziale, definito eufemisticamente «liquido» o «fluido» dalla dottrina e quindi capace di adattarsi a qualsivoglia scorribanda inquirente o processuale.

Così siamo arrivati al punto che invocare il principio della riserva di legge in materia penale e quindi la necessità che sia il legislatore a stabilire i confini di questo ircocervo del concorso eventuale (art. 110 c.p.) in un reato a concorso necessario, come l’associazione a delinquere di stampo mafioso (all’art. 416 bis c.p.), è considerata una pretesa eversiva, oltre che una prova di intelligenza con il nemico.

Anche invocare il principio di legalità, cioè la subordinazione alla legge dell’attività degli organi dello Stato (magistrati compresi), suona terribilmente sospetto, visto che capovolge il paradigma su cui il concorso esterno di fonda, dove è lo stesso reato, cioè la stessa legge, un prodotto di interpretazione giudiziaria e non solo la sua applicazione al caso concreto.

Per non parlare della richiesta di subordinare anche il concorso esterno in associazione mafiosa ai principi di determinatezza (precisando a quale fatto concretamente verificabile si applichi la norma incriminatrice) e tassatività (obbligando il giudice ad applicare la norma solo quando il caso concreto si riconnetta alla sua fattispecie astratta): anche questo è ufficialmente un affronto all’autonomia e alla libertà del potere togato di perseguire le forme di «contiguità compiacente» con i sodalizi mafiosi, che per loro natura sfuggono a una troppo rigida tipizzazione giuridica. Non si vorrà mica agevolare il contributo che colletti bianchi, burocrati e politici felloni offrono agli interessi della criminalità organizzata, con la scusa dei principi fondamentali del diritto penale?

È chiaro che il problema non è neppure più cosa si possa fare per riportare il concorso esterno in associazione mafiosa nell’alveo della legge, perché è chiaro che non si potrà fare assolutamente nulla, se non contestando innanzitutto il pervertimento morale e funzionale del concetto stesso del sistema penale, da cui consegue la grottesca e ricorrente accusa di diserzione dalla guerra alla mafia, alla corruzione e a ogni forma di malaffare, da parte di un potere togato che tutto dovrebbe fare, in uno stato di diritto, fuorché la guerra a qualcuno o a qualcosa.

Si può capire, rabbrividendo, che tutto questo vada a genio a chi pensa che la traduzione del law and order in Italia non possa che essere una certa fascisteria politico-giudiziaria; è però incomprensibile che la difesa senza se e senza ma del concorso esterno à la carte sia diventato il valore non negoziabile della cultura “progressista”. A meno di non ammettere che la cultura “progressista” ufficiale sia semplicemente una parte, non una alternativa di questa tambureggiante fascisteria.

Riformucce e teatrini. Guerra con le toghe? Macché, è solo ammuina: lo scontro sulla Giustizia è roba da ridere. Politica e giustizia, spalleggiati dai supporter mediatici, mimano una contrapposizione che in realtà serve solo a fi ni interni. Ai tempi del Cav, lo scontro con la magistratura fu una cosa seria. Ma si sa, la storia si ripete due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Valerio Spigarelli su L'Unità il 15 Luglio 2023

«La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa», diceva uno, ormai dimenticato, che sotto la testata de L’Unità ci sta come il cacio sui maccheroni. Frase che calza a pennello per spiegare lo scontro tra la Politica e la Giustizia che, con qualche forzatura, i partiti di governo, l’opposizione “di sinistra” e l’ANM, stanno mettendo in scena. Ognuno spalleggiato dai propri supporter mediatici, i contendenti mimano una contrapposizione che, in realtà, è pura narrazione che serve soprattutto a fini interni.

Il centrodestra, fin qui, sulla giustizia ha combinato solo disastri, replicando lo schema delle leggi cotte e mangiate da dare in pasto all’opinione pubblica in cambio di qualche oncia di consenso – da quella sui rave alla preannunciata legge sulle baby gang – che affligge il sistema penale dalla fine del XX secolo. Ciò nel segno della continuità del populismo giudiziario con il testimone che passa dai Cinque stelle al duo Lega/Fratelli d’Italia. Sempre nel segno della continuità, ma stavolta della politica fintamente garantista dei governi Berlusconi, è parallelamente proseguita la narrazione – anche esposta con eleganza quando il prosatore è il ministro Nordio – sulla necessità di una riforma complessiva, con rituale invocazione della separazione delle carriere e di un intervento sulla Costituzione.

Il tutto, però, da rinviarsi “all’autunno”, mitica stagione delle riforme che il signor B. evocava ad ogni governo che presiedeva, salvo poi impelagarsi nella palude delle leggi ad personam per far contento sé stesso e di quelle securitarie per accontentare la maggioranza silenziosa degli italiani che, sotto sotto, un po’ forcaioli sono da sempre. In attesa dell’avvento della riforma vera si mettono allora in campo riformuccie, come quella che mescola abuso di ufficio, traffico di influenze, intercettazioni, custodia cautelare ed articoli vari. Un mix buono per spaccare l’opposizione e mettere in difficoltà i suoi leader, Schlein in testa contestata dai sindaci del PD, ma che di organico non ha veramente nulla.

Oppure si licenziano norme che sembrano fatte dal mago Silvan, come l’ultimo Decreto Ministeriale del 4 luglio, che impone alla giustizia penale italiana un salto nel futuro telematico da un giorno all’altro, senza però curarsi di verificare che gli uffici giudiziari siano pronti. Con il risultato che, se le cose non cambieranno con l’ennesimo rinvio all’italiana – che pare si stia profilando in queste ore – dalla fine di luglio gli avvocati italiani si faranno il segno della croce al momento di depositare un appello o un ricorso per cassazione perché non sapranno se l’hanno fatto sul serio. Discreto lascito, questo della narrazione tecnologica fatta quasi sempre sulla pelle degli imputati, del governo Draghi e della ministra Cartabia in cerca di soldi europei.

In questo scenario viene bene anche una replica del mitico scontro con la magistratura, che ai tempi del Cav fu una cosa seria – e drammatica dal punto di vista dell’equilibrio dei poteri costituzionali – con le ripetute invasioni di campo del Terzo Potere a cui si oppose una resistenza fatta di ritirate e concessioni da parte degli altri, tutti gli altri, FI e PD per primi, secondo uno schema che vedeva la magistratura, il CSM e l’ANM, come vere e proprie controparti del potere legislativo. Solo che oggi non capita che tre PM si affaccino dalla tv per proclamare la propria opposizione ad una legge; oppure che il capo di una Procura, vestito e calzato in ermellino e tocco durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, proclami la “resistenza” contro le leggi del parlamento; ovvero che si sputtani in mondovisione il premier in carica recapitandogli un avviso per garanzia mentre sta seduto a tavola coi Grandi della Terra (…che comunque l’hanno già appreso dai giornali del mattino a cui la stessa Procura ha avuto la cortesia di recapitarlo in advance).

No, oggi ci tocca assistere alla riedizione della faccenda a proposito delle imprese di Delmastro o della Santanchè, che sono imbarazzanti quanto inconsistente è il loro paragone con i nefasti del passato. Come è imbarazzante ascoltare gli interventi sul tema della Premier la quale, con inflessione Roma Sud, rivendica prima il contenuto di un “lettera anonima” spedita da Palazzo Chigi e poi, senza soluzione di continuità, proclama che non ha intenzione di litigare coi magistrati su nulla. E qui noi malfidati guardiamo alla separazione di carriere in culla pronta ad essere sacrificata per l’ennesima volta sull’altare della pax giudiziaria con la magistratura. Alla quale magistratura, o per meglio dire alla sua rappresentanza sindacale, l’ANM, a sua volta, non pare vero di poter parlare dell’ennesimo tentativo farlocco di mettergli la museruola per rialzare un po’ la testa dopo anni di rappresentazioni a suon di chat di Palamara che ne hanno offuscato l’immagine.

Alla magistratura associata piace l’idea di poter finalmente trovare un giudice simbolo da mettere sotto tutela rispetto alle aggressioni governative e quindi sollecita prontamente al CSM l’apertura proprio di una “pratica a tutela”. A nessuno gli viene in mente, da quelle parti, di aprire identica pratica a tutela della presunzione di innocenza sulle esternazioni di qualche Procuratore troppo incline alle conferenze stampa; oppure di riflettere seriamente sul fatto che, se le scale del CSM sono state ritenute il luogo più sicuro per incontri tra consiglieri e rappresentanti politici, forse in tema di intercettazioni e trojan qui nel Bel Paese stiamo un po’ più in là dell’accettabile. No, i rappresentanti dei magistrati questo lo negano, perché siamo il paese delle garanzie e le intercettazioni come il trojan sono “irrinunciabili nella lotta contro il crimine”.

Concetto subito raccolto dai governativi che si affrettano a dire che, infatti, loro nulla faranno sul tema nella riformuccia di cui sopra se non garantire ai buoni, cioè a quelli che non c’entrano nulla le cui conversazioni finiscono regolarmente sui giornali e in TV, che ci penseranno loro ad evitarlo. Magari con qualche norma che complicherà la vita ai cattivi, cioè agli imputati e ai loro avvocati, impedendogli persino di ascoltare, leggere o avere copia di tutte le intercettazioni di un processo.

L’apoteosi dell’ammuina si raggiunge poi il consenso tripartisan su Gratteri capo in pectore della procura di Napoli. Qui sono d’accordo tutti, ma proprio tutti, destra, sinistra, centro e pure Renzi, che evidentemente ha questa fissazione da anni, visto che lo voleva fare ministro. No, rispetto ai temi della Giustizia e alla coerenza dei suoi attori aveva proprio ragione Marx, ma non il Karl citato all’inizio, Groucho, quando diceva: «questi sono i miei principi, se non vi piacciono ne ho altri». Sembra il motto della casa, qui da noi, quando si parla di Giustizia.

Valerio Spigarelli 15 Luglio 2023

Nordio: «La politica smetta di inchinarsi alla magistratura». Federico Novella su Panorama l'11 Luglio 2023

 Il testo della riforma che ha scatenato la bufera tra governo e toghe arriverà presto in Parlamento. Il ministro della Giustizia: “Nessuno vuole impedire alla magistratura di commentare le leggi sotto il profilo tecnico”

Dopo tante invettive tranchant, frutto di un’esasperazione del clima, da una parte e dall’altra, le parole del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sembrano riportare il discorso pubblico in un alveo di buon senso. “Mi rifiuto di pensare a magistrati che vogliono interferire nell’azione governativa attraverso azioni giudiziarie" – ha detto il Guardasigilli intervistato da Libero – con ciò sgombrando il campo dagli eccessi complottistici che stanno ancora avvelenando la Repubblica dopo 30 anni.I casi La Russa, Delmastro e Santanché, per il ministro, non sono collegati. Non c’è una manina che unisce le procure nello sferrare la bordata al governo. Ma, detto questo, e qui arriviamo al cuore del ragionamento di Nordio, c’è un grave vulnus di cui non riusciamo a liberarci. E riguarda l’indipendenza reciproca di politica e magistratura: una indipendenza che oggi esiste solo a metà, a vantaggio esclusivo delle toghe. “Ogni volta che si sia provato a fare una riforma della giustizia, è sempre stata bloccata con interventi giudiziari”, dice il ministro. Come se l’equilibrio tra poteri, da anni, fosse sbilanciato da una parte. Ma non è tutto. Dice Nordio – da liberale – che la colpa di questo squilibrio non è dei magistrati, che hanno il diritto di commentare e criticare sotto il profilo tecnico le leggi. No, la colpa è della politica che si è sempre “inchinata alla magistratura”. Il punto è fondamentale perché sposta la responsabilità non già sull’arroganza o sulle mire segrete di una parte della magistratura: Nordio ci sta dicendo che il problema a monte della giustizia è la debolezza della politica, che non ha mai avuto il coraggio di fare ragionamenti come questo: “Ascoltiamo tutti, ma poi, nel rispetto dei principi fondamentali, decidiamo noi”. La visione di Nordio centra il problema. La politica, e aggiungeremmo i grandi media, ancora abbassano il capo dinanzi alle mosse della magistratura. E se lo fanno, non è solo per mancanza di coraggio, ma spesso per semplice interesse. I giornali continuano ad acquisire veline segrete dalle procure per demolire esponenti politici (vedi Fontana), per poi dimenticarsi di tutto nel giorno dell’eventuale assoluzione. I politici, parallelamente, continuano a delegare parte del loro lavoro all’attività delle procure, continuano ad andare a ruota delle inchieste giudiziarie, spesso sorvolando su cosucce da nulla come la presunzione di innocenza. Tutto ciò deriva da un colossale vuoto di potere che ci trasciniamo dietro da anni: e i vuoti vengono riempiti, nel dibattito politico – da chi si prende la briga di farlo. Debolezza da una parte, interesse dall’altra. Due motivi fondanti che – nell’analisi di Nordio – raccontano molto delle storture decennali tra politica e giustizia. Non sarà facile superarle: occorre cambiare le leggi, certo. Ma prima ancora, occorre cambiare mentalità.

Dagospia il 29 giugno 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, come tu avevi già notato la presidente Meloni ha recuperato Luciano Violante a Palazzo Chigi con un incarico gratuito come presidente del comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale ed internazionali. 

Una scelta giusta per il galateo istituzionale quella di nominare un rappresentante della opposizione(!?!) ma una scelta che mi ha lasciato sbigottito. Non solo perché in parlamento c’è un altro ex presidente della Camera membro della opposizione ma per la storia di Violante. 

Io non ho alcuna antipatia o risentimento verso Violante (grazie a Dio non conosco quel sentimento come sa di Pietro) ma ragiono sempre di politica. Violante è quello che nel 1989 portò il vecchio PCI a votare contro il decreto Andreotti-Vassalli che raddoppiava la custodia cautelare per gli imputati di mafia, sostenendo l’uscita dei boss mafiosi arrestati da Falcone e Borsellino (bisognerebbe leggere gli stampati parlamentari dell’epoca).

Ma Violante è lo stesso che fece una guerra a Falcone facendo votare il PCI contro la istituzione della direzione nazionale antimafia e poi, con la sinistra giudiziaria, impedì che a guidarla fosse proprio Falcone. E tanto per completare fece votare il PCI contro la estensione del 41 bis (il carcere duro), nato per i brigatisti, agli imputati di mafia. 

Per brevità mi fermo qui (se questo atteggiamento l’avesse avuto la DC sarebbe stato definito il partito della mafia). Mi chiamo Paolo e apprezzo la strada di Damasco ma il pentimento, quello vero, presuppone una confessione che non ho mai letto. Ed allora resto basito e mi domando il perché di quella banale ma simbolica nomina. 

Quali saranno i luoghi della memoria e gli eventi da valorizzare? La procura di Milano, gli arresti, i suicidi o forse la destrutturazione del sistema politico italiano con i guasti dell’ultimo trentennio? E se fosse proprio quest’ultimo avvenimento a spingere la presidente del consiglio a questa simbolica nomina perché la destra di oggi deve essere grata a Luciano Violante, uomo di grande intelligenza?  Come si sa, però, l’intelligenza può essere un’aggravante perché anche il male si può fare bene.

Paolo Cirino Pomicino

Dagospia l'11 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Da diversi mesi il linguaggio e le opinioni di Luciano Violante sono musica per le orecchie delle persone per bene e rispettose della costituzione. Un linguaggio che fa a pugni con il Violante di 30 anni fa quando era presidente dell’antimafia. Ma ogni tanto dalla musicalità del linguaggio odierno scappa il “mostro” antico. 

Nell’intervista al Corriere della sera di ieri alla domanda che cosa volesse dire “andare alla radice” dello scontro tra politica e magistratura visto il suo passato politico il Violante di oggi risponde “ieri la politica aveva delegato alla magistratura la lotta alla mafia e alla corruzione e quindi la magistratura compartecipava alla sovranità parlamentare”. 

Oggi è di moda dire che qualcuno non conosce la vergogna e Violante è un campione su questo terreno. Tutti devono ricordare che Violante porto il suo PCI a votare contro il decreto Andreotti-Vassalli che raddoppiava i termini della custodia cautelare per evitare che uscissero dal carcere i boss mafiosi intrappolati da Falcone e Borsellino.

Bisognerebbe rileggere gli stampati parlamentari per leggere che Violante diceva che i mafiosi si potevano controllare anche fuori dal carcere! Violante portò il PCI a votare contro la istituzione della direzione nazionale antimafia voluta da Falcone contro il quale lo stesso Violante fece una lotta durissima e senza esclusione di colpi per evitare che fosse proprio Falcone a guidarla. Oggi lo elogia senza neanche abbassare lo sguardo!! 

Ci fermiamo qui nei ricordi (potremmo riempire pagine intere) perché quelli citati già spiegano da soli la falsa musicalità di ciò che oggi Violante dice senza fare ammenda del disastro politico che determinò insieme ad Occhetto scegliendo l’opzione giudiziaria per giungere al governo del paese come ci avvertì  per tempo Gerardo Chiaromonte, un comunista napoletano cresciuto all’ombra di Benedetto Croce.

Dovremmo prima o poi dire anche i nomi dei democristiani che lo seguirono per non avere neanche un avviso di garanzia. Se il ricordo non ci tradisce Dante mise i falsari nell’ottavo cerchio dell’inferno mentre noi speriamo sempre che Violante è i DC che lo seguirono trovino il coraggio di pentirsi per davvero perché questa Repubblica ha davvero bisogno di tutti.

 Paolo Cirino Pomicino

"La guerra dei trent'anni non è mai finita. I magistrati si sentono polizia morale del paese". Pigi Battista, il saggista commenta le ultime tensioni: "Il problema non sono le inchieste ma il connubio avvelenato e ancora vivo fra segmenti delle Procure e giornali". Stefano Zurlo l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Forse, siamo tornati al ’92.

«No, non c’è nessun ritorno - risponde Pigi Battista, editorialista e saggista - semplicemente questa storia non è mai finita». 

Il conflitto fra politica e magistratura?

«No, mi spiace, qui non c’è un conflitto: una parte della magistratura, quella che ruota intorno all’Associazione nazionale magistrati, ha aggredito il Palazzo. È un’altra cosa».

Loro dicono di perseguire i reati.

«Non è vero. Piuttosto si ergono a guardiani della legalità, sono una sorta di polizia morale». 

Oggi sono indagati alcuni autorevoli membri del centrodestra di governo o loro familiari. Che cosa dovrebbero fare i pm?

«Nessuno dice di non sviluppare le indagini, ci mancherebbe, ma qui c’è una trama diversa. Il connubio avvelenato fra segmenti delle procure e stampa porta a una character assassination, alla demonizzazione di persone che magari non sono indagate o non sanno di esserlo, come Daniela Santanchè che l’ha appreso dai quotidiani, in un turbine di rivelazioni o pseudo rivelazioni. Una pioggia che distrugge la reputazione di una persona e altera la nostra democrazia. È trent’anni che andiamo avanti così, e nessuno riesce a distinguere le vicende: è tutto uguale che tu sia indagato o imputato o condannato in primo grado».

Molte inchieste si sono chiuse con assoluzioni e proscioglimenti. 

Questo non stride con quello che lei sostiene?

«Al contrario. Questo prova che è solo un pezzo della magistratura, la parte più politicizzata, che si comporta così. Questo prova invece che siamo alla barbarie: in queste ore la corte d’appello di Milano ha confermato il proscioglimento del presidente della Regione Attilio Fontana per l’acquisto dei camici. Va bene, ma il massacro è già avvenuto. Si ricorda? Le tv e i giornali, il conto in Svizzera, la mamma dentista e il cognato, il citofono, le urla “ladro”, “ evasore” e tutto il resto. Questo è rivoltante». 

Qualcosa è cambiato rispetto agli anni di Tangentopoli?

«Certo, un monumento del giustizialismo come Piercamillo Davigo è caduto nella polvere e, anzi, fino a questo momento, è ritenuto colpevole. E poi c’ è stato il caso Palamara e non solo quello, ma il meccanismo non si è mai inceppato». 

Il meccanismo?

«Si, quello di cui parlavo prima. Comincia a circolare un’accusa, al di là della qualità delle persone su cui pure si potrebbero avanzare obiezioni, e poi ti dicono che sei coinvolto. Che vuol dire coinvolto? Non importa. Ti trovi lo stigma addosso e tutto quello che succede dopo ha un’importanza relativa. Perché dobbiamo leggere sui giornali le chat del caso La Russa? Naturalmente, e mi rivolgo ai giornali vicini alla destra, lo stesso rispetto dovrebbe valere per il figlio di Grillo». 

La libertà di stampa?

«Un mediocre copia e incolla che fa a pezzi la Costituzione, il garantismo, la presunzione di innocenza e la regola aurea che le indagini dovrebbero essere svolte in forma riservata e soprattutto il processo non dovrebbe essere fatto in piazza, a colpi di intercettazioni, suggestioni, mozziconi di frasi pescate qua e là. È tutto distorto, ma poi se dovessimo mettere in fila tutte le assoluzioni di questi trent’anni, non basterebbero tre pagine di giornali». 

Come si esce da questa situazione?

«Il governo vari le riforme che ha abbozzato. Sull’abuso d’ufficio sono d’accordo anche i sindaci di sinistra, sulla separazione delle carriere c’è una disponibilità del Terzo Polo. Andiamo avanti, poi certo, gli esponenti della maggioranza imparino a usare con più rigore le parole. Se discetti di sostituzione etnica, come ha fatto il ministro Lollobrigida, devi sapere di cosa parli. Prima di aprire la bocca, meglio contare fino a tre». 

Finirà questa guerra?

«Non so. Io so come è partita questa malattia: con Tortora e con la debolezza mostrata dalla politica in quell’occasione». 

A cosa si riferisce?

«Sull’onda del caso Tortora, gli italiani votarono in massa a favore dell’introduzione della responsabilità civile dei giudici, ma la legge che fu approvata era una pistola scarica, una presa in giro. Allora quel pezzo di potere dentro la magistratura capì che l’avversario era debole, vulnerabile, e partì all’attacco. Trent’anni dopo siamo ancora allo stesso punto».

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera domenica 9 luglio 2023.

Ha detto di recente il ministro Carlo Nordio che il conflitto tra politica e giustizia fu avviato dalla Procura di Milano con l’invito a presentarsi nelle vesti di indagato recapitato «a mezzo stampa» all’allora premier Silvio Berlusconi, nel novembre 1994. 

In realtà, quello stesso anno, proprio il governo Berlusconi aveva già provato — in piena estate — a depotenziare le indagini e il potere dei magistrati con il decreto ribattezzato «salva-ladri», ritirato a seguito delle dimissioni in diretta tv dei pubblici ministeri di Mani Pulite. E l’anno precedente un altro governo, guidato da Giuliano Amato, fu stoppato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro nel tentativo di depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti, dopo le proteste del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli.

Il pool Quell’esecutivo era stato decimato dalle dimissioni a catena dei ministri colpiti dagli avvisi di garanzia e quello successivo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nacque azzoppato dopo che le Camere avevano respinto a scrutinio segreto le richieste di autorizzazione a procedere contro il segretario del Psi Bettino Craxi. Seguirono proteste di popolo, a cui la gioventù missina in cui già militava Giorgia Meloni diede il suo contributo stringendo in simbolico assedio il palazzo di Montecitorio sotto lo slogan «Arrendetevi, siete circondati», e la successiva abolizione dell’autorizzazione a procedere.

Poi nel ’94, al momento di formare il suo primo governo composto anche da eredi del Movimento sociale italiano, Berlusconi tentò di arruolare come ministri due pm simbolo di quella stagione giudiziaria, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, con la mediazione di Cesare Previti e Ignazio La Russa. I due declinarono l’invito, ma successivamente Di Pietro fu arruolato come ministro da Romano Prodi, entrò in Parlamento e fondò addirittura un suo partito. 

(...) Poi quando Berlusconi tornò al potere si aprì la stagione delle leggi ad personam per indirizzare i processi a favore del premier-imputato, con il conseguente compattamento delle toghe, di tutte le correnti e di tutti i colori, a difesa dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione, messa sotto attacco da governo e Parlamento. Un po’ quello che è successo (in piccolo) ad aprile, quando il ministro Nordio ha avviato l’azione disciplinare contro tre giudici di Milano «colpevoli» di aver messo agli arresti domiciliari il russo ricercato dagli Usa in attesa di estradizione e fuggito per tornare in patria; un’iniziativa politica per addossare al potere giudiziario la responsabilità di una crisi diplomatica.

Il conflitto continuo Ma pure nell’ultimo decennio, con il fondatore di Forza Italia non più al centro della scena (anche per via della decadenza da senatore seguita alla condanna definitiva del 2013), il conflitto tra potere esecutivo e legislativo da un lato e giudiziario dall’altro, s’è riproposto a fasi alterne. Un po’ per l’uso strumentale delle vicende giudiziarie o para-giudiziarie da parte della politica, e un po’ per i ricorrenti tentativi di condizionare indagini e processi attraverso riforme che dovevano porre rimedio a iniziative della magistratura ritenute condizionanti della politica e del funzionamento della democrazia.

Perché l’uso e l’abuso politico e mediatico di certe inchieste e sentenze (indagini all’apparenza infondate o stravaganti, condanne destinate a ribaltarsi in assoluzioni e viceversa) non ha portato al più mite consiglio di evitare strumentalizzazioni e conclusioni affrettate (come le richieste di dimissioni per un avviso di garanzia o un verdetto non definitivo), bensì al ricorrente tentativo di imbrigliare la magistratura e i suoi rappresentanti. Basti pensare a Matteo Renzi, che prima di diventare «garantista» e autodefinirsi vittima designata delle «toghe rosse» invocava defenestrazioni di questo o quel ministro proprio a partire dalle loro disavventure para-giudiziarie; e s’è ritrovato un paio di suoi deputati di fiducia nei conciliaboli paralleli e clandestini per decidere le nomine al di fuori del Consiglio superiore della magistratura.

Oggi il governo Meloni, con due magistrati seduti in altrettanti posti-chiave (oltre al ministro Nordio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, virtuoso esempio di «porte girevoli» tra potere politico e giudiziario, se quella pratica non fosse additata come perniciosa), si sente accerchiato dalle toghe sospettate di fare opposizione politica, anziché amministrare giustizia. Immaginando chissà quali complotti e strategie comuni tra Procure e tribunali diversi. In questo clima sono state proposte riforme che, se pure avessero un fondamento, nascono inevitabilmente sotto la cattiva stella della vendetta o del «fallo di reazione».

Provocando ancora una volta le proteste della magistratura, alle quali la politica reagisce con il consueto richiamo alla separazione dei poteri (che nessuno mette in dubbio, ma non importa). Forse confidando che tra le toghe qualcuno cominci a stancarsi e cedere, dopo trent’anni e più di conflitti sempre uguali a se stessi. O quasi.

L’Italia com’è. Il corto circuito politica-giustizia non è nato con Berlusconi e non poteva finire con lui.  Francesco Cundari su L'Inkiesta il 10 Luglio 2023

Per cambiare qualcosa bisognerebbe scomporre i blocchi di potere che in questi trent’anni si sono consolidati dietro ciascuno schieramento. O altrimenti rassegnarsi a questa trentennale diatriba tra diverse fazioni sempre alla ricerca dell’impunità per sé e della gogna per i propri nemici

Se qualche ingenuo immaginava che la scomparsa di Silvio Berlusconi avrebbe fatto scomparire anche il problema dello scontro permanente tra politica e giustizia, le vicende di questi giorni, culminate nelle gravissime dichiarazioni consegnate alle agenzie da «fonti di Palazzo Chigi», hanno cancellato ogni residua illusione. Del resto, il problema era cominciato prima di Berlusconi, nel 1992, con l’inchiesta Mani Pulite, e non c’era ragione di pensare che sarebbe svanito dopo. Si potrebbe anzi sostenere che Berlusconi di quel problema sia stato semmai una conseguenza, più che una causa, ma sarebbe una discussione noiosissima.

Più divertente è notare come il fronte dei garantisti, quelli cioè che vorrebbero farla finita con l’uso politico della giustizia e l’abuso delle intercettazioni, al momento sia impegnato a difendere il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e il suo compagno di partito Giovanni Donzelli dall’accusa di avere spifferato (il primo) e indebitamente utilizzato in parlamento contro l’opposizione (il secondo) il contenuto di alcuni colloqui intercettati in carcere.

Per chi si fosse distratto o avesse dimenticato qualche dettaglio, è forse opportuno ricordare come la difesa non consista nel mettere in dubbio che i due esponenti di Fratelli d’Italia abbiano fatto esattamente questo, ma nel sostenere che non ci fosse niente di male nel farlo. Inutile aggiungere che il primo a tenere questa bizzarra linea difensiva sia stato proprio il ministro Carlo Nordio (con la singolare distinzione tra atti riservati e a «limitata divulgazione», che evidentemente si possono declamare in parlamento durante una diretta televisiva, se questo è utile ad attaccare l’opposizione, e atti «segreti»). Nordio, peraltro, aveva già dimostrato la tempra del suo garantismo prendendo a suo tempo le parti di Matteo Salvini, quando da ministro dell’Interno chiudeva i porti e lasciava per giorni centinaia di naufraghi in balia dei sondaggi.

È insomma sempre, sempre, sempre la stessa storia: in Italia il populismo giustizialista è l’ideologia dominante nel novantanove per cento dei partiti, sostituita da un inflessibile garantismo soltanto quando sotto accusa c’è qualcuno dei loro, almeno nei partiti di destra. Per i partiti di sinistra bisogna infatti che l’accusato sia anche della stessa corrente, vedi altrimenti il trattamento riservato a Matteo Renzi (nel caso vi fosse sfuggito il trafiletto: i suoi genitori sono stati definitivamente assolti in Cassazione). Per non parlare di giornali, televisioni e circoli intellettuali.

La divisione tra berlusconiani e antiberlusconiani sulla giustizia è stata solo un aspetto del trentennale gioco di interdizione reciproca con cui il bipolarismo italiano ha posto il dibattito pubblico su un binario morto. Che si tratti di riforma della giustizia o di leggi elettorali, federalismo o presidenzialismo, in Italia è sempre il giorno della Marmotta. Il gioco ricomincia sempre da capo, senza andare mai da nessuna parte.

Per cambiare qualcosa bisognerebbe poter mischiare le squadre, scomporre i blocchi di potere e di consenso che in questi trent’anni si sono consolidati dietro ciascuno schieramento, dentro e accanto alle diverse corporazioni (a cominciare da quella, potentissima, dei magistrati). Operazione difficilissima e spericolata, perché vorrebbe dire spezzare una rete fittissima di solidarietà e complicità trasversali (la prima separazione delle carriere da imporre, si è detto spesso e giustamente in proposito, sarebbe quella tra pubblici ministeri e giornalisti).

Oppure possiamo rassegnarci a questa stucchevole diatriba tra diverse fazioni – composte in egual misura da magistrati, politici e giornalisti – che da trent’anni si battono in nome di principi a loro estranei ancor prima che ignoti, impegnate come sono a chiedere ogni giorno l’impunità per sé e la gogna per i propri nemici. Spesso, purtroppo, ottenendole entrambe. L’Italia com’è.

La nemesi dell'Associazione magistrati. Quei leader finiti nei guai con la giustizia. Da Palamara a Bruti e Davigo, quanti vertici sindacali inquisiti. Domenico Ferrara il 10 Luglio 2023 su Il Giornale.

Si potrebbe definire la maledizione dell'Anm. Nello scontro infuocato tra magistratura e governo c'è un dato che fa sorridere, soprattutto se collegato alla levata di scudi delle toghe rosse contro il tentativo di riforma della giustizia da parte di Nordio e Meloni. Parliamo del rapporto con la giustizia proprio di coloro che presiedono il sindacato della magistratura. Già, perché se si ripercorrono gli ultimi anni, si noterà che non sono pochi i presidenti dell'Anm che sono finiti invischiati in indagini, scontri interni, processi e condanne.

Il caso sicuramente più famoso è quello di Luca Palamara, che ha da poco patteggiato a un anno con pena sospesa per quanto riguarda il filone principale dell'inchiesta che lo ha visto imputato a Perugia prima per corruzione, reato poi derubricato nel meno grave traffico di influenze illecite.

E che dire poi dell'ex presidente dell'Anm Piercamillo Davigo? Investito in pieno dalla nemesi, uno dei principali simboli del giustizialismo italiano il 20 giugno scorso è stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia a un anno e tre mesi con la sospensione condizionale della pena. Motivo? Rivelazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria. Sintomatiche le parole del pm Donato Greco sul suo conto: «Si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l'unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po' di tempo vanno a finire sui giornali». Ancora più dure quelle scritte nero su bianco nelle motivazioni della sentenza: «Modalità quasi carbonare» e «smarrimento di una postura istituzionale», solo per citare le più roboanti.

Nel novero dei presidenti dell'Anm finiti nelle maglie della giustizia rientra pure Edmondo Bruti Liberati che, negli anni in cui era a capo della procura di Milano e andava in scena la guerra con il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, venne indagato a Brescia con l'accusa di omissione di atti d'ufficio e denunciato al Csm in merito a presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli ai vari pool. Nel 2015 entrambi i litiganti finirono sotto i riflettori della sezione disciplinare del Csm.

Infine, nel 2017, l'allora presidente dell'Anm e pm della Procura di Roma Eugenio Albamonte venne indagato per falso e abuso d'ufficio dopo un esposto presentato da Giulio Occhionero, l'ingegnere nucleare accusato, assieme alla sorella Francesca Maria, di una attività di cyberspionaggio. Iscrizione nel registro degli indagati considerata all'epoca un atto dovuto. Eppure ci vollero comunque tre anni prima che lo stesso Albamonte venisse prosciolto. Insomma, ora che la storia si ripete e l'Anm accusa il governo di mettere in atto una delegittimazione della categoria e di sferrare un attacco alla democrazia non si può dire che l'Anm abbia proprio un rapporto cristallino con la stessa giustizia di cui si erge a difensore. Da che pulpito viene la predica, direbbe qualcuno.

Il (non) diritto di veto. Più di vent'anni fa scrissi un editoriale su La Stampa dal titolo "I centauri", per descrivere quei magistrati che ambiscono con i loro comportamenti ad avere anche un ruolo politico. Augusto Minzolini il 10 Luglio 2023 su Il Giornale.

Più di vent'anni fa scrissi un editoriale su La Stampa dal titolo «I centauri», per descrivere quei magistrati che ambiscono con i loro comportamenti ad avere anche un ruolo politico. Mi querelò l'intero pool di Mani Pulite, Ilda Bocassini compresa. Persi. All'epoca toga non mordeva toga. Mesi dopo Antonio Di Pietro entrò in politica. E non si contano le inchieste del pool che hanno condizionato la nostra storia.

Ma cosa significa per un giudice svolgere un ruolo politico? Per averlo non bisogna fondare per forza un partito. Anzi, da quel punto di vista Di Pietro è stato trasparente: ha appeso la toga ad un chiodo ed è entrato in Parlamento. Molto peggio è aver la pretesa di fare in un modo o nell'altro politica indossando ancora la toga. E, diciamocelo francamente: condizionare il Parlamento nelle sue scelte, immaginare di avere un diritto di veto su una riforma della giustizia significa assumere una funzione politica. Perché, magari lo abbiamo dimenticato, i magistrati debbono applicare le leggi, non scriverle. Questo è un compito che spetta esclusivamente al Parlamento espressione del popolo.

Invece, a leggere in controluce l'uscita dell'altro giorno dell'Anm e del suo presidente, si arriva a dire che la riforma della giustizia è sbandierata dal governo «come punizione della magistratura». Un giudizio che solo per gli orbi non ha una valenza politica. Né i magistrati - per il delicato compito che svolgono - possono dire «sì» o alla separazione delle carriere tra giudici e pm o bocciare la proposta del governo di abolire l'abuso d'ufficio. O meglio possono dire la loro quando sono convocati dal Parlamento, ma non bombardare l'opinione pubblica con interviste e prese di posizione, magari arrivando a dire che l'abolizione dell'abuso d'ufficio favorisce la corruzione, perché è un modo per intervenire nel processo legislativo. Sono giudizi che esulano dalla loro funzione, perché dire «no» significa collocarsi all'opposizione del governo che propone la riforma e, quindi, nei fatti, assumere una posizione politica. Se poi alle critiche sprezzanti si accompagnano tre giorni in cui alcuni esponenti del partito di maggioranza relativa finiscono nel mirino della magistratura, non può non sorgere il dubbio che una parte delle toghe abbia assunto il ruolo di supplenza di un'opposizione incapace. Dubbio che gli ultimi decenni di storia patria trasformano in un sospetto.

La verità è che lo scontro tra governo e magistratura nasce dalla pretesa delle toghe di poter esercitare una sorta di diritto di veto quando il Parlamento legifera in materia di giustizia. L' atteggiamento che negli ultimi trent'anni ha bloccato ogni ipotesi di riforma seria del nostro sistema giudiziario. Eppure tra gli illeciti disciplinari previsti nell'operato di un magistrato c'è anche «l'uso strumentale» del proprio ruolo «diretto a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste». In primo luogo il Parlamento. Nella seconda Repubblica ci sono stati tanti proclami da parte delle toghe, contro infinite proposte di legge, ma questa norma non è mai stata applicata. Tanti proclami. Sicuramente troppi. Visto che ormai non suscitano più nell'opinione pubblica conati di giustizialismo.

Ingiustizia a orologeria. Tommaso Cerno su L'Identità l'8 Luglio 2023 

C’è un problemino giustizia che si chiama orologio. Di fronte a qualunque accusa lo scontro politico dura in media 5 settimane, poi a nessuno frega più nulla. Un governo in Italia, salvo eccezioni, dura in media due anni e mezzo poi o cade o comunque cambia, almeno qualche pezzo forte. Un processo penale per giungere a una sentenza di Cassazione dura in media 1500 giorni, cinque anni circa, cui bisogna aggiungere un bel annetto di indagini.

In un Paese del genere, dove la verità giudiziaria prevista dalla Costituzione arriva sempre e comunque a babbo morto, mentre tutto lo scontro sulle accuse che si basano sul punto di vista degli inquirenti e di nessun altro ha l’immediatezza dei fatti, non potrà mai trovare un equilibrio e quindi una regola di buon senso e di rispetto per i cittadini che valga per tutti. È ovvio che in assenza del giudizio definitivo e terzo che la nostra Carta assegna alla magistratura, il resto è opinione. Per cui da una parte abbiamo chiavi di lettura più o meno bacchettone che vorrebbero dimissioni di fronte alla prima parolaccia, e di qua gente che invoca il garantismo anche di fronte all’omicidio plurimo filmato da un telefonino perché, come è di moda dire in questi tempi, uno è innocente fino in Cassazione.

Poi portiamo ad esempio altri Paesi, dove invece c’è una morale pubblica che prevede passi indietro per molto meno di una sentenza. Questo è vero però bisogna anche dirsi la verità sul fatto che si tratta di tradizioni giudiziarie che non massacrano gli indagati facendo uscire sui giornali anche la marca dei preservativi e l’elenco degli amanti, oltre che di tradizioni democratiche che prevedono che un processo duri meno possibile, proprio perché è il tempo la variabile che rende il giudizio pubblico disancorato da quella che comunque sarà una realtà giuridica quando ormai lo scontro e le eventuali decisioni si saranno consumato e prese.

Ecco che proprio di fronte al solito caos italiano per cui al centro della politica in un modo o nell’altro finiscono sempre i magistrati sarebbe oggi necessario sostenere una riforma della Giustizia che può dividere i partiti e gli schieramenti nel merito dell’utilizzo delle intercettazioni o sulla separazione delle carriere, ma dovrebbe vederli uniti in modo indissolubile sulla necessità di arrivare a un adeguamento della procedura penale che consenta di aprire la sentenza definitiva entro un tempo ragionevole e inferiore ai due anni. Questo non succederà mai, per cui prepariamoci all’ennesima stagione delle sparate pro e contro, basate su ideologie, interessi di questo o quell’editore, smania di click, tempo da perdere.

Tanto ormai sappiamo che anche l’alluvione dell’Emilia Romagna è sparita in pochi giorni dalle prime pagine e dalle televisioni, per non parlare di Ischia che è bella e dimenticata come fosse successa nel secolo scorso, così come lo youtuber di Casal Palocco se ne sta in casa agli arresti ma di tutto il clamore e le grandi rivoluzioni promesse in nome di quel clamore nel giro di una decina di giorni non si sente più fiatare. Perché questa è l’Italia, è sempre stata così e resterà così. E allora smettiamola di parlare di giustizia a orologeria. Perché l’orologio della legge rimane indietro rispetto alla realtà del quotidiano. E questo è un male per il Paese e per milioni di cittadini normali che magari non finiscono sui giornali ma che si vedono la vita congelata per anni mentre ognuno di noi pensa di avere capito chi sono i buoni e chi sono i cattivi.

Anm risponde al governo: “Delegittimata la magistratura. Non possiamo tacere”. Redazione su L'Identità l'8 Luglio 2023 

“Non meglio precisate fonti di palazzo Chigi hanno accusato parte della magistratura di schierarsi” e “alle voci di delegittimazione” si è aggiunto anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio. A denunciare è il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che parla di “un’accusa pesantissima che colpisce al cuore la magistratura” e che sottolinea: “Non si arretra quando si tratta di difendere i valori della Costituzione”.

Dopo le accuse arrivate da parte del governo – secondo “Un certo potere costitutivo vuole farci cadere” facendo opposizione – Santalucia risponde: “Non vogliamo alimentare lo scontro”, ma dice: “Avremmo gradito una smentita” dopo le accuse, “e invece l’indomani due note di fonti ministeriali, con paternità dell’ufficio stampa del ministero della Giustizia sono intervenuti sugli stessi fatti”.

Il Presidente Anm parlando al Comitato direttivo centrale, in riunione al palazzo della Cassazione ha poi specificato: “Lo scontro che subiamo si è alzato senza che noi abbiamo fatto nulla” ma che “ci chiama a qualche chiarimento, perché accuse pesanti ci impongono di chiarire per evitare silenzi che apparirebbero equivoci”. L’Anm “non ha alcuna voglia di alimentare lo scontro, ma quando il livello dello scontro si alza il nostro silenzio sarebbe l’impacciato mutismo di chi non sa reagire con fermezza a una politica muscolare rivolta a un’istituzione di garanzia”.

“Noi interveniamo senza soluzioni pregiudiziali, non apparteniamo a nessun partito e interveniamo esercitando un diritto di associazione, attenti a farlo riempiendo la nostra presenza con contenuti – ha continuato Santalucia -. Ma invece di parlare di contenuti critici si è spostato il dibattito sulla questione del diritto di parola dell’Anm. Siamo un’associazione libera e trasparentissima, non abbiamo nulla da nascondere né abbiamo bisogno di riconoscimenti di legittimazione”.

E ha concluso con un appello al governo, chiedendo con “umiltà” di “cambiare passo”: “Non si può andare a una riforma costituzionale con questo passo, come risposta reattiva a un provvedimento fisiologico di un giudice che non piace perché colpisce qualcuno che è al governo”. 

Giustizia, l'Anm è allergica alle critiche: “Governo fazioso contro i magistrati”. Adriano Bonanni su Il Tempo il 09 luglio 2023

Puntuale, dopo le polemiche dei giorni scorsi sull’uso «distorto» delle comunicazioni giudiziarie nei confronti degli indagati, è arrivata la replica dell’Associazione nazionale magistrati. Ed è un attacco a testa bassa al governo, con il sindacato delle toghe che rimanda indietro l’accusa di aver provocato uno scontro con la maggioranza e boccia in toto la riforma della giustizia del ministro Nordio. Critiche durissime, come sempre accade ogni volta che la politica propone una riforma che riguarda le toghe. «Allergiche» a qualsiasi tipo di intervento che riguardi il loro potere. Così il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, parlando alla riunione del comitato direttivo centrale che si è svolto ieri a Roma, attacca a testa bassa: «Parlare di interferenze con la politica quando si esercita la giurisdizione e quando si esercita il diritto di associazione e di manifestazione del pensiero è un modo fuorviante che avvelena il clima e dà della magistratura un’immagine distorta, di un organo non più di garanzia ma partigiano nella lotta politica e questo danneggia non solo i magistrati ma innanzitutto la qualità della nostra democrazia». «Gli organi di stampa parlano da giorni di uno scontro tra politica e giustizia - prosegue - Che sia chiaro: l’Anm e la magistratura non sono in scontro con nessuno, non alimentano polemiche, non vogliono che ai contenuti di alcuni interventi critici e ai provvedimenti giudiziari si sostituisca un dibattito sterile. Cosa che ci riporta a un passato lontano dal quale vogliamo prendere le distanze».

E c’è anche la rivendicazione di poter intervenire sulle riforme: «I magistrati fanno il loro mestiere nelle aule - assicura Santalucia - lo fanno anche quando l’imputato è un politico e questo non cambia il loro modo di essere, il loro modo di esercitare la giurisdizione con rigore ed approfondimento. L’Anm da sempre rivendica un suo diritto e dovere di parola nel dibattito pubblico sulle riforme. Questa non è un’interferenza né un modo di invadere il campo della politica ma è semmai un rapporto costruttivo con la politica perché possa migliorare se nel caso le riforme che vengono poste all’attenzione del Parlamento». L’accusa del governo alla magistratura è «gravissima» secondo Santalucia - che tira in ballo addirittura le europee del 2024 - perché è quella di «schierarsi in maniera faziosa nello scontro politico in vista delle elezioni europee. Qui non si tratta di criticare la magistratura, se si fa bene o male qui siamo di fronte a una critica che nega in sé l’esistenza della magistratura. Se un magistrato è fazioso, se è politicamente schierato non è un cattivo magistrato, semplicemente non è un magistrato». Poi l’affondo contro il ministro Carlo Nordio: «Il sospetto», è che il tema della separazione delle carriere e le altre riforme nel settore della giustizia vengano sbandierate dalla politica, come misura di «punizione nei confronti della magistratura. Noi siamo intervenuti portando nel dibattito pubblico critiche argomentate al ddl, non apparteniamo a nessun partito e interveniamo esercitando un diritto di associazione».

Ma nel mirino c’è tutta la riforma della giustizia che il sindacato boccia completamente. Al sindacato non piace l’abolizione del reato di abuso d’ufficio perché sarebbe «in contrasto con l’indirizzo politico perseguito a livello internazionale, consistente nel potenziamento degli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione, ed espongono l’Italia al rischio di procedure d’infrazione»; non piace la riformulazione del reato di traffico d’influenze illecite perché «finirebbe con il rendere leciti comportamenti pericolosi per la formazione delle decisioni della Pubblica amministrazione, suscettibili di inquinare il processo decisionale e la comparazione degli interessi attinti dall’esercizio del potere pubblico»; non piace l’idea di un collegio dei Giudici per le indagini preliminari che decida sulle misure di custodia cautelare perché «appare di difficile attuazione già nei grandi tribunali e sarà pressoché impossibile da gestire negli uffici medio-piccoli». E infine non piace la limitazione del potere di appello del pm perché rischia «di entrare in frizione con i principi scolpiti nella sentenza della Corte Costituzionale numero 26 del 2007, che già si pronunciò sulla precedente legge cosiddetta Pecorella, sostanzialmente nel medesimo senso».

Meloni: “Un certo potere costituito vuole farci cadere. Non ci fermeremo”. Redazione su L'Identità l'8 Luglio 2023 

Prima Santanchè, poi Delmastro, fino a La Russa. Il governo Meloni sembra essere sotto assedio, ma la premier aveva messo in conto che durante il suo operato “un certo potere costituito” si sarebbe dato da fare “per fermare le riforme che abbiamo messo in cantiere”. Adesso, riporta il Corriere della Sera, “l’attacco è arrivato” ma non intende fare passi indietro. “Continuerò il mio lavoro con serenità, sono soddisfatta degli ottimi risultati sul piano interno e in politica estera e resto concentrata sul lavoro quotidiano e sul consenso degli italiani”, avverte la leader.

Le indagini sulla ministra Santanchè, l’imputazione coatta per il segretario Delmastro fino alla denuncia nei confronti del terzogenito del presidente del Senato, hanno convinto la premier a dichiarare “guerra” alla Magistratura. “Ho preso atto che si vuole alzare lo scontro, ma non sono io che ho aperto le ostilità e continuerò a non rispondere alle provocazioni”. Un’accusa alla Magistratura che, dice, ha iniziato “anzitempo” la campagna elettorale per le Europee.

La tesi di Palazzo Chigi, riporta il Corriere è che “un certo potere costituito” vada contro l’esecutivo. “Chi spera di poter mettere in discussione il governo sarà deluso. Io non posso impedire che cerchino di farci cadere, ma il tentativo non arriverà in porto. Andremo avanti con le riforme perché le ritengo necessarie per il bene del Paese, a cominciare da quella della giustizia”.

Estratto da mowmag.com sabato 8 luglio 2023.

Nel giro di poche ore il governo è finito sotto il fuoco della magistratura. Le toghe si danno un gran da fare per mettere nel mirino l'esecutivo di centrodestra, che nonostante tutto cresce nei sondaggi. Tre casi in poche ore: Santanché, Delmastro e il figlio di Ignazio La Russa. Saranno soltanto coincidenze? Ci crede poco Vittorio Feltri, giornalista di lungo corso e direttore da sempre garantista, che ci ha raccontato come mai questo “tempismo” lo insospettisce 

(...) Altra partita quella di La Russa, visto che il presidente del Senato non è coinvolto direttamente, ma certamente le accuse verso il figlio (indagato per violenza sessuale) mettono in imbarazzo. Intanto Vittorio Feltri ci ha spiegato perché ha dei dubbi su tutti e tre i casi: “Io di puttanate fatte dalla magistratura ho il taccuino pieno...”.

La Russa, Delmastro, Santanchè, tutti casi così delicati in poche ore. Le sollevano qualche dubbio?

Mi sembra ovvio che ce l'abbiano con la destra, in quanto al comando. E siccome non riescono a fare un'opposizione accettabile, utilizzano gli amici della magistratura per andare in cu*o al governo. Nella giustizia è sempre stato pieno di anomalie, partendo dal caso di Enzo Tortora che ho seguito io quarant'anni fa fino ad ora, per cui non mi stupisco più di niente. 

È normale che un ministro venga a sapere da un giornale che è sotto inchiesta?

Ma è ovvio, è tutto distorto, però non è una novità, non lo scopriamo mica oggi che la giustizia fa cagare. Poi che i giornali facciano il loro lavoro e riescano ad avere notizie, anche riservate, non è mica la prima volta.

Quindi il quotidiano Domani ha fatto soltanto il suo lavoro?

È stata una forzatura, ma se è sicuro di quello che ha scritto è perché qualche magistrato gliel'ha detto, non scherziamo. Per cui il problema è la giustizia, non il giornale. Io sono amico della Santanchè e so anche che è una persona perbene, però è normale che un giornale che riesce ad avere una notizia riservata, di cui peraltro ha la certezza, la scriva e questo succede da sempre. Ma se vogliamo che non succeda più, è il caso di fare una legge per cui i giornali non possono pubblicare certi atti giudiziari finché non sono giunti al diretto interessato. Io di puttanate fatte dalla magistratura ne ho un taccuino pieno. 

Quali sono gli errori giudiziari più clamorosi che le vengono in mente?

Il più clamoroso è quello che ho scoperto io, il caso Tortora. Poi ce ne sono tanti altri che mi lasciano dubbioso, di cui però non ho le prove. Posso discuterne sul giornale e nessuno me lo può vietare, sono infatti convinto che Bossetti sia innocente, che la condanna che hanno inflitto al ragazzo che dicono abbia ammazzato la fidanzata (Stasi) non sia plausibile, perché è stato assolto in primo grado, poi in secondo grado e poi la Cassazione lo condanna a 16 anni, ma siamo impazziti? Allora i magistrati precedenti erano deficienti? 

Cosa cambierebbe nella giustizia italiana?

Secondo me i gradi di giudizio dovrebbero essere applicabili solo in un caso, ovvero nel momento in cui l'imputato, condannato in primo grado, richieda di accedere a un secondo grado di giudizio, ma nel momento in cui si è assolti da un primo magistrato non vedo perché ce ne debba essere un altro che contraddice il primo. Direi che una aggiustatina alla magistratura bisogna dargliela.

Luca Palamara: "La pm che indaga Santanchè..." Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'08 luglio 2023

«Mi pare chiaro il tentativo di unire vicende diverse tra loro con l’unico obiettivo di indebolire il governo», afferma Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati durante gli anni ruggenti dello scontro toghe-politica.

Dottor Palamara, si ricomincia? Siamo tornati ai tempi dei governi Berlusconi?

«In questo caso non partirei dalla magistratura ma dal corto circuito che in Italia ciclicamente si verifica quando tutto ciò che “non è sinistra” va al governo. In Italia funziona così da 30 anni. Ora che il centrodestra è di nuovo al potere l’anomalia del rapporto tra politica e magistratura si accentua. Ecco, allora, il disperato tentativo di una parte della informazione, saldata con la parte più politicizzata della magistratura, di strumentalizzare singole vicende del processo di turno per trasformarle in un casus belli di rilevanza politica. Si tratta di un film già visto e ampiamente raccontato nel libro Il Sistema. È illusorio tentare di risolvere il problema con un approccio “soft” sul tema delle riforme o, ancor peggio, cercando un lascia passare da parte della intera magistratura. Per fortuna ci sono tanti magistrati, la maggioranza, che sono estranei a queste dinamiche».

I maligni hanno notato che le magistrate che hanno in carico i due fascicoli sono toghe di sinistra: la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio per il procedimento Santanchè, e la gip romana Emanuela Attura, segretaria distrettuale dell’Anm, per la vicenda Delmastro. Coincidenza?

«Faccio una banale riflessione. Se il “metodo Santanchè” fosse stato applicato alla dottoressa Pedio, sarebbe stata costretta a dimettersi quando venne indagata dalla Procura di Brescia a seguito della accuse del collega Paolo Storari nella vicenda delle mancate iscrizioni nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni di Pietro Amara sulla Loggia Ungheria. Nessuno in quel momento gli chiese di chiarire pubblicamente quelle gravi accuse. Per quanto riguarda Attura ho avuto modo di conoscerla come una giudice preparata e corretta. Sulla vicenda Delmastro, però, penso che alcune deposizioni rese da autorevoli dirigenti del Ministero della giustizia, che ho letto in quanto arbitrariamente pubblicate da alcuni giornali, abbiano finitoper complicare il quadro di valutazione della giudice. In ogni caso, fuori da ogni ipocrisia, si tratta di notizie che normalmente circolano e che ben poco hanno di riservato, come aveva ritenuto la Procura».

Il centro destra è “attrezzato” per gestire i rapporti con la magistratura?

«Storicamente il partito che ha investito di più nei rapporti con la magistratura è stato il Pci-Pds-Ds-P d e le correnti più ideologizzate dalla magistratura hanno da sempre “flirtato” con quel mondo, con inevitabili riflessi nello svolgimento dei processi. La magistratura non è immune dai vizi e dalle virtù di altri contesti. Quanti dirigenti pubblici sono stati nominati dal Pd ed ancora oggi rivestono ruoli di potere? Rispetto a questo schema è chiaro che un governo di centrodestra deve inevitabilmente comprendere i meccanismi che presiedono un sistema oramai consolidato di potere che si tramanda da anni e che i racconti fatti al direttore Alessandro Sallusti nel libro Il Sistema hanno contribuito a far comprendere».

Con un comunicato stampa i magistrati progressisti hanno paragonato il voto questa settimana del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per il procuratore di Firenze ad una “ingerenza”, come accaduto la sera dello Champagne. Pinelli come Luca Lotti?

«Il diritto di critica è riconosciuto a chiunque, come insegna la Costituzione. Quando però si trasforma in accuse così gravi bisogna andare fino in fondo perché altrimenti rimane un pesante sospetto sul numero due del capo dello Stato. Se chi ha scritto queste cose non ha le prove e non le fornisce è giusto che nelle sedi opportune vengano presi provvedimenti disciplinari come già accaduto in vicende analoghe negli anni passati».

Ha sbagliato la ministra a riferire in Parlamento?

«Bisogna finirla con il doppiopesismo ed in particolare con il garantismo a corrente alternata, altrimenti si finisce per fare un processo in pubblico su fatti e vi- cende che debbono essere verificate solo nelle sedi giudizia- rie. Basta con la strumentalizzazione del processo penale per risolvere i problemi della vita politica».

I “giornaloni” sono scesi subito in campo dando grande visibilità a queste inchieste, con le solite fughe di notizie. Un classico?

«Ovvio. È davvero singolare leggere che Repubblica contesta a Delmastro di essersi impossessato di un brogliaccio di conversazioni e di averle consegnate clandestinamente al suo coinquilino. Fino a quando gli italiani debbono essere presi in giro in questa maniera da chi pratica da sempre questo genere di comportamenti?»

A proposito di fughe di notizie, che fine ha fatto la sua denuncia alla Procura di Firenze riguardo le intercettazioni segrete nell’ambito dell’indagine che l’ha coinvolta e che furono pubblicate a maggio del 2019?

«Ad oggi nessuna risposta. Si tratta di vicende sulle quali i miei avvocati andranno fino in fondo anche per chiarire le ragioni di questi ritardi». 

I debiti del giustizialismo. Quante volte un'inchiesta giudiziaria che ha azzoppato un leader o, addirittura, ha condizionato o interrotto una fase politica è finita in un'assoluzione o addirittura in un'archiviazione prima del processo? Tante. Troppe. Augusto Minzolini '8 Luglio 2023 su Il Giornale.

Quante volte un'inchiesta giudiziaria che ha azzoppato un leader o, addirittura, ha condizionato o interrotto una fase politica è finita in un'assoluzione o addirittura in un'archiviazione prima del processo? Tante. Troppe. Ne sanno qualcosa Berlusconi, Salvini, Renzi (per parlare solo della seconda Repubblica), ma anche esponenti di medio calibro della politica che si sono visti rovinare la carriera da iniziative giudiziarie che poi non hanno portato a nulla.

Ed ancora: quante volte le procure, quelle più politicizzate, hanno preso di mira una maggioranza o il partito principale di una coalizione di governo che ha tentato di riformare un sistema giudiziario che continua ad essere ancora oggi inefficiente e ingiusto? Innumerevoli. Dal decreto di Alfredo Biondi del primo governo Berlusconi in poi, il filo che lega l'intera storia della Seconda Repubblica è lo scontro sulla giustizia. Che al di là dei casi personali vede sul palcoscenico due poteri, quello politico e quello giudiziario. Con il secondo che non riconosce al primo la possibilità di legiferare sulle proprie prerogative per paura di perdere l'influenza che era riuscito a strappare negli anni di Tangentopoli.

Uno scontro che ha avuto le sue vittime: personaggi esposti al pubblico ludibrio dal circo mediatico-giudiziario, vittime di accuse che poi si sono sciolte come neve al sole ma che nel frattempo hanno determinato conseguenze politiche. Anche perché l'obiettivo di certe inchieste che hanno costellato questi trent'anni era, appunto, squisitamente politico: i racconti di Luca Palamara, un ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, ora trattato dai suoi colleghi né più, né meno come i mafiosi un tempo trattarono il pentito Tommaso Buscetta, stanno lì a dimostrarlo.

Uno scontro che ha visto da una parte un potere compatto, almeno nelle sue avanguardie (quello giudiziario), e un altro diviso perché in politica c'è sempre chi tenta di approfittare dei guai dell'avversario, salvo poi riconoscere che qualcosa non funziona quando a sua volta si diventa bersaglio. Uno scontro che era nelle cose perché un potere punta sempre ad allargare la sua sfera di influenza, è inevitabile: non per nulla un principio sacrosanto come l'autonomia della magistratura nella nostra Costituzione aveva come contrappeso l'immunità parlamentare, che fu attenuata nel 1993 aprendo la strada allo strapotere delle toghe. Un istituto che un giurista illustre come Costantino Mortati aveva voluto alla Costituente per evitare che un atto dell'autorità giudiziaria potesse essere ispirato da una valutazione o da un orientamento politico. E allora non c'erano le toghe rosse o le correnti in magistratura.

Risultato: a ripercorrere con la memoria questi trent'anni troviamo tante carriere spezzate da indagini farlocche e, ancora peggio, governi silurati e stagioni politiche interrotte da iniziative mediatico-giudfiziarie inventate. Il debito pesante che il giustizialismo nostrano ha contratto con le vittime e il Paese.

Da Mastella alla Santanchè: quando la giustizia è una mannaia. Le cronache politiche sono piene di casi in cui i ministri, indagati, si sono dovuti dimettere. Per poi venire assolti. Lorenzo Grossi l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il solito dibattito de "dimissioni sì o dimissioni no", che ciclicamente si scatena a ogni avviso di garanzia a un ministro, appare del tutto inconsistente visti i polveroni con i quali si sono concluse numerose inchieste della magistratura. Adesso tocca a Daniela Santanchè e ad Andrea Delmastro essere sollecitati dalle opposizioni a compiere un passo indietro. Tuttavia l'elenco degli esponenti di governo che sono stati costretti a lasciare il proprio incarico a causa di scandali giudiziari, rivelatisi poi delle incredibili bolle di sapone, è sterminato. E riguardano esecutivi sia di centrodestra sia di centrosinistra. 

Nel 2006 Francesco Storace si dimise da ministro della Salute nel governo Berlusconi per il cosiddetto "Laziogate". Condannato in primo grado a un anno e sei mesi, venne assolto in Appello "perché il fatto non sussiste". Da titolare del dicastero della Giustizia, Clemente Mastella annunciò nel gennaio 2008 di lasciare il governo Prodi (che cadde pochi giorni dopo) per essere stato accusato dalla procura di Santa Maria Capua Vetere di presunti illeciti nelle nomine alle Asl. Risultato: assoluzione per lui e per la moglie, la quale nel frattempo era anche finita anche ai domiciliari. Una vasta eco mediatica coinvolse anche Claudio Scajola: nel 2010 era ministro dello Sviluppo economico con Silvio Berlusconi premier e dovette abbandonare il proprio incarico per la vicenda della casa davanti al Colosseo: l'inchiesta aperta per finanziamento illecito finì nel nulla. Sono poi i governi Letta e Renzi ad affrontare le fuoriuscite dei membri dell'esecutivo. Durante il primo, l'ex segretario del Partito Democratico ebbe parecchi grattacapi. Dal Cdm uscirono prima Josefa Idem e poi Nunzia De Girolamo. 

La campionessa di canoa venne investita da voci su presunte evasioni di Ici e Imu a seguito di un accertamento disposto dal Comune di Ravenna: addio al ministero dello Sport nonostante non fosse ancora indagata. Coinvolta nello scandalo che aveva interessato l'Asl di Benevento, poco dopo si dimetterà anche la De Girolamo (poi assolta) come responsabile delle Politiche agricole. Matteo Renzi si insediò a Palazzo Chigi al posto di Letta e il suo ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, venne preso d'assalto dai processi mediatici per l'inchiesta "Grandi opere" che vedeva coinvolte alcune persone a lui vicine. Per i giustizialisti a tempo pieno non c'erano alternative: pur non essendo nemmeno indagato, l'attuale leader di Noi con l'Italia si dimise. La pubblicazione nel 2016 di intercettazioni penalmente irrilevanti portò anche ai saluti di Federica Guidi - mai sfiorata da un avviso di garanzia - dallo Sviluppo economico. 

Anche il Conte 1 ebbe i suoi problemi politico-giudiziari. Edoardo Rixi venne nominato viceministro ai Trasporti: il Movimento 5 Stelle non si oppose all'ingresso nel governo di una persona rinviata a giudizio per peculato ma, ignorando il principio di presunzione d'innocenza, si scagliò lo stesso contro il leghista quando, nel maggio 2019, fu condannato in primo grado. Rixi, comunque, si dimise seduta stante. Quel caso giudiziario terminò (naturalmente) con un'assoluzione in Appello, confermata dalla Cassazione. Ma se dai grillini - a proposito di garantismo - non c'è nulla di cui meravigliarsi, il Pd dovrebbe invece ricordarsi di quello che capitò ai suoi Vasco Errani e Simone Uggetti: furono scagionati anni dopo dai reati a loro addebitati, ma entrambi persero il posto da governatore emiliano e da sindaco di Lodi per i quali i loro cittadini li avevano regolarmente legittimati.

Politica e magistratura, uno scontro lungo 30 anni. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera sabato 8 luglio 2023. 

Dal salva-ladri alle toghe rosse. Quegli intrecci e conflitti (sempre uguali a sé stessi) 

Mani Pulite, apice dello scontro tra politica e magistratura nel novembre 1994, dopo l’invito a comparire recapitato a Silvio Berlusconi

Ha detto di recente il ministro Carlo Nordio che il conflitto tra politica e giustizia fu avviato dalla Procura di Milano con l’invito a presentarsi nelle vesti di indagato recapitato «a mezzo stampa» all’allora premier Silvio Berlusconi, nel novembre 1994. In realtà, quello stesso anno, proprio il governo Berlusconi aveva già provato — in piena estate — a depotenziare le indagini e il potere dei magistrati con il decreto ribattezzato «salva-ladri», ritirato a seguito delle dimissioni in diretta tv dei pubblici ministeri di Mani Pulite. E l’anno precedente un altro governo, guidato da Giuliano Amato, fu stoppato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro nel tentativo di depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti, dopo le proteste del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli.

Il pool

Quell’esecutivo era stato decimato dalle dimissioni a catena dei ministri colpiti dagli avvisi di garanzia e quello successivo, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nacque azzoppato dopo che le Camere avevano respinto a scrutinio segreto le richieste di autorizzazione a procedere contro il segretario del Psi Bettino Craxi. Seguirono proteste di popolo, a cui la gioventù missina in cui già militava Giorgia Meloni diede il suo contributo stringendo in simbolico assedio il palazzo di Montecitorio sotto lo slogan «Arrendetevi, siete circondati», e la successiva abolizione dell’autorizzazione a procedere. Poi nel ’94, al momento di formare il suo primo governo composto anche da eredi del Movimento sociale italiano, Berlusconi tentò di arruolare come ministri due pm simbolo di quella stagione giudiziaria, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, con la mediazione di Cesare Previti e Ignazio La Russa. I due declinarono l’invito, ma successivamente Di Pietro fu arruolato come ministro da Romano Prodi, entrò in Parlamento e fondò addirittura un suo partito.

Gli anni Novanta

Sono alcune scene tratte dall’ultimo decennio del secolo scorso per documentare come lo scontro — ma anche l’incontro — tra politica e giustizia si ripete ciclicamente da più di trent’anni, in forme spesso simili e in alcuni casi con gli stessi attori. Con età, responsabilità e posizioni diverse, ma identici nomi e cognomi. Del resto, se c’è uno che ha beneficiato della rivoluzione giudiziaria del 1992-93 per poi venirne inghiottito, è proprio Berlusconi. A dimostrazione che l’intreccio tra destini politici e azioni (o reazioni) della magistratura può avere esiti altalenanti e imprevedibili. Per chiunque.

La bicamerale

Quando a palazzo Chigi salì Massimo D’Alema, la commissione bicamerale per le riforme istituzionali stava marciando diritta verso la separazione delle carriere tra pm e giudici, stoppata dall’opposizione dell’Associazione magistrati (sotto la protezione istituzionale del presidente Scalfaro) prima ancora che dalla decisione del leader di Forza Italia di tirarsene fuori. Poi quando Berlusconi tornò al potere si aprì la stagione delle leggi ad personam per indirizzare i processi a favore del premier-imputato, con il conseguente compattamento delle toghe, di tutte le correnti e di tutti i colori, a difesa dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione, messa sotto attacco da governo e Parlamento. Un po’ quello che è successo (in piccolo) ad aprile, quando il ministro Nordio ha avviato l’azione disciplinare contro tre giudici di Milano «colpevoli» di aver messo agli arresti domiciliari il russo ricercato dagli Usa in attesa di estradizione e fuggito per tornare in patria; un’iniziativa politica per addossare al potere giudiziario la responsabilità di una crisi diplomatica.

Il conflitto continuo

Ma pure nell’ultimo decennio, con il fondatore di Forza Italia non più al centro della scena (anche per via della decadenza da senatore seguita alla condanna definitiva del 2013), il conflitto tra potere esecutivo e legislativo da un lato e giudiziario dall’altro, s’è riproposto a fasi alterne. Un po’ per l’uso strumentale delle vicende giudiziarie o para-giudiziarie da parte della politica, e un po’ per i ricorrenti tentativi di condizionare indagini e processi attraverso riforme che dovevano porre rimedio a iniziative della magistratura ritenute condizionanti della politica e del funzionamento della democrazia. Perché l’uso e l’abuso politico e mediatico di certe inchieste e sentenze (indagini all’apparenza infondate o stravaganti, condanne destinate a ribaltarsi in assoluzioni e viceversa) non ha portato al più mite consiglio di evitare strumentalizzazioni e conclusioni affrettate (come le richieste di dimissioni per un avviso di garanzia o un verdetto non definitivo), bensì al ricorrente tentativo di imbrigliare la magistratura e i suoi rappresentanti. Basti pensare a Matteo Renzi, che prima di diventare «garantista» e autodefinirsi vittima designata delle «toghe rosse» invocava defenestrazioni di questo o quel ministro proprio a partire dalle loro disavventure para-giudiziarie; e s’è ritrovato un paio di suoi deputati di fiducia nei conciliaboli paralleli e clandestini per decidere le nomine al di fuori del Consiglio superiore della magistratura.

Oggi il governo Meloni, con due magistrati seduti in altrettanti posti-chiave (oltre al ministro Nordio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, virtuoso esempio di «porte girevoli» tra potere politico e giudiziario, se quella pratica non fosse additata come perniciosa), si sente accerchiato dalle toghe sospettate di fare opposizione politica, anziché amministrare giustizia. Immaginando chissà quali complotti e strategie comuni tra Procure e tribunali diversi.

In questo clima sono state proposte riforme che, se pure avessero un fondamento, nascono inevitabilmente sotto la cattiva stella della vendetta o del «fallo di reazione». Provocando ancora una volta le proteste della magistratura, alle quali la politica reagisce con il consueto richiamo alla separazione dei poteri (che nessuno mette in dubbio, ma non importa). Forse confidando che tra le toghe qualcuno cominci a stancarsi e cedere, dopo trent’anni e più di conflitti sempre uguali a se stessi. O quasi.

Ritorno a Camaldoli: il codice che fondò la rinascita italiana ispira una politica attenta alla persona. Il centro monastico in provincia di Arezzo ha dato il suo nome a quell’appello che è passato agli annali come Codice di Camaldoli. Un testo che aveva rimesso il mondo del cattolicesimo democratico al centro della vita politica italiana. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Luglio 2023 

Camaldoli, Arezzo, dove la storia incrocia la spiritualità, ieri è stata Capitale per un giorno. Accolti dai monaci benedettini – e da filari di cipressi secolari che il Solleone non riesce a piegare – si sono raccolti in una giornata di studio e di contemplazione il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi e una decina tra i più autorevoli rappresentanti delle università italiane.

Il centro monastico in provincia di Arezzo ha dato il suo nome a quell’appello che è passato agli annali come Codice di Camaldoli. Un testo che aveva rimesso – in quella tempestosa estate di “transizione” del 1943 – il mondo del cattolicesimo democratico al centro della vita politica italiana.

L’appuntamento di ieri è stato la grande occasioni per celebrare gli ottanta anni del documento ‘Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale’. È considerato l’atto fondativo dell’impegno dei cattolici per ridare al Paese, allora dilaniato dalla guerra voluta dal regime fascista, l’ossatura di una organizzazione pre-politica legata ai valori della libertà e della democrazia. La prima sottoscrizione, nero su bianco, di una chiamata alla mobilitazione civica.

A firmarla fu un gruppo di intellettuali cattolici, molti dei quali furono poi padri costituenti. È al loro lavoro, pietra miliare nella costruzione della democrazia, che si è indirizzato il Presidente Mattarella: “A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti – afferma il capo dello Stato -. Ecco allora che il testo ‘Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale’, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli. Da qui venne la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato – con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica – da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi”.

Ed è proprio Mattarella a offrirci uno specchietto utile per preservare la memoria: “Dal cosiddetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle ‘idee ricostruttive della Democrazia Cristiana’, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata”.

Anche il cardinale Zuppi è intervenuto sulla pace in Europa: “Dobbiamo constatare che la pace non è mai un bene perpetuo neanche in Europa”. E poi ha risposto senza giri di parole al tema dell’impegno politico dei cattolici: “Uno dei problemi di oggi – ha proseguito – è il divorzio tra cultura e politica, non solo per i cattolici, consumatosi negli ultimi decenni del Novecento, con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno, con poche visioni, segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati, molto polarizzati”.

“Dovremmo diffidare di una politica così – ha aggiunto -, ma spesso ne finiamo vittime, presi dall’inganno dell’agonismo digitale che non significa affatto capacità, conoscenza dei problemi, soluzione di questi. Cioè, il tradimento della politica stessa!”. Poi è tornato sul vuoto di rappresentanza, sempre più evidente. ‘’La disaffezione dalla politica non può non interrogarci’’, ha richiamato Zuppi. “C’è chi chiede alla Chiesa di favorire incontri dei cattolici sui temi civili. Capisco l’esigenza e sono disponibile ad aiutare iniziative di questo tipo, proprio perché senza interessi immediati, personalistici o di categoria”.

Secondo Zuppi, “i credenti devono avere il coraggio, nel rispetto delle diverse sensibilità, di interrogarsi dialogando e ascoltandosi”. “Lo devono fare singolarmente, ma anche insieme, perché solo attraverso un lavoro comune possono mettere a fuoco ‘principi dell’ordine sociale’, per usare il linguaggio del Codice”, ha sottolineato. E poi il suo appello: “Oggi la democrazia appare infragilita e in ritirata nel mondo.

Ecco un campo cui i cristiani devono applicarsi, interrogandosi su come deve essere la democrazia nel XXI secolo, vivere quell’amore politico senza il quale la politica si trasforma o si degenera”. Richiami alti, ai quali i primi chiamati a rispondere sono gli interlocutori del mondo accademico. Il primo a intervenire con una relazione ieri è stato il professor Tiziano Torresi, dell’Università Roma Tre. Oggi parleranno Alberto Guasco, dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea – CNR, Angelo Maffeis, Presidente dell’Istituto Paolo VI, Marta Cartabia, dell’Università Bocconi, Alessandro Angelo Persico, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Nel pomeriggio spazio ai contributi di Francesco Bonini, rettore dell’Università Lumsa, Marialuisa Lucia Sergio, dell’Università degli Studi Roma Tre, Daria Gabusi, dell’Università “Giustino Fortunato” di Benevento. L’ultima sessione, domani, prevede le riflessioni di Sebastiano Nerozzi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Enrica Chiappero Martinetti, dell’Università degli Studi di Pavia, Paolo Acanfora, dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza.

L’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha raccomandato attenzione a un Pd che invece si allontana sempre più – si veda la posizione della Schlein sulla Gpa – dalle sensibilità cattoliche. Per il capogruppo Iv al Senato, Enrico Borghi: “Le indicazioni e le riflessioni che ci giungono da Camaldoli, nel ricordo del “Codice” che fondò la rinascita italiana, ci parlano del recupero di una politica attenta alla persona, al pensiero, alla riflessione, ai valori. Sono aspetti che ci trovano attenti e interessati”. Sarà il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, a celebrare domenica la messa conclusiva del convegno.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Cosa è il codice di Camaldoli, la pietra angolare della Costituzione. Il documento stilato 80 anni fa dagli intellettuali cattolici ha rappresentato un importante passaggio tra il nuovo che stava arrivando e il vecchio che stava crollando. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 14 Luglio 2023

La quasi perfetta contemporaneità nel luglio 1943 tra l’inizio del convegno degli intellettuali cattolici a Camaldoli per scrivere il Codice, transitato poi ampiamente nella nostra Costituzione, e il crollo di Mussolini, ha indubbiamente rappresentato un passaggio importantissimo tra un nuovo che si veniva a creare al posto del vecchio che stava crollando.

Vale però la pena di segnalare alcuni elementi di complessità, che si coglie bene soprattutto dalle memorie di un autorevole partecipante, Paolo Emilio Taviani. Anzitutto non vanno sottovalutate le differenze interne. Quelli che si incontravano non erano tutto il mondo cattolico. C’erano delle differenze passate che incidevano sul presente. Non c’era stata concordanza di visioni nel mondo cattolico complessivamente inteso: il mondo degli ex fucini riunito a Camaldoli, a partire da Montini (non presente di persona), era sempre stato ostile ad una collaborazione col regime, a differenza di Gedda e Gemelli.

Ciò spiega anche la principale novità del testo di Camaldoli rispetto alla dottrina sociale consolidata: per gli autori del Codice le suggestioni del corporativismo, del protezionismo autarchico, non si sarebbero potute salvare nel nuovo quadro democratico, in quanto legate indissolubilmente ad una forma autoritaria di Stato. Non si poteva salvare un corporativismo buono diverso da quello fascista. Ferma questa novità, attenta alle dinamiche delle economie dei Paesi democratici, guai poi a pensare che fosse tutto chiaro e definito. C’era ancora un dilemma tra la posizione sostenuta dagli ambienti più conservatori a partire dal cardinale Tardini, che intendevano favorire un pluralismo politico convinti che questo avrebbe pesato a favore della destra, e i sostenitori di un’unità politica necessitata dal probabile scontro internazionale Usa-Urss con i suoi riflessi interni, che de Gasperi e Montini intravvedevano da allora.

Non a caso qualche anno dopo ritroveremo Tardini neutralista e scettico sull’adesione dell’Italia alla Nato e Montini nettamente favorevole. Solo l’unità dei cattolici raccomandata dalla gerarchia a partire dall’iniziativa degasperiana avrebbe in seguito garantito un ancoraggio democratico aperto. Per questo vi è un’omissione nel Codice con la totale mancanza di riferimenti ai partiti. Chiarita questa complessità di fondo quali i pregi e quali i limiti del Codice? I pregi sono quelli transitati negli articoli della Costituzione economica: la dignità del lavoro, i limiti alla proprietà privata, il giusto salario, i sussidi di disoccupazione, i diritti pensionistici, la tutela della salute del lavoratore, l’importanza dei sindacati, l’estensione dell’istruzione alle classi più deboli e più in generale il concetto ampio di bene comune, prima identificato soprattutto col ruolo della Chiesa per la salvezza delle anime a cui lo Stato avrebbe dovuto dare spazio a prescindere dalle sue caratteristiche più o meno liberali o democratiche.

Il modello interventista così delineato era certo discontinuo rispetto a visioni da Stato minimo e corporative, ma non era comunque statalista perché esso si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale e valorizzava la Repubblica in chiave di sussidiarietà più che lo Stato. In questo era almeno parzialmente diversa rispetto alla nota impostazione dossettiana: secondo il politico reggiano l’obiettivo doveva essere ben più elevato, quello di rifacimento dall’alto della società civile, come dichiarato poi nel discorso ai Giuristi Cattolici del 1951. Obiettivo difficilmente conciliabile con una democrazia liberale perché, come rilevato da Scoppola, finiva per riproporre un sostanziale monopolio del bene comune da parte dello Stato, “non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”.

Perché segnalare questi pregi? Perché in anni recenti gli articoli della Costituzione economica sono stati superficialmente accusati di statalismo, dimenticando appunto i due aspetti chiave. Il primo è che gli autori erano anche contemporaneamente sostenitori del progetto europeo, che portava con sé la lotta a chiusure corporative: ruolo dello Stato e limiti alla sovranità verso l’alto si tenevano insieme; quando l’articolo 41 della Costituzione parla di “controlli” lo fa anche per prevenire la formazione di monopoli, ossia al tempo stesso per fini sociali e strumenti liberali. Il secondo è la valorizzazione della sussidiarietà: come ricordava Vittorio Bachelet in sintonia con Taviani l’articolo 41 della Costituzione ha preferito la parola “programmi” a quella di “piani” per indicare una programmazione per incentivi, per premi e punizioni, più che attraverso una gestione diretta statale generalizzata.

I limiti del Codice consistono nell’uso tradizionalistico del diritto naturale: ritroviamo tra l’altro il carattere gerarchico del rapporto marito-moglie nel matrimonio, la distinzione tra figli legittimi e illegittimi col rifiuto di equipararne i diritti, le scuole riservate alle sole donne per la loro funzione familiare, il rifiuto della libertà religiosa con la sola ammissione della tolleranza. Questa parte sembra segnata in modo marcato dall’eredità negativa dell’intransigentismo e, quindi, dall’insistenza su una sorta di peculiarità italiana, da una debolezza del Paese che solo una sorta di tutela religiosa avrebbe potuto innervare e salvare.

Posizioni ribadite poi nella Settimana Sociale del 1945, che non trovavano consenziente il Presidente del Consiglio de Gasperi, che le affrontò anche con una certa efficace ironia: “Ci si trova in un’atmosfera ossigenata. Non sempre quando si scende dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e direi non sempre la tessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una terza via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione”.

Dall’azione dello statista trentino si dipanò una completa iniziativa a vocazione maggioritaria, che il Codice aveva anticipato nella parte economico-sociale, ricorrendo anche a un cattolico di tradizione socialista come Ezio Vanoni. Ogni tanto viene richiamato a torto, in modo antistorico, come base per iniziative cattoliche nostalgico-identitarie, per auto-ghettizzazioni, quando fu appunto allora, con i limiti delle divisioni dell’epoca, esattamente il rovescio: un contributo laico per tutti.

Stefano Ceccanti 14 Luglio 2023

Benigni e l’omaggio a Bernardo Mattarella a Sanremo: chi era il padre del capo dello Stato. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

Politico, più volte ministro, antifascista, fu tra i pionieri della Dc e si batté per l’unità d’Italia, contro il separatismo siciliano

Inedito omaggio di Roberto Benigni ai padri costituenti sul palco dell’Ariston: «Tra questi - ha detto -c’era Bernardo Mattarella, il padre del presidente, al quale va il nostro applauso. Lei e la Costituzione avete avuto lo stesso padre - dice il premio Oscar rivolto al capo dello Stato - possiamo dire che è sua sorella». Il Presidente della Repubblica, che ha chiamato uno dei suoi figli Bernardo, si è messo una mano sul cuore e ha sorriso, emozionato.

La scaletta e il racconto della prima serata di Sanremo in diretta

Ma chi era Bernardo Mattarella? Il padre del capo dello Stato, anch’egli politico e più volte ministro, era nato a Castellammare del Golfo nel 1905 ed è morto a Roma il 1° marzo del 1971, a 66 anni. Oltre al presidente della Repubblica, ha avuto altri tre figli dalla moglie Maria Buccellato— Antonino, Caterina, e Piersanti, il presidente della Regione siciliana assassinato da Cosa Nostra il 6 gennaio 1980.

Proveniente da una famiglia storicamente di marinai e navigatori, Bernardo Mattarella scelse la strada del diritto e della politica: si laureò in giurisprudenza nell’agosto del 1929 all’Università degli Studi di Palermo e intanto aderì al Partito popolare di Luigi Sturzo, svolgendo le mansioni di segretario della sezione di Castellammare. Antifascista, contrario al separatismo siciliano, partecipò negli anni tra il 1942 e il 1943 alle riunioni clandestine guidate da Alcide De Gasperi per porre le basi della Democrazia cristiana, e poi fondò la Dc siciliana.

Prima assessore comunale a Palermo, poi sottosegretario alla Pubblica istruzione nei primi due governi del Comitato di Liberazione nazionale, divenne vice segretario della Dc nel luglio del 1945, affiancando proprio De Gasperi. Il 18 aprile 1948, alle elezioni del primo parlamento repubblicano, Mattarella fu eletto alla Camera nella circoscrizione della Sicilia occidentale, nella quale sarebbe stato poi sempre rieletto. Negli anni ha ricoperto diversi incarichi: da ministro della Marina mercantile a ministro dei Trasporti, dal dicastero degli Esteri a quello delle Poste e Telecomunicazioni, dall’Agricoltura al Commercio con l’Estero. Nel terzo governo Moro Mattarella non fu ministro per motivi di equilibrio tra le correnti democristiane, come disse Moro in una lettera con cui ringraziava Mattarella per il lavoro svolto al governo. Mattarella rientrò nella direzione nazionale della DC.

Alle politiche del 1968, a meno di tre anni dalla morte, fu eletto per l’ultima volta alla Camera dei deputati e in quella legislatura divenne presidente della commissione Difesa della Camera dei deputati. Morì in seguito ad un malore alla Camera, l’esito tragico di una malattia di cui soffriva da alcuni mesi.

Estratto dell'articolo di Augusto Minzolini per “il Giornale” il 9 febbraio 2023.

Per molti il fatto che i consiglieri di amministrazione Rai, cioè i rappresentanti dei partiti, siano venuti a conoscenza della partecipazione del Capo dello Stato solo poche ore prima dell’inizio del Festival di Sanremo significa poco. Una quisquilia, una delle tante querelle che hanno fatto la storia dell’azienda di viale Mazzini.

 In realtà offrono uno spaccato reale su chi conta davvero nella tv pubblica, cioè nella più grande industria culturale del Paese.

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Sono loro che si sono presentati sotto gli occhi benevoli del capo dello Stato come i depositari dello spirito della Nazione, magari - ma questa è solo una suggestione - contro quelli che vogliono modificare la nostra Carta. Come se dopo tanti discorsi sulle riforme ipotizzare qualche cambiamento possa essere considerato un attentato: e pensare che sono stati gli stessi padri Costituenti a dettare le regole per aggiornarla.

Pure la presenza di Mattarella ha avuto una valenza sul piano della comunicazione: è stata - altra suggestione - una risposta indiretta e subliminale a chi aveva criticato la presenza di Zelensky al festival osservando che un capo dello Stato non va ad un festival di canzonette. A questo punto se c’è stato il presidente italiano perché non poteva fare la sua apparizione anche quello ucraino?

 Ecco i Presta e i Beppe Caschetto (per fare un altro nome), con gli artisti, i giornalisti, i cantanti che rappresentano, sono quelli che in fondo hanno le chiavi del cappello culturale del festival come pure della tv pubblica. Sono i padroni di casa coperti dall’anonimato. E possono infischiarsene del cda, del presidente o dell’ad della Rai: quelli passano con le legislature, loro no.

E hanno sostituito il potente «partito Rai» che ha assicurato l’egemonia della sinistra sulla tv pubblica per decenni. Solo che quel partito era dentro l’azienda, ne interpretava lo spirito a suo modo, loro invece ne sono fuori.

 E, al di là della bravura dei nuovi Mangiafuoco dello spettacolo, se giocare un simile ruolo nella tv commerciale è legittimo - ci mancherebbe! - tanta influenza sulla tv pubblica fa sorgere il dubbio che i discorsi in Parlamento sull’imparzialità della Rai e sulle direttive che dovrebbe dare all’azienda la commissione di Vigilanza, siano solo fiato sprecato.

Estratto dell'articolo di Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2023.

Una volta si diceva “nani e ballerine”, oggi parliamo di “attori e influencer” ma la sostanza non cambia. Ci riferiamo allo spettacolo che si fa politica, ma anche fin qui nulla di nuovo. La cosa però cambia se la politica si affida al puro spettacolo per coprire i suoi vuoti di contenuti e le sue incapacità. Cosa intendo?

Che una volta la sinistra parlava per bocca di Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer mentre oggi fa sue e rilancia in chiave anti destra – non sappiamo quanto autorizzata - le parole pronunciate sul palco del Festival di Sanremo da un attore giullare, Roberto Benigni, e da una star del web esperta in cosmesi e biancheria intima, Chiara Ferragni, il primo a parlare del perché non bisogna toccare la Costituzione, la seconda della libertà delle donne, anche quella di andare in giro seminude.

 Ora, a parte che non risulta da nessuna parte che le destre non amino la nostra Costituzione e tantomeno la libertà delle donne - una di loro, Giorgia Meloni, si è presa addirittura la libertà di diventare Presidente del Consiglio- non è vero che la sinistra, alla pari dei sacri padri costituenti, ritenga “immodificabile” la Costituzione tanto che per ben cinque volte dalla sua entrata in vigore prima il Pci, poi il Pds e infine il Pd hanno provato a cambiarla senza però venirne a capo.

A parte tutto questo è sempre più evidente l’inutilità che il Pd si tormenti a cercare un segretario leader se poi i loro punti di riferimento sono due simpatici e bravi miliardari, Benigni e Ferragni, che dietro lauto compenso si prestano a salire sul palco per recitare la parte di quelli politicamente corretti e quindi per definizione una parte di sinistra.

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Sancalimero. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2023.

Perché la maggioranza di governo si è messa all’opposizione di ? Perché sussulta ogni volta che sul palco qualcuno elogia la Costituzione o condanna il razzismo, cioè dice cose sacrosante e anche piuttosto ovvie che di sicuro non infastidiscono gli elettori di centrodestra, a meno di non voler supporre che i dieci milioni che guardano il Festival siano tutti orfani del Pd? Eppure Salvini parla di Sanremo come se si trattasse di una succursale della Festa dell’Unità, La Russa sostiene di non averlo ancora visto e il ministro della Cultura Sangiuliano, quasi volesse compensarne l’eccessivo sbilanciamento a sinistra, invoca per stasera un ricordo delle foibe. Ora, lasciamo perdere Fedez, che lo ha esplicitato in modo brutale, stracciando la foto del viceministro travestito da Hitler (anche il viceministro, però…). E ammettiamo che gli «ideologi» del Festival abbiano davvero costruito la scaletta col preciso scopo di dimostrare che i diritti civili sono valori a cui la destra è refrattaria. Ma se era una trappola, perché cascarci dentro così? I vecchi democristiani non lo avrebbero mai fatto: erano più furbi o, forse, più sicuri di sé. Questi invece hanno la sindrome di Calimero e nutrono il loro vittimismo con un costante complesso di inferiorità, peraltro smentito dai successi elettorali. Sono al potere, ma per un riflesso condizionato di comodo continuano a comportarsi come se fossero all’opposizione, oltretutto in un Paese governato non da Togliatti, ma da Amadeus. 

Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 9 febbraio 2023.

Abbiamo, tutti, capito tutto, quando abbiamo visto Amadeus, ieri mattina, mettere in riga Salvini con più fierezza e con più nerbo di Enrico Letta: «Se non le piace si guardi un film».

 Toh, chi l’avrebbe mai detto che questo sarebbe diventato il Festival della Nuova Resistenza, l’opposizione più allegra ma più decisa a Giorgia Meloni: qui c’è il nostro piccolo presidente Mattarella e lì c’è il suo grande presidenzialismo con gli stivali, qui la Costituzione è difesa da Roberto Benigni mentre Giorgia Meloni l’attacca con un progetto affidato, nientemeno, a Maria Elisabetta Casellati.

 (..)

 E resterà nell’iconografia più raffinata del Paese quel Gianni Morandi che lunedì sera ha esibito l’umile saggezza che manca al Terzo Polo di Calenda&Renzi e ha spazzato per terra impugnando la scopa del lavoro socialmente utile, ben più progressista del reddito di cittadinanza di Giuseppe Conte.

 Trionfano dunque sulle bandiere stinte della politica “le magnifiche rose”, direbbe Arbasino, del Festival della Canzone Italiana, e resistono i fiori di Nilla Pizzi al vandalismo anarcoide di Blanco che le ha vilipese a calcioni come il terrorista anarchico Cospito ha vilipeso lo stato ottusamente inflessibile di Piantedosi e di Nordio, lo stato che abusa del 41 bis.

(...)

 La politica, che batte i denti morsa dal freddo e dal gelo, trova a Sanremo, inaspettatamente come accadde al dottor Zivago, la sua casa finalmente calda. E nell’orgia decorativa del teatro Ariston riscrive pure la sua retorica che è ormai inevitabile dovunque: sul palco di Amadeus e al Nazareno, negli interventi in Parlamento e persino nei titoloni dei giornali, nei funerali e nei matrimoni, negli arresti e nei processi.

Ma solo a Sanremo l’iperbole - che emozione pazzesca!, anzi fantastica!, anzi leggendaria! - custodisce la nostra memoria e coltiva la nostra illusione. Forse perché davvero la canzonetta, in Italia, sembra niente ma è tutto, come il fiato e come la malinconia che commuove i più duri. La canzonetta è il fischiettare del solitario, ma è anche la civiltà del coro, del popolo senza populismo e, in nessun altro paese del mondo, diventa come qui la colonna sonora della democrazia.

 Amadeus, che non appartiene alla famiglia degli impegnati di sinistra e non ha neppure mai posato a poeta maledetto, forse quattro anni fa, al suo primo Sanremo, non avrebbe detto di togliersi di mezzo al vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini che contro il suo festival gliene ha rovesciate davvero tante, che «Mattarella ha il diritto di svagarsi ma non si difende la Costituzione dal palco dell’Ariston», che lui non guarderà la lettura del messaggio di Zelensky, e «basta con le tirate antirazziste »…

Magari quattro anni fa, Amadeus si sarebbe lasciato intimidire o non avrebbe trovato il coraggio di permettere a Lucio Presta, che è pure il suo agente, di fare così bene il suo mestiere di “agente” e portare il presidente Mattarella e Roberto Benigni a Sanremo senza informare nessuno, con una trattativa segreta, saltando il consiglio d’amministrazione che è il luogo in cui si articola e si dissipa il potere politico in Rai.

 E siamo arrivati al punto: Amadeus è diventato più potente di qualsiasi potere politico italiano, commissioni parlamentari, Vigilanza e manuali Cencelli, più importante dei ministri Sangiuliano, Roccella, Lollobrigida, e pure di Fazzolari con la pistola, e di tutti quelli che stanno per mettere le mani sulla Rai. Ed è più potente della stessa Rai che, ipertrofica e anacronistica, si tiene a galla solo con Sanremo.

Ebbene, Amadeus, scialuppa di salvataggio del Titanic, è ora pure il leader a sua insaputa della Nuova resistenza, l’eroe per caso, più di lotta di Cuperlo e più di governo di Bonaccini, più uomo di mondo di Calenda, più credibile di Giuseppe Conte. È il partito del 62 per cento. E la sua Sanremo è la nuova Internazionale Situazionista che nacque proprio qui nel 1956. Amadeus è l’incarnazione del leader situazionista come se lo immaginava Guy De Bord che profetizzava “la società dello spettacolo” che è il famosissimo titolo di un libro dimenticato:

 (...)

Perché dunque Salvini lo maltratta come i democristiani e i clerico-fascisti maltrattarono Dario Fo? Quale limite è stato superato, quale regime al tempo stesso fascistoide e mattoide può coprire di bile nera Sanremo che è amato da tutti gli italiani che sono canterini proprio perché sono italiani?

Estratto dell'articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 9 febbraio 2023.

L’insofferenza della destra di governo per il festival che celebra la Costituzione antifascista, davanti al presidente Mattarella, traspare bene da un tweet mattutino di Vittorio Sgarbi. Dice fuori dai denti quello che molti nella maggioranza pensano, a microfoni spenti. «Popolare e populista - cinguetta il sottosegretario alla Cultura - ma indifferente alla volontà degli elettori, Sanremo apre con tre simpatizzanti del Pd: Mattarella che vi fu iscritto, Benigni che prese in braccio Veltroni, Morandi che ha sempre votato Pci e Pd».

 Ospite di Metropolis , il talk del gruppo Gedi, il critico rincara la dose. «Chiara Ferragni - aggiunge - è il vero segretario del Pd». E l’Ariston è il «salotto ordinato» dei dem. Nel partito di Giorgia Meloni nessuno si sogna di muovere rilievi alla scelta del capo dello Stato, come ha fatto invece Salvini, e allora il bersaglio su cui spargere malumori diventa il premio Oscar che sul palco ha citato l’articolo 21 della Carta, ricordando che «durante il ventennio non si poteva pensare liberamente».

Ecco Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e segretario del Consiglio dei ministri. Parla a margine di una cerimonia della fondazione Tatarella a Palazzo Giustiniani. Lodi a Mattarella, ma chiosa malevola su Benigni: «Difende la Costituzione? È solo spettacolo, non mi risulta che Benigni sia un costituzionalista». E quanto al clima ostile che scontenterebbe il governo, aggiunge, «non ci vedo un disegno, ma un riflesso condizionato che dipende dal fatto che non ci si è resi conto del risultato delle elezioni». Che non sia un ragionamento solitario, quello di Mantovano, lo dimostrano le dichiarazioni di altri esponenti di FdI, che si attestano sulla stessa linea.

 (…)

Tra le poche voci ecumeniche, e questa è una sorpresa, Daniela Santanché. Di solito non si sottrae alla stoccata polemica, stavolta invece si sintonizza con l’umore pop festivaliero. La prima serata l’ha vista col cane ai piedi del letto, come da video-tweet pubblicato a mezzanotte. «Sarò poco chic – dice la ministra del Turismo di FdI – ma a me il festival piace. Anche Benigni? Sì, da italiana dico viva Benigni, è pur sempre un premio Oscar».

Estratto dell’articolo di Stefano Feltri per “Domani” il 9 febbraio 2023.

La retorica mielosa di Roberto Benigni è una delle tante minacce che la nostra Costituzione deve fronteggiare ogni giorno da 75 anni. Intanto perché Benigni non riesce neanche a citare correttamente gli articoli che elogia in mondovisione a Sanremo.

 L’articolo 11 dice sì che l’Italia ripudia la guerra, ma solo come strumento di risoluzione delle controversie internazionali […]. Dice anche che la sovranità del paese può essere limitata dall’adesione a organizzazioni internazionali, tipo Nato e Unione europea, allo scopo di assicurare «la pace», certo, ma anche «la giustizia» tra le nazioni. Capite bene le implicazioni diverse nel contesto dell’aggressione russa all’Ucraina dell’articolo 11 inesistente immaginato da Benigni e di quello reale.

[…] L’articolo 21 sulla libertà di espressione, che tanto commuove Benigni, è violato ogni giorno dalle querele temerarie di politici e aziende contro giornali e giornalisti e dai rapporti di forza in un settore ostaggio di precariato e grandi editori  con interessi spesso opachi. Mai ho sentito Benigni spendere una frazione della sua popolarità a difesa di un giornalista minacciato o intimidito.

La stessa forma istituzionale dell’Italia, come «Repubblica una e indivisibile» (articolo 5) è sotto attacco dal disegno di legge sull’autonomia differenziata appena approvato dal governo Meloni: un processo sul quale dovrà vigilare, per fortuna, non Benigni ma il presidente Sergio Mattarella […].

[…]. Negli ultimi trent’anni l’impegno è stato soprattutto a smantellarla. I volonterosi carnefici del centrosinistra hanno fatto più e meglio degli aspiranti secessionisti del centrodestra: prima con la riforma del titolo quinto della Costituzione, nel 2001, poi con il grande pasticcio del referendum renziano nel 2016 (quando Benigni era schierato per stravolgere la Costituzione che oggi celebra) e infine nel 2017, quando il futuro segretario del Pd Stefano Bonaccini ha chiesto anche per l’Emilia-Romagna l'autonomia differenziata […] .

 La retorica sulla Costituzione in stile Benigni non impedisce questo assedio, anzi, lo legittima perché trasmette l’idea (falsa) che nessuno oserà mai mettere in discussione i pilastri dell’ordine democratico.

Quella Costituzione del 1849 così attuale. Redazione su L’Identità il 9 Febbraio 2023.

1849, celebrazione della proclamazione della costituzione della Repubblica Romana

di GINO ZACCARI

9 febbraio 1849, in piazza del Campidoglio a Roma, viene proclamata la nascita della Repubblica Romana, nella notte, un giovanissimo Goffredo Mameli scriveva a Mazzini: Roma Repubblica venite.

Tutto aveva avuto origine parecchi mesi prima, quando sull’onda dei moti del 1848, partiti dalla Sicilia e diffusisi in tutta Italia e in Europa, Pio IX aveva voluto assecondare la spinta riformatrice con una serie di riforme, culminate con la promulgazione di una costituzione. Aveva perfino mandato un esercito a combattere al fianco di Carlo Alberto contro gli austriaci nella Prima guerra d’indipendenza, mettendo così la sua posizione di capo della Chiesa universale in aperto contrasto con quella di capo di uno Stato italiano che ne attacca uno estero, cattolico. Ma mentre a Roma si festeggiava e si inneggiava al papa riformatore, gli ambienti conservatori, italiani ed esteri, passavano al contrattacco facendo pressioni di ogni genere sul papato e alimentando una contropropaganda antidemocratica. La tensione salì fino a quando l’assassinio del primo ministro Pellegrino Rossi costrinse il pontefice a cedere a quanti lo consigliavano di andare via da Roma. E’ una fuga rocambolesca, in incognito, di notte, con cambio di cavalli e carrozze, vestito da prete semplice e con destinazione il Regno delle Due Sicilie. Il 18 febbraio, da Gaeta, il segretario di Stato pontificio, il cardinale Antonelli, invia una nota diplomatica alle potenze cattoliche di Austria, Francia, Spagna e Regno delle due Sicilie con la richiesta di intervenire per deporre la “fazione” (La Repubblica non fu riconosciuta come stato), che aveva preso il controllo dei domini papali. Con motivazioni diverse, ma comunque ognuna per i propri specifici interessi, le potenze straniere accorsero.

A Roma anche la Repubblica ha chiamato dei difensori: sono patrioti e rivoluzionari da tutta Italia, e da diverse parti d’Europa. Tra gli altri ci sono Garibaldi, con la sua banda di guerriglieri variopinti e apparentemente indisciplinati, c’è Luciano Manara, con 500 bersaglieri lombardi e ci sono migliaia di volontari di ogni provenienza che si raccolgono nella milizia irregolare. A questi vanno aggiunti 6mila soldati romani che sono rimasti con la Repubblica, centinaia di appartenenti alle forze di polizia e perfino il Battaglione della Speranza, formato da ragazzini dai 13 ai 17 anni. Il governo è affidato al triunvirato formato da Mazzini, Saffi ed Armellini.

L’Esercito francese arriva il 29 aprile nei pressi del Gianicolo. Garibaldi comanda la difesa con quartier generale a villa Savorelli. Il 30 aprile inizia l’attacco. La superbia francese giocherà a favore di Garibaldi che manovra in modo da dividere le forze dell’avversario, fa uscire il battaglione universitario da Villa Corsini verso Porta Cavalleggeri per prendere i francesi alle spalle, questi reagiscono e fanno indietreggiare gli italiani penetrando in parte dentro Villa Pamphilij, quello che sembra un successo è un errore fatale, i francesi hanno diviso le forze, Garibaldi esce a cavallo da Porta San Pancrazio e fa attaccare la prima brigata alla baionetta, i francesi sono presi tra due fuochi e vanno nel panico, via Aurelia antica è imbuto senza scampo. Il resto dell’esercito francese è preso sotto i tiri dell’artiglieria e deve indietreggiare, il 20° fanteria francese, accerchiato da Garibaldi, è annientato, un capitano dell’armata di Francia alza bandiera bianca per salvare i superstiti. Quei francesi catturati saranno trattati con tutti i riguardi e restituiti alla Francia in segno di amicizia tra le due repubbliche, ma non servirà a nulla. Eppure quando vengono rilasciati l’opinione pubblica francese è scossa, il parlamento si spacca e vince la linea diplomatica: deve essere mandato a Roma un diplomatico a trovare un accordo. Luigi Bonaparte, con le elezioni in vista, non vuole mettersi in minoranza e quindi accetta di mandare un diplomatico, Ferdinand de Lesseps, a trattare, ma segretamente promette rinforzi al generale Oudinot che comanda il corpo di spedizione.

A Palestrina e a Velletri viene sconfitto Ferdinando di Borbone e le sue truppe, ma nel frattempo anche gli spagnoli arrivano in Italia sbarcando a Terracina, mentre gli austriaci avanzano in Romagna e nelle Marche. L’unica speranza è che la Francia desista dal suo attacco ma le elezioni vanno male, vince l’ala conservatrice e il trattato che firma de Lesseps viene sconfessato. Il generale Oudinot scrive a Roma che la tregua è decaduta, tuttavia si impegna a non attaccare prima di lunedì 4 giugno, è una menzogna scritta e firmata: nella notte tra il 2 e il 3 giugno ordinerà l’assalto. Le truppe italiane combattono con tutte le forze ma è un massacro, i continui tentativi di riprendere le posizioni perse falliscono, in serata Roma viene posta sotto un pesante cannoneggiamento indiscriminato, verranno colpiti chiese e monumenti, suscitando tra l’altro l’indignazione dei diplomatici residenti a Roma che scriveranno una nota di protesta alla Francia. Roma resisterà ostinata per un mese, ma il 30 giugno Porta San Pancrazio, perno della difesa, cade. Luciano Manara morirà difendendo villa Spada, conquistata lo stesso giorno. Il 3 luglio i francesi entrano da vincitori dopo la capitolazione della Repubblica, saranno accolti solo con sdegno e insulti da una popolazione che era stata tradita. Garibaldi esce da Roma per andare a difendere Venezia che ancora resiste, con lui molti reduci dell’esercito romano, volontari tra i quali c’è Ciceruacchio, leader dei trasteverini che sarà catturato e ucciso dagli austriaci. Anita, incinta di sei mesi, segue Garibaldi ma morirà nel tragitto, colpita da febbri malariche. Il giovane Mameli morirà il 6 luglio per i postumi delle ferite riportate in battaglia.

Intanto a Roma i francesi non riescono ad impedire la cerimonia di promulgazione della costituzione, considerata tra le più avanzate dell’800 e fonte di ispirazione per la Costituzione della Repubblica Italiana varata 100 anni più tardi.

Antonio Giangrande: La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

Se questa è democrazia…

Riportiamo l’opinione del sociologo storico Antonio Giangrande, autore del saggio “Governopoli” e di tanti saggi dedicati per ogni fazione politica presente in Parlamento.

Se questa è democrazia…

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori. Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.

Se questa è democrazia…

Antonio Giangrande, ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE: DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.

La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.

La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.

Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.

Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".

Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).

Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.

Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.

Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto” che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa in un determinato frangente storico sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato, e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.

Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.

Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma.

RESISTENTI. «Il termine attivista di per sé non vuol dire nulla. È l'azione concreta a riempirlo di significato». La definizione è ormai inflazionata e, spesso, priva di senso. Per incidere davvero nelle lotte di liberazione contro le classi di oppressori sono richiesti ascolto, rinuncia ai privilegi e, soprattutto, la disponibilità ad agire. In altre parole, complicità e non mera adesione a una causa. Diletta Bellotti su L'Espresso giovedì 19 ottobre 2023

Non c’è nulla di naturale o inevitabile nel denaro, nel debito, nei diritti di proprietà o nei mercati; sono sistemi simbolici che traggono la loro efficacia dalla convinzione collettiva che debbano esistere per forza. Questo non significa necessariamente invocare il primitivismo o essere contro la civilizzazione, ma significa aspirare a un sistema di pensiero che non associ ciò che è storicamente radicato con qualcosa di necessariamente futuribile. 

Il ruolo degli attivisti è quello di ispirare la speranza radicale esponendo la mutevolezza delle relazioni sociali, come per esempio la possibilità, per ognuno, di vivere meglio, oltre sistemi che minacciano la sopravvivenza sulla Terra. È sotto gli occhi di tutti quanto «attivismo» sia un termine inflazionato: è quasi un significante flottante, cioè vuoto, un contenuto linguistico che non ha più un preciso contesto di riferimento. Nel dibattito pubblico italiano si ha molta esperienza di significati flottanti: si pensi a termini come «sviluppo» o «resilienza». 

Nonostante l’avanzare di un significato di fare attivismo sempre più vuoto, non dobbiamo perdere la creatività, anche semplicemente trovando sinonimi ancora intatti. In quanto attivisti, in quanto cittadini, in quanto esseri senzienti, bisogna trovare nuovi modi per armare il proprio privilegio, cioè per utilizzarlo in senso offensivo verso i sistemi di oppressione, iniziando con il comprendere e rinnegare la propria ricompensa nell’essere parte della classe dell’oppressore. Come beneficio, per esempio, dei legami coloniali dei Paesi europei anche se non sono stato io stesso a creare questi sistemi? Che vantaggi traggo dal sistema patriarcale anche se, apparentemente, non faccio nulla per rafforzarlo? Come beneficio della propaganda anti-migrante anche se non ho nulla a che spartire con coloro che la portano avanti? 
Non tutti, per fortuna, ricoprono il ruolo di oppressore in ogni aspetto della propria identità: ciò che di noi è più marginale e bistrattato forse è anche molto nascosto. Può darsi che non sia ancora stato dichiarato perché abbiamo paura che poi anche noi ne rimarremmo schiacciati. C’è un sistema preciso che beneficia dall’isolare e reprimere gli attivisti e i militanti, questo è ancora vero in Occidente ed è molto vero nel Sud del mondo. 

Da un decennio, invece, ci sta un sistema economico che usufruisce di un certo modo di fare attivismo e che rientra perfettamente nel cosiddetto complesso industriale. In inglese “industrial complex” è un concetto socioeconomico per cui le aziende si intrecciano alle istituzioni sociali e politiche, creando o sostenendo un’economia di profitto da queste. Un esempio classico è il “military-industrial complex” ovvero il modo in cui l’industria bellica trae profitto dal perpetuarsi delle guerre e ha un ruolo, sociale e politico, nell’ostacolare la pace. Similmente, il complesso-industriale dell’attivista rischia di mercificare termini e modalità di lotta così da impedire ogni reale e profonda possibilità di cambiamento. 
Oggi, quindi, allearsi con una causa può non essere abbastanza. Che siano i lavoratori in sciopero o chi, oltre i nostri confini, vive in guerra, ci richiede qualcosa di più di essere alleati e attivi: ci chiede complicità. Si parte dall’ascolto, certo, si procede rinunciando a dei privilegi, ma poi si passa all’azione, chiedendosi intanto: in che modo io posso contribuire ai processi di liberazione?

Sgarbi contro la dittatura, della diversità. Vittorio Sgarbi su Panorama il 27 Agosto 2023

È diventata dominante la teoria «woke» che impone l’inclusività, una tutela acritica delle minoranze, il senso di colpa occidentale verso la propria storia, il superamento dei valori tradizionali. Ma senza la libertà di pensiero muore la stessa ragione.

Facebook. Vittorio Sgarbi 

E’ diventata dominante la teoria «woke» che impone l’inclusività, una tutela acritica delle minoranze, il senso di colpa occidentale verso la propria storia, il superamento dei valori tradizionali…

L’essere maschi, l’essere bianchi, essere cristiani sarà una colpa.

A chi lo è sono suggeriti l’impotenza e il silenzio.

Si vuole sostituire la nostra cultura con un’altra nel segno della dittatura della minoranza.

…Ciò che soprattutto inquieta è la dittatura della minoranza, il rimorso del diverso. Nel senso che la collettività deve sentire rimorso nei confronti dei diversi, come se la diversità o la fragilità fosse colpa dell’umanità…

(Alcuni passaggi del mio articolo per il settimanale «Panorama» in edicola da oggi)

UN GENERALE CONTRO LA DITTATURA DEL POLITICALLY CORRECT. Maurizio Guaitoli il 29 agosto 2023 su opinione.it.

Imputato Roberto Vannacci, in piedi! Già: ma in base a quale accusa penalmente rilevante? Per ora, nessuna. Allora, si rimetta pure comodo, Signor Generale. Lei, al momento, è solo un caso umano o, al limite, un caso ridicolo. Perché, in buona sostanza, sul suo conto, a proposito del pamphlet “Il Mondo al contrario” da Lei autoprodotto, manca l’analisi, come direbbero i vetero-marxisti. Quindi, meglio precisare, scanso equivoci, quali siano gli ambiti “oggettivi” della discussione relativa, prendendo in esame le possibili vere (e non presunte) violazioni da parte del suo autore di norme formali e/o di comportamenti deontologici che regolano la vita degli apparati pubblici nel nostro Paese.

La prima delle questioni fondamentali che riguardano il caso Vannacci è di capire (e di perimetrare conseguentemente) quali siano, all’interno di un’istituzione dello Stato, i margini di libertà d’opinione dei suoi “clerk”, ovvero dei suoi pubblici funzionari civili e militari. La risposta è ovvia: in termini di comportamenti e di libertà di opinione è ammissibile tutto ciò che non è espressamente vietato da leggi e regolamenti (fatta salva la questione accessoria della opportunità), che sovrintendono giuridicamente al corretto funzionamento dell’istituzione di appartenenza. Non si può, quindi, ad esempio, mettere in discussione il rapporto gerarchico; denigrare all’esterno la propria istituzione, né calunniarne i suoi membri; rendere pubblica una documentazione riservata, e così via. Ora, che cosa succede quando la questione si sposta sul piano etico e politico?

Facile rispondere sul secondo aspetto: per definizione, istituzioni pubbliche (e, in particolare, gli apparati militari e di sicurezza) devono comportarsi in modo assolutamente imparziale, senza mai quindi prendere posizione all’interno del confronto tra le forze politiche, le sole legittimate alla rappresentanza degli interessi dei cittadini elettori. Possono però, in seno alla produzione legislativa parlamentare e all’iniziativa governativa di proposta di legge, avere diritto a esprimere un loro parere tecnico all’interno dei lavori delle commissioni parlamentari competenti.

Che cosa accade sul piano etico e della libertà di opinione per tutte quelle materie non soggette a sanzioni di legge espressamente previste?

Per esaminare l’attuale epifenomeno mediatico del caso Vannacci si deve in primis decidere se il suo libro, per il merito trattato, coinvolga l’istituzione di appartenenza e fino a che punto. Occorre, quindi, accertare se vi sia stata violazione grave del codice deontologico, e se l’iniziativa personale e del tutto privata del Generale abbia creato pregiudizio all’immagine esterna dell’amministrazione di appartenenza. Di certo, qualora nel testo de “Il Mondo al contrario” si affermasse che alle minoranze sessuali (o alle donne) deve essere impedito l’accesso alle carriere militari, allora si andrebbe contro la norma costituzionale che sancisce la non discriminazione dei cittadini italiani per razza, sesso, religione e convinzioni politiche. E se, preliminarmente, com’è già accaduto, il ministro (laico) di tutela e la gerarchia decidono in senso positivo in merito alla possibile lesione di immagine, allora la sospensione dall’incarico è un atto dovuto, in attesa che gli organi interni disciplinari, o la magistratura civile, istruiscano un procedimento ad hoc sul caso.

Il secondo, ma non secondario elemento problematico riguarda la questione di opportunità. Infatti, a priori erano ben noti all’autore i rischi di sollevare a livello nazionale un caso politico rilevante, firmandosi con il proprio nome e cognome e grado ricoperto, dato l’argomento estremamente controverso della pubblicazione di cui, correttezza vuole, si sarebbe dovuto richiedere anche informalmente un parere gerarchico prima di dare alle stampe “Il Mondo alla rovescia”. In questo caso, infatti, l’appartenenza in servizio dell’autore all’amministrazione militare non poteva non coinvolgerne gli interessi diretti, in quanto a esprimersi pubblicamente su argomenti altamente sensibili sul piano politico e sociale era un suo funzionario di grado elevato, anche se la pubblicazione ha avuto luogo a titolo strettamente privato.

Per evitare la guerra politica mediatica e del tutto strumentale che si sta svolgendo sulla figura del Generale Vannacci, sarebbe stato sufficiente che la firma in calce all’opera avesse riportato un nome diverso: quello cioè di un cittadino comune, libero di esprimersi come meglio crede, rispondendo esclusivamente di persona a eventuali calunnie e diffamazioni contenute nel testo.

Se questo fosse stato il caso, allora si poteva prendere parte alla battaglia per la libertà d’opinione senza alcun complesso di “golpe strisciante”, che invece può essere sostenuto da chi strumentalizza (in particolare a sinistra) la vicenda del Generale Vannacci.

Allora, facciamo così: fingiamo che il pamphlet l’abbia scritto tale e quale un’altra persona, in modo da dire chiaramente le seguenti cose sul piano generale. Innanzitutto: che cosa dice la Costituzione italiana a proposito di “dittatura del pensiero unico” che, poi, è il politicamente corretto? Che risulta, di fatto, una forma di fascismo, per cui è un mainstream mediatico e senza volto a decidere che cosa è corretto dire, i vocaboli ammissibili da utilizzare, e quali invece da esecrare e condannare. Marginalizzando così i loro autori, condannati senza l’adozione di alcun provvedimento formale che ne dimostri la colpevolezza, in modo da escluderli da incarichi pubblici, dalle cattedre di insegnamento e dalle redazioni di giornali e periodici di stampa e della radiotelevisione, come oggi avviene in tutto l’Occidente.

La protezione delle minoranze non può essere argomento di discussione, e per questo basta e avanza la tutela aspecifica e generale dei diritti della persona che, qualora li si ritenga in qualche modo lesi, sono soggetti a tutela da parte del giudice naturale.

Diverso, molto diverso, invece, è quando determinate minoranze (in particolare quelle Lgbtq+) si costituiscano in lobby per la conquista dell’influenza e del potere mediatico e politico di una società, avverso le quali a questo punto è lecita la contendibilità assoluta della rappresentanza dal punto di vista della lotta politica. Solo in tale, preciso contesto, allora, certi argomenti della tesi socio-politica di Vannacci possono essere ripresi anche in toni accesi, come si farebbe con un ritorno del Movimento Futurista alla Marinetti che, per fortuna, agli inizi del XX secolo, poté veicolare il suo dirompente messaggio rivoluzionario senza problemi e ritorsioni penali di sorta.

Perché, meglio dirlo francamente: esiste e non può essere soppressa una maggioranza silenziosa che la pensa su certi temi “esattamente” come il Generale. E, per questo, gode degli stessi diritti di quelli che la pensano all’opposto, come i politically correct.

Lo dice la Costituzione, che non vale mai a senso unico.

Gabriele Ferrari per focus.it il 2 dicembre 2022.

Le pecore non sono solo un animale ma anche un simbolo, non necessariamente positivo, di chi obbedisce agli ordini altrui e segue il capo senza farsi troppe domande: pensate per esempio al dispregiativo "pecorone". Ora un nuovo studio della Université Côte d'Azur sembra volerle vendicare, o quantomeno riconoscere loro una complessità sociale che va al di là della struttura "uno guida, gli altri seguono". Pubblicato su Nature, lo studio dimostra che, almeno in certe condizioni, le greggi di pecore non hanno un solo capo, ma si alternano democraticamente (e casualmente) alla guida del gruppo.

Lo studio ha per ora un solo limite: è stato condotto su gruppi di piccole dimensioni, composti da 2 a 4 esemplari di femmine della stessa età. Queste mini-greggi sono stati osservati durante la giornata e da debita distanza (il luogo di osservazione era la cima di una torre vicino ai loro campi), per scoprire come si comportano quando non vengono guidate da un'"entità" esterna (per esempio, un pastore).

Il team ha scoperto che le pecore alternano momenti in cui brucano l'erba ad altri in cui si muovono in gruppo in cerca di altri pascoli; e che ogni volta che si spostano, il gruppo cambia leader: una pecora si mette alla guida e le altre la seguono ordinatamente. Il nuovo capo è scelto ogni volta in maniera casuale, o almeno così sembra.

In realtà, dietro questa forma di alternanza democratica ci potrebbero essere dei motivi pratici. Ogni esemplare, infatti, ha una diversa conoscenza dell'ambiente circostante: potrebbe, per esempio, conoscere la location di un prato particolarmente verdeggiante che le altre pecore non hanno mai visitato, e aspettare il suo momento di condurre per mostrarglielo.

Inoltre, sapere che prima o poi toccherà a te "fare il capo" aiuta anche ad accettare con più serenità le decisioni degli altri leader, e a evitare possibili conflitti. Il limite dello studio è tutto nelle dimensioni delle greggi considerate: non sappiamo (ancora) se la "rotazione dei leader" avviene anche in gruppi più numerosi, e se la presenza di maschi cambia qualcosa in termini di leadership. Per il team che ha condotto la ricerca si preannunciano dunque altri viaggi in cima alla torre di osservazione.

Perché i greci hanno inventato la politica (e la differenza tra la democrazia di allora e quella di oggi).

Atene, la città democratica dentro ma dispotica fuori. La letteratura greca raccontata da Walter Lapini, professore di letteratura greca e autore. Iacopo Gori / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023

Nella democrazia ateniese guardiamo come uno specchio in cui cerchiamo i nostri pregi e le nostre illusioni: la democrazia diretta come la intendiamo noi non è mai esistita, nemmeno in Grecia. In questo specchio - dice Walter Lapini, filologo classico e grecista - vediamo tante cose che ci piacciono: i cittadini tutti uguali davanti alla legge, l’educazione gratuita, le cariche pubbliche remunerate ma ci sono anche immagini che piacciono meno.

Questa Atene democratica per mantenere i suoi principi così avanzati aveva bisogno di denaro e risorse che prendeva agli altri. Atena era al centro di un grande impero e imponeva tribuiti agli alleati trasformati in sudditi. La città democratica dentro ma dispotica fuori. La democrazia ateniese era limitata: nullatenenti e donne non avevano voce in capitolo, stranieri ancora meno. Quello che rende potente Atene è che tutti i cittadini sono proprietari dello Stato e che tutti sono sottomessi al nomos, alla legge. 

Walter Lapini, filologo classico e grecista, è professore ordinario di letteratura greca all’università di Genova. È autore di numerosi saggi e monografie sul mondo classico.

"Così Atene diventò la culla del primo potere popolare". L’antichista racconta la genesi delle istituzioni che hanno fatto da modello a quelle del presente. Tra realtà storica e mitizzazioni. Matteo Sacchi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Se ci si aggira per Washington, per la sua zona monumentale, si potrebbe avere l'impressione di aggirarsi per una città dell'Impero romano, o per una città della Grecia classica. Le moderne democrazie hanno preso a modello ideale (con tutta l'infedeltà storica necessaria all'operazione) le polis, anche nell'iconografia e nell'architettura. E in special modo hanno guardato all'Atene di Pericle (495-429 a.C.). Del resto la stessa parola «democrazia» tradisce chiaramente le sue origini e persino gli illuministi, così propensi a guardare al futuro, hanno, a più riprese, guardato alla culla della classicità per giustificare ed esaltare un potere che nasce dal basso. A questa culla ha appena dedicato un libro il grecista Giorgio Ieranò che sarà nei prossimi giorni al Festival del classico di Torino. Si intitola Atene. Il racconto di una città (Einaudi, pagg. 228, euro 21) e rende conto di tutta la stratificata storia della città dall'antichità ai giorni nostri. Noi gli abbiamo chiesto di raccontarci mito, realtà e memoria moderna della democrazia ateniese.

Professor Ieranò quando nasce la democrazia ateniese?

«La nascita di quella che noi chiamiamo Democrazia è un processo molto lungo e conflittuale. Se dovessimo fissare una data chiave io sceglierei il momento in cui due politici ateniesi, Pericle ed Efialte, ridussero il potere dell'Aeropago, un antico tribunale che era essenzialmente un'istituzione nobiliare, aumentando così il potere dell'assemblea che invece era un'istituzione prettamente legata al demos, e dove per dirla in termini moderni uno vale uno. Accadde tra il 462 e il 461 avanti Cristo. Diciamo che la democrazia nacque dalle scelte anticonformiste di alcuni nobili ateniesi, tra cui un certo numero di membri della famiglia degli Alcmeonidi, che decisero di puntare sull'appoggio dei ceti popolari».

Non è un fenomeno che parte dal basso?

«A partire da Clistene un pezzo della nobiltà ha fatto delle scelte che hanno cambiato gli equilibri politici della città. Con Pericle si radicalizza questa volontà, aumentando i poteri dell'assemblea. Bisogna dire con grande onestà che il miracolo della democrazia è largamente un’invenzione di alcuni aristocratici».

E il modello politico ateniese è davvero la culla delle nostre istituzioni moderne? O ci sono differenze radicali?

«Il dibattito sulle differenze tra Atene e le istituzioni nate a partire dalla Rivoluzione americana è secolare. E ci sono sostanzialmente due scuole di pensiero. Da un lato c'è chi ha sottolineato la continuità con l'Atene del V secolo. Spesso tra costoro, gli stessi politici che delle democrazie erano promotori. Da questo punto di vista l'architettura di molti edifici pubblici degli Stati uniti, nel suo richiamo alla classicità, è già una presa di posizione ad esempio, una volontà di collegarsi a quell'idea. Poi ci sono state molte interpretazioni storiografiche attente a marcare le differenze. Il corpo civico ateniese era molto ridotto, le donne, e gli stranieri, erano completamente esclusi ed emarginati dall'attività politica. C'era un'esclusività dei diritti molto lontana dalla nostra idea attuale dei diritti dell'uomo. Ed era una democrazia carica di ambiguità. Lo storico Tucidide elogia Pericle sottintendendo che la Democrazia di Atene è per certi versi una democrazia a parole perché, alla fine, è la forza oratoria del leader a governare l'assemblea. Tucidide apprezza questa capacità di Pericle, sia chiaro, ma evidenzia tutti i limiti di una democrazia diretta dove alla fine a comandare davvero erano i grandi retori nonostante sulla carta il demos, il popolo con diritto di voto, potesse tutto».

Ad Atene c'era l'assemblea ma c'era anche un altro spazio molto popolare, l'Agorà, la piazza del mercato. Possiamo considerarla una società civile, quella sempre invocata come contraltare della politica, almeno in nuce?

«L'agorà è uno spazio assolutamente nuovo e tipicamente greco per certi versi. Erodoto racconta che Ciro il Grande si fece raccontare come vivevano i greci. E sentendo del loro bighellonare in piazza li etichetto rapidamente come gentaglia di cui non preoccuparsi troppo. Quello spazio da altri è stato idealizzato ad esempio ai giorni nostri il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato della necessità di costruire una nuova agorà, uno spazio pubblico condiviso. Ma in realtà, al di là delle idealizzazioni, era uno spazio molto caotico dove si poteva incontrare di tutto, c'erano i perdigiorno che oziavano nelle botteghe, c'erano i mercanti. Ad Atene la collina della Pnice era uno spazio prettamente politico, l'Agorà era anche lo spazio di chi, magari a fare politica, sulla Pnice non aveva voglia di andarci. Quindi non bisogna nemmeno credere troppo al mito identitario della cittadinanza, quello che esce, ad esempio, dai discorsi di Pericle riportati da Tucidide».

In che senso?

«Esisteva un'identità ateniese ma esistevano, anche, fortissime divisioni interne di vario tipo. Una serie di assi di separazione molto forti e non mi riferisco solo a quelli già citati tra chi aveva il diritto di voto e chi no. La politica, alla fine, era considerata soprattutto una cosa inerente a chi aveva la capacità di portare le armi e difendere la città in guerra. Quindi, ad esempio, gli anziani erano cittadini, ma sino ad un certo punto. Poi tra il marinaio che serviva sulle triremi e il cavaliere, cioè il nobile che combatteva a cavallo, restavano un sacco di differenze. Uno passava sul destriero in mezzo all'agorà, l'altro ci andava per comprare cose al mercato. Se sotto la minaccia dei persiani i loro interessi potevano avvicinarsi moltissimo, in altri casi restavano largamente divergenti. Nella conflittualità con Sparta già la questione era molto diversa e potevano crearsi consistenti incrinature. Nobili come Alcibiade o Senofonte sono stati ampiamente filospartani, trovavano il sistema spartano di potere più confacente al loro modo di vedere il mondo. La critica alla democrazia è già degli antichi».

C'erano anche sistemi, che a noi possono apparire bizzarri, per contenere le tensioni politiche come l'ostracismo.

«Poter allontanare dalla città gli elementi considerati pericolosi per l'equilibrio interno, in base al voto popolare, era un modo per compensare alcune di quelle tensioni di cui parlavamo prima, una forma di autoconservazione. Il sistema politico oscillava tra polarità autoritarie e l'idea che uno vale uno».

Anche per questo Pericle ha creato un potente apparato simbolico, a partire dalla ricostruzione dell'Acropoli?

«È un passaggio fondamentale. Dai Propilei al Partenone passando dall'Eretteo la ricostruzione fu una gigantesca celebrazione della potenza di Atene, una monumentalizzazione della vocazione imperiale ateniese. Ma già all'epoca ci furono dure contestazioni del radicalismo democratico di Pericle e anche dei suoi simboli. Tucidide, pur lodando le enormi realizzazioni di Pericle, e la rapidità dei lavori ci segnala anche gli argomenti degli oppositori. Lo accusarono di agghindare Atene come una prostituta e di farlo utilizzando i soldi rubati alle altre città. Fidia finì in carcere e anche Pericle venne attaccato a livello giudiziario...».

Ma tutto questo splendore si chiuse molto presto con un gigantesco crollo politico.

«Di fatto già le Storie di Tucidide sono un apologo di come Atene ha costruito la sua sconfitta. Per lo storico era tutta legata agli eccessi iper popolari della politica post periclea e l'eccessiva violenza e coercizione verso le altre città. Come ha notato un antichista di vaglia, Luciano Canfora, sono spesso le stesse democrazie che votano il loro scioglimento scegliendo l'autocrazia. Esiste sempre il rischio della tirannia della maggioranza».

Oggi siamo abituati a pensare alla democrazia quasi come ad un esito politico inevitabile. La storia sembra dirci il contrario...

«La democrazia nella storia greca rappresenta un breve periodo, è stata preceduta, ha coesistito ed è stata seguita da regimi diversi. Pericle era conscio della specificità ateniese e pensava che Atene dovesse essere un modello per il resto delle città greche. In sostanza Atene doveva far scuola al resto dell'Ellade. Ma possiamo dire, col senno del poi, che gli scolari sono stati riluttanti, non hanno seguito la lezione proposta. Pensare la democrazia come l'entelchia del sistema politico era un azzardo allora come lo è adesso. Possiamo considerare la democrazia come il migliore dei regimi politici ma non si può dare per scontato il suo avvento come se fosse il più naturale».

Imperfetta e felice. La democrazia è una promessa, non rendiamola una delusione. Roger Cohen su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Negli ultimi anni i Paesi pluralisti hanno disatteso le aspettative, alimentando rabbia e populismo. Ma ora le minacce di Putin offrono al mondo libero la possibilità di riscattarsi e di restituire attrattività ai suoi veri valori

Il cielo blu sopra la decima edizione dell’Athens Democracy Forum non riusciva a spazzare via l’angoscia. Per la prima volta si stava discutendo della possibilità di un guerra nucleare. I sabotaggi del gasdotto Nord Stream annunciavano l’arrivo di un inverno aspro. L’inflazione in Germania – un Paese che non ha mai dimenticato l’orrore che seguì il rialzo dei prezzi negli anni Venti del Novecento – si era impennata, superando il 10 per cento. E, proprio nel giorno in cui ha avuto termine il ciclo di incontri ad Atene, venerdì 30 settembre, il presidente della Russia, Vladimir V. Putin, ha annesso più di 100.000 chilometri quadrati dell’Ucraina orientale e meridionale rendendoli parte di una “madrepatria” russa che – così ha detto – difenderà con ogni mezzo a sua disposizione.

Il modo in cui affronteranno le minacce di Putin e il suo disprezzo del diritto internazionale sarà un banco di prova per le democrazie di tutto il mondo. Questo è risultato chiaro nel corso di affilate conversazioni da cui è emerso che – come dice il presidente francese Emmanuel Macron – «se si parla da un punto di vista demografico» la maggioranza del mondo non sta dalla parte dell’Occidente. L’India e la Cina sono state riluttanti nel prender partito per quanto riguarda questa guerra. E molti Paesi africani, che covano ancora rancore per il colonialismo e che sono diffidenti verso le promesse occidentali, inclinano verso la Russia, che è un importante fornitore di armi per tutto quel continente.

Quando Jeffrey Sachs, che dirige il Center for Sustainable Development della Columbia University, ha affermato la visione secondo cui gli Stati Uniti sono «una società razzista dominata dai bianchi» e non sono migliori della Russia con la sua «cultura dell’autorità» o della Cina «con i suoi professionisti che sono i più aggiornati al mondo», ha ricevuto un applauso per aver sostenuto questa equivalenza morale. Le grandi potenze mondiali dovrebbero parlarsi, ha detto Sachs, invece di cercare di provare la superiorità di un modello sugli altri.

Secondo il suo punto di vista, una parte rilevante di responsabilità nello scoppio della guerra è da attribuire all’espansione della Nato verso i confini della Russia. E ha sostenuto che, qualora la guerra dovesse svilupparsi in un conflitto nucleare, bisognerebbe biasimare soprattutto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per non aver voluto negoziare e per aver perseguito un’avventata strategia del “tutto o niente”.

Il giornalista polacco Jarosław Kuisz è tra coloro che si sono imbestialiti per queste parole. Facendo riferimento al collasso dell’impero sovietico di trent’anni fa e al ruolo svolto all’epoca da Sachs (che lavorò per accompagnare la Polonia dall’economia pianificata a quella di mercato), Kuisz ha detto: «Sono affascinato perché allora promettesti libertà a queste società. Promettesti che esse sarebbero uscite da trecento anni di soggiogamento e che si sarebbero sottratte a questa orribile sfera di influenza per avanzare verso l’autodeterminazione e il rispetto dei diritti umani». E adesso? Momenti tesi come questo hanno sempre caratterizzato l’Athens Democracy Forum convocato dalla Democracy and Culture Foundation in collaborazione con il New York Times. La capacità di gestire un civile disaccordo è il segno distintivo di ogni società sana.

Kuisz ha raccontato di aver incontrato un bambino ucraino che ha perso entrambe le gambe e una mano e una donna che veniva dalla devastata Mariupol’ e che era disperata perché non aveva notizie del figlio disperso. Se non fosse stato per l’ossessione di Putin sulla non-esistenza della nazione ucraina, quel bambino avrebbe ancora i suoi arti e quella madre avrebbe ancora suo figlio. E decine di migliaia di persone, ucraine e russe, molte delle quali giovani, sarebbero ancora in vita. Di fronte a quella che una volta John le Carré definì come «la classica, sempiterna, sfacciata, enorme menzogna panrussa» è opportuno ricordare un semplice fatto: è stato Putin, e non qualcun altro, a iniziare questa guerra. Non dite ai polacchi che dovrebbero confidare nella gentilezza degli stranieri. E non ditelo neanche agli estoni, ai lettoni, ai lituani. Tutto loro hanno conosciuto il totalitarismo sovietico. È non sono sorpresi per il revanscismo imperialista che riaffiora ora nella Russia di Putin. È probabile che la loro intransigenza nel fronteggiare Mosca possa creare tensioni tra i ventisette Paesi che formano l’Unione europea. Paesi come la Francia, la Germania o l’Italia saranno più inclini a cercare un compromesso negoziato, anche se un simile compromesso al momento sembra inconcepibile.

Perché c’è una cosa sulla quale al Forum tutti erano d’accordo: la guerra in Ucraina sarà lunga. E più sarà lunga, più ci sarà il rischio di un’escalation. Basta che succeda una qualunque cosa, anche un solo incidente. E l’ipotesi che sull’umanità possa abbattersi una distruzione di questa portata non appariva così verosimile fin dai tempi della crisi dei missili di Cuba del 1962. Christopher Clark, uno storico australiano che insegna alla Cambridge University, ha intitolato I sonnambuli un suo libro sull’accumularsi delle decisioni, grandi e piccole, che nel luglio 1914 hanno condotto alla Prima guerra mondiale. I leader di oggi – che operano in un’altra epoca di poteri nuovi che avanzano, di trasformazioni economiche e di forze imprevedibili – sono anch’essi dei sonnambuli che, senza accorgersene, stanno accompagnando il mondo verso una deflagrazione? Proprio come accade nella descrizione che Ernest Hemingway dà della bancarotta, è nella natura delle tragedie abbattersi sul mondo «prima poco a poco e poi tutto il resto all’improvviso» La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo discorso al Forum ha espresso una nota di ottimismo. «Sono profondamente convinta che la democrazia prevarrà», ha detto. E ha aggiunto: «La democrazia potrà non essere perfetta, ma è perfezionabile».

I sistemi democratici, ha sottolineato, sono molto più flessibili e hanno molta più capacità di reinventarsi rispetto ai regimi autocratici: «La democrazia è una promessa». Ma la democrazia, negli ultimi anni, è stata anche una delusione. Per molti cittadini la promessa della democrazia non è stata mantenuta. La rabbia ha radicalizzato le società occidentali. Un senso di esclusione ha condotto al proliferare di movimenti estremisti e di decisioni prese all’impazzata, come la Brexit (che alla fine non è la panacea di tutti i mali, come l’Inghilterra sta ora capendo).

La scrittrice turca Ece Temelkuran ha fatto un discorso vigoroso sulla crescente disuguaglianza prodotta dal capitalismo globalizzato, che ha annientato la promessa democratica per la quale tutti avrebbero avuto la loro parte secondo equità. Bombardati dai social media, privati di un qualsiasi concetto condiviso di che cosa sia la verità, divorati da paure spesso irrazionali, polarizzati in tribù rivali, isterizzati dalla pandemia, isolati in conseguenza del lavoro da remoto, gli americani stanno facendo fatica a persuadere il mondo che la loro società democratica sia la risposta giusta. E, almeno per certi aspetti, anche gli europei non stanno messi tanto meglio.

Mo Ibrahim, un uomo d’affari anglo-sudanese che ha investito una parte del suo patrimonio nel miglioramento delle pratiche di governo in Africa, si è chiesto per quale ragione mai quel continente dovrebbe prendere l’Occidente come modello. Ibrahim ha fatto riferimento a quanto è politicizzata la Corte suprema degli Stati Uniti, all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del 2021, all’incetta che gli europei hanno fatto dei vaccini che erano stati promessi all’Africa, alle crescenti disuguaglianze, al ridisegno dei collegi e alle modifiche delle regole elettorali per ridurre il diritto di voto degli americani e al diffuso scontento e al senso di esclusione che, dalla Svezia all’Italia, hanno condotto a una crescita dell’estrema destra. E allora perché mai l’Africa dovrebbe prendere come modello l’Occidente? Forse perché la Russia repressiva di Putin non è un modello alternativo attraente, né lo è la Cina di Xi Jinping, che è uno “Stato di sorveglianza”. Eppure, un mondo dominato dalla Cina e dalla Russia è per molti un orizzonte seducente, anche solo perché la Cina e la Russia non sono l’Occidente, i cui peccati – e tra questi il colonialismo, il razzismo e la guerra in Iraq – non sono stati dimenticati.

Ad Atene è risultato chiaro come abbia preso forma un mondo riconfigurato di grandi rivalità di potere, un mondo nel quale l’influenza degli Stati Uniti non è più così determinante, neppure in un momento in cui si combatte una guerra in Europa. La crisi è anche un’opportunità. Le democrazie possono essere scosse, ma è palpabile la loro volontà di trovare soluzioni e nuove idee. L’Unione europea è stata galvanizzata prima dal Covid-19 e poi da una guerra sul proprio uscio di casa e si è mossa verso un’Europa più federale, con una politica comune più integrata per ciò che concerne la fiscalità, la difesa, l’energia e la politica estera.

I progressi saranno lenti, ma la direzione sembra impostata. Tra gli studenti presenti al Forum erano evidenti un desiderio appassionato di ripensare la democrazia e un forte impegno per salvare il pianeta. Ed essi hanno ben chiaro che lo Stato-nazione non può essere la dimensione con cui affrontare i problemi più rilevanti della nostra epoca, il primo dei quali è il cambiamento climatico, che non tiene conto dei confini. Ad Atene Michel Castrezzati, Elena Vocale e Larissa Möckel – tre studenti che fanno parte dell’International Youth Think Tank – hanno illustrato un’iniziativa che ha l’obiettivo di ripensare l’economia in modo che il grado di successo di una società sia definito non in base alla crescita ma in base alla diffusione del benessere.

Carsten Berg, uno studioso di politica che fa parte del Berggruen Institute, ha portato l’Irlanda come esempio del modo in cui assemblee popolari, formate da cittadini selezionati a caso, possano restituire un sentimento di partecipazione a quelle democrazie le cui istituzioni sembrano lontane dalla persone. Se le giurie funzionano, perché non dovrebbero funzionare delle assemblee di questo tipo? C’è una teoria secondo la quale le autocrazie sono avvantaggiate nel rimanere al potere in tempi di crisi perché non sono soggette ai venti del cambiamento politico. Ma se le società democratiche sono lente ad arrabbiarsi sono anche capaci di grande risolutezza. La storica e sociologa polacca Karolina Wigura ha sostenuto che ci sia stato un eccesso di il pessimismo sul futuro della democrazia, sia nel suo Paese sia altrove. E ha detto che la situazione non è «o bianca o nera, ma è piuttosto come una zebra».

Le sfumature non sono di moda in quest’epoca di grandi proclami, di “tutto o niente”, di presunzione di colpevolezza e di rifiuto dei compromessi. Ma la gran parte della vita avviene nelle zone grigie. Le democrazie sono goffe, ma sono flessibili. Non sono monocrome. Forse la Polonia, anche nelle sue svolte illiberali, sta in realtà percorrendo, come l’Italia e la Svezia, la difficile strada verso una società in cui le varie fazioni abbiano meno disprezzo reciproco.

Isaiah Berlin scrisse nel suo Il legno storto dell’umanità che «nelle cose umane non è possibile, né in pratica né in teoria, una soluzione perfetta» e che «ogni tentativo di produrne una è probabile che conduca a sofferenza, delusione e fallimento». La democrazia è imperfetta e in quella imperfezione risiedono la sua particolare umanità, la sua elasticità, la sua spaventosa fragilità e cioè quelle qualità che ogni ricerca di soluzioni utopiche finisce per distruggere lungo il suo percorso verso il terrore.

La convinzione secondo cui le democrazie di tutto il mondo, per quanti difetti possano avere, incarnino i valori di libertà, apertura, Stato di diritto, libertà di espressione e diritti umani, è stata evidente come non mai nelle parole di Oleksandr Chekmeniov, un fotografo ucraino che nelle sue immagini ha catturato l’eroismo quotidiano delle persone – un panettiere, un aiuto cuoco, un macchinista ferroviario – il cui Paese è stato attaccato semplicemente perché voleva costruire il proprio futuro democratico. Chekmeniov crede che la lotta dell’Ucraina sia essenziale per garantire che il mondo non precipiti nuovamente nella tirannia e nell’orrore: «Tutto questo terminerà con la nostra vittoria, che sarà la vittoria di tutto il mondo civilizzato, della luce sull’oscurità, del bene sul male».

Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da mercoledì 23 novembre.

Perbenismo e nuovi barbari ci distruggono dall'interno. La nostra civiltà è resa fragile da assurdi sensi di colpa e ha perso i suoi valori in nome dell'economia globale. Luigi Iannone il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

L'Occidente sta segando il ramo su cui è seduto. In preda ad una malattia senile da caduta dell'Impero, sta però da qualche tempo anche auto-alimentando un cortocircuito che potrebbe accelerare il collasso. Perché se da una parte nutre una perversa propensione a negare la propria identità storica e culturale, dall'altra vagheggia un nuovo universo di diritti che, con pretenzioso spirito missionario, vorrebbe imporre al mondo.

L'Occidente sta segando il ramo perché ha messo da parte la politica, vale a dire l'attore che ha avuto una effettiva centralità nella sua fase di sviluppo e l'unico elemento capace di coniugare libertà economiche e diritti con tradizioni, consuetudini morali e stili di vita comunitari. A comandare il gioco sono ora le grandi corporation che hanno strategie diverse da quelle degli Stati, e non solo sul piano economico. Non operano, infatti, all'interno dei mercati ma li controllano e le loro relazioni con le organizzazioni internazionali, la società civile e gli Stati sono governate da una visione utilitaristica che trascura vincoli sociali e comunitari. Ma forse non è ancora evidente a tutti che la sterzata dell'attuale sistema economico implica scelte obbligate anche sul fronte dei principi. Le fiamme del politicamente corretto stanno sorreggendo un'azione culturale e insieme pedagogica che, mentre ostenta la difesa dell'autodeterminazione e della libertà, crea codici etici simili a strumenti di censura e di schiavitù. Solo in una condizione di palese inanità e miopia politica elementi così contrastanti come senso di colpa e spirito missionario, auto-risentimento e moralismo, possono apparire facce della stessa medaglia. Ma è proprio per questo paradossale motivo che la caduta dell'Impero potrà verificarsi non già per una conquista dall'esterno, bensì per implosione.

Di una di queste facce traccia i contorni Eugenio Capozzi nel suo nuovo libro, Storia del mondo post-occidentale (Rubbettino, pagg. 180, euro 16), ripercorrendo le vicende dell'Occidente dal 1989 e chiarendo i motivi del progressivo ridimensionamento in un mondo plurale e diviso. L'originaria visione del mondo post-Guerra fredda prevedeva che i conflitti e i problemi relativi al bisogno, alla disuguaglianza, al mancato o carente sviluppo economico sarebbero stati gradualmente riportati sotto controllo dalla cooperazione e dall'interdipendenza. L'età della globalizzazione originava dall'idea di un'affermazione planetaria del nostro modello politico, economico e culturale fondato su principi di tolleranza, sostenuto da una sempre ricercata compatibilità tra libertà e uguaglianza e la dignità degli esseri umani. Al contrario, ci troviamo di fronte a nuovi conflitti etnico-nazionalisti, religiosi e di civiltà in un mondo multipolare dove, peraltro, nel campo delle relazioni internazionali si è risvegliata la geopolitica, considerata per lungo tempo un tabù.

Nonostante lo stato tragico in cui versa, sarebbe un errore arrendersi all'idea che l'Occidente sia diventato del tutto marginale. La realtà generale è infatti più frammentata e controversa. Siamo tuttavia di fronte a un evidente logoramento dei fondamenti condivisi, a un'economia incatenata ai ricatti delle multinazionali e, al contempo, al trionfo di un relativismo che per una singolare bizzarria edifica e impone dogmi moralistici.

Tutto ciò ce lo svela l'altra faccia della medaglia, quella rappresentata dall'auto-risentimento o, per essere più espliciti, dal senso di colpa nel momento in cui va maturando nella coscienza collettiva la convinzione che si debba cancellare il passato, eludere ogni spirito critico e capacità di interrogarsi al di fuori dei cliché e predisporre a erigere come ideologia dominante il politicamente corretto.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Tom Wolfe firmava la sua corrispondenza sui radical chic dalla casa di Manhattan di Leonard Bernstein. E da quando, solo qualche anno più tardi, alcune università statunitensi pensarono di eliminare dai programmi Aristotele, Cicerone, Dante, Cervantes, Kant, Dickens e Tolstoj per sostituirli con una cultura «più afrocentrica e più femminile». Ne è passata di acqua perché quella strana paccottiglia ideologica è ora diventata il medicamento necessario per il consumo, mentre il suo rifiuto rimanda a qualcosa di immorale e indicibile ed evoca un apparato di assunti culturali e di insulti di cui tutti conosciamo i titoli: razzismo, omofobia, sessismo e così via.

Su quest'altra faccia della medaglia, sul razzismo etico, quindi sul processo di censura preventiva delle idee e delle parole, fa una minuziosa ricognizione Giulio Meotti in I nuovi barbari. In Occidente è vietato pensare e parlare? (Lindau, pagg. 130, euro 14) ripercorrendone il cammino di maturazione. Quando un marchio di cosmetici decise di rimuovere le parole «bianco», «sbiancamento» e «chiaro» dalle confezioni dei prodotti il fatto suscitò ilarità. Adesso l'ilarità ha lasciato il campo a convinzioni radicate. Dalle anime candide dello showbiz agli intellettuali «impegnati», da larghi settori dell'opinione pubblica e della politica alle campagne pubblicitarie delle multinazionali, si agita un'avversione sprezzante nei confronti di una società considerata gretta e intollerante.

Ciò accade perché si è costruito un intreccio pericoloso tra università, media, multinazionali e cultura di massa che, al pari della tortura della goccia cinese, sta puntando a smantellare pezzo per pezzo - e giorno dopo giorno - l'autostima dell'Occidente. L'abbandono dell'idea di libertà come adesione al bene e il suo rifugiarsi in un asfittico pensiero unico sta trasformando nel profondo la nostra civiltà che nella foga di emancipare l'individuo lo rende schiavo: «Quello a cui stiamo assistendo - scrive Meotti - è piuttosto lo shock della non-civiltà. In questo nuovo regime, libertà illimitata e dispotismo illimitato non sono più in opposizione. Si sono fusi».

Senso di colpa e nuovi diritti si raccontano bene attraverso la furia della cancel culture. E poi ci sono anche i dementi che, mossi da un'irrefrenabile ansia purificatrice, imbrattano sculture o vogliono crocifiggere l'uomo bianco. E l'idea che l'immigrazione non comporti alcun rischio, che le frontiere esistano per essere attraversate, che le minoranze sessuali ed etniche sono le uniche a poter far valere i loro diritti, che il genere esista in infinite varianti e sia separato dal sesso, che la famiglia naturale rappresenti il male e, infine, che l'orizzonte sia il transumanesimo.

L'impotenza dell'Occidente risiede in questa contraddizione e nel fatto che non comprenda che «il miglior modo per uccidere una civiltà consiste nel farla ammalare e poi farle credere che la si sta salvando vendendole una medicina su cui è scritto rispetto, tolleranza, inclusione, uguaglianza, facendole credere che la medicina somministrata, che in realtà è un veleno, la rimetterà in piedi». Ma soprattutto risiede nel fatto che non affermi la verità più banale e cioè che non vi sono barbari pronti a entrare, poco più in là della frontiera, dal momento che sono già dentro. Basta guardarsi allo specchio!

Gli scontri tra Oriente e Occidente. Ernst Jünger e il "nodo" dell'incontro-scontro tra Oriente e Occidente. La sfida archetipica segna tutta la storia della civiltà: sempre in bilico, mai risolta. Marino Freschi su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Erano passati quattordici anni, non molti, eppure era tutta un'altra storia. Nel 1939 usciva Sulle scogliere di marmo il romanzo simbolico di Ernst Jünger, uno dei racconti più intensi della letteratura del primo Novecento, un puro capolavoro. Nel 1953 lo scrittore pubblica un saggio inquietante e nel medesimo tempo un classico: Il nodo di Gordio, che suscitò una vivace discussione intellettuale. In mezzo c'erano state la guerra, la catastrofe tedesca, la vergogna tedesca, la sconfitta di tutta l'Europa, con i russi a Berlino, pronti ad avanzare ancora: la bandiera rossa sventolava sprezzante sulle rovine del Reichstag «millenario». A pochi metri il bunker sotterraneo con il corpo carbonizzato del Führer. Ernst Jünger era stato coinvolto nell'attentato fallito a Hitler del 20 luglio del 1944. Il suo nome venne depennato dalla lista dei condannati a morte dallo stesso Führer. Lo scrittore dovette immediatamente abbandonare Parigi, sparire in un villaggio tedesco. Con l'arrivo degli alleati fu sottoposto alle aspre pratiche di denazificazione, consistenti per lui nel divieto di pubblicare, che venne ritirato nel 1953. Nello stesso anno usciva un saggio sorprendentemente affine di A. Toynbeee: The world and the West; si era pronti a riaprire una grande discussione sulle rovine dell'Occidente.

La Germania di Jünger era un campo di macerie materiali e ancor più morali e spirituale, il figlio morto in combattimento sulle Alpi Apuane, vittima forse di fuoco amico in quanto dissidente del regime. Malgrado tanto dolore, il saggio Il nodo di Gordio è perfetto come un bassorilievo greco di travolgente bellezza stilistica e densità intellettuale: si avverte già dall'incipit la mano dell'artista e del pensatore. «Oriente e Occidente: negli avvenimenti mondiali questo incontro non è soltanto di primaria importanza, ma rivendica un'importanza tutta particolare. Fornisce il filo conduttore della storia, l'inclinazione dell'asse rispetto all'orbita solare. Balenando sin dagli albori, i suoi motivi si dipanano fino ai nostri giorni. Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull'antico palcoscenico e recitano l'antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena».

La visione è nitida e riconosce gli antichi attori: i Sarmati, i Persiani, i Tartari, le masse enormi dei popoli dell'Asia, e dall'altro parte i valorosi spartani, greci, romani, crociati e templari: Oriente e Occidente. A leggere oggi quelle pagine di settant'anni fa il pensiero riconosce le tracce visibili della storia negli attacchi notturni dei nuovi Sarmati sugli operosi villaggi della Vodolia, della Galizia fino alle «rive del Dnipro, Muro di Berlino che spezza l'Ucraina» (titolo del quotidiano La Repubblica), mentre Massimo Cacciari apre il primo numero dell'anno de La Stampa con un articolo in sorprendente consonanza con l'intuizione storico-mitica di Jünger: «L'Occidente che non riesce a sciogliere i nodi di Gordio», ma con una curvatura irenica che non è certo la prospettiva di Jünger, la cui forte impressione mitica fa riapparire gli archetipi dello scontro epocale tra due civiltà, tra due antropologie, tra due etnologie. Riaffiora, in Jünger, la grande tradizione culturale tedesca, quella che con Nietzsche aveva fondato l'antinomia cultural-spirituale tra apollineo e dionisiaco che con Thomas Mann e Oswald Spengler si era precisata nel contrasto fondante tra Kultur e Zivilisation, tra spirito e democrazia. Le radici intellettuali di Jünger risalivano al monumentale Matriarcato di J. J. Bachhofen del 1861 in cui il regno, oscuro delle madri è contrapposto al dorico, apollineo sorgere degli Dei luminosi dell'Olimpo, già intuito dai Veda. Il sigillo oriente-occidente era stato affrontato, dalla prospettiva tradizionale, da Réne Guénon nel 1924 in un saggio d'immensa risonanza. In realtà il contrasto era apparente: l'Occidente evocato dal pensatore tradizionalista francese era privo del fulgore olimpio scolpito da Jünger nel suo saggio, cui rispose nel 1955 Carl Schmitt, replica che a appare in appendice a Il nodo di Gordio jüngeriano. Oggi il libro è ripubblicato da Adelphi insieme a un utilissimo aggiornamento sull'intera discussione a cura di Giovanni Gurisatti (che ha anche tradotto con Alessandro Stavru i saggi dei due maestri tedeschi).

Con Il nodo di Gordio Jünger torna alla classica grandezza stilistica delle Scogliere di marmo: nel saggio il mondo confuso barbarico, oscuro, «asiatico» del Forestaro - il principe del caos del romanzo - incarna il polo dell'Oriente, quello di una umanità senza la luce della coscienza, a cui la civiltà d'Occidente è pervenuta con immensi sforzi, ché la storia nulla regala: «Per dimostrare che lo spirito libero domina il mondo si paga il prezzo più alto. Questa è la prova che dev'essere superata nel sacrificio. Con essa bisogna mostrare che il libero governo è superiore ai dispotismi, che i liberi combattenti pesano più delle masse e che le loro armi sono meglio congegnate e di più lunga gittata. Si arriva così ai momenti di svolta, nei quali gli spiriti si gettano nella mischia. Eserciti immensi vengono affrontati, incalzati nelle valli, nelle sacche, nelle gole, ricacciati nei mari o negli stretti. I superstiti fuggono, i loro capi si danno la morte in foreste e deserti». Lo scontro diventa epocale, tra i valori della luce e le forze ctonie dell'oscurità, tra la cultura della forma contro l'amorfo. Il sacrificio di Leonida segna non solo un evento bellico, ma un'illuminazione, l'epifania di un nuovo splendore della coscienza: in questo contesto la lotta si sublima in un evento grandioso, epocale: «Adoperata in questo modo la spada è spirituale; è lo strumento di una decisione libera e risolutiva».

A leggere oggi questo saggio insieme con la risposta di Schmitt - si viene travolti dalla lucente bellezza di ogni classica memoria, ma anche dalla sua travolgente attualità. Pare ma è così! - che l'Occidente sia chiamato a difendere, ancora una volta, la sua identità storica, la sua libertà, sulle mugghianti rive del Dnipro nella reiterazione dell'epocale scontro tra civiltà. Tutto è ancora in bilico, nulla è ancora perduto se l'Occidente saprà elevare al sole i propri vessilli di libertà, ritrovare i valori della propria cultura, e tagliare con decisione l'eterno nodo di Gordio: nell'intramontabile mito «compare un principio spirituale in grado di disporre in modo nuovo e più pregnante del tempo e dello spazio».

"Il Nodo di Gordio", Junger e Schmitt raccontano il rapporto tra Occidente e Oriente. Jünger e Schmitt scrivono un saggio attuale sul rapporto tra Occidente e Oriente, fermandosi più volte sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" evocata dal presidente Usa Joe Biden. "Per la storiografia occidentale l'atto di arbitrio è inconciliabile con la dignità del monarca". Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

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 Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio

 Il rapporto tra Occidente e Oriente

Il Nodo di Gordio, proprio come il nodo che stringeva il giogo al timone del carro consacrato da Gordio a Zeus nel suo tempio, e che Alessandro Magno nel 334 a. C. troncò con un colpo netto di spada, ottenendo così il dominio dell’Asia e del mondo, così come predicava un'antica profezia. Ma Il Nodo di Gordio è anche un'opera monumentale di Ernst Jünger, pubblicata per la prima volta nel 1953, dopo la Seconda guerra mondiale e in piena Guerra Fredda, a cui due anni dopo replicava con uno scritto altrettanto intenso l'amico Carl Schmitt. È un'opera che riflette sulla natura del rapporto-scontro fra Oriente e Occidente.

"Questo incontro", scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma "rivendica di per sé un’importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia". Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: "Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull’antico palcoscenico e recitano l’antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena".

Lo storico Franco Cardini racconta Il Nodo di Gordio

"Il Nodo di Gordio" è stato recentemente ripubblicato dalla Piccola Biblioteca Adelphi con gli scritti originali di Jünger e Schmitt, in un'edizione curata da Giovanni Gurisatti. Saggio fondamentale che è stato raccontato e sviscerato nei suoi punti focali - in occasione di una serata svoltasi lo scorso 28 gennaio al Teatro di Pergine Valsugana (Tn) e organizzata dall'omonimo think-tank - dallo storico Franco Cardini. "La spada è un elemento risolutivo, anche nel suo uso militare. Si usa la spada per stabilire chi vince e chi perde. La spada di Artù dall'incudine, dalla pietra, o dall'albero in cui è infitta, secondo le varianti della leggenda arturiana, è uno strumento che indica il modo in cui l'ordine mondiale sarà ristabilito. Chi estrae la spada è un eletto a ristabilire l'ordine in uno stato di disordine. Il Nodo di Gordio è esattamente la stessa cosa. È un nodo fra due apici di una corda che serve ad aggogiare due bui o due tori ad un aratro, ma il nodo è così intricato che non si può sciogliere".

Alessandro, ha spiegato, "fa una scelta: risolve, non sciogliendo il nodo con pazienza, ma con un taglio netto della spada, ottenendo un risultato, ma a un prezzo. Perché una sezione della corda viene rovinata da questo gesto". Così si ritrova, ha continuato Cardini durante la serata organizzata dal think-tank Il Nodo di Gordio, "sospeso tra l'Oriente e l'Occidente, fra l'Europa e l'Asia". Alessandro, ha sottolineato lo storico incalzato da Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano, "non è considerato un greco dai greci. È considerato un greco dai persiani, e risolve il problema del loro rapporto con un taglio netto e dando avvio a un sistema di governo nuovo".

Il rapporto tra Occidente e Oriente

L'attualità dei due saggi di Jünger e Schmitt sul rapporto fra Occidente e Oriente, sulla sfida tra "democrazia" e "autoritarismo" più volte evocata - con una buona dose di retorica - dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è impressionante. Per la storiografia occidentale, scrive Jünger, l'atto di arbitrio è "inconciliabile con la dignità del monarca", e getta come un'ombra sul carattere di quei pochi cui viene attribuito il titolo di "grande". E ancora: il filosofo tedesco sottolinea come in Oriente l'atto di arbitrio "non pregiudica la grandezza di un principe", ma ne è piuttosto la conferma.

In Oriente è del "tutto nella norma che durante un banchetto Alessandro uccida Clito", che gli aveva salvato la vita. La sentenza del principe "ha valore sia che derivi da una ponderata riflessione", sia che provenga da una vampata di collera. Nel pensiero occidentale e nella relativa storiografia l'atto di arbitrio, soprattutto quando si manifesta in modo brutale, osserva Jünger, "viene considerato una macchia". Anche quando mira al bene, alla giustizia, "come nella lotta contro il drago, getta un'ombra sull'impresa".

A tal proposito, scrive Carl Schmitt commentando l'opera dell'amico, quando si parla di "Nodo di Gordio" ci si immagina perlopiù un groviglio confuso. Il gesto di Alessandro Magno sarebbe stato quello di sciogliere il groviglio, e in modo semplice - pericolosamente semplice - decisionistico: "con un colpo di spada". Ma il libro di Jünger, come spiega bene Schmitt, non rappresenta una condanna del mondo orientale e un'esaltazione occidentalistica: "In realtà -osserva -il libro di Jünger non fa che parlare di polarità e transizione. La sua conclusione non è un aut-aut, ma un et-et, un incontro reciproco, un bussare alla porta, uno scambio e un equilibrio, un ritorno nell'eterno nel tempo e un accenno alle recondite risposte che spettano all'Oriente". Perché senza aver letto questo libro fondamentale, difficilmente si può comprendere il complesso rapporto tra Oriente e Occidente. Scritto 70 anni fa, questo saggio si presenta oggi come un classico: senza tempo.

La superbia del secolarismo farà cadere l'Occidente. Francesco Perfetti il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Marcello Pera recupera il pensiero di sant'Agostino per leggere la crisi, non solo spirituale, dei nostri tempi

Ci sono inquietanti somiglianze fra l`epoca nella quale visse e operò Sant`Agostino e quella nella quale siamo oggi immersi: da una parte, la crisi di Roma e del suo grande impero, dall`altra la crisi della civiltà occidentale col ripudio delle sue radici cristiane e la tendenza a far prevalere i cosiddetti diritti umani sui doveri. L`elemento che avvicina queste due crisi, che le accomuna pur nella distanza dei tempi storici, è la «superbia», tanto degli antichi quanto dei moderni e ancor più dei contemporanei, che si risolve nella convinzione, pur declinata in diversi modi, che l`uomo possa costruire da solo il proprio Paradiso in terra.

Parte proprio da tale constatazione l`ultima suggestiva (e importante) opera di Marcello Pera dal titolo "Lo sguardo della caduta. Agostino e la superbia del secolarismo" (Morcelliana, pagg. 196, euro 18): un bel testo di filosofia che guarda all`oggi, alla crisi spirituale dell`Occidente e alla perdita della sua identità, proseguendo un discorso già avviato con finezza argomentativa in due precedenti volumi: "Cristianesimo e diritti umani" (Marsilio, 2015) e "Critica della ragion secolare. La modernità e il cristianesimo di Kant" (Le Lettere, 2019). Vi si ritrova un ritratto impietoso delle inquietudini del nostro tempo tratteggiato con intensa e incisiva pennellata: «secolarismo, scientismo, liberalismo, ecologismo, neo-umanesimo e trans-umanesimo, diritti individuali senza doveri, costumi senza confini, linguaggi purificati, opere dell`ingegno mortificate, storia censurata o cancellata: questo e altro sono i nuovi dei pagani a cui tributiamo i nostri sacrifici, culti, riti individuali e di massa. Salvo poi a ritrovarci sempre più avvolti nell`incertezza e nel disagio».

Anche un altro filosofo cattolico contemporaneo - peraltro rispetto a Marcello Pera di ben diversa formazione -, Augusto Del Noce, aveva pur egli denunciato tale situazione in un libro su "L`epoca della secolarizzazione" (Giuffrè, 1970, poi Aragno, 2015) mostrando come questo periodo, punto d`arrivo del «neo-illuminismo», si fosse caratterizzato per una crescente irreligiosità e per una significativa espansione dell`ateismo. Lo ricordo, naturalmente per incidens, a riprova del fatto che alla diagnosi dei guasti collegati al rifiuto o all`abbandono della tradizione è possibile pervenire seguendo argomentazioni e percorsi intellettuali diversi.

Pera, prima filosofo della scienza e poi esegeta di Karl Popper, angosciato dalla odierna deriva filosofico-esistenziale, ha trascorso molti anni a confrontarsi e a interloquire idealmente con due giganti del pensiero occidentale, Kant e sant`Agostino, più contigui di quanto generalmente non si pensi. Agostino, infatti, a sua detta, è il filosofo che ha fornito al cristianesimo la massima dignità speculativa, mentre Kant, schivando le trappole dell`illuminismo antireligioso, aveva pensato di elevare quel cristianesimo, appunto, a verità universale della «ragion pura». In altre parole, e semplificando, Agostino si era proposto di «cristianizzare la ragione» mentre il filosofo di Königsberg aveva pensato di «razionalizzare il cristianesimo».

Dopo aver sottolineato come questi due propositi abbiano finito per incontrarsi, Pera fa notare come diverso sia stato il loro destino storico: il progetto kantiano di unità fra ragione e cristianesimo, infatti, durò, e per di più contrastato, solo una stagione, mentre le idee di Agostino, pur caratterizzate da un pessimismo di fondo, hanno mostrato e mostrano tuttora una eccezionale capacità di far comprendere la modernità anche nei suoi aspetti più problematici. Un solo esempio: un passaggio dell`opera più celebre di Agostino, La città di Dio, riportato da Pera - quello laddove si parla delle discussioni fra intellettuali e delle molte e contrastanti versioni su eventi e idee - contiene in germe il principio della «equivalenza» di ogni verità, cioè, in altre parole, anticipa quel «relativismo etico» denunciato da Benedetto XVI, profondo cultore, non a caso, proprio del pensiero agostiniano.

Quando Agostino, allora vescovo di Ippona, cominciò a scrivere nel 412-413 la sua opera più celebre, appunto "La Città di Dio", che avrebbe concluso nel 426-427, qualche anno prima della morte, il cristianesimo si era ormai affermato nella società romana e l`Impero, per conversioni spontanee o indotte, era diventato cristiano. Eppure quel mondo, apparentemente al massimo della sua potenza, stava finendo: le orde barbariche guidate da Alarico avevano saccheggiato Roma e questo fatto aveva segnato l`inizio di quella crisi storica che era anche, prima e soprattutto, crisi morale. Non a caso, si diffuse la convinzione - semplicistica, ma, secoli dopo, fatta propria da storici formatisi nell`illuminismo, a partire dall`inglese Edward Gibbon - che il cristianesimo fosse all`origine del decadimento della potenza dell`impero romano.

Una crisi morale, comunque, quella alle origini della riflessione di Agostino, che coincideva con la decadenza della civiltà cristiana dell`Occidente simboleggiata dalla caduta di Roma e del suo impero. E che, paradossalmente, sembra trovare, ancorché in un contesto storico del tutto diverso, una replica estesa a tutto l`Occidente, il quale - a cominciare dalla Chiesa - attraverso un processo di generalizzata secolarizzazione ha ripudiato, in nome di una «superbia» intellettuale, quelle radici cristiane sulle quali erano state costruite la sua storia e la sua stessa civiltà.

Basandosi proprio sul parallelismo fra queste due grandi «crisi» morali ed epocali e, al tempo stesso, sostanziandosi di una lettura critica degli innumerevoli testi del filosofo cristiano, Marcello Pera intrattiene con Agostino una ideale conversazione su elementi della riflessione agostiniana, in particolare sui temi della politica e della libertà, suscettibili di essere utilizzati ancora oggi sia per capire quanto sta accadendo sia per poter incidere, in qualche misura, sulla realtà.

Alla base del pensiero agostiniano c`è l`idea della «caduta»: l`uomo, responsabile del peccato originario per la sua ribellione a Dio, non può liberarsi da solo, senza cioè l`aiuto divino della grazia, delle conseguenze di questo peccato. Comprensibilmente, uno dei possibili esiti di tale tesi è, in politica, la giustificazione della teocrazia. Ma non è l`unico esito possibile, perché, come ha sostenuto qualche studioso, è possibile cogliere una «inferenza liberale» nella teologia politica di Agostino.

Pensatore autenticamente liberale o se si preferisce conservatore liberale, Marcello Pera dedica alcuni capitoli del suo saggio a individuare i possibili punti di contatto fra la concezione agostiniana della società, dello Stato, della politica e taluni capisaldi propri del liberalismo contemporaneo. Così ci rendiamo conto che le due visioni, quella agostiniana e quella liberale, hanno elementi di analogia, per esempio, per quanto riguarda la preminenza dei doveri sui diritti, il primato dell`individuo sullo Stato, l`idea che lo Stato sia un male necessario, il rifiuto di ogni illusione salvifica ed escatologica...

Alcuni anni or sono, nel 2008, echeggiando il celebre saggio di Benedetto Croce Perché non possiamo non dirci cristiani, Pera pubblicò un volume intitolato Perché dobbiamo dirci cristiani di condanna del relativismo culturale contemporaneo. In certo senso, il suo nuovo libro, al di là dello spessore teoretico che lo caratterizza, precisa, sul terreno della politica, molte intuizioni lì accennate facendo intendere come il ritorno alle riflessioni di Agostino rappresenti un antidoto alla crisi esistenziale del nostro tempo. Il libro potrebbe ben avere, come sottotitolo, «Perché non possiamo non dirci agostiniani».

Non è la fine della Storia. Semmai la fine dell'Occidente. Il grande abbaglio è sempre più evidente. E la presunta superiorità sul resto del mondo si rivela autolesionista...Stenio Solinas l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nella «fine della storia», che contempla «il fine della storia», ma si conclude con «la storia della fine» c'è molto di più di un gioco di parole più o meno elegante o più o meno noioso. C'è il prendere atto di un abbaglio di fine secolo, il XX, e del brusco risveglio che il nuovo secolo, quello ancora relativamente giovane, ma già sottoposto a usura, ha comportato, e con esso la constatazione non solo che la storia non è finita e tanto meno che procede in progressione verso uno scopo ultimo quanto universale di pace democratica realizzata, ma anche che è proprio il canone occidentale interpretativo a non reggere più.

Come spiega bene Lucio Caracciolo nel suo La pace è finita (Feltrinelli, pagg. 140, euro 16), «l'ideologia che fissa un termine alla progressione della storia umana è smaccatamente occidentale. Proprio perché occidental-illuminista tale filosofia non può che pretendersi universale. Contraddizione che la rende inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva identificazione del Resto del Mondo con l'Occidente. Operazione anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali, mediamente più giovani e in aumento vertiginoso, specie in Africa. Sicché ogni buon missionario della fine della storia dovrebbe convertire sette non occidentali alla sua fede. E al suo impero».

Già, perché la fine della storia implicava di per sé il trionfo dell'impero americano che in essa si incarnava, sublimato in ordine ecumenico. La sua rimessa in discussione a livello egemonico non comporta, naturalmente, il suo venir meno quanto a rango di superpotenza o, se si vuole, di prima potenza mondiale, ma, e non è un paradosso, contribuisce, come scrive Caracciolo, a svelare «il bluff europeista, che ci aveva traslato nell'ipnotico universo della pace assicurata, non è chiaro da chi e cosa». Crolla insomma l'illusorio castello di carte in cui l'Europa si voleva vedere come potenza civile, con tanto di tonalità universalistica, che però si offriva al mondo «via Nato, come secondo braccio dell'Occidente a guida americana, equilibrato dalla saggezza dell'antica civiltà vetero-continentale. Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui».

Se dunque la pace è finita, come recita il titolo del saggio di Caracciolo, autore tanto più significativo se si pensa che si deve a lui, grazie alla sua rivista Limes, l'aver riportato al centro del dibattito scientifico-culturale quel concetto di «geopolitica» disinvoltamente silenziato nel nome e al tempo dell'astrattismo universale, ne consegue, come osserva un altro analista di vaglia, Alessandro Colombo, che quello che viene a configurarsi è proprio l'opposto di ciò che la fine della storia pretendeva di realizzare, ovvero una fine della storia di senso contrario, dove a essere universale non è la pace, ma l'emergenza. Il governo mondiale dell'emergenza (Raffaello Cortina, pagg. 221, euro 19) si intitola infatti il suo libro e «Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia dell'insicurezza» è il sottotitolo che l'accompagna, una frustrazione securitaria subentrata alla promessa liberale di pace, benessere e tranquillità a livello globale. La prima domanda che ragionevolmente viene da porsi è perché quell'ordine liberale che portava con sé la fine della storia sia entrato in crisi. Le risposte che ne rintracciano i motivi in qualche «tradimento» interno e/o esterno del progetto risultano parziali, allo stesso modo di come si imputata la crisi delle democrazie rappresentative ai «populismi» che le minacciano, come se questi fossero la causa e non l'effetto della crisi stessa. Come scrive Colombo, «ciò che non viene mai preso in considerazione è la possibilità che l'ordine liberale sia entrato in crisi per le sue stesse contraddizioni interne: di più, che la crisi del progetto liberale possa non essere altro che un prodotto del suo stesso successo». Colombo suggerisce al riguardo più di un indizio: per esempio, il ricorso «sempre più irresponsabile all'uso della forza», culminato nelle disastrose imprese militari in Iraq, Afghanistan e Libia; per esempio, «il rapporto storicamente ripetitivo tra finanziarizzazione dell'economia e aumento delle diseguaglianze»; per esempio, «le sospettose coincidenze tra il ritiro dei diritti sociali distribuiti nel corso del Novecento e il rifluire dello spettro della rivoluzione». Soprattutto però, e questo lega strettamente l'analisi di Colombo a quella di Caracciolo, tanto che i due libri possono essere letti come un unicum, quella crisi è insita proprio nell'idea di modernità occidentale che ne è il supporto, per certi versi «l'ultima (e, forse, la decisiva) manifestazione del ruolo occidentale di centro di irradiazione di istituzioni, linguaggi e relazioni di potere».

Detto in altri termini, la lettura di un possibile Nuovo ordine mondiale come la più completa manifestazione di un grande progetto di riordino della vita internazionale risalente alla metà del Novecento, se non addirittura al suo inizio, fa acqua proprio nei suoi presupposti. Il Novecento infatti è stato ben altro. Innanzitutto, è stato «il secolo della fine della centralità dell'Europa e più in generale del riflusso dell'impeto occidentale sul mondo», una «rivolta contro l'Occidente» approdata agli sconvolgimenti della decolonizzazione e di fatto non ancora esauriti nel loro intrecciarsi con le contraddizioni del potere su scala internazionale. Sicché viene da chiedersi se il XX secolo non segni proprio «la fine della fase occidentale della storia del mondo» e quindi in prospettiva dello scontro, di segno quasi perfettamente opposto, tra la marea montante dei grandi Paesi non occidentali in ascesa e «un Occidente sempre più rinchiuso nella postura strategica e persino nell'attitudine psicologica dell'assedio».

Che in questo Occidente in vena di esaurimento quanto a supremazia, l'Europa sia una semplice appendice, è la chiave di volta, ne abbiamo già accennato, dell'analisi di Caracciolo, che ne dà però una lettura controcorrente rispetto al mainstream dello stesso pensiero occidentale. «Non solo il soggetto Europa non esiste né appare alla vista, ma l'organizzazione dello spazio europeo è ispirato al principio di impedire che si formi. Perché è questo l'interesse degli Stati Uniti d'America: un continente stabile, ma non troppo, da loro strategicamente dipendente». L'Europa per come è venuta a identificarsi, è in fondo un prodotto dell'europeismo americano. In senso geopolitico, perché la incardina oltreoceano impedendole di essere un contropotere. In senso ideologico, in quanto sostiene un europeismo europeo «incapace di unire gli europei», ma «utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento inevitabile dopo aver perso due guerre mondiali. Parcheggiandoli nella post-storia».

Tre generazioni dopo l'invenzione del «progetto europeo», è l'amara conclusione di Caracciolo, «quello che avrebbe dovuto evolvere la nostra potenza decaduta in un soggetto geopolitico unitario, constatiamo di essere oggetti di attori e di dinamiche che ci trascendono. E oppongono gli uni agli altri. Niente di straordinario. Storie ordinarie, anzi, che riempiono il vuoto dell'europeistica fine della storia, talmente eccezionale da non appartenere a questo mondo».

Ciò che resta sullo sfondo è la mobilitazione delle frasi fatte, ovvero la chiamata alle armi, settant'anni dopo, come scrive Colombo, «non soltanto ovunque contro lo stesso nemico, ma addirittura contro lo stesso di sempre - il fanatismo, il fascismo (islamico o di Vladimir Putin), le autocrazie, espressione di una indifferenza senza limiti alle specificità storiche e culturali, oltre che di una vocazione narcisistica a interpretare qualunque vicenda storica e politica come proiezione della propria». Da una promessa irrealistica di sicurezza, la parabola dell'ascesa e declino dell'ordine liberale si è concretizzata in una percezione esagerata dell'insicurezza. Ma era proprio «la vacanza liberale dal pericolo», e dalla storia stessa sentita come pericolo, a essere un'anomalia. Ed è a questa anomalia che dobbiamo l'estremo paradosso del nuovo secolo, ovvero la trasformazione di una propensione dichiaratamente pacifica alla sicurezza in una bellicosa disponibilità alla mobilitazione permanente. Come aveva detto, prefigurando il futuro, Carl Schmitt, la guerra dietro l'apparenza della pace si trasforma in «un provvedimento pacifico accompagnato da battaglie di più o meno grande portata»...

Brasilia come Capitol Hill. L’assalto dei sostenitori di Bolsonaro al Parlamento e alla Corte Suprema. Linkiesta il 9 Gennaio 2023

Dopo qualche ora, è stato ripreso il controllo delle istituzioni. Gli arresti sono circa 400. L’ex presidente dalla Florida respinge le accuse di aver alimentato le violenze

Migliaia di sostenitori dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro hanno assaltato le sedi istituzionali a Brasilia, in un attacco che ricorda quello del 6 gennaio 2021 al Congresso americano da parte dei fan di Donald Trump. Sfondando le barriere di sicurezza, sono entrati negli uffici presidenziali, nella Corte Suprema e nel Parlamento, vandalizzando gli edifici. Dopo ore gli scontri con la polizia, gli agenti hanno ripreso il controllo degli edifici.

Ci sono cifre discordanti sugli arresti. I media brasiliani parlano di almeno 150 fermi. Per il ministro della Giustizia sono più di 200, per il governatore di Brasilia 400. Chiesto l’arresto per l’ex responsabile della sicurezza di Bolsonaro, ora responsabile del distretto della capitale. Ma anche lui, come Bolsonaro, si trova in Florida.

I bolsonaristi contestano la vittoria alle elezioni di ottobre del presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si è insediato una settimana fa, e chiedono un intervento militare. Bolsonaro aveva contestato il risultato delle elezioni e i suoi sostenitori erano accampati vicino alla sede del parlamento da giorni.

Durissimo il presidente Lula, che ha definito i manifestanti «fascisti» e ha promesso che saranno puniti, aggiungendo che «la polizia è incompetente o in malafede». E proprio Bolsonaro, ore dopo l’assalto, ha parlato via social respingendo le accuse di aver alimentato le violenze. «Le manifestazioni pacifiche, secondo la legge, fanno parte della democrazia», ha scritto. «I saccheggi e le invasioni di edifici pubblici come quelli di oggi, così come quelli praticati dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, sono illegali». E poi ha aggiunto: «Respingo le accuse, senza prove, attribuitemi dall’attuale capo dell’esecutivo del Brasile», in riferimento ai commenti di Luiz Inacio Lula da Silva. «Durante tutto il mio mandato sono sempre stato nel perimetro della Costituzione, rispettando e difendendo le leggi, la democrazia, la trasparenza e la nostra sacra libertà».

Il giudice della corte suprema federale Alexandre de Moraes ha rimosso il governatore di Brasilia Ibaneis Rocha. Una delle questioni principali è come sia stato possibile che i manifestanti siano stati in grado di accedere ai palazzi governativi. Le immagini video delle televisioni locali e quelle diffuse sui social media mostrerebbero come ci sia stata poca resistenza da parte delle forze di sicurezza.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha condannato l’assalto, mentre diversi membri del congresso statunitense hanno invocato l’estradizione di Bolsonaro.

La premier Giorgia Meloni ha twittato in tarda serata, quando già le polemiche per il lungo silenzio si stavano alzando di livello: «Quanto accade in Brasile non può lasciarci indifferenti. Le immagini dell’irruzione nelle sedi istituzionali sono inaccettabili e incompatibili con qualsiasi forma di dissenso democratico. È urgente un ritorno alla normalità ed esprimiamo solidarietà alle Istituzioni brasiliane».

Anche in Brasile i populisti eversivi minano i fondamenti della democrazia. Federico Rampini Online su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

L’assalto al Parlamento dei seguaci dello sconfitto Bolsonaro imita l’assalto dei trumpiani del 6 gennaio 2021. Considerare il rivale come il male assoluto serve a sdoganare la violenza

Secondo Karl Marx la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. Lo hanno confermato in Brasile i seguaci dello sconfitto Bolsonaro, che hanno inscenato due anni dopo la loro versione del 6 gennaio 2021. Imitando l’assalto dei trumpiani al Congresso degli Stati Uniti, un pezzo della destra populista brasiliana ha invaso la sede del Parlamento. Il comune denominatore è l’atteggiamento eversivo di chi non accetta il responso delle urne: il 30 ottobre il socialista Lula vinse senza ombra di dubbio, ancorché di stretta misura.

Questi comportamenti criminali puntano a distruggere un fondamento della democrazia, che è il riconoscimento della legittimità dell’avversario. La liberaldemocrazia funziona finché gli sconfitti accettano di farsi da parte, sapendo che grazie alla libera competizione elettorale la prossima volta potranno tornare a governare. Se invece il partito rivale viene considerato come il male assoluto, allora il fine giustifica i mezzi e perfino la violenza diventa accettabile. Non è solo un vizio della destra quello di demonizzare l’avversario; però in questa congiuntura storica da Trump a Bolsonaro è quella parte politica che sdogana l’assalto più plateale alle istituzioni.

La sindrome dell’imitazione è tanto più pericolosa in quanto il Brasile non ha una liberaldemocrazia antica come la Repubblica statunitense, la quale è sopravvissuta a tante crisi dalla sua fondazione nel 1787. La transizione dalla dittatura militare a Brasilia avvenne ben più di recente, tra il 1985 e il 1988. I bolsonaristi, che dal 30 ottobre covano il sogno di una rivincita illegale affidata alla piazza, hanno sperato di trascinare dalla loro parte le forze armate. Mentre scriviamo non c’è segnale che i militari vogliano giocare al golpe. Il governo Lula ha avuto l’astuzia di affidare proprio a loro la difesa del Parlamento. Peraltro un Congresso vuoto: a differenza del 6 gennaio 2021 a Washington, quando senatori e deputati dovevano ratificare l’elezione di Biden, quello di Brasilia non era in sessione al momento dell’assalto e Lula era già presidente da una settimana. Senza un rovesciamento nell’atteggiamento dei militari, la messinscena bolsonarista non sembra destinata ad avere conseguenze sugli assetti di potere. Un altro attore importante è la Corte costituzionale, che ha poteri notevoli (perfino eccessivi, secondo osservatori indipendenti) ed è in mano alla sinistra.

Va aggiunto che Lula, alla sua terza presidenza, è diverso da quello che governò il Brasile nei primi due mandati, prima dell’arresto e della condanna per corruzione (poi annullata per un vizio di forma). La sua agenda socialista è annacquata per forza: alle elezioni ha vinto, ma non ha conquistato una maggioranza parlamentare. Lula deve cucire una coalizione eterogenea con elementi centristi e perfino qualche bolsonarista. Al di là dei proclami che gli attirano simpatie internazionali — come la difesa ambientalista dell’Amazzonia — avrà un programma di governo abbastanza moderato. Sventolare di fronte all’opinione pubblica brasiliana lo spauracchio di un socialismo in salsa venezuelana o cubana non sembra realistico.

L’assalto resta gravissimo, e chiama in causa tante responsabilità. Incluse quelle nordamericane. Simbolicamente, mentre alcuni suoi seguaci erano tentati dal golpe di piazza, Bolsonaro risulta essere negli Stati Uniti: il Paese da cui è partito il cattivo esempio. Il 2023 si apre all’insegna di narrazioni contrastanti. Biden descrive un nuovo scontro di civiltà, fra il campo delle democrazie e quello degli autocrati. Ma in questa nuova guerra fredda Lula non prende posizione: non vuole distanziarsi né dalla Russia né dalla Cina. La destra che odia Lula ne scimmiotta il non allineamento, visto che alla liberaldemocrazia dimostra di non credere affatto.

Da Capitol Hill a Brasilia: anatomia di due assedi alla democrazia. Andrea Muratore il 9 gennaio 2023 su Inside Over.

Capitol Hill, Washington, 6 gennaio 2021: l’assalto dei seguaci di Donald Trump al Congresso Usa mette sotto shock gli Stati Uniti. Praça dos Três Poderes, Brasilia, 8 gennaio 2023: i supporter di Jair Bolsonaro fanno lo stesso con i palazzi dell’esecutivo, del legislativo e del giudiziario del potere verdeoro che danno il nome alla piazza delle istituzioni della capitale brasiliana.

Due eventi, due assalti alla democrazia, due fratture che uniscono le candide e sontuose sedi del potere a stelle e strisce sulle rive del Potomac alle moderne e divisive (artistiche per alcuni, pacchiane per altri) controparti della città brasiliana nata per esser capitale e inaugurata nel 1960 proprio laddove nei suoi sogni profetici San Giovanni Bosco immaginava sarebbe nata una nuova città ottant’anni prima.

Un brutto segnale per la democrazia

La polarizzazione politica, non nuova in due Paesi tanto importanti, sfocia nel ribellismo. La fragilità della democrazia interna si trasforma in esplosione di rabbia laddove delle minoranze rumorose danno l’assalto al patrimonio comune della nazione, i palazzi del potere.

La jacquerie dilaga e mette in mostra la complessità della dialettica politica in una fase storica complicata per diversi Paesi. E mostra quanto nell’Occidente e nei Paesi più affini stia emergendo una disaffezione per il modello democratico che lascia basiti per la velocità con cui si va diffondendo. I leader di estrema destra, sovranisti e populisti, vengono superati sul campo dalle loro stesse basi nel momento in cui il potere sfugge loro di mano.

Capitol Hill e Brasilia, le convergenze

Il modello “Capitol Hill” va in replica in Brasile con tutti i distinguo del caso. Accomunano i fatti del 2021 e quelli del 2023 molti elementi.

L’agente provocatore, primo punto chiave: l’estrema destra populista colpisce, senza una vera regia e in maniera decisamente autorganizzata, a Washington come a Brasilia.

Le radici sociali, in second’ordine: i movimenti di Capitol Hill e la base bolsonarista uniscono un milieu antisistema radicato principalmente nelle classi medie impoverite, alimentato dall’adesione comune di molti protestanti alle Chiese protestanti evangeliche e pentecostali, dal grande afflato millenarista, dal sostegno al libertarismo spinto, dal rifiuto delle linee guida dominanti su temi come la gestione della pandemia di Covid-19 e l’approccio ai mutamenti culturali e al progressismo. Sono evangelici e pentecostali molti degli elettori di Trump e Bolsonaro arrivati in piazza con forza e violenza; sono, ed è un parallelismo da osservare, cattolici i leader contro cui la rabbia si scatena, Lula e Joe Biden.

Le motivazioni di fondo, terzo e più importante punto di saldatura: un’avvelenata negazione della democrazia sostanziale porta i brasiliani di oggi a ritenere Lula un presidente illegittimo così come due anni fa i trumpiani di ferro portavano avanti il mito dell’elezione rubata come causa della sconfitta del tycoon diventato capo dello Stato.

Va da sé che movimenti abituati a muoversi con lo spirito dell’opposizione permanente e con la caccia al complotto (lo Stato profondo come freno del trumpismo negli Usa, un non meglio precisato “comunismo” nel Brasile post-Bolsonaro) vanno in crisi laddove la perdita del potere da parte dell’uomo forte del momento nega il presupposto millenarista di invincibilità e redenzione che ogni leader populista porta con sé. Un presupposto che mal si concilia con l’ipotesi, remota e inaccettabile, della sconfitta elettorale.

Le differenze tra i due eventi e gli scenari futuri

Questi i punti di contatto tra ciò che è accaduto ieri in Brasile e i fatti di due anni fa a Washington. Ma la storia non funziona per analogia spinta e ogni contesto sociale e politico muta la riproposizione degli eventi. Il modello Capitol Hill non è un prodotto da laboratorio e, anzi, ci sono differenze sostanziali tra i due eventi, pur all’interno dello stesso milieu.

In primo luogo, Donald Trump nel 2021 era alla testa della manifestazione contro la certificazione di Joe Biden sfociata poi, nella sua coda violenta, nell’assalto al Campidoglio. Oggi, invece, Bolsonaro condanna le manifestazioni dal suo buen ritiro della Florida, a Orlando, in cui si è rifugiato temendo l’incriminazione in patria dopo l’ascesa di Lula.

I trumpiani del 2021 hanno assaltato il Congresso cercando, con durezza, di mettere le mani sui membri del Partito Democratico e i Repubblicani accusati di aver tradito Trump in un assalto violentissimo costato diversi morti, in nome di un Presidente formalmente ancora in carica.

I bolsonaristi del 2023 invece attaccano la Piazza dei Tre Poteri dopo essersi accampati per otto settimane fuori dalle caserme dell’esercito, invocando il golpe, e in nome di un leader non più in carica che li ha snobbati prima e scaricati poi, vedendoli come un fastidio. La protesta è avvenuta di domenica, quando i palazzi non erano occupati dai membri delle istituzioni, evitando di fatto un risultato peggiore in termini di conta dei danni e limitando la conta della manifestazione a un’ottantina di feriti.

Quel che è certo è che fatti come Washington 2021 e Brasilia 2023 sono messaggi chiari sullo stato delle nostre democrazie. La rivolta populista contro i poteri tradizionali è stata in un primo momento la comprensibile reazione alla crisi di leadership delle classi dirigenti della globalizzazione, ma ha finito per produrre un rigurgito paranoico e antidemocratico superando la retorica, incendiaria, degli stessi leader che di essa si sono serviti a fini elettorali.

La classificazione dei rivali politici non come inimici, avversari personali di un singolo esponente, ma come hostes, nemici pubblici da perseguire, emerge chiaramente nel brodo culturale nutritosi di social media antisistema come Reddit e la nuova frontiera di Twitter targata Elon Musk, di tesi complottiste sulla negazione della democrazia e su aspettative tragiche per il futuro del proprio Paese dopo l’alternanza al potere. Tema destinato a produrre sempre più attriti e sempre più dinamiche dannose per la salute di sistemi democratici già colpiti da disuguaglianze, onda lunga della pandemia, blocco dell’ascensore sociale. Ciò che accade a Nord e a Sud dell’Equatore nelle Americhe di oggi è per ora difficilmente immaginabile in Europa. Ma dalle proteste di piazza dell’era pandemica è emersa l’esistenza di una base culturale simile anche nel Vecchio Continente, da tenere strettamente monitorata. Per evitare che in futuro a processi democratici legittimi si associno movimenti pericolosi per la salute e l’immagine di Paesi democratici come quelli di Washington e Brasilia.

ANDREA MURATORE

Da Brasilia a Washington: la democrazia che non soddisfa più. Francesca Salvatore il 9 Gennaio 2023 su Inside Over.

La sacralità del voto è stata la principale conquista democratica della contemporaneità, almeno per una fetta di mondo: ovvero, l’idea che, al di là di ogni sospetto, l’esito delle urne sia santo e inviolabile. Contestabile, accertabile, ma mai sovvertibile con l’uso della forza. Su questi allori si è adagiato l’Occidente, fiero di una pratica che va dall’ostrakon al voto telematico. Eppure qualcosa, in questa liturgia laica del voto, si è rotto, spogliando di rispettabilità i luoghi e gli esiti della democrazia. Persiste ormai nella società globale, facendosi via via più penetrante, l’idea perenne della frode al cittadino, del complotto, del governo patrigno che va combattuto anche attraverso contemporanee e grottesche prese della Bastiglia, al fine di restituire il maltolto: il golpe ormai attira più che la fila ai seggi, a Brasilia come a Washington.

Le ingenue riflessioni a caldo portano a bollare questi assalti come frutto della disperazione, figli del “popolo affamato che fa la rivoluzione”; ma nell’ostilità verso il metodo democratico non c’è solo questo. Si tratta di un coacervo di fattori che mette insieme populismo, diseguaglianza, la paura della perdita dell’identità e la porta dell’inferno che i moderni mezzi di comunicazione hanno spalancato sulla disinformazione. Questi fattori parlano e fanno leva sui forgotten men, un profilo ben definito di cittadino, che per condizione e background, non possiede gli strumenti per un accesso razionale all’informazione politica e che vive il “silenzio delle istituzioni”. Dentro c’è un po’ di tutto, dall’analfabeta politico di Brecht, a una fetta di popolino diseredato, passando per violenti, complottisti e miliziani affetti da anomie varie.

Questo archetipo di cittadino agisce pertanto come un ultras, come un miliziano più che un militante: il suo riferimento, infatti, non è il partito di massa che ha consentito la mobilitazione cognitiva degli elettori per decenni. Su queste frange la politica di palazzo soffia al fine di far deflagrare la regola del sospetto, dilaniare faglie e accogliere dentro di sé anche il nulla cosmico: nella folla, la convinzione politica è mescolata alla cialtroneria, gli attivisti duri e puri agli esaltati, i luoghi comuni al machismo, le bandiere sportive ai ai simboli d’antan.

Il concetto di populismo è legato mani e piedi a questi fenomeni. Ha sempre faticato a imporsi in sede scientifica poiché la difficoltà di definirne un’essenza e di circoscriverne il raggio di applicazione ne ha determinato fra politologi, sociologi, filosofi e storici un destino contraddittorio. Ma è soprattutto il comparire a ogni latitudine di questi assalti, dalle Americhe all’Asia passando per l’Europa, che mette in moto una serie di domande: ovvero, qual è il meccanismo comune che, al di là delle forme di governo, delle storie singole e dei rispettivi sistemi crea una tendenza simile?

Il primo sforzo di riflessione scientifica sul populismo avvenne presso la London School of Economics nel maggio del 1967, all’interno del simposio organizzato dalla rivista Government And Opposition. Nel momento in cui si svolse, il concetto stesso di “golpe” sembrava confinata al mondo latinoamericano, da cui eredita il lemma, tra l’altro. Fu Isaiah Berlin a farsi inteprete del fenomeno, sostenendo che deriva populista e democrazia, non siano incompatibili bensì hanno la stessa radice. Da qui, un modello che non solo ricalca le tendenze populiste odierne ma che traccia perfettamente le pretese di chi, a Capitol Hill o Planalto, è pronto a ghermire pietre e bastoni contro un esito elettorale certificato.

Prima fra tutti, la dicotomia tra società buona e Stato tiranno, che solo un’azione di forza può riequilibrare; l’esaltazione del popolo e l’antielitismo, l’aspirazione a rasserenare il volgo, restituendogli genuinità, armonia e coesione, riproponendo nostalgicamente i valori legati ai tempi antichi. Quegli stessi valori che il postmaterialismo, nel villaggio globale, sembra minacciare. Questo spiegherebbe anche perché, se la globalizzazione è un fenomeno complesso, alcune democrazie di lungo corso vivono queste schizofrenie e altre no: questi fenomeni tendono, infatti, a manifestarsi in contesti nei quali viaggia un processo di modernizzazione istituzionale, etnica, economica e che non stanno ancora “digerendo” il passaggio. Non deve sorprendere, dunque, che questo accada anche negli Stati Uniti, alle prese con un passaggio identitario secolare, e non in tante altre democrazie liberali, sebbene più giovani.

Il clima internazionale post-Guerra Fredda, per paradosso, non ha coadiuvato l’accettazione della democrazia come pratica definitiva anzi, ha spalancato le porte all’idea del disegno internazionale apocalittico ordito da massoni, lobby e organismi famelici di sovranità. La Guerra Fredda aveva dato al cittadino medio globale la sicurezza del castello medioevale: relegato ma al sicuro, eccetto che per le armi atomiche. Quel castello oggi appare, invece, come un fortino assediato, nel quale l’opinione del singolo diventa evanescente. L’establishment che al metodo populista cede, dichiara guerra all’individualismo moderno trincerandosi dietro valori comunitari come la famiglia, la proprietà, la vita civica, il lavoro, un desiderio di tornare alle virtù del corto raggio: refrain che appartengono a tutti gli ispiratori di questi attacchi alla democrazia e che accomunano fenomeni molto differenti che vanno da Trump ai talebani.

Chantal Delsol ha descritto perfettamente questo atteggiamento: si tratta di un puntare i piedi volendo mantenere a tutti i costi una differenziazione, in un’epoca votata alla mescolanza. Quando questo si proietta su migliaia di individui, cognitivamente e/o culturalmente deboli, si trasforma in un’arma di distruzione di massa che fa della mente uno strumento più pericoloso dei proiettili: convincere milioni di persone che un’elezione è stata truccata ha la stessa radice sociale del convincere milioni di persone che il cancro si curi con il bicarbonato e il limone, che i lager nazisti siano un’invenzione o che la fine del mondo dovesse arrivare nel 2012. E di fronte a questo, perfino la bomba atomica perde di virulenza, a confronto.

Dall’assedio di Capitol Hill a Brasilia: perché la gente “odia” la democrazia. Saccheggi, distruzioni e selfie: i seguaci di Bolsonaro e Trump incarnano la crisi di un sistema fragile che può finire in balia del complottismo populista. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 gennaio, 2023

Come un’orda selvaggia e con violenza inaudita hanno invaso e saccheggiato, distrutto e sventrato, colpendo i simboli della democrazia brasiliana, le cupole di cemento del Congresso, il cubo di vetro del Tribunale supremo federale e il rettangolo di marmo del Planalto, il palazzo dove lavora il presidente, tutte opere ideate dal genio di Oscar Niemeyer, l’architetto modernista che disegnò la “futuristica” capitale Brasilia.

All’interno degli edifici i mobili e le scrivanie vengono buttati giù dalle rampe di scale, i cassetti rovesciati per terra, se la prendono con i mosaici e i quadri alle pareti che sono vandalizzati, ce n’è anche per il busto di Joaquim Nabuco, giurista liberale e abolizionista che viene fatto a pezzi. Tutti o quasi con il proprio smartphone a inondarsi di selfie, a immortalare con grandi sorrisi la prodezza in uno stridente contrasto tra la gravità dei fatti commessi e la cialtroneria di una foto ricordo. «In nome di Gesù la guerra e cominciata!», urlano i più esagitati. Tutto senza precedenti nella storia del Paese, ma con un filo rosso (o forse nero) che unisce Brasilia e Washington.

L’assalto alla piazza dei Tre poteri da parte dei seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro non può infatti non ricordare nei minimi dettagli l’attacco di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 a parte dei sostenitori di Donald Trump di cui sembra un inquietante remake. Stesse modalità di adunata (il tam tam via internet), stessa furia devastatrice, stessa negligenza, per non dire di più, da parte degli apparati di sicurezza che permettono ai manifestanti di penetrare in tranquillità dentro i palazzi del potere, E stessa improbabile armata Brancaleone di maschi sovrappeso che mette in scena un tentativo di Colpo di Stato con la leggerezza di una scampagnata unita a punte di autentico folklore, come i cappelli di alce da capo indiano dei Trump boys ritratti mentre depredano l’ufficio della speaker Nancy Pelosi. A Brasilia in molti indossavano la maglietta della nazionale verde-oro o di altre squadre di calcio, berretti, tute da ginnastica, alcuni brandivano simboli religiosi.

Se il blocco di potere ostile al presidente socialista Lula è rappresentato da ampi settori dell’esercito e della magistratura, dai grandi imprenditori dell’agrobusiness, dall’articolata galassia dei predicatori evangelici che si ispira alla destra religiosa statunitense, in piazza si è visto soprattutto molto popolo, o piuttosto “gente” comune, ceti sociali medio bassi che vivono in primo piano la crisi economica, le forti disuguaglianze tra le classi e l’insicurezza cronica delle città, interpretando un sentimento diffuso di odio verso la sinistra, alimentato dal complottismo e dalle fake news che i media vicini a Bolsonaro veicolano con grande efficacia in una nazione politicamente spaccata a metà. E che non vogliono accettare la sconfitta elettorale come se le regole democratiche non fossero più valide, perché l’obiettivo non è più il rispetto delle norme di convivenza civile, ma l’annientamento dell’avversario.

Viene da chiedersi, tralasciando le enormi differenze tra i due Paesi, quali siano gli elementi che accomunino gli Stati Uniti e il Brasile, dal punto di vista sociale e politico. Non può essere casuale che entrambi adottino il presidenzialismo, un sistema in cui la figura del Capo di Stato produce un effetto polarizzante nell’elettorato, con le campagne elettorali mirate alla minuziosa demolizione del nemico e con il potere concentrato in larga parte nell’esecutivo al di là delle importanti prerogative del Congresso. Questa mancanza di mediazioni e di corpi intermedi nella normale dialettica politica può permettere a personaggi come Trump e Bolsonaro di innescare una dinamica tossica e incosciente, in grado di sobillare e mobilitare la povera gente contro gli stessi i fondamenti della democrazia. Che mai come in questo decennio “populista” cominciato con la Brexit ci è sembrata fragile e in balia degli elementi. Non più messa in pericolo dai storici suoi antagonisti esterni, ma colpita al cuore da una crisi che lei stessa ha generato.

Riflessioni sui fatti del Brasile. Il nostro assalto alle istituzioni lo abbiamo già avuto, ma per fortuna lo guidava Di Maio. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 10 Gennaio 2023.

Effetto collaterale dell’antica tradizione trasformista, bizantina e gattopardesca della nostra politica, che tutto è capace di masticare e digerire, o più semplicemente della nostra buona stella, sta di fatto che il panorama italiano è più rassicurante di quel che appariva nel 2018. Ma non è detto che lo rimanga

L’assalto ai palazzi delle istituzioni brasiliane da parte dei sostenitori di Jair Bolsonaro è la prima replica, fedelissima all’originale anche nella tempistica, di quanto avvenuto a Washington il 6 gennaio 2021, quando i sostenitori di un altro presidente sconfitto alle elezioni, Donald Trump, tentarono di bloccare il passaggio di poteri. Dunque, si potrebbe sostenere, i fatti di Brasilia sono storicamente persino più importanti di quelli di Washington: per la banale ragione che è il secondo elemento a fondare una serie, trasformando quello che altrimenti sarebbe rimasto un fatto isolato, per quanto importante, nell’inizio di un movimento più ampio.

È infatti il secondo episodio, molto più del primo, a rendere stringente la domanda su quando, dove e come si verificherà il prossimo. Per quanto riguarda l’Italia, tuttavia, è lecito domandarsi se in realtà il nostro assalto a Capitol Hill non ci sia già stato. E se dunque le inquietanti immagini di Brasilia, e le gravi conclusioni della commissione del congresso americano sulle chiarissime responsabilità di Trump nell’insurrezione del 2021, non siano per noi più un’eco del passato che uno squarcio sul futuro.

L’episodio della nostra storia recente più simile a quanto avvenuto due giorni fa in Brasile e due anni fa negli Stati Uniti, sebbene relativamente meno grave, è lo stallo alla messicana (per restare dalle parti dell’America Latina) che si verificò nel 2018 sulla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, che Sergio Mattarella, facendo valere le sue prerogative costituzionali, rifiutò di avallare. Come si ricorderà, il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, e con lui la maggioranza grillo-leghista che avrebbe dovuto formare il governo, rifiutò a quel punto di procedere oltre, in aperta polemica con il presidente della Repubblica, aprendo una crisi costituzionale senza precedenti, culminata nell’incredibile appello dei massimi dirigenti del Movimento 5 stelle, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, che arrivarono a chiedere la messa in stato d’accusa del Capo dello stato in piazza. Chiunque ricordi la tensione e lo sconcerto di quei momenti, il drammatico discorso di Mattarella in tv, non può non confermare come sia stato quello il nostro assalto populista alle istituzioni. Per fortuna lo guidava Di Maio.

È forse utile ricordare che in quelle ore concitate, in cui persino la Lega di Matteo Salvini rifiutò di seguire gli alleati lungo un crinale così pericoloso, un solo leader politico appoggiò la richiesta dei cinquestelle: Giorgia Meloni. Adesione tanto più significativa dal momento in cui Fratelli d’Italia non era neppure in maggioranza, ed era anzi nel centrodestra il partito che aveva accolto con maggiore contrarietà l’intesa di Salvini con i grillini.

L’ipocrisia del nostro dibattito pubblico ha raggiunto ormai un livello tale che il semplice ricordare le prese di posizione ufficiali dei diversi partiti appare come un’ingiustificata provocazione, a destra come a sinistra. Eppure proprio la perfetta simmetria delle parabole compiute prima dal Movimento 5 stelle, poi dalla Lega e infine da Fratelli d’Italia avrebbero molto da insegnare, se solo i rispettivi sostenitori e alleati non fossero quotidianamente impegnati nel confonderne le tracce, per raccontarci da un lato la favola del Conte punto di riferimento di tutti i progressisti, dall’altro quella della Meloni leader naturale di tutte le forze atlantiste, europeiste e riformiste.

All’indomani dell’occupazione della Crimea da parte dell’esercito russo, nel 2014, non c’erano però solo i leghisti di Salvini a rilanciare tutti gli argomenti della propaganda putiniana e a battersi perché l’Europa rimuovesse immediatamente le relative sanzioni contro Mosca. A chiedere la cancellazione delle sanzioni e a rilanciare le accuse che ormai ben conosciamo agli Stati Uniti e all’Unione europea di avere provocato la Russia c’erano – prima e più di ogni altro – tutti i principali esponenti del Movimento 5 stelle (per il futuro viceministro agli Esteri Manlio Di Stefano, ancora nel 2016, l’Ucraina era uno «stato fantoccio della Nato»). Ma c’erano anche Meloni e Fratelli d’Italia, e ci sarebbero stati praticamente ogni anno, fino all’invasione del 24 febbraio 2022.

Proprio come per la Lega, pure per Fratelli d’Italia persino il tradizionale scetticismo sui vaccini, per usare un eufemismo, avrebbe trovato un’unica inspiegabile eccezione nella campagna per far adottare subito in Italia il vaccino russo Sputnik, cioè proprio quello su cui davvero erano fondati dubbi, riserve e cautele, in mancanza di trasparenza su dati e procedure.

L’adesione acritica alle posizioni di Vladimir Putin, lo scetticismo (o peggio) sui vaccini e la scienza, le campagne contro i migranti e le ong sul modello ugherese, la carica antipolitica e anti-istituzionale: il copione importato in Italia dal Movimento 5 stelle, copiato pari pari da Salvini prima e da Meloni poi, è lo stesso recitato da Trump negli Stati Uniti e da Bolsonaro in Brasile, come dai principali sostenitori della Brexit in Regno Unito. In Italia però ha avuto uno svolgimento diverso.

Almeno in due casi su tre – M5s e Fdi – all’ascesa dei populisti al potere non ha fatto seguito un tentativo di rottura istituzionale (salvo nella summenzionata campagna per l’impeachment di Mattarella, rientrata in un paio di giorni e subito clamorosamente abiurata dai suoi protagonisti), ma una radicale conversione alle ragioni della stabilità e della moderazione: per i cinquestelle c’è voluto più tempo, dopo un anno di governo gialloverde in cui la strada trumpiana è stata tentata più volte, dallo scontro con la Commissione europea sul deficit all’incontro con i gilet gialli in Francia; per Fratelli d’Italia la svolta è stata praticamente istantanea, non appena i sondaggi hanno cominciato ad accreditarne le possibilità di arrivare a Palazzo Chigi.

In entrambi i casi, comunque, sono rimaste gigantesche zone d’ombra. Basta ricordare le interminabili dirette dalla propria personale pagina Facebook con cui Conte, da capo del governo, non esitò a utilizzare persino una drammatica emergenza come quella del Covid per incassare like, o i recenti provvedimenti del governo Meloni sul reintegro dei medici no vax e contro le ong che salvano vite in mare. Resta, innegabile, in entrambi i casi, una svolta clamorosa, tanto più significativa se paragonata all’evoluzione, diametralmente opposta, che hanno avuto le leadership populiste come quelle di Trump e Bolsonaro.

Effetto collaterale dell’antica tradizione trasformista, bizantina e gattopardesca della nostra politica, che tutto è capace di masticare e digerire, o più semplicemente merito della nostra buona stella, o di una certa indolenza caratteriale che alla fine ci salva quasi sempre dagli estremi peggiori, sta di fatto che il panorama italiano è infinitamente più rassicurante, dal punto di vista democratico, di quel che appariva nel 2018.

E forse, considerando il declino politico di Trump e l’esito delle elezioni brasiliane, lo è anche il panorama globale (il che ovviamente ha aiutato e aiuta parecchio l’evoluzione italiana, e contribuisce a spiegarla).

Per non essere troppo ottimisti, va però anche notato come, con il ritorno all’opposizione, di fatto già durante il governo Draghi, quando pure era formalmente in maggioranza, il Movimento 5 stelle abbia cominciato a rifluire sulle antiche posizioni, non solo riguardo alla Russia di Putin.

C’è poco di cui stupirsi: se un partito è in grado di rovesciare da un giorno all’altro i principi cardine della propria politica, non si vede perché, vedendo calare i consensi, non possa rifare il cammino in direzione opposta. E questo ovviamente non vale solo per i cinquestelle.

Da Capitol Hill a Brasilia. La mutazione della destra. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l’11 gennaio 2023.

Caro Aldo, da sempre si è ritenuto che il Sud America avrebbe dovuto imparare dal Nord America la democrazia abbandonando l’anelito per la revolución; invece, paradossalmente, sembra che i brasiliani abbiano imparato dagli Stati Uniti, quelli di Trump, a non accettare i verdetti elettorali. Al peggio non c’è limite? Roberto Bellia Vermezzo con Zelo

Caro Roberto, Le immagini che abbiamo visto due anni fa da Washington e ora da Brasilia sono il simbolo della mutazione della destra. Non guardiamole da sinistra. Per la sinistra, la destra ha sempre incarnato il maligno: ai tempi di Nixon, come a quelli di Reagan, come ora con Trump. M a Trump non è Nixon, né tantomeno Reagan. Guardiamo le immagini di Washington e di Brasilia dal centro. Gli esponenti folkloristici che due anni fa invasero e devastarono il Campidoglio, tempio della democrazia americana, ci sono sempre stati: li ricordo ai comizi di Bush figlio, di McCain, di Romney; ma erano appunto folklore. Le telecamere li riprendevano, i militanti si facevano fotografare con loro, sorridendo. Nel gennaio 2021 gli sciamani e gli sciamannati si presero la scena. Finendo per affossare il trumpismo, e lo stesso partito repubblicano; che ora fatica a stare sia con Trump, sia senza Trump. Vedremo se accadrà lo stesso con Bolsonaro. Purtroppo il Brasile non ha gli stessi anticorpi democratici degli Stati Uniti. È stato governato da una dittatura militare; e a quel passato Bolsonaro ha strizzato l’occhio. Neppure Lula è Joe Biden. Il partito dei lavoratori, di cui è il leader storico, ha i suoi scheletri nell’armadio. Lula ebbe il merito di assecondare le riforme liberali del predecessore Fernando Henrique Cardoso, esponente di una destra moderata. Il Brasile fece un balzo in avanti, suggellato dalla conquista di due grandi manifestazioni sportive, i Mondiali di calcio del 2014 e l’Olimpiade del 2016. Ma Dilma, erede di Lula, fu fischiata dallo stadio di San Paolo all’inaugurazione dei Mondiali; e i Giochi si tennero due anni dopo in un Paese avviato sulla china della crisi. Una crisi che Bolsonaro ha aggravato con una gestione disastrosa della pandemia e con una politica dissennata in Amazzonia. Alla destra ora servirebbe un altro Fernando Henrique, come lo chiamano tutti in Brasile. Quello vero purtroppo ha 91 anni e mezzo. E questa destra radicale che non riconosce le sconfitte, polarizza la società, presenta l’avversario come il nemico, finisce per distruggere se stessa.

Non sappiamo ancora difenderci senza l’aiuto degli Stati Uniti Brasile? Tutti contro le sanzioni”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 12 Gennaio 2023.

Siamo perfino incapaci di difendere noi stessi senza l’aiuto decisivo degli Stati Uniti”. Federico Rampini, editorialista ed esperto di Usa, commentando quanto accaduto qualche giorno fa a Brasilia, spiega perché l’Italia, negli ultimi mesi, non abbia una politica estera degna di nome.

Era prevedibile l’attacco al Parlamento?

Ero stato in Brasile a fine novembre, quasi un mese dopo la vittoria di Lula. C’erano già allora proteste dei bolsonaristi che definirei endemiche, scoppiavano qui e là, davano la sensazione di una situazione tesa. Un elemento rassicurante, però, era che molti parlamentari bolsonaristi, oltre a riconoscere la vittoria di Lula, stavano negoziando accordi di governo con lui. In quanto a Bolsonaro, era rimasto silenzioso per tutto il periodo post-elettorale. Avevo trovato, dunque, una situazione delicata e molti amici brasiliani preoccupati, francamente pochi, immaginavano una replica del 6 gennaio 2021 in modo così fedele all’originale da tentare di celebrarne quasi l’anniversario.

La causa di tutto ciò ha un solo nome: Bolsonaro… E’ d’accordo?

Sì e no. Per essere precisi, va ricordato che durante tutta la campagna elettorale e fino alla vigilia del voto Bolsonaro ha creato il mito dell’elezione rubata, truccata, manipolata dai brogli. Poi dopo la vittoria di Lula – di stretta misura, ma non contestabile – Bolsonaro non ha imitato Trump. Non ha incitato i suoi alla rivolta di piazza, non ha tentato di sovvertire il responso delle urne. Anche perché il suo partito, almeno per quanto riguarda la rappresentanza parlamentare, non lo avrebbe seguito. Né aveva avuto segnali di incoraggiamento dalle forze armate. In realtà in questo caso la base del bolsonarismo si è spinta molto più avanti del suo leader.

Gli assalti a Capitol Hill e Brasilia, quindi, hanno qualche collegamento fra loro?

Questo è ovvio, i bolsonaristi avevano un copione già scritto per loro, hanno cercato in tutti i modi di scimmiottare gli eventi di due anni prima a Capitol Hill. Trump, però, come nemico della sua democrazia si è rivelato peggiore di Bolsonaro: sia perché è stato il primo e quindi ha dato il cattivo esempio; sia perché lui era lì in piazza il 6 gennaio 2021 ad accendere gli animi mentre Bolsonaro no. Il collegamento più profondo è nella cultura politica: quella in cui io demonizzo il mio avversario e delegittimo il risultato elettorale se non vinco io. La destra populista è portatrice di questo virus, pur non avendone il monopolio. Nel vicino Perù un presidente di estrema sinistra ha tentato un golpe pur di non dimettersi in seguito alla sconfitta, e i suoi seguaci stanno perpetrando violenze spaventose.

Non ritiene che l’aumento del divario sociale contribuisca ad aumentare questo tipo di reazioni?

No. Respingo il sociologismo facile, quello che riconduce tutto all’economia e alle diseguaglianze. E’ semplicemente falso, che la miseria o le diseguaglianze siano da collegarsi automaticamente a pulsioni eversive, a violenza, a instabilità. Negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è avvenuto in un periodo in cui le diseguaglianze erano diminuite, non aumentate, grazie ai generosi aiuti anti-Covid elargiti alla popolazione. Il Brasile degli anni Ottanta, che passò dalla dittatura militare alla democrazia, era più povero e diseguale di oggi. La violenza è figlia di ideologie sbagliate. Il sociologismo crea facili alibi per i cattivi maestri che incitano all’odio. E’ già successo con l’islamismo, che tanti intellettuali hanno “assolto” descrivendolo come un frutto del disagio sociale degli immigrati: una sciocchezza enorme. L’islamismo nacque nel 1979 dall’alleanza tra petro-dollari e clero teocratico.

L’aumentare dei governi di destra, amplifica il fenomeno?

Ho già ricordato che in Perù è un presidente di sinistra ad avere appena tentato il golpe. Potrei aggiungere il Venezuela. No, la destra non ha il monopolio dell’eversione. Neppure negli Stati Uniti, dove alcuni principi fondamentali della Costituzione sono calpestati dai miliardari di sinistra, i progressisti che possiedono i social media e decidono chi ha libertà di parola. E comunque nello scatenamento criminale della destra brasiliana non bisogna dimenticare il ruolo di Lula: la sua corruzione è stata dimostrata dalla giustizia, lui è stato liberato dal carcere solo per un vizio di forma, e da una Corte costituzionale molto amica. Tanti brasiliani, anche moderati, sono convinti che lui sia un ladro. L’aver vinto le elezioni non lo assolve. Altrimenti sarebbe vero il teorema-Berlusconi, secondo cui l’investitura popolare “cancella” i processi e le sentenze.

Quanto successo a Brasilia mette sotto la lente d’ingrandimento la questione dei Paesi emergenti. Non a caso Putin e Xi sfruttano l’occasione per rinsaldare l’alleanza con Lula. Cosa sta succedendo?

Il Brasile è un paese importante perché ha 217 milioni di abitanti, è la seconda economia latinoamericana ed è la lettera B dell’acronimo Brics, quel club di potenze emergenti che include anche Russia, India, Cina, Sudafrica e qualche volta viene descritto come l’antagonista del “nostro” G7 in cui siedono vecchie potenze industriali. Sotto i primi mandati presidenziali di Lula il boom economico brasiliano fu trainato in modo dominante dalla domanda cinese di materie prime. La crisi finanziaria del 2008-2009 aveva interrotto e indebolito quel ciclo di forsennato aumento dei consumi cinesi di commodities brasiliane (dallo zucchero alla soia, dal petrolio al ferro al legname). Da Bolsonaro a Lula almeno una continuità in politica estera c’è: il rifiuto di applicare le sanzioni economiche decise dall’Occidente contro la Russia. Il Brasile è parte dell’emisfero occidentale in senso geografico, ma non si riconosce necessariamente nell’Occidente geopolitico. Come molti paesi emergenti continua a covare una cultura del risentimento anti-colonialista verso il Nord del pianeta. Si riconosce nel nuovo assembramento di paesi “non allineati”, che non è un vero movimento politico come il Terzo mondo lo fu nella prima guerra fredda (a partire dal vertice di Bandung nel 1955), ma una realtà di fatto. Sono quella maggioranza di paesi asiatici africani e latinoamericani, che magari condannano l’aggressione russa in Ucraina, ma non per questo vogliono partecipare alle nostre sanzioni. Più ancora della Russia, li trattiene la volontà di avere buoni rapporti con la Cina. La Repubblica Popolare cinese è di gran lunga il primo partner commerciale del Brasile, da tempo ha superato gli Stati Uniti. La crescita brasiliana dipende molto da ciò che Pechino vuole comprargli, dall’energia ai minerali alle derrate agricole.

Quale è l’impatto di tutto ciò in Europa?

L’Unione europea non è abbastanza presente per poter sfidare le due tendenze che influenzano la politica estera di Brasilia: da una parte un riflesso condizionato anti- Usa, dall’altra il condizionamento economico cinese. L’Europa da molto tempo non ha una politica estera degna di questo nome. La guerra in Ucraina ha reso ancora più palese che siamo incapaci perfino di difendere noi stessi, senza l’aiuto decisivo degli Stati Uniti.

Voto, l'unica arma contro la "Repubblica Bella Ciao". Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

C'è una resistenza, senza esse maiuscola, di cui non si parla nella Repubblica fondata sulla Resistenza, ed è quella che comincia quando la Repubblica fondata sulla Resistenza si insedia: è la resistenza popolare, dimessa, senza reddito da 25 aprile e senza case editrici, senza festival del cinema e senza cattedre universitarie, senza direzioni di giornali e senza contratti Rai, senza toga e senza sussidi arcobaleno, che da settant'anni, debole, maggioritariamente minoritaria, si oppone all'infestazione comunista.

E vi si oppone con l'unico strumento che ha a disposizione, in povertà civile, in subordinazione sociale, in emarginazione politica: il voto.

Che altro, infatti, ha limitato non impedito, ché anzi quel potere è dilagato ovunque, occupando tutto, sequestrando tutto, censurando tutto - che altro se non il voto ha contenuto l'occupazione comunista della società, insomma la completa e definitiva soggezione della forma repubblicana alla sostanza della pretesa comunista?

Solo il voto. Una cosa insufficiente ad arrestare il passo dello scarpone chiodato comunista sulla via civile del Paese, ma sufficiente a dimostrare che esso recalcitra, e appunto resiste, alla completa consacrazione formale e istituzionale del predominio comunista. Tra le tante cose brutte del nostro Paese, questa è una cosa molto bella.

  Puoi far dottrina in televisione, distribuire tra i tuoi sodali e clienti i premi letterali, puoi imporre agli studenti di studiare la tua storia contraffatta, puoi far carriera e ti puoi arricchire nel latifondo della Repubblica Bella Ciao, puoi diventare il padrone che prima delegittimavi e gambizzavi, prendendo il suo posto mentre il popolo lavorava, come ora lavora, perplesso ora come allora davanti alla tua boriosa violenza: ma il voto, no, il voto sufficiente a essere maggioranza non lo prendi. E la realtà, di cui fa parte la verità democratica che ti espelle, che ti sente come un elemento estraneo nel corpo del Paese che apparentemente hai occupato interamente, ti si rivolta contro, passiva, ripiegata, ma resistente: la realtà della vera resistenza italiana.

Brasile e Bolsonaro? Quando i compagni facevano lo stesso. Carlo Nicolato su Libero Quotidiano l’11 gennaio 2023.

Brasilia, maggio 2017. Centinaia di migliaia di manifestanti scendono in piazza per protestare contro il presidente Michel Temer, alcuni di loro prendono d'assalto i ministeri della Pianificazione, della Sanità, della Finanza, della Cultura, del Lavoro e della Scienza e danno fuoco a quello dell'agricoltura. Temer è un corrotto acclarato, membro del Movimento Democratico Brasiliano, partito di centro, ma nulla giustifica la violenza della folla incitata dalla sinistra e dai sindacati che cerca di cacciare il presidente occupando i palazzi del potere. Brasilia, gennaio 2023. La scena si ripete identica, stavolta il presidente messo in discussione è Luis Inacio da Silva detto Lula ed è di sinistra, del Partito dei Lavoratori. La folla, che non è stata direttamente incitata dal suo rivale, l'ex presidente Jair Bolsonaro, viene subito etichettata come neofascista. Nessuno, nemmeno in questo caso, può giustificare la violenza di quel migliaio di manifestanti vestiti con i colori della bandiera brasiliana che cercano d'impedire con la forza al neopresidente d'insediarsi al potere. E questo sebbene anche Lula sia un «corrotto», o meglio un «ex corrotto», che l'ha fatta franca grazie ai soliti vizi procedurali e poi alla sopraggiunta prescrizione dei reati che gli venivano addebitati. Stavolta però, a differenza del 2017, dove peraltro ci scapparono pure dei morti, la condanna è unanime, così come l'associazione tra l'assalto al parlamento brasiliano e quello di due anni fa al Campidoglio degli Stati Uniti d'America.

SCALMANATI - Colpa di Bolsonaro che non ha riconosciuto per tempo la vittoria di Lula, colpa di Trump che non riconobbe per tempo la vittoria di Biden. Entrambi hanno esasperato i toni, incitando direttamente o indirettamente i più scalmanati a passare alle vie di fatto. È il populismo che si è fatto fascismo, è la nuova estrema destra che non riconosce i principi democratici, li calpesta, li deride e li travolge. Il tutto ovviamente senza dimenticare, il messaggio è sempre sottinteso, che anche da noi ci sono i populisti, c'è un'«estrema destra» che ora è al governo e chissà mai che cosa potrebbe succedere il giorno in cui dovrà cedere il passo come è successo negli Usa e poi in Brasile. E la sinistra davvero non ha alcuna colpa in tutto questo? Siamo sicuri che mettere costantemente in dubbio la legittimità di Trump come presidente accusandolo di ogni misfatto, dall'accordo coi russi per vincere le elezioni all'ecatombe durante la pandemia di Covid, non abbia esasperato lo scontro e le tensioni politiche fino appunto a incitare alla violenza dei più esagitati? Tantopiù che poi le accuse a Trump si sono rivelate del tutto false, vedi i russi, o speciose, vedi i morti di Covid che sotto Biden sono perfino aumentati. Nessuno qui vuole difendere i Bolsonaro e i Trump, che in ogni caso hanno le loro gravi responsabilità, o addirittura giustificare la folla che occupa i palazzi della democrazia, ma la sinistra provi almeno una volta a farsi un esame di coscienza, provi almeno a considerare che gli assalti al Parlamento sono gravi sempre e in ogni caso, anche se arrivano dai progressisti.

 Perù, il Paese nel caos: un poliziotto bruciato vivo, oltre 40 morti. E l'ex presidente Castillo incita i manifestanti. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

Solo ieri gli scontri in strada hanno causato 17 morti (sono oltre 40 in totale dall’inizio di dicembre). Il parlamento dà la fiducia al nuovo governo mentre la presidente Boluarte viene indagata per genocidio

La Pan-American Highway bloccata dai rivoltosi nel sud del Paese (foto Afp)

Il parlamento che conferma la fiducia al nuovo governo. L’ufficio del procuratore generale che rivela di star indagando per «genocidio e omicidio» la presidente, il premier, il ministro della Difesa e quello degli Interni. E rivolte che non si placano e che solo ieri hanno causato 17 morti.

Le accuse

Tutto questo è accaduto in Perù nelle ultime 24 ore. Prima è arrivato l’annuncio dell’ufficio del procuratore generale: un’inchiesta sulla presidente Dina Boluarte e alcuni membri del governo a proposito delle violente manifestazioni che scuotono il Paese dall’inizio di dicembre (ovvero da quando l’ex presidente Pedro Castillo ha tentato un golpe), nelle quali sono rimasti uccisi più di 40 civili e in centinaia sono stati feriti.

Le accuse — genocidio, omicidio e lesioni gravi — sono rivolte contro la presidente Dina Boluarte, il presidente del Consiglio dei ministri Alberto Otarola, il ministro degli Interni Victor Rojas e il ministro della Difesa Jorge Chavez. Per ora, nessuno di loro né i loro portavoce hanno rilasciato dichiarazioni o commenti.

Diverse associazioni in difesa dei diritti umani sostengono che le forze dell’ordine, in queste settimane di proteste, avrebbero sparato contro i manifestanti; mentre l’esercito ribatte e dice che i rivoltosi hanno utilizzato armi e scagliato esplosivi rudimentali fabbricati in casa contro i soldati.

Fiducia e imboscate

Sempre ieri, il nuovo premier ha incassato la fiducia del parlamento: 73 i voti a favore, con 43 contrari e 6 astenuti. Subito dopo, Otarola ha annunciato un coprifuoco notturno in vigore per tre giorni a Puno, una città nel Sud del Paese vicina al confine con la Bolivia, per placare le violenze.

In quella regione sono avvenuti gli episodi più gravi delle ultime ore. Le immagini girate dalle televisioni locali mostrano migliaia di persone in strada mentre tutt’attorno si verificano saccheggi e scontri con le forze dell’ordine. L’aeroporto della città di Juliaca è stato chiuso dopo che 9.000 persone hanno tentato di invadere lo scalo.

Negli scontri è stato ucciso un poliziotto, Jose Luis Soncco: è bruciato vivo nella sua auto di pattuglia, dopo quella che il comandante della polizia locale Raul Alfaro ha definito «una imboscata» dei rivoltosi: «L’hanno bruciato vivo», ha commentato. Le autorità locali hanno sottolineato l’«estrema violenza» dell’episodio: Soncco sarebbe stato persino torturato prima di essere ucciso.

I violenti hanno preso d’assalto e lanciato ordigni incendiari contro la residenza di un parlamentare nella città di Ilave, mentre i familiari si trovavano all’interno della casa.

Golpe e caos

Ma l’ex presidente Pedro Castillo sta dalla parte di chi protesta. In un tweet ha scritto che «le persone morte nel tentativo di difendere il Paese dalla dittatura golpista» saranno ricordate per sempre nella storia del Perù. In realtà, a provocare il caos in cui il Paese è sprofondato da più di un mese è stato proprio il tentativo di Castillo, avvenuto il 7 dicembre, di effettuare un colpo di Stato e dissolvere il parlamento per mantenere il potere. Il golpe è fallito, Castillo è stato arrestato e condannato a 18 mesi di carcere e al suo posto è subentrata Dina Boluarte, sua vicepresidente.

Ma i sostenitori di Castillo — che ora si trova in cella, e che prima di trasferirsi nella dimora presidenziale dopo la vittoria nelle elezioni del giugno del 2021 abitava su un altipiano andino e non aveva mai fatto politica — non riconoscono la nuova presidente e il suo governo. Per questo hanno invaso le strade e dato il la a vere e proprie guerriglie urbane che l’intervento dei soldati e i coprifuoco istituiti non hanno fermato.

Così come a nulla è valsa la decisione del parlamento, adottata a larga maggioranza, di anticipare dal 2026 al 2024 le elezioni presidenziali e quelle politiche. Decisione non scontata, visto che secondo la Costituzione un parlamentare può essere eletto per un solo mandato, e visto che dal 2016 il Perù è prigioniero di una lotta senza quartiere tra capi di Stato e parlamenti che cercano di eliminarsi a vicenda.

Galli: “Le democrazie sono spaccate in due e producono disuguaglianze, così non reggeremo”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 10 Gennaio 2023

Le democrazie per funzionare non devono essere spaccate ideologicamente e percorse da disuguaglianze gigantesche”. A dirlo Carlo Galli,ex parlamentare e docente dell’Alma Mater Università di Bologna.

 Il Papa dopo l’attacco in Brasile ha avvertito il mondo: è pericoloso l’indebolimento delle democrazie. È d’accordo?

Certo. È pericoloso. Forse sarebbe il caso di interrogarsi sulle cause di queste difficoltà. Le democrazie hanno bisogno, per funzionare, che le società non siano spaccate ideologicamente, e che non siano percorse da disuguaglianze gigantesche e crescenti. Se ciò avviene, si formano ondate di violento risentimento sociale, in direzione sovranista o populista (all’ingrosso, di destra o di sinistra). Per forze politiche estremistiche di questo tipo la competizione elettorale non è una lotta fra avversari ugualmente legittimi, ma un conflitto contro nemici illegittimi. Quando perdono le elezioni, quindi, queste forze possono non accettare il risultato e ribellarsi, attaccando le istituzioni “occupate” dal nemico. La democrazia è meno importante, per loro, delle loro posizioni politiche e ideologiche. Su queste dinamiche è appena stato pubblicato un libro da un politologo di Yale, A. S. Kirschner, intitolato “Legitimate opposition”.

 Brasile è nei Brics. Putin strizza l’occhio a Lula. Ciò può influire negli equilibri planetari?

Certamente, ma non adesso. In questo momento gli Usa, a cui fa riferimento Bolsonaro (al partito repubblicano, in realtà), sono in guerra con la Russia e lo hanno duramente criticato. Nell’ipotesi di una resurrezione del trumpismo, però, tutto cambierebbe. Va anche detto d’altra parte che Lula nella sua nuova versione politica non è più tanto ostile agli Usa. E questa vicenda lo legittima forse un po’ agli occhi dell’establishment democratico americano. In ogni caso i suoi problemi con Bolsonaro non finiscono qui. Se incontrerà gravi difficoltà nel governo, ipotesi tutt’altro che improbabile, la sfida di Bolsonaro si ripresenterà, magari in altre forme.

 Quali sono le differenze tra il caso Trump è quello Bolsonaro?

Quanto è successo a Capitol Hill due anni fa è per certi versi più grave dei fatti di Brasilia. L’enorme prestigio della democrazia americana è stato scosso e ciò ha turbato tutto il mondo. A Washington, inoltre, il Congresso era in seduta per ratificare le elezioni presidenziali. A Brasilia, invece, il parlamento era vuoto. In Brasile, però, a rendere più pesante la situazione, c’è stato un intervento dell’esercito, in forme quanto meno ambigue, in seguito rientrato. Per un po’ si sarebbe potuto pensare a un golpe, non solo a una rivolta populista. Negli Usa un coinvolgimento dei militari sarebbe al contrario fantapolitica.

 La vicenda può avere ripercussioni sulla politica europea e nazionale?

In Europa e in Italia, dove pure abbiamo un governo di destra, la condanna ufficiale è stata netta. Al più da noi c’è stata qualche polemica sul fatto che Meloni si è limitata a rilanciare un tweet, impeccabile, di Tajani. Non mi pare che ci sia spazio per critiche fondate. Non si capisce che cosa avrebbe da guadagnare il presidente del Consiglio da una presa di posizione diversa da quella dei principali Paesi occidentali.

A proposito di Europa, oggi è in corso un dibattito sul rivedere questa istituzione. L’Ue deve essere ripensata?

Oggi la Ue è un sistema intergovernativo, in cui parlamento e commissione hanno ben pochi poteri. Contano gli Stati e il loro peso politico-economico. L’unità raggiunta sul caso ucraino è per molti aspetti obbligata, come anche le scelte pur tardive sul tetto del prezzo del gas. Gli interessi economici e geopolitici degli Stati divergono. Quando la guerra si fermerà, lo vedremo. La Germania è tornata insicura di sé e ciò non promette bene. Gli Stati dell’Europa orientale sono molto spostati verso l’orbita americana, più che verso l’Ue. Il passaggio a un assetto federale, auspicabile, è molto lontano.

Il mondo, a livello politico, va sempre più a destra. Ciò può rappresentare un pericolo?

Il vero punto non è che il mondo va a destra, ma che è finita la globalizzazione. Gli Stati, o gli imperi, hanno ripreso a fare Grande Politica, se mai avevano smesso. Cioè hanno ripreso a competere. Il mondo non unipolare ma plurale è più instabile e insicuro. Se le cose vanno bene si formeranno nuovi equilibri di potenza. Se vanno male ci saranno altre crisi di tipo ucraino.

Il governo Meloni, al momento, però, non ha particolari difficoltà grazie a un’opposizione divisa. Quando si potrà ritrovare l’unità?

Le minoranze italiane di centro e di sinistra sono divise per i personalismi dei vari leader e anche perché le prospettive politiche di Renzi e Calenda sono divergenti da quelle del M5S e del Pd. Non si può, inoltre, fare politica semplicemente opponendosi alla destra con un’ammucchiata. Occorrerebbero capacità di analisi, lungimiranza, radicamenti sociali chiari. Idee, prima di tutto, che possano essere comunicate a un popolo divenuto scettico sulla capacità della politica di cambiare le cose.

Dove è la sinistra, perché si è arrivati così in basso?

La sinistra si è giocata la propria storia quando ha sposato in pieno la narrazione economica e culturale del neoliberismo, quando ha creduto che il capitalismo fosse capace di generare sviluppo equilibrato e che la politica avesse un ruolo subalterno rispetto all’economia. Così dalle ceneri di Pci e Dc (di sinistra) è nato il Pd, un partito leggero, non strutturato, post-ideologico, con l’obiettivo di governare e non di lottare, di gestire il potere più che di risolvere le contraddizioni della società e i suoi problemi, che invece sono drammaticamente aumentati. I cittadini hanno virato a destra, non solo per motivi ideologici, ma soprattutto perché la destra ha fatto loro intendere di comprendere e di condividere le loro preoccupazioni. Non credo che le promesse saranno mantenute. La destra, intanto, ha vinto le elezioni e la sinistra (molto moderata) è in crisi di identità, di obiettivi, di idee e di progetti.

Il prossimo congresso del Pd può essere la svolta?

Non mi pare ci siano i presupposti. Abbiamo assistito a lotte di potere personali e di correnti, a qualche ammissione di colpa a mezza bocca. La dissestata realtà politica e organizzativa del Pd sembra inscalfibile. Non penso che i cittadini possano essere convinti a votarlo, quale che sia l’esito di questo “congresso” (che non è un congresso, in realtà, ma un groviglio di tweet, di interviste e di primarie). Ciò non toglie che la mia stima personale e culturale vada a Cuperlo.

Il grande esperimento. Alla democrazia farebbe bene un giro al parco. Celestine Bohlen su L’Inkiesta l’11 Gennaio 2023.

Il politologo Yascha Mounk spiega perché le nostre società non hanno saputo gestire l’immigrazione. E come possono ridiventare un modello di grande successo

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 

Yascha Mounk è un esperto della crisi della democrazia liberale e della crescita del populismo. Ha scritto quattro libri che sono stati tradotti in più di dieci lingue. È associate professor di Practice of International Affairs alla Johns Hopkins University, contributing editor dell’Atlantic, senior fellow del Council on Foreign Relations. Ha fondato Persuasion, che è una rivista online e una comunità intellettuale. Produce il podcast “The Good Fight”. Il suo ultimo libro è “Il grande esperimento” (pubblicato in traduzione italiana da Feltrinelli). Mounk è intervenuto all’Athens Democracy Forum, organizzato in collaborazione con il New York Times.

Che cos’è che ha reso così fragili le democrazie?

Quello che gli Stati Uniti e molte altre democrazie stanno sperimentando non ha precedenti. Molte democrazie sono state storicamente abbastanza monoetniche e monoculturali e la gran parte dei loro cittadini condividevano radici culturali comuni. E altre avevano delle chiare gerarchie etniche o religiose che permettevano a un gruppo di dominare sugli altri. Non ci sono molti precedenti di democrazie con una grande diversificazione al loro interno e che trattano tutti i cittadini alla stessa maniera.

Perché pensa che le diversità siano pericolose per le democrazie?

Ci sono tre ragioni fondamentali per le quali è una cosa difficile far funzionare una democrazia che sia diversificata al suo interno. Gli uomini tendono a “fare gruppo”: sono rapidi nel formare dei gruppi e ancora più rapidi a favorire chi fa parte del proprio gruppo. Ad esempio, quando chiedo ai miei studenti se un hot dog è un panino, quelli che pensano che lo sia iniziano rapidamente a discriminare chi pensa che non lo sia. In secondo luogo, sappiamo dalla storia dell’umanità che certe distinzioni fra gruppi contengono un potenziale di conflitto particolarmente alto. Alcuni dei più violenti e terribili conflitti della storia hanno visto scontrarsi gli uni contro gli altri diversi gruppi etnici, religiosi, razziali o nazionali – e questa probabilmente non è una coincidenza. La terza difficoltà ha a che fare con i basilari meccanismi della democrazia. In una monarchia, le dimensioni del gruppo di cui fai parte non sono rilevanti. Nessuno di noi ha potere, fintanto che ci affidiamo entrambi al monarca. Non importa se tu hai più figli di me. In democrazia, invece, c’è sempre bisogno di cercare una maggioranza. E se io faccio parte di un gruppo etnico o religioso che era maggioranza e ora vedo che il tuo gruppo sta crescendo più rapidamente del mio, posso cominciare ad aver paura che perderò il potere e altri vantaggi. Come possiamo osservare nella vita politica di molte democrazie, oggi quella paura è un fattore molto motivante per un sacco di persone.

Lei sostiene che molte società sviluppate – in particolare in Europa – siano incappate in questo “esperimento” quando hanno cominciato a invitare o ad attrarre lavoratori stranieri e rifugiati. Anche se questo non è stato un esperimento pianificato, pensa che questi Paesi avrebbero potuto o avrebbero dovuto essere più veloci nel comprendere quali fossero le conseguenze della diversificazione?

Quando ho usato per la prima volta la parola “esperimento” in un’intervista in diretta alle televisione tedesca, una parte della destra estrema ha sostenuto che io stessi ammettendo una cospirazione. Dicevano: ecco la prova che questo professore di Harvard (insegnavo lì, in quel periodo) e Angela Merkel (che era allora la cancelliera) stanno facendo esperimenti con il popolo tedesco! Consideravano quello che avevo detto come una prova della loro teoria complottistica sulla “grande sostituzione etnica”. Ma la verità è che la gran parte dei Paesi non sono diventati diversificati come risultato di scelte consapevoli e volontarie di chi li governava. In Germania, il grande aumento dell’immigrazione è stato il risultato del miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta e della evidente necessità di incrementare il numero di lavoratori nelle fabbriche. Negli Stati Uniti, invece, è connesso alle riforme delle leggi sull’immigrazione negli anni Sessanta, riforme che, secondo il presidente Lyndon B. Johnson, non avrebbero cambiato la composizione etnica del Paese. Ma il fatto che ci fosse una carenza di lungimiranza e di programmazione ha fatto sì che in molte di queste società si sia a lungo attivato un meccanismo di negazione. I politici tedeschi avrebbero continuato a ripetere «Non siamo un Paese di immigrazione» quando ormai questa affermazione non era più vera da un pezzo. E ai discendenti dei “lavoratori ospiti” turchi fu negato per molti decenni l’accesso alla cittadinanza. Tutto questo ha reso più complicato costruire quel senso condiviso di appartenenza di cui abbiamo bisogno per far funzionare delle democrazie che sono diversificate a loro interno.

Una delle conseguenze dell’immigrazione è la crescita di un’aggressiva estrema destra nazionalista, ad esempio in Svezia, in Francia e negli Stati Uniti. Pensa che queste forze di destra avrebbero avuto analogo successo se non ci fosse il tema dell’immigrazione?

In realtà, noi vediamo che l’estrema destra ha grande successo anche in alcuni Paesi in cui l’immigrazione è molto minore, come il Brasile o l’Ungheria. Quindi la risposta non è ovvia. Ma sembra proprio che rapidi cambiamenti demografici suscitino profonde paure che sono facilmente sfruttate dai populisti di estrema destra. Quindi credo con convinzione che in Europa e negli Stati Uniti i cambiamenti demografici degli ultimi decenni abbiano reso più agevole l’aumento di potere dei populisti.

Pensa che i grandi partiti tradizionali o quelli della sinistra liberale avessero compreso le conseguenze politiche della gestione dell’immigrazione? Ci sarebbe stato un modo in cui avrebbero potuto diluire la capacità attrattiva delle forze di estrema destra?

È difficile generalizzare, perché la situazione varia notevolmente da un posto all’altro. Ma ci sono tre cose che in molti Paesi i politici di centro-sinistra e di centro-destra avrebbero probabilmente potuto fare meglio. In primo luogo avrebbero dovuto preparare i cittadini ai rapidi cambiamenti che li aspettavano – e agire preventivamente, dicendo con chiarezza che le democrazie diversificate al loro interno, nonostante le reali difficoltà che devono affrontare, possono essere un successo. In secondo luogo, io penso che ci sia una differenza determinante tra il modo in cui le persone valutano il controllo sull’immigrazione e il modo in cui essi valutano le dimensioni dell’immigrazione. I cittadini vogliono essere sicuri che il loro governo sia in grado di controllare chi entra nel Paese. Ma, una volta che sono sicuri di questo, allora molti di loro riconoscono il contributo dato dagli immigrati alle loro comunità e diventano più aperti anche in caso di livelli di immigrazione abbastanza alti. In terzo luogo, i politici, e specialmente quelli di centro-sinistra, dovrebbero aver compreso la necessità di una forma di patriottismo inclusivo. Le democrazie diversificate al loro interno possono funzionare soltanto quando i loro cittadini condividono un senso di solidarietà e di buona volontà reciproca.

Lei parla del fatto che un patriottismo culturale e civico possa essere una forza unificante. Dov’è che ha funzionato? La celebrazione del lutto nazionale per la morte della regina Elisabetta può esserne forse un esempio?

Io non voglio individuare un singolo Paese. Nessun Paese ha una soluzione perfetta. Ma ci sono alcuni Paesi che hanno proceduto abbastanza nello sviluppo di un sano patriottismo civico e culturale. Direi che la Gran Bretagna, il Canada e gli Stati Uniti riconoscono che persone che hanno origini e religioni differenti possano sentirsi tutte altrettanto orgogliose della cultura nazionale che condividono. Degli studi condotti negli Stati Uniti, ad esempio, indicano che gli immigrati sono mediamente più patriottici e più ottimisti sul futuro di quanto lo siano i cittadini nati su suolo americano.

Lei propone più di una metafora per descrivere come le società diversificate al loro interno tentino di riconciliare i loro diversi elementi per formare un tutt’uno collettivo. Ha parlato di melting pot, di salad bowl e di public park. Può descrivere brevemente questi concetti e dirci perché lei preferisce il public park?

Con il modello del melting pot (crogiolo, calderone, ndr) tutti finiranno alla fine per assomigliare agli altri; ma è un modello che chiede alle persone di abbandonare una quota eccessiva delle proprie origini culturali. Il modello della salad bowl (insalatiera, ndr) immagina una società in cui diversi gruppi vivono gli uni accanto agli altri, intersecandosi raramente e osservandosi reciprocamente a distanza. Ma questo è pericoloso perché non consente lo sviluppo di un sufficiente sentimento di solidarietà tra i cittadini di gruppi diversi. Ed è per questo che io preferisco il modello del public park (parco pubblico, ndr). In un parco le persone possono stare per i fatti loro, senza dover interagire con gli estranei. Ma possono anche conoscere nuove persone e interagire con loro. Ma un parco in cui ognuno viene zittito da qualcun altro è molto triste. Perché le democrazie diversificate al loro interno possano funzionare abbiamo anche bisogno di molte persone che escano e costruiscano ponti tra le persone che appartengono a gruppi differenti.

Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022

Democrazia vs autarchia, l’altra Coppa del mondo di calcio. Infodata Il sole 24 ore il 17 Novembre 2022 

Statista si è divertita  a giocare il Campionato del mondo di calcio delle forme di governo. Che è un campionato a due perché vuole dire nella sostanza schierare la democrazia contro autarchia (o viceversa).  Proviamo a fare due conti: in totale se prendiamo i mondiali maschili dal 1930 a oggi 18 paesi  hanno ospitato 23 volte la coppa del mondo. Brasile, Germania, Francia, Italia e Messico hanno ospitato due volte il torneo più famoso di sempre. Nella maggior parte dei casi, la competizione si è svolta in paesi con un sistema di governo democratico. Qui sotto una mappa dimostra che non è sempre stato così.

Partiamo da noi, nel 1934 in Italia c’era il fascismo. Nel 1978 al potere in Argentina c’era una giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla. Anche recentemente l’organo di governo mondiale FIFA ha assegnato la Coppa del Mondo due volte di fila a paesi governati in modo autocratico. Parliamo della Russia di Putin che ha ospitato il torneo nl  2018, e lo stesso vale adesso per  il Qatar . L’emiro Tamim bin Hamad Al Thani governa il paese come sovrano assoluto; non esistono elezioni democratiche o partiti politici. Freedom House scrive “Mentre i cittadini del Qatar sono tra i più ricchi del mondo, la maggior parte della popolazione è composta da non cittadini senza diritti politici, poche libertà civili e accesso limitato alle opportunità economiche“.

Modello Kyjiv. La fragilità dei regimi autoritari e l’occasione delle democrazie liberali. Alessandro Cappelli su L’Inkiesta il 7 Dicembre 2022

Il 2022 ha messo a nudo le debolezze di Russia, Iran e Cina che per un decennio hanno minato la stabilità e le certezze del mondo occidentale. I prossimi mesi offrono lo spazio politico per creare un mondo più sicuro e più giusto

L’invasione dell’Ucraina non va come Vladimir Putin aveva programmato e sperato, la politica zero-Covid di Xi Jinping mostra crepe che forse non si potranno riparare, la brutalità della repressione nell’Iran dell’Ayatollah Ali Khamenei ha attirato gli occhi di tutto il mondo. È stato un anno difficile per le autocrazie di Russia, Cina e Iran, che si affacciano al 2023 vacillando, perlopiù per ferite autoinflitte, di fronte a scenari ostili come mai si erano mai trovati prima.

Questi momenti di flessione non saranno necessariamente prodromici a una rivoluzione, a una svolta democratica o a trasformazioni radicali e definitive in quei Paesi – al momento non sembrano le opzioni più probabili, forse nemmeno possibili nel breve termine. Di fronte alle rispettive difficoltà, ognuno con le sue specifiche e i suoi problemi, Mosca, Pechino e Teheran reagiranno alle proteste e alle débâcle con nuove repressioni, con nuove strette che al massimo potranno bilanciare delle concessioni, più o meno concrete, più o meno di facciata.

Nell’ultimo decennio i regimi autoritari hanno potuto e saputo minare la stabilità delle democrazie liberali – e in generale in tutti i continenti –, penetrando nelle istituzioni, trovando sostegno nell’opinione pubblica, formando aspiranti epigoni. Se l’Iran ha avuto un protagonismo soprattutto regionale in Medio Oriente, Russia e Cina sono state l’avanguardia che ha ispirato un’ondata illiberale e antidemocratica capace di cancellare le conquiste civili e sociali in Myanmar, in Ungheria, a El Salvador, in Tunisia.

La pandemia, almeno in un primo momento, sembrava corroborare la tesi della superiorità del modello autoritario, apparentemente impermeabile alle difficoltà della crisi sanitaria, poi sfociata in crisi economica, energetica, degli approvvigionamenti di materie prime.

A febbraio 2021, a circa un anno dai primi lockdown generalizzati visti quasi in tutto il mondo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva parlato alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza descrivendo un punto di flessione per le democrazie liberali, in un mondo minacciato «dagli abusi economici della Cina», dal pericolo militare della Russia (mancava ancora un anno all’invasione dell’Ucraina, ndr), delle «attività destabilizzanti dell’Iran in Medio Oriente».

Sono passati meno di due anni da quel discorso, ma sembra già cambiato tutto: il 2022 ha dato al mondo una prospettiva diversa. All’epoca Biden si era appena insediato alla Casa Bianca, e aveva preso il posto che per quattro anni era stato di Donald Trump; oggi si avvia verso il suo terzo anno da presidente, e ha l’opportunità politica di dimostrare che il fronte democratico internazionale ha saputo risollevarsi e ha retto meglio del modello autoritario di Cina e Russia (che invece mostra evidenti segni di debolezza).

Lo si legge nei numeri della guerra sconsiderata di Putin: un’invasione criminale che in Ucraina ha provocato la morte di 6.700 civili – secondo l’Onu –, ha spinto più di un milione di russi a fuggire dal loro Paese, ha frenato l’economia russa, ha mostrato le debolezze di un esercito che si è rivelato poco addestrato, poco disciplinato e privo di organizzazione.

Lo si legge anche negli errori di Pechino, che ha sovrastimato l’efficacia a lungo termine della politica zero-Covid e ora si trova a dover fronteggiare proteste su larga scala, un movimento spontaneo e decentralizzato difficile da frenare: è la sfida più ardua dell’era di Xi Jinping e mostra come qualcosa si sia rotto nel patto sociale tra la Cina e i suoi abitanti («meno diritti politici, più benessere economico»). Le proteste in Iran nascono da presupposti e condizioni profondamente diverse da quelle cinesi, ma anche in questo caso i cittadini contestano i modi di un regime che fa della repressione e della corruzione la sua cifra, ed è visto dalla popolazione come un nemico, un muro da abbattere.

A ottobre, Francis Fukuyama aveva ripreso sull’Atlantic la sua teoria della “fine della storia”, scrivendo che gli Stati autoritari hanno mostrato soprattutto due tipi di punti deboli: in primo luogo, la concentrazione del potere nelle mani di un unico leader al vertice garantisce un processo decisionale di bassa qualità e nel tempo produrrà conseguenze davvero catastrofiche. In secondo luogo, l’assenza di discussioni e dibattiti pubblici negli Stati autoritari significa che il sostegno del leader è superficiale e può erodersi in un attimo.

Ma la democrazia liberale non può limitarsi ad aspettare che questi regimi rivelino ulteriori aspetti delle loro fragilità. «Gli Stati Uniti e i loro partner globali», ha scritto Frederick Kempe in un articolo pubblicato sull’Atlantic Council, «dovrebbero sfruttare il momento per indirizzare la competizione tra democratici e despoti che definirà l’ordine post Guerra Fredda: il 2023 è un’opportunità per segnare guadagni duraturi».

L’invasione dell’Ucraina può essere d’insegnamento: c’è una dittatura che cerca di schiacciare uno Stato vicino, libero e indipendente, e la resistenza di Kyjiv al revisionismo russo – che è prima di tutto una lotta per la sopravvivenza – espone tutte le debolezze di uno Stato apparentemente troppo più grande, più forte, più armato e dimostra che il futuro può essere diverso, migliore, libero. Così, con il 2022 che volge al termine, le democrazie liberali possono fare fronte comune e lavorare insieme per modellare il loro futuro, per creare un mondo più sicuro, prospero e giusto.

La sfiducia nelle democrazie: “noi” contro “loro”. Chiara Salvi il 21 Novembre 2022 su Inside Over.  

Il 70% della popolazione mondiale vive in un regime autocratico. In media, il livello di democrazia di cui gode un cittadino è ai livelli del 1989. Gli Stati che stanno vivendo un deterioramento della democrazia sono 35, dieci anni fa erano solamente cinque. Lo stesso numero vale per gli Stati in cui la libertà di stampa viene limitata. E la fiducia nelle democrazie che ancora (r)esistono sta diminuendo.

È questa l’immagine che risulta dal Democracy Report 2022 dell’Istituto V-Dem e dal Democracy Index 2021 dell’Economist Intelligence Unit (Eiu): una democrazia agli stremi, regimi democratici deboli che vengono infiltrati da tendenze autocratiche e democrazie storicamente forti che vedono la fiducia da parte delle loro popolazioni in calo.

La pandemia di Covid-19 è servita da catalizzatore a delle tendenze già presenti nell’ecosistema, che sono perlopiù il risultato di un susseguirsi di eventi importanti e destabilizzanti, quali per esempio crisi economiche, politiche e sociali e la pandemia Covid-19, che si sono unite a una predisposizione critica di alcuni cittadini.

Come spiegare queste tendenze

Bisogna partire da alcuni presupposti: le persone si fidano di meno di un governo formato da un partito che non hanno votato o che non rappresenta la loro posizione politica. Altrettanto è da osservare che laddove siano in atto delle crisi, di qualunque genere, le persone tendono ad attribuirne la responsabilità al governo. L’effetto di “rally ‘round the flag”, dove in caso di crisi improvvise le persone si riuniscono intorno alla propria “bandiera”, perde di impulso dopo un po’ e se la crisi proseguirà, il risultato sarà molto probabilmente un rinnovato calo della fiducia. Inoltre, la fiducia è maggiore nelle istituzioni e minore in quelle che sono figure politiche e partiti, specialmente laddove la popolazione ha l’impressione che questi attori cerchino solo di perseguire i propri interessi.

In un sistema internazionale liberale, in cui il flusso dei mercati e dell’informazione è ininterrotto, può succedere che le persone abbiano l’impressione di perdere il senso di controllo di ciò che li succede attorno e che si sentano attori passivi di un sistema. Il bisogno innato di ordine rischia così di portare a una nuova identificazione di quello che è il “noi” e il “loro“, ovvero di quello che è il confine tra una comunità con un’identità condivisa e di quello che è estraneo. La polarizzazione, in questo senso, viene accelerata, almeno in parte, dall’uso di internet: durante la pandemia il web è diventato punto di approdo, ancora di più di quanto non lo fosse già, per informarsi e mantenere un minimo di contatti sociali. È qui che si fanno largo due fenomeni associati all’attività sul web: le filter bubbles e gli echo chambers. Il primo fenomeno delinea come ogni individuo di internet si trovi all’interno di una bolla che filtra il contenuto al quale viene esposto un utente, in base ad algoritmi che analizzano i suoi interessi e le sue preferenze. Le camere d’eco sono invece tipiche dei siti di social media, dove persone con interessi simili si ritrovano inserite in “stanze” virtuali a discutere delle loro idee e opinioni.

Viene naturale la ricerca di contatti con persone che abbiano opinioni simili alle proprie, comportamento noto come bias di conferma, un bias cognitivo per il quale le persone tendono naturalmente a rimanere dentro ambiti e discussioni che confermano le loro convinzioni pre-acquisite. I fenomeni appena descritti risultano però “pericolosi” in quanto tendono ad isolare la persona da opinioni e informazioni diverse dalle proprie, “chiudendo” per così dire la stanza da quello che può essere uno scambio di informazioni costruttivo.

La rivolta americana

Prendiamo l’esempio dell’insurrezione della destra americana del 6 gennaio 2021 in cui un gruppo di manifestanti ha invaso le strade di Washington D.C. e preso d’assalto il Campidoglio, sede del Congresso americano che in quel momento stava procedendo alla formalizzazione della nomina a presidente degli Stati Uniti di Joe Biden. Gli insorgenti hanno richiesto l’annullamento delle elezioni “fraudolente” che avevano eletto Biden come successore di Donald J. Trump, inneggiando a Trump e utilizzando slogan come “Stop the steal – Fermate il furto.”

Questo atto di terrorismo interno, come è stato definito successivamente dall’Fbi, è stato l’apice di un processo iniziato anni dapprima e consolidatosi durante, e in parte anche grazie a, la presidenza Trump. Il presidente ha fatto infatti poco per mitigare la divisione sociale che si è stagliata in modo sempre più netto durante il suo mandato e anzi, ha appoggiato posizioni pericolose e radicali quali ad esempio quelle del gruppo QAnon, movimento di estrema destra americano.

L’orientamento apparentemente estremista di alcuni sostenitori di Trump non è però un fenomeno tanto circoscritto quanto si sperava inizialmente. In una delle ultime pubblicazioni documentarie rilasciate in adempimento al Foia (Freedom of Information Act), l’Fbi ha pubblicato una mail, rivolta a Paul Abbate, attuale vicedirettore dell’Fbi, datata 13 gennaio 2021, nella quale viene fatta presente l’esistenza di un numero non specificato di simpatizzanti delle insurrezioni del 6 gennaio facenti parte dell’Fbi e delle forze dell’ordine. Si legge ad esempio: “ho parlato con molti agenti afroamericani che hanno declinato offerte di entrare a fare parte dello Swat, perché non convinti del fatto che ogni singolo membro del loro team li proteggerebbe durante un attacco armato.”

Il risultato delle elezioni di metà mandato non ha però portato la “Red Wave”, l’ondata dei repubblicani, tanto prevista. Anzi, secondo il New York Times, si tratta di uno dei risultati migliori degli ultimi due decenni. Ma la candidatura per le elezioni presidenziali del 2024 da parte di Trump incontra una posizione dura di Biden, che lo identifica sempre ancora come la minaccia più grave per la democrazia statunitense.

Il caso italiano

Uno degli strumenti utilizzati per misurare il grado della fiducia nella democrazia è l’affluenza al voto. L’Italia quest’anno ha toccato il minimo storico, con un’affluenza del 63,9%. Dato poco sorprendente, se vediamo che secondo l’Istat solo il 37% degli italiani attribuisce un alto grado di fiducia al governo nazionale e solo un quinto dei cittadini ne attribuisce ai partiti.

Sarebbe riduttivo attribuire la diminuzione della fiducia a fenomeni di clusterizzazione online, lo sgretolamento della fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni è anche una risposta alla mancanza di valori: la globalizzazione e la susseguente interconnessione delle democrazie (principalmente occidentali) sta avendo un effetto lesivo sull’identificazione di valori politici nazionali dei loro cittadini. Il disorientamento causato dalla contaminazione di più obiettivi, bisogni e interessi, può spingere le persone verso un sentimento di maggiore confusione e quindi minore fiducia, o anche verso ideologie più estreme perché detentrici di valori più forti e chiari. Per analizzare un fenomeno che non richiami l’adesione a gruppi estremisti quali ad esempio The Base o QAnon, che comunque rappresentano un fenomeno circoscritto, basta osservare l’orientamento di destra che stanno prendendo molti governi dell’Europa occidentale. Uno spostamento da parte dell’elettorato verso posizioni che mettono in risalto valori nazionalisti è, in fondo, una delle prime reazioni a periodi di crisi.

Le implicazioni di un mondo aperto e vulnerabile

Alle persone si sta stagliando davanti un mondo in cui le decisioni politiche vengono prese all’interno di flussi globalizzati, percepite come scelte fatte per arricchire pochi invece che molti, ma i cui risultati, negativi e positivi, ricadono su tutti. Questo sentimento è fortemente presente nei paesi in cui l’infiltrazione di pratiche di corruzione è alta e fa sì che si rinforzi l’idea di un “noi”, individuato in questo caso nella popolazione, contrapposto a un “loro”, identificato con chi governa, come è successo ad esempio in Libano.

Delocalizzazione della produzione, disastri ambientali, pandemie avvertite in ritardo, crisi economiche come quella causata dal governo di Liz Truss, fanno sì che lo scontento all’interno della popolazione cresca e lasci spazio a dubbi e rancori, rivolti soprattutto verso il governo in carica. In paesi di antica democratizzazione questi malumori si risolvono solitamente entro i dibattiti pubblici, ma nei paesi più deboli, economicamente e politicamente, si infiltrano facilmente pratiche che aprono a prese di potere autoritario. La pandemia ha funto da benzina sul fuoco per alcuni di questi Stati, un esempio eclatante è il Myanmar.

Ciononostante, i paesi con le democrazie apparentemente più forti non possono cullarsi in sicurezza. “Se determinati comportamenti, attuati da uno Stato, non vengono sanzionati, verranno normalizzati e da lì si diffonderanno ad altri,” ha avvertito Edward Snowden, parlando della Cina durante un’intervista a Vice nel 2020. Analizzando l’introduzione di misure volte a controllare la diffusione della pandemia Covid-19 in Cina, adottate però anche ad esempio in Corea del Sud e in Giappone, è arrivato alla conclusione che potrebbero trasformarsi facilmente in strumenti di oppressione. Snowden ha sfiorato il tema della fragilità delle democrazie, che proprio per la loro natura di luogo aperto a molteplici opinioni, sono più facilmente infiltrate dall’esterno, anche da influssi autoritari.

Paola Del Vecchio per “Avvenire” l'1 novembre 2022.

«La politica continua a operare in base agli stessi concetti di potere, sovranità, democrazia, rappresentatività, nati 300 anni fa. Ma quella che aveva davanti Rousseau era una società omogenea, autarchica, con una forma rappresentativa che escludeva le donne, un'unità culturale e religiosa e scarse tecnologie. Dobbiamo chiederci quanto siano ancora appropriati per organizzare la convivenza nelle società del XXI secolo...». 

Daniel Innerarity (Bilbao, 1959) ha appena pubblicato Una teoria della democrazia complessa (Castelvecchi, pagine 384, euro 29,00), dove propone "un esercizio di rianimazione della democrazia in tempi incerti"; in parallelo è uscito in Spagna La sociedad del desconocimiento (Galaxia Gutenberg) in cui il filosofo offre chiavi per comprendere il ruolo della conoscenza nella società digitale globalizzata. 

Lei evidenzia che viviamo nell'era dell'incertezza e dell'insicurezza. In cosa si distingue dalle precedenti?

Come nella società della conoscenza, continua a essere necessario il sapere per risolvere i problemi. Ma, davanti alla dimensione gigantesca di quelli attuali, ai rischi e alle incertezze, dobbiamo gestire in qualche modo anche l'ignoranza, la conoscenza che non conosciamo, utilizzarla come una risorsa. 

Riflette sulla fine della mediazione sociale da parte di partiti, chiese, sindacati ecc. E sulla conseguente "deregulation del mercato cognitivo" che ha portato a democratizzare l'informazione ma, al contempo, a un ambiente informativo caotico,. Il progresso ha comportato una serie di effetti boomerang?

Ogni processo di emancipazione è accompagnato da un aumento della possibilità di scelta. Se c'è più sapere a disposizione, la conseguenza immediata è un ampliamento dello spazio del possibile e una minore sicurezza nel conosciuto, nella tradizione, nell'autorità riconosciuta. Questo processo, che è enormemente positivo, perché nessuno vorrebbe tornare a un sapere che limiti le opportunità di elezione, provoca molte patologie, disorientamento, angoscia. Oggi non abbiamo un problema di informazione, ma di orientamento.

Lei scrive che in questo smarrimento "ci affidiamo a mediazioni più invisibili, come l'algoritmo di Google o le reti sociali, più sottili forme di dominio". In mancanza di filtri, come si distingue il sapere dall'informazione spazzatura?

Ci sono due procedimenti. Uno in cui ognuno comprovi l'affidabilità di tutte le informazioni che riceve, completamente irrealista, perché supera le capacità individuali. L'altro è costruire meccanismi di fiducia ragionevoli, com' è nella natura umana: razionali, suscettibili di modifica, revisionabili. Solo così avanzeremo cognitivamente. 

Oggi sono più che mai necessarie persone, istituzioni che stabiliscano filtri e criteri, ma non alla maniera delle società tradizionali, riponendo fiducia cieca in un leader, bensì pluralizzando le fonti di informazione.

Di fronte alle crisi fare i conti con la funzione svolta dall'ignoranza significa dare ragione a chi nega l'evidenza?

Assolutamente no. Comprendere i motivi per cui le persone rifiutano la razionalità non equivale a dare loro ragione. A volte presentiamo la politica basata sull'evidenza scientifica con un certo orgoglio e disprezzo non tanto verso i negazionisti radicali, quanto verso la pluralità di valori che devono continuare a essere vigenti, anche se parliamo di evidenze. 

Una cosa è che dal punto di vista scientifico sappiamo molto sul cambio climatico, che è un fatto. Altra è che le misure, i modelli e la proporzione di sacrifici da fare per contrastarlo siano presentati come indiscutibili. D'altra parte, non c'è unanimità fra gli scienziati.

In Una teoria della democrazia complessa rileva che mentre la scienza ha cambiato buona parte dei suoi paradigmi, la politica non ha saputo altrettanto: quali sono i vecchi strumenti da rottamare?

Sarebbe più rapido rispondere con la domanda contraria: quali concetti della politica sono ancora utili? Va riscattato il nucleo normativo della democrazia e l'autogoverno dei cittadini liberi, perché sopravviva in contesti per i quali questi concetti non erano stati pensati. Poiché saremo in buona misura governati da algoritmi, perché l'attuale distinzione fra nazionale e transnazionale è molto confusa, le società sono enormemente plurali, le tecnologie molto difficili da regolare. A volte la destra parla di "adattamento" al mondo che viene, e la sinistra di "resistenza". Sono due strategie inadeguate. C`è bisogno di uno sforzo per ripensare gli ideali irrinunciabili.

Nella crescente interdipendenza, lei si appella a un'etica dei sistemi e delle organizzazioni, più che individuale. A quali valori non possiamo rinunciare?

Non sottovaluto affatto le virtù personali. Intendo dire che quando si tratta di disegnare la governance, è molto più utile immaginare sistemi nei quali le proprietà individuali siano meno rilevanti di quelle sistemiche, la cui efficacia dipende da che siano governati dalle persone più adeguate. Viviamo in società che hanno generato una complessità di attori, meccanismi, procedimenti in virtù dei quali è poco verosimile che un leader malvagio o provvidenziale realizzi grandi imprese.

La democrazia in buona misura è delimitare il potere di chi è al governo. Il che circoscrive molto la capacità di governanti nefasti di fare grandi danni, sebbene si paghi col fatto che non possiamo aspettarci grandi cose dalla politica concorrenziale. Le ultime elezioni in Italia, ad esempio, non sono così trascendentali come sembrerebbe. In un Paese che è in Europa, nella Nato, nell'euro, le cui università sono parte della comunità scientifica internazionale, le cui imprese operano nel commercio mondiale, la capacità di azione di chi arriva al potere è limitata. Se dovessi salvare un valore su tutti, sarebbe senza dubbio il pluralismo.

È il rispetto dell'altro, il dibattito aperto, la libertà di espressione, l'inclusione di voci diverse ciò che assicura la razionalità. Le nostre società, molto pluraliste, hanno il grande vantaggio di rendere più difficile la persistenza nell'errore. Se non possiamo arrivare all'intera verità - che come diceva Rawls è un'aberrazione, perché incompatibile con la cittadinanza democratica - possiamo almeno evitare di insistere nell'errore. L'intelligenza dei sistemi, che oggi ci sembra naturale, è una grande conquista evolutiva nell'Europa del XXI secolo. Il pluralismo non è la soluzione, ma senza pluralismo non c'è soluzione. 

Cari italiani, ve la do io la democrazia! Saverio Raimondo su La Repubblica l'1 Ottobre 2022. 

Saverio Raimondo riassume la parabola del “migliore dei sistemi possibili” da Solone ai giorni nostri. Mentre è in libreria il suo libro da “elettore riluttante”

La democrazia nasce ad Atene, nell'Antica Grecia, fra il VI e il V secolo a.C. Leggenda vuole che gli antichi greci, già inventori della Tragedia e della Commedia, mischiandole ottennero la Democrazia. In realtà l'inventore fu Solone, un politico e giurista ateniese, il quale fu il primo a pensare che tutti dovessero partecipare alle attività politiche e legislative - anche se il mattino dopo averlo pensato si svegliò con un gran mal di testa e la bocca tutta impastata.

Nota bene. Non illudetevi dai voti alti. I voti ottenuti dai candidati alle amministrative non sono voti esclusivamente personali, ma conseguiti attraverso alleanze e tradimenti. Con il voto con doppia preferenza di genere ognuno ha potuto fare l’alleanza con il candidato dell’altro sesso della medesima lista. I più furbi hanno stabilito alleanza con più partner disattendendo il principio della reciprocità.

Come diceva Giorgio Gaber l’ideologia, malgrado tutto, credo ancora che ci sia. Giorgio Gaber e la parabola sociale del pensiero. Tra «Ius Scolae», «fine vita», ambiente e politica, in fondo si può credere nella democrazia del pensiero. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Agosto 2022

Tutti a dire che non ci sono più destra e sinistra: me ne siamo davvero convinti? Sono passati quasi trent’anni da quando se lo chiedeva Giorgio Gaber. Magari non ci sono più le ideologie del secolo scorso. Magari ora chiamiamole Barbie e Lol. Magari consideriamole più concezioni di vita che programmi politici. E però ora che andremo a votare non è che un centro-destra e un centro-sinistra non ci saranno, comprese una destra-destra e una sinistra-sinistra. E se riteniamo che stando in Europa non potremo che seguire le regole dell’Europa, c’è modo e modo di essere Europa.

E allora. Europei convinti o europei un po’ scettici? Un’unione sempre più stretta o Stati che conservino ampi pezzi della propria sovranità per motivi più o meno fondati? E così la cosiddetta scelta atlantica, cioè scelta dell’Occidente, Nato compresa. O assumere una posizione più indipendente con lo sguardo a regimi più illiberali nella crisi delle democrazie rappresentative? E a una nuova distribuzione di poteri nel mondo? E le diseguaglianze. Diseguaglianza non è solo povertà. Diseguaglianza è anche lavoro povero. Diseguaglianza è anche poco lavoro femminile. Diseguaglianza è anche poco lavoro giovanile. Diseguaglianza è anche divario fra Nord e Sud. Cercare di risolvere uno per uno questi disagi o puntare su un benessere più generale che premi chi è in vantaggio ma faccia salire il livello di tutti? È vero che con l’alta marea salgono anzitutto i panfili dei ricchi, ma salgono anche le barche dei pescatori. E continuare a puntare sulla locomotiva del Nord perché il Sud ne raccolga una parte?

Vedi di recente spiagge e tassisti. Se aprire alla concorrenza (che conviene ai consumatori) o difendere imprese e lavoratori che temono danni. Così le tasse e l’evasione fiscale.

Chi è convinto che non si paghino quanto si dovrebbe perché sono troppo alte. E chi ritiene che siano troppo alte perché in troppi non le pagano. Destra e sinistra qui dovrebbero avere un senso. E la proposta (Lega) sulla flat tax, tassa piatta, percentuale bassa e per tutti, ricchi e meno ricchi. Gli uni: crescerà l’economia con un vantaggio generale. Gli altri: sarà un regalo ai ricchi e ridurrà le entrate dello Stato per i servizi sociali.

E i diritti civili. Lo Ius Scolae: cittadinanza italiana ai figli di immigrati che hanno frequentato le scuole in Italia. Lo ius Soli: cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Con chi si oppone perché bisogna pensare prima agli italiani. E chi lo considera l’unico mezzo per rimediare all’inverno demografico: non facciamo più figli e ne avremo bisogno. E cosa serve perché questi bambini tornino a nascere. Politiche per la famiglia, si dice. Finora l’unico campo in cui sono (siamo) stati tutti d’accordo: non si è fatto nulla. Mentre 100 mila giovani all’anno se ne vanno all’estero perché in un’Italia più giusta e con un futuro si crede sempre meno. Destra o sinistra che siano.

E il «fine vita»: la vita è mia e posso rinunciarvi se e quando voglio, o la vita non è un fatto privato e si deve dar conto alla comunità? E così l’aborto. E così il divorzio. E la difesa delle differenze sessuali, perversioni sociali o diritti individuali? Con la scuola alla base di ogni progresso ma sulla quale si sono finora sviluppati giochi senza frontiere con un risultato unico: sempre il peggior trattamento d’Europa. Da destra e da sinistra. Fino alla forma dello Stato, recentissima nuova entrata della campagna elettorale. Italia repubblica parlamentare o Italia repubblica presidenziale. Conferma della Costituzione uscita dalla sconfitta del fascismo. O modifica della Costituzione sull’altare di una migliore governabilità. E poi l’energia (nucleare o no).

E l’ambiente (rigassificatori in mare o no). E così le libertà, a cominciare da quella di stampa. E le minoranze. E la guerra in Ucraina. E l’inflazione. E il Covid. L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia, diceva Gaber. Ora si potrebbe tradurre: il mondo che vorrei per me e per chi verrà. Quanto a destra e sinistra, per il geniale cantautore milanese era di destra fare il bagno nella vasca, la doccia invece di sinistra. Finché non ha dato una versione più territoriale Luciano De Crescenzo: la doccia è milanese perché ci si lava meglio, consuma meno acqua e fa perdere meno tempo. Il bagno è invece napoletano. Un incontro con i pensieri, i sentimenti.

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per “Domani” venerdì 11 agosto 2023. 

«Essere di destra per i tassisti non è una condizione dell'anima, semmai è una corsia preferenziale». Lo diceva lo scrittore Roberto Cotroneo una decina d’anni fa e il principio vale ancora oggi, con una maggioranza di destra al governo, da sostenere in campagna elettorale, da contrastare se un decreto si permette di mettere il naso nel privilegio delle licenze. Un fuoco amico. Un tentativo che ha spiazzato tutti. 

Agli storici barricadieri del tassametro, che vanno dall’Ugl – la sigla vicina al sottosegretario della Lega Claudio Durigon – all’Unione radio taxi, si è aggiunta la virulenza di Unica-Cgil, pronti a minacciare lo sciopero.

Così, nel giro di poche ore, il governo ha fatto una mezza marcia indietro. Ha deciso che se ci saranno nuove licenze, verranno affidate a chi ne ha già, saranno temporanee, in modo da non scalfire il loro valore di mercato, 200 mila euro circa nelle grandi città. Inoltre è stato inserito il raddoppio degli incentivi per l’acquisto di auto e per il rinnovo di quelle vecchie. Gli amici si vedono nel momento del bisogno. 

[…] Sul fronte destro sono convinti che otterranno ancora qualche modifica in parlamento: «Potrebbe arrivare un maxi emendamento, o comunque un ritocco. Non credo che porranno la questione di fiducia», dice Leopoldo Facciotti, avvocato, consulente dell’Unione dei radiotaxi d’Italia (Uri).

L’associazione è ancora capeggiata dal leader storico del movimento, Loreno Bittarelli, il capo dello 06-3570 di Roma, con 3.500 tassisti al seguito. «Ci lavora anche la metà dei tassisti di Unica», dice Di Giacobbe. La cifra in questo caso non viene comunicata. Bittarè ha deciso di mandare avanti l’avvocato. 

È lui che sta trattando a suo nome. Del resto, nel 2013 lo stesso Facciotti è stato parte della dirigenza del partito e nel 2015 promotore di un comitato per Giorgia Meloni assieme a Giuseppe Cossiga, oggi alla presidenza dell’Aiad in sostituzione del ministro Guido Crosetto. Ma non è il solo ad avere una forte connessione con i Fratelli d’Italia.

[…] L’appoggio dichiarato dei tassisti della compagnia a Meloni ha superato i vent’anni. Nel 2007 era stata l’attuale presidente del Consiglio a prendersela con le “lenzuolate” di liberalizzazioni del centrosinistra, con i successivi tentativi di portarle a termine, complice l’allora sindaco del Pd Walter Veltroni: «Stupisce che a pochi mesi di distanza dalle polemiche innescate dal decreto Bersani che ha visto uno sciopero prolungato dei tassisti, il governo decida nuovamente di introdurre provvedimenti senza prima consultarsi con la categoria», diceva all’epoca. In epoca più recente, si è parecchio speso in pubblico anche il first cognato, Francesco Lollobrigida, marito della sorella della premier, ministro dell’Agricoltura.

Era solo l’estate scorsa, quando esultava perché Draghi aveva desistito dall’intervenire, bloccato dalle manifestazioni dei tassisti nelle piazze d’Italia: «Grazie a Fratelli d'Italia e a tutto il centrodestra sarà stralciato l'articolo 10 dal Ddl Concorrenza per tutelare i tassisti», aveva dichiarato da capogruppo alla Camera. Un’attenzione storica che arriva fino ai giorni nostri: nel mese di marzo si erano incontrati Emanuele Raffini, presidente di Confartigianato Taxi, il coordinatore di FdI, Giovanni Donzelli, e il presidente meloniano della commissione Trasporti, Salvatore Deidda.

In passato, gli esponenti di maggior peso della categoria hanno direttamente militato tra le file della squadra oggi al governo. Il primo è proprio Bittarelli, candidato al Senato con il Pdl nel 2008, poi sostenitore del sindaco Gianni Alemanno. Come raccontano le cronache dell’epoca, fu sempre lui, insieme con l’attuale vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, ad affossare il tentativo di liberalizzazione di Mario Monti. Era il 2012. L’anno dopo si meritava un posto in lista con FdI. 

Ma è il nome del meno noto avvocato Facciotti che oggi torna con più insistenza. È l’uomo dei tavoli, come si dice. Un giorno è il rappresentante delle imprese, quello dopo veste l’abito dell’organigramma di partito. Oltre a essere consulente di Uri, segue la meno famosa Casartigiani. Nel 2001 è stato candidato a Roma con Alleanza nazionale, poi consulente a titolo gratuito del sindaco Alemanno, quindi responsabile dei rapporti con i sindacati nel 2013, infine promotore del comitato per Meloni nel 2015.

Adesso, dice, «sono solo un consulente e un avvocato, ma la mia storia è nota». Tra gli altri suoi clienti c’è anche Rcs Spa, la società che si è occupata dei trojan di Palamara: «Ma questo non c’entra niente», risponde lui: non lavora più con la società. 

Tra i nomi degli oltre 25 partecipanti al confronto con il governo, spicca quello di Massimo Campagnolo, di Federtaxi Cisal. Con il ministro delle Imprese Urso, il vicepremier Salvini e il sottosegretario Rixi ha parlato nella veste di rappresentante di settore. Alle ultime regionali invece si era presentato in una lista in appoggio al presidente leghista Attilio Fontana, portandogli circa 400 voti e gli auguri di tutti i colleghi.

[…]  L’autorità di regolamentazione dei trasporti offre una mappa del potere dei taxi, anche se i dati risalgono al 2018. Sul territorio italiano sono presenti oltre 20 mila licenze: Roma è in testa con 7.703, segue Milano con 4.852, a Napoli sono 2.365, via via si scende per arrivare alle tre di Campobasso. I taxi in circolazione sono pochi, rileva l’ultima bozza del decreto varato alla vigilia delle vacanze. Una situazione che rischia di peggiorare, quando in Italia avremo il Giubileo del 2025 e le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina nel 2026 […]. Solo che i tassisti, riferisce chi ha lavorato al ministero dei Trasporti e li ha frequentati, «spostano voti e possono bloccare le città». 

Facciotti nega: «Il nostro è un parere tecnico». Lo ascoltano tutti i partiti. Secondo quanto risulta a Domani, si va dal vicepresidente della commissione Trasporti del Pd, Roberto Morassut ad Andrea Casu, fino alla leghista Elena Maccanti. Anche i rampelliani, raccontano, sono pronti a farsi sentire. E d’altronde lo stesso Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, si è avvalso dell’aiuto legale di Facciotti in passato, per un esposto sulla gestione del Colosseo. Oggi, riferiscono fonti parlamentari, i due continuano a essere molti vicini.

La scelta del governo di far partire la questione licenze, secondo Facciotti, «è conveniente per il rapporto con l’opinione pubblica» e adesso «bisognerà agire in sede di conversione». Bittarelli si dice tranquillo: «Adesso siamo sul pezzo, penso che si possa intervenire in parlamento». La corsia preferenziale continua a portarli verso destra. Con entusiasmo. «Provo un’estrema gioia dal punto di vista personale a vedere Giorgia Meloni presidente del Consiglio. È il massimo che la destra poteva ottenere», commenta l’avvocato. E pure loro.

Sette sindache su 108. Ecco perché le donne non vengono elette. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.

Dopo le ultime amministrative sono il 15% del totale (compresi i mini Comuni) e per lo più guidano centri con meno di 5000 abitanti. La legge sulla parità di genere esiste, il punto è che nei partiti prevale la cooptazione: «Gli uomini scelgono gli uomini». 

Alle elezioni del 12-26 giugno scorsi le uscenti erano due, quelle elette sono state tre. Chi vuol esser lieto sia, ma c’è davvero poco da rallegrarsi di fronte al numero di donne elette alla carica di sindaco in una tornata che ha visto chiamati al voto 26 capoluoghi di provincia. I numeri nella loro aridità sono sconsolanti. Katia Tarasconi a Piacenza, Chiara Frontini a Viterbo e Patrizia Manassero a Cuneo vanno ad “ingrossare” lo sparuto drappello di prime cittadine elette nelle città più importanti. Che ora sono “ben» 7 nei complessivi 108 capoluoghi di provincia italiani. 

Con l’uscita di scena, lo scorso anno, di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino, non c’è grande città che veda un volto femminile alla sua guida. La realtà più rilevante amministrata da una sindaca è Ancona, capoluogo anche di Regione, dove dal 2013 guida la giunta con piglio battagliero Valeria Mancinelli. Quando va bene, i sindaci chiamano una donna a ricoprire il ruolo di vice. A Milano c’è Anna Scavuzzo, a Roma Silvia Scozzese, a Torino Michela Favaro, a Napoli Maria Filippone. Di norma, si preferisce affidare altri incarichi. Fra i sindaci le donne rappresentano solo il 15 per cento, più alta la percentuale tra i vicesindaci (30 per cento), mentre i presidenti del Consiglio sono di sesso femminile nel 32 per cento dei casi e le assessore superano il 40 per cento. Come si vede, in qualunque caso si è molto lontani (a volte la distanza è siderale) da quella parità chedovrebbe essere semplicemente normale.

Le prime dieci

Ma non lo è, non lo è mai stata. Che ci fosse disparità fra uomini e donne, visti i retaggi storici, era un dato di fatto scontato nel lontano 1946, quando e donne furono ammesse per la prima volta al voto. Il debutto avvenne proprio in occasione di una tornata amministrativa: 5722 i Comuni interessati, dieci le donne elette sindaco (duemila circa le consigliere comunali). I loro nomi sono scolpiti nella storia: Ninetta Bartoli, Elsa Damiani, Margherita Sanna, Ottavia Fontana, Elena Tosetti, Ada Natali, Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, Anna Montiroli, Alda Arisi e Lydia Toraldo Serra. Da allora sono stati sicuramente fatti passi in avanti, ma rispetto alle aspettative le distanze rimangono ancora molto marcate. Anche in questo caso, vengono in soccorso i numeri. In quarant’anni le sindache sono passate da 10 a 145. Poi c’è stato un salto in avanti, visto che nei successivi trent’anni sono salite a 1066 (il dato è del 2015), quasi dieci volte tanto, pur se va sottolineato che in 790 casi si trattava di Comuni con meno di 5 mila abitanti. Forse perché nelle realtà più piccole, meno assorbenti, era più facile conciliare impegno pubblico e incombenze private.

Il rallentamento

Quella crescita, già di per sé non al passo con gli spazi e i ruoli sempre maggiori conquistati dalle donne nella società e nel mondo del lavoro, ha fatto registrare negli anni successivi un incremento non trascurabile ma comunque non adeguato. Nel 2022, infatti, le sindache sono passate da 1066 a 1146. «È un tasto dolente» conferma Lorenza Bonaccorsi, responsabile del Dipartimento Pari opportunità di Ali (Autonomie locali italiane), già sottosegretaria ai Beni culturali, ora presidente del primo Municipio di Roma. «Si continua a fare una fatica terribile a guadagnare spazio. Soprattutto sul piano amministrativo, il sistema politico maschile tende all’autoconservazione e a procedere per cooptazione nello stesso ambito sessuale. Eppure, in sede locale il ruolo delle donne è sempre più apprezzato e si fatica a capire perché i partiti, a partire dal mio (il Pd, ndr ), non se ne rendano conto». 

Un obbligo

Il miglioramento c’è stato nel numero di consigliere comunali perché è stato introdotto l’obbligo di rispettare la parità di genere. Nel marzo scorso la Corte costituzionale con propria sentenza ha stabilito che debba essere obbligatoria anche nelle liste elettorali dei Comuni sotto i 5mila abitanti: la mancanza di un numero sufficiente di candidature di entrambi i sessi determina l’esclusione della lista. In Parlamento questo obbligo ha dato risultati concreti: nel 2018 sono state elette 334 donne, pari a poco più del 35 per cento, oltre la media europea che si attesta al 32,8 per cento. Nella storia amministrativa italiana si trovano sindache che hanno lasciato un segno profondo. Le più famose, in tempi recenti, sono state Raggi e Appendino, figure dirompenti anche dal punto di vista politico, elette nel momento d’oro dei Cinque stelle. Ma andando a ritroso ci si imbatte nei nomi di Letizia Moratti a Milano, Rosa Russo Jervolino a Napoli, Maria Magnani Noja a Torino, Elda Pucci a Palermo, Adriana Poli Bortone a Lecce. Tutte hanno dimostrato che l’essere donna non è un ostacolo al rivestire un ruolo pubblico. Appendino lo ha confermato combattendo nel 2016 la sua campagna per l’elezione a sindaca di Torino con il pancione: aspettava la primogenita Sara. «Io sono fortunata» ha spiegato in un’intervista «ho potuto scegliere di fare politica perché ho un marito che mi sostiene, l’aiuto dei genitori con la bambina. È una serie di condizioni su cui non tutte le donne possono contare. La domanda è: con l’attuale sistema di welfare quante donne sarebbero concretamente in grado di scegliere la politica come ho fatto io? Secondo me ancora poche».

Il vero nodo

Le normative possono aiutare, anche se alla base resta un grande nodo culturale irrisolto. La legge Delrio del 2014 prevede che nelle giunte dei Comuni con più di 3 mila abitanti nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento. Una prescrizione che poi ognuno ha interpretato a suo modo. Qualche esempio? A Torino c’è la parità perfetta: 6 assessori donne e 5 uomini più il sindaco (Stefano Lo Russo). A Milano, Roma e Bologna gli assessori sono in numero uguale per ambo i sessi e lo squilibrio è dato solo dal primo cittadino uomo. L’unica stecca nel panorama nazionale viene da Trieste dove il sindaco Di Piazza ha nominato solo 4 donne su 11 componenti la Giunta (lui compreso), non rispettando il tetto del 40 per cento.

Insetti, gender e migranti: ecco l'Europa del futuro. Francesco Giubilei il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Le 49 proposte approvate da una Conferenza poco partecipata (meno di 680mila persone coinvolte su 446 milioni di abitanti), sono un’occasione persa. Religione, tutela dei figli e natalità mai citate In compenso, attenzione a migranti e accoglienza.

L'esercizio di democrazia che avrebbe dovuto sancire il destino dell'Unione europea per i prossimi decenni coinvolgendo milioni di cittadini, si è rivelato, come spesso accade quando si ha a che fare con le istituzioni europee, più una trovata pubblicitaria che un'iniziativa con proposte davvero utili.

Così, la Conferenza sul futuro dell'Europa ha rappresentato l'ennesima occasione mancata e, nonostante il periodo sfortunato tra la pandemia e la guerra in Ucraina, la partecipazione di solo 674.357 cittadini a fronte dei 446 milioni di abitanti dei paesi Ue è un dato che non lascia spazio a interpretazioni. Ancor più perplessità suscitano le quarantanove proposte approvate dalla sessione plenaria della Conferenza in cui non trovano spazio le idee di chi immagina un'Unione europea differente da quella attuale. Alcuni punti sintetizzano una visione del futuro dell'Europa non solo discutibile ma che difficilmente rappresenta il sentimento della maggioranza dei cittadini europei.

Religione e radici cristiane Nelle cinquantasei pagine del documento non c'è nessun riferimento alle radici cristiane. Non solo le parole «cristianesimo», «cristiano», «cristiani» non sono presenti nell'intero documento né tanto temo il tema della cristianofobia ma nemmeno la parola «religione» è mai utilizzata. Segno di una visione del futuro dell'Europa totalmente secolarizzata.

Natalità Il tema della natalità, una delle principali emergenze dell'Europa, viene affrontato di sfuggita nella proposta numero 15 «transizione demografica» ma non si usano mai i termini «bambino» o «bambini» così come «figlio» o «figli».

Insetti In compenso, già dal punto due, si pone attenzione alla necessità di «proteggere gli insetti, in particolare quelli autoctoni e gli impollinatori».

Alimentazione Oltre a proporre «un regime alimentare basato sui vegetali per ragioni di protezione del clima e tutela dell'ambiente», si suggerisce di tassare «gli alimenti trasformati non sani» e «istituire un sistema di valutazione a livello europeo per gli alimenti trasformati», ovvero il Nutriscore.

Ambiente Il tema dell'ambiente viene utilizzato per accentrare il potere di Bruxelles a discapito degli Stati nazionali, non a caso si propone di «rafforzare il ruolo e l'azione dell'Ue nel settore dell'ambiente e dell'istruzione, ampliando la competenza dell'Ue nel settore dell'istruzione, dei cambiamenti climatici e dell'ambiente ed estendendo il ricorso al processo decisionale a maggioranza qualificata su temi ritenuti di interesse europeo, come l'ambiente».

Resilienza La parola ricorre con grande frequenza. Si parla di «resilienza dell'economia», «resilienza all'interno delle regioni», «resilienza globale dell'Europa», «resilienza demografica», «rafforzare la resilienza delle catene di approvvigionamento», «incoraggiare la resilienza» in ambito scolastico.

Famiglia Non si parla mai di famiglia ma di famiglie al plurale, termine che ricorre sette volte, al contrario di «genere» utilizzato ben quattordici volte. Mai usate le parole «mamma» o «madre» e «papà» o «padre», mentre si propone di «intervenire per garantire che tutte le famiglie godano di pari diritti familiari in tutti gli Stati membri. Tali diritti dovrebbero comprendere il diritto al matrimonio e all'adozione».

Diritti e doveri Addirittura trentanove volte è usata la parola «diritti», trentatré quella «diritto» e zero il termine «dovere», a testimonianza di un'Unione europea sbilanciata a favore dei diritti che non ricorda i doveri sia dei propri cittadini sia di chi arriva da fuori i confini europei.

Immigrazione Il tema dei migranti e dell'immigrazione è toccato a più riprese con un'attenzione enorme ai diritti dei migranti e al tema dell'integrazione e, mentre si usa l'espressione «immigrazione irregolare», non si menziona la difesa dei confini.

Libertà di espressione Al punto ventisette si parla di «media, notizie false, disinformazione, verifica dei fatti», un tema particolarmente delicato che si lega alla libertà di parola ed espressione che rischia di essere messa in discussione se si approvasse la proposta di istituire «un organismo dell'Ue incaricato di affrontare e combattere la disinformazione mirata e le ingerenze, migliorando la conoscenza situazionale e rafforzando le organizzazioni di verifica dei fatti e i media indipendenti».

Cosa c’è dietro una legge. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 27 Aprile 2022.

Se vai sui social o vai al bar, scopri che dietro una legge ci sono i poteri forti. Un’affermazione generica, ma non per questo falsa. Sì, dietro molte leggi ci sono i poteri forti e questo è quasi sempre un bene. Ci dovremmo preoccupare del contrario. Mi spiego meglio. Sarebbe un tradimento della democrazia se le norme fossero pensate e scritte in una stanza chiusa, senza rapporti con il mondo esterno o ammettendo in quella stanza solamente organizzazioni o enti minoritari. Verrebbero fuori leggi bislacche, inutili e inapplicabili. È bene invece che le norme siano scritte dopo aver ascoltato le esigenze delle categorie di cittadini o di imprese per le quali sono state elaborate. Questo non significa che siano buttate giù sotto dettatura della categoria più forte, ma che la norma non è campata per aria, buona in teoria, ma distante dal contesto nel quale si applica.

Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato di questo argomento con Simona Finazzo, direttore dei rapporti istituzionali di Confindustria: “Confindustria viene sempre ascoltata e coinvolta nei processi legislativi o comunque nelle fasi preliminari del processo legislativo. Ovviamente ciò non toglie che ci sia, in parallelo o in contemporanea, un coinvolgimento delle singole imprese, ma il punto di vista sul sistema produttivo e sull’interesse di carattere generale è un contributo che Confindustria dà al decisore pubblico e, successivamente, al processo legislativo”.

Simona Finazzo nell’intervista ricorda che nel periodo della pandemia, Confindustria si è fatta portavoce delle imprese per i temi dell’accesso al credito e della liquidità. Allo stesso modo, recentemente il suo centro studi ha elaborato un’analisi sul rincaro dell’energia e delle materie prime, fornendo al legislatore un quadro della situazione delle imprese italiane. Poi ribadisce che questi approfondimenti servono a fare del lobbying un’attività di interesse generale, cioè non per questa o quella impresa, ma per le imprese di un intero settore.

Interesse generale non significa però interesse di tutti. Nello stesso settore ci sono certamente esigenze divergenti. E gli interessi di un intero settore possono scontrarsi con quelli di un altro. Sarà poi compito del legislatore ascoltare tutte le voci, almeno dovrebbe… Ricordiamo che rappresentanza significa democrazia. E più ce n’è, meglio è.

(ANSA il 30 aprile 2022) - "Il paradosso oggi è che è la mafia dei gay il problema. Non l'essere omosessuale, ma la mafia degli omosessuali, delle lesbiche". A pronunciare le frasi shock è Luca Barbareschi durante la presentazione di un evento culturale a Sutri, il paese in provincia di Viterbo guidato dal sindaco Vittorio Sgarbi, anche lui presente durante l'invettiva dell'attore con tanto di fascia tricolore. Le parole dell'ex deputato stanno facendo il giro del web, sollevando critiche e polemiche. 

"Quelle di Barbareschi sono parole inaccettabili", tuona il Lazio Pride ricordando che "nel 2018 il Pride di Ostia, organizzato da Lazio Pride, fu dedicato proprio alle vittime delle mafie, in gemellaggio con il Pride di Napoli". "La comunità Lgbt è vittima della criminalità organizzata - si legge in una nota -, che sfrutta e opprime le condizioni di disagio di chi è vittima di omofobia. Barbareschi chieda scusa. 

Lazio Pride è schierato nel contrasto alle mafie e continueremo a farlo il 25 giugno e il 9 luglio ai Lazio Pride di Albano Laziale e Viterbo". "Siamo fortemente delusi per le parole di Barbareschi pronunciate a Sutri - ha detto Virginia Migliore, presidente di Peter Boom Arcigay Viterbo e originaria di Palermo -. Mafie e comunità Lgbt sono in antitesi. Il 9 luglio saremo in piazza al Viterbo Lazio Pride anche contro le mafie, come già Lazio Pride fa da anni.

Dalle proteste di ieri a quelle di oggi: nuove forme e vecchi valori della mobilitazione popolare. LUCA SEBASTIANI su Il Domani il 17 dicembre 2022

Grandi manifestazioni di piazza si sono susseguite nel tempo in tutto il mondo. Il fenomeno delle rivolte si è trasformato nel tempo, arrivando fino a oggi, dalle marce di Gandhi al discorso di Martin Luther King, dal Bloody Sunday dell’Irlanda del Nord alle primavere arabe, fino alle odierne in Cina e in Iran.

Migliaia di persone continuano a scendere in strada invocando maggiori diritti, ma non sempre con i risultati sperati.

L’articolo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La piazza e il regime”, in edicola e in digitale da venerdì 16 dicembre.

Il "governo tecnico", trucco lessicale e politico. Lo studioso: degenerazione oligarchica. Il secondo presidente: buon teologo non significa buon papa. Francesco Perfetti il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il fantasma di un «governo tecnico» ritorna periodicamente nello scenario politico italiano. A ogni stormir di fronde polemiche o di tensioni dialettiche nella maggioranza di governo ovvero di fronte a situazioni di possibile crisi, interna o internazionale, viene evocata l'ipotesi di un nuovo governo composto in misura esclusiva o prevalente da «tecnici»: un governo che, per la sua composizione, sarebbe neutrale o non politico e potrebbe reggere le sorti del Paese indipendentemente dagli interessi di parte o di consorteria.

È evidente che questa affermazione è uno stratagemma dialettico, un trucco semantico, perché in una democrazia parlamentare, come è quella italiana, non può esistere un governo che non sia politico, cioè che non ottenga, in entrambi i rami del Parlamento, la fiducia, requisito essenziale per poter andare avanti: il voto di fiducia è un atto squisitamente politico. Del resto anche i governi che, nella storia della Repubblica, vennero qualificati come «tecnici» - per esempio i due governi Amato, il governo Ciampi, il governo Dini, il governo Draghi - furono in realtà «governi politici» che vararono, indipendentemente dalla loro efficacia, provvedimenti importanti come, per esempio, la modifica del sistema elettorale o la riforma delle pensioni. A ben vedere, in tutta la storia italiana recente, vi fu un solo governo tecnico nel senso proprio del termine e fu il governo Badoglio, costituito all'indomani della fine del regime fascista. E non si trattò certo di un governo memorabile. Tutto ciò implica che il «governo tecnico», come si tende a propagandarlo, costituisce un vulnus della Costituzione, non soltanto perché esso non è affatto previsto negli articoli della stessa, ma perché, in un certo senso, finisce per non tener conto della volontà popolare espressa attraverso le urne, la quale, solo con un nuovo ricorso alle stesse potrebbe essere modificata o confermata.

Se tutto ciò è vero - come è vero - che cosa rappresenta allora, in realtà, un «governo tecnico»? La risposta alla domanda è, a ben vedere, più semplice di quanto si pensi. Il «governo tecnico», infatti, non è altro che una «degenerazione oligarchica» della democrazia, cioè il tentativo, direbbe il grande economista e sociologo Vilfredo Pareto, da parte di una oligarchia di usare l'«astuzia» per conservare il potere reale. Un secolo fa, all'inizio degli anni Venti, proprio in un fulminante saggio, Trasformazione della democrazia, originariamente pubblicato sotto forma di articoli su una rivista cultural-politica e che può ben esserne considerato il testamento politico, Pareto analizzò il fenomeno della degenerazione della democrazia in una forma oligarchica, da lui definita «plutocrazia demagogica», sotto la pressione di organismi o strutture di tipo corporativo che minavano l'autorità dello Stato. La colpa di tale processo, a suo parere, ricadeva sull'élite politica al potere, che pensava di risolvere ogni forma di crisi ricorrendo all'«astuzia»: una parola, questa, che spiega i bizantinismi del ceto politico anche attuale, sempre pronto a inventare formule bizzarre - come, per esempio, oltre a quella del «governo tecnico», anche quelle di «governo istituzionale» o «governo del presidente» e via dicendo - per giustificare tentativi di aggiramento del dettato costituzionale sulla formazione del governo.

L'analisi di Pareto sullo sgretolamento del potere centrale e sulla tendenza di una democrazia in crisi a trasformarsi in oligarchia era certamente dettata dallo studio del disordine sociale, politico ed economico del periodo in cui si trovava a vivere, all'indomani dei tragici eventi conseguenza del primo conflitto mondiale, ma tuttavia conserva una straordinaria attualità.

Più o meno nello stesso arco di tempo nel quale scriveva Pareto, e quindi di fronte allo spettacolo di crisi e di disordine generalizzati, un altro grande studioso, Luigi Einaudi, il futuro secondo presidente della Repubblica, scrisse un memorabile articolo che metteva in guardia contro l'illusione che un governo costituito di tecnici potesse rivelarsi una panacea. Egli osservò, infatti, che «governare un paese non è la stessa cosa che guidar eserciti con fortuna o coltivare campi con successo o salvar malati da malattie mortali. È un'altra cosa: vuol dire governar uomini, indirizzandone gli sforzi ad un fine comune e collettivo». E, a mo' d'esempio, fece notare come non bastasse «un buon teologo per fare un buon papa» perché il papa «deve soprattutto essere un ottimo guidatore di uomini dal punto di vista religioso» e tale potrebbe essere, senza danno della Chiesa, anche se fosse un mediocre teologo.

Einaudi si propose di ridimensionare idee ed attese dei «benpensanti» nei confronti di un governo costituito da tecnici, o specialisti che dir si voglia, e al tempo stesso di confutarne il disappunto nel vedere molte poltrone occupate da incompetenti. Queste «querele dei benpensanti» egli le contestò, prima, da un punto di vista teorico, richiamando la «regola della divisione del lavoro» e facendo notare che tale regola «rettamente intesa» finiva per condurre «a tutt'altre conseguenze» di quelle immaginate. Osservò quindi che sono certamente competenti nei loro campi d'azione generali e ammiragli eccellenti nella guida di eserciti e flotte, così come agricoltori impegnati nella coltivazione dei campi ovvero avvocati abituati a destreggiarsi fra codici e pandette, come pure medici in grado di riconoscere sintomi di malattie e via dicendo. Ma aggiunse, anche, lapidariamente, che tutti costoro, proprio per il fatto di essere «singolarmente periti nelle loro arti specifiche» non perciò potevano dirsi «competenti in politica, che è un'arte tutta diversa e specializzata, in cui si acquista perizia come si fa in ogni arte, con lo studio e con l'applicazione diuturna».

L'articolo di Einaudi, per quanto scritto in un momento drammatico della storia nazionale, quando l'Italia liberale era in fase preagonica, appare ancor oggi valido nelle sue conclusioni teoriche, nella contestazione cioè dell'idea salvifica dei competenti al governo e, quindi, implicitamente della capacità taumaturgica del cosiddetto «governo tecnico». Eppure - e lo abbiamo visto molte volte nel corso di tanti decenni di vita repubblicana - il «governo tecnico» si materializza periodicamente e viene presentato all'opinione pubblica come strumento capace di risolvere i problemi interni eliminando o contenendo la conflittualità e di fare da argine alle spinte destabilizzanti provenienti dall'esterno. In realtà, esso, come si è già accennato, è il sintomo, o l'effetto, di un fenomeno di degenerazione oligarchica della democrazia. Partiti e gruppi di potere esclusi al momento dalla gestione della cosa pubblica tendono comprensibilmente a invocarlo come governo «neutrale» o «di salute pubblica» ignorando, o fingendo di ignorare, che in una democrazia rappresentativa, come è l'Italia, l'unico governo costituzionalmente legittimato a reggere le sorti del Paese è quello indicato dalla volontà popolare. Che, nel caso dell'Italia attuale, non è equivocabile.

"Burocralia", il regno infernale delle scartoffie. A parte le scartoffie contenenti verba che purtroppo non volant, ma restano ferme e immobili per sempre, la burocrazia non si vede. Daniele Abbiati il 232 marzo 2023 su Il Giornale.

A parte le scartoffie contenenti verba che purtroppo non volant, ma restano ferme e immobili per sempre, la burocrazia non si vede. Ma si sente, eccome, quando picchia duro sul cittadino-utente. Bene ha fatto quindi Patrizia Parnisari a porre a capo della sua Burocràlia, wunderkammer di meraviglie distorte, palazzaccio kafkiano ed escheriano, luna park degli orrori in carta bollata, messer Buffalmacco (con Calandrino come vice). Ovvero quel Buonamico Buffalmacco, pittore vissuto fra XIII e XIV secolo che osò, pare, collocare Dante Alighieri nel Giudizio universale da lui affrescato nel Camposanto di Pisa.

Ovvero, soprattutto, la sua versione boccacciana nella terza novella dell'ottava giornata del Decameron. Quella che inizia così: «Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per il Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia...». L'elitropia, la pietra che rende invisibili... come la burocrazia. Burocralia, tirata in 500 copie numerate dalla veneziana Corte Nova Scriptorium, è una discesa agli inferi in cui si agitano, prigionieri, i condannati. E il brevissimo, sapidissimo assaggio di Dall'Inferno di Giorgio Manganelli posto a mo' di introduzione certifica l'impossibilità di liberarli. Fine pena mai, per gli ostaggi dello Stato.

Rispetto ai nove danteschi, qui i cerchi sono sei (ma nessun condono, si paga tutto): «Ufficio Invalidi»; «Catasto»; «Ufficio Anagrafe»; «Ufficio Brevetti»; «Ufficio Reclami»; «Ufficio Tasse». La plumbea location di tale cittadella o roccaforte fatta di attese, vessazioni e timbri, si trova, come afferma il primo capitolo, «Alla periferia di Trantor», cioè del romanzo di Isaac Asimov Fondazione e Impero (1945) che ruota intorno al pianeta Trantor. Perché Burocràlia sembra proprio un marchingegno da fantascienza, sebbene le sue spire avvolgano e stritolino per davvero chiunque osi entrarvi.

Il sonno dei ministeriali genera mostri. Fannulloni, cinici, folli: il ritratto dal vivo di chi si crogiola all'ombra del potere. Daniele Abbiati il 23 marzo 2023 su Il Giornale.

Ministero, ufficio, scrivania: una triade indissolubile. Potere, burocrazia, lavoro: un triangolo equilatero. Gli impiegati di Honoré de Balzac (1837), Le miserie 'd Monsù Travet di Vittorio Bersezio (1863), La famiglia De-Tappetti di Luigi Arnaldo Vassallo alias Gandolin (1903): un trio di opere che dal potere ministeriale, dalla pubblica amministrazione esercitata nei labirinti di stanze, stanzette e stanzoni, dai tavoli ingombri di pratiche e faldoni hanno distillato magistralmente i contenuti grotteschi, alienanti e comici. Tuttavia, né il gigante francese, né il giornalista e deputato cuneese, né il cronista e umorista genovese, pur potendo contare sulla conoscenza diretta di uffici e scrivanie, ebbero a che fare da dentro con la vita ministeriale.

Accadde invece a Georges Courteline, non de plume di Georges Victor Marcel Moineau (Tours, 1858 - Parigi, 1929), poeta, narratore e drammaturgo, il quale fu per ben quattordici anni all'«ufficio dei culti» del ministero dell'Interno. Penna alata e sguardo disincantato, nelle nostre biblioteche lo troviamo soprattutto con un romanzo-vaudeville di volta in volta intitolato Quelli dalle mezzemaniche, I mezzemaniche o I travet. Ma il titolo originale è Messieurs les ronds-de-cuir (uscito fra il 1891 e il '92 su L'Écho de Paris e nel '93 in volume), laddove il ronds-de-cuir è il cuscino di cuoio a ciambella che Courteline e i suoi colleghi tenevano sotto le chiappe. In italiano potremmo renderlo oggi con «I culi di pietra», ma va bene anche il Tipi da scrivania con cui torna ora nelle librerie (Elliot, pagg. 155, euro 16,50) nella storica traduzione di Decio Cinti, ovvero l'unico futurista pacato e riflessivo di cui si abbia notizia, traduttore delle opere di Marinetti incluso quel Mafarka il futurista che in copertina si fregiò come di una medaglia del sottotitolo «Romanzo processato», nel senso di andato a processo - e condannato - per pornografia.

Lahrier, il primo ministeriale che incontriamo in una bella mattina di primavera, guarda caso ha le terga non su un rond-de-cuir, bensì sulla sedia del Café Riche, e non si preoccupa minimamente del suo consueto ritardo. Al contrario, medita sulla vanità del proprio impiego: «È proprio qualche cosa di bello, la Direzione dei Lasciti e Donazioni! (...) E infatti, i ministri lottano continuamente fra loro per non averla, questa Direzione inutile! A poco a poco, la Cancelleria se ne sbarazza e la vuol dare alla Pubblica Istruzione; la Pubblica Istruzione si difende, e vuole che se la pigli il Commercio; il Commercio protesta e la rimanda agli Interni; gli Interni non vogliono saperne e la spingono verso le Finanze, e così via, fino al giorno in cui un'anima caritatevole acconsente a prendersela a rimorchio e ad aggiungersela per compassione».

Insomma, si tratta di un sotto-ministero importante quanto un sottoscala, un ripostiglio, un polveroso solaio. «Alla tristezza tetra di rue Vaneau, la Direzione generale dei Lasciti e Donazioni aggiunge la nera tristezza della sua facciata senza alcun rilievo e della sua vecchia bandiera, divenuta un cencio stinto», chiosa con cognizione di causa l'autore. Parbleu! Se si parte con l'oltraggio alla bandiera, chissà dove andremo a finire, potrebbe pensare il lettore moderato. Ma niente paura, la Comune è passata, come un refolo di vento, vent'anni prima, e né Lahrier, né altri, dietro quella triste facciata, covano sentimenti di rivolta, anzi si crogiolano nella loro rendita di posizione, e tutt'al più mugugnano quando l'aumento di stipendio o la promozione si fanno attendere più del lecito. In rue Vaneau pullula, come pesci pilota appresso allo squalo, cioè come parassiti ministeriali, una pletora di personaggi. C'è chi, come lo stesso Lahrier, si porta in ufficio la fidanzata per pomiciare, chi passa il tempo a tirare di scherma in cantina, chi, ex cappellaio fallito e assunto lì quando aveva quarantacinque anni, arrotonda rimettendo in sesto i copricapo dei vicini, chi si lava i piedi, chi dorme, chi, come il direttore, butta giù la sceneggiatura di un balletto-pantomima... E poi, come in tutte le aziende, c'è chi, fantozzianamente, accumula le pratiche non evase dagli altri per addossarle voluttuosamente a sé in un delirio di stacanovismo, restando alla scrivania fino a notte.

La surreale filosofia della baracca sta tutta nelle parole del direttore Nègre al capoufficio de La Hourmerie quando questi gli propone il licenziamento in tronco di Lahrier, specialista nello scaricare il lavoro sulle spalle altrui: «Non capite che, tenendo tanto più al suo posto, quanto meno gli costa fatica a conservarlo, farà tutto il possibile per non perderlo? Non capite che appunto ciò che vi è di eccessivo nei suoi torti ci garantisce sicuramente i prodigi che farà perché essi rimangano impuniti, e che quanto più si ostinerà a non eseguire il suo lavoro, tanto più sarà energico nello scaricarsene sugli altri e nello stimolare la loro attività?».

Poi, c'è anche chi dà chiari segni di alienazione mentale. Si chiama Letondu (tondre significa falciare...) e dà fuori di matto per settimane nel disinteresse generale, se non proprio da comunardo redivivo, sicuramente da moralizzatore violento. Fino a quando... No, non diremo per quali circostanze, colpito da un fulmine a ciel sereno, il romanzo-vaudeville di Courteline sfumi nella tragedia. Diremo soltanto che sarà il rampante Chavarax (chavirer significa capovolgersi...) a volgere in positivo per l'intera brigata, con il plauso del direttore, la morte di un suo componente. Come? Con la spartizione, calcolata al decimo di franco, dei suoi ormai inutili emolumenti. D'accordo, è un trucco non da pubblica amministrazione, ma da azienda privata. Però a Courteline, dopo tanto realismo, può essere concessa una licenza poetica.

E da parte sua il prefatore del libro Marcel Schwob, altro campione del motteggio, lo ritrae in modo impareggiabile così: «Possedeva una tale grazia che le imprecazioni, cercando un santuario indistruttibile, lo trovarono nella sua opera».

Deep State: Stato profondo e Spoils system: cooptazione dei Dirigenti Pubblici.

Il Sistema esistente del Deep State la Cooptazione politica (Spoils system) di Responsabilità dei dirigenti Pubblici.

Metodo da usare in tutte le assunzioni pubbliche.

Chi li nomina, risponde del loro operato.

Storia dello spoils system che ha democratizzato la politica americana. MATTEO MUZIO su Il Domani il 12 gennaio 2023

Inventato da un alleato del presidente Andrew Jackson, eletto nel 1828, ha favorito la fiducia nei partiti e nelle istituzioni e ha promosso la partecipazione degli afroamericani negli stati del sud.

Purtroppo però nel corso del tempo ha fatto esplodere la corruzione, l’incompetenza e ha favorito l’uccisione di un presidente.

In una sola agenzia federale, invece, lo spoils system continua a funzionare brillantemente, quasi come ai tempi dei boss locali: parliamo della Casa Bianca, dove ad ogni cambiamento di amministrazione vengono sostituiti tutti i dipendenti, fino all’ultimo membro dello staff.

MATTEO MUZIO. Laureato in storia contemporanea, giornalista. Scrive di economia e di cultura. Ha collaborato con Repubblica, il Foglio, L’Espresso e il Fatto Quotidiano. Scrive per Linkiesta.

SPOILS SYSTEM, FINE DEI GIOCHI! ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 06 Gennaio

Bisogna mandare un messaggio globale che riguarda la valutazione dei risultati conseguiti e dei requisiti di competenza come priorità strategica assoluta nella scelta dei capi della burocrazia, dove c’è molto da fare, e ancora di più nella scelta dei capi azienda soprattutto di quelle quotate. Su questo punto fermo che è fatto di più sfaccettature non si può scherzare. La nostra amministrazione ha perso la caratteristica fondante di essere al di sopra delle parti e la politica considera grandi e piccoli commis tutti insieme un branco di venduti. Bisogna uscire in fretta da questo circolo infernale che può produrre danni inimmaginabili e ci permettiamo di suggerire di seguire quello che noi abbiamo definito il modello Fitto. Che vuol dire stressare le strutture tecniche con esami millimetrici di impegni assunti e di performance conseguite. Perché è il modo migliore per ottenere i risultati che la politica si prefigge e l’appoggio dell’Europa che è oggi per l’Italia l’aria in cui respira.

L’inflazione distrugge la fiducia dei cittadini nel sistema politico. L’inflazione da caro materie prime di origine bellica resta alta, ma è in rallentamento in Europa. Anche in Italia lo è, ma meno che negli altri Paesi europei perché c’è una speculazione interna dei soliti profittatori che si sentono protetti dal percepito di una politica del governo Meloni che allenta il rigore nei controlli fiscali e, in genere, di ogni tipo perché teorizza le briglie sciolte.

La conseguenza pratica dell’alta inflazione e della pericolosa componente interna italiana, che assomiglia molto alla anomalia che si registrò in Italia con il passaggio all’euro durante un altro governo di centrodestra a guida berlusconiana, è che i tassi salgono e questo rialzo cumulato con i danni prodotti dalla confusione generata sui mercati da una guida della Bce poco salda si traducono in un considerevole aumento dei costi di finanziamento del debito pubblico. Questo doppio dato di fatto restringe i margini di manovra della spesa pubblica italiana e determina minori spazi fiscali per fare interventi di redistribuzione. Che, peraltro, come dimostra l’abolizione dello sconto Draghi sulle accise per dare qualche mancia in più al lavoro autonomo già favorito, non è un obiettivo di politica economica così nitido al punto da evitare piccoli sbandamenti elettorali che producono comunque destabilizzazione pur dentro una cornice generale che è per fortuna ben salda di continuità con i predecessori nel controllo della finanza pubblica.

Bisogna rendersi conto che i due lati della tenaglia – inflazione distruttrice di fiducia e oneri in risalita su 510 miliardi di titoli pubblici da collocare sul mercato – se si stringono ulteriormente intorno al collo del Paese, mandano in frantumi governo e opposizione perché bruciano la fiducia che è la benzina del motore del miracolo italiano, bloccano investimenti e consumi, possono avere un effetto devastante sulla nostra economia e sulla tenuta sociale. A questa tenaglia che è l’emergenza assoluta del Paese oggi in un contesto globale che continua a essere segnato dalle incognite del covid cinese e della guerra russa in Ucraina con il loro carico di ricadute economiche, governo e opposizione dovrebbero dimostrare il massimo di responsabilità che invece non emerge come dovrebbe.

Il governo continua a ripetere che ha vinto, che il popolo è sovrano, e che fa come vuole. L’opposizione dice che il 40% non ha votato e che hanno perso questi voti per loro errori tattici quando quella quota di mancati elettori sono piuttosto persone che non si fidano più di nessuno. Un trend che è destinato peraltro ad allargarsi se governo e opposizione continuano a comportarsi in questo modo

Sono addirittura patetici i continui richiami, da parte dell’uno e dell’altro variegato schieramento, all’attesa miracolistica delle elezioni europee del 2024 per vedere come la gente reagirà a questa nuova situazione. Senza essere sfiorati almeno dal dubbio che a quella data bisogna arrivarci vivi. Perché, diciamocela tutta, se ci fosse questa imprescindibile consapevolezza, non ci si butterebbe nel gioco demente dello spoils system che è il modo più certo ed efficace per consegnarsi con le proprie mani dentro questa duplice tenaglia che riduce i margini di manovra e può addirittura togliere il respiro al primo errore vero che brucia il capitale della fiducia sul titolo sovrano della Repubblica italiana in casa e fuori.

Certo che si può scommettere su profili nuovi e di provata competenza, anzi a volte è proprio doveroso farlo, ma bisogna avere la consapevolezza assoluta che se io mando via uno bravissimo e ne prendo un altro che dovrà dimostrare di essere bravo, anche se si rivelerà dopo tale, nel frattempo sul mercato funziona il fatto che ho mandato via quello bravo e questo dato in sé fa stringere sempre di più la tenaglia intorno al collo del Paese aumentandone il rischio di soffocamento. Bisogna viceversa mandare un messaggio globale che è unico e riguarda la valutazione dei risultati conseguiti e dei requisiti di competenza come priorità strategica assoluta nella scelta dei capi della burocrazia, dove c’è molto da fare, e ancora di più nella scelta dei capi azienda soprattutto di quelle quotate.

Su questo punto fermo che è fatto di più sfaccettature non si può scherzare. Soprattutto sulla burocrazia ci rendiamo conto che la politica di governo ha la riserva mentale che la grande e piccola amministrazione vanno a raccontare all’opposizione tutti i loro segreti. Il Paese, però, proprio come accadde nel Dopoguerra, ha oggi bisogno di avere una classe di burocrati che capisca che c’è un dovere assoluto di riservatezza perché loro sono sempre al servizio del governo e della sua squadra di ministri che operano pro tempore sulla base di un mandato che esprime la sovranità popolare. Di tutti i governi che utilizzano le loro competenze con le stesse, identiche regole di riservatezza. Questa etica del servizio pubblico è stata distrutta in anni di egemonia del correntismo partitocratico per cui si faceva carriera soprattutto nella amministrazione pubblica solo se si era nelle grazie di questo o quel capo corrente. La nostra amministrazione ha perso la caratteristica fondante di essere al di sopra delle parti e la politica considera grandi e piccoli commis tutti insieme un branco di venduti. Bisogna uscire in fretta da questo circolo infernale che può produrre danni inimmaginabili e ci permettiamo di suggerire di seguire quello che noi abbiamo definito il modello Fitto. Che vuol dire stressare le strutture tecniche con esami millimetrici di impegni assunti e di performance conseguite.

Perché è il modo migliore per ottenere i risultati che la politica si prefigge e l’appoggio dell’Europa che è oggi per l’Italia l’aria in cui respira. Se si fanno prove muscolari su questo genere di cose scegliendo gli amici degli amici non si ottengono posizioni di potere, come si può immaginare, che aiutino il consenso nelle amministrative e nelle europee, ma millimetro dopo millimetro si stringono i due lati della tenaglia di inflazione e tassi intorno al collo del Paese e ci si sveglierà una mattina prima delle europee con fortissime difficoltà di respirazione. Consigliamo assolutamente di evitare esercizi così pericolosi

Deep State: Stato profondo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per Stato profondo si intende a livello politico l'insieme di quegli organismi, legali o meno, che grazie ai loro poteri economici o militari o strategici condizionano l'agenda degli obiettivi pubblici, di nascosto e a prescindere dalle strategie politiche degli Stati del mondo, lontano dagli occhi dell'opinione pubblica. Detto anche "Stato dentro lo Stato", è costituito da lobby e reti nascoste, segrete, coperte, di potere in grado di agire anche contro le pubbliche istituzioni note.

Quando è affermata senza supporti fattuali, l'esistenza di un governo invisibile (detto anche Shadow government, criptocrazia o governo segreto) appartiene ad una famiglia di teorie della cospirazione basata sull'idea che il potere politico reale non risieda nei detentori visibili, ma in eminenze grigie: nelle monarchie questo avverrebbe con i powers behind the throne, mentre nelle democrazie vi sarebbero potentati privati che esercitano potere dietro le quinte, utilizzando come schermo gli eletti nelle assemblee rappresentative; lo stesso governo eletto ufficiale sarebbe sottomesso al governo ombra, che sarebbe il vero potere esecutivo.

Etimologia

Il termine moderno di Stato profondo emerge a partire dalla traduzione letterale del turco derin devlet, con cui in Turchia Bülent Ecevit designava la rete di potere laico-militare, fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Atatür e permanente anche dopo la sua morte, per i decenni successivi.

Tipologie

Entità di questo tipo possono essere per esempio individuate, a seconda dei Paesi, nelle organizzazioni criminali, nelle lobby economiche, negli organismi religiosi e negli eventuali loro intrecci, negli organi di Stato, come le forze armate o le autorità pubbliche (agenzie di intelligence, polizia, polizia segreta, servizi segreti, agenzie amministrative o di sicurezza, burocrazia governativa).

Uno Stato profondo può anche consistere in funzionari di carriera che agiscono in modo non cospiratorio, ma per promuovere i propri interessi. L'intento di uno Stato profondo può includere la continuità dello Stato stesso, il mantenimento del lavoro per i suoi membri, il potere e l'autorità irrobustiti e il perseguimento di obiettivi ideologici non sempre a cuore all'opinione pubblica. Può operare in opposizione all'ordine del giorno dei funzionari eletti, bilanciando, rallentando e ritraducendo le loro politiche, condizioni e direttive. Può anche assumere la forma di enti pubblici o società private che agiscono fuori dal controllo normativo o governativo.

Storia

Descrizioni simili si ritrovano già nell'antichità classica. L'espressione greca κράτος ἐν κράτει (kratos en kratei) è stato successivamente adattata in latino come imperium in imperio o status in stato o status in statu.

Nel XVII e XVIII secolo il dibattito politico internazionale sulla separazione tra Stato e Chiesa spesso ruotava intorno all'idea che, resa globale ossia senza poteri politici nazionali a cui dar conto, la Chiesa sarebbe divenuta Stato nello Stato, invadendo e snaturando le prerogative statali.

Ernst Fraenkel illustrò la natura ed il funzionamento della dittatura nazista mediante il concetto di doppia lealtà, con la quale i funzionari pubblici osservavano la gerarchia formale della statualità e nel contempo quella sostanziale del Partito nazionalsocialista, nell'ambito di quello che definiva il doppio Stato.

Stati Uniti

Negli Stati Uniti, il termine "stato profondo" è stato usato per descrivere "un'associazione ibrida di elementi governativi e parti di industria e finanza di alto livello che è effettivamente in grado di governare gli Stati Uniti senza riferimento al consenso dei governati espressi attraverso il processo politico formale ". Le agenzie governative di intelligence, come la CIA e l'FBI, sono state accusate da elementi dell'amministrazione Donald Trump di tentare di contrastare i suoi obiettivi politici. Scrivendo per il New York Times, l'analista Issandr El Amani ha messo in guardia contro la "crescente discordia tra un presidente e la sua gerarchia burocratica", mentre gli analisti della rubrica The Interpreter scrivevano:

«Sebbene lo stato profondo sia talvolta discusso come una cospirazione oscura, aiuta a pensarlo invece come un conflitto politico tra il leader di una nazione e le sue istituzioni di governo.»

(Amanda Taub e Max Fisher, The Interpreter)

Italia

Il caso più famoso italiano è quello della doppia fedeltà degli apparati dello Stato durante la strategia della tensione e nelle attività della loggia Propaganda Due.. Propaganda due (meglio nota come P2) era una loggia massonica aderente al Grande Oriente d'Italia (GOI) che, nel periodo della sua conduzione da parte dell'imprenditore Licio Gelli, assunse forme deviate rispetto agli statuti della massoneria ed eversive nei confronti dell'ordinamento giuridico italiano. La P2 fu sospesa dal GOI il 26 luglio 1976; successivamente, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 sotto la presidenza dell'onorevole Tina Anselmi concluse il caso P2 denunciando la loggia come una vera e propria «organizzazione criminale» ed «eversiva». Fu sciolta con un'apposita legge, la n. 17 del 25 gennaio 1982.

Lo spoils system. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Lo spoils system (traduzione letterale dall'inglese: sistema del bottino) è la pratica politica, nata negli Stati Uniti d'America tra il 1820 e il 1865, secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo.

Le forze politiche al governo affidano dunque la guida della macchina amministrativa a dirigenti che ritengono non soltanto che possano, ma anche che vogliano far loro raggiungere gli obiettivi politici. Nell'accezione più negativa, le forze politiche al governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti le varie cariche istituzionali, la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere, come incentivo a lavorare per il partito o l'organizzazione politica, e in modo da garantire gli interessi di chi li ha investiti dell'incarico.

Significato del termine

Sebbene le linee generali di questa pratica si possano ricondurre alla nozione di clientelismo, l'espressione spoils system non implica, originariamente, una connotazione negativa o l'idea che tale distribuzione di cariche sia necessariamente un abuso (in altre parole, si tratta di un'espressione moralmente neutra che descrive una prassi formalmente riconosciuta, e apertamente applicata, in determinati periodi storici negli Stati Uniti d'America come in altri paesi).

Anche se l'espressione era già in uso di sicuro dal 1812, è stata resa famosa da un discorso del senatore William Marcy nel 1832, in cui, difendendo una delle nomine del presidente Andrew Jackson, disse: "To the victor belong the spoils of the enemy" (in italiano: "Al vincitore spetta il bottino del nemico").

Allo spoils system si contrappone spesso il merit system (letteralmente: "sistema del merito") in base al quale la titolarità degli uffici pubblici viene assegnata a seguito di una valutazione oggettiva della capacità di svolgere le relative funzioni, senza tenere conto dell'affiliazione politica dei candidati agli uffici. Un tipico esempio attraverso il quale si realizza il merit system è un concorso pubblico.

Lo spoils system nel mondo

Stati Uniti d'America

In particolare nel sistema statunitense, durante i primi 60 giorni di mandato, il Presidente degli Stati Uniti d'America copre direttamente 200-300 ruoli chiave dell'esecutivo, rimpiazzando elementi nominati dal mandato precedente. Le nomine istituzionali dette contratti di spoils system decadono nel momento in cui il rappresentante politico perde la carica.

Italia

A partire dagli anni novanta, con l'affermarsi in Italia dei sistemi elettorali maggioritari (legge Mattarella per il Parlamento e legge 25 marzo 1993, n. 81 per comuni e province), l'espressione spoils system è entrata in uso anche in italiano, per indicare l'insieme dei poteri che consentono agli organi politici di scegliere le figure di vertice come segretari generali, capi di dipartimento, segretari comunali, ecc.

Lo spoils system è regolato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 e dalla successiva legge 24 novembre 2006 n. 286 (di conversione del decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262), che prevede la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nella pubblica amministrazione passati 90 giorni dalla fiducia al nuovo esecutivo (cioè la nomina di un nuovo governo); un sistema simile è operante verso enti e/o società controllate dal settore pubblico. L'istituto ha come ratio legis la necessità di fiducia e armonia fra l'amministrazione e la politica quale elemento necessario per il buon andamento della pubblica amministrazione.

Si noti che la Corte costituzionale, nella nota sentenza 233/2006, ha confermato la validità del sistema dello spoils system, affermando come la necessità del buon andamento della pubblica amministrazione sia in effetti prioritario rispetto al principio di imparzialità, il quale in teoria escluderebbe vertici amministrativi "parziali" verso l'esecutivo; la Corte ha però anche affermato come tale sistema non possa infrangere lo spazio riservato all'indipendenza della pubblica amministrazione (generalmente, quello più strettamente legato all'attività della stessa, con la politica incaricata solo di fornire gli obiettivi e le linee guida per raggiungerli), limitando quindi lo spoils system solo alle posizioni apicali ed escludendo la media dirigenza ed i vertici delle società pubbliche; essa affermò anche come il sistema non potesse concretizzarsi in una precarietà inaccettabile della dirigenza escludendo quindi il possibile azzeramento dei vertici delle amministrazioni, cosa che creerebbe anche una pericolosa dipendenza dell'amministrazione verso la politica.

Per quanto riguarda l'individuazione precisa dei vertici amministrativi interessati dallo spoils system, la Corte non ha fornito criteri volti ad individuarli con precisione; si può solo intuire come siano le posizioni più a stretto contatto con gli organi politici e che, come queste ultime, siano più coinvolte nel processo di formazione degli obiettivi che nella gestione più strettamente tecnica dell'attività amministrativa.

La Corte Costituzionale ha inoltre decretato l'illegittimità dello spoils system dei direttori generali delle ASL (Corte Cost. sentenza 34/2010). Una più recente pronuncia della Corte di cassazione - sez. lavoro (nº 2555 del 2015) ha sentenziato che "Il ruolo di dirigente della Regione non può essere revocato in conseguenza del cambiamento degli organi politici (spoils system) quando la figura non rientri tra quelle apicali", limitando ancora di più l'ambito applicativo legittimo dello "spoils system".

Spoils system al Tesoro. Meloni vince il braccio di ferro con Giorgetti: Barbieri al posto di Rivera. L’Inkiesta il 20 Gennaio 2023.

La premier si impone nel dire no al nome dell’ormai ex direttore del Tesoro, criticato dalla destra per la gestione dei dossier Mps e Ita. Al suo posto va il capo economista del Mef, una scelta di mediazione. Mazzotta invece viene confermato alla Ragioneria

Alla fine, la premier Giorgia Meloni è riuscita a imporsi nel dire no alla riconferma dell’ormai ex direttore del Tesoro Alessandro Rivera. Il consiglio dei ministri ha deciso di cambiare sulla nomina più importante fra quelle sottoposte allo spoils system. Al posto di Alessandro Rivera arriva, su proposta del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, Riccardo Barbieri Hermitte, 64 anni, attuale capo economista del ministero, incarico per il quale fu selezionato nel 2015 durante il governo Renzi, quando ministro dell’Economia era Pier Carlo Padoan.

Una scelta in continuità interna, in realtà. Barbieri è uno stretto collaboratore di Rivera e i due hanno l’ufficio allo stesso piano di via XX settembre. La nomina spazza via tutte le ipotesi della vigilia, quando la più quotata era quella del presidente di Ita Antonino Turicchi. Quella di Barbieri però una soluzione di mediazione più gradita a Giorgetti rispetto a quella di Turicchi, profilo esterno alla struttura del Mef e già impegnato nella partita delicata per il rilancio della compagnia aerea.

Rivera era nella stessa carica dal 2018, dal governo Conte Uno. Come spiega Repubblica, per il governo era diventato ingombrante. «Anche perché è un’anomalia», dice una fonte governativa, «quella di dirigenti che valgono quasi quanto un ministro. E poi è l’Anac a indicare la via della rotazione obbligatoria del personale». È il «machete» evocato dal ministro della Difesa Guido Crosetto.

Il percorso per arrivare alla sostituzione di Rivera è stato convulso e irto di ostacoli. Da Palazzo Chigi, direttamente da Meloni ma anche dal suo partito, era arrivato l’input al titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti della volontà di procedere a un cambio. Ma il ministro leghista all’inizio ha preso tempo, ha fatto sapere in giro che se fosse per lui Rivera l’avrebbe confermato. Anche perché il dg del Tesoro, in quella posizione dal 2018 su indicazione di Giovanni Tria, poi confermato da Roberto Gualtieri e da Daniele Franco, ha sempre preparato a dovere tutte le riunioni internazionali a cui doveva partecipare il numero uno del Mef. Acquisendo una crescente credibilità presso le cancellerie europee. Ma ciò che a Palazzo Chigi non piaceva di Rivera era una sua presunta vicinanza agli ambienti della sinistra e il suo operato in alcune operazioni che riguardavano le partecipate del Tesoro. In particolare a Meloni pare non sia piaciuta la conduzione delle travagliate partite per il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena e di Ita.

Addirittura, racconta Repubblica, il sottosegretario Fazzolari ha cominciato una serie di colloqui con potenziali candidati a ricoprire il posto di Rivera, una modalità piuttosto irrituale. Ma i nomi piovuti su quei tavoli non si sono mai rivelati all’altezza. E così Giorgetti ha ripreso la partita in mano, ha valutato la possibilità di confermare per qualche mese Rivera in attesa di trovare una soluzione adeguata per lui e per il ministero, ma poi ha tirato fuori dal cilindro il nome di un altro alto funzionario del Tesoro dal curriculum impeccabile, Riccardo Barbieri. E a quel punto ha comunicato a Rivera la sua decisione.

Il governo lascia invece al suo posto il ragioniere di Stato Biagio Mazzotta, anche lui difeso da Giorgetti. Nella seduta di ieri del consiglio dei ministri, poi, è stata ratificata anche la nomina di Ilaria Antonini alla guida dell’Amministrazione generale del personale e dei servizi, che prende il posto di Valeria Vaccaro. Il nuovo segretario generale della Farnesina sarà Riccardo Guariglia, che prende il posto di Ettore Francesco Sequi. In arrivo infine anche la nomina del nuovo presidente del Consiglio di Stato, dopo la morte alla vigilia di Natale di Franco Frattini: sarà guidato dal presidente aggiunto Luigi Maruotti.

Parte lo spoils system del governo. Mille poltrone da assegnare, parte la grande abbuffata di Fratelli d’Italia: perciò volevano cacciare Draghi. Claudia Fusani su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Sì certo, c’è lo spoils system, il cambio dei vertici dell’amministrazione pubblica quando arriva un governo nuovo. Lo volle l’allora ministro alla Funzione pubblica Franco Bassanini, era in carica il primo governo Prodi. Fu una rivoluzione copiata dagli Stati Uniti: entro tre mesi dal voto di fiducia di un nuovo governo, i vertici dell’amministrazione pubblica decadono. Possono essere confermati o cambiati. Da allora è così, nella speranza non sempre rispettata che il cambio sia dettato dal merito e non dalla fame di posti. Ma poi c’è soprattutto “la grande partita” delle nomine. I più gentili lo chiamano “il gran ballo”. Per i più scettici si tratta della “grande abbuffata”. Si parla del rinnovo potenziale di 73 consigli di amministrazione di società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato.

A stare bassi, si parla di oltre mille persone che avranno incarichi più o meno di rilievo e comunque ben pagati dallo Stato. Alla faccia della sempre evocata ma sempre rinviata (anche dai 5 Stelle) spending review. E le controllate/partecipate sono rimaste la sacca del consenso politico. Ora, è un concetto abbastanza ricorrente e condiviso da tutte le forze politiche, che uno dei motivi per cui il governo Draghi è stato mandato a casa a luglio è che in questo modo il nuovo governo avrebbe avuto mani libere nella formazione del deep state. Il “banco” di questa partita, abbuffata o ballo che dir si viglia, lo tiene in mano Guido Crosetto, il ministro della Difesa, tra i fondatori di Fratelli d’Italia e da sempre uno dei pochi di quel partito con accesso libero a quel deep state che così tanto conta e decide.

Lo spoils system

La partita sullo spoils system è già iniziata. Ed è anche la più scontata. Così fan tutti. Entro il 24 gennaio, i 40 manager/dirigenti che guidano i ministeri, decadono dalle funzioni. Possono essere riconfermati. In caso di silenzio, cessano le funzioni. Sono vacanze agitate e incerte per molti di loro. Certo, si presume che il criterio guida sia sempre quello del merito e non quello dell’occupazione militare dei posti. Ma visto che Fratelli d’Italia non ha mai governato, si può capire come la voglia di occupare quei posti per avere in mano le chiavi del vero potere possa alla fine essere prevalente. La domanda è quella che accompagna la legislatura dal suo inizio: la destra di governo ha classe dirigente adeguata? Guido Crosetto ha detto di “voler usare il machete anche contro chi nelle amministrazioni si è contraddistinto per la capacità di dire no”.

La premier Giorgia Meloni è stata più cauta e comunque ha avvisato di “voler cambiare la Bassanini”. Si presume nel senso che lo spoils system debba riguardare non solo i vertici dei ministeri ma anche il livello subito sotto, cioè altre 400 teste circa. L’operazione, si diceva, è già iniziata: Nicola Magrini, al vertice di Aifa, l’agenzia del farmaco per voler dell’ex ministro Speranza, pur essendo un tecnico è già stato sostituito. Due giorni prima aveva rilasciato un’intervista in cui diceva che il governo ha abbassato la guardia sui vaccini. Stesso destino per Giovanni Legnini, ex senatore Pd, ex vicepresidente del Csm, abruzzese, gli è stata tolta la carica di commissario per la ricostruzione del centro Italia. Stava facendo molto bene Legnini. Tanto che lo hanno incaricato anche per il dossier Ischia. Ma non importa: al suo posto il senatore Guido Castelli, ex sindaco di Ascoli, amministratore capace. In questo caso possiamo dire che il merito è stato garantito.

Si fa un gran parlare del destino di due big come Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro da quattro anni e mezzo, l’uomo che gestisce le partite economiche con Ecofin e Bruxelles. E di Biagio Mazzotta, a capo della ragioneria generale subito dopo Daniele Franco. È a loro che si riferiva Crosetto quando ha parlato di “machete”? Vedremo. Una cosa è certa: su alcuni nomi il Quirinale vuole essere informato in tempo utile per le valutazioni del caso. Spoils system quanto si vuole, ma su certe caselle non si può scherzare. E tanto Rivera che Mazzotta sono molto stimati a Bruxelles dove si stanno decidendo, tra le altre cose, le eventuali modifiche del Pnrr e del Patto di stabilità.

Al rinnovo 73 partecipate e controllate

E poi c’è il gran ballo delle nomine. Non solo le big come Eni, Enel e Leonardo. In base al rapporto del servizio di controllo parlamentare della Camera dei Deputati «Ricognizione degli assetti organizzativi delle principali società a partecipazione pubblica», si parla di almeno altre 70 società i cui cda hanno perso efficacia alla fine del 2022. Il Rapporto mette in fila un lungo elenco di società con rispettive competenze: legate al ministero dell’Economia ci sono la Amco-Asset Management Company, che gestisce i crediti deteriorati della banche, ma anche il Monte dei Paschi di Siena; Consap (servizi assicurativi alle società pubbliche), Consip, Enav che controlla i cieli italiani.

E ancora Equitalia Giustizia e l’Istituto Poligrafico dello Stato, Poste Italiane, Sogesid e Sport e Salute. Fine mandato anche per Franco Bernabè alle Acciaierie d’Italia, ma anche per i cda di Cdp Venture Capital Sgr e alla Infratel, incaricata di realizzare le infrastrutture telefoniche per la banda larga. Scaduta anche tutta la galassia Eni, delle Ferrovie dello Stato, di Leonardo e Poste Italiane (Consorzio per i servizi di telefonia mobile; Mlk Deliveries; Poste Air Cargo; Poste Vita; Postepay e Sennder Italia). Arrivati al capolinea anche i vertici di Rai Cinema, Rai Com e Rai Way. Un elenco lunghissimo in cui facile perdersi e chiedersi: e questi chi sono? Che fanno?

E la spending review?

Sarebbe interessante capire se “il machete” di Crosetto possa essere usato nel senso di chiudere finalmente qualcuna di questa società. Nel Rapporto (sempre Camera dei deputati) “Le partecipate pubbliche in Italia” aggiornato a febbraio 2022 emerge che le unità economiche partecipate dal settore pubblico sono 8.175 e impiegano 932.714 addetti. Questo numero è in costante seppur minima diminuzione. L’Istat evidenzia che le imprese a controllo pubblico generano oltre 58 miliardi di valore aggiunto (il 7% di quello prodotto dai settori dell’Industria e dei Servizi).

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” l’8 gennaio 2023.

«I soldi arriveranno con l'avvio dei lavori. Il cantiere delle Leopoldine dovrebbe partire ad aprile. La piscina di Fuksas dovrebbe essere pronta entro il 2010. L'anno successivo dovrebbe essere pronto il ''Bagno romano''...» Quattordici anni sono passati dal 2 gennaio 2009 quando l'Ansa riferì le promesse sul rilancio delle terme di Montecatini. Sedici, coi due anni che erano già trascorsi dal solenne annuncio del progetto dell'archistar nel 2007: «Il complesso di piscine ludico-termali sarà coperto e scoperto, a più livelli e con spettacolari cascate» ispirate alle terrazze di Pamukkale e il viale di circonvallazione, protetto da «una foresta di bambù», «diventerà un boulevard» e «sarà un luogo urbano riscoperto, pedonalizzato, con quattro file di alberi» e l'accesso da un park sotterraneo... Sì, ciao: oggi alle Leopoldine resta solo una voragine di pattume edilizio. Lavori bloccati da dodici anni. Battaglie legali.

E rinvii rinvii rinvii. Al punto che il «rilancio» è stato ormai mitizzato come le visite dell'ultimo scià di Persia Reza Pahlavi e Farah Diba, del duca di Windsor e della «scandalosa» Wally Simpson che al Grand Hotel La Pace passavano i meriggi sul divano a dondolo coi due fedeli carlini scodinzolanti intorno, di Arnold Schwarzenegger costretto a evadere attraverso le cucine da un nugolo di spasimanti giapponesi e di mille altri ospiti i cui nomi vengono ricordati nelle borchie simil-oro sui marciapiedi delle vie più frequentate: Audrey Hepburn, Luciano Pavarotti, Sophia Loren, Coco Chanel...

 Ed è proprio ricordando tanti nomi, aneddoti e dettagli di un passato fastoso a cavallo fra la salute, le acque, l'eleganza e il decoro («Il mio primo giorno di lavoro fu indimenticabile - sorride lo storico direttore sanitario Antonio Galassi, assunto come medico nel 1982 - mi presero da parte e mi spiegarono: "Allora, le camicie quelle che vuole purché siano bianche, le scarpe quelle che vuole purché siano nere, giacca e cravatta obbligatorie») che passeggiare nel parco delle Terme riconosciute come Patrimonio Mondiale dell'Umanità mette il magone.

Non c'è mattone, grondaia, rete da cantiere strappata o negozio chiuso, che non dia l'idea dell'abbandono. Anime morte.

Le pagine locali avvertono: «La prossima settimana si decide il futuro». E spiegano, come ieri la Nazione : «È attesa per la prossima settimana la decisione del Tribunale fallimentare di Pistoia sulla richiesta di concordato presentata dalla "Società Terme di Montecatini". In città c'è ottimismo dopo che la Regione Toscana, azionista di maggioranza (l'altro socio è il Comune di Montecatini), si è impegnata con tanto di legge approvata dal consiglio nell'ultima seduta del 2022, ad acquistare gli stabilimenti Tettuccio, Regina ed Excelsior per un totale di 16 milioni. Se a questi si aggiungono anche gli acquisti da parte di Comune e Fondazione Caript di Torretta e Tamerici, si supera la metà dei debiti che ammontano a circa 38 milioni di euro. Gli altri immobili verranno venduti tramite asta». Sarà? Auguri.

Il giorno esatto dell'invasione dell'Ucraina e lo scoppio della guerra, a dire il vero, il leggendario e già citato «Grand Hotel La Pace», dove fu in parte girato il film Oci Ciornie del regista Nikita Michalkov, un compratore l'ha trovato. Russo, però. Meglio: la società acquirente Kib Holding secondo il Resto del Carlino sarebbe inglese con sede a Londra e a Imola però avrebbe un unico socio, Karina Boguslavskaya nata 31 anni fa a Kazan (Tatarstan) e «con passaporto inglese» ma soprattutto figlia dell'oligarca Irek Boguslavsky, arricchito coi detersivi e profumi, più volte eletto alla Duma, fedele a Putin e perciò sottoposto alle sanzioni. Come andrà a finire?

Boh...

E l'incertezza sul futuro, per motivi diversi, vale per buona parte delle strutture. Ai tempi d'oro, spiega Massimo Giusfredi, direttore della locale Federalberghi, «tra alberghi e affittacamere c'erano circa 250 entità, adesso quelli aperti anche in bassa stagione, nelle festività invernali, saranno sì e no una quindicina. Teniamo botta perché il mercato è cambiato e, grazie ai grandi gruppi nazionali e internazionali che offrono tour della Toscana, sennò» Come ha potuto la cittadina toscana nota per le acque dai tempi di Catilina, descritta per le proprietà curative dal medico Ugolino da Montecatini nel 1417, «lanciata» dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo nella seconda metà del '700 elevarsi a una delle capitali europee del turismo termale (frequentata da re e regine, musicisti come Ruggero Leoncavallo, Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, scrittori come Giovanni Pascoli o Gabriele D'Annunzio, cantanti come Enrico Caruso o Bob Dylan, divi di Hollywood come Spencer Tracy, Catherine Hepburn, Paulette Goddard, Clark Gable, Charles Boyer, Gary Cooper) per poi precipitare nella decadenza malinconica di oggi?

 Per capire l'aria che tirava nel 1962 fa basta leggere un reportage della cronista di costume Flora Antonioni: «Il "malato" termale reincarna senza saperlo il mito della Belle Époque, la leggenda di un vivere garbato e cortese, ritrova il piacere di mille cose obliate da gran tempo. La "sua signora" rivive con lui, ridiventa civettuola, dispendiosa, ilare e femminea davanti al fascino di cento e cento vetrine che l'allettano in ogni modo proponendole desabillés da cocotte, gueperies da adolescente in fiore, camicette, modelli di gran marca, pellicce, profumi, gioielli, sandali da odalisca, ventagli romantici e a lui camiciole di lana finissima, di crespo sottile come bava di ragno, cravatte splendenti per gusto e raffinatezza, calzini da Lord Brummel, rasatura e massaggi perfetti e perfino l'illusione di sentirsi bello e giovane con l'aiuto di qualche bigliettone da diecimila ad opera di compiacenti fanciulle in bolero alla Brigitte Bardot...»

«Cento e cento vetrine», concerti da camera, serate al Gambrinus, spettacoli al teatro Verdi sulla cui parete spicca l'ingentilita reclame «I sali purgativi delle Tamerici vincono i sali stranieri», centinaia di trasmissioni televisive con Pippo Baudo e altri il sabato sera o la domenica... Cos' è rimasto, nella decadenza?

 La bellezza di certi edifici come appunto le Terme Tettuccio con la loro Galleria delle Mescite e i pannelli di Basilio Cascella. Certi tagli di paesaggio tra gli alberi. La sapienza di antiche trattorie. I libri del giornalista Mauro Lubrani su Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Gli aneddoti di Vasco Ferretti sul re d'Arabia Ibn Saud che arrivò con un seguito di quaranta servitori e si faceva fare continui salassi con le sanguisughe e «il sangue accuratamente sigillato in sacchetti di pelle veniva poi sepolto in luogo discreto». Le foto appese qua e là delle «mescitrici» che porgevano ai visitatori i bicchieri d'acqua guaritrice, così affascinanti nelle loro divise a righe bianche blu da ricavarne un omaggio in rima: «Tutte fresche belle e sane / colle chiome bionde e nere / son pur belle le toscane / tanto in piedi che a sedere».

Come si è potuto buttar via un tale patrimonio culturale, artistico, monumentale, sanitario, reputazionale, turistico?

«Colpa della politica», rispondono quasi tutti. Ma per carità, niente nomi, niente accuse, «lasciamo perdere...» Responsabilità collettive. Basate soprattutto, secondo Emilio Becheri, dal 1984 uno dei coordinatori del Rapporto sul turismo italiano del Ministero e poi del Cnr, su un errore di fondo: «Si è avuto paura che l'orientamento verso il "benessere" snaturasse la natura sanitaria delle prestazioni termali.

Fra il 1970 e il 2000 le discussioni giravano sempre intorno al principio che gli stabilimenti termali erano prima di tutto un presidio sanitario che non doveva essere "contaminato" dalle prestazioni orientate al benessere, per evitare che il Servizio Sanitario Nazionale fosse condizionato dalla proposizione di trattamenti non termali ma orientate ad altri servizi che le persone, comunque, richiedevano in modo sempre maggiore: trattamenti antiage, fitness, trattamenti antiobesità, fisioterapie, ginnastiche mirate, percorsi antistress». Risultato? «È assurdo, ma una città come Montecatini non ha ad oggi una vera e propria piscina termale» e via via proprio la politica «a un certo punto non ha più creduto alle terme». Tema: c'è ancora tempo per far qualcosa per questo prezioso pezzo d'Italia da salvare? E cosa?

Carlo Tecce per “l’Espresso” il 15 Gennaio 2023.

Eccoci con la carovana di mediatori, lobbisti, sensali, gente informata, indottrinata, indaffarata, bignamini di politica industriale, di politica economica, di politica in purezza, retroscena, retrobottega, roba retrò, scarse novità. Benvenuti nella stagione delle nomine per le aziende controllate (partecipate) dallo Stato e per le strutture nevralgiche della Repubblica. È il momento che disvela cosa c’è sotto, sopra e attorno al governo di Giorgia Meloni e specialmente chi.

Anche per le nomine non ci sono più le mezze stagioni e perciò la sua stagione – che scocca a marzo con la primavera – già si fa sentire. Un po’ fastidiosa come il polline di betulle e sequoie che gironzola a gennaio e inganna perché non s’accompagna al tepore, ma soltanto alle allergie. Stavolta c’è particolare apprensione che ben fa rima con confusione e tensione perché le scadenze si sovrappongono, decine di incarichi vanno assegnati in pochi mesi e i riferimenti classici nei partiti sono saltati.

 A gennaio si completano le agenzie fiscali, il rodaggio nei ministeri e il gruppo dei laici selezionato dai parlamentari per il Consiglio superiore della magistratura. A febbraio tocca al segretario generale del ministero degli Esteri. A marzo e aprile si preparano le liste per Eni, Enel, Poste, banca Mps, Leonardo e poi la rete ferroviaria con Rfi, la società Trenitalia, la centrale acquisti Consip e tante altre. A fine maggio va indicato il comandante generale della Guardia di Finanza.

La domanda più complicata viene soddisfatta dalla risposta più semplice. Chi decide le nomine? Giorgia Meloni, elementare. E per Giorgia Meloni si intende la presidente del Consiglio col supporto tecnico dei suoi principali collaboratori in materia di poltrone e di potere. Questo è un governo di coalizione anche se la coalizione, definita di centrodestra, è formata da un partito verticale, cioè Fratelli d’Italia, e due partiti scarmigliati, cioè Lega ex Nord e Forza Italia. I posti più delicati sono sottratti alle logiche di coalizione. Vuol dire che sugli amministratori delegati (ad) e le presidenze collegate, per esempio di Eni e Enel oppure di Poste e Leonardo, le aziende più grosse, non si tratta, non si spartisce.

Dunque è scontato che leghisti e forzisti pretendano poi di avere spazio nei folti consigli di amministrazione e maggiore influenza per le società di livello inferiore. Nella stagione delle nomine è fondamentale conoscere lo stradario. Quali strade portano a Meloni. Quali a sperdersi in campagna. Quali nei vicoli ciechi. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari è unanimemente un accesso garantito a Meloni.

Ha scelto per sé la competenza al programma di governo, una posizione all’apparenza defilata, e invece su ogni tema è il più ascoltato. Per un motivo più umano che squisitamente politico, un motivo che richiede più la ponderatezza del tempo che la lucentezza di una idea: la fiducia incondizionata. Siccome è diffidente di carattere, Meloni si circonda di persone di comprovata, da lei, fiducia.

Come Patrizia Scurti, l’onnipresente assistente di Meloni, che ha ottenuto la stanza di Palazzo Chigi più prossima all’ufficio della presidente, quella con le bandiere e il balcone che affaccia sulla colonna aureliana (da lassù i Cinque Stelle per una notte abolirono la povertà). Quel luogo solitamente è riservato al capo di gabinetto, fu così per i presidenti Paolo Gentiloni e poi Mario Draghi con Antonio Funiciello, mentre con Giuseppe Conte c’era il comunicatore Rocco Casalino.

Gaetano Caputi, il capo di gabinetto di Meloni, è sistemato altrove. L’ultima tappa di Caputi è stata al ministero del Turismo col leghista Garavaglia, ma la sua carriera di governo sgorga dalla fucina di Fortunato/Tremonti al ministero del Tesoro che precede il quadriennio da direttore generale di Consob, l’autorità che vigila sul mercato borsistico. Caputi ha trascorsi robusti per istruire le pratiche sulle nomine, però il filtro con la presidente è sempre Fazzolari.

Fra i sussurranti di Meloni, categoria a cui ambiscono in parecchi (forse troppi), va segnalato Riccardo Pugnalin, astuto lobbista, scuola Fininvest, a lungo a Sky, un periodo a British American Tobacco, da un paio di anni a Vodafone. Il collante di Palazzo Chigi è Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che si occupa anche di servizi segreti. Questo è il nucleo operativo sulle nomine che deve interagire con il Tesoro, l’azionista di fatto.

Premessa: la coalizione di centrodestra e di conseguenza il governo sono sorretti dall’asse Meloni-Giorgetti. Il ministro leghista è l’argine agli eccessi di vari tipi e vari Salvini. Per il bilancio pubblico e quindi per le nomine di Stato. Il Tesoro di Giorgetti non avrà candidati da spingere, semmai obbrobri da respingere. Per esempio con un controllo più serrato soprattutto sui consiglieri e un ruolo più frazionato per le società di reclutamento, i cosiddetti cacciatori di teste, che per l’occasione saranno quattro (tra cui l’americana Spencer Stuart).

Il triangolo si chiude sul Colle. Secondo una regola invalsa della Repubblica, che ha in Gianni Letta il suo massimo interprete, quando il contributo e la sorveglianza istituzionale del Quirinale non vengono esercitati sugli amministratori delegati, si esplicitano sui presidenti. È accaduto per Fincantieri. Lo scorso aprile il presidente Mario Draghi ha interrotto il ventennio di Giuseppe Bono (di recente scomparso) in Fincantieri con l’arrivo di Pierroberto Folgiero da Maire Tecnimont.

C’erano resistenze politiche al cambio di Bono e c’erano altri papabili muniti di ampio consenso (Lorenzo Mariani di Mbda Italia, consorzio europeo costruttore di missili e tecnologie di difesa), ma Draghi era convinto che Folgiero fosse la figura più adeguata a una cesura storica nella multinazionale della cantieristica navale militare e civile. Folgiero fu promosso col generale Claudio Graziano e certamente la decisione sulla presidenza fu gradita al Quirinale.

In versione presidente, Meloni sfoggia la giusta sensibilità istituzionale per fissare un punto di equilibrio con il Colle. Il punto di equilibrio o galateo istituzionale prevede che, tranne in rare circostanze, non ci siano variazione alla guida dei servizi segreti se non ci sono mandati che finiscono: al dipartimento che coordina le due agenzie operative c’è l’ambasciatrice Elisabetta Belloni (termine 2025), all’Aise c’è il generale Giovanni Caravelli (2026), all’Aisi c’è il generale Mario Parente (2024).

Al riguardo non ci sono segnali diversi.Ci si può esprimere con maggiore criterio su chi esce o resta e non su chi entra nelle aziende di Stato. Il confermato più acclamato è Claudio Descalzi di Eni: risolta con un’assoluzione la questione giudiziaria, l’ad ha gestito col governo Draghi la ricerca di fonti energetiche alternative al gas russo. La quarta nomina per Descalzi è sicura.

Al contrario per Francesco Starace di Enel, che fu promosso assieme a Descalzi nel 2014, è sicuro che la quarta non ci sarà. Ai saluti anche Alessandro Profumo di Leonardo. La coppia Enel e Leonardo sono ingranaggi fondamentali. Debiti e rinnovabili per Enel, occupazione e sviluppo per Leonardo. Le ipotesi sono numerose. Per Leonardo pare il turno del già citato Mariani.

Per Enel ci sono papabili interni o papabili stranieri (come Flavio Cattaneo). Atterrato in Terna con i Cinque Stelle, l’ad Stefano Donnarumma ha conquistato Fratelli d’Italia e ha rafforzato le sue aspirazioni: possibile un salto a Enel, più probabile un bis nella società delle linee elettriche.

 Su Matteo Del Fante di Poste ci sono indiscrezioni positive, ma comunque contrastanti: potrebbe agguantare il terzo giro, andare a Enel o chissà dove. Si parla anche di Cassa Depositi e Prestiti, però la data di scadenza di Dario Scannapieco è il 2024. L’economista ex vicepresidente della Banca europea per gli investimenti, rimpatriato con Draghi, ha buoni contatti con Meloni (incontro a ridosso di Natale) e beneficia delle intercessioni del ministro Adolfo Urso e di Giuseppe Guzzetti, per vent’anni presidente delle fondazioni bancarie che sono azioniste di Cdp.

Scannapieco può contare anche sul rispetto che Meloni nutre per Mario Draghi per questo non peserà, come ipotizza qualcuno, la vicenda sulla rete unica telefonica (Cassa ha il 9,81 per cento di Tim e il 60 di Open Fiber). A febbraio l’ambasciatore Ettore Sequi lascerà l’incarico di segretario generale della Farnesina e sarà una valida soluzione per le nomine di primavera.

 Alla Farnesina c’erano pochi dubbi sull’ascesa dell’ambasciatore Armando Varricchio, ma adesso il collega Riccardo Guariglia (sede a Madrid) appare in vantaggio. Giovane (classe ’63) e stimato in maniera trasversale, il comandante generale Giuseppe Zafarana completa a maggio il quarto anno con quattro governi alla Gdf: è senz’altro un profilo adatto per posti liberi o che si possono liberare.

Paolo Baroni per “la Stampa” l’8 gennaio 2023.

«Il problema vero non è se cambiano qualcuno, ma se i nuovi che ci mettono sono più bravi, competenti e capaci o meno bravi competenti e capaci dei vecchi: ovviamente è un giudizio complicato da dare», spiega Franco Bassanini, ex ministro della Pa nel governo Prodi e «padre» delle norme che dal 1998 ad oggi hanno regolato lo spoils system. 

 «C'è l'idea di cambiare subito gabinetti, uffici legislativi, segreterie tecniche, prefetti, ambasciatori e comandi militari, capi dipartimento e segretari generali? Per tutti questi basta la legge Bassanini. Si vogliono cambiare anche tutti gli altri dirigenti, si vuole cambiare quella legge per fare tabula rasa? Se fosse questa l'idea - spiega - credo che vada raccomandata prudenza: quella legge, approvata nel 1997, ha aperto molti spazi per rinnovare, cambiare, immettere nell'amministrazione dirigenti più giovani; se il governo la usa bene, può far molto e non merita critiche.

 Gli altri dirigenti hanno già tutti un incarico a tempo determinato, al termine il governo li potrà comunque cambiare, se non avranno raggiunto i risultati che il governo gli ha dato.

Se invece si volesse fare tabula rasa, il messaggio che si darebbe sarebbe che non contano i risultati, dunque competenza, capacità e merito, ma solo la tessera di partito».

 Dicono «sono tutti del Pd e ci remano contro» 

«Mah! Molti dirigenti sono stati messi nei loro incarichi dai precedenti governi di centrodestra. E poi anche il governo Meloni ha già nominato dirigenti vicini al Pd, evidentemente perché li stima. Certo, se un dirigente, che dovrebbe attuare le riforme e le misure approvate dal governo e dal Parlamento, sa dire solo dei no, è una buona ragione per cambiarlo».

 Il ministro Crosetto dice di voler usare il machete sulle catene che bloccano il Paese.

«Non si può non essere d'accordo con Crosetto sul fatto che non possiamo più permetterci di aspettare anni per potere realizzare un'opera pubblica o per dare le autorizzazioni alle imprese che vogliono investire. Su questo penso ci dovrebbe essere l'unanimità».

E la colpa è dei burocrati?

«No, non solo. C'è anche un problema di norme e procedure. Le faccio un esempio: come Fondazione Astrid stiamo per pubblicare uno studio sugli investimenti per le energie rinnovabili. Ci sono progetti finanziati da privati per centinaia di gigawatt di produzione, più del nostro fabbisogno. Sono pendenti da anni, l'88% è bloccato dalle sovrintendenze perché le leggi glielo consentono anche quando altri organi collegiali (a cui loro partecipano) hanno dato il via libera».

 Quindi via allo spoils system a tappeto?

«Attenzione: lo spoils system all'americana in Europa non c'è e non c'è in Italia; se cambia il governo, da noi non si mandano a casa i dirigenti. In base alla legge Bassanini si possono licenziare, ma solo per giusta causa: il dirigente infedele, che ruba o prende tangenti o che si è dimostrato fannullone e incapace. Per il resto parliamo di cambiare gli incarichi non di licenziare. Credo che Crosetto questo voglia».

Prima della sua legge cosa succedeva?

«La situazione che ho ereditato nel '96 (e che il ministro Cassese non aveva modificato) prevedeva che i vertici di tre amministrazioni fondamentali (Interno, Esteri e Difesa), prefetti, ambasciatori e alte cariche militari, fossero in qualunque momento sostituibili dal governo su proposta del loro ministro: dunque spoils system all'italiana. Così è ancora oggi».

 E negli altri ministeri, invece, come funzionava?

«La regola era diversa. Quando si liberava un posto di direttore generale il ministro poteva proporre un nome di un dirigente che aveva vinto un concorso, ma anche no: decideva il Consiglio dei ministri. Dopodiché una volta che uno era nominato, in quell'incarico restava a vita, perché - si diceva - in questo modo era garantita la sua imparzialità. Ma così un governo si trovava tutti i posti occupati dai governi precedenti: e se il dirigente era fannullone e incapace, per liberare il posto doveva promuoverlo, metterlo al Consiglio di Stato, alla presidenza di un ente o di una banca pubblica».

La sua riforma cosa prevede?

«Io l'ho firmata, ma va detto che chi ci ha lavorato è stato soprattutto Massimo D'Antona, il grande giuslavorista che fu poi ucciso dalle Br. Prevede che i dirigenti vengano nominati non per tutta la vita, ma per un periodo pluriennale, in modo da poterne verificare attitudini e risultati.

 A loro la politica deve dare obiettivi precisi e nel caso di mancato raggiungimento dei risultati previsti può sostituirli. Ci sono due eccezioni: per i vertici dei ministeri (capi dipartimento e segretari generali), si scelse invece lo spoils system all'italiana: ogni nuovo governo ha tre mesi di tempo per decidere conferme o sostituzioni». 

Questo per quale ragione? 

«Perché un nuovo governo che nasce dal voto degli elettori ha il diritto di avere i mezzi e i poteri per attuare il programma sul quale è stato eletto e dunque di scegliere i dirigenti più adatti. Però, siccome si tratta di poche figure di grandissimo rilievo, i governi sono sempre stati molto cauti nel sostituire persone della loro competenza ed esperienza: ci sono stati tanti ragionieri generali dello Stato e segretari generali della Farnesina che hanno servito sotto governi di diverso orientamento politico». 

 L'altra eccezione? 

«Gli uffici di diretta collaborazione: capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, delle segreterie tecniche dei ministri sono sempre stati scelti direttamente dal ministro di turno. E i loro incarichi vengono meno quando cambia il governo: la mia legge ha preso atto di quello che c'era, ha solo previsto che con decreto del presidente del Consiglio si fissino dei tetti, per evitare che ogni ministro assuma tutti quelli che vuole».

 Delle polemiche di questi giorni che ne pensa? 

«Sono un po' sorpreso nel leggere che il presidente del Consiglio dica che "abbiamo bisogno di una radicale riforma della legge Bassanini" per avere più spoils system, e che nel contempo Cassese sostenga che invece quella legge va cancellata perché ha prodotto più spoils system. A entrambi direi di valutare bene i meccanismi di quella legge. 

Cassese ha ragione quando dice che occorre garantire merito e imparzialità, ma sono proprio i principi che la riforma del '98 ha introdotto. Però quella legge ha riconosciuto anche che chi vince le elezioni ha diritto di aver gli strumenti per attuare il programma sulla cui base è stato eletto, perché in questo ha ragione Meloni: altrimenti che fine fa la sovranità popolare?».

Claudio Antonelli e Daniele Capezzone per “La Verità” il 9 gennaio 2023.

Il meraviglioso mondo del Pd e dei suoi alleati non finisce di stupire. Nell'ultima settimana, la sinistra politica e quella mediatica hanno sparato a palle incatenate contro il governo guidato da Giorgia Meloni, a loro avviso «colpevole», dopo una netta e indiscutibile vittoria elettorale, di aver avvicendato due funzionari: il capo dell'Aifa e il responsabile della struttura della ricostruzione post terremoto.

 Peccato che - in base a un documento che La Verità è in grado di rendere noto - i ministri uscenti del vecchio governo, a Camere sciolte (cioè dopo il 21 luglio scorso), e in qualche caso perfino in piena campagna elettorale o a elezioni già avvenute, abbiano sparato un'ultima impressionante raffica di incarichi.

Complessivamente, si tratta di ben 82 nomine disposte da nove ministri di punta del governo guidato da Mario Draghi: Elena Bonetti (1 nomina), Luigi Di Maio (11 nomine), Luciana Lamorgese (3 nomine), Dario Franceschini (18 nomine), Marta Cartabia (3 nomine), Patrizio Bianchi (1 nomina), Roberto Cingolani (4 nomine), Andrea Orlando (16 nomine), Roberto Speranza (16 nomine), Lorenzo Guerini (6 nomine), e infine 3 nomine in condominio tra Mef e Mur.

 Quindi, sul gradino più alto del podio c'è Franceschini, seguito da Orlando e Speranza: tre uomini di Pd e Articolo Uno che hanno sparato ben 50 colpi andati a segno. E non finisce qui: perché all'incredibile elenco occorre aggiungere un'altra raffica, quella attribuibile a un altro autentico recordman di questa speciale classifica, Vittorio Colao, protagonista (La Verità se n'era già occupata in più occasioni) di 109 tra assunzioni e nomine con particolare simpatia per il mondo francese.

 Intendiamoci bene. In qualche caso, si tratta di incarichi che erano già in itinere e che magari sono stati formalizzati dopo lo scioglimento delle Camere. Ad esempio, tutte le nomine del comparto Difesa sono frutto di valutazioni tecniche avvenute ben prima della caduta del governo. In altri casi, si può agevolmente concedere che si sia trattato di atti dovuti (vale per una fetta di incarichi formalizzati alla Farnesina e riguardanti nuovi ambasciatori). In altri casi ancora, sono state scelte persone meritevoli.

Ma, al netto di queste eccezioni, siamo di fronte a uno scandalo in termini di opportunità politica. Ma come? Dal 21 luglio le Camere sono sciolte; il vecchio governo è in carica solo per il disbrigo degli affari correnti; un imminente risultato elettorale avverso al Pd appare chiaro dal primo all'ultimo minuto della campagna elettorale: per questo si fa lavorare a pieno regime la macchina delle nomine?

 Tutto ciò nonostante a fine luglio il sottosegretario Roberto Garofoli abbia emanato una circolare per limitare il più possibile il perimetro di libertà dei singoli ministri. Ecco perché non si può non pensare a una precisa e scatenata volontà lottizzatoria di ogni postazione disponibile, e magari anche al retropensiero di gettare un po' di sabbia nell'ingranaggio di chi andrà a governare dopo.

D'altro canto la cronologia parla chiaro: dopo lo scioglimento delle Camere, nell'ultima decade di luglio, sono avvenute 13 nomine; ad agosto, altre 11; altre 4 a cavallo tra agosto e settembre; sempre a settembre, altre 34 (di cui 12 dopo le elezioni del 25); 15 addirittura a ottobre; 1 a novembre; una manciata, infine, con collocazione cronologica meno certa.

 L'ex ministro della Cultura, Dario Franceschini, è riuscito a chiudere il cerchio della Siae, la società dei diritti musicali. A settembre, il già capo di gabinetto Salvatore Nastasi diventa presidente Siae, riuscendo nell'impresa fallita nel 2018 e nonostante un parere negativo della commissione.

Nello stesso mese anche Francesca Saccone passa al servizio Eventi, mostre e manifestazioni, in questo caso grazie a una mossa dello stesso Nastasi. Stefano Campagnolo, già assessore del Pd di Cremona, finisce alla biblioteca Marciana di Venezia, mentre Andrea Pessina, con decreto di Nastasi, finisce a fare il segretario regionale Fvg del ministero.

 Giusto per fare alcuni esempi tratti dalla lista della Cultura. Italia Viva si ferma a una sola nomina. Ma è ben assestata. È l'ex tesoriere del partito di Renzi e segretario del ministro Bonetti, Mattia Peradotto, che ad agosto diventa coordinatore Unar. Ovviamente con l'ok della stessa Bonetti.

Luigi Di Maio da vero democristiano muove le pedine lateralmente. Da segnalare Luca Sabbatucci, suo ex capo di gabinetto, nominato rappresentante permanente presso l'Ocse. Premiato anche Carmelo Barbarello, segnalato a diversi convegni targati Pd e primo diplomatico a ottenere un passaporto per il marito. Scegliendo nel cesto di ciliegie, si nota anche Alessandro Bratti, nominato segretario generale dell'Autorità del bacino del Po. Era un deputato Pd e direttore Ispra.

E Cristina Grieco, già assessore piddino in Toscana, voluta ad agosto dal ministro Bianchi nel ruolo di presidente del cda di Indire, l'Istituto nazionale per documentazione, innovazione e ricerca educativa. Pedine che viste da lontano sembrano piccine, ma che analizzate da vicino formano una strategia precisa e capillare: una occupazione territoriale.

 Così, per rimanere in tema, non mancano, come vedremo in dettaglio, anche particolari geografici e una pesca a piene mani dal personale politico d'area dei vari ministri: anticipiamo la propensione di Orlando a scegliere in Liguria, così come resta leggendaria la scelta di Speranza di nominare pure un suo compagno di scuola.

 Tra le nomine di Orlando spicca Cristina Tajani (già sua consigliera nonché ex assessore delle giunte di Giuliano Pisapia e Giuseppe Sala) come ad di Anpal servizi. Notevoli anche gli incarichi all'ex deputato Pd Massimo Fiorio (cda Enpaia) e a Giuseppe Berretta (già vicesindaco di Catania ai tempi di Enzo Bianco, poi deputato Pd e sottosegretario nel governo di Enrico Letta) alla cassa psicologi Enpap.

 Una serie di professionisti (commercialisti, tributaristi, notai) sono stati pescati nella natia La Spezia o al massimo a Savona. La maggior parte di queste figure liguri sono state collocate negli organi di casse che erano scaduti: una ragione di più, a nostro avviso, per non procedere a nomine all'ultimo istante, dando la sensazione di una corsa a piazzare pedine in extremis.

Quanto a Speranza, attrae l'occhio la scelta dell'ex compagno di scuola Stefano Lorusso, (di cui La Verità si era già occupata) nientemeno che come direttore generale per la Programmazione sanitaria. Ad alta intensità politica la nomina di Mario Giro (già viceministro nei governi Renzi e Gentiloni) all'Istituto nazionale salute migrazione e poverta, dove Speranza ha collocato pure Paolo Fontanelli, già deputato, sindaco di Pisa e assessore regionale toscano.

Significativa anche l'indicazione di Patrizia Popoli, dirigente Aifa, alla Commissione nazionale formazione continua. Pure nel caso di Speranza non manca il fattore territorio, con speciale attenzione alla natia Basilicata e alla Puglia. Da ultimo, il feudo lettiano della Fondazione Biotecnopolo di Siena. Posizioni scadute, dunque Mef e Mur avrebbero fatto bene a lasciar scegliere il futuro governo. Sono invece scattate le nomine, inclusa quella indubbiamente di alto livello del Nobel Giorgio Parisi, che è comunque di opinioni politiche di sinistra.

Federico Di Bisceglie per formiche.net l’8 gennaio 2023.

Lo spoils system? La sinistra lo ha mutuato dagli Stati Uniti e ora tentano di fare la morale a Meloni: mi pare davvero una sciocchezza”. Paolo Cirino Pomicino, ex democristiano di ferro, già ministro della programmazione economica, la vede così. In questi giorni sta montando la polemica sul giro di nomine che il governo, legittimamente, sta facendo in alcuni ruoli chiave dell’apparato statale. Ma non c’è nulla di che meravigliarsi. “Anzi, è più che legittimo”.

 Pomicino, come si spiega queste polemiche?

Mi paiono davvero faziose. Perché, ripeto, furono i Ds con Prodi e Bassanini che vollero importare dagli Stati Uniti il modello dello spoils system. In questo modo tentarono di modernizzare il vecchio partito comunista, senza però avere un gran successo visti gli esiti che hanno ottenuto. Anzi, in qualche modo è un miracolo che sia resistita la democrazia parlamentare sotto un certo aspetto.

 Si parla spesso di sostituire figure tecniche. 

Non sono mai stato un grande amante dello spoils system, tanto più che lo ritengo adatto a uno Stato federale non a una democrazia parlamentare (seppure indebolita, proprio a causa del Mattarellum voluto dalla sinistra), come la nostra. Determinati ruoli sono ricoperti da figure tecniche, che nulla hanno mai avuto a che fare con la politica. Sono tecnici di carriera che, se ritenuti validi, possono anche essere lasciati al loro posto. Altra cosa sono invece i tecnici che sono più o meno esplicitamente espressione della politica. Questi ultimi, si devono gentilmente accomodare a casa.

Al netto della forma di governo e dell’assetto istituzionale, come mai non è un amante dello spoils system?

Perché se i ministri sono validi e hanno polso, il loro programma riescono ad attuarlo in ogni caso. Ricordo quando, durante il governo Amato, nel 1992, a fronte di un disavanzo di 38 mila miliardi, riconsegnammo un bilancio con un avanzo di tremila miliardi. Grazie, tra gli altri, a un direttore generale della ragioneria dello Stato, molto competente. Ma l’imprimatur deve essere politico.

 Meloni e Manfred Weber si sono visti per la seconda volta. Prevede che si consolidi un asse tra popolari e conservatori in Europa?

Questa evoluzione dei conservatori verso il Ppe è fondamentale. Ed è molto positiva, perché apre scenari interessanti sullo scacchiere sovra-nazionale. Penso che parte di strategia sia frutto anche della presenza di Guido Crosetto all’interno di Fratelli d’Italia. Anzi, fu uno dei fondatori.

 Che ruolo avrebbe il ministro Crosetto?

Ha una spiccata sensibilità per certi temi, come quelli legati alla politica estera. Crosetto fu il responsabile dei giovani della Dc a Torino, in anni ormai remoti. Questa sua provenienza ha due aspetti positivi. La visione e la diluizione, in seno al partito, di alcune vecchie nostalgie. L’unico consiglio che mi permetto di suggerire a Meloni è quello di allargare un’eventuale alleanza anche ai liberali dell’Alde. Anche se, con il Terzo polo italiano, tra personalismi e attacchi, si fa fatica a dialogare.

Sinistra piglia tutto. Michel Dessì il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ci vuole coraggio e faccia… tosta” parola di Daniele Capezzone

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

È da settimane che (a sinistra) va avanti sempre la stessa polemica, quella sulle nomine. Tutti puntano il dito contro il Presidente del Consiglio colpevole, a loro dire, di “sistemare” gli “amici”. Una pratica che, dalle parti di Via del Nazareno, conoscono molto bene. Per anni hanno applicato (giustamente) la regola dello spoils system. Il meccanismo per cui i maggiori dirigenti della Pubblica amministrazione cambiano con l’arrivo di un nuovo esecutivo. A stabilirlo è la legge Bassanini, norma per la quale gli incarichi di funzione dirigenziale, come i vertici dei ministeri o delle agenzie, cessano novanta giorni dopo il voto di fiducia del governo. Le polemiche però non sono mancate, con l’opposizione che protesta per le scelte dal governo.

Eppure, chi protesta, oggi qualche mese fa, a Camere sciolte, prima di chiudere gli scatoloni, ha deciso di sistemare un bel pò di persone. 82 per l’esattezza come ha raccontato il quotidiano La Verità. Noi ne abbiamo parlato con Daniele Capezzone, autorevole firma.

Ed ecco l’elenco completo dei “piazzati”, tenetevi forte. Dario Franceschini ne ha sistemati 18, Andrea Orlando 16 come anche il suo collega Roberto Speranza, Luigi Di Maio, l’ex grillino da sempre a favore del merito ne ha sistemati ben 11, il pidino Lorenzo Guerini ha sfornato ben 6 nomine, Roberto Cingolani per essere un tecnico ne ha piazzati 4, Luciana Lamorgese 3 come anche la sua collega Marta Cartabia che ha fatto solo 3 nomine, Patrizio Bianchi ha pensato di non eccedere, 1 nomina come anche Elena Bonetti che si è fermata ad 1 nomina e, infine, 3 nomine tra il ministero dell’Economia e il ministero dell’Università e della ricerca. Indovinate chi ha piazzato più “amici”? Beh, Dario Franceschini, seguito da Andrea Orlando e Roberto Speranza: tre uomini del Pd e Articolo Uno che hanno piazzato ben 50 persone. E ancora hanno il coraggio di lamentarsi di Giorgia Meloni? Io, fossi in loro, starei in silenzio. È una questione di opportunità.

Al Pd lo spoil system non piace solo quando viene da destra. Federico Novella su Panorama il 6 Gennaio 2023.

Le proteste di Letta per le nomine del Governo Meloni, dimenticando come negli anni passati sia stata proprio la sinistra ad occupare tutte le poltrone disponibili

Lo “spoil system” del centrodestra, cioè il cambio nei posti di potere, non va giù al Pd. O meglio: era ben accetto quando a fare le nomine erano loro, che hanno occupato tutto l’occupabile quando ne avevano facoltà. Adesso che a scegliere è qualcun altro, si grida allo scandalo. Insomma se fino a ieri la sostituzione selvaggia dell’alta burocrazia ci veniva raccontata come un meccanismo moderno per fluidificare l’azione di governo, oggi con la destra al potere già si parla di un mezzo putsch.

Quello a cui stiamo assistendo in queste ore – scrive il partito democratico sui social – è un vero e proprio assalto all’amministrazione dello stato”. Ed Enrico Letta alza i toni: “Che brutto segnale lo spoil system del governo applicato alla gestione del terremoto” , in riferimento alla sostituzione di Giovanni Legnini, rimpiazzato da Guido Castelli nella posizione di commissario per le aree terremotate. E questo dopo la rimozione di Nicola Magrini dal vertice dell’Aifa: solo l’antipasto, in vista del piatto forte delle nomine sui grandi enti pubblici e partecipate. Le opposizioni parlano di vergogna nazionale, come se lo spoil system fosse stato inventato stanotte, mentre di fatto lo hanno importato loro dagli Stati Uniti, anni or sono, con quella legge Bassanini in base alla quale gli incarichi dirigenziali di Stato cessano 90 giorni dopo la fiducia al governo. Dunque, al di là dei mal di pancia, è indubbio che il governo Meloni abbia tutto il diritto di imporre le sue scelte per applicare la propria linea politica, come del resto hanno fatto i governi precedenti (senza che vi fosse grande scandalo). Qualcuno si chiederà: chi ci garantisce che la nuova infornata di dirigenti scelti dal centrodestra sia affidabile e competente? Certo, domanda sacrosanta. Ed è ovvio che tutti si aspettano persone capaci nei posti che contano. E’ naturale che tutti pretendiamo alti funzionari selezionati in base alle competenze, piuttosto che per la fedeltà al governo di turno. Quello della necessità di una burocrazia valida è un problema che quasi ci viene a noia, perché si ripresenta a ogni cambio di governo. Insomma, lo spoil system nella sua banalità si trascina dietro le incognite di sempre. Cosa c’è di nuovo? La differenza, stavolta, è una soltanto: il partito che ha bazzicato il potere negli ultimi dieci anni (il Pd), dal potere fatica a staccarsi. Con una postilla fastidiosa: magicamente, si dà per scontato che la sinistra in passato abbia sempre scelto persone capaci e meritevoli, mentre il governo Meloni è stato già condannato sommariamente per il reato di lottizzazione assassina. Si dà per scontato, insomma, che a sinistra le nomine si facciano esclusivamente nell’interesse pubblico, e che da quelle parti regnino gli onesti, mentre a destra no. Un’ equazione fuori tempo e fuori moda, visto ciò che sta accadendo a Bruxelles. Non è più l’epoca della superiorità morale. Anche se per qualcuno, a quanto pare, si tratta di un riflesso condizionato insopprimibile ©Riproduzione Riservata

Spoils system? Controcorrente: perché è sbagliato gridare allo scandalo. Antonio Mastrapasqua su Libero Quotidiano il 14 gennaio 2023

Il 24 gennaio sarà iniziato da due giorni l'anno del coniglio d'acqua, secondo il calendario cinese per cui il Capodanno è il 22 gennaio. Per l'agenda della politica italiana sarà il giorno dello spoils system. Il "sistema delle spoglie" - ha origine negli Stati Uniti e riguarda quella pratica politica secondo cui il vincitore delle elezioni ha il diritto di nominare un gran numero di funzionari di propria fiducia a capo degli uffici dell'amministrazione pubblica. È stato introdotto in Italia a fine anni '90 con la legge Bassanini e aggiustato con la riforma Frattini nel 2002, e prevede il cambio di alcune figure di vertice dell'amministrazione dopo 90 giorni dall'insediamento del Governo.

"Lo spoils system è regolato dalla legge. Lo hanno usato tutti, ma proprio tutti". Il costituzionalista: "Il principio è corretto, la Consulta dice che la norma non vìola la Carta. I governi hanno il diritto di scegliere". Stefano Zurlo il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Nessuno scandalo: «Lo spoils system esiste da duecento anni e in Italia è regolato da una legge del 2002. Il problema semmai è nell'applicazione concreta: si deve puntare su figure meritevoli». Alfonso Celotto, costituzionalista, professore universitario e capo di gabinetto di diversi ministri, cerca di fare ordine su una materia incandescente che tocca la sensibilità dell'opinione pubblica.

Professore, senza troppi giri di parole, lo spoil system è la lottizzazione selvaggia imposta dalla politica alla pubblica amministrazione?

«Ma no, lo spoils system negli Usa esiste da duecento anni. Certo lì è tutto più semplice».

Perché?

«Perché ci sono solo due partiti: i Democratici e i Repubblicani. Ed è normale che Biden si porti i tecnici e gli esperti che la pensano come lui, che gli sono in qualche modo più vicini, insomma quelli di cui si fida. Anche se magari quelli che se ne vanno sono bravissimi, magari i migliori».

In Italia è tutto più contorto.

«Certo, abbiamo tanti partiti, tante aree culturali, tanti governi che si susseguono e spesso hanno vita breve. Ma il concetto non cambia».

L'appartenenza o la vicinanza vince sul merito?

«Si tratta di bilanciare le diverse esigenze, ma il principio di fondo è corretto, o comunque non ci trovo nulla di anomalo: le prime linee, i capi dipartimento e i direttori delle agenzie rimangono finché rimane il governo. Poi, per carità, possono essere confermati, ma tutti i governi hanno il diritto di scegliere per i ruoli apicali persone di loro gradimento. È un problema di consuetudine, di sintonia, di comunanza di ideali».

Non è anche una forma di arroganza e di arbitrio, come adesso gridano le opposizioni?

«C'è una legge del 2002 che regola questa realtà e che tutti, proprio tutti, hanno usato».

E la norma è sufficiente a tutelare il bene comune?

«Sulla carta sì, perché non è che si possa mettere un amico, solo perché tale, o un passante a capo, che so, del dipartimento giuridico di Palazzo Chigi o dell'agenzia delle Dogane. Ci vogliono certi requisiti e questo garantisce o dovrebbe garantire l'arrivo di competenze e professionalità adeguate. Fra l'altro, la Consulta ha stabilito nel 2006 che la norma rispetta i principi del buon andamento e dell'imparzialità, insomma non è in contrasto con la Costituzione».

I giornali però continuano a raccontare storie controverse che suscitano dubbi e sospetti nell'opinione pubblica: è di pochi giorni fa la sostituzione del Commissario per la ricostruzione nelle aree terremotate del Centro Italia. Giovanni Legnini aveva lavorato bene, ma la logica di parte ha prevalso ed è arrivato Guido Castelli, che pure è persona apprezzata.

«Le capacità di Legnini sono sotto gli occhi di tutti, l'esecutivo avrebbe anche potuto svolgere una riflessione supplementare, ma in generale la rotazione ha un senso. Del resto polizia, carabinieri e tanti altri corpi dello Stato seguono le stesse dinamiche. Stai un certo periodo in un certo incarico, poi cambi: non è lo spoils system ma ci va vicino. Così si evitano incrostazioni di potere e si scongiura l'abitudine all'incarico, la perdita di freschezza».

Ma così non si perdono o peggio sperperano tante risorse?

«Certo, se un governo cade dopo pochi mesi è un guaio, ma non va bene che un tecnico resti al vertice quindici o venti anni e un ministro un anno o due. Così si capovolgono i ruoli: è il direttore che detta l'agenda al ministro».

Lo stesso criterio vale anche per le società pubbliche?

«In qualche modo sì, ma qui è il calendario con le sue scadenze a dare il ritmo. Nei prossimi mesi avremo un nuovo cda di Ferrovie, e poi ancora nomine pesanti in Mps, Enel e Eni, solo per citare alcuni colossi, ma il valzer degli avvicendamenti non è imposto dalla Meloni o da chi per lei, ma appunto dalla conclusione di un ciclo. Poi, certo, è sempre doveroso scegliere manager di assoluta caratura. Lealtà e bene comune devono andare a braccetto».

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” il 7 gennaio 2023.

Le nomine pubbliche sono il gorgonzola dei politici: essi ne sentono l’odore da lontano, prima di ogni altro, e vi si avviano ogni volta con sicuro istinto. Perciò appare inspiegabile lo scandalo destato nel Pd dal fatto che Giorgia Meloni stia adesso facendo le sue nomine mandando via i nominati del centrosinistra, esattamente come facevano quelli del centrosinistra prima di lei mandando via i nominati del centrodestra. 

 E’ una giostra. Se nomini tu “è alto profilo”, se nominano gli altri è subito “lottizzazione”. Giovedì, per dire, Enrico Letta criticava la sostituzione, all’Aifa, che sarebbe l’agenzia italiana del farmaco, di Nicola Magrini. Ebbene Magrini era stato nominato da Roberto Speranza col governo Conte II, che lo aveva messo lì mandando via Luca Li Bassi, che era stato a sua volta nominato da Giulia Grillo col governo gialloverde, che lo aveva messo lì mandando via Mario Melazzini, che era stato nominato da Beatrice Lorenzin col governo Renzi... 

 Lo chiamano spoils system. Lo praticano tutti. Ed è un po’ come la canzone di Angelo Branduardi, alla fiera dell’est: e venne il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò. In sostanza, o sbagliano sempre tutti i governi, o altrimenti è legittimo che ciascuno si possa avvalere di una norma che consente a chi governa di nominare i dirigenti pubblici di cui più si fida. Mandando via gli altri. A proprio rischio e pericolo, peraltro. Perché un dirigente cetriolo poi fa pasticci e ti mette nei guai. E a questo proposito citiamo qui, casualmente, Pasquale Tridico, il presidente dell’inps nominato da Luigi Di Maio ai tempi gialloverdi e ora arrivato alla scadenza del suo mandato. 

 Tridico, per dirne una, è quello che fino a ieri andava in giro dichiarando che il reddito di cittadinanza “ha ridotto la povertà del sessanta per cento”. Un personaggione. Uno che se in trattoria qualche volta non glielo avessero temerariamente proposto al burro, forse sarebbe passato attraverso la vita ignorando che esiste il cervello. Ma il nuovo governo se lo deve tenere, Tridico. Lo deve riconfermare. Altrimenti lottizza. Ovvio. […] Non si fanno queste cose. All’anpal, il Pd mica ci ha messo Raffaele Tangorra mandando via il gialloverde Domenico Parisi che a sua volta era stato messo lì da Di Maio mandando via Maurizio Del Conte che era stato messo lì da Renzi. La fiera dell’est. Eh no.

I vincoli esterni. I bipopulisti e la trappola delle doppie verità. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 7 Gennaio 2023.

I fascio-sovranisti e i demo-populisti hanno la stessa tecnica di sopravvivenza: la dissociazione della politica dalla realtà e quindi della responsabilità della classe politica rispetto ai risultati concreti dell’azione di governo

Malgrado le diverse fortune e la reciproca ostilità, entrambi i fronti del bipopulismo italiano continuano a mostrare una natura comune, confermando di essere parti diverse del medesimo sistema, non opzioni realmente alternative rispetto alle principali sfide politiche, che l’Italia dovrebbe affrontare e che il partito unico bipopulista si impegna invece a esorcizzare ed eludere con vertiginosi abracadabra retorici.

Non deve sorprendere che, nell’imminenza del voto in Lombardia e Lazio e dopo gli scontri sulla legge di bilancio e i primi provvedimenti dell’esecutivo Meloni, la maggioranza nero-verde e l’opposizione giallo-rossa enfatizzino differenze e incompatibilità, per conformare le rispettive posizioni a quella sorta di guerra di civiltà da operetta, che è in Italia lo schema obbligato della competizione bipolare.

Né deve sviare il giudizio il fatto, puramente contingente, che la coalizione demo-populista tra Partito Democratico e Movimento 5 stelle non sembri ancora ugualmente consolidata, presentandosi unita a Milano e separata a Roma. Pur incerto e diviso su tutto, non è certo il Pd a chiudere le porte, ma semmai a spalancarle all’alleanza con il M5s, che non c’è candidato segretario o dirigente di peso del Nazareno non auspichi come componente necessaria per la costruzione di un fronte progressista competitivo. Sul presupposto, ovviamente, che con il M5s la cifra progressista di un’eventuale coalizione anti-sovranista non sarebbe adulterata e contraddetta, ma semmai potenziata e inverata per inclusione.

Basta scorrere le dichiarazioni pubbliche dei migliori, come pure dei peggiori, esponenti delle due coalizioni per riconoscere un tratto comune, che è di sospetto e di dispetto per le catene che imprigionano l’Italia in una condizione di dipendenza, se non di schiavitù, immeritata e malvagia e le impediscono di risalire la china di un destino cinico e baro. Che poi si definisca tutto questo, a seconda delle circostanze, «pensiero unico liberista», «dittatura tecnocratica», «bellicismo Nato»o «euro-austerità», è del tutto accessorio, perché si tratta di espressioni fungibili, che esprimono in fondo lo stesso concetto: che l’integrazione dell’Italia nel quadro europeo e atlantico è stata la causa della rovina e oggi è l’ostacolo alla rinascita dell’Italia.

Non basta certo la prudenza dell’attuale presidente del Consiglio, per tenere in piedi la baracca dell’esecutivo senza finire in quattro e quattr’otto come Liz Truss, a dare particolari ragioni di speranza, quando, per tenere in piedi la baracca del consenso e smentire i sospetti, particolarmente ottimistici, sull’evoluzione draghiana della destra-destra, questa prudenza va rivestita e nascosta, per fare un esempio, con le intemerate di Guido Crosetto contro la Banca centrale europea.

A legare populisti e sovranisti però non è solo la storica diffidenza per l’origine e gli sviluppi del modello politico occidentale, avversato ed esecrato, a destra come a sinistra, come una forma di colonialismo culturale, politico ed economico. È anche e soprattutto la scelta di una comune tecnica di sopravvivenza, fondata sulla dissociazione della politica dalla realtà e quindi, a cascata, della responsabilità della classe politica rispetto ai risultati concreti dell’azione di governo.

Sia per i populisti che per i sovranisti, i cosiddetti vincoli esterni – che si parli della politica monetaria della Bce, della costituzione economica dell’Unione europea o delle politiche di sicurezza della Nato fa poca differenza – non sono solo un prezioso feticcio propagandistico, ma anche una straordinaria giustificazione pratica. Se la loro politica è, per l’essenziale, denunciare questo male, così pervasivo e assoluto da pregiudicare la sovranità politica nazionale, è ovvio che questo male frustrerà con disarmante facilità ogni tentativo di sovvertirne il dominio. Così anche la condotta più rinunciataria e corriva apparirà retta e obbligata.

Il bipopulismo italiano è insomma biforcuto non solo per ragioni di propaganda esterna, ma di equilibrio interno. La doppiezza è consustanziale alla sua stessa natura, perché il populismo, anche quando è eversivo, non è un ideale rivoluzionario, ma un fenomeno politico parassitario, che fomenta la frustrazione e se ne nutre, dovendo però sempre trovare il modo per non diventarne vittima. Non si possono fare le cose che si dicono, ma non si possono dire le cose che (non) si fanno.

Sia per la destra fascio-sovranista che per la sinistra demo-populista l’oltranzismo identitario e il radicalismo ideologico servono per convertire il fallimento implicito nelle promesse impossibili in una prova di eroismo e di virtù contro le soverchianti forze dei nemici dell’Italia. Mancare gli obiettivi dichiarati, anziché una smentita della buona fede e della capacità di fare quel che si era promesso, diventa una conferma dell’analisi sul complotto contro l’Italia. È vero, non siamo riusciti a fare quanto volevamo e proprio questo dimostra che avevamo ragione. La doppia verità è un rifugio, ma anche una trappola. Non se ne può uscire senza disarmare tutta la costruzione che essa serve a difendere.

Si tratta di un fenomeno del tutto diverso da quella approssimazione, mai pienamente compiuta, del reale all’ideale che anima la tensione politica verso il progresso (comunque questo venga inteso) e che intrinsecamente appartiene alla fisiologia dei migliori processi democratici.

Al contrario questa allucinatoria psicagogia delle masse e autoassoluzione del potere, con la costante invocazione del nemico esterno a dimostrazione e scusante della catastrofe interna, è caratteristica dei sistemi autoritari e totalitari, che sono fondati, prima che sull’oppressione, proprio sull’alienazione politica.

Pasquale Napolitano per ilgiornale.it il 7 gennaio 2023

«Fai quel che dico e non quel che faccio». Il Pd sembra rispecchiarsi alla perfezione nell'antichissima massima. Da giorni, Letta e compagni, appoggiati dai giornali amici con interi paginoni, denunciano lo spoil system (previsto dalla legge) avviato dal governo Meloni con l'avvicendamento dei funzionari nei ruoli apicali della pubblica amministrazione.

 C'è poi un'altra lottizzazione, reale e spietata, che la sinistra non vede o finge di non vedere. Al Cnr, il principale ente italiano di ricerca che opera sotto il controllo del ministero dell'Università e della Ricerca scientifica, nella settimana di Natale (dal 20 al 30 dicembre) sono state piazzate nomine a raffica, prorogati incarichi e create nuove poltrone.

 Tutto nel silenzio dei compagni. In questo caso nessuna levata di scudi da parte di Letta e del Pd. Sarà solo una coincidenza che al timone del Cnr vi sia un volto molto conosciuto al Nazareno: Maria Chiara Carrozza, ministro dell'Istruzione proprio ai tempi dell'esecutivo guidato da Enrico Letta.

 E sarà una seconda coincidenza che tutti o quasi tutti i dirigenti premiati o confermati ai vertici degli istituti di ricerca, che sono sotto il controllo del Cnr, facciano parte della galassia di sinistra.

 Con una rapidità impressionante, nei 10 giorni che vanno dal 20 al 30 dicembre, il presidente Carrozza e il direttore generale del Cnr Giuseppe Colpani hanno nominato i vertici di 8 istituiti di ricerca. In alcuni casi si tratta di conferme. In altri invece di nomine fresche.

 Nello stesso periodo di pausa natalizia, l'ex ministro Pd, oggi a capo del più importante ente pubblico di ricerca, ha proceduto alla proroga di alcuni incarichi dirigenziali.

 I più maliziosi ne intravedono il classico blitz di fine anno. E forse di fine impero. Visto che il nuovo governo e il nuovo titolare del Miur, la forzista Annamaria Bernini, potrebbero imporre un cambio di governance al Cnr, dopo decenni a trazione dem. Prima di Carrozza, al timone del Consiglio nazionale delle Ricerche è passato un altro ministro del Pd: il napoletano Luigi Nicolais. Quasi una succursale del Nazareno, chiamata a gestire milioni e milioni di euro per la ricerca e l'innovazione.

 L'ultima nomina arriva in extremis: il 30 dicembre 2022 (provvedimento n.150) il presidente Carrozza sceglie Simona Rossetti come direttore dell'Irsa (Istituto di Ricerca sulla Acque). Si tratta di un incarico a tempo. Il 27 dicembre spunta un'altra infornata: Andrea Zappettini, molto vicino agli ambienti di sinistra, viene scelto per la guida dell'Imen (Istituto dei materiali per l'elettronica e il magnetismo). Il 21 dicembre a Michela Spagnulo è affidato l'incarico di direttore dell'Imati (Istituto di Matematica Applicata e Tecnologie Informatiche Enrico Magenes).

Ancora nella giornata del 21 dicembre è stato scelto Andrea Scaloni, altro nome in orbita Pd e vicino al sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, per l'incarico di direttore dell'Ispaam (Istituto per il Sistema Produzione Animale in Ambiente Mediterraneo). E poi ancora: Claudio Sangregorio sbarca sulla poltrona di direttore dell'Istituto di Chimica dei Composti Organo-Metallici (ICCOM), Onofrio Marago si accomoda su quella di direttore dell'Istituto per i processi chimico-fisici (IPCF) mentre Silvano Fares viene opzionato per la direzione dell'Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (ISAFoM). Ed infine, Caterina Vozzi va ad occupare la casella di direttore dell'Istituto di Fotonica e Nanotecnologie (IFN). Nomine a raffica. Ma anche proroghe: il 28 dicembre è stato rinnovato il contratto di Claudia Rosati alla direzione dell'Ufficio Ragioneria e Affari Fiscali.

Il pezzo forte è però la delibera del Cda del Cnr, riunito il 21 dicembre, per approvare l'istituzione di tre nuove aree dirigenziali: l'ufficio supporto alla ricerca e grant, l'ufficio Infrastrutture di ricerca, in capo alla direzione generale e l'ufficio bilancio programmazione finanziaria e controllo. Altre poltrone da distribuire nei prossimi mesi.

DAGOREPORT il 29 Dicembre 2022.

Il siluramento, in diretta conferenza stampa, di Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro e apicale guardiano dei conti, è il definitivo segnale della frattura tra il governo destra-centro di Giorgia Meloni e il ‘’partito dello Stato’’, altresì detto Deep State. 

Non solo: la Ducetta ha inviato un messaggio/ordine al ministro dell’Economia: Caro Giancarlo Giorgetti è ora di finirla con la difesa di Rivera, va cacciato! Al ‘’mandarino” di Via XX Settembre Giorgia addebita – e non senza ragioni - vari fallimenti, da Monte dei Paschi a Ita. 

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il voto di fiducia sulla legge di bilancio. In margine a quel travagliatissimo 24 dicembre, durante le due sedute notturne in commissione Bilancio con le carte della manovra che hanno iniziato a ballare, i cronisti parlamenti registrarono lo sfogo del presidente della commissione Cultura della Camera Federico Mollicone, in quota Fratelli d’Italia: “Non c’era nessuno dei funzionari del Mef e della Ragioneria generale, c’è stato un caos amministrativo e non politico”. 

Dopo Mollicone e Salvini, a sfanculare i tecnici del Mef e della Ragioneria dello Stato, è arrivato, armato di machete, il ministro della Difesa Guido Crosetto. Oggi, è scesa la ghigliottina di Donna Giorgia. Certo, è facile aprire bocca e licenziare un funzionario del Mef o un amministratore di una azienda dello Stato, un’altra cosa è dichiarare guerra al “potere invisibile”, quello che non brilla sui giornali o nel talk di Vespa e della Gruber. 

Un sotterraneo "stato dentro lo stato" costruito di burocrati (gran serbatoio il Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Corte Costituzionale) che sono gli unici veramente inamovibili nelle istituzioni nazionali. 

Ecco, immaginate: il governo ha in mano il volante della macchina del potere ma se il Deep State decide di non mettere la benzina, puoi schiacciare il pedale del gas quanto vuoi ma non vai da nessuna parte. 

Dopo due mesi a Palazzo Chigi, Meloni ha compreso che i burocrati del Deep State, nella loro ossatura, non sono di destra. Magari, democristiani come sono, sono più vicini alla parte moderata del paese, più in sintonia con la Forza Italia felpata di Gianni Letta e del compianto Franco Frattini. 

Certo, con il tempo, magari potrà nascere un feeling tra burocrati e destra. Ma per ora non c’è. E visto che sbarazzarsi di colpo di un mondo articolato e ammanicatissimo come il Deep State non è solo difficile ma impossibile, conviene al governo Meloni di farsi sbollire la rabbia e incominciare a trovare una quadra con quella che è l’ossatura della Stato. Terza via, non c’è.

Dagospia il 29 Dicembre 2022.

Caro Dago,

ho appena letto su Dagospia “Deep State, il potere assoluto”.

Per quanto mi riguarda nel rapporto con il “Deep State” mi viene rimproverato su decenni di incarichi pubblici un solo errore fatto nel 2006 su di una nomina relativa ad un Ufficio allora quasi simbolico (Vice Presidente del Consiglio dei Ministri). 

Per il resto il mio rapporto con il “Deep State” è stato ed è straordinario come del resto indicato da Giuseppe Salvaggiulo nel suo citato libro. 

Tanti cari auguri a te e a tutti,

Giulio Tremonti

DAGOREPORT il 24 dicembre 2022.

Il responsabile del disastroso via libera alla manovra si chiama Giancarlo Giorgetti, il semolino di Salvini. Eppure il ministro dell’Economia non aveva davanti un compito granché complicato visto che i due terzi della Finanziaria erano già destinati a combattere il caro-bollette. Ne restavano appena 14 miliardi da gestire ed è finita nel caos più grottesco. La Ragioneria di Stato ha mosso ben 44 rilievi alla manovra e sulla graticola i parlamentari di Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno spedito all’inferno il ministro leghista e la scelta dei suoi tecnici del Mef.  

Una questione che ripropone un tema che non ha granché accesso sui giornali e talk: il vero potere non ha un volto, non va sui giornali né viene ospitato nei talk, è lontano dagli occhi dell'opinione pubblica perché lavora in quel mondo che viene definito Deep State. Quello ‘’stato sotterraneo’’, esiziale per la vita di un governo, è composto da organismi come Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Servizi segreti, poteri militari, civil servant, eminenze grigie varie e avariate. 

Un invisibile "Stato dentro lo Stato" costruito di burocrati che esercitano il vero potere esecutivo dietro le quinte. Di più: sono gli unici veramente inamovibili nelle istituzioni nazionali. Insomma: il governo ha in mano il volante della macchina del potere ma se il Deep State decide di non mettere la benzina, puoi schiacciare il pedale del gas quanto vuoi ma non vai da nessuna parte.   

Nondimeno, fare a meno della giuntura che lega le grandi burocrazie pubbliche al governo, è il sogno della classe politica. Ma non riescono a emanciparsene perché non possono. Non solo perché i politici de’ noantri non saprebbero scrivere neppure tre righe di una legge. Ma, dato che più sono incapaci, più sono arroganti, non riescono a capacitarsi che una burocrazia ostile, ma anche semplicemente non collaborativa, è in grado di impedire, confondere, rallentare qualsiasi decisione.  

‘’In Italia la selezione dei capi di gabinetto avviene attraverso canali diversi di cooptazione. Ci sono i magistrati del Consiglio di Stato. Quelli della Corte dei conti. I professori universitari. I funzionari parlamentari. I burocrati di carriera, che agivano per decenni nelle pubbliche amministrazioni. Ciascuna categoria ha un suo codice di comportamento, regole di affiliazione, baronie, gelosie, ritualità, scandali, ricatti, mele marce, figure leggendarie’’. 

Racconta l’ottimo giornalista de “La Stampa” Giuseppe Salvaggiulo nel suo fondamentale libro “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto” (Feltrinelli, 2020), l’errore di Giulio Tremonti: “Erano già quindici anni che faceva politica ai più alti livelli quando nominò capo di gabinetto a Palazzo Chigi, dov’era stato nominato vicepremier, Marco Milanese. Un ufficiale della Guardia di finanza che dopo Mani Pulite si era buttato in politica con Berlusconi. Per noi gabinettisti un finanziere che si laurea a quarantacinque anni e diventa capo di gabinetto è come un mercante nel tempio. Nessuno a Roma rispondeva al telefono a Milanese. Fu isolato come fosse portatore di un virus pestilenziale”.

Ancora Salvaggiulo: ‘’Il più madornale errore di Matteo Renzi, dopo la presa del potere del 2014, fu sbagliare la squadra. Non dei ministri, che in quel governo – a parte Padoan e pochi altri - erano perlopiù comparse’’. Il Deep State lo abbandonò al suo destino quando Renzi arruolò il capo della polizia municipale di Firenze, Antonella Manzione. 

Subito malevolmente ribattezzata “la vigilessa” per sottolinearne il curriculum giuridico modesto a fronte dei predecessori (in genere alti magistrati) nel prestigioso incarico di capo dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio, in realtà non aveva sfigurato. Nei cosiddetti “preconsigli”, le riunioni dei capi staff cui seguono quelle dei ministri, si segnalava per formalismo e pignoleria. 

Ma la sua autorevolezza derivava dalla piena copertura politica di Renzi. Di fronte a un contrasto, per chiudere la discussione le bastava dire “chiedo a Matteo” e dopo pochi minuti, mostrando il cellulare, “Matteo mi ha detto di fare così”, conclude Salvaggiulo.

Il risultato tragico della manovra by Giorgetti ha origine dallo sconsiderato turn-over fatto all'interno della burocrazia del Mef. Fuori Giuseppe Chiné, potentissimo consigliere del Consiglio di Stato (gran serbatoio del Deep State) ed ex capo di gabinetto di Daniele Franco, sostituito dal magistrato Stefano Varone, che era stato capo di gabinetto di Giorgetti al Mise, è stato il primo errore visto che i tempi per varare la manovra erano strettissimi. Mettere poi al coordinamento dei legislativi, anziché un consigliere del Consiglio di Stato ma la magistrata alla Corte dei Conti Daria Perrotta, è stato il secondo. 

E forse Giorgetti in parte l’ha capito quando si è opposto ai desiderata della Meloni di far fuori subito Alessandro Rivera, influentissimo direttore generale del Tesoro. Ma, a quanto pare, non è bastato per evitare una figura da cioccolataio.

Emanuele Lauria per la Repubblica il 24 dicembre 2022. 

È un caso che esplode all'improvviso, in un Transatlantico che si appresta lentamente a celebrare il sofferto via libera alla manovra. Uno dopo l'altro, due deputati di Fratelli d'Italia mettono nel mirino i tecnici del Mef, il ministero retto dal leghista Giancarlo Giorgetti.  

Raccontano un malumore diffuso, che è proprio di altri colleghi e pure di autorevoli esponenti di Forza Italia alla Camera. Nella seconda, convulsa, notte di lavoro in commissione Finanze sarebbe venuto a mancare il supporto fondamentale della struttura del ministero dell'Economia. 

Un retroscena, lo chiama proprio così, che il deputato Federico Mollicone, vicinissimo al vicepresidente di Montecitorio Fabio Rampelli, consegna ai cronisti. È lui a raccontare di mail a vuoto, inviate ai funzionari di via XX settembre, alle quali è arrivata risposta solo nella mattina seguente.  

Mollicone è irritato per un fatto personale, la difficoltà nel trovare un conforto tecnico mentre si stava discutendo un emendamento a sua firma, quello sul bonus cultura. Ma al parlamentare romano dà man forte Tommaso Foti, che di Fratelli d'Italia è capogruppo: «È vero, è stato irrituale che soprattutto alla Camera nelle ultime ore non vi fosse il personale del Mef». 

Insomma, una sostanziale condivisione delle parole del compagno di partito sulle cause del «caos amministrativo» che ha caratterizzato il transito a Montecitorio della manovra. «È un fatto vero - sottolinea Foti - d'altra parte dobbiamo anche tenere presente che erano impegnati su due fronti, quello della Camera e quello del Senato dove c'era l'Aiuti Quater.  

Purtroppo quando il personale che deve assumere delle decisioni è quello che è - conclude il capogruppo dei meloniani - si verifica questo». Sono critiche non leggere, davanti alle quali arrivano smentite. E il ministro Giancarlo Giorgetti per primo difende i tecnici di Mef e Ragioneria: «Ma no, sono stanchi, hanno lavorato tanto».  

Ma ciò non toglie che una manovra pasticciata lascia sul campo ferite che bruciano, nella maggioranza: Fdi avanza le proprie perplessità sulla struttura del ministero dell'Economia, non coinvolgendo il vertice politico, ma certo queste accuse non possono far piacere a Giorgetti.  

E se, da un lato, qualcuno ipotizza una vendetta di settori della maggioranza verso una Ragioneria che ha mosso 44 rilievi alla manovra (certo non un inno alla competenza dei parlamentari), dall'altro la questione ripropone i dubbi sull'efficacia del turn-over fatto all'interno della burocrazia del Mef.  

Con il nuovo capo dell'ufficio coordinamento del legislativo Economia Daria Perrotta in prima fila: «In questi giorni sembrava lei il ministro», dice malignamente un deputato "graduato" di Forza Italia. E sullo sfondo c'è il braccio di ferro, che dura da ottobre, fra Fdi e Giorgetti sul direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera: Meloni vuole sostituirlo, il ministro finora ha resistito. 

L'apprezzamento unanime sull'approvazione della legge cela insomma malumori. Come quelli di Forza Italia: diversi parlamentari fanno notare che la guerriglia in commissione si poteva evitare se il governo avesse varato un disegno di legge già definito e blindato nei punti essenziali, come le pensioni minime.  

Non sono tensioni trascurabili, anche perché in prospettiva c'è un altro passaggio d'aula delicato: quello sulla ratifica del Mes. La premier ha aperto alla possibilità di un sì alla riforma del regolamento, pur escludendo un ricorso al fondo salva-Stati. Posizione che piace a Fi ma molto meno alla Lega: 

«Ratifica del regolamento e utilizzo del Mes non sono due cose separate - dice il senatore Claudio Borghi - la ratifica farebbe scattare un pericoloso meccanismo di aggressione al nostro Paese. Sono convinto che in aula troverò gli argomenti giusti per convincere chi, in buona fede, sta cambiando idea su un no già deliberato con un ordine del giorno della maggioranza». 

Furbetti di Stato. Fabio Amendolara su Panorama il 29 Dicembre 2022

È un vero assalto alla Pubblica amministrazione, come dimostrano 256 inchieste nel solo 2021, con migliaia di indagati per peculato. Semplici dipendenti ma anche dirigenti, ufficiali, medici, poliziotti, assessori. E politici...

Da open.online il 28 dicembre 2022.

Per Guido Crosetto il caos sulla prima Legge di Bilancio del governo Meloni è dovuto ai pochi giorni di tempo per la preparazione. Ma anche a «una classe dirigente nei ministeri» che «va cambiata in profondità». Il ministro della Difesa punta il dito sulle correzioni chieste dalla Ragioneria dello Stato all’esecutivo. Promettendo uno spoils system massiccio per i dirigenti della Pubblica Amministrazione. 

In un’intervista al Messaggero Crosetto dice che «il primo problema è stata la tempistica: Giorgetti ha avuto appena tre giorni per mettere su la manovra. Il secondo è quello di una classe dirigente nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica che va cambiata in profondità. Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse, se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa. E poi c’è un problema di classe parlamentare. Come è avvenuto nel 2018 per i 5Stelle, si è pagata un po’ di inesperienza».  

L’inesperienza del governo

Crosetto annuncia un ricambio nei dirigenti della pubblica amministrazione: «Il termine scade a fine gennaio. Di certo non è facile sostituire le burocrazie esistenti. Perché alcune persone sono di grande valore. E perché la macchina amministrativa deve andare avanti e non puoi fermarti mandando subito via funzionari di cui non ti fidi o hanno idee diverse dalle tue. Ci vuole un po’ di tempo. Ma bisogna avere il coraggio di fare queste scelte, mentre in alcuni ministeri c’è il timore di prendere decisioni che invece vanno prese per rimettere in moto il Paese». Per il ministro della Difesa «serve coraggio. Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia: ora ci vogliono 17 anni per realizzare un’opera pubblica, dovranno diventare quattro o cinque al massimo».

Il machete

Crosetto vuole usare il machete «contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e di perdere tempo. Se non mandiamo via queste persone, facciamo un danno al Paese. E noi non abbiamo vinto le elezioni per danneggiare l’Italia. In più, al contrario degli altri, potremmo cambiare in quanto non abbiamo fatto nulla perché qualcuno possa ricattarci. Noi non abbiamo mai fatto affari e non gli abbiamo promesso nulla. Insomma, non abbiamo un passato che ci rende difficile intervenire: coloro che vogliono salvare l’Italia da un declino mortale andranno tenuti, per gli altri bisogna avere il coraggio di cambiare. Punto. Sono certo che Giorgia Meloni la pensa come me».

Fratelli burocrati. Crosetto dà il via alla stagione delle nomine nella macchina pubblica: a casa i dirigenti non allineati. L’Inkiesta il 28 Dicembre 2022.

«Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia», dice il ministro della Difesa, scagliandosi «contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e di perdere tempo». La prima decisione delicata per Meloni riguarda il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera

Il primo problema della manovra economica del governo Meloni è stata «la tempistica: Giorgetti ha avuto appena tre giorni». Il secondo «è quello di una classe dirigente nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica che va cambiata in profondità. Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa».

Sono le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto in un’intervista al Messaggero, in cui spiega i ritardi della legge di bilancio, il cui voto definitivo in Senato è slittato a domani dopo la protesta delle opposizioni. Per il co-fondatore di Fratelli d’Italia, il problema certo riguarda anche «l’inesperienza» della classe parlamentare. Ma – dice – bisogna mandare via i burocrati capaci di dire soltanto no. Il riferimento è ai tecnici del Mef e della Ragioneria dello Stato che più volte hanno fatto le pulci alle coperture del ddl bilancio.

La direzione dunque è quella di uno spoil system massiccio. «Il termine scade a fine gennaio», spiega il ministro. «Di certo non è facile sostituire le burocrazie esistenti. Perché alcune persone sono di grande valore. E perché la macchina amministrativa deve andare avanti e non puoi fermarti mandando subito via i funzionari di cui non ti fidi o che hanno idee diverse dalle tue. Ci vuole un po’ di tempo. Ma bisogna avere il coraggio di fare queste scelte, mentre in alcuni ministeri c’è il timore di prendere decisioni che invece vanno prese per rimettere in moto il Paese. Serve coraggio. Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia: ora ci vogliono 17 anni per realizzare un’opera pubblica, dovranno diventare quattro o cinque al massimo».

Il machete, prosegue Crosetto, va usato «contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e di perdere tempo. Se non mandiamo via queste persone, facciamo un danno al Paese. E noi non abbiamo vinto le elezioni per danneggiare l’Italia». In più, aggiunge Crosetto mandando qui e lì qualche messaggio in codice, «al contrario degli altri, potremmo cambiare in quanto noi non abbiamo fatto nulla perché qualcuno possa ricattarci. Noi non abbiamo mai fatto affari e non gli abbiamo promesso nulla. Insomma, non abbiamo un passato che ci rende difficile intervenire: coloro che vogliono salvare l’Italia da un declino mortale andranno tenuti, per altri bisogna avere il coraggio di cambiare. Punto. Sono certo che Giorgia Meloni la pensa come me».

Come spiega La Stampa, la prima decisione delicata per Giorgia Meloni riguarda il direttore generale del Tesoro, forse il più importante dei funzionari dello Stato: la maggioranza chiede all’unisono la rimozione di Alessandro Rivera, ma il ministro Giancarlo Giorgetti gli fa scudo.

Di qui a primavera per la premier si apre la stagione delle nomine: almeno settanta, per citare le più importanti. Per Meloni, prima donna e primo leader della destra alla guida del governo, sarà uno stress test di tenuta politica, dentro e fuori il palazzo. Il caso di Rivera è emblematico perché fin qui a suo favore ha prevalso la difficoltà a trovare un’alternativa valida. L’unico nome fin qui circolato per la successione a Rivera è quello di Antonino Turicchi, nel frattempo (e non a caso) scelto da Giorgetti per la presidenza di Ita.

Il passaggio successivo in ordine di tempo saranno i vertici di quattro enti pubblici: Agenzia delle Entrate, delle Dogane e del Demanio, la presidenza dell’Inps. Ernesto Maria Ruffini è uno dei pochi che potrebbe salvarsi dal gran rimescolamento.

Sono invece scontate le sostituzioni di Marcello Minenna e Alessandra Dal Verme. Il primo è considerato troppo vicino ai Cinque Stelle. Fra aprile e maggio dovrebbe scadere invece il mandato del presidente dell’Inps Pasquale Tridico, noto come il padre del reddito di cittadinanza. Anche in questo caso la sostituzione è quasi certa, salvo che per un problema non banale di forma. Tridico, voluto da Luigi Di Maio nella primavera del 2019, è rimasto quasi un anno alla guida dell’Istituto di previdenza senza consiglio di amministrazione. La legge che governa la scelta dei vertici Inps non chiarisce se il mandato scada dopo quattro anni dalla nomina, o insieme al consiglio.

Il destino di Tridico sarà uno dei termometri della forza politica di Meloni, perché la presidenza Inps non è sottoposta alla regola dello spoil system che permette al governo entrante di cambiare i vertici della pubblica amministrazione. Un caso simile è quello di Dario Scannapieco, voluto da Mario Draghi alla guida della Cassa depositi e prestiti. La poltrona di Cdp, azionista di alcune delle più grandi partecipate dello Stato, in termini di potere reale vale quattro o cinque ministeri. Se Meloni darà retta agli umori che circolano nella maggioranza, sarà sostituito.

Attorno a Pasqua verrà il momento delle nomine per le quattro grandi partecipate pubbliche: Eni, Enel, Leonardo e Poste. Per Leonardo, poi, la sostituzione di Alessandro Profumo è data per certa. E i candidati in corsa sono due. Uno è proprio l’ex ministro della Transizione energetica il quale, poco prima della nomina da parte di Draghi, era stato scelto come capo della ricerca. L’alternativa sul tavolo di Meloni (e per competenza di Crosetto) è quella di Lorenzo Mariani, che oggi guida Mbda, ovvero il più grande consorzio europeo per la produzione di missili e tecnologie per la difesa.

Stefano Feltri per editorialedomani.it il 28 dicembre 2022.

In questo paese disastrato, soltanto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella può arginare certe derive. Come quella del ministro della Difesa Guido Crosetto che, in una intervista al Messaggero, dimostra di non aver mai letto la Costituzione e di avere una idea vagamente eversiva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione. 

Secondo Crosetto, la legge di Bilancio è poco entusiasmante perché c’è stato poco tempo per lavorarci ma anche per colpa di «una classe dirigente nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica che va cambiata in profondità».

Il problema, infatti, è che «non si può pensare di fare politiche nuove e diverse se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa». 

Sorvoliamo sulla grammatica disinvolta e stiamo al senso: Crosetto dice che tutta la pubblica amministrazione dovrebbe essere politicamente allineata con il governo in carica, altrimenti l’azione dell’esecutivo è indebitamente bloccata.

Applicare questo principio nel concreto significa che dai direttori generali dei ministeri all’Inps fino agli insegnanti e ai direttori dei telegiornali Rai, tutti devono essere sostenitori di Fratelli d’Italia, allineati con la sua politica economia, propugnatori di scudi fiscali e penali, disposti a blocchi navali e nostalgici quantomeno del Movimento sociale di Giorgio Almirante. 

Poiché il governo difficilmente può scrutare nell’animo degli individui, ci vorrebbe dunque una certificazione ufficiale di questa consonanza ideologica, magari un’iscrizione formale al partito, forse perfino una divisa. Vi ricorda qualcosa? 

C’è già stato un momento storico nel quale la pubblica amministrazione funzionava nel modo che immagina Crosetto, non è finita bene, anche se di quel periodo Giorgia Meloni e i suoi criticano soltanto le leggi razziali (che sono la versione estrema della ricerca di omogeneità invocata da Crosetto).

Poi c’è stata la Resistenza ed è arrivata una Costituzione antifascista che prevede, all’articolo 97, che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione». Cioè il contrario di quello che Crosetto auspica. 

Inoltre, alla pubblica amministrazione si accede «mediante concorso» e non mediante spoils system, proprio per evitare che i criteri di scelta siano discrezionali e basati sull’affidabilità politica.

Invece del manganello, Crosetto vuole usare addirittura «il machete»: i tempi sono cambiati e richiedono soluzioni più drastiche che un tempo e assicura che «Giorgia Meloni la pensa come me». 

La gestione della legge di Bilancio ha lasciato le sue cicatrici: il governo non è riuscito ad abolire il reddito di cittadinanza, non ha introdotto una vera flat tax, non ha liberato i negozianti dal fastidio del pagamento con le carte di credito, non è riuscito a introdurre lo scudo penale per gli evasori fiscali, ha distribuito poche mance.

Serve un capro espiatorio, perché l’esecutivo non può ammettere che gran parte delle promesse fatte prima e dopo le elezioni sono economicamente assurde, inique, incompatibili con il quadro di regole europee, con la Costituzione e con il buon senso. 

Dunque, spiega oggi Crosetto, la colpa è tutta di funzionari non ideologicamente allineati, che magari hanno osato votare alle elezioni per un altro partito e dunque per questo vanno ora epurati, a prescindere dal loro lavoro.

Poiché di rado si è visto un ministro annunciare simili rappresaglie ed esternare un tale disprezzo per la Costituzione, soltanto Mattarella può richiamarlo all’ordine, con i modi garbati e laterali che gli sono propri. 

Altrimenti il governo trasformerà il suo silenzio in una benedizione, come ha già fatto in varie occasioni, e proprio per negare il conflitto di interessi di Crosetto, ex lobbista di armi diventato ministro della Difesa. Se il presidente l’ha nominato, allora il problema non c’è. 

Mattarella può rimanere silente anche di fronte al manifesto anti-costituzionale di Crosetto?

Crosetto annienta le polemiche sulla burocrazia: "Chi vuole svendere il Paese". Il Tempo il 28 dicembre 2022

L'opposizione ha alzato le barricate riguardo l'intervista rilasciata dal ministro Guido Crosetto al Messaggero, nella quale dichiara guerra all'inefficienza della macchina statale, troppo lenta per quello che vuole fare il governo per rilanciare il Paese. 

In un messaggio su Twitter il ministro ribadisce le sue parole annientando così le polemiche. "Si, confermo, ho detto che va usato il machete per tagliare le catene burocratiche che imprigionano l’Italia. Ne sono convinto. Chi cerca di far passare questa frase come irrispettosa della democrazia o violenta contro qualcuno, è chi vuole svendere il paese ad altri" ha spiegato il ministro.

Nell'intervista al Messaggero il ministro aveva usato parole forti: “Serve coraggio. Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia. Ora ci vogliono 17 anni per realizzare un’opera pubblica, dovranno diventare 4-5 al massimo. Contro chi voglio usare il machete? Contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e perdere tempo. Se non mandiamo via queste persone, facciamo un danno al Paese. Nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica c’è una classe dirigente che va cambiata in profondità. Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa”.

Da iltempo.it il 28 dicembre 2022.

Guido Crosetto dice basta. Il ministro della Difesa e fondatore di Fratelli d’Italia ha rilasciato un’intervista al Messaggero nella quale annuncia un giro di vite nei confronti della macchina statale, troppo lenta per quello che vuole fare il governo per rilanciare il Paese: “Serve coraggio. Bisogna tagliare con il machete alcune catene che bloccano lo sviluppo dell’Italia. Ora ci vogliono 17 anni per realizzare un’opera pubblica, dovranno diventare 4-5 al massimo.

Contro chi voglio usare il machete? Contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e perdere tempo. Se non mandiamo via queste persone, facciamo un danno al Paese. Nei ministeri e in ogni settore della macchina burocratica c’è una classe dirigente che va cambiata in profondità. Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa”.

Per quanto riguarda la Difesa, Crosetto sostiene che l’obiettivo del 2% del Pil non riguardi solo “investimenti militari, ma spese che comprendono anche il personale, le infrastrutture, la manutenzione. Ci siamo resi conto che potremmo avere la necessità di difenderci veramente, dunque dovremo partire dagli uomini, dall’età media dei nostri soldati, dall’organizzazione e dalla strutturazione delle nostre Forze armate. È inutile comprare una nave in più se poi non hai i marinai da metterci sopra”.

In un colloquio telefonico Volodymyr Zelensky ha chiesto a Giorgia Meloni la fornitura di sistemi di difesa aerea e Crosetto non fa alcun passo indietro sul sostegno all’Ucraina: “Non abbiamo ancora cominciato la costruzione del sesto decreto. Di certo l’Ucraina sta chiedendo da mesi un supporto contro gli attacchi aerei su obiettivi civili, case, ospedali, scuole, centrali elettriche. Se sarà possibile certamente li aiuteremo a difendersi, la Russia ha superato un confine che non doveva superare. La fornitura deve essere compatibile con la possibilità di avere queste armi e di darle a Kiev efficienti e funzionanti. Minaccia nucleare? Il pericolo - sottolinea e conclude il ministro - potenzialmente, esiste, per quanto molto improbabile”.

Antonio Giangrande: L’aspetto formale e l’aspetto sostanziale. Perché il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sbagliato. E perché chi lo difende è ignorante o in mala fede.

La lezione di chi, il dr Antonio Giangrande, non è titolato, se poi i titoli (accademici) si danno per cooptazione e conformità ed omologazione.

L’articolo 90 della Costituzione dice infatti che «Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». Spieghiamo perché è responsabile. Partiamo proprio dalla base della Costituzione italiana.

PRINCIPI FONDAMENTALI. "Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (non sulla libertà). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

Qui si enuncia il principio fondamentale che incarnano forma e sostanza. La sostanza ci dice che in Italia c’è la democrazia parlamentare (indiretta) come forma di governo e quindi ci dice che la maggioranza dei votanti (non dei cittadini che non votano più, sfiduciati dalla vecchia politica) elegge i suoi legislatori e, tramite loro, i suoi governanti (stranamente mancano i magistrati). L’esercizio del potere popolare prende forma, non sostanza, attraverso l’enunciazione di articoli costituzionali che mai possono violare il principio fondamentale. E non a caso proprio il primo articolo prende in considerazione l’aspetto democratico della vita dello Stato italiano.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA "Art. 83. Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato. L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta".

Qui si richiama forma e sostanza dell’art. 1. La sovranità popolare esprime, attraverso i suoi rappresentanti, la scelta del Presidente della Repubblica.

"Art. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse". "Il Consiglio dei Ministri. Art. 92. Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri".

L’art. 88 e 92 sono articoli formali. Norme che delegano al Presidente della Repubblica, con il ruolo di notaio, la verifica di una maggioranza parlamentare democraticamente eletta per esercitare la sovranità popolare di cui all’articolo 1: Se c'è una maggioranza si forma un Governo sostenuto da essa; se non c'è una maggioranza, non c'è Governo e quindi si va a votare per trovarne una nuova.

Si va contro l’articolo 1 (non a caso primo articolo dei principi generali) e quindi contro la Costituzione se alla volontà popolare che esprime un Governo che mira alla tutela degli interessi nazionali si impone la volontà di un singolo (il Presidente della Repubblica) che antepone qualsiasi altra ragione tra cui i principi dell’art. 10. "L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", e dell’art. art. 11. "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".

In conclusione si chiude il parere, affermando che si è concordi con l’iniziativa della messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, anche se il procedimento è complicato e farraginoso, pensato proprio a non dare esiti positivi, in ossequio ad uno Stato di impuniti. Si è concordi perché l’Italia è una Repubblica Democratica Parlamentare; non è una Repubblica Presidenziale.

Parlano i protagonisti. Premierato, l’ipocrisia della sinistra che dimentica se stessa: testimonianze e documenti a favore del “Sindaco d’Italia”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Novembre 2023

«L’elezione diretta del premier è una idea di sinistra!», scandisce Claudio Signorile. Il leader della sinistra socialista – e intellettuale dall’ascendente francese, pre-mitterandiano – ricorda il congresso di Torino del 1978. «Fu votata con le insegne del Progetto per l’Alternativa, l’alleanza tra la sinistra interna e la corrente di Bettino Craxi, che la volle lanciare con uno storico editoriale su L’Avanti! intitolato “La grande riforma”. Che era duplice, per la verità: elezione diretta del Presidente del Consiglio e rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, ma in parallelo al consolidamento delle prerogative del Parlamento». Da allora il Psi iniziò a tessere la tela del premierato forte provando a coinvolgere l’ala migliorista del Pci.

Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso furono i più sensibili all’argomento, che raggiunse l’acme nel 1989 con la candidatura alle Europee, nella lista del Pci, del politologo francese Maurice Duverger. Costituzionalista e giurista prestigioso, Duverger fu un “prestito” della sinistra d’oltralpe a quella italiana che innestò tutto il suo impegno sul rafforzamento della capacità di guida politica dell’esecutivo. Su quella base animò il Club Jean Moulin, autentico laboratorio della “Nouvelle gauche” parigina che dagli anni Sessanta in poi si impegnò nello studio di sistemi politici «meno deboli», come predicava Duverger. I comunisti italiani che lo vollero tra le loro fila nel Parlamento Europeo erano tanto affascinati dall’esito dello studio di Duverger e Georges Vedel sull’elezione diretta del capo dell’esecutivo da prenderli ad esempio ed ispirazione – due anni dopo, trasformatisi intanto nel Pds – per la legge sull’elezione diretta dei Sindaci che vide la luce nel 1993.

Un modello tanto riuscito da essere rimasto sin da allora attuale. Inscalfibile. È lo stesso protagonista di quella stagione della sinistra, Achille Occhetto, a sottolinearlo al Riformista: «C’è stato un periodo in cui subito dopo l’elezione diretta dei sindaci, su cui mi sono molto impegnato, avevo l’idea che quel modello si potesse estendere a livello del governo centrale, con l’elezione diretta del Sindaco d’Italia». La stagione della primavera dei Sindaci segnò una svolta epocale. Interruppe l’impaludamento continuo delle maggioranze municipali e portò un’ampia partecipazione civica a sostenere i candidati a sindaco che si proponevano per la prima volta al voto diretto. Occhetto tiene a fare una precisazione: «Ho sempre ritenuto che le riforme istituzionali non possono essere viste al di fuori delle situazioni politico-sociali. Da allora sono passati trent’anni in cui sono intervenuti nel contesto politico il populismo e il leaderismo. Elementi che io considero la testa del serpente della crisi politica generale. Quindi sì, ci eravamo orientati sul premierato, ma questa situazione di oggi, questo contesto, cambia la natura di quella proposta».

Premierato, la sinistra di oggi non studia la sinistra di ieri

Nella storia recente della sinistra italiana però il premierato c’è stato, eccome. Sarebbe addirittura stato al centro della fase costituente di quell’Ulivo che è stato il seme del Partito Democratico. Ce lo mette nero su bianco uno dei fondatori dell’Ulivo di Prodi. Arturo Parisi – che capeggiò I Democratici e divenne Ministro della Difesa di Prodi, ripesca il programma della coalizione di centrosinistra: rivendica un documento dal titolo “Il Governo del Primo Ministro”. Vi si legge: «Appare opportuna nel nostro Paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo Ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato». E poi, osando ancor più ambiziosamente: «Al Capo dello Stato è affidata la funzione di garante delle regole e rappresentante della unità del Paese, funzione che deve essere marcata rivedendo le modalità di elezione in modo da sottrarla alla maggioranza parlamentare pro tempore, esaminando varie possibili modalità, compresa la sua elezione diretta». Se la sinistra di oggi studiasse le carte di quella di ieri non ci sarebbe spazio per le ipocrisie.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

La riforma della destra. Quando Conte, Prodi e Letta erano per il presidenzialismo: la riforma va fatta senza tatticismi. Michele Prospero su Il Riformista il 3 Febbraio 2023

Il presidenzialismo è destinato a polarizzare le culture politiche. In attesa di uno scontro frontale, per la difesa della Costituzione, o per la sua eversione formale da troppo tempo rimandata, già si affilano le armi. Per la destra il capo solo che comanda, sciolto dai lacciuoli procedurali, è una prioritaria questione di identità. E rappresenta soprattutto un’occasione storica per rompere con l’onda divenuta anomala dell’antifascismo. Le opposizioni sono contrarie a quella che denunciano come una pericolosa deriva plebiscitaria.

Lo sono, però, più per una questione tattica che per una coerente cultura delle regole. La sinistra non è stata sempre lineare nel tema delle grandi riforme istituzionali. E se oggi contrasta una mutazione della forma di governo targata Meloni-Salvini, lo fa soprattutto per ragioni contingenti. Giuseppe Conte, che già nel 2019 vagheggiava “una legislatura costituente”, sognava il presidenzialismo per determinare un cambio “di sistema” in vista della stabilità e governabilità (intervistato da La7, nel giugno del 2021, diceva: “Tra le prime cose che farò se mi insedierò come leader io proporrò agli altri leader di ragionare su una riforma costituzionale che possa rafforzare il nostro sistema”. “Se proporrò il presidenzialismo? Non me lo faccia anticipare”. “Qui c’è un problema di sistema”), e invidiava l’esempio straniero di “capi di Stato e di governo che rimangono in carica per decenni” (La Stampa, novembre 2021).

La sua presenza al “Natale dei conservatori” di Atreju nel 2021 fu letta proprio come una chiara manifestazione di disponibilità verso i disegni meloniani di modifica istituzionale. Il leader del Movimento, per la verità, in un’intervista apparsa sull’edizione veneta del Corriere della sera (agosto 2022), mostrava anche delle aperture all’altro cavallo di battaglia costituzionale della coalizione di destra radicale poi insediatasi al governo, l’autonomia differenziata (“ritengo che l’autonomia richiesta dai cittadini veneti sia un’istanza legittima”): i suoi rimpianti, infatti, erano per “l’opportunità di realizzare l’autonomia” sfumata ai tempi del Conte I, quando il progetto di riforma “scritto nel programma comune” naufragò tra i balli del Papeete.

Su queste tematiche, però, andrebbero banditi i tatticismi e le palinodie. In attesa che la battaglia si scaldi, si avvertono già i primi riposizionamenti. Non giova molto alla causa di un serio dibattito istituzionale il ricorso a ricostruzioni di comodo, suscettibili peraltro di una facile smentita con una semplice verifica delle cronache del decennio. In un recente colloquio con La Stampa (26 gennaio) Romano Prodi sceglie la parte giusta della contesa (“sono un anti-presidenzialista totale”), ma si concede delle amnesie che non sono tollerabili in un confronto delle idee. Il “parlamentarista convinto”, che a ragione guarda “con molta preoccupazione” alle pericolose riforme della destra, omette un elemento importante della sua recente parabola politica. Con un’intervista al Messaggero del 30 maggio 2013 egli scatenò un accanito dibattito a sinistra. Prodi auspicava “un governo forte e stabile”, con una maggioranza “finalmente in grado di prendere decisioni”.

La ricetta magica, per garantire appieno continuità d’azione agli esecutivi, era proprio quella di inghiottire la “medicina francese” che oggi il fondatore dell’Ulivo opportunamente stigmatizza. Per non lasciare incertezze interpretative circa il suo orientamento costituzionale, Prodi precisava: “Non vi è dubbio che il sistema più adatto per ottenere questo obiettivo sia il doppio turno alla francese, semipresidenzialismo compreso”. L’idea era quella di inseguire il governo di legislatura secondo l‘argomento per cui il mandato elettorale, senza più il pericolo di agguati trasformisti, deve risolvere l’enigma della governabilità. Poco importa che il regime politico più stabile sia quello parlamentare tedesco e che in Francia, oltre all’iper-presidenzialismo (coincidenza cromatica tra maggioranza parlamentare e inquilino dell’Eliseo), si registrino casi di coabitazione (presenza di un presidente e di un primo ministro di colori politici diversi) e il nullismo attuale (Presidente della Repubblica come capo solitario, senza una maggioranza stabile in Assemblea nazionale).

Secondo Prodi, che era stato appena travolto dalla carica dei 101, era indispensabile “un forte accentramento di potere nelle mani del vincitore delle elezioni, almeno come ora avviene nel caso dei sindaci o, ancora di più, nella persona del presidente della Repubblica, come in Francia”. Alle obiezioni circa i pericoli di una verticalizzazione del potere personale il leader ferito ribatteva senza remore: “Non solo questo non mi fa paura ma penso che sia l’unica via di salvezza per un Paese che, come l’Italia, ha bisogno di prendere, nel rispetto della volontà degli elettori, le decisioni necessarie per farla uscire dalla ormai troppo lunga paralisi”. Mentre Rosy Bindi si dichiarò “addolorata in modo particolare” per la fuga prodiana in un territorio ostile al paradigma parlamentare del cattolicesimo democratico (Dossetti, Elia, Ruffilli), il politologo Parisi rilanciò lo stampino semipresidenzialista come una condizione essenziale per il mantenimento del paradiso bipolare distrutto dagli elettori.

Lo stesso presidente del Consiglio dell’epoca, Letta, appoggiò i tentativi di svolta costituzionale (“assegnare l’elezione del presidente della Repubblica a mille persone non è più possibile”). Anche se si era espresso a favore del modello francese in maniera – secondo i prodiani – sin troppo felpata, Letta ammirava i muscoli del presidente eletto direttamente dal popolo. Nel dibattito di allora a segnare una certa distanza dal semipresidenzialismo di Prodi figuravano D’Alema, Zanda e Cuperlo. Proprio contro quest’ultimo, all’epoca candidato alle primarie in competizione con Renzi, si scagliò l’area prodiana squadrandolo come un vetusto garante degli equilibri del passato. Elly Schlein, che contro i franchi tiratori del Professore aveva occupato le sedi del Pd, disse che “la vera sfida è tra Renzi e Civati perché sanno parlare non soltanto alla platea degli iscritti ma a tutti gli elettori” e “Cuperlo è in totale continuità con il gruppo dirigente che ha portato questo partito al disastro”.

In risposta al tentativo bersaniano, ormai naufragato, di ricostruire la forma-partito, Prodi a fine anno si ripresentò inaspettatamente per votare alle primarie. Anche Veltroni, in nome della purezza renziana (per lui il sindaco toscano incarnava la migliore “espressione della sinistra moderna”), si infastidiva per “la sarabanda di adesioni” che, dopo il fresco sostegno al fiorentino da parte di Bassolino e Franceschini, risuonava per tutta Italia. E, in nome della “società che si è fatta veloce”, rigettava l’idea di un partito strutturato (“i partiti forti non esistono in nessuna parte del mondo”), maltrattava la forma di governo disegnata dai costituenti come capolavoro di “lentezza e farraginosità” e apriva al semipresidenzialismo per restituire ai cittadini “molti degli scettri confiscati dai partiti”. Veltroni scolpiva questa sua ricetta istituzionale in un libro uscito proprio in quei mesi del 2013, E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei. Se il Pd intende davvero contrastare i rischi di un presidenzialismo agognato dalla destra come occasione storica di rivincita e cesura della continuità repubblicana, dovrebbe fare i conti una volta per tutte con le suggestioni nuoviste.

I disturbi della memoria, che inducono Prodi a rivendicare un “totale” anti-presidenzialismo, non aiutano alla chiarezza. Non serve una strumentale polemica contro l’elezione diretta del capo dello Stato solo perché arma ideologica della destra radicale. È necessaria, piuttosto, una forte e costruttiva cultura della rappresentanza e del parlamentarismo per correggere scorciatoie che la stessa sinistra ha enfatizzato e impedire una catastrofica torsione delle istituzioni repubblicane. Il Pd dovrebbe ripensare se stesso, il proprio modello di organizzazione, in coerenza con la struttura mediata della democrazia italiana. La resistenza alle velleità della destra di travolgere il fondamento parlamentare della Repubblica, per essere realmente convincente, deve accompagnarsi ad una ricostruzione della cultura politica, ad una riprogettazione del soggetto politico.

Quello che Veltroni chiamava “il partito lieve” non poteva che evolvere verso una formazione civica, priva di radicamento, nervatura organizzativa, legame con i ceti operai e popolari. La difesa dell’architettura costituzionale, per essere efficace, deve marciare insieme alla ricostruzione del partito. Nel vuoto della soggettività politica organizzata, nell’evanescenza del sindacato, nel deserto del dibattito pubblico umiliato dalla deriva nichilistica e grottesca della telepolitica delle reti statali, la repubblica si ritrova pericolosamente senza un solido fondamento. Non si smaschera il volto illiberale della destra con questi partiti e con culture politiche che all’analisi preferiscono l’arte leggera della rimozione e del ritocco delle vicende personali.

Michele Prospero

Ma davvero volete fare a meno di uno come Mattarella? Presidenzialismo, quali sono i modelli, i problemi e le soluzioni della proposta di cui si discute. Renato Mannheimer su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

Il “presidenzialismo”, di cui ha parlato ripetutamente il primo ministro Meloni, è stato sin qui presentato in modo vago (forse necessariamente, in attesa di un serio dibattito tra i partiti) e comunque impreciso. Ma anche se si cerca di definirlo meglio, rassomiglia spesso alla quadratura del cerchio. Sulla base di quanto è stato annunciato sino ad oggi, pare che si voglia soprattutto in qualche modo ridimensionare il ruolo del Parlamento – che nei sistemi parlamentari dà vita e esistenza al governo – creando un legame diretto del “capo dell’esecutivo” con il popolo (meglio dire: il corpo elettorale). Di qui scaturiscono due opzioni. 

A) Fare del Presidente della Repubblica il capo dell’esecutivo grazie all’elezione diretta – eleggerlo direttamente come in Austria senza dargli le competenze di primo ministro sarebbe solo much ado about nothing, molto rumore per nulla. Oppure B) Introdurre l’elezione diretta del primo ministro. La terza ipotesi, quella pare più gettonata nella vaghezza delle proposte, il cd. semipresidenzialismo francese della riforma costituzionale del 1962, non è né l’una né l’altra cosa, ma su questo torniamo tra breve. L’opzione A), come è stato sottolineato da quasi tutti i commentatori, ha il grave svantaggio di privare il nostro sistema politico costituzionale di un arbitro super partes (eletto dal Parlamento) come il Presidente della Repubblica, la cui importanza e necessità è stata apprezzata dall’insieme dei partiti politici negli ultimi anni.

Infatti, un presidente e capo dell’esecutivo eletto, come mostrano con chiarezza i casi di presidenti degli Stati Uniti, della Repubblica di Weimar e di quella francese dal 1962 in poi, viene scelto inevitabilmente dopo una campagna elettorale in cui si oppongono visioni e politiche di parte, come è necessario che sia per un soggetto politico che dovrà essere a capo del governo del paese e non arbitro. Sicché le inevitabili dichiarazioni in base alle quali l’eletto si proclamerà rappresentante di tutto il popolo sono poco più che retorica. La conseguenza di una tale opzione è che il sistema costituzionale si priverà di una figura che, come i nostri Presidenti di elezione parlamentare, può svolgere un ruolo di arbitro super partes e di difensore dell’ordinamento costituzionale, che non può essere quello del leader di una parte politica che peraltro legittimamente governa il paese in ogni sistema rappresentativo.

L’opzione B) va incontro ad un altro ostacolo. Se si immagina l’elezione diretta del primo ministro (come si dice con una superficiale approssimazione: il sindaco d’Italia – la quale però ha caratteristiche molto diverse da un comune) si crea una condizione di difficile coabitazione ed equilibrio fra il ruolo del primo ministro e quello del Presidente della Repubblica, che manterrebbe comunque il suo posto, poiché il primo può sempre far valere la sua legittimità popolare (detta democratica) che scaturisce dall’elezione diretta, di cui sarebbe invece privo il Capo dello Stato.

Il sistema della V Repubblica francese è in realtà un misto inedito (con l’eccezione, non fortunatissima, della Repubblica di Weimar) e realizzatosi in due tempi, fra la costituzione parlamentare francese del 1958 e l’emendamento voluto da De Gaulle nel 1962, che introduceva l’elezione diretta del capo dello stato.

In teoria, o meglio in base al dettato costituzionale, in Francia il primo ministro è il titolare dell’indirizzo politico (art. 21) ed è in ogni caso responsabile dinanzi all’Assemblée Nationale, che può sempre votargli la sfiducia. Il presidente eletto è, a sua volta, nei fatti, il capo dell’esecutivo e il titolare dell’indirizzo politico, ma solo se controlla una maggioranza nella camera dei rappresentanti, designata con una elezione separata e con una diversa legge elettorale. Egli può perdere questa prerogativa in caso di coabitazione (quando cioè, come è accaduto varie volte, la maggioranza dell’Assemblée non è dello stesso colore di quella che ha eletto il presidente). Ma anche nel caso, come quello presente, in cui le forze politiche che si riconoscono nel presidente, non hanno che una maggioranza relativa e devono provare a governare con la formula di un governo di minoranza e difficili compromessi con l’opposizione. Sicché tutto quello che il modello francese del 1962 garantisce è semplicemente la durata del mandato presidenziale, non quella del governo e del primo ministro e la capacità di quest’ultimo di governare il paese.

I riformatori dovrebbero dunque esplicitare con maggiore chiarezza qual è il problema che la riforma costituzionale sarebbe in realtà chiamata a risolvere. A chi scrive, in linea con il famoso e sempre citato ordine del giorno Perassi, sembra che il problema sia soprattutto quello della fragilità dei governi, che deriva innanzitutto dalla frammentazione del sistema dei partiti e dalla debolezza delle competenze del primo ministro. Al secondo problema si può porre rimedio, senza eliminare la funzione arbitrale del Presidente della Repubblica e senza inventarsi la via israeliana del primo ministro eletto direttamente, attraverso il rafforzamento delle competenze del primo ministro – come ha chiaramente indicato Andrea Manzella (sul Corriere della Sera del 21 ottobre). Per quanto riguarda la frammentazione del sistema dei partiti (un problema che esiste ormai in quasi tutti i regimi politici dell’Europa occidentale – compresa la Germania) conta – ma solo fino ad un certo punto – la legge elettorale. I tentativi di modificarla, fatti nel nostro paese dal 1994 in poi, non sono durati e non hanno dato risultati granché positivi quanto alla riduzione dl numero dei partiti. Ma è comunque una questione non solo necessariamente connessa a quella della revisione della forma di governo, ma anche particolarmente complessa, sulla quale bisognerà ritornare. Renato Mannheimer

L’astensionismo volontario.

L’astensionismo involontario.

L’astensionismo volontario.

Antonio Giangrande: E la chiamano democrazia…

Diciamo che ogni leader politico è portatore sano di minchiate, la cui vita scorre al di fuori del mondo reale ed il cui sostegno popolare è misurato in percentuale.

Il percento in relazione a che? Se la metà degli aventi diritto non vota; della metà che vota togliamo le schede bianche o nulle; da quel che resta togliamo i voti di protesta dati al Movimento 5 Stelle.

A questo punto la percentuale si dimezza.

Allora penso e dico: gli eletti in Parlamento li votano solo i giornalisti partigiani che li reclamizzano nei talk show e tutti coloro che hanno avuto favori con il voto di scambio!

Mal comune mezzo gaudio?

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 28 giugno 2021. Riemerge in Francia, inesorabile, quel divario destra-sinistra che Emmanuel Macron aveva ormai dato come finito, per lui riflesso anacronistico di un passato lontano. Ieri, in Francia, al secondo turno delle regionali, la destra classica e neogollista (e non lepenista) si è imposta definitivamente in sette delle tredici regioni, mentre in altre cinque ha prevalso la sinistra (ogni volta rappresentata, nella persona del futuro governatore, da un esponente di quel Partito socialista, che pure da anni vive una profonda crisi). Certo, pesa su queste regionali il macigno dell'astensionismo, praticamente lo stesso del primo turno: ieri non è andato a votare il 65,7% dei francesi.

Antonio Giangrande: "C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma.

Antonio Giangrande: Nelle elezioni, nel valutare correttamente i risultati effettivi della singola lista, bisogna tener conto:

del numero degli aventi diritto al voto,

meno il numero di chi non ha votato,

meno il numero delle schede bianche,

meno il numero delle schede nulle, che spesso contengono imprecazioni,

meno il voto di protesta dato al Movimento Cinque Stelle o altri movimenti di protesta.

Il numero così ottenuto è la base su cui calcolare la percentuale di voti ottenuta, che è molto diversa da quella che ci propinano i media e certo, tale cifra, non è indicativa di rappresentanza democratica.

Nelle elezioni, nel valutare correttamente i risultati effettivi del singolo/a candidato/a, bisogna tener conto del voto di preferenza:

Ad ogni candidato/a, in virtù della doppia preferenza di genere e del voto disgiunto, gli verranno assegnati voti effettivamente non ricevuti personalmente, ma frutto di accordi tra candidati di sesso diverso (spesso con più candidati, tradendone la reciprocità). In questo caso un candidato inetto e malvisto, in virtù dell’italica furbizia, può essere plebiscitariamente votato, ma con voti non suoi. Questo in sfregio alla democrazia.

Antonio Giangrande: A chi votare?

Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.

Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).

A costui si deve rispondere:

Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?

I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.

Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.

La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.

Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.

Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.

Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.

Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.

E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.

L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.

Quindi io non voto.

Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.

Se nessuno votasse?

In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…

Antonio Giangrande: PD, 40% di che? Le elezioni e la vittoria del partito della protesta. Come i media manipolano la realtà.

Italia. Ha vinto il partito del “non voto”. Monta la protesta, ma i giornalisti la censurano.

Prendiamo per esempio le elezioni dei parlamentari europei del 25 maggio 2014. Dati ufficiali definitivi del Ministero dell’Interno tratti da suo portale. Affluenza:

6-7 giugno 2009 Italia+Estero 65,05%, Italia 66,46%;

25 maggio 2014 Italia+Estero 57,22%, Italia 58,68%;

Quindi si deduce che il partito del “non voto” si attesta in quest’ordine:

Italia + estero astenuti 21.671.202 ossia il 42,78%;

Italia astenuti 20.348.165 ossia il 41,32%;

Questo è il dato nazionale. Più eclatante e sintomatico se si tiene conto dei risultati nell’Italia meridionale, più incazzata verso questa politica qualunquista ed inconcludente. Spesso, corrotta.

Sardegna astenuti 58%

Sicilia astenuti 57,12%

Calabria astenuti 54,24

Puglia astenuti 48,48

Basilicata astenuti 50,44

Campania astenuti 48,92

A questi elettori astenuti bisogna aggiungere un altro milione e mezzo di elettori che hanno deciso di mandare “affanculo” i nostri politici direttamente nelle urne.

Schede bianche 577.856 1,99%;

Schede nulle 954.718 3,30%;

In tutto “i non voto” italiani sono il 47,29 %.

In più vi è quella parte che vede nel Movimento 5 Stelle il collettore ideale della loro protesta. 5.807.362, 21,15% Italia+estero, Italia 5.792.865, 21,16%.

In definitiva 22 milioni di italiani hanno deciso di protestare con il sistema del non voto, che i denigratori chiamano astensione.

Che diventano 29 milioni se si sommano a chi della protesta ne ha fatto un movimento. Movimento che non rappresenta tutte le aspettative della totalità dei protestanti, perché troppo giustizialista o violento verbalmente o troppo volto a sinistra. O perché si arroga il diritto di essere l’unico “partito degli onesti” di stampo dipietrista.

Tutta questa astensione mal¬grado il traino delle ammi¬ni¬stra¬tive in quasi 4000 comuni e in due Regioni, l’Abruzzo e il Pie¬monte. Amministrative dove spesso e volentieri tutte le famiglie, (con parenti candidati) sono costrette ad andare a votare.

Da tener conto anche dell’exploit della Lega che, esportando in Europa la sua politica secessionista, ha tirato voti, nella prospettiva di far venir fuori l’Italia dall’Euro, tralasciando per il momento la sua battaglia di far venir fuori la Padania dall’Italia.

Bisogna che si capisca e farlo capire agli italiani ignari e corrotti da questa stampa, galoppina del Potere, che 29.011.138 di italiani si non rotti il cazzo di questi politici, delle loro ideologie e dei magistrati che li proteggono. (L’intercalare rende l’idea). Politici cooptati e nominati dalla nomenclatura tra i peggio. Lontani dai bisogni della gente ed ignari della realtà quotidiana di malati, disoccupati, carcerati, ecc…..

Il tanto decantato Renzi e il Pd, con il suo 40%, ha preso solo 11.172.861 voti in Italia o 11.203.231 + estero.

Insomma. In definitiva Renzi ed il Pd ha preso in effetti il 22%. Ossia solo 2 italiani su 10 lo hanno votato. E questo anche perché con i rossi non c’è protesta che tenga. Il loro voto ed il loro sostegno al partito non lo fanno mai mancare. Anche con candidati impresentabili. Addirittura alle prime ore delle aperture dei seggi, sia mai che arrivi la morte ad impedire quello che loro chiamano “senso civico”. E questo i presidenti di seggio lo sanno bene.

Ciononostante il giorno dopo della tornata elettorale ogni giornale o tg mistifica la realtà e porta l’acqua al mulino del partito di riferimento. E dato che sono tutti politicizzati, i giornalisti commentano la vittoria (inesistente) della loro parte politica o ne limitano da debacle.

Checche se ne dica: più di Grillo, più di Berlusconi, più di Alfano, più della Meloni, più di Salvini, più dei seguaci del greco Tsipras, più del prodigioso e mediatico Pd di Renzi, con un’affluenza in Italia al 57 per cento, 8 punti in meno rispetto al 65 del 2009, il partito più forte in Italia è il partito della protesta, ossia del “non voto”.

E’ strano, però, che nessuno ne renda conto e, cosa più importante, che i politici non se ne rendano conto.

Anzi, errata corrige. Ognuno di noi, “ cittadini onesti ed immacolati” e ognuno di loro, “politici corrotti ed incapaci”, ha una spiegazione: "Uno Stato di coglioni...", commenta stizzito Emanuele Cozzolino del M5S. Commento che è fatto proprio da tutti gli schieramenti, rivolto verso chi non ha votato per la loro parte politica. Questo commento è fatto proprio anche da parte dei “Non votanti”, coacervo anarchico di idee confuse che si limita a protestare, senza proporre. Incapaci di aggregarsi tra loro o con gli altri per il sol fatto di essere composto da sedicenti prime donne. Se qualcuno di loro, poi, presenta la proposta e si candida ad attuarla, vien tacciato di essere come gli altri: “corrotto ed incapace”. In questo modo tarpandogli le ali.

Che alla fine abbia ragione Cozzolino? Con questi italiani ignavi (coglioni) non cambierà mai nulla? Si deve arrivare alla fame per dar vita alla rivoluzione?

Antonio Giangrande: IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.

50% circa di astensione al voto; 5% circa di schede bianche o nulle; 25% di voti di protesta e non di proposta ai 5Stelle. Solo il 20% di voti validi (forse voti di scambio). Chi governa ha solo un elettore su 10 che lo ha scelto e si vanta pure di aver vinto. Che cazzo di democrazia è?

Elezioni 2015. Il partito invisibile, scrive Alberto Puliafito, direttore responsabile di "Blogo.it" e Carlo Gubitosa su “Polis Blog”. Un viaggio nel mondo di tutti coloro che non vengono raccontati dalla comunicazione politica, che non vengono rappresentati, che non votano. Dopo il voto regionale, la comunicazione politica si è concentrata, come al solito, su "chi vince". E hanno vinto tutti, chi per un motivo chi per l'altro. Noi, per un primo commento, ci siamo concentrati su chi ha perso. E fra i motivi della sconfitta annoveravamo l'impressionante tasso di astensionismo. I dati che proponiamo qui, grazie al lavoro di Carlo Gubitosa, dovrebbero, secondo chi scrive, essere pubblicati ovunque. Il giornalismo dovrebbe, una volta per tutte, dedicare i propri titoli alle rappresentazioni numeriche realistiche della situazione della rappresentanza politica in Italia, invece di rincorrere le dichiarazioni di Renzi, Grillo, Salvini o altri. Guardare quelle fette grigie di non rappresentati fa rabbrividire ma è necessario per impostare una narrazione giornalistica corretta. Questo è vero data journalism. Per i partiti contano i propri voti, per la politica contano solo i voti validi, per il ministero dell'interno contano solo gli elettori. E se invece provassimo a contare le persone? I grafici che nessuna formazione politica vorrà mai mostrarvi rivelano il peso numerico della "maggioranza invisibile", quella che non può, non vuole o non sa indicare una rappresentanza nelle urne. Sono gli astensionisti, i delusi dalla politica, ma anche gli stranieri e i minori, una fetta di popolazione che diventa “invisibile” nei sondaggi, nel dibattito politico e nelle analisi post-voto. Abbiamo provato ad analizzare i dati ufficiali del voto alle regionali incrociandoli con i numeri dell’ISTAT e aggiungendoci una semplice curiosità di partenza: scoprire cosa succede se oltre ai SEGGI ASSEGNATI e ai VOTI VALIDI misurati dalle percentuali iniziamo a contare anche i VOTI TOTALI (includendo anche chi ha votato scheda bianca, nulla o annullata), il NUMERO TOTALE DI ELETTORI (includendo anche chi è stato a casa), e anche il NUMERO TOTALE DI RESIDENTI, stranieri inclusi (per contare anche chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche senza esercitare il diritto di voto).

La Campania e il partito della scheda bianca. Nel disinteresse generale (tanto le poltrone si sono già spartite) a ben quattro giorni dal voto arrivano i dati definitivi della Campania, dove chi conta le persone e non le poltrone registra 170mila tra schede bianche e nulle, un partito che vale il 7% dei voti validi, ben più del valore previsto dal sistema elettorale campano come soglia di sbarramento per le liste. Potremmo chiederci se questo 7% di Campani è composto da quella gente egoista, pigra e disinteressata alla cosa pubblica descritta dai partiti che fomentano l'astensionismo per poi demonizzare chi lo pratica, o più semplicemente si tratta di persone a cui è negata rappresentanza politica e quel minimo di alfabetizzazione necessaria a non farsi annullare la scheda.

Il Veneto e il suo invisibile "partito migrante". In Veneto il dato di rilievo è il "partito dei senza voto", quel 21,9% di persone che pur vivendo in quella regione non può votare perché non ne ha ancora il diritto o perché essendo straniero quel diritto non ce l'ha mai avuto. Un blocco di elettori pressoché equivalente al 22,9% di astensionisti, a sua volta speculare al 22,9% di Salviniani, dove la componente migrante pesa per il 12,4% della popolazione residente, più del consenso raccolto dal PD che in questa regione si ferma al 12,1%. Il dibattito politico ci mostra a seconda degli schieramenti il ritratto di una regione Leghista, o di una regione dove trionfa il disimpegno e l'astensionismo, ma nessuna delle "fotografie politiche" mostrate dai mezzi di comunicazione di massa si allarga ai dati sull'intero insieme della popolazione, per mostrare la fotografia di una regione dove un veneto su cinque non può esprimere rappresentanza politica, e il 12,4% della popolazione residente con tutta probabilità sarebbe ben contento di prendere le distanze sia dal blocco leghista che da quello astensionista, esprimendo un "voto migrante" che molti temono, qualcuno auspica, ma nessuno si decide a garantire.

Elezioni comunali 2015, l’Italia senza quorum: ecco i paesi allergici alle urne, scrive “Il fatto Quotidiano”. A Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. A Platì e San Luca, due centri reggini sciolti per mafia vince l'astensione: non si presentano candidati, figurarsi gli elettori. Nel Vibonese, a Spilinga, solo uno su dieci va a votare. E il sindaco non viene eletto. C’è un’Italia senza quorum. Mentre si affastellano analisi e reazioni sul dopo voto un piccolo pezzo di Paese ha preso il largo dalla politica. Sono i cittadini di piccoli e medi comuni che nel diniego dell’urna hanno ingrossato il dato dell’astensione, fino a produrre risultati emblematici e paradossali.

Il disgusto che porta a non andare più a votare. L'astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali. E colpisce anche le regioni rosse, ma sono sempre di più quelli che ritengono la politica italiana impotente e incapace di risolvere i problemi. Mentre i flussi elettorali spiegano che i travasi di voti tra i partiti sono limitati. Il vero vincitore delle elezioni regionali 2015 è stata l’astensione, scrive Alessandro D’Amato su Next Quotidiano”. Su quasi 19 milioni di elettori chiamati alle urne, appena il 45%, 8 milioni e mezzo, ha espresso un voto valido ad una lista; oltre 9 milioni, il 48%, si sono astenuti. E la tendenza al non voto diventa sempre più impressionante nella crescita dei numeri, e comincia a colpire anche le aree più affezionate al rito elettorale.

Vince l’astensione: siamo noi giovani a non votare più. Il partito dell'astensione cresce a ogni elezione di più. Ma è un problema che va affrontato, perché riguarda soprattutto i più giovani. Troppo lontani dalla politica, scrive Michele Azzu su "Fan Page". “Il vero vincitore è l’astensionismo”, anche a queste elezioni regionali ripeteremo questa solita frase fatta per chissà quanto tempo. Frase che, elezione dopo elezione, sembra sempre più veritiera. Alle elezioni regionali di Veneto, Campania, Marche, Umbria, Toscana, Puglia, Liguria ha votato solo il 51.4 per cento degli aventi diritto. Nel 2010 era il 64 per cento: si sono persi il 10 per cento di voti. Una persona su due non ha votato, e questa volta non è stato certo per colpa del bel tempo e delle gite di primavera: nel fine settimana ha piovuto in quasi tutto il paese. È un dato che fa spavento. Confrontiamolo coi dati delle più recenti votazioni del nostro paese. Lo scorso novembre si votava alle regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche in quel caso l’affluenza al voto fu bassissima: in Emilia Romagna votò il 37.7 per cento contro il 68 delle elezioni precedenti, e contro il 70 per cento delle europee di solo sei mesi prima. Sono 30 punti percentuali in meno. In Calabria a votare furono il 43.8 per cento degli aventi diritto contro il 59 per cento del 2010 (15 per cento in meno). Alle scorse elezioni europee, invece, l’affluenza fu più alta: circa il 60 per cento degli aventi diritto. E alle scorse elezioni politiche? Quelle del giugno 2013, in cui vinse per un soffio il PD guidato da Pierluigi Bersani che poi però non andò mai al governo. In quell’occasione, votò il 55 per cento degli elettori rispetto al 62.6 per cento di cinque anni prima, nel 2008. Le elezioni hanno ormai imparato a convivere con alti tassi di astensionismo. E allora, se va così dappertutto, forse è un segno dei tempi. Chi non vota rinuncia coscientemente a un proprio diritto – dirà qualcuno – e allora perché porsi il problema?

Votano pochi anche in Germania. In Italia non si vota per disgusto, in Germania per noia, scrive Roberto Giardina su “Italia Oggi”. Perché preoccuparsi dell'astensione di domenica scorsa in Italia? Avviene così altrove, perfino in Germania. Metà dei votanti è rimasta a casa? Claudio Velardi cita la Baviera, ma, per la verità, qui in Germania, all'ultimo appuntamento elettorale, l'astensione si è fermata al 46%. Comunque è vero, a casa della Merkel gli elettori sono sempre più pigri, nelle elezioni dei Länder, le regioni, si continua a calare, sfiorando il 50%. Soltanto che qui ci si preoccupa della pigrizia elettorale. I nostri politici fanno finta di niente. Ma le cause sono diverse: i tedeschi disertano le urne per noia, gli italiani, temo, per disgusto e rassegnazione.

I GRILLINI CANTANO VITTORIA. MA ANCHE LORO FAREBBERO BENE A CHIEDERSI PER CHI SUONA LA CAMPANA, scrive Antonio de Martini su “Il Corriere della Collera”. Un lettore mi ha scritto ripetutamente invitandomi a commentare la vittoria del movimento cinque stelle alle recenti elezioni. Turani nel suo giornale presenta questi numeri:

1) Alle elezioni politiche del 2013 , nelle stesse sette regioni in cui si è votato, il movimento cinque stelle raccolse 3.274.571 suffragi.

2) Alle elezioni Europee del 2014 , sempre nelle stesse regioni, gli elettori scesero a 2.211.384.

3) Alle regionali appena trascorse i votanti 5 stelle sono stati 1.320.885.

Sempre che la matematica non sia diventata di parte anch’essa, il movimento 5 stelle non ha avuto un successo, ma una perdita di votanti che si sono dimezzati rispetto alla prima apparizione sulla scena politica. Molti cittadini cercano di illudersi e vedere in “ogni villan che parteggiando viene ” il messia salvatore che rimetta le cose a posto senza che ci si scomodi più di tanto. Un voto, una richiesta di favori e via….Ebbene, non è così. Non è più così. La tendenza chiara ogni giorno di più è che dal 1976 in poi la sola cifra in crescita alle elezioni è quella dei cittadini che si rifiutano di essere presi in giro da questi ladri di Pisa che di giorno litigano e di notte rubano assieme. I cittadini che si astengono dal voto e di cui tutti fingono di non capirne le motivazioni. Il Cardinale Siri ( arcivescovo di Genova, città che si appresta a subire l’ennesima delusione) – mi dicono – ebbe un bon mot: ” esiste personale politico di due tipi: quelli che rubano per fare politica e quelli che fanno politica per rubare. Da un po' vedo in giro solo questi ultimi”. Appunto. Arrestarli? Inutile. Sono più numerosi dei carabinieri e in costante crescita. Per uscire da questo maleolente pantano è necessario che tutti i cittadini – dopo aver fatto il proprio dovere – decidano di esercitare i loro diritti costituzionali partecipando alla vita nazionale in forma attiva, propositiva e continuativa. Ad ogni livello. Fino a che aspetteremo il “deus ex machina”, la “rigenerazione” ed altre minchiate consimili resteremo dove siamo. Tra tutte le soluzioni miracolistiche proposte, quella di far governare l’Italia da un gruppo di giovani somari è la più stravagante. I dirigenti della Nuova Repubblica dovranno essere selezionati uno a uno in base al sapere, all‘esperienza e sopratutto al carattere. Oggi si scelgono in base alla fedeltà, l’ignoranza e alla disponibilità al compromesso. La politica delle etichette (delle camicie, dei distintivi ecc) si addice ai prodotti commerciali, non alle persone.

L'utopia dell'onestà e la demagogia della proposta politica irrealizzabile, presentata come panacea di tutti i mali, sono le prese per il culo che il cittadino non tollera più.

Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”.

Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all'insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta - ma evidentemente non lo farà - è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia.

La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

Libertà è partecipazione. Il crescente astensionismo involontario che indebolisce le democrazie. Danilo Broggi su L'Inkiesta il 18 Maggio 2023.

In Italia l’affluenza delle elezioni del 2022 non è stata mai così bassa, in Nigeria lo stesso. Un fenomeno globale dovuto a diversi fattori, tra cui il gerrymandering e la sfiducia nelle istituzioni, che rischia di disaffezionare i cittadini alla politica

Nelle recenti elezioni in Nigeria, l’affluenza alle urne è stata la più bassa dall’Indipendenza (1960). Appena nove milioni di persone hanno votato per il presidente eletto Bola Tinubu che ora governerà 220 milioni di nigeriani. Dati che collocano la Nigeria tra i dieci paesi con l’affluenza alle urne più basse al mondo (in compagnia di Algeria, Egitto, Giordania, Venezuela e Romania). Il Ruanda si contende invece con la Guinea Equatoriale il primato della più alta affluenza: oltre il 98 per cento. (dati International for Democracy and Electoral Assistance; I-IDEA). Ma questi numeri a loro volta andrebbero visti al netto di varie forme di irregolarità: brogli, pratiche sleali di registrazione al voto, procedure di conteggio improprie, assenza di reale competizione democratica, candidati ai quali è stato impedito di presentarsi e altre svariate situazioni di natura più tecnica che vanno a compromettere – anche pesantemente – il significato della alta o scarsa affluenza al voto. 

Il cosiddetto gerrymandering, per esempio, è la pratica di disegnare e ridisegnare i collegi elettorali in modo da discriminare il peso degli elettori o per razza e/o per livello di concentrazione (urbana o rurale) o per altri fattori al fine di drogare l’effetto del voto fino al punto di creare una situazione in cui i voti non contano e in cui chi riceve meno voti ottiene più seggi. Come accadde negli Stati Uniti nel 2016, quando i democratici in corsa per la Camera dei Rappresentanti hanno ricevuto 1,4 milioni di voti in più dei repubblicani, che però si sono assicurati 33 seggi in più (107).

Questioni complesse ma tali da far mettere in evidenza da vari osservatori (The New York Times, settembre 2022) come il Senato americano abbia un pesante pro-Republican bias che dovrebbe peraltro durare nel prossimo futuro. Elementi ben messi in luce da Carol Anderson nel suo libro “One person, No vote” pubblicato nel 2018, e dagli autori Steven Levitsky e Daniel Ziblatt entrambi docenti di scienze politiche ad Harvard, “How Democracies died” pubblicato nello stesso anno, giusto per citare due esempi tra i tanti.

Nelle elezioni Presidenziali statunitensi del 2020 l’affluenza è stata ben più alta che in precedenza (di ben sette punti percentuali rispetto al 2016) con circa 160 milioni di elettori che si son espressi su 240 milioni. Nel paese, oltre al fenomeno del gerrymandering, altra questione oggetto di dispute è il voto anticipato (early-voting) che può essere fatto via posta (mail-in) o di persona ma anticipatamente: quasi 35 milioni si sono recati alle urne di persona e oltre 63 milioni invece hanno invece votato per posta prima del fatidico 3 novembre (dati: US Electoral Project Università della Florida). Questa pratica si chiama absentee ballot e permette alle persone che non si trovano nella città di residenza il giorno delle elezioni, di votare richiedendo la scheda elettorale senza bisogno di fornire particolari giustificazioni. Il metodo risale al periodo della Guerra Civile, quando i soldati al fronte non potevano fare ritorno a casa per votare.

Attualmente, quattordici paesi in Europa offrono l’opportunità del voto postale ai propri elettori. In otto di questi paesi, è permesso a tutti gli elettori e in sei solo a determinate categorie. Il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Spagna sono tra i principali Stati che consentono il voto mail-in. In Svizzera, i voti postali rappresentano il 90 per cento di tutti i voti nel paese (Dipartimento di Informatica-Università di Zurigo): a tutti gli elettori aventi diritto vengono inviate schede, che possono inviare per posta o portare alle cabine elettorali, settimane prima delle elezioni. 

Ovviamente c’è chi ritiene che tale modalità sia più facilmente soggetta a brogli, vedi il famoso tweet del 30 luglio 2020 di Trump che tuonava testualmente: “With Universal Mail-In Voting (not Absentee Voting, which is good), 2020 will be the most INACCURATE & FRAUDULENT Election in history…” (interessante la risposta del The Washington Post del successivo dicembre a firma di Glenn Kessler), e a chi ritiene che così facendo si contiene e di molto il fenomeno dell’”astensione involontaria. Come in Italia, per esempio.

Il Libro Bianco sull’Astensionismo in Italia, presentato nell’aprile del 2022 voluto dal presidente del Consiglio Mario Draghi e coordinato dal professor Franco Bassanini mette ben in luce il fenomeno dell’astensionismo involontario rappresentato da un lato dalle persone che hanno difficoltà di mobilità e non sono quindi in condizioni di recarsi al seggio elettorale (pari a circa 4,2 milioni al di sopra dei 65 anni), dall’altro da coloro che per ragioni di lavoro o studio nel giorno del voto si trovano lontani dal comune di residenza (stimati in circa 4,9 milioni di persone, circa nove milioni di potenziali elettori!).

Lo studio inoltre mette in evidenza la crescente distanza di molti cittadini dalla politica: l’affluenza delle elezioni del 2022 non è stata mai così bassa (63,8 per cento) con il partito di maggioranza relativa che ha preso solo 7,3 milioni di voti circa su circa 46 milioni di potenziali elettori e la sfiducia nei confronti delle Istituzioni pari al 48 per cento (Ipsos: analisi del voto 2022). Per non parlare delle Elezioni Regionali di quest’anno, quando hanno votato nel Lazio il 37,2 per cento degli aventi diritto, saliti al 41,67 per cento in Lombardia.

Distanza che il presidente francese Emmanuel Macron, rieletto l’anno scorso con la più bassa affluenza al voto dopo l’elezione di Georges Pompidou del 1969 e che ora governa con il sostegno di una maggioranza espressa soltanto dal 38 per cento degli elettori registrati, ha voluto mettere, con onestà intellettuale, in evidenza nel suo discorso dopo la vittoria: «Penso anche a tutti i nostri connazionali che si sono astenuti. Il loro silenzio ha dimostrato un rifiuto di scegliere a cui dobbiamo anche rispondere».

In un articolo dal titolo auto esplicativo “When voters abstain, France takes notice – the UK should learn to do the same” dell’aprile dello scorso anno il The Guardian ha pubblicato i dati dello studio “Road to Renewal”, basato su un sondaggio cui hanno risposto circa 3500 persone, dove emerge che solo il 6 per cento degli elettori nel Regno Unito crede che le proprie opinioni possano influenzare le decisioni prese dai ministri del governo, mentre ritiene che i veri suggeritori della politica siano i maggiori finanziatori dei partiti (gruppi imprenditoriali e aziende) seguiti a ruota da giornali e media, lobbisti e gruppi di pressione. Solo il 2 per cento cita i sindacati come principali forze dietro le decisioni politiche. Gli estensori del sondaggio notano come sia avvenuto «un notevole cambiamento dagli anni Settanta e Ottanta, quando le preoccupazioni verso i sindacati eccessivamente potenti erano diffuse».

Sono stati fatti innumerevoli studi, non sempre concordanti, sul perché dell’astensionismo: disagio economico e sociale, matrici etniche, nuove generazioni, inutilità percepita del voto, livello di istruzione, livello e grado di occupazione, livello di istruzione, differenze di genere. A questi elementi si devono aggiungere attente analisi sia sulle tecnicalità” sotto il profilo delle leggi elettorali e relativi regolamenti di ciascun paese, sia sul versante delle varie modalità di voto (definizione dei collegi elettorali). Ma la questione della rappresentanza in democrazia è sicuramente fortemente minata.

Rimane l’astensionismo, un effetto di concause di vario genere la cui analisi deve essere fatta con la dovuta attenzione e con uno sguardo ampio per non cadere in analisi poco significative. Diceva Winston Churchill: «La differenza tra un politico e uno statista è che un politico pensa alle prossime elezioni, mentre lo statista pensa alla prossima generazione»: forse dovremmo cominciare a riflettere sull’affluenza elettorale pensando da statisti e non da politici.

Elezioni Regionali: i politici cantano vittoria, ma non li vota più nessuno. Andrea Legni su L'Indipendente il 14 febbraio 2023.

Per capire l’enormità di quanto accaduto bastano due dati: fino a ieri in Lombardia il dato di affluenza più basso di sempre era stato nel 2010, quando andarono a votare il 71,9% degli aventi diritto, questa volta l’affluenza è stata del 41,7%. Nel Lazio invece l’affluenza è stata del 37,2%, polverizzando il precedente record negativo del 66,5%. Quello del Lazio è stato nientemeno che il dato peggiore in tutta la storia dell’Italia repubblicana: mai dal 1948 ad oggi in nessun turno elettorale che riguardasse le elezioni nazionali o regionali era andata a votare così poca gente. Di fronte a un dato tanto impressionante l’edizione delle ore 20 di ieri del TG1, ovvero quello che secondo le rilevazioni ufficiali è ancora oggi il media che raggiunge più italiani, in 9 minuti di servizi dedicati alle elezioni è riuscito a non pronunciare nemmeno una volta la parola “astensione”. Una rimozione totale.

Per quello che conta i pochi che si sono recati alle urne hanno premiato il centro-destra. In Lombardia il governatore uscente Attilio Fontana è stato riconfermato con il 54,7% delle preferenze, contro il 33,9% del candidato di PD e M5S, Pierferancesco Majorino, e il 9,9% di Letizia Moratti (sostenuta da Azione – Italia Viva). Nel Lazio il candidato Francesco Rocca si è imposto con il 53,9% contro il 33,5% del candidato del centro-sinistra Alessio D’Amato e il 10,8% di quello del Movimento 5 Stelle.

Tornando al vero dato della tornata elettorale: per quale ragione quasi due elettori su tre hanno boicottato le urne? Sui quotidiani di oggi si sprecano le interpretazioni più fantasiose: c’è chi incolpa il fatto che le elezioni regionali si siano tenute a troppa poca distanza dalle politiche di settembre (come se il dato dell’affluenza non fosse in calo costante da ormai 20 anni), chi se la prende come al solito con il populismo dell’offerta politica (cosa significa? Nessuno lo sa spiegare), chi tira fuori l’eterna giustificazione del virus dell’anti-politica. Una spiegazione decisamente più plausibile la ipotizza invece il sondaggista Roberto Weber, dell’Istituto Ixé, che all’Ansa parla di un dato che «si innesta su una crisi della politica, sulla dissociazione tra rappresentati e rappresentanti». Tradotto: l’ipotesi è che le idee maggioritarie tra la popolazione non trovino rappresentanza in quelle dei partiti. Weber porta anche un esempio: «dai sondaggi emerge che il 55-60% degli italiani è contrario all’invio di armi all’Ucraina, ma il 90% dei partiti è invece favorevole».

Questo è un punto, ma non è tutto. Sono anni che una parte evidentemente ormai maggioritaria di elettorato trova inconcludente l’atto di andare a votare, spinto non solo dalla scarsa corrispondenza tra le proprie idee e i programmi elettorali dei maggiori partiti ma anche da fatto che quegli stessi programmi elettorali, anche quando sono sulla carta coraggiosi, si dimostrano irrimediabilmente carta straccia al momento in cui dovrebbero essere trasformati in pratica di governo. Ad esempio, nelle ultime tre tornate elettorali, gli elettori hanno premiato in massa partiti che sulla carta annunciavano di volersi opporre ai vincoli politici e di bilancio imposti dall’Unione Europea: prima i 5 Stelle, poi la Lega, in ultimo Fratelli d’Italia. Lega e 5 Stelle sono passati in un paio di anni da quello che avevano definito “governo del popolo” al fare da stampelle all’esecutivo Draghi. Fratelli d’Italia, allo stesso modo, ora che è maggioranza di governo si sta muovendo con il primo obiettivo di rassicurare i partner europei e americani, e in molte delle nomine chiave il nuovo esecutivo somiglia profondamente a un Draghi bis.

La verità è che nessun partito si preoccupa realmente dell’astensione. A parole tutti affermano che il loro obiettivo è riportare gli italiani alle urne, ma sono proclami vuoti. Anche in questo caso parlano i fatti. Non solo gli attuali leader hanno progressivamente svuotato i partiti da ogni meccanismo che potesse alimentare la partecipazione popolare temendo l’influenza dei propri iscritti (due esempi su tutti: le primarie del centro-sinistra che ormai non esistono più, così come la “democrazia diretta” degli iscritti promessa dai 5 Stelle), ma quando si avvicinano gli appuntamenti elettorali i candidati favoriti fanno di tutto per non alimentare l’affluenza. In questo senso la dimostrazione arriva dalla non campagna elettorale di Attilio Fontana in Lombardia, che ha sapientemente rifiutato ogni dibattito pubblico: forte dei sondaggi sapeva che gli sarebbe bastato non fare danni per confermarsi al potere della regione.

L’astensione si dimostra ancora una volta un prezioso alleato per una casta politica famelica di potere autoreferenziale. L’altro alleato è invece composto dai cosiddetti partiti anti-sistema che neppure sono riusciti a presentarsi alle urne, in buona parte alle prese con beghe varie e insensate lotte intestine. [di Andrea Legni]

DAGONEWS il 14 gennaio 2023.

Levate il fiasco a Vittorio Feltri. Anzi, la cantina! Il direttore editoriale di “Libero” va a Mediaset, ospite di “Stasera Italia”, e parla di Sanremo come la ragione principale dietro la scarsa affluenza alle regionali in Lazio e Lombardia.

 La clip (chissà mai perché) è stata tagliata dai profili social della trasmissione condotta da Barbara Palombelli: sull’account Twitter ufficiale, come si può vedere sotto, è stato pubblicato un video in cui Feltri si limita a dire che “l’affluenza bassa è dovuta al fatto che si è votato a settembre, i giochi erano già fatti".

Peccato che subito dopo (minuto 7.00 della trasmissione integrale) abbia aggiunto: “La partecipazione è stata frenata dal festival di Sanremo. Anche la domenica, per tutta la giornata, sono andate in onda delle cose stravaganti, tutte attenenti al festival, che hanno inchiodato la gente davanti alla televisione. Quando uno sta davanti alla televisione non è che va a votare”.

Estratto da liberoquotidiano.it il 14 gennaio 2023.

[...]A Stasera Italia, su Rete4, è intervenuto in collegamento anche Vittorio Feltri. “Sono contentissimo che il centrodestra abbia ribadito la vittoria dello scorso 25 settembre”, ha esordito il direttore editoriale di Libero, che ha poi offerto il suo punto di vista sul dato dell’affluenza. “È stata molto bassa ai seggi e credo sia dovuta proprio al fatto che si è votato a settembre - ha dichiarato - quindi i giochi erano stati già fatti. L’elezione regionale diventa quasi un’appendice, anche perché la maggior parte degli elettori non sa neanche quali sono le attribuzioni delle regioni”. [...]

Estratto dell’articolo di Roberto D’Alimonte per “il Sole 24 Ore” il 14 gennaio 2023.

Non c’è stata nessuna sorpresa. L’esito del voto in Lombardia e Lazio è stato quello ampiamente previsto da mesi. […] La sorpresa viene invece dal dato sulla partecipazione al voto. Era prevedibile che fosse più bassa rispetto a cinque anni fa ma non che fosse tanto bassa.

 Eppure nemmeno questa è una novità assoluta. Nel 2014 in Emilia-Romagna […] si è recato alle urne per l’elezione del presidente della regione solo il 37,7% degli elettori. Un record negativo che nemmeno il dato di oggi scalfisce. […] Nelle elezioni successive, le politiche del 2018, in Emilia-Romagna la partecipazione al voto è tornata su livelli “normali” ; ha votato infatti il 78,3% degli elettori.

Il caso della Emilia-Romagna è particolarmente interessante perché evidenzia alcune delle ragioni responsabili per l’elevato livello di astensionismo delle elezioni di oggi. Con buona pace di Bonaccini, eletto allora presidente della regione e oggi candidato alla segreteria del Pd, in quella occasione gli elettori hanno disertato le urne perché l'offerta proposta, cioè i candidati, erano poco graditi.

È molto probabile che questo sia stato uno dei motivi della bassa affluenza in Lombardia e Lazio. A questo occorre aggiungere altri due elementi: l’assenza di temi coinvolgenti e la percezione diffusa che l’esito fosse scontato. Sommando a questi fattori contingenti le ben note cause strutturali che da tempo incidono sulla affluenza (debolezza dei partiti in primis) ne esce fuori un quadro caratterizzato da un astensionismo tendenzialmente crescente ma in parte intermittente. In altre parole si vota sempre di meno ma si vota anche selettivamente. […]

Con un astensionismo così alto occorre prudenza nell’analizzare questo risultato.

Il centrodestra ha vinto ma non è vero che sia andato meglio delle ultime politiche. Questa è una lettura sbagliata del voto. Proprio perché sono pochi gli elettori andati a votare sono anche relativamente pochi, rispetto alle politiche di settembre, gli elettori che hanno votato i partiti del centrodestra.

 Ma in politica contano le percentuali. E questo spiega l’esultanza di Salvini che alle politiche aveva preso in Lombardia il 13,3 % e oggi, pur avendo ottenuto meno voti di allora, si ritrova con una percentuale più alta e soprattutto con un distacco da Fdi che nel 2022 era di quindici punti e oggi è diminuito.

E così Salvini si rafforza dentro il suo partito e in fondo anche Meloni si rafforza dentro il governo. Il suo risultato in Lombardia non è esaltante visto che alle politiche aveva preso il 28,5 % e oggi meno ma proprio per questo la convivenza con la Lega diventa meno problematica. […] il Pd ha dimostrato una sostanziale tenuta e il M5s ha confermato di essere sempre più un partito meridionale.

 Chi esce male da questo voto è il terzo polo. […] Aver ottenuto meno del 10% con una candidatura di prestigio come quella di Letizia Moratti deve far riflettere. In una competizione, come quella delle regionali, in cui la sfida è prendere un voto in più degli avversari è difficile attirare consensi se non si è percepiti come competitivi. […]

Nel centrosinistra resta aperto il problema delle alleanze. Per quanto limitato, il test di oggi dice che non basta una coalizione Pd-M5s o Pd -Azione/Italia viva per essere competitivi nei confronti di un centro-destra unito. […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Diamanti per “il Messaggero” il 14 gennaio 2023.

Il voto regionale in Lazio e Lombardia è stato netto, più del previsto, e ha chiaramente premiato il centrodestra a guida Fratelli d'Italia. Non può essere archiviato come "voto locale": in primo luogo perché le elezioni regionali sono un voto più politico e meno amministrativo rispetto alle comunali, e in secondo luogo perché si tratta delle prime due regioni italiane per numero di abitanti, con la capitale politica e la capitale economica a rappresentarne i capoluoghi.

Per queste stesse ragioni, tuttavia, il dato tragico di affluenza dovrebbe essere un segnale preoccupante per tutte le forze politiche, senza distinguo di sorta. Mai avevamo assistito a un voto regionale così poco partecipato: se la tendenza viene da lontano, i risultati di questa tornata elettorale sono particolarmente preoccupanti.

 […] Ad ogni modo, il dato dell'affluenza, pur aiutato dal voto in due giorni, dovrebbe allarmare chiunque. Nel Lazio, a fronte del 66,6% delle regionali scorse, quest'anno ha votato solo il 37,2%: il peggior dato di sempre.

 L'affluenza è particolarmente negativa nella Capitale, dove regge un po' di più solo il voto nei primi tre municipi. E non va molto meglio in Lombardia: il 41,7% è il terzo peggior risultato di affluenza nella storia delle regionali in Italia, con picchi negativi a Mantova, Sondrio, Pavia, Varese. Solo pochi mesi fa, in occasione delle elezioni politiche, in Lombardia si era superato il 70% di affluenza, cinque anni si raggiunse il 73,1%.

Non si può dire che l'astensionismo abbia colpito solo una parte politica, considerando che i rapporti di forza rispetto al voto politico di pochi mesi fa non sembrano variare troppo: siamo di fronte a una disillusione politica dilagante e trasversale, che colpisce anche regioni con un tasso di affluenza al voto storicamente molto elevato.

 […] Il dato di partecipazione al voto complessivo è così basso che rende difficile qualunque analisi elettorale: gli astenuti non sono più solo il primo partito, ma la stragrande maggioranza dei cittadini. Con un simile livello di disaffezione, le elezioni diventano una sorta di sfida a motivare i propri elettori fidelizzati più che un rito democratico.

In conclusione, non è stato per Giorgia Meloni un voto di mid-term, ma una prova parziale avvenuta in una fase di "luna di miele" non ancora archiviata. Non c'è dubbio che sia stata brillantemente superata, ma un simile dato di affluenza dovrebbe lasciare l'amaro in bocca a tutti. Giovanni Diamanti

Regionali, tutto a destra. Secondo Calenda, il voto da tifoseria ha vinto sulle proposte dei candidati. L’Inkiesta il 14 Febbraio 2023.

«Abbiamo scelto i due assessori regionali che meglio hanno gestito il Covid, per guidare due Regioni, enti in cui il bilancio è quasi tutto assorbito dalla sanità. Non è importato a nessuno. Fontana e Rocca erano forse candidati migliori? Non credo. Se si vota come al Palio di Siena, se il voto è fideistico, i candidati contano poco. Ma io faccio politica proprio perché voglio scardinare questo sistema», dice il leader di Azione

Il Terzo polo ha fallito l’obiettivo in Lombardia e nel Lazio. La candidata alle elezioni regionali di Azione e Italia Viva, Letizia Moratti, è arrivata terza. E nel Lazio Alessio D’Amato è stato superato di quasi 20 punti da Francesco Rocca. I due partiti per giunta hanno perso terreno come lista rispetto alle elezioni politiche.

Carlo Calenda, leader di Azione, ammette la sconfitta e spiega sul Corriere che «quello regionale è un voto difficilissimo per noi. Le preferenze pesano e noi invece dipendiamo da un voto di opinione. La peggiore condizione possibile per chi vuole spezzare il bipolarismo».

Certo, prosegue, «ammetto che non mi aspettavo il risultato in Lombardia nei termini in cui si è delineato. Neppure mi aspettavo, però, che Fontana addirittura prendesse di più, in percentuale, di cinque anni fa. Si può dire che il presidente uscente abbia governato bene? No, non si può dire».

E il problema, dice Calenda, non sono i candidati: «Abbiamo scelto i due assessori regionali che meglio hanno gestito il Covid, per guidare due Regioni, enti in cui il bilancio è quasi tutto assorbito dalla sanità. Non è importato a nessuno. Fontana e Rocca erano forse candidati migliori? Non credo. Se si vota come al Palio di Siena, se il voto è fideistico, i candidati contano poco. Ma io faccio politica proprio perché voglio scardinare questo sistema che porta a un’astensione sempre più alta con votanti sempre più divisi tra guelfi e ghibellini e al declino del Paese. Forse siamo condannati e io sono un irrimediabile idealista. Ma non mi arrendo».

Per Calenda, hanno sbagliato gli elettori. «Non ho timore di dirlo», spiega. «È la maledizione italiana: si vota per appartenenza. Sono di destra voto la destra, sono di sinistra voto la sinistra, prescindendo dal candidato e dalla qualità delle sue proposte. E poi mi lamento di chi governa». Nonostante il centrodestra sia «incapace di produrre un’azione di governo sensata», continua a vincere. «Ma perché gli elettori se ne rendano conto, visto che si vota alla “Grande fratello”, per affezione, ci vorrà del tempo».

Quanto alle alleanze dell’opposizione, per Calenda «queste elezioni non hanno insegnato che andando insieme si vince. Al contrario. Fossimo stati alleati del Pd in Lombardia, Fontana avrebbe vinto ugualmente e noi avremmo indebolito la capacità di rappresentare ognuno la propria quota. Centro e sinistra non sono mai stati in partita. Poi non è questione di strategie. Collaboriamo col Pd dove le candidature sono valide e i programmi chiari e condivisibili».

Calenda precisa che non c’è nessuna Opa sul Pd, al contrario di quanto dice Enrico Letta. «Il mio obiettivo non è distruggere il Pd. L’Italia ha bisogno di un partito socialdemocratico, come di un partito liberale. Il problema del Pd è piuttosto che i suoi dirigenti, dopo ogni sconfitta, spiegano che hanno perso per colpa di qualcun altro. Cercano scorciatoie, alchimie. Invece dovrebbero occuparsi del fatto che la destra è maggioritaria nel Paese. Anche con candidati debolissimi, prende un risultato stratosferico. Tutte le forze che pensano che la destra governi male devono fare un percorso di merito per recuperare elettorato, non cercare accrocchi assurdi, tipo l’Unione di Prodi, un tempo, o mettere insieme noi con Conte, ora».

Calenda va dritto per la sua strada con la formazione del partito unico di centro: «L’unica lezione che ricavo da queste elezioni è che il partito unico non può più aspettare. Basta perdere tempo. A marzo si parte: chi c’è c’è. Rinvii non ne accetto più».

Il sistema-partiti sempre più lontano dai cittadini. I dati definitivi dell’affluenza nei 1.882 comuni per le regionali di Lombardia e Lazio confermano un dato triste: ha votato il 40% (rispetto al 70,63% alle precedenti omologhe, quando pure si votò in un solo giorno). Roberto Calpista su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Febbraio 2023.

Adesso dobbiamo fare una riflessione, anzi più d’una. Devono riflettere i dirigenti nazionali e locali, attuali e «in divenire» del Pd per l’ennesima mazzata di quelle che nemmeno su un ring di boxe si vedono più; devono riflettere i vincitori del centrodestra che hanno eletto i neo presidenti di Lazio e Lombardia con un voto a favore ogni 6/7 aventi diritto, roba da rappresentanti di scala in un condominio. Devono riflettere i politologi dai cachet pesanti che hanno confermato di non aver capito nulla dell’astensionismo.

Un tempo si diceva, per mettere una pezza, che il «non voto» sarebbe fisiologico nelle democrazie mature, salvo poi non riuscire a motivare perché vi sarebbe proprio ora un’accelerazione perfino vertiginosa del fenomeno. A tutt’oggi nessuno ha osato argomentare che abbiamo improvvisamente raggiunto la maturità democratica: questo, almeno per il momento, ci è stato risparmiato. Quindi gli analisti si sono fiondati su altre tesi. Per esempio che il disagio economico e sociale è alla radice dell’astensionismo. Bene, ma se le urne vengono disertate in massa in due tra le Regioni più ricche ed evolute d’Italia, qualcosa non quadra.

Smontata anche la tesi delle sinistra che di solito ne esce avvantaggiata, dal momento che le mazzate ai dem sono state al top.

I dati definitivi dell’affluenza nei 1.882 comuni per le regionali di Lombardia e Lazio confermano un dato triste: ha votato il 40% (rispetto al 70,63% alle precedenti omologhe, quando pure si votò in un solo giorno). In Lombardia (1.504 comuni su 1504) l'affluenza è stata del 41,67% (nel 2018 era al 73,11). Nel Lazio (378 comuni su 378) del 37,2% (66,55%). Con un crollo verticale a Roma (33,11%, contro il precedente 63,11%). Già alla vigilia di un voto dal finale apparentemente scritto con una vittoria del centrodestra sia in Lombardia che nel Lazio, era l’astensione lo spettro più temuto. Insieme al rischio di scombinare i rapporti di forza fra i partiti della coalizione di governo e con qualche riflesso pure sulle opposizioni, per accelerare alleanze e strategie di sopravvivenza. Complimenti all’astrologo, perché - non ci voleva molto in verità - si è avverato tutto. Il centrodestra fa il pieno pur con poche preferenze e nel contempo si scombinano le carte dell’alleanza anche all’ombra della Madonnina dove la Lega non sfonda a vantaggio di Fratelli d’Italia e non scalda i cuori nemmeno il primo ok alla riforma dell’autonomia scritta dal ministro Calderoli, concesso dal governo a ridosso delle regionali.

E le opposizioni? Dem e 5Stelle, ancora una volta sono costretti a leccarsi le ferite dell’autoflagellazione. Con il Pd alle prese con un rinnovo interno che scalda gli animi quanto una maglietta di cotone sulla Marmolada e i grillini, o «contiani» che dir si voglia, che rischiano la «campanizzazione», che vuol dire «partito» che non va oltre i confini di alcune regioni del Sud.

Al fondo c'è qualcosa di più. Bisogna ragionare sul fatto che l’astensionismo dilaga non solo in Sicilia e in Calabria ma anche dove non tantissimo tempo fa si recava alle urne oltre il novanta per cento degli elettori. Si astengono cittadini che prima consideravano il voto tra i diritti e doveri fondamentali. Se oggi questo elettorato non partecipa significa che non si trova più rappresentato. Vince l’antipolitica; rappresentanza politica e mondi sociali non riescono a incontrarsi e si muovono su logiche non convergenti. Altro che populismo, è frattura tra Palazzi del potere e chi del potere è ormai convinto di essere vittima.

Tanti fattori, probabilmente, confluiscono: la caduta delle narrazioni e lo svuotamento delle ideologie, lo scarso appeal dei candidati e un livello mediamente basso, l’incapacità di comunicare efficacemente, la confusione e la casualità dei programmi. Ma anche, forse soprattutto, le mille difficoltà dell’uomo «comune» nella vita di ogni giorno. Tutti fatti noti che assommandosi e intrecciandosi provocano l’implosione.

Una crisi che colpisce a destra, a sinistra, al centro. Detto altrimenti un pezzo grande degli elettori, di qualsiasi simpatia, non si trovano più rappresentati, compresi, aiutati, incoraggiati. E a questo punto recarsi ai seggi elettorali può essere solo una seccatura. Peccato che il non voto, anche se massiccio, non viene tenuto in minimo conto dal sistema dei partiti, fatta eccezione per qualche parola di circostanza. A proposito di riflessioni, come ha detto qualcuno, «anche se gli elettori fossero tre in tutto, i partiti se li spartirebbero in percentuale per stabilire vincitori e vinti». Infischiandosene degli assenti: sono loro che alla fine hanno sempre torto.

Estratto dell’articolo di Marco Bentivogli per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

[…] stavolta il divorzio con la politica e ancora di più con il centrosinistra (terzo polo incluso) è profondo. Crollo della partecipazione e antipolitica sono due colpi durissimi alla democrazia. Proprio “la gente” si è stufata del “meno peggio” e piuttosto si butta sul nazional populista. Stavolta, anche il cosiddetto “ceto medio riflessivo” si è stufato e ha disertato le urne. Eppure l’arroganza delle nomenclature dei partiti perdenti è al massimo storico.

Ancora credono che uno slogan a Sanremo, il progressismo chic degli influencer o i talk serali, possano sostituire le capacità di rappresentanza di un partito veramente popolare. Rispetto alle regionali precedenti (senza concomitanza con le politiche e su due giorni) vota il 30% di elettori in meno. Non solo, crollano iscrizioni, i comizi finali sono sempre più eventi piccoli, spesso solo online.

 Lo stesso per congressi e primarie. Tutti a lamentarsi della qualità dei candidati, ma la malattia è più profonda. […] La partecipazione è crollata in ogni ambito: sociale, sindacale, associativo, politico. Per i gruppi dirigenti non sembra un grosso problema. Tra “pochi”, la pratica della cooptazione funziona anche meglio. Il guaio è che quando ci si auto-coopta si finisce con il non leggere più la realtà.

[…] Il nostro stato sociale sta crollando, crescono le persone abbandonate e chi rinuncia a curarsi. Ma è arretrato, da molti anni, per molti italiani. […] non è un caso che, più in generale, le campagne elettorali siano accolte dal disinteresse, dal “tanto non cambia nulla”. Il candidato è altrettanto “solo”, i partiti non esistono quasi più. È, tuttavia, un bel segnale che i partiti più strutturati nel territorio reggano meglio. Ma anche lì l’insofferenza è notevole. C’è da sperare che almeno stavolta, dopo le sconfitte più cocenti o elezioni senza la metà degli aventi diritto, ci sia il coraggio di fare sul serio. Non come è accaduto prima e dopo il 25 settembre. E non usate la carta “giovani” mettendo in pista dei “giovani bonsai” di loro stessi. Con la stessa mimica, la stessa furbizia e cinismo per imparare a galleggiare. […]

Cambiare popolo. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2023.

Gli elettori non hanno sempre ragione, dice Calenda, e stavolta ha ragione. Gli elettori sono pigri, infatti non escono più di casa nemmeno per andare alle urne. Gli elettori sono volubili, distratti, disillusi. Prima votavano i partiti, poi le persone, e adesso né gli uni né le altre: vorrebbero qualcuno che li emozionasse senza fregarli e invece si sentono fregati da tutti ed emozionati da nessuno. Gli elettori di centro, poi, quelli a cui si rivolge Calenda, sono i clienti peggiori. Il loro è un voto di opinione più che di interesse, di riflessione più che di passione.Vanno rimotivati ogni volta, ma, come certe molle, si inceppano a furia di scattare a vuoto. Mi sembra antiretorico, e dunque sano, che un politico riconosca che gli elettori non hanno sempre ragione. A una condizione, però: che lo affermi dopo una vittoria. Dirlo dopo una sconfitta significa accodarsi a una consolidata tradizione di disprezzo a elastico, per cui l’Italia è un Paese colto quando il tuo libro è primo in classifica e ignorante quando invece non vendi una copia, e il tuo partner è coraggioso se lascia un altro per te, ma vigliacco se lascia te per un altro. Fa sempre fede la famosa battuta di Bertolt Brecht sui comunisti della Ddr: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo». Spiace per Calenda, ma con la crisi demografica in atto non esiste un popolo di riserva a cui rivolgersi: dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo. Viaggio nella Roma che non vota. Linda Di Benedetto su Panorama il 14 Febbraio 2023.

Due elettori su tre nella Capitale hanno disertato le urne alle Regionali. Perché? Disaffezione e …

Alle regionali del Lazio due romani su tre non hanno votato. La Capitale, centro della politica italiana, da sempre, gira le spalle alla politica con un nuovo record di astensionismo. Percentuali sconfortanti che mostrano lo scarso interesse dei cittadini per la politica crescere di anno in anno. Una questione che abbiamo affrontato in un viaggio nella Roma del Non Voto. «Io non ho votato, e visto come stanno andando le cose da 20 anni a questa parte e soprattutto come viene gestito e orientato il voto, forse è meglio che nessuno lo faccia. Ben venga l’astensionismo di cui sono un assertore da anni perché bisogna far crollare un po’ la democrazia per far mettere in discussione una classe dirigente ridicola». È questa la risposta di un operatore sanitario a cui abbiamo chiesto se avesse votato, stesso commento deluso di un operaio che abbiamo incontrato in strada: «Non capisco nulla di politica non sapevo nemmeno chi fossero i candidati. Nessuno mi ha spiegato perché avrei dovuto votare uno o l’altro, mi hanno solo riempito di nomi mai sentiti, così non sono andato. Tanto è solo una perdita di tempo». Ma anche chi lavora nella pubblica amministrazione ha saltato il giro: «La politica è una cosa che non mi interessa e non mi cambia la vita. Io devo lavorare non ho tempo da perdere a sentire discussioni che non capisco. Lo stipendio che prendo è sempre lo stesso se mi ammalo devo pagare se voglio curarmi bene. Dovrei dare la mia fiducia a chi mi cerca solo quando si vota: No, grazie»-commenta questa dipendente e mamma di due bambini. Critiche su critiche che danno un’idea chiara dello stato d’animo che ha allontanato i cittadini dal voto. «Ah per favore, non mi chieda perché non ho votato perché è un discorso troppo lungo posso solo dirle che mi fanno tutti schifo» -risponde un’altra signora arrabbiata in strada, mentre un ragazzo ci ha risposto: «Nelle periferie vengono solo quando si vota poi si dimenticano perfino la strada per arrivarci. Siamo abbandonati. Io mi vergogno di votare. Decidessero gli altri non me la prendo più questa responsabilità». Stessa delusione che proviene anche da chi rappresenta le forze dell’ordine: «Io forse avrò votato due volte in vita mia, tanto il voto non cambia nulla. La gente è stanca-commenta un carabiniere-tutti promettono e poi non mantengono. Forse sbaglio ma in Italia abbiamo perso ogni speranza». Poi c’è addirittura chi non sapeva che si votasse: «Non ho fatto in tempo. Si votava quando? E chi erano i candidati?» -afferma sorpreso un uomo in un bar. Ma tra questi c’è anche chi fa finta di votare. «Io avevo un nome che mi era stato dato dal mio datore di lavoro ed ho fatto finta di votare altrimenti si arrabbiava ma non sono andato, non ho nemmeno la tessera elettorale» -ci racconta un impiegato di un ufficio. Infine entriamo in un bar e la proprietaria ci tira fuori dalla tasca un mazzo di bigliettini di alcuni candidati strappandoli: «Ogni giorno me ne hanno portato uno. Ma non so nemmeno chi siano. Io non accendo i riscaldamenti di casa perché non ho soldi per pagare le bollette, pensa che votando uno di loro, dopo cambi qualcosa per me? - ci racconta arrabbiata la barista- preferisco pregare Padre Pio perché è più facile che faccia lui un miracolo che questi facciano qualcosa per noi poveracci. Io non voterò mai più e voi giornalisti dovreste raccontare il motivo». C'è chi non vota anche per motivi religiosi: «Noi non abbiamo votato perché siamo testimoni di Geova - ci spiega una donna che passeggiava con la suocera - e non riconosciamo la politica, la consideriamo uno strumento di potere che non fa parte del nostro Regno ma rispettiamo tutte le leggi dello Stato». Infine abbiamo trovato una signora che addirittura ha confessato di aver dato alle fiamme i bigliettini con i nomi dei candidati: «Non ho votato perché non credo più a nessun politico sono tutti uguali. Il mio vicino ad esempio non mi ha mai salutato ma da quando è cominciata la campagna elettorale è diventato gentile e mi ha portato a casa dei bigliettini con il nome di un candidato chiedendomi di votarlo, ma ho deciso di buttarli nel caminetto».

L’astensionismo involontario.

Una legge per far votare anche i fuorisede: «Così si combatte l’astensionismo involontario». Chiara Sgreccia su L’Espresso il 12 Gennaio 2023.

Il Pd presenta un nuovo disegno per garantire a chi lavora o studia lontano da casa di partecipare alle elezioni. E anche alle primarie dem passa la regola del voto online per chi vive lontano

Dopo un dibattito che ha quasi spaccato il Pd, mercoledì sera è arrivata l’intensa. Per le primarie del Partito democratico, spostate dal 19 al 26 febbraio, sarà possibile votare anche online. Ma con precisi limiti: potrà farlo chi ha delle disabilità, chi è impossibilitato per ragioni mediche, chi è residente o domiciliato all’estero. E anche chi non avrà la possibilità di recarsi al seggio a causa di altri impedimenti, come la lontananza dell’abitazione: i fuorisede, insomma, potranno votare online.

«Il Pd ha trovato un modo per agevolare il diritto di voto di una parte di popolazione che pur abitando lontano da casa probabilmente vorrà votare alle primarie. Il fatto che il tema venga concretamente preso in considerazione è di buon auspicio». A parlare è Alessandro De Nicola, 27 anni, fuorisede, tra i fondatori del "Comitato voto dove vivo” che dal 2019 si batte per far approvare una legge che permetta di votare nella città in cui abita, chi per ragioni di studio, lavoro, mediche, vive in un comune diverso da quello di residenza.

«Già nel 2017 avevo partecipato all’ideazione di una proposta di legge per consentire il voto ai fuorisede che, purtroppo, non è andata in porto. Durante la scorsa legislatura ci abbiamo provato di nuovo, abbiamo elaborato un progetto che doveva essere discusso in aula il 24 luglio 2022. Ma è caduto il Governo proprio pochi giorni prima. Così adesso, dopo mesi di lavoro, vogliamo risollevare l’attenzione sulla nostra battaglia, grazie alla proposta di legge che abbiamo presentato in conferenza stampa. Firmata anche da Marianna Madia e Andrea Giorgis del Pd, che disciplina l’esercizio del diritto di voto in un Comune diverso da quello di residenza, in caso di impedimenti per motivi di studio, lavoro o cura».

«Una iniziativa sostenuta da tutto il Pd, a dimostrazione di una volontà politica di tutto il partito, che ha raccolto una domanda che viene dal basso. Nella Costituzione è scritto che compito della Repubblica è quello di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono l'esercizio dei diritti fondamentali. Noi, anche sul terreno dei diritti politici, abbiamo preso sul serio l'articolo 3 della Costituzione e abbiamo cercato di trovare una soluzione», ha spiegato il senatore dem Andrea Giorgis durante la conferenza a Montecitorio.

Anche perché, come dimostra il “Libro Bianco - Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, uno studio voluto dall’ex ministro dei Rapporti con il parlamento Federico D’Incà, sono circa 4.9 milioni i fuorisede in Italia. Di questi quasi due milioni vivono a una distanza superiore alle 4 ore dal proprio seggio di residenza. Un ostacolo oggettivo all’esercizio del diritto di voto visti anche i costi dei trasporti e le difficoltà organizzative. Il report, inoltre, spiega che cos’è fenomeno dell’«astensionismo involontario» che definisce chi non vota a causa di difficoltà materiali, non per mancanza di fiducia nella politica. «Un fenomeno che ha influito anche sulla bassa affluenza che c’è stata alle scorse elezioni del 25 settembre», dice De Nicola che si augura, infatti, che già per le Elezioni europee del 2024, possano essere introdotte modalità che permettano anche ai fuorisede di votare.

Proprio come quella del «voto anticipato presidiato» che, come spiegato nella proposta di legge, offre maggiori garanzie per quanto riguarda la segretezza, la personalità e quindi la libertà, rispetto all’istituto del voto per corrispondenza. «Si tratta di una modalità efficace - conclude De Nicola - per superare anche lo strano paradosso per cui gli italiani residenti temporaneamente all’estero, per studio o lavoro, possono votare, mentre chi si trasferisce in un’altra città del Paese no». Per fare in modo che anche in Italia come in tutti gli altri Stati d’Europa, tranne Cipro e Malta, anche chi abita in un comune diverso da quello di residenza possa esercitare il proprio diritto.

Antonio Giangrande: I brogli del referendum della Repubblica.

Il senso della democrazia secondo i resistenti antifascisti:

Assoluta assenza della par conditio e il palese condizionamento dei media nel nord Italia. La campagna elettorale fu a senso unico, con la stampa del nord apertamente repubblicana, mentre i giornali al sud erano poco diffusi. Il solo a fare campagna elettorale per i monarchici era il Re Umberto, effettuata solo con la propria presenza. I manifesti per la monarchia affissi sulla pubblica via, quando non erano strappati, erano inutili dato l'alto tasso di analfabetismo.

L'intimidazione diffusa. Le voci fuori dal coro non erano tollerate ed erano sconsigliati i comizi di piazza opposti, mentre le piazze erano continuamente piene con innumerevoli eccelsi oratori di tutti i rispettivi partiti antimonarchici. Le ritorsioni contro i commercianti e gli imprenditori erano all'ordine del giorno.

La minaccia della guerra civile in caso di vittoria dei monarchici. Il fronte antimonarchico era già dilaniato nel suo interno, mentre era già martoriato tra fascisti ed antifascisti.

I brogli, o presunti tali, erano superflui in tale clima di condizionamento dove la vittoria era imperativa per i repubblicani. Il fatto che si parli di brogli, comunque, mina la fiducia nell'esito finale. Atto di nascita di una Repubblica già difettata.

Antonio Giangrande: Inchiesta. La polemica sulla nomina dei presidenti di seggio e degli scrutatori. E’ solo una guerra tra poveri.

Ogni anno, dappertutto in Italia ad ogni tornata elettorale, vi sono aspettative e delusioni e si scatena la tradizionale bagarre sulla nomina degli scrutatori e dei presidenti di seggio, col corollario di polemiche ed accuse contro i nominati.

L'accusa più ricorrente è che a svolgere le funzioni di scrutatore e presidente di seggio siano più o meno sempre gli stessi raccomandati.

Dichiarazione di Antonio Giangrande, presidente della “Associazione contro tutte le mafie”, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. «E’ come se l'ufficio di collocamento fosse gestito dai partiti politici, e ogni partito potesse fare assumere un certo numero di lavoratori, in base alla percentuale di voti ottenuti. Sarebbe ovviamente uno scandalo: ma è proprio questo che avviene con le attuali modalità di nomina. La differenza risiede solo nella durata dell'occupazione, ma la sostanza dell'ingiustizia è la stessa. Ma ci sono altri aspetti importanti da valutare. Facciamo chiarezza. Cominciamo dagli scrutatori che dal 2005 vengono scelti non più tramite sorteggio ma per nomina diretta da un comitato elettorale costituito da soggetti politici, i cui criteri di scelta sono discrezionali. Quindi per farsi scegliere bisogna presentare a loro le proprie referenze. Qualcuno, per orgoglio, non si abbasserà a tanto, ma è anche vero che la conoscenza conta, anche solo dei motivi della scelta necessaria rispetto ad altri candidati. Cosa diversa è per la nomina dei presidenti di Seggio-Sezione. In questo caso la scelta spetta al presidente della Corte d'Appello competente per territorio. In più vi è una circolare del 2009 del Ministero dell'Interno che, per limitare il verificarsi di problemi in un ruolo comunque delicato, di fatto invita a favorire chi, in passato, ha già svolto bene l'incarico, senza commettere errori o irregolarità. Per questo salta all’occhio la periodica nomina di alcuni presidenti di Seggio, evidentemente capaci, e questo unito al fatto che ai suddetti presidenti sono aggregati i soliti segretari da loro nominati (molte volte loro parenti). Spesso gli incarichi di segretario e presidente si alternano tra loro, ma da fuori sembra che sia sempre uguale ed ecco spiegato come mai, soprattutto nei piccoli comuni, vengano percepiti come "sempre gli stessi". Quello che la gente dovrebbe sapere, però, prima di incorrere in qualunquistici luoghi comuni è che le elezioni sono una cosa seria e gli adempimenti burocratici sono onerosi e dispendiosi. Il collegio deve essere formato da gente capace e dedita all’incarico. A volte ci si trova a dover coordinare persone svogliate, o che non sanno, o non possono, per handicap, o non vogliono scrivere. In questo modo l’ingranaggio si inceppa e la gente fuori fa la fila, impedita a votare. Gente che guarda caso si da appuntamento all’orario dello struscio e si accalca sempre negli orari di punta che sono sempre gli stessi: il pomeriggio tardi e la prima sera. E poi c’è che il sabato molti dei nominati non si presentano ed allora bisogna che il presidente chiami il primo soggetto disponibile che ha di fronte, la cui capacità è tutta da dimostrare. Per gli assenti della domenica, poi, non vi è sostituzione ed allora il collegio è monco. Ancora una cosa la gente non sa. Non è il far votare che stanca, ma l’aspetto burocratico con la redazione dei doppi verbali ed il bilanciamento dei numeri e la formazione dei pacchi. Inoltre vi è l’incognita dei rappresentanti di lista. Situazione da monitorare. Molti rappresentanti di lista sono nominati apposta per falsare od intralciare il regolare andamento della votazione. Ecco perché, spesso, le polemiche sono montate ad arte, specie se a presiedere il seggio vi è qualcuno non propenso ad agevolarli. Comunque le strumentali o fondate diatribe circa la nomina è solo una guerra tra poveri. Un solo dato attinente le ultime elezioni. Preparazione seggio al sabato dalle ore 16,00. Un paio di ore, se non tre, per autenticare le schede elettorali (bollatura e firmatura) e tutti gli altri adempimenti. La domenica apertura alle ore 07,00, ma con rientro almeno mezzora prima per istruire gli scrutatori. Cosa che nessun comune fa nei giorni precedenti al voto. Termine votazione alle ore 23,00. Spoglio e chiusura dopo almeno 3 ore. Ricapitolando: 3 ore al sabato ed una ventina la domenica. Sono 23 ore di lavoro impegnativo e di responsabilità, ricoprendo la qualità di pubblico ufficiale. Si percepisce 96 euro (una decina in più per il presidente). Fate i conti: 4 euro circa ad ora. La dignità e l’orgoglio imporrebbe a questo punto rendersi conto che è inutile alimentare una guerra tra poveri e favorire il clientelismo sostenuto dalle nomine, ma ribellarsi al fatto che ci hanno ridotto ad anelare quei 4 euro l’ora per una sola e misera giornata.» Dr Antonio Giangrande

Quella destra vittima di tanti inganni. In Italia, depennati liberali, fascisti e monarchici, ai conservatori rimasero solo seconde scelte. Stenio Solinas il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Fra i tanti (troppi?) libri che si interrogano su che cosa sia la destra in Italia, questo di Paolo Macry, La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni (Laterza, pagg. 157, euro 16) è il più controcorrente nell'approccio come nello svolgimento. Storico di lungo corso, Macry rovescia un luogo comune, quello cioè che un Paese antifascista sia un Paese di sinistra. Non a caso, il primo paradosso della nostra storia repubblicana consiste nel fatto che «per una somma di motivi, in Italia la sinistra non ha mai vinto le elezioni». C'è di più: se si esclude il Fronte popolare del 1948, anch'esso comunque uscito sconfitto dalle urne, la sinistra «non si è mai presentata alle elezioni come tale». Questo, naturalmente, non vuol dire che non sia mai andata al governo, ma che ci è sempre andata all'interno di coalizioni «che infatti venivano qualificate di centro-sinistra e che quasi sempre furono guidate da presidenti del Consiglio non di sinistra». Detto in altri termini, «nei Paesi europei, una volta o l'altra, la sinistra è diventata maggioritaria, conquistando perciò il diritto di governare. In Italia, mai».

Lasciando da parte il perché di questa singolarità, di cui l'elemento principe resta l'aver avuto il più grande Partito comunista d'Occidente, con cui era impossibile allearsi, ma di cui era impossibile contestare la leadership, l'altro paradosso che emerge è che a un Paese non di sinistra non corrispondesse, politicamente parlando, un Paese di destra... Come scrive giustamente Macry, se si ripercorre la storia repubblicana, sia nelle sue fasi germinali sia nel corso di tutta la prima Repubblica, «le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali. Una condizione di subalternità che ebbe a che fare con le loro scelte inadeguate e, non di meno, con un quadro politico dominato dai partiti - la Democrazia cristiana, le sinistre - che le sovrastarono e ne prosciugarono l'elettorato potenziale. Larga parte dell'opinione pubblica, di conseguenza, intrattenne con la democrazia rappresentativa un rapporto tortuoso, insincero».

Macry chiama tutto ciò «un inganno politico». Fu un inganno «tagliare di netto le radici con i decenni prefascisti», in sostanza accusando la cultura politica liberale «di aver aperto le porte alla dittatura». Fu un inganno «l'assunzione dell'antifascismo a religione civile», dimenticando da un lato il consenso di massa al regime, ma «rinunciando, al tempo stesso, a epurare la società fascista, che perciò poté sopravvivere pressoché intatta nell'Italia antifascista». E infine, fu ingannevole «il profilo assunto dalla destra neofascista» che da un lato si teneva stretto il proprio «ghetto identitario», ma dall'altro si muoveva «nello spazio tipico, in ogni Paese europeo, di una destra moderata e anticomunista, di estrazione impiegatizia e urbana, moderatamente protestataria, insofferente alla politica ufficiale e di umori qualunquisti».

In sostanza, depennati liberali, fascisti e monarchici (con il referendum che ne sancì il loro non fare parte della nuova Italia...) «quale approdo offrì la democrazia al paese di destra? Quell'Italia finì per confluire in culture politiche che le erano in parte estranee. Si rifugiò per decenni nel ventre del partito dei cattolici», una «seconda scelta», insomma. Ma poiché la Dc, nel frattempo, «stringeva accordi con le sinistre, i suffragi del paese di destra finirono per essere portati a sinistra. Un altro inganno».

Fermiamoci un attimo. Nell'Italia repubblicana sino a Tangentopoli, quello che emerge dall'analisi di Macry è una sorta di «conservatorismo impossibile», ovvero la nascita e l'affermarsi di un Partito conservatore tipico di una democrazia europea, una classica destra ideologico-politica, dunque. Questa nascita non è però solo ostacolata dalle contingenze politiche e partitiche da lui ricordate: affonda in realtà nella nostra storia nazionale, risorgimentale e unitaria, una storia che è rivoluzionaria e non conservatrice, che infatti fa politicamente tabula rasa del passato. L'Italia postrisorgimentale vedrà alternarsi fra loro riformisti e massimalisti all'interno dello stesso sistema di valori. Non c'è in essa spazio per un conservatorismo politico, come in Francia, come in Inghilterra. L'errore sta nel confondere i moderati con i conservatori, ma si tratta in realtà di due cose del tutto differenti fra loro. Il cosiddetto boom o «miracolo economico» degli anni Cinquanta è da questo punto di vista esemplare, frutto cioè di un'Italia moderata, ma modernizzatrice nei suoi desiderata e nella sua fiducia verso il futuro, non certo di un'Italia conservatrice, anche perché c'era poco o niente da conservare...

Alla certificazione del «conservatorismo impossibile» di una destra italiana, la Democrazia cristiana, come osserva Macry, diede un notevole contributo: da un lato sfruttando le potenti radici di massa della storica religiosità del Paese; dall'altro, all'interno di quello che era «il bipartitismo imperfetto» venutosi a creare in pratica dal dopoguerra, fungendo da polo opposto alla sinistra, pur continuando a dichiararsi di centro, «mai di destra», e però «un partito di centro che guarda a sinistra», pur, infine, dopo il decennio della ricostruzione, sterzando risolutamente a sinistra nelle scelte e nelle coalizioni di governo.

La caduta del Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica, se da un lato hanno terremotato il quadro politico-partitico italiano, dall'altro ne hanno ripresentato intatti quelli che ne erano i fondamentali. Resta «l'equazione tra anticomunismo e fascismo», imposta a suo tempo dalle sinistre e che «permetteva loro di combattere gli anticomunisti come fascisti e di autolegittimarsi in quanto antifascisti». È una condizione necessaria, ma non sufficiente però a togliere quelle sinistre dalla minorità elettorale che le è sempre stata propria e contro la quale l'onda lunga dell'egemonia culturale è solo in parte riuscita a limitare i danni. Sul fronte opposto si ripresenta il fantasma di una destra politica che fatica a incarnare una maggioranza del Paese che è umorale, estranea alla «religione dell'antifascismo», ma non per questo reazionaria e conservatrice, tantomeno fascista, diffidente nei confronti della politica e dei partiti, e quindi populista, mina vagante e insieme coscienza critica eternamente in attesa di trovare la voce che realmente la rappresenti. 

Brogli all'estero, spunta un video che inguaia il Maie. La Procura di Roma indaga sul collegio Sudamerica. L'ipotesi: una frode per alterare il voto. Felice Manti il 31 Gennaio 2023 su Il Giornale.

L'affare brogli per le Politiche 2022 all'estero si ingrossa. E spunta un inedito filone sudamericano. Il Giornale ha intercettato un altro esposto, depositato dai legali Massimo e Romolo Reboa per conto di Domenico Porpiglia, direttore della testata Gente d'Italia, quotidiano di riferimento dei nostri connazionali all'estero. Secondo la denuncia di Porpiglia, un italiano di Montevideo (A.L. le iniziali) si sarebbe ritratto in un video su Instagram e Youtube (allegato agli atti) con una mano diversi certificati elettorali appartenenti a soggetti diversi mentre spiega come votare. L'uomo sarebbe legato al Maie (Movimento associativo italiani all'Estero), partito che ha eletto proprio in Sudamerica il deputato Franco Tirelli e il senatore Mario Alejandro Borghese. «L'appropriazione indebita fa parte di una frode per alterare le votazioni nella Circoscrizione Estero?», si chiedono i legali di Porpiglia. Proprio in Sudamerica si parla da mesi di «evidenti brogli» grazie a una donna che andava a caccia di certificati e alla presenza di almeno 25mila schede di colore diverso con nomi prestampati e refusi tipo «Camera dei diputati», su cui indaga la Procura di Buenos Aires. A sperare nel riconteggio ci sono i Radicali e il meloniano Emerson Fittipaldi.

Non è l'unica possibile distorsione del voto che ha portato in dote al Parlamento italiano 12 eletti tra Camera e Senato (sette solo del Pd, che fuori dai confini «pesa» miracolosamente il 34% al Senato e il 28% alla Camera...). L'inchiesta aperta dalla Procura di Roma - che ha dato mandato alla Guardia di Finanza di verificare gli elenchi dei residenti all'estero- nasce dalla denuncia presentata dall'allora capolista alla Camera nella circoscrizione Nord America-America Andrea Di Giuseppe, oggi deputato meloniano. Che aveva scoperto come su 437.802 nominativi dei potenziali elettori nel suo collegio 55.490 avessero tra 70 e 79 anni, 45.441 tra 80 e 89 anni, ben 21.427 fino a 98 anni e 2.218 99 anni e più. Un dato decisamente fuori statistica, visto che i centenari italiani sono appena 17mila.

La miracolosa esistenza in vita di alcuni nostri connazionali in molti casi è già stata documentata dal Giornale essere frutto di un imbroglio: abbiamo riportato le storie di italiani morti da anni che per la Farnesina sono vivi e in regola. Anche l'Inps deve capire quanti dei 326mila assegni spediti all'estero finiscano nelle mani sbagliate, sotto il naso di Farnesina, Viminale e patronati, visto che alle disastrate casse dell'ente previdenziale guidato dal grillino Pasquale Tridico le pensioni dei connazionali espatriati costano 1,4 miliardi all'anno.

Casualmente, dopo la denuncia di Di Giuseppe ripresa dal Giornale, il ministero delle Finanze ha chiesto ai nostri connazionali in Nord America e Canada le cosiddette «attestazioni di esistenza in vita», necessarie per continuare a percepire la pensione, chiedendo ad alcuni istituti di credito come Citibank un controllo incrociato. L'ultimatum è stato mandato alle ambasciate e ai consolati, con scadenza la fine di gennaio 2023. In quanti avranno risposto? C'entra qualcosa la denuncia sui brogli? Domande che andranno rivolte a Mef e Inps nei prossimi giorni.

L’indagine della GdF dopo un esposto. Politiche 2022, lo strano caso dei tanti voti “centenari” all’estero: i sospetti su un “disegno criminoso”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Gennaio 2023

Un numero anomalo di centenari che lo scorso 25 settembre si sono recati al voto fuori dai confini nazionali per scegliere il governo del nostro Paese. Il singolare caso dei ‘vecchietti’ appassionati di politica che in massa hanno espresso le proprie preferenze in occasioni delle Politiche che hanno visto trionfare la destra di Meloni & Co. È al centro di una indagine condotta dalla Guarda di finanza.

A denunciare il tutto con un esposto è stato Andrea Di Giuseppe,  58enne romano ma residente a Miami, negli Stati Uniti, eletto il 25 settembre scorso in quota Fratelli d’Italia nella circoscrizione estero dell’America settentrionale e centrale.

Proprio in quel collegio (che raggruppa assieme agli Stati Uniti altri 21 Paesi come Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Costa Rica, Cuba, Dominica, Repubblica Dominicana, El Salvador, Giamaica, Grenada, Guatemala, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Saint Kitts e Nevis) Di Giuseppe avrebbe registrato numeri anomali.

La denuncia, di cui parla oggi l’edizione romana di Repubblica, nasce dai controlli effettuati dallo stesso Di Giuseppe nel suo collegio. “Emerge una situazione – si legge nella denuncia – che non è credibile e che dimostra la non attendibilità della lista stessa, fatto che porta ad affermare che il risultato potrebbe essere alterato”.

Il problema sarebbe ‘meramente’ numerico. Nell’esposto in Procura presentato dagli avvocati Reboa, il deputato di FdI sottolinea che gli elettori totali nella circoscrizione America settentrionale e centrale sono 437.802, di questi i centenari sono “2.218, intorno allo 0,5”, mentre in Italia sono al gennaio 2021 17.156, percentuale molto più bassa rispetto a quelli oltreoceano.

Delle due l’una: o negli Stati Uniti e negli altri Paesi dell’America settentrionale si vive così bene da allungare decisamente la speranza di vita, o in realtà molti dei centenari votanti sono morti senza che il decesso sia stato segnalato, con qualcuno che ha votato lo scorso 25 settembre al loro posto.

L’analisi dei dati rende realisticamente ipotizzabile – si legge sempre nella denuncia di Di Giuseppe – che vi siano decine di migliaia di persone che risultano presenti nelle liste benché decedute e che quindi sia altamente probabile che, in loro nome, vi siano dei terzi che esercitano il diritto di voto. Fatto che potrebbe essere non occasionale, ma l’esecuzione di un consolidato disegno criminoso”.

Per ora, scrive Repubblica, il fascicolo è aperto a modello 45, ovvero senza ipotesi di reato. Se l’esposto del neodeputato di Fratelli d’Italia fosse veritiero, si aprirebbe una doppia indagine: non solo qualcuno starebbe votando al posto di persone morte, ma forse anche ritirando la pensione del soggetto deceduto

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Cosa significa l’approvazione dello stato di emergenza per il terremoto in Turchia? Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 26 Febbraio 2023.

Molto si è detto e scritto sullo stato di emergenza in questi tre anni. Premesso che l’adozione di misure provvisorie e straordinarie sta diventando una consueta, ingiustificata e pericolosa tecnica di governo, che rischia di trasformare tutto in emergenza, ci sono, però, delle situazioni completamente diverse, che non possono essere confuse né strumentalizzate per acchiappare click o rendere virale una notizia.

È ormai prassi, anche nella cosiddetta “controinformazione”, usare tecniche di tipo “terroristico” per spaventare e disorientare la popolazione e polarizzare il dibattito. Si scade così nella stessa disinformazione che si critica – a ragione – nei media mainstream. Ci troviamo, semmai, in una forma di propaganda speculare, di polo opposto rispetto a quella dei media di massa, altrettanto disonesta e sciatta.

Ciò che colpisce nelle reazioni ai dispositivi di eccezione che sono stati messi in atto nel nostro paese (e non soltanto in questo) è l’incapacità di osservarli al di là del contesto immediato in cui sembrano operare. Rari sono coloro che provano invece, come pure una seria analisi politica imporrebbe di fare, a interpretarli come sintomi e segni di un esperimento più ampio, in cui è in gioco un nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose». Così scriveva, con singolare audacia e preveggenza, Giorgio Agamben l’11 maggio 2020 in “Biosicurezza e politica”. In piena pandemia, sulla scorta delle teorie di Carl Schmitt, il filosofo romano individuava nello “stato di eccezione” la sospensione dell’ordine costituzionale a opera della stessa autorità statale che dovrebbe garantirne il rispetto. Legittimando, così, la compressione dei diritti e delle libertà, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle durante la pandemia da Covid-19.

Ma ci sono degli stati di emergenza che vengono adottati da anni quando si verificano eventi eccezionali che includono calamità naturali, come terremoti o inondazioni. Quando, cioè, si renda necessario agire con urgenza e con poteri straordinari per proteggere i cittadini e riparare eventuali danni, oppure per stanziare fondi per intervenire a livello internazionale. Stati di emergenza che non ampliano i poteri dell’esecutivo, né permettono di applicare restrizioni alla popolazione, ma semplicemente permettono a singole istituzioni (in questo caso alla protezione civile) di agire rapidamente mobilitando uomini e fondi. Lo stato di emergenza relativo alle calamità è nient’altro che un dispositivo che permette alla protezione civile di attivarsi e dispiegare il proprio sistema di aiuti, come facilmente verificabile.

È quanto accade proprio in questi giorni a causa del terremoto che il 6 febbraio ha colpito il sud-est della Turchia e il nord della Siria. Le autorità, prima turche e poi siriane, hanno chiesto l’intervento del Meccanismo Europeo di Protezione Civile, che si attiva per inviare squadre di ricerca e soccorso, beni e materiali. Su proposta del Ministro per la protezione civile e le politiche del mare Nello Musumeci, il 9 febbraio il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza per l’intervento italiano nei territori colpiti dal sisma. Secondo quanto previsto dalla Legge n. 152/2005 lo stato di emergenza può essere infatti dichiarato anche in caso di calamità naturali o gravi eventi all’estero. 

Eppure, alcuni post pubblicati su diversi canali Telegram, che hanno raggiunto un’ampia circolazione, hanno confuso e destabilizzato migliaia di persone, facendo credere, in maniera ingiustificata, che questa gestione dell’emergenza – prevista dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018 “Codice della protezione civile” – fosse la prosecuzione ideale dello stato di emergenza sanitario che ci siamo lasciati alle spalle.

Uno dei post allarmisti sullo stato di emergenza dichiarato dopo il terremoto circolato su alcuni canali Telegram di “contro-informazione”

Data l’urgenza e la drammaticità dell’evento sismico, la gestione dell’emergenza permette l’adozione di misure semplificate e comprende le misure e gli interventi adeguati per assicurare il soccorso e l’assistenza alle comunità colpite dal sisma. 

In base ai dati della protezione civile, dal 2013 al 2020, lo stato di emergenza è stato dichiarato 127 volte. In 102 casi ciò è avvenuto a seguito di eventi meteorologici e in 8 dopo eventi sismici o di origine vulcanica. 6 sono state le emergenze ambientali e sanitarie (tra cui l’emergenza Covid-19). 4 le emergenze gestite da soggetti diversi dalla protezione civile.

Come si evince dai dati del Dipartimento della protezione civile, sono, invece, 16 le emergenze internazionali che sono state affrontate, dal 1° dicembre 2014 al 2022: dalla crisi umanitaria per la diffusione del virus Ebola alla Dichiarazione dello stato di emergenza per intervento all’estero in conseguenza degli eventi che hanno colpito la regione meridionale di Fezzan nel comune di Bent Benya in Libia il 1° agosto 2022. E ancora, Libano, Croazia, Ucraina, India, Ecuador. 

Insomma, non si può parlare di un caso isolato, né di un “interruttore da usare a piacimento”, semmai di un’azione congiunta per aiutare la popolazione turca e siriana, devastata dal terremoto. [di Enrica Perucchietti]

La Nascita.

I Governi.

La Legge Truffa.

Il Compromesso Storico.

Superstiziosi.

Piero Calamandrei.

Enrico De Nicola.

Antonio Segni.

Giuseppe Saragat.

Sandro Pertini.

Francesco Cossiga.

Tina Anselimi.

Nilde Iotti.

De Gasperi.

Arnaldo Forlani.

De Mita.

Clemente Mastella.

Pier Ferdinando Casini.

Marco Follini.

La Nascita.

I giorni «caldi» del Referendum, l’Italia diventa una Repubblica. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 giugno 2023.   

«Tutta l’Italia ha votato nell’ordine e nella calma più assoluta». È il 3 giugno 1946 e in un paese devastato dalla guerra e dalla miseria, ma con una forte esigenza di democrazia, circa 25 milioni di italiani hanno scelto la forma istituzionale e i componenti dell’Assemblea Costituente: si tratta delle prime elezioni dopo più di venti anni di regime fascista (tre mesi prima, nel marzo ‘46, in diversi comuni del Paese hanno avuto già luogo le amministrative). Iniziato il giorno prima, il voto continua, nei Comuni più grandi, anche il 3 fino a mezzogiorno.

Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» si legge: «Il giorno tanto atteso delle elezioni politiche e del referendum istituzionale è ieri finalmente giunto. Preparato da un mese di nutrita campagna elettorale, fatta di comizi, di trasmissioni radiofoniche, di scritte murali, di manifesti e di ogni altro mezzo che servisse a polarizzare l’attenzione dei cittadini sui programmi e sugli uomini della nostra vita politica, il 2 giugno è arrivato. Il bombardamento dei discorsi elettorali non mancava di produrre i suoi effetti, gettando nelle coscienze dei cittadini i germi della discussione appassionata, vivace, contrastante, ma sempre lieta di manifestarsi nel rinnovato clima della libertà democratica». Umberto II, diventato sovrano soltanto tre settimane prima in seguito all’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, ha compiuto un ultimo, disperato tentativo di conquistare voti a favore della monarchia. Il direttore responsabile De Secly ha invitato i suoi lettori a non rinunciare, per nessun motivo, al diritto di voto: «L’elettore rappresenta, nel momento in cui depone la scheda nell’urna, tutta l’Italia; è l’esempio vivente del metodo democratico che si realizza: il suo valore è incalcolabile perché quel voto determinerà l’avvenire del Paese nella vita interna e internazionale. Giammai bisognerà rinunciare ad esprimere la propria opinione: il fascismo, la dittatura, la guerra disastrosa sono stati il frutto di questa rinuncia». Si registra una grande partecipazione popolare in quasi tutto il Paese: l’89% degli aventi diritto al voto esprimerà la propria preferenza. A Roma si è recata alle urne anche la Regina Maria José, consorte di Umberto II: «Discesa dall’automobile ad una certa distanza dalla sede della sezione dinanzi alla quale sostavano molti elettori, si è posta in coda alla fila, ma subito riconosciuta, le è stato fatto largo dalla folla che l’ha calorosamente applaudita. Entrata nella sala della votazione, la Sovrana ha accettato dal Presidente solo la scheda per le elezioni della Costituente, rifiutando quella del referendum», racconta sulla «Gazzetta» il corrispondente dalla capitale. Anche in Puglia si è registrata una notevole affluenza ai seggi: «A Bari molti locali non si prestavano ieri allo scopo. Ne è derivato un intasamento ed un affollamento che hanno un po’ stancato l’attesa degli elettori». Le elezioni, ad ogni modo, si sono svolte quasi totalmente senza disordini. 

Il 4 giugno la «Gazzetta» pubblica i primi risultati parziali delle elezioni alla Costituente, «forniti di ora in ora ai giornalisti dal Ministero dell’Interno in base ai telegrammi che man mano giungono alle Prefetture». Arrivano alcuni dati anche dalla Basilicata: «Le elezioni a Matera hanno segnato una notevole affluenza alle urne. Si calcola più dell’80% il numero dei votanti». L’annuncio ufficiale e definitivo della vittoria della Repubblica comparirà sul quotidiano soltanto due giorni dopo: consistente sarà, in Puglia, così come in tutto il Mezzogiorno, la prevalenza dei voti a favore della monarchia. Vi saranno, tuttavia, delle significative eccezioni. Le percentuali più alte a favore della Repubblica si registreranno nelle zone con una forte tradizione socialista: nella provincia di Taranto, per la sua componente operaia legata all’Arsenale militare marittimo e al Cantiere navale, ma soprattutto nelle campagne della Capitanata. Cerignola e Orsara di Puglia, comuni tradizionalmente legati alla storia delle lotte bracciantili, rispettivamente con il 60 e il 76% dei voti, contribuiranno fortemente alla definitiva vittoria della Repubblica nel nostro Paese.

Le elezioni del 18 aprile 1948 e il trionfo della democrazia. «Alle urne, alle urne!»: è il 19 aprile 1948 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» invita i suoi lettori a «compiere il proprio dovere», esprimere, cioè, il voto nei seggi aperti ancora fino alle 14. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 aprile 2023.   

«Alle urne, alle urne!»: è il 19 aprile 1948 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» invita i suoi lettori a «compiere il proprio dovere», esprimere, cioè, il voto nei seggi aperti ancora fino alle 14. Settantacinque anni fa avevano luogo le prime elezioni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Due schieramenti, fortemente contrapposti, si contendono il voto: quello di centro, monopolizzato dalla Democrazia Cristiana, e quello d’ispirazione comunista e socialista, il Fronte democratico popolare.

La giovanissima Repubblica italiana è ancora estremamente provata dalla guerra: nei serrati confronti tra le forze politiche, centrale è il tema degli aiuti americani per la ricostruzione economica dell’Italia e dell’Europa. Il Paese è, d’altra parte, considerato «il fronte più caldo della guerra fredda»: per gli Stati Uniti una vittoria dei comunisti italiani rappresenterebbe un pericoloso caso di estensione dell’area di influenza sovietica. Gli americani, dunque, in quei mesi danno massimo appoggio al governo, guidato da De Gasperi, potenziando gli invii di aiuti e sostenendo efficacemente la campagna di propaganda contro il comunismo. La «Gazzetta» segue con attenzione il dibattito elettorale e ospita ogni giorno riflessioni sull’utilizzo delle risorse del piano Marshall. Quelle del 1948, scrive più volte sul quotidiano Leonardo Azzarita, sono «elezioni per la libertà e la democrazia». Anche per Luigi De Secly, direttore responsabile della «Gazzetta», il voto non può che assumere valore internazionale: «Si tratterà di scegliere tra un regime democratico e un regime totalitario, tra il regime che governa la Russia e quello che governa gli Stati Uniti, tra il benessere e la povertà, tra la libertà e la illibertà, tra la pace e la guerra».

La «Gazzetta», in sostanza, si schiera apertamente e, fino all’ultimo giorno, invita non solo a votare, ma a «votare per i partiti al governo». «Votare per il Fronte popolare vuol dire votare contro il piano Marshall, vuol dire votare per la fame e per la miseria del popolo italiano, vuol dire votare per il comunismo», si legge ancora il 19 aprile.

Dopo la prima giornata elettorale, dunque, il bilancio in Puglia e Basilicata è positivo: in una sezione di Bari si è raggiunto il primato del 98% dei votanti. Si legge nella cronaca che «la giornata è stata caratterizzata da un largo concorso di votanti, da una calma perfetta che non è stata turbata dal benché minimo incidente e da un diffuso senso di serenità e di fiducia che ha fugato ogni senso di preoccupazione ed ha aperto il volto degli elettori ad un sorriso che aveva qualcosa di gioioso e che lasciava trasparire in tutti un’intima soddisfazione per aver compiuto il più bello dei doveri». A Gallipoli, tuttavia, un “comunista” avrebbe tentato di ostacolare l’esercizio del voto nei confronti delle suore del convento di clausura, mentre a Montalbano Jonico un militante del Msi, già sofferente di cuore, è deceduto in seguito ad una vivace discussione avuta al seggio con un avversario. Si è registrata qualche “sostituzione di persona”, ma nel complesso la macchina elettorale ha funzionato quasi senza intoppi. A conclusione delle due giornate, in tutto il Paese, l’affluenza alle urne sarà in effetti altissima: più del 92%. 

«L’Italia ha scelto la libertà» titola a caratteri cubitali la «Gazzetta» il 21 aprile, riportando i dati definitivi: la Dc ottiene il 48,5% e la maggioranza dei seggi, mentre il Fronte Popolare il 31%. Il voto in Puglia e Basilicata è abbastanza in linea con i risultati nazionali: picchi importanti in favore della Dc si registrano in particolare nell’area salentina. Una «vittoria anticomunista», la definisce in prima pagina Leonardo Azzarita: prenderà avvio, così, il quarto degli otto governi consecutivi guidati da Alcide De Gasperi. «La vittoria democristiana è tale soprattutto per l’alta personalità di De Gasperi e per la sicura garanzia di libertà e democrazia che egli dà al Paese, perché la concentrazione nazionale intorno al suo partito è avvenuta sotto la sua spinta e con la sua guida, la sua molteplice garanzia di cristiano, di antitotalitario e di democratico», conclude Azzarita.

I Governi.

La storia. Il governo Andreotti-Malagodi, quei 377 giorni che furono l’anticamera della reazione. Furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio. Paolo Franchi su L'Unità l'8 Giugno 2023

Mezzo secolo fa, di questi giorni, Giulio Andreotti saliva al Quirinale per presentare le dimissioni del governo che aveva guidato per poco più di un anno, un tripartito Dc – Pli – Psdi sorretto dall’esterno dai repubblicani di Ugo La Malfa. Appena un mese dopo, già giurava un nuovo governo, guidato da Mariano Rumor, destinato a durare ancora di meno. Se non è zuppa è pan bagnato, osserverà distrattamente chi pensa alla Prima Repubblica solo come a susseguirsi di governi deboli, che nascevano, vivevano una vita grama e poi morivano in giovane età sempre per via degli intrighi (alla faccia del popolo sovrano) delle segreterie dei partiti.

E dirà, come spesso gli accade, una sciocchezza. Perché i 377 giorni di vita di quello che la mia generazione ricorda ancora come il governo Andreotti – Malagodi “anticamera della reazione” furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio. Sembrava, in quel primo scorcio degli anni Settanta, che dal Sessantotto non fossero passati solo quattro anni, ma un secolo. Strategia della tensione, terrorismo nero, primi vagiti, a sinistra, del “partito armato”; nascita, al Nord, di embrioni di maggioranze silenziose e di blocchi d’ordine, e al Sud (Reggio Calabria) di movimenti di massa a direzione reazionaria; “voto nero” della Sicilia e di Roma nelle amministrative del giugno 1971; elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica, in dicembre, con i voti determinanti del Movimento sociale. È in questo clima che il 7 maggio del 1972 si va a votare, nelle prime elezioni anticipate del dopoguerra.

La Dc prova ad uscire dallo stallo politico con una virata neo centrista, via i socialisti, dentro i liberali, nel tentativo di contendere a Giorgio Almirante quelli che considera suoi elettori in libera uscita. In qualche misura ci riesce, come si dice nel linguaggio politico dell’epoca nelle urne lo Scudo crociato tiene, ma i voti li strappa soprattutto ai suoi partner centristi. Alla faccia dei proclami democristiani contro gli “opposti estremismi”, Almirante si porta via quasi il nove per cento. È il più grande successo nella storia del Msi, che nel frattempo si è transustanziato in Destra Nazionale, dopo aver aperto le porte di casa non solo ad Achille Lauro, ma pure a militari di alto rango come l’ammiraglio Birindelli e di fedeltà quanto mai incerta alle istituzioni come il generale De Lorenzo.

La debolezza e le divisioni della maggioranza che sorregge il governo neo centrista , inviso non solo ai comunisti e ai socialisti, ma pure ad Aldo Moro, Carlo Donat Cattin e a buona parte della sinistra di Base della Dc, consentiranno ai 56 deputati e ai 26 senatori missini di praticare in molte votazioni parlamentari a scrutinio segreto una sorta di “soccorso nero” ad Andreotti. Ma Almirante è ben diverso dal suo predecessore Arturo Michelini, non si accontenta certo di fare il portatore d’acqua. Cosa ha in mente lo spiega a Firenze, il 2 giugno, mentre a Roma Andreotti è ancora all’opera per varare il nuovo gabinetto, i metalmeccanici si preparano alla battaglia d’autunno per il nuovo contratto e gli studenti stanno sì per andare in vacanza, ma già pensano (erano anni così …) alle lotte che li aspettano alla riapertura delle scuole.

A colpire, e a indignare, è soprattutto, e si capisce, l’appello ai suoi ragazzi dell’uomo che vuol far mettere alla destra neofascista il doppiopetto: “I nostri giovani devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti … e quando dico scontro frontale intendo dire anche scontro fisico”. Ma forse l’affermazione più inquietante è un’altra. “Se il governo continuerà a venir meno alla sua funzione di Stato”, scandisce il leader missino, “noi siamo pronti a surrogare lo Stato”. Curiosamente ma non troppo, è il neo ministro degli Interni, il doroteo Rumor, a cogliere meglio di ogni altro il senso di queste parole. Almirante, dice alla Camera, indica nei “vuoti di potere” dello Stato il terreno dal quale nascono “occasioni di presenza e di iniziativa della destra neofascista che tende a presentarsi, come sempre, come forza sostitutiva”.

Di lì a qualche mese (La Spezia, 15 novembre) sarà lo stesso segretario democristiano, Arnaldo Forlani, che molto più tardi preciserà di non essersi riferito al Almirante, a rincarare la dose. È in corso, sosterrà, “il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia tentato e portato avanti dalla Liberazione ad oggi”, un tentativo dalle radici “organizzative e finanziarie consistenti e solide, di ordine interno e internazionale”. È un uomo che pesa sin troppo le parole, Forlani, lo chiamano il “Coniglio mannaro”: e questo rende la sua affermazione ancora più allarmante.

Ma può essere un governo neo centrista che si dilania sulla tv a colori a mettere in scacco un attacco di questa portata? Non lo crede la sinistra democristiana, che fa quel che può per affrettarne la fine e riprendere, per accidentata che sia, la strada della collaborazione con i socialisti. Non lo crede Pietro Nenni che, a margine della grande manifestazione contro il primo congresso del Msi (Roma, 18 – 21 gennaio 1973) in cui si registra un solo saluto romano, annota nei suoi diari che il pericolo principale non viene dai fascisti, ma dall’interno stesso della Dc. E naturalmente non lo credono i comunisti, che calibrano la loro opposizione (durissima) in Parlamento e nel Paese sulla scorta di un giudizio a dir poco pessimistico sulla natura stessa della crisi italiana.

Alla Dc, anche negli anni della contrapposizione più dura, hanno sempre attribuito, seppure a denti stretti, una natura di partito popolare e di cerniera, dunque di argine verso una destra che ha nella società e nello Stato radici assai profonde e diffuse. Che fare, adesso che questa cerniera rischia di saltare? Si può puntare, certo, alla radicalizzazione dello scontro, come chiede a gran voce una sinistra extraparlamentare che nelle piazze grida: “Emmessei fuori legge/a morte la Dc che lo protegge”.

Ma questa appare non solo a Enrico Berlinguer, ma a tutto un gruppo dirigente che è cresciuto alla scuola di Palmiro Togliatti, una prospettiva suicida. Già prima delle elezioni politiche (che pure per il Pci non vanno male, anche se quel mezzo punto percentuale in più non basta a compensare, a sinistra, la disfatta del Psiup), Berlinguer ha indicato la prospettiva che nel settembre del 1973, all’indomani del golpe cileno, si incarnerà nel compromesso storico.

In un Paese come l’Italia”, ha detto al congresso milanese del partito, “una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi componenti popolari: comunista, socialista, cattolica … La natura della società e dello Stato, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali, la profondità delle radici del fascismo (corsivo mio), e quindi la grandiosità dei problemi da risolvere e da fronteggiare, impongono una simile collaborazione”. Un po’ tutti gli hanno risposto picche, dai democristiani e ai socialisti, chi in nome della pregiudiziale anticomunista, chi nella speranza di tornare al governo per rappresentarvi la sinsitra politica e sociale nel suo complesso, chi vagheggiando l’alternativa di sinistra.

E anche a buona parte dei comunisti, ivi compresi molti dirigenti che pure, con l’eccezione di Luigi Longo, non avanzano critiche aperte, sembra un po’ paradossale l’idea che per evitare una deriva reazionaria della Dc la strada migliore sia quella di iscriverla d’ufficio a una “nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista”. Ma da questa linea il Pci non deflette. Promuove la mobilitazione antifascista, ma bada bene a che sia la più vasta e unitaria possibile, si tiene a distanza di sicurezza dalla campagna per lo scioglimento del Msi, guarda in cagnesco chi afferma che “la Resistenza è rossa, non è democristiana”. Si impegna a fondo nella battaglia dei metalmeccanici, che si conclude con il contratto forse più avanzato della storia delle relazioni industriali in Italia, quello dell’inquadramento unico operai-impiegati e delle 150 ore, avendo per bussola l’unità sindacale. Quanto più il governo annaspa, tanto più stringe i rapporti non solo con i socialisti, ma pure con i repubblicani e le sinistre democristiane.

Quando nel giugno del 1973, alla vigilia del congresso democristiano, Aldo Moro e Amintore Fanfani sottoscrivono a Palazzo Giustiniani, portandosi appresso tutti i capi corrente, l’accordo che decreta l’inizio della quaresima per Andreotti e Forlani, e impongono a una platea congressuale ferocemente antisocialista il ritorno al centro-sinistra, nella forma di un quarto governo Rumor, i comunisti per la prima volta evitano di accusare i socialisti di cedimento, e anzi salutano l’evento come una straordinaria vittoria democratica. Almeno in parte hanno ragione.

La Dc d’ora in avanti dovrà riconoscere che il tempo della sua indiscussa e indiscutibile “centralità” sta per finire, cominciando con il togliersi dalla testa l’idea di poter praticare la reversibilità delle alleanze; ma non potrà neanche illudersi che il centro-sinistra cui si sta predisponendo somigli, magari alla lontana, a quello degli anni Sessanta, visto, oltretutto, che i socialisti tornano al governo, sì, ma invocando “equilibri più avanzati”.

Berlinguer comincia a pensare sentirsi in grado di imporre alla Dc di rinunciare agli alibi, e di guardare in faccia una “questione comunista” che, dice, è tornata prepotentemente all’ordine del giorno. La partita tra comunisti e democristiani, rottura o accordo, è appena iniziata, si giocherà nel referendum sul divorzio del 1974, nelle elezioni regionali del 1975, nelle elezioni politiche del 1976, nella breve stagione dell’unità nazionale. A chiuderla provvederanno, tra il 16 di marzo e il 9 di giugno del 1978, le Brigate Rosse. Ma questo, nel giugno di cinquant’anni fa, non può immaginarlo nessuno. DI Paolo Franchi 8 Giugno 2023

È morto Guido Bodrato, ex ministro e parlamentare Dc. Il Domani il 09 giugno 2023

Democristiano di sinistra, europeista, si oppose alla legge Mammì sulle televisioni e contribuì alla fondazione del Partito popolare. Aveva 91 anni

È morto Guido Bodrato, ex parlamentare e più volte ministro della Democrazia cristiana e poi del Partito popolare italiano. Nato a Monteu Roero, Bodrato è stato a lungo consigliere comunale a Torino prima di essere eletto deputato per la prima volta nel 1968. Ministro dell’Istruzione, del Bilancio e dell’Industria, è stato un esponente delle correnti di sinistra della Democrazia Cristiana e, insieme a Sergio Mattarella, fu uno dei dirigenti del partito ad opporsi alla legge Mammì che favoriva le televisioni del gruppo Berlusconi. Europeista, iscritto al Movimento federalista europeo, è stato europarlamentare tra il 1999 e 2004. All’epoca di Tangentopoli è stato nominato commissario del partito a Milano ed è stato un sostenitore del rinnovamento voluto dal segretario Mino Martinazzoli, che ha portato allo scioglimento della Dc e alla nascita del Partito popolare italiano. Aveva 91 anni. Tra i primi a esprimere condoglianze per la sua morte c’è stato l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, considerato uno dei suoi allievi politici.

La scomparsa dell'ex Dc. La lezione di Guido Bodrato che ribaltava le teorie di Machiavelli. In una breve intervista il leader Dc diede a tutti una lezione folgorante: spiegò che spesso in politica i mezzi si impossessano dei fi ni... Danilo Di Matteo su L'Unità il 20 Giugno 2023

Ricordo anch’io con affetto Guido Bodrato. Da decenni, anzi, è scolpita nella mia mente una sua breve e bellissima intervista televisiva. In realtà una lezione di scienza e di arte politica di una manciata di minuti. Tema: il rapporto tra mezzi e fini. L’immenso Machiavelli aveva individuato nella tensione e nella dialettica, magari aspra, tormentata e difficile, tra fini e mezzi la chiave di volta per comprendere l’arte del possibile (e talora dell’impossibile).

Ma Bodrato aggiungeva: il problema è che spesso e volentieri i mezzi si impossessano dei fini. Come dire: la “macchina”, lo strumento costruito o allestito per raggiungere quell’obiettivo tende a divenire più importante dell’obiettivo stesso e a schiacciarlo o fagocitarlo. Un autentico capovolgimento: non più “il fine giustifica i mezzi”, quanto “i mezzi diventano il vero fine”. La loro voracità finisce per divorare programmi, progetti, ideali. Anche a motivo di ciò, in fondo, la rivoluzione divora i propri figli.

Mi ricordai dell’insegnamento di Bodrato più tardi, a proposito della teoria delle decisioni. Del meccanismo perverso, in particolare, delle decisioni “autogiustificate” o “autosoddisfatte”; quelle, cioè, volte non a raggiungere uno scopo (pace, benessere, giustizia e così via), ma ad alimentare se stesse, a foraggiare gli strumenti che mettono in campo. È la buccia di banana, del resto, sulla quale talora scivolano anche le iniziative filantropiche.

Ed è, soprattutto, il limite principale nel quale si è imbattuta la “Repubblica dei partiti”: il loro rafforzamento finiva non di rado per divenire fine a se stesso. E che dire del paralogismo craxiano? “Più è forte e cresce il mio potere personale, più matura la democrazia italiana”. Quando poi sia quel potere sia la prima Repubblica sono naufragati drammaticamente, e di ciò ancora subiamo le conseguenze. Danilo Di Matteo 20 Giugno 2023

Uno degli ultimi “maestri” del cattolicesimo democratico. Guido Bodrato, un riferimento per intere generazioni. Giorgio Merlo su Il Riformista l'11 Giugno 2023

Possiamo dire tranquillamente che con Guido Bodrato se ne va uno degli ultimi “maestri” del cattolicesimo democratico, popolare e sociale del nostro paese. Aveva 90 anni. Recentemente era mancata la moglie, la sua storica compagna di vita e il suo primo appoggio: morale, umano, culturale e politico.

Guido Bodrato è stato, appunto, un “maestro” e un riferimento autorevole e qualificato per intere generazioni che hanno individuato nella storia e nella cultura del cattolicesimo popolare un sicuro ancoraggio per conservare la qualità della democrazia, la credibilità delle istituzioni e il primato della politica.

E la conferma di questo assunto arriva scorrendo le tappe più significative della sua vita politica, culturale ed istituzionale. Perché Bodrato non è stato solo un politico ma, soprattutto, è stato un uomo di pensiero ‘prestato alla politica’.

Me lo ha ripetuto molte volte in questi ultimi anni a casa sua, a Chieri, dove le conversazioni erano intrecciate – come sempre – di cultura politica, di prospettiva storica e di riflessioni private.

E Bodrato, del resto, ha sempre anteposto la cultura politica rispetto alla sola azione politica. Questa è stata la sua cifra distintiva nella cittadella politica italiana. Nella Democrazia Cristiana prima e nel Partito Popolare Italiano poi. Gli unici due partiti a cui Bodrato è stato iscritto. Perché credeva e ha creduto sino all’ultimo nei partiti con una identità culturale netta e definita, dove la politica aveva il sopravvento rispetto alla personalizzazione e alla sua banale spettacolarizzazione e, soprattutto, dove il progetto politico era sempre il frutto di un percorso fatto di condivisione, di elaborazione e di confronto continuo e costruttivo.

E Bodrato, lo possiamo dire con forza e con convinzione, è stato un vero ed autentico “democratico cristiano”. Lo è stato perché credeva nei partiti e nella tradizione democratico cristiana; lo è stato perché era espressione autentica della tradizione del cattolicesimo sociale e popolare; lo è stato perché credeva nella politica, nella sua capacità di saper affrontare e risolvere i problemi; lo è stato perché la DC era un partito «popolare, interclassista, di ispirazione cristiana e riformista» come amava dire quando gli si chiedeva della sua carta di identità politica.

E Bodrato è stato, seguendo sempre questa filiera, anche e soprattutto un protagonista delle vicende politiche italiane per oltre 40 anni. Amministratore locale, Deputato, dirigente di partito, Ministro, Direttore del Popolo, Eurodeputato e raffinato intellettuale. Era quasi scontata la sua radicale identificazione con la sinistra democristiana. Quella sinistra Dc che lo ha portato prima ad essere il più stretto collaboratore di Carlo Donat- Cattin nella storica componente di Forze Nuove e poi nell’area Zac con Benigno Zaccagnini. Ma Bodrato non è stato solo un uomo, seppur autorevole e qualificato, di corrente. Perché con Bodrato tutti si dovevano confrontare.

E questo per la semplice ragione che Guido era un interlocutore politico e culturale che rappresentava un tassello insostituibile della storia del cattolicesimo politico italiano. Verrebbe quasi da dire che la sua vera ed unica ricchezza era la forza disarmata ma profonda ed incisiva delle idee.

Ecco perché la sua eredità politica, frutto del suo ‘magistero’ e della sua ‘lezione’, non può e non deve andare dispersa. «Senza, però, guardare avanti con le spalle rivolte all’indietro» come diceva sempre a noi ex giovani Dc con cui aveva una confidenza più stretta e più costante. «La Dc è stato un fatto storico, un prodotto specifico di una fase storica del nostro paese. Non tornerà più perché è come un vetro infrangibile che quando si rompe va in mille pezzi e non è più ricomponibile. Ma la cultura politica, i valori, i principi e l’idea democratica di partito non tramontano». Ed è proprio riflettendo su queste sue parole che l’insegnamento politico, culturale e anche etico di Guido Bodrato è destinato a lasciare un segno.

Un segno profondo e diretto, come era profonda e diretta la sua analisi e la sua progettualità. Senza retorica ma con la consapevolezza che senza le idee, una cultura politica e una bussola di valori di riferimento la politica si riduce, inesorabilmente, a vuoto pragmatismo e alla tentazione trasformistica ed opportunistica.

Giorgio Merlo

Berlinguer e quel patto con la DC che poteva cambiare tutto: ma la morte di Moro spazzò via il sogno Paolo Franchi su L'Unità il 18 Maggio 2023

La sera del 21 giugno 1976 si assiepò sotto le Botteghe Oscure, per festeggiare il più grande successo elettorale del Pci, una folla mai vista, quasi una rappresentazione fisica del 34 e rotti per cento che aveva votato comunista: vecchi militanti e allegre famigliole coi bambini, materialisti storici (e talvolta anche dialettici, alla faccia di chi erroneamente pensava che l’unico vero merito di Federico Engels fosse quello di aver mantenuto Carlo Marx) e cattolici praticanti, quadri di partito da una vita “sdraiati sulla linea” e gruppettari che avevano votato comunista seguendo l’indicazione di Lotta Continua, femministe non ancora diventate “storiche” e compagne dei quartieri popolari e delle borgate tuttora ispirate al modello dell’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, borghesi (piccoli, medi, e pure grandi) e proletari (in molti casi, sottoproletari).

Verso le dieci Berlinguer parlò a questa folla osannante: grazie compagne e compagni, la nostra avanzata è straordinaria in tutto il Paese, festeggiamola e, da domani, ancora al lavoro e alla lotta, perché nuovi e difficili compiti ci attendono. Bene, benissimo, nessuno si aspettava, nell’ora della grande festa, riflessioni particolarmente approfondite su un voto che pure, di lì a poco, a molti dirigenti del Pci (ricordo per tutti Gerardo Chiaromonte, uomo di finissima intelligenza e di cosmico pessimismo) sarebbe parso paradossalmente eccessivo, perché rovesciava sul partito un sovraccarico di domande spesso contraddittorie a dir poco.

Nanni Moretti, nel Sol dell’Avvenire, indica in chiave onirica nel 1956 la grande occasione persa dal Pci: se Togliatti, invece di schierarsi con l’Unione Sovietica, avesse preso le parti degli insorti di Budapest, la nostra storia e pure le nostre storie sarebbero andate molto diversamente. Sicuramente è così, ma sul piano storico e politico una simile scelta era, per il Migliore e per la grande maggioranza del partito di allora letteralmente impensabile: se le nostre nonne avessero avuto le ruote, anche il traffico urbano sarebbe oggi assai diverso.

Vent’anni dopo, però, le cose stavano in tutt’altro modo. Non solo perché i comunisti italiani, soprattutto a partire dal “grave dissenso” e dalla “riprovazione” manifestati nel 1968 a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia, avevano fatto significativi passi avanti sulla strada della revisione e dell’ autonomia dall’Unione Sovietica, e Berlinguer era giunto a dichiarare di sentirsi più tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Ma anche, e soprattutto, perché il voto del 20 e del 21 giugno, per eterogeneo che fosse, una evidenza la esprimeva: un terzo degli elettori italiani aveva messo una croce sul simbolo comunista (“il primo, in alto, a sinistra”, si ricordava fino all’ultimo con orgoglio agli elettori più anziani e/o meno acculturati) perché vedeva nel Pci “di lotta e di governo” la forza principale di una possibile alternativa, o meglio di una successione democratica alla Dc, che alla guida del governo ci stava ininterrottamente da trent’anni. Allora mi chiedo, anch’io in chiave onirica, si parva licet alla Moretti, quale altro corso avrebbe preso la nostra storia se Berlinguer, nella tarda serata di quel 21 di giugno, avesse semplicemente detto: “Abbiamo vinto in due, il Pci e la Dc, e questo impone a noi e a loro di trovare un qualche accordo per dare un governo al Paese. Ma il voto al Pci esprime una domanda di cambiamento politico e sociale, in una parola di alternativa, fortissima. Per non deluderla, per non restare in una situazione di stallo, dobbiamo cambiare anche noi”.

Ma Berlinguer queste parole non le disse. Di un revisionismo comunista (teorico, culturale, politico, organizzativo e, perché no, anche storico) che avrebbe dato linfa vitale alla costruzione, in forme originali, di quella presenza egemone di un partito socialista che in Italia, caso unico nel panorama europeo, non è mai esistita, quasi non ci fu traccia: anzi, cominciarono a manifestarsi da subito i segnali della guerra civile a sinistra destinata a concludersi, di lì a non troppi anni, con la comune rovina delle parti in lotta. Finita con l’assassinio di Aldo Moro la stagione dell’unità nazionale, il Pci – quello di Berlinguer, e ancora di più quello dei suoi successori – si ritrovò privo di una prospettiva politica. Ed entrò in agonia, una lunga agonia, ben prima del 1989, sul finire del quale Achille Occhetto, per evitare che quanto restava del suo esercito restasse intrappolato sotto le macerie del Muro di Berlino, promosse non una revisione, ma (per paradosso inspirandosi alla tradizione della Terza Internazionale) una svolta, assai più radicale di quella di Salerno. O meglio, disse lui (ispirandosi inconsapevolmente al medesimo slogan di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980), un Nuovo Inizio.

Probabilmente non poteva fare altrimenti, il “fattore tempo” di cui parlava Giorgio Amendola giocava contro di lui. Ma lo stile, politicista e scanzonato, fu quello dei parlamentini universitari seppelliti dal Sessantotto, e segnatamente dell’Unione goliardica italiana, di cui era stato (come Marco Pannella, ma pure Bettino Craxi, Gianni De Michelis e, per parte comunista, Claudio Petruccioli) un esponente importante. La storia, la tradizione, la cultura politica, il modello di partito del Pci, mai sottoposti a una seria revisione che mettesse in chiaro ciò che si dava per morto e sepolto e ciò che invece si considerava vivo e vitale, furono accantonati, o, per essere più precisi, sempre più vigorosamente sospinti sotto il tappeto; e ogni richiamo a quello che un tempo si chiamava il movimento operaio e socialista soppresso anche nel nome del nuovo partito, il Pds (co – erede, assieme a Rifondazione comunista, del vecchio Pci), non casualmente definito, prima che nel 1991, a Rimini, prendesse formalmente corpo, “la Cosa”.

Tutto questo ha contribuito non poco a far sì che un’eredità difficile, ma importantissima, come quella del comunismo italiano sia stata letteralmente dissolta, come se quel “grumo di vissuto” (la definizione è di Pietro Ingrao) di intere generazioni non avesse niente da dire alle generazioni successive, e non ci fosse nulla da trasmettere, se non orrori e tristezze su cui era meglio far calare l’oblio. Più tardi, mentre i post comunisti, assieme a vari altri post, in primis democristiani, si mettevano senza fortuna in caccia di una indefinibile idea politica “nuova” e del partito, anch’esso “novissimo”, in grado di incarnarla, del Pci e di ciò che esso è stato si sono occupati pressoché solo gli anticomunisti, nel migliore dei casi per farne la caricatura, nel peggiore per rappresentare la sua storia come una tragedia dai risvolti criminali ed eversivi, quanto meno alla pari, se non addirittura peggiore, di quella fascista: così che da tempo non solo sui morti di Reggio Emilia del luglio 1960, ma pure sulle migliaia e migliaia di partigiani e partigiane comuniste caduti nella Resistenza si fa pendere (magari chiamando a sostegno l’incolpevole Norberto Bobbio) il sospetto che non siano morti per la libertà e la democrazia, ma per imporre una dittatura di partito.

Trentadue anni, e trentadue anni come questi, sono molti, moltissimi. Sicuramente troppi per riesumare il Pci: ma questo non intende farlo (spero) nessuno. Forse non troppi, invece, per rielaborare la sua vicenda storica, cercando di rintracciarvi, tra tanti peccati per opere e per omissioni, tanti colpevoli ritardi, tante contraddizioni irrisolte, anche un filo rosso da tirare per contribuire alla fioritura di una forza politica popolare e di sinistra per fare l’opposizione che merita al governo più a destra della storia della Repubblica. “Un giornale è un giornale è un giornale” si diceva, parafrasando Gertrude Stein, all’Unità di una volta, per rivendicare un minimo di autonomia dal partito. “Un giornale è un giornale è un giornale”, si potrebbe dire anche all’Unità appena tornata, tanto più perché il partitone da cui essere autonomi non c’è più da un pezzo e, semmai, bisogna vedere se e come dare una mano a costruirne un altro, si tratti di un nuovo Pd o no non è qui il caso di discutere. Ditelo pure, se volete, ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che quella vecchia storia è in una certa misura anche la vostra, per il nome che portate e non solo: chi non ha un passato, si tratti di un giornale o di un partito, non ha nemmeno un futuro. Abbiatevi intanto gli auguri di cuore di uno che un comunista italiano lo è stato per un tratto importante della sua vita, e resta convinto, sulla scia di Arthur Koestler, che la cosa più insopportabile nel fare dell’anticomunismo sia la compagnia degli anticomunisti.

La Legge Truffa.

Le elezioni del '48. L’impero della Democrazia cristiana e l’era populista-giustizialista: le svolte dei due diversi 18 aprile. David Romoli su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

I contorni della Seconda Repubblica, ammesso che sia mai davvero nata, sono evanescenti e confusi. Quelli della Prima, al contrario, sono nitidi e ben definiti. C’è una data di nascita e una di morte e si tratta in entrambi i casi di un 18 aprile. Quello del 1948, data delle prime elezioni politiche libere nell’Italia repubblicana: registrarono un trionfo imprevisto, almeno in quelle dimensioni, della Democrazia cristiana, decisero della natura della democrazia italiana per quasi mezzo secolo e della collocazione geopolitica dell’Italia nella guerra fredda.

Poi quello del 1993, quando si celebrarono 8 referendum: molti, come quelli sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti o della legge Jervolino-Vassalli sulle droghe, erano in sé di assoluto rilievo, ma svettava quello sull’abolizione del sistema proporzionale al Senato. Già fondamentale in quanto era quella legge elettorale a garantire la centralità assoluta della Dc, la prova elettorale si era trasformata in qualcosa di ancor più decisivo: un pronunciamento popolare sulla Prima Repubblica e sui partiti che per 45 anni ne erano stati l’anima.

Le elezioni del ‘48 si svolsero in un clima di alta drammaticità e di estrema incertezza. Nel voto per la Costituente del ‘46 i consensi del Psi e del Pci, sommati, avevano superato di quattro punti percentuali la Dc. Nel ‘48 i due partiti, con liste minori di sinistra, erano coalizzati nella lista unica del Fronte democratico popolare, che sfoggiava nel simbolo il volto di Garibaldi. Lelio Basso, segretario del Psi, si era battuto contro la lista unitaria, convinto che divisi i due partiti avrebbero raccolto molti più voti e così, per motivi diversi, Sandro Pertini: furono letteralmente schiacciati dalla proposta unitaria di Nenni. La destra del partito, contraria all’alleanza con i comunisti e capeggiata da Saragat, se ne era già andata nel gennaio del ‘47, con la scissione di palazzo Barberini.

Molti dei principali leader prevedevano comunque l’affermazione dello Scudo crociato: non così gli elettori, tanto più che all’epoca non esistevano sondaggi a orientare le attese, e neppure il Papa, il più preoccupato di tutti da una eventuale vittoria del Fronte. Il Vaticano e gli Usa entrarono in campo con tutti i loro mezzi. Gli Usa misero sul piatto della bilancia gli aiuti eccezionali dell’European Recovery Project, il Piano Marshall annunciato il 5 giugno 1947: uno stanziamento senza precedenti, pari a 12,7 miliardi di dollari, un miliardo e mezzo dei quali destinati all’Italia. Nel gennaio 1947, durante lo storico viaggio negli Usa di De Gasperi, che per arrivare impiegò 58 ore di volo, la Casa Bianca aveva chiesto senza mezzi termini di mettere comunisti e socialisti fuori dal governo ma era stata anche di manica larga: 225mila tonnellate di viveri e 50 milioni di dollari. Tra la cacciata dei due partiti di sinistr,nel maggio 1947, e le elezioni del 18 aprile gli Usa, al netto del Piano Marshall avrebbero sborsato altri 300 milioni.

Il Vaticano fece anche di più. Il vero regista della campagna elettorale fu Luigi Gedda, genetista molto vicino alle teorie razziste, presidente degli Uomini di Azione cattolica. All’inizio del 1948 propose a Pio XII di mettere in campo la potentissima associazione cattolica costituendo, con il beneplacito e il cospicuo finanziamento del Vaticano, i Comitati civici. Gli uomini di Gedda condussero una campagna elettorale capillare, porta a porta e parrocchia per parrocchia, con centinaia di migliaia di attivisti mobilitati. La campagna cattolica fu violentissima, non solo contro il Fronte ma anche contro il temutissimo astensionismo. Il voto fu trasformato in un atto di fede imprescindibile: sia il non voto che il voto per i comunisti furono bollati come “peccati mortali”.

La propaganda passò per la prima volta, da una parte e dall’altra, non più solo per i comizi, e quelli del Fronte erano sempre affollatissimi, ma per l’uso dei cartelloni affissi ovunque, pensati secondo la logica secca della demonizzazione dell’avversario, con ampi riferimenti sia alla religione che alla politica estera. Ciascuno dipinse gli avversari come quinte colonne di una potenza straniera, ma gli anticomunisti avevano certo gioco più facile nell’attizzare la paura del dominio stalininano, soprattutto dopo il golpe comunista in Cecoslovacchia del febbraio 1948, che per Giulio Andeotti fu uno dei fattori decisivi per la vittoria del partito cattolico.

Anche comunisti e socialisti si impegnarono strenuamente. Ottennero l’appoggio della maggior parte degli intellettuali italiani, riempirono le piazze in tutta Italia come non sarebbe più successo in seguito, tanto da diffondere la convinzione di una vittoria certa. La lucidità di Togliatti non fu ingannata dall’ebbrezza delle piazze stracolme. Prevedeva il successo degli avversari ed era consapevole del rischio enorme di guerra civile che avrebbe comportato una vittoria della sinistra. Il commento dei risultati fu laconico: “Va bene così”. La Dc però non aveva solo vinto ma stravinto. Da sola aveva conquistato il 48,7% dei voti contro il 31% del Fronte, che perdeva 9 punti percentuali rispetto alle elezioni della Costituente. Una vittoria che creò qualche difficoltà persino a De Gasperi: dovette frenare l’impeto di quanti nel suo partito volevano dar vita a un monocolore Dc impadronendosi di tutto il potere. Ma l’uomo era abbastanza avveduto, oltre che sinceramente democratico, da evitare il rischio di passare, come paventava Nenni, “da un’Italia in camicia nera a una in sottana nera”.

Il clima del ‘93 fu ben diverso. L’esito dello scontro era già certo. Gli elettori confermarono le previsioni: con un’affluenza del 76,5% i sì vinsero con l’82,74%. Fu un plebiscito contro i partiti che avevano governato l’Italia e che del resto non avevano neppure provato a difendersi, se non accettando in anticipo quasi tutte le richieste dei referendari nell’illusione che questi rinunciassero all’ordalia elettorale. Il colpo di grazia referendario fu in realtà sparato contro un cadavere. La Prima Repubblica era già stata abbattuta dal crollo del Muro di Berlino del 1989 che aveva sottratto ai partiti di governo la rendita di posizione elettorale e la protezione internazionale dovute essenzialmente all’obbligo di contrastare il Patto di Varsavia.

I leader dell’epoca non se ne accorsero subito ma le conseguenze non tardarono ad arrivare e in un paio d’anni appena si passò dai primi scricchiolii alle crepe irreparabili. Nel settentrione il consenso della Liga Veneta e della Lega Lombarda, poi unificate nella Lega Nord, s’impennò in due anni fino a superare quello del Pci in Lombardia nelle amministrative del 1991. L’anno dopo, alle elezioni politiche del 5 aprile, la Lega, pur inesistente nel centro e nel sud, conquistò l’8,6% e 80 seggi in Parlamento. Nel giugno 1991 il referendum per l’abolizione della preferenza unica promosso dal democristiano dissidente Mario Segni, figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio, superò abbondantemente il quorum, con un affluenza del 62,50%, nonostante l’invito esplicito all’astensione dei partiti della maggioranza. Forte del successo Segni, nel frattempo uscito dalla Dc, tornò subito alla carica con un referendum ben più ambizioso.

Il quesito, studiato da Peppino Calderisi per aggirare i vincoli costituzionali, chiedeva l’abrogazione della norma che consentiva l’elezione uninominale al Senato solo per chi avesse passato il quorum del 65%. Di fatto irraggiungibile, quel tetto garantiva l’elezione solo su base proporzionale ma non incorreva nel rischio di una vacanza di legge elettorale, l’elemento sul quale si basavano le bocciature dei referendum sulla legge elettorale da parte della Consulta. Ma quando si arrivò al voto quel quesito lo conoscevano in pochi.

Tangentopoli aveva già spazzato via i partiti di governo. La bomba di Capaci era esplosa proprio mentre il Parlamento mandava a vuoto uno scrutinio via l’altro per l’elezione del nuovo presidente: ce ne erano già state 15, Oscar Scalfaro fu eletto alla sedicesima votazione solo in conseguenza dell’attentato che aveva ucciso Falcone, sua moglie e la scorta e il colpo per la già quasi inesistente credibilità del sistema politico fu fatale.

Nel 1993, a differenza di 45 anni prima, gli elettori votarono alla cieca per liberarsi di un sistema che era effettivamente in fase di avanzata degenerazione ma lo fecero sull’onda di spinte e pulsioni che ipotecavano il futuro: il giustizialismo antipolitico veicolato da Tangentopoli, il populismo rozzo e antisolidarista rappresentato dalla Lega, un “nuovismo” privo di sostanza sia per strategia politica che per visione economico-sociale. La “rivoluzione” del 1993 portò a conseguenze disastrose, molto più della vittoria del partito cattolico di 45 anni prima.

Le due date fondamentali della storia repubblicana, i due diversi e per molti versi opposti 18 aprile, hanno però un elemento essenziale in comune. In entrambi i casi la svolta italiana avvenne in conseguenza di una guerra appena finita. Forse per riavviare un percorso della Repubblica impantanato sin da quel 1993 servirebbe la capacità di cambiare senza aspettare di essere costretti a farlo dal contesto. David Romoli

Le elezioni del 18 aprile 1948 e il trionfo della democrazia. «Alle urne, alle urne!»: è il 19 aprile 1948 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» invita i suoi lettori a «compiere il proprio dovere», esprimere, cioè, il voto nei seggi aperti ancora fino alle 14. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il  2 aprile 2023.

«Alle urne, alle urne!»: è il 19 aprile 1948 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» invita i suoi lettori a «compiere il proprio dovere», esprimere, cioè, il voto nei seggi aperti ancora fino alle 14. Settantacinque anni fa avevano luogo le prime elezioni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Due schieramenti, fortemente contrapposti, si contendono il voto: quello di centro, monopolizzato dalla Democrazia Cristiana, e quello d’ispirazione comunista e socialista, il Fronte democratico popolare.

La giovanissima Repubblica italiana è ancora estremamente provata dalla guerra: nei serrati confronti tra le forze politiche, centrale è il tema degli aiuti americani per la ricostruzione economica dell’Italia e dell’Europa. Il Paese è, d’altra parte, considerato «il fronte più caldo della guerra fredda»: per gli Stati Uniti una vittoria dei comunisti italiani rappresenterebbe un pericoloso caso di estensione dell’area di influenza sovietica. Gli americani, dunque, in quei mesi danno massimo appoggio al governo, guidato da De Gasperi, potenziando gli invii di aiuti e sostenendo efficacemente la campagna di propaganda contro il comunismo. La «Gazzetta» segue con attenzione il dibattito elettorale e ospita ogni giorno riflessioni sull’utilizzo delle risorse del piano Marshall. Quelle del 1948, scrive più volte sul quotidiano Leonardo Azzarita, sono «elezioni per la libertà e la democrazia». Anche per Luigi De Secly, direttore responsabile della «Gazzetta», il voto non può che assumere valore internazionale: «Si tratterà di scegliere tra un regime democratico e un regime totalitario, tra il regime che governa la Russia e quello che governa gli Stati Uniti, tra il benessere e la povertà, tra la libertà e la illibertà, tra la pace e la guerra».

La «Gazzetta», in sostanza, si schiera apertamente e, fino all’ultimo giorno, invita non solo a votare, ma a «votare per i partiti al governo». «Votare per il Fronte popolare vuol dire votare contro il piano Marshall, vuol dire votare per la fame e per la miseria del popolo italiano, vuol dire votare per il comunismo», si legge ancora il 19 aprile.

Dopo la prima giornata elettorale, dunque, il bilancio in Puglia e Basilicata è positivo: in una sezione di Bari si è raggiunto il primato del 98% dei votanti. Si legge nella cronaca che «la giornata è stata caratterizzata da un largo concorso di votanti, da una calma perfetta che non è stata turbata dal benché minimo incidente e da un diffuso senso di serenità e di fiducia che ha fugato ogni senso di preoccupazione ed ha aperto il volto degli elettori ad un sorriso che aveva qualcosa di gioioso e che lasciava trasparire in tutti un’intima soddisfazione per aver compiuto il più bello dei doveri». A Gallipoli, tuttavia, un “comunista” avrebbe tentato di ostacolare l’esercizio del voto nei confronti delle suore del convento di clausura, mentre a Montalbano Jonico un militante del Msi, già sofferente di cuore, è deceduto in seguito ad una vivace discussione avuta al seggio con un avversario. Si è registrata qualche “sostituzione di persona”, ma nel complesso la macchina elettorale ha funzionato quasi senza intoppi. A conclusione delle due giornate, in tutto il Paese, l’affluenza alle urne sarà in effetti altissima: più del 92%. 

«L’Italia ha scelto la libertà» titola a caratteri cubitali la «Gazzetta» il 21 aprile, riportando i dati definitivi: la Dc ottiene il 48,5% e la maggioranza dei seggi, mentre il Fronte Popolare il 31%. Il voto in Puglia e Basilicata è abbastanza in linea con i risultati nazionali: picchi importanti in favore della Dc si registrano in particolare nell’area salentina. Una «vittoria anticomunista», la definisce in prima pagina Leonardo Azzarita: prenderà avvio, così, il quarto degli otto governi consecutivi guidati da Alcide De Gasperi. «La vittoria democristiana è tale soprattutto per l’alta personalità di De Gasperi e per la sicura garanzia di libertà e democrazia che egli dà al Paese, perché la concentrazione nazionale intorno al suo partito è avvenuta sotto la sua spinta e con la sua guida, la sua molteplice garanzia di cristiano, di antitotalitario e di democratico», conclude Azzarita.

La recensione e i personaggio. La fine del ‘900 raccontata da un eretico di sinistra: il nuovo libro di Giovanni Pellegrino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

Prendete un avvocato meridionale, magari leccese, di quasi cinquant’anni, amministrativista, colto, intelligente, democratico, che non ha mai fatto politica, che non ne conosce i riti, le abitudini, i fastidi, le idiosincrasie, che ha alle sue spalle una storia e una biografia robusta, ha idee, simpatie, passioni, non facilmente etichettatili, e che tiene follemente alla sua libertà; beh prendete questo avvocato e all’improvviso gettatelo dentro il vecchio Pci (il partito comunista di Togliatti e Berlinguer) proprio in quel periodo della storia nel quale il Pci sta per concludere la sua traiettoria, e il comunismo sta crollando sotto i sassi e il cemento del muro sgretolato di Berlino. Che dite, è un bell’esperimento, no? Il risultato di questo esperimento ha un cognome e un nome: Pellegrino Giovanni.

Nei giorni scorsi è uscito un nuovo libro nel quale Giovanni Pellegrino racconta la sua avventura politica, iniziata proprio agli sgoccioli degli anni ottanta, ma che l’ha portato a vivisezionare la storia della prima repubblica e della prima democrazia di massa italiana dalla fine degli anni sessanta fino al 2000. Il libro è intitolato “ Dieci anni di solitudine”, sottotitolo, “Memorie di un eretico di sinistra”, è edito da Rubbettino, 290 pagine, diviso in quattro capitoli e in 32 sottocapitoli, cita – spesso polemizzando – praticamente tutti i personaggi della prima Repubblica e in testa alla classifica delle citazioni ci sono due nomi: quello di Francesco Cossiga e quello di Massimo D’Alema.

È interessantissimo questo libro, specie per chi, come me, quegli anni li ha vissuti da dentro – dico da dentro il Pci e i partiti dal Pci germinati – e che vede scorrere di nuovo gli avvenimenti di tre o quattro decenni, più o meno, visti con occhi diversi dai suoi, ma mai faziosi, mai velati dal pregiudizio o da sfumature ideologiche. Perché il grande vantaggio che ha Pellegrino, è che ha potuto esaminare questa nostra storia guardandola da dentro e da fuori.

Sì, da dentro, perché quando poi nella politica si è tuffato, la politica, come fa con tutti, lo ha inghiottito. Ma anche da fuori, perché non ha niente da difendere, non ha schemi da salvare, tesi da dimostrare, non ha influenze alle quali piegarsi. Il libro dice “dieci anni”, ma quei dieci anni si riferiscono alla sua solitudine in Parlamento. Perché il racconto riguarda quasi un quarantennio. Oggi Pellegrino ha 84 anni, quando inizia la sua autobiografia ne aveva meno di cinquanta.

Naturalmente, leggendo il libro, non ho avuto l’impressione che tutta la sua ricostruzione sia giusta. Voglio dire: che coincida con l’idea che ho io di quello che è successo. Però, proprio per questo, sento il valore oggettivo di questa opera. Che ci racconta essenzialmente – criticamente – tre cose essenziali. Prima, che il Pci, almeno per molti anni, non è mai morto. E che il suo stalinismo, forse confluito nel giustizialismo, ma sempre guidato dalla Grande Ragion di Stato (non solo Ragion di Partito) è sopravvissuto all’89, al Pds, ai Ds, a Berlusconi e anche al Pd. Granitico. Con una sostanziale ostilità al libero pensiero, e anche però, almeno in una prima fase, con un certo amore, anzi un forte amore per il pensiero.

La seconda cosa che ci dice – e i lettori di questo giornale sanno quanto condivido – è che il giustizialismo – vissuto da gran parte della classe politica italiana come necessità e imperativo categorico – ha rovinato e corroso la seconda repubblica. L’ha immeschinita, l’ha impoverita e appiattita culturalmente. Diventando esso stesso – il giustizialismo – questione morale, sebbene fosse nato per risolvere la questione morale. Dico “questione morale” perché il giustizialismo è la cosa “politica” più reazionaria e moralmente corrotta che io conosca.

La terza cosa che ci dice è che la politica è vigliacca. Ha una tale venerazione per il potere – per il potere in quanto tale, non solo per il potere da conquistare – da non sapere mai dirgli di no. In qualunque forma esso si presenti: quella dell’economia, o della burocrazia, o della magistratura. E dirgli sempre di sì vuol dire, spesso, inchinarsi a dei veri e propri lestofanti. Ma magari – fate attenzione – riassumendo in questo modo il libro di Pellegrino io sto trasferendo un po’ troppo il mio pensiero – e la mia ira – nel suo racconto che ha il dono invece di essere sempre piano, chiaro e assolutamente sereno.

Diciamo che i fatti raccontati, assai minuziosamente e grazie a molte conoscenze dirette, ricordi, testimonianze, sono tre (più l’esperienza leccese alla guida della provincia). Il primo è Tangentopoli. Il secondo è l’affare Andreotti. Il terzo sono gli anni di piombo e la lotta armata. I primi due, Pellegrino li ha seguiti dal ruolo delicatissimo di Presidente della giunta delle autorizzazioni a procedere. Il terzo da Presidente della commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo.

Su Tangentopoli Pellegrino ci racconta tante cose, ma quella che mi ha colpito di più è la descrizione, senza tanti fronzoli, di quelli che furono i metodi dell’indagine. Un racconto che denuncia discreti abusi. Il primo è quello di usare gli arresti come sistema per fare confessare gli indiziati. Contro ogni spirito costituzionale e della legge. Il secondo è lo stratagemma di lasciar aperto all’infinito un fascicolo, in modo da aggiungere tutti i nuovi avvisi di garanzia allo stesso fascicolo, assicurandosi in questo modo che il Gip che doveva poi autorizzare gli arresti fosse sempre lo stesso (amico). Anche qui violando l’articolo 25 della Costituzione (quello sul giudice naturale al quale ciascuno ha diritto).

Il terzo abuso è quello degli avvisi di garanzia (e poi dei mandati di cattura) “a rate”, in modo da aggirare i termini della carcerazione preventiva. Per capirci, i Pm ti arrestavano con un’accusa, ma ne avevano in serbo altre due o tre che ti avrebbero contestato più avanti, quando stavano per scadere i limiti della custodia cautelare per la prima accusa. Il racconto di quegli anni tremendi, che rasero al suolo la prima repubblica, è dettagliatissimo e fa emergere senza ombra di dubbio lo strapotere dei magistrati, che avevano messo sotto scacco la politica, e la pusillanimità della politica, che fece harakiri.

La vicenda Andreotti anche è interessantissima. Perché leggendo Pellegrino si capisce che Andreotti era del tutto innocente. Non fu un processo o un’inchiesta, ma una partita a scacchi, che Andreotti accettò di giocare. Accettò perché non aveva scelta. O forse, più che una partita a scacchi, fu una caccia alla volpe, senza esclusione di colpi. Poi c’è il racconto degli anni 70. E qui io penso che la ricostruzione di Pellegrino sia annebbiata da una certa, seppur sempre ragionevole, dose di complottismo. Pellegrino esamina quel decennio con la lente della manovra politica, dei rimbalzi, degli interessi, delle manovre, delle influenze internazionali. Io penso che gli sfugga l’elemento essenziale: l’enorme pulsione di un’intera generazione alla lotta di massa, frontale, contro il sistema.

Un fenomeno sociale, politico, persino esistenziale che sconvolse il Palazzo, lo condizionò, cambiò i rapporti di forza tra i partiti, ma non si immischiò mai con “i Palazzi”, con le istituzioni, con i poteri. Marciò per conto suo. Per conto suo costruì cose straordinarie nel ‘68 nel ‘69, e poi, negli anni successivi, non seppe rispondere ai contrattacchi, e degenerò nella violenza e – in parte – nel terrorismo. E quando dico “in parte” non intendo “frange”. No, furono decine di migliaia i giovani, borghesi e proletari, nati tra il ‘45 e il ‘60, che furono toccati e rapiti dalla lotta armata.

Mi scuso se mi sono fatto travolgere dalle mie idee, ma questo libro ti costringe a tirale fuori le tute idee, perché è un libro eretico e provocatorio e sembra fatto apposta per creare reazioni. Per questo vale molto. Infine D’Alema. Ma qui usciamo dalla tragicità del libro. Il racconto del rapporto dell’avvocato leccese con il leader maximo è fantastico. Molto ironico e autoironico. Pieno dei vezzi di D’Alema, delle sue acutezze, del suo anticonformismo. Pellegrino lo tiene sempre presente. Con amore e con dispetto. In fondo tutto il libro è un dramma d’amore e di dispetto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

18 aprile 1948, le elezioni della paura Il voto che divise per 50 anni gli italiani. ROBERTO MARINO su Il Quptidiano del Sud il 18 Aprile 2023

Su piano Marshall e scelta occidentale le elezioni del 18 aprile 1948 segnarono uno scontro che spaccò in modo netto il Paese fino a creare per decenni un sistema senza alternanza

Gli anglofoni di oggi, quelli che biascicano sold out e location, all inclusive e recruiter direbbero che si è trattata della sliding doors più importante della storia italiana. Un bivio che ha cambiato e deciso in modo netto il cammino del Paese, segnando la vita di milioni di persone. Mai un’elezione politica ha lasciato tracce così profonde, con conseguenze che hanno condizionato i decenni successivi.

Il 18 aprile del 1948 l’Italia si è trovata davanti a una scelta drammatica. Sullo sfondo delle prime libere urne elettorali dell’era repubblicana, un Paese in ginocchio, umiliato da una guerra disastrosa, la fame, le città sbriciolate dai bombardamenti, milioni di morti. Un’Italia triste, con gli occhi bassi, depressa, umiliata da un conflitto bellico finito con la fuga del re e lo scioglimento del suo esercito. Smarrita, confusa, disonorata. Con quelli che provano a sognare, a immaginare un futuro, e altri, tanti altri, troppi, con lo sguardo ancora al passato, pieno di nostalgia per il fascismo e la monarchia.

Alle elezioni politiche del 1948 si arriva dopo un periodo turbolento. La situazione internazionale, la divisione tra Stati Uniti e Unione Sovietica del mondo nelle zone di influenze ha ripercussioni anche sui primi timidi e confusi passi di una repubblica fragile e vulnerabile, con milioni di disoccupati, il cibo razionato, un apparato industriale a pezzi. Tredici mesi prima si è consumata una rottura che ha messo fine al clima unitario della Resistenza: comunisti e socialisti vengono allontanati da De Gasperi.

Il Vento del Nord non esiste più. Nel paese cresce la diffidenza nei confronti del Pci, visto come la quinta colonna di Stalin. La paura è quella di un’insurrezione sul modello della rivoluzione bolscevica, la presa del potere con le armi, la creazione di una dittatura comunista. Un’eventualità che gli Stati Uniti alimentano con una propaganda raffinata, sottile, preoccupati per un ipotetico pateracchio politico di un governo filosovietico nel bel mezzo del Mediterraneo. Una paura teorica, priva di riscontri, di avvisaglie.

Dalla tarda primavera del 1947, dopo un viaggio memorabile del presidente del consiglio De Gasperi a Washington, il clima si avvelena. Nelle piazze ci sono ogni giorno decine di manifestazioni. Protestano tutti: i contadini senza terra, i disoccupati, le vedove di guerra, gli orfani, i reduci, i mutilati, gli operai, gli statali. Ciascuno alle prese con il razionamento del cibo, gli avvoltoi della borsa nera, l’inflazione. Un assedio represso con mitra e fucili dalle forze dell’ordine guidate da un cinico ministro come Scelba.

Decine e decine di manifestanti uccisi, arresti, dolore che si aggiunge a dolore, altre lacrime e lutti. Il clima è violento, l’assuefazione ai misfatti e al sangue della guerra alimenta episodi atroci, terribili. Gli Stati Uniti spiegano a De Gasperi, rappresentante di un paese che si è schierato all’inizio della guerra dalla parte sbagliata, che una via d’uscita può esserci, una mano la possono dare. Ma chiedono garanzie di stabilità politica e comunisti fuori dalla stanza dei bottoni. Dietro questo discorso, legato al piano Marshall, il più grande sostegno economico della storia, resta una scelta di campo drastica: con l’Occidente, senza tentennamenti o ammiccamenti e sguardi di simpatia verso l’Est sovietico. Siamo ai vagiti della guerra fredda e bisogna decidere con chi stare.

La posta in palio del 18 aprile viene con abilità colorata da questi temi. Toni apocalittici, manifesti con parole d’ordine da ultima spiaggia ricoprono i muri scrostati di un Paese inquieto, dove l’antifascismo perde colpi a favore di un anticomunismo feroce e settario. Non a caso saranno definite le elezioni della paura. Da una parte ci sono la Dc con il sostegno dei partiti laici e moderati, la simpatia dei vecchi fascisti e monarchici. Sullo scudo crociato del simbolo campeggia la parola Libertas, per ribadire che mai come ora c’è di nuovo pericolo. Dall’altra il Fronte Popolare di comunisti e socialisti, con Garibaldi come immagine di riscossa e rinnovamento. Una cosa che spaventa.

Il territorio italiano viene diviso alla Camera dei deputati in 31 circoscrizioni plurinominali e al Senato in 19 circoscrizioni plurinominali, corrispondenti alle regioni italiane, più 232 collegi uninominali.

Le settimane che precedono il voto sono di grande tensione. Ci sono scontri ogni giorno, accuse terribili da una parte e dall’altra. Oltre agli Stati Uniti, la Dc può contare sul sostegno della Chiesa. In Vaticano hanno già dimenticato il voto conciliante e decisivo nell’assemblea costituente di Palmiro Togliatti a sostegno dell’accordo con la Chiesa, la conferma dei Patti Lateranensi, la libertà di culto. Oltre Tevere, nelle sacre stanze si vive l’incubo dei cosacchi in piazza San Pietro. Un’angoscia che spinge a mobilitare 25mila parrocchie. Nelle scuole, ai ragazzi vengono fatti fare disegni con l’invito alle mamme di non votare il Fronte Popolare. Nelle processioni spuntano madonne piangenti, mentre Pio XII incarica Luigi Gedda di organizzare i cattolici laici nei famigerati comitati civici in difesa della tradizione religiosa.

Anche sull’altro versante si gioca pesante. Un linguaggio crudo, diretto, che oggi a distanza di 75 anni può anche far sorridere per la semplicità degli argomenti. Un clima di odio attraversa il Paese nel momento più buio, proprio quando sarebbe fondamentale recuperare il clima costruttivo della Resistenza.

La propaganda elettorale dei due schieramenti spacca le famiglie, gli ambienti di lavoro, crea steccati che non sarà facile poi abbattere. Con gli Stati Uniti che ogni giorno ricordano che senza la vittoria della coalizione moderata non arriveranno i fondi del piano Marshall.

Il risultato alla fine degli scrutini è clamoroso: trionfa la Democrazia Cristiana, la quale si aggiudica la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi, caso unico nella storia della repubblica. Socialisti e comunisti non vanno oltre il 30 per cento, una batosta rispetto ai test elettorali precedenti in Sicilia e in altre città dove avevano vinto.

La partita è chiusa. Mai come il 18 aprile del 1948 la sconfitta per chi ha perso dura per decenni. La Dc governerà fino al 1994, quando sarà sciolta per l’inchiesta dei giudici di Milano sulle tangenti. Le elezioni della paura lasciano l’eredità amara di una democrazia imperfetta, bloccata, senza possibilità di ricambi. Un’anomalia che porterà agli anni bui delle stragi e del terrorismo. Alla tragedia umana e politica di Aldo Moro, un grande statista che non amava muri e steccati e che credeva nell’alternanza. Un sacrificio pieno di ombre scaturite proprio da quel 18 aprile mai finito.

Accadeva 70 anni fa. Storia della legge truffa e della più feroce delle battaglie parlamentari. David Romoli su Il Riformista il 31 Marzo 2023

Chissà quanti voti riuscì a spostare, 70 anni fa, l’idea allora modernissima di ribattezzare la riforma elettorale imposta dalla Dc “legge truffa”. Forse pochi ma anche se si trattasse solo di 55mila voti su un totale di 28 milioni e mezzo di votanti alle elezioni politiche del 7 e 8 giugno sarebbe sufficiente. La nuova legge elettorale imposta dalla Dc e dai suoi alleati non produsse i suoi effetti per uno scarto di appena 54mila schede.

Tante ne mancarono alla coalizione assemblata dalla Dc per superare il 50% e ottenere così, automaticamente, il 65% dei seggi. Si fermò al 49,8%. Era un premio di maggioranza, però abnorme e a maggior ragione all’epoca quando era dato quasi ovunque per scontato, non solo in Italia, che il metodo giusto per costituire una corretta rappresentanza democratica fosse un proporzionale quasi puro. La paternità della geniale formula è incerta. C’è chi sostiene trattarsi di Giancarlo Pajetta, tipo caustico, e chi di Piero Calamandrei. Probabilmente qualcuno si limitò a tradurre in italiano l’espressione loi scélérate, adoperata due anni prima in Francia proprio per bollare una legge elettorale.

Ma non è escluso che si sia trattato di un autogol e che il primo a coniarla sia stato un democristiano. Segnatamente l’allora ministro degli Interni Mario Scelba la cui prima reazione sarebbe stata, secondo Indro Montanelli, profetica: “Buona idea ma verrà chiamata ‘truffa’ e noi saremo i truffatori”. Proprio Scelba accettò poi di presentare la proposta di legge, composta da un solo secco articolo. In realtà nella Dc le resistenze alla riforma voluta da Alcide De Gasperi erano numerose e robuste. Il leader s’impose, nonostante il rischio di una vittoria delle sinistre fosse, a differenza che nel 1948, considerata impossibile. Ma le paure dell’allora presidente del consiglio erano altre. Nel 1948 la Dc aveva ottenuto, da sola, il 48,5% dei consensi. Ma all’inizio del nuovo decennio il vento era meno prospero.

Le amministrative del ‘50 e del ‘51 avevano registrato un calo secco della Dc. A Napoli una coalizione di destra guidata dall’armatore monarchico Achille Lauro aveva conquistato il comune. Il rischio di doversi alleare, dopo le elezioni, con i partiti di estrema destra era concreto tanto più che il Vaticano aveva già esercitato pressioni massicce perché quell’alleanza si formasse già nelle comunali e sarebbe certamente tornato alla carica in caso di esito incerto delle elezioni politiche. De Gasperi considerò probabilmente il premio di maggioranza anche uno strumento per bastonare il Pci, rassicurando così Washington che insisteva per la messa fuori legge dei comunisti.

Il leader della Dc sapeva che una mossa del genere avrebbe esposto il Paese al rischio della guerra civile ma anche nel suo partito non mancavano pressioni identiche a quelle di Washington, guidate proprio da Scelba. Ridimensionare drasticamente la rappresentanza parlamentare del Pci avrebbe risolto in buona parte il problema. La legge fu presentata nell’ottobre 1952, la si iniziò a discutere in dicembre alla Camera. L’ostruzionismo del Pci, allora non regolamentato e dunque virtualmente illimitato, fu durissimo e paralizzò l’iter. Il 14 gennaio il governo decise di sbloccare la situazione ponendo la questione di fiducia. La decisione di mettere la fiducia su una legge elettorale era una forzatura quasi inaudita tanto che solo sessant’anni dopo un governo, quello di Renzi, avrebbe tentato di nuovo l’azzardo.

Le manifestazioni di fronte Montecitorio finirono a botte con la polizia, all’interno dell’aula lo scontro fisico fu quasi altrettanto duro con i fratelli Pajetta che, divelti i braccioli delle poltroncine li usarono come bastoni menando come fabbri. L’ingresso in aula dell’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao, manganellato di brutta e sanguinante in fronte, fu tanto teatrale quanto drammatizzante. Togliatti però non voleva affatto scatenare la piazza. A uno dei politici più lucidi della storia italiana certo non sfuggiva che una mezza insurrezione avrebbe offerto agli Usa e a Scelba un appiglio prezioso per mettere il Pci fuori legge, cogliendo anche l’occasione dello smarrimento seguito alla morte di Stalin, il 5 marzo. Probabilmente la scelta di alzare al massimo la tensione nell’aula del Senato servì anche a non far apparire arrendevole il partito pur evitando di incendiare le piazze.

L’aula di palazzo Madama, invece, si arroventò come mai prima né dopo quella seduta del 29 marzo, domenica delle Palme. Il presidente del Senato Paratore si era dimesso il giorno prima per protesta contro la decisione del governo di porre anche al Senato la questione di fiducia. Lo sostituì Meuccio Ruini, politico dell’epoca prefascista, che restò in carica per un solo giorno. In aula volarono insulti pesanti, quelli di Pertini all’indirizzo di Ruini. Volarono schiaffoni, quelli di Emilio Lussu a Ugo La Malfa. Volarono suppellettili e pesanti volumi d’ogni tipo, inclusi quelli che ferirono alla testa Ruini. Il governo abbandonò l’aula di corsa, lasciando solo il giovane sottosegretario Giulio Andreotti a presidiare le posizioni. L’arrembaggio alla presidenza fu degno della Tortuga e impegnò a lungo i commessi. Alla fine la legge fu approvata. Il giorno dopo le Camere furono sciolte e le elezioni convocate per il 7 giugno. La coalizione grazie alla quale la Dc puntava a superare il fatidico 50% era composta da Psdi, Pli, Pri, Sudtiroler Volkspartei e Partito sardo d’azione.

La campagna elettorale non poteva che essere tesissima e infatti lo fu. L’ambasciatrice degli Usa Claire Boothe Luce, appena nominata da Eisenhower come saldo per il prezioso aiuto ricevuto in campagna elettorale dal marito Henry Luce, l’editore di periodici come Time e Fortune, partecipò alla campagna a modo suo. Anticomunista tra le più esagitate minacciò pubblicamente la messa fuori legge del Pci in caso di mancata vittoria della Dc. Quella vittoria non arrivò per un pelo, in buona parte grazie ai dissidenti dei partiti della coalizione guidata dalla Dc. Nomi di grandissimo peso come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei diedero vita a una lista, Unità popolare, mentre i dissidenti del Pli costituivano a loro volta una lista ribelle, Alleanza Democratica Nazionale.

Insieme tolsero al listone della Dc i voti necessari per superare il traguardo, pur arrivando a un soffio dalla vittoria. Con 900mila schede annullate la Dc avrebbe potuto chiedere il riconteggio. De Gasperi scelse di non farlo, sapendo che a quel punto lo scontro di piazza violentissimo con il Pci sarebbe stato inevitabile. La rotta di Alcide De Gasperi non si limitò alla mancata conquista del premio di maggioranza. La Dc perse l’8,4% dei voti: un calo in una certa misura inevitabile, dal momento che era venuto meno l’effetto di polarizzazione che aveva gonfiato le vele dello scudo crociato cinque anni prima, ma superiore a ogni aspettativa.

Persero parecchi voti anche tutti gli altri partiti della coalizione. Pci e Psi migliorarono le posizioni con 35 seggi in più. La destra decollò: i monarchici passarono da 14 a 40 deputati, il Msi da 6 a 29 seggi. Dopo le elezioni De Gasperi tentò di formare un governo monocolore Dc. Fu battuto in aula e abbandonò la politica. L’idea di premio di maggioranza fu silenziosamente sepolta. David Romoli

Il Compromesso Storico.

4 dicembre 1977. Storia della vignetta di Forattini su Berlinguer che seppellì il compromesso storico. Forattini su “Repubblica” ritrae il leader del Pci in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Duccio Trombadori su L'Unità l'8 Luglio 2023 

L’indimenticabile e maledetto 1977. Il PCI, dopo un balzo elettorale che lo aveva portato quasi alla pari con la DC, sosteneva con l’astensione parlamentare (la “non sfiducia”) un governo monocolore presieduto da Giulio Andreotti, con l’impegno a fronteggiare una assai brutta situazione economica e sociale (inflazione, recessione, debito pubblico) in presenza di una strisciante guerra civile alimentata, se non auspicata, da varie forze interne e internazionali, con la presenza di gruppi estremisti armati, di sinistra e di destra, infiltrati e organizzati, in parte clandestini, nel mondo del lavoro e in quello studentesco, che scuotevano seriamente le fondamenta delle istituzioni democratiche.

Berlinguer, con equilibrio e tenuta ideologica, aveva intrapreso e sostenuto la controversa politica di ‘austerità’ (condizione necessaria per affrontare la crisi) generando malumori esterni ma anche interni al Partito comunista e al sindacato CGIL dove, in polemica con Luciano Lama, varie correnti (soprattutto i metallurgici) mal digerivano i sacrifici richiesti e reclamavano a parole una ‘sterzata a sinistra’ sul piano politico. La quale si annunciò il 2 dicembre 1977, qualche giorno dopo l’assassinio brigatista del giornalista de La Stampa Carlo Casalegno, con lo sciopero generale ed una imponente manifestazione nazionale operaia di CGIL-CISL-UIL, che sfilò per le vie di Roma reclamando una svolta nella politica economica.

Fu quella un’evidente “pressione dal basso” sulla politica del PCI considerata troppo “attendista”. A dare manforte ci si mise pure Forattini, che pubblicò una vignetta con Berlinguer in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Quella vignetta produsse il suo notevole effetto. Quasi per reazione a quell’immagine che lo canzonava, il segretario del PCI puntò diritto dove voleva, forse, già andare: vale a dire a far cadere il governo Andreotti per ottenere l’ingresso diretto del PCI in una maggioranza di governo con la DC.

Se questa era l’idea perseguita da Berlinguer, tale non sembrava essere quella di buona parte del PCI, per diverse ragioni, a partire dalla cosiddetta ‘destra’, che temeva di toccare equilibri interni e internazionali: ricordo in proposito il disappunto di Paolo Bufalini, quando esponeva le sue inquietudini in privato, parlando con mio padre, durante gli abitudinari incontri al desco de La Carbonara; ma soprattutto non corrispondeva al progetto di Aldo Moro, il quale, nel suo previdente temporeggiare, se non escludeva le intese con il PCI, aveva però sempre precluso l’ipotesi di un governo con i comunisti.

Forse toccato dalla vignetta di Forattini (che fece clamore, con sommo gaudio di Scalfari per le vendite di Repubblica) o forse no, fatto sta che Enrico Berlinguer da quel momento accelerò la scalata alla ‘stanza dei bottoni’ (fino al punto di dichiararsi favorevole anche ad una improbabile maggioranza “laica” senza la DC) e aprì una crisi di governo -forzando le intenzioni del Presidente democristiano- che iniziò nel gennaio 1978 e si concluse il 16 marzo 1978 sull’onda emotiva del tragico sequestro di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta da parte dei ‘comunisti combattenti’ delle Brigate Rosse.

Perché Berlinguer ebbe timore di vedersi caricaturato con le pantofole e il giornale in poltrona, davanti ad un thè fumante, non mi è mai risultato chiaro. Più chiari e anche purtroppo più infausti mi sono sempre apparsi i risultati della sua reazione a quella simbolica e compromettente vignetta.

Duccio Trombadori 8 Luglio 2023

Superstiziosi.

Barbara Costa per Dagospia domenica 20 agosto 2023. 

In che mani siamo? O siamo stati, politicamente? Non so voi, ma io a sortilegi e affini non credo, sono razionale allo sfinimento, e però qui la gran questione è: abbiamo avuto politici che ci hanno governato credendo a maghi, fattucchiere, pozioni, arti occulte, bianche e nere? Sì. Lindau Editore fa benissimo a ripubblicare "La Magia e il Potere. L’esoterismo nella Politica Occidentale" di Giorgio Galli, storico non necessitante presentazioni, che in tale suo lavoro svela i coiti tra esoterismo e politici dalla nascita dello Stato moderno a oggi.

Per niente sottovalutando le diavolerie di un Richelieu, d’un Ceausescu, io sono corsa al capitolo che tratta la stra-famigerata seduta spiritica del 1978, fatta sull’Appennino emiliano da professoroni, diventati poi ministri, e pure premier, per "scoprire" dove le Br tenessero prigioniero Aldo Moro. Una stramberia – questa seduta spiritica – a me curiosissima: perché si è stati – e si è – vergognosi a parlarne? Come appura Giorgio Galli, tutta ma proprio tutta la verità su tale chiamata di spiriti, non si sa. Si sa che all’evento c’era Romano Prodi, sì sì, e con lui 11 persone dai curricula paurosi. Tutti cattolici. Sì sì.

E tutti a giochicchiare con le anime dei morti. Giorgio Galli è preciso: “Il 2 aprile 1978, è un sabato, e sono passati 17 giorni dal sequestro di Moro”. Ci sono 12 amici in gita a Zappolino, vicino Bologna: “Nel pomeriggio, il tempo si guasta, invece di una passeggiata viene organizzata una seduta spiritica, per avere notizie sull’amico Aldo Moro”. 

Ah. Galli dice che è stata fatta a casa di uno dei 12, peccato non dica chi avesse l’occorrente – le capacità, già, chi ha fatto da medium? C’era un medium? E qualificato? – necessari per dar vita a tale seduta. Passa subito ai fatti: “Viene posto al centro del tavolo un piattino da caffè, sotto di esso è collocato un foglio con numeri e lettere”. E chi invocano i presenti? Giorgio La Pira, defunto cattolicone DC, padre costituente e pure ex sindaco di Firenze, ma non solo: “Pare vengano evocati anche don Luigi Sturzo, e Alcide De Gasperi”.

Comunque risponde La Pira, è lui, lo spirito destato che “fa muovere il piattino e forma la parola Gradoli”. A questo punto i partecipanti prendono “lo stradario, in macchina”, e trovano Gradoli, paese in provincia di Viterbo e non la via Gradoli di Roma. Ma eccoci: “Dell’esito della seduta viene informato il ministro degli Interni”. E chi è che parla? Romano Prodi. Il 4 aprile, due giorni dopo "la rivelazione" di La Pira. E 7 mesi dopo, Prodi è nominato ministro dell’Industria. DC, ovvio.

Giorgio Galli non crede che tale seduta spiritica sia “stata fatta per gioco, per passatempo”, né che sia pura invenzione (come da più parti ventilato, che fosse una balla atta a celare la vera fonte della spiata Gradoli al governo, fonte poco o nulla lecita). E Galli soprattutto rileva che i Prodi non hanno partecipato attivamente alla convocazione di La Pira: “Stavano seduti accanto al tavolo”, sicché erano gli altri con le mani a catena a far due chiacchiere con La Pira? Dice Prodi in Commissione Stragi il 10 giugno 1981: “Era la prima volta che vedevo una cosa del genere. Il gioco del piattino è andato avanti diverse ore. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Ho ritenuto mio dovere, e a costo di sembrare ridicolo, di riferire la cosa. Il nome – Gradoli – era sconosciuto, e allora ho riferito immediatamente”. 

A chi? “A Umberto Cavina, portavoce di Benigno Zaccagnini, segretario DC”. A leggere Galli, si rizzano i capelli, e non per La Pira spiritato, ma sentite qua, è Prodi che parla: “Era una cosa buffa. Io stavo in disparte con i bambini, e il gioco mi ha incuriosito. Anch’io ho messo il dito nel piattino. [La seduta] è durata ore, mentre i bambini andavano e venivano”. I bambini sono 5, ma questi adulti – i loro genitori – si son messi a fare una seduta spiritica davanti a loro????? E questi adulti, con responsabilità sociali rilevanti, e amici di Moro, e con Moro sotto sequestro, l’Italia nel terrore, pensavano di trovare soluzioni col paranormale…!!?!?

Giorgio Galli riporta un’intervista radiofonica a una – anonima – partecipante alla seduta: “È stato un gioco, solamente un gioco… pioveva, eravamo costretti in casa… ma tutto era affrontato con animo leggero, c’erano i bambini… non ci siamo posti il problema della presenza dei bambini… era una distrazione per passare un po’ di tempo… il piattino si qualificò come Giorgio La Pira… poi dalla TV ho appreso che quel gioco aveva rivelato cose veritiere”. 

Ma consoliamoci: la seduzione del paranormale mica è solo roba da esponenti DC. Palmiro Togliatti, capo PCI, era solito portare “nella tasca destra dei pantaloni un amuleto, una stretta e lunga pelle di serpente intero, arrotolata, e marrone”. Poi dici che non era il Migliore. E ancora: con Togliatti, mai mettersi a tavola in 13. In nessuna occasione. Togliatti indossava solo vestiti positivi, “che portavano bene” (???). E questo lo dice Nilde Iotti, compagna sua. Ma con "fenomeni" politici di siffatto livello, come possiamo mettere becco nelle follie sovrannaturali dei capi esteri?

Giorgio Galli racconta che per 8 anni, alla Casa Bianca, Ronald e Nancy Reagan si sono affidati ai vaticini di “Joan Quigley, astrologa di San Francisco”, specializzata nella divinazione di “giorni buoni e giorni cattivi”, e nell’inviare “mensilmente le elevate fatture [di soldi] alla Casa Bianca”. 

La pagavano i contribuenti? Il capo di stato cinese Deng Xiaoping ricorreva agli sciamani, Bill Clinton ha detto di essere “in contatto con lo spirito di Elvis Presley”, sua moglie Hillary alla Casa Bianca aveva “conversazioni con la ex first lady Eleanor Roosevelt”, morta nel 1962, e, scusate ma sono fissata, è vera la storia che durante il sequestro Moro, il governo, per sapere dove stava, “è ricorso a un sensitivo”, e a un veggente ??? E pure a una suora di clausura che c’aveva le visioni? Io non lo so, ma, nella Prima Repubblica, a “indovine, pranoterapeute, e esperti del paranormale” ricorrevano pure “Tambroni, Fanfani, e Andreotti”? Si tirava a campare secondo la congiuntura astrale?

Piero Calamandrei.

L’inventario di Calamandrei, una dichiarazione d’amore alla Patria. Il giurista e padre costituente, oltre ad essere autore di preziosi scritti giuridici e politici, ebbe anche una ispirazione più “intima” che trovò compimento nel “Inventario della casa di campagna”. Mario Taddeucci Sassolini su Il Riformista il 16 Agosto 2023 

“Il desiderio di fare l’inventario di questi tesori custoditi nella casa di campagna si acuisce in questo ambiguo tempo fra i quaranta e i cinquant’anni, in cui ci si accorge che la nostra tribù comincia a fare i preparativi per la partenza. È questa, a mezza strada fra le speranze della gioventù e la rassegnazione della vecchiaia, la tempestosa stagione degli adii”.

Piero Calamandrei, fiorentino, giurista e padre costituente, oltre ad essere autore di preziosi scritti giuridici e politici, ebbe anche una ispirazione più “intima” che trovò compimento nel “Inventario della casa di campagna”.

Libro inizialmente destinato ai soli amici (la prima edizione venne stampata e donata in poche copie nel Natale del ’41), l’ “Inventario” è una sorta di crogiolo nel quale Calamandrei fonde, con straordinaria sensibilità, cose e persone, affetti e sensazioni tattili, nel mentre ripercorre gli anni che lo videro, bambino, vivere le vacanze estive prima a Montauto e poi a Montepulciano.

Ogni incontro con le “cose” procura in Calamandrei un ricordo, che viene proiettato su due piani sentimentali differenti, i quali si fronteggiano senza, invero, mai collidere: quello del bambino, per il quale “tutto il mondo è figura, anche un gatto cieco che sonnecchia sugli scalini della chiesa”, e quello dell’adulto, che a quel ricordo si affida per constatare che l’incedere dell’età insegna “la artificiosa gerarchia dei piani prospettici”, il che non fa venire meno l’attitudine a vivere la maturità ed “esplorare, per conoscerlo meglio, questo mondo dal quale siamo di passaggio”. Nell’Inventario” si percepisce, forte, il legame con la natura che genera una grammatica fungibile.

Non meno importante, nel ricordo di Calamandrei, è il rapporto tra il mondo fisico che lo ha circondato da bambino e le persone che ha amato, relazione che tesse una tela sentimentale struggente.

Così il passaggio in un viottolo dal quale anche il padre transitava, procura una reminiscenza intensa e “materiale”:” la sera, quando gli correvo incontro per dargli un bacio, la sua barba aveva l’odore di questi boschi, che lungo il sentiero con le frasche più basse avevano sfiorato in viso a lui troppo alto, come oggi lo sforano a me…”; oppure la narrazione delle ore passate con il nonno, magistrato in pensione il quale “non sapeva staccarsi dalla sua abitudine professionale di considerare come degni di attenzione tutti gli indizi”.

I sentimenti, tuttavia, trovano spazio nel libro anche attraverso la constatazione dell’azione del tempo sui ruoli affettivi, il che rende la narrazione altrettanto intensa e commovente: “Padre e figlio, finché vivono, marciano uno dietro l’altro sullo stesso sentiero, a distanza di una generazione: finché son vivi e camminano, non possono né avvicinarsi né guardarsi in faccia: solo quando il padre si ferma nella morte, la distanza comincia a diminuire. Allora egli si riposa, e si volge indietro ad aspettare il suo figliuolo che sale: e il figlio può finalmente vedere il volto del suo babbo e riconoscersi in lui sempre meglio, via via che la distanza decresce. Come quando, a guardar contro sole, un momentaneo abbaglio dà l’illusione di veder camminare sulla strada due persone distinte; ma poi, via via che la vista si rischiara, le due immagini rientrano l’una nell’altra e si sovrappongono fino a coincidere: e si vede che sulla strada cammina una persona sola”.

A corredo di tutto il narrato traspare il Calamandrei “politico”, quasi un secondo riflesso che connota molte pagine: per tutte, l’osservazione delle dinamiche di un formicaio che diventa motivo di riflessione delle sorti dell’uomo, in una auspicata palingenesi lillipuziana.

Questa relazione reciproca tra mondo della fantasia e società adulta, genera un lascito di straordinaria forza rappresentativa, una dichiarazione di amore per la propria patria che si rinviene nelle ultime pagine dell’”Inventario”, scritte con parole che non possono e non debbono essere parafrasate: “… i nostri lutti, il nostro amore, il passato e l’avvenire, le nostre speranze, la nostra libertà, Toscana, dolce patria nostra”.

Mario Taddeucci Sassolini

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” 28.08.2018: Un magistrato di lungo corso cita Calamandrei: «I giudici sono come i maiali: quando ne tocchi uno, gridano tutti». 

“Questi piccoli uomini (i magistrati) si devono sentire così insignificanti, che per nascondere questa loro insicurezza, si accodano al gregge, silenziosi e obbedienti, come le pecore o, peggio, “come i maiali che si rotolano nel porcile che, quando ne tocchi uno, gridano tutti” [n.d.r.: l’ultima parte è presa a prestito da “Elogio dei giudici” di Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, che ammoniva che, “in democrazia, il pericolo maggiore per i giudici, è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima…”].

Frasi di Piero Calamandrei. Da Frasicelebri.it

IDENTIKIT E DATI ANAGRAFICI

Nome Piero

Cognome Calamandrei

Nato 21 aprile 1889 a Firenze

Morto 27 settembre 1956 a Firenze

Sesso maschile

Nazionalità italiana

Professione giurista, docente, politico, giornalista

Segno zodiacale Toro

LIBRI DI PIERO CALAMANDREI

Lo Stato siamo noi

Discorso sulla...

Elogio dei giudici...

Frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei

“Gli avvocati non sono né giocolieri da circo, né conferenzieri da salotto: la giustizia è una cosa seria.” PIERO CALAMANDREI 

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Che vuol dire «grande avvocato»?

Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni.

Utile è quell'avvocato che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l'udienza con la sua invadente personalità, che non annoia i giudici...”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale.”

La trovi in SCUOLA E UNIVERSITÀ

“Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Niente di male col crocifisso in aula. Ma non dovrebbe stare dietro le spalle dei giudici. Lì lo vede solo il giudicabile ed è portato a credere che lo ammonisca a lasciar perdere ogni speranza (simbolo non di fede ma di disperazione). Va messo in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre...” 

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“La Democraziacristiana, con ammirevole pazienza e coerenza, sta sistemando i suoi fedeli non soltanto nei pubblici uffici, necessariamente temporanei, ma nelle più stabili e più lucrose cariche direttive degli istituti controllati dallo Stato, nelle banche, nei giornali, nei consigli di amministrazione delle grandi industrie: ovunque ci sia un...” 

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“In questo clima avvelenato di scandali giudiziari e di evasioni fiscali, di dissolutezze e di corruzioni, di persecuzioni della miseria e di indulgenti silenzi per gli avventurieri di alto bordo, in questa atmosfera di putrefazione che accoglie i giovani appena si affacciano alla vita, apriamo le finestre: e i giovani respirino l’aria pura delle...” 

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.”

DI PIÙ SU QUESTA FRASE ››

“La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Bisognerebbe che ogni avvocato, per due mesi all'anno, facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all'anno, facesse l'avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi e reciprocamente si stimerebbero di più.”

La trovi in STORIA

“Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. [...] Per vent'anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell'ombra.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Gli avvocati non sono né giocolieri da circo, né conferenzieri da salotto: la giustizia è una cosa seria.”

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

"La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una... 

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

“Assai spesso i giudici, per la tendenza che ogni uomo sente di proteggere i deboli contro i forti, sono tratti senza accorgersene a favorire quella parte che è difesa peggio: un difensore inesperto può fare talvolta, se trova un giudice di cuore generoso, la fortuna del suo cliente.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“In questa Costituzione [...] c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“La Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi che per venti anni lo aveva soffocato.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Disse il cliente nello scegliersi il difensore: «Eloquente e furbo: ottimo avvocato»!

Disse il giudice nel dargli torto: «Chiacchierone e imbroglione: avvocato pessimo!».”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Nel giudice non conta l'intelligenza, la quale basta che sia normale per poter arrivare a capire come incarnazione dell'uomo medio, «quod omnes intellegunt»: conta soprattutto la superiorità morale, la quale dev'esser tanta da far sì che il giudice possa perdonare all'avvocato di esser più intelligente di lui.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“L'avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma se stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l'avvocato che ha il dovere di farsi capire fra i due, quello che sta a sedere, in attesa, è il giudice; chi sta in piedi, e deve muoversi e avvicinarsi anche spiritualmente, è l'avvocato.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

DI PIÙ SU QUESTA FRASE ››

“È arduo codificare l'indipendenza. Occorrono certo la terzietà e l'imparzialità ma occorre anche che terzietà e imparzialità siano assicurate sotto il profilo dell'apparenza... Il giudice ad esempio dovrebbe consumare i suoi pasti in assoluta solitudine.” 

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Il popolo italiano consacra alla memoria dei fratelli caduti per restituire all’Italia libertà e onore la presente Costituzione.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“In uno Stato che si afferma indipendente, gli organi che lo governano si trovino senz’accorgersene, in virtù di questi segreti canali di permeazione, a esprimere non la volontà del proprio popolo, ma una volontà che vien dettata dall’esterno e di fronte alla quale il popolo cosiddetto sovrano si trova in realtà in condizione di sudditanza.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Non più indipendenza, ma «interdipendenza»: questa è la parola non nuova in cui, se non si vuol che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato: libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce...”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“L'avvocato, che nel difendere una causa entra in aperta polemica col giudice, commette la stessa imprudenza dell'esaminando, che durante la prova si prende a parole coll'esaminatore.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“All’avvocato, quando tratta col giudice, non disdice l’umiltà: che non è né viltà né piaggeria di fronte all’uomo, ma reverenza civica all’altezza della funzione.”

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

“Il giudice è il diritto fatto uomo; solo da questo uomo io posso attendermi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge mi promette: solo se questo uomo saprà pronunciare a mio favore la parola della giustizia, potrò accorgermi che il diritto non è un'ombra vana.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Alle prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori: il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Furono la partecipazione popolare e la spinta dal basso a riproporre con forza l’antifascismo come fondamento della religione civile del nostro paese.”

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

“Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Il pericolo nuovo che incombe sulla giustizia è la politicizzazione dei giudici... Il magistrato che scambia il suo seggio con un palco da comizio cessa di essere magistrato.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Magistratura ed avvocatura: organi complementari di una sola funzione, legati da scambievole rispetto e da reciproco riconoscimento di uguale dignità verso lo scopo comune.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Il diritto, fino a che nessuno lo turba e lo contrasta, ci attornia invisibile e impalpabile come l'aria che respiriamo: inavvertito come la salute, di cui si intende il pregio solo quando ci accorgiamo di averla perduta.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“L'avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sè.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“Certi clienti vanno dall’avvocato a confidargli i loro mali, nell’illusione che, col contagiarne lui, essi ne rimarranno subito guariti: e ne escono sorridenti e leggeri, convinti di aver riconquistato il diritto di dormire tranquilli dal momento che hanno trovato che si è assunto l’obbligo professionale di passare le sue notti agitate per conto...” 

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Se la libertà ci fu restituita perché l’eroico popolo russo seppe compiere il miracolo di Stalingrado, essa ci fu restituita anche perché nell’agosto del 1940 il popolo inglese resisté eroicamente all’uragano di fuoco che infuriava sul cielo di Londra, e perché l’America portò nella mischia lo schiacciante peso delle sue armi formidabili. Né...”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“L'avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma sé stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l'avvocato che ha il dovere di farsi capire.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Non so se la parola «tribunale» abbia la sua radice etimologica nel numero tre, come l'assonanza potrebbe far credere: tribunale, perché nella sua composizione ordinaria è composto da tre giudici.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Per voler la pace non c’è altra via che quella di prepararla coi trattati di commercio e di lavoro, che stringono tra gli uomini legami di solidarietà; e chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno a un unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione alla nazione, dalla unione supernazionale alla intera umanità.”

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

“Senza probità non può aversi giustizia, ma probità vuol dire anche puntualità, che sarebbe una probità spicciola, da spendersi nelle piccole pratiche di ordinaria amministrazione.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza.”

La trovi in GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

“Non si confonda la giustizia in senso giuridico, che vuol dire conformità delle leggi, con la giustizia in senso morale che dovrebbe essere tesoro comune di tutti gli uomini civili, qualunque sia la professione che essi esercitano nella vita pratica.”

Dal libro: LO STATO SIAMO NOI

“La desistenza avviliva questo slancio, spegneva queste passioni, spingeva tutti a rinchiudersi nel terrificante perimetro circondato dalle mura del «tengo famiglia» e «mi faccio i fatti miei».”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Per capire come il processo veramente funzioni, non basta neanche assistere alle udienze, o leggere le sentenze, o studiare le statistiche giudiziarie: i riti essenziali della giustizia sono quelli che si celebrano senza spettatori nelle camere di consiglio, ove si decidono le sorti delle cause, o nei consigli giudiziari ove si decidono le sorti...” 

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

Disse un giudice, che aveva una certa fantasia, a un professore di procedura: "Voi passate la vita ad insegnare agli studenti che cosa è il processo: meglio sarebbe, per cavarne buoni avvocati, insegnar loro che cosa il processo non è. Per esempio: il processo non è un palcoscenico per gli istrioni; né una vetrina per mettervi in mostra le... 

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“I giuristi non possono permettersi il lusso della fantasia.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri.”

Dal libro: DISCORSO SULLA COSTITUZIONE AGLI STUDENTI DI MILANO

“Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.”

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

“A questa inversione della logica formale par che il giudice sia consigliato ufficialmente da certi procedimenti giudiziari: come quelli che, mentre gli impongono di pubblicare in fine d'udienza il dispositivo della sentenza (cioè la conclusione), gli consentono di ritardar di qualche giorno la formulazione dei motivi (cioè delle premesse).”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Accade che lo Stato agisce talora come se fosse il più aperto nemico dei giudici e i giudici se vogliono rendere giustizia devono farlo a volte, più che in nome dello Stato, a dispetto dello Stato. Qui in Italia tra magistrati e ministri di giustizia si respira da un pezzo un'atmosfera di reciproca ostilità e mutuo sospetto.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“Sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una funzione, di essere al servizio della fazione contraria.”

La trovi in DIRITTO E AVVOCATI

“La peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo. Una malattia mentale simile all'agorafobia, il terrore della propria indipendenza.”

“Chi entra in tribunale, portando. nel suo fascicolo, in luogo di buone e oneste ragioni, secrete inframmettenze, occulte sollecitazioni, sospetti sulla corruttibilità dei giudici e speranze sulla loro parzialità, non si meravigli se, invece che nel severo tempio della giustizia, si accorgerà di trovarsi in un allucinante baraccone da fiera, in...” 

Dal libro: ELOGIO DEI GIUDICI SCRITTO DA UN AVVOCATO

- "Evidentemente lei ha sbagliato la difesa..."

- "No - disse l'avvocato - ho sbagliato la porta".

Piero Calamandrei. Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Piero Calamandrei (1889 – 1956), giurista, politico e scrittore italiano.

Citazioni di Piero Calamandrei

Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.

All'Italia questo patto [il Patto Atlantico] non solo non dà la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi a essa la certezza della immediata invasione, anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei.

Anche quando si trovi un ministro pieno di buone intenzioni, il quale si proponga di ridurre la scuola a essere veramente creatrice della democrazia come la Costituzione vorrebbe, è difficile che esso abbia approfondita conoscenza dei problemi tecnici, attinenti a tutti gli ordini di scuole, che occorre affrontare per avvicinarsi a questo ideale: per la tecnica, gli uomini politici debbono rimettersi ai burocrati; e i burocrati, assai spesso, sono conoscitori di congegni amministrativi, ma non di anime. Come volete che possa sentire la funzione formativa di libertà che deve avere la scuola in una democrazia un direttore generale che fino a ieri fu l'artefice “ a tout faire” dell'asservimento della scuola al fascismo?

Auguriamoci che mentre la Costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo patto atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla.

Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.

[Subito dopo la Liberazione] Conversando con Benedetto Croce, egli m'aveva detto: «Gli uomini nuovi verranno. Bisogna non lasciarsi scoraggiare dal feticismo delle competenze. Gli uomini onesti assumano con coraggio i posti di responsabilità, e attraverso l'esperienza gli adatti non tarderanno a rivelarsi».

Poche settimane dopo quel discorso, salì al governo un uomo nuovo: un uomo onesto, un uomo coraggioso. Egli non illuse e non deluse.

[Sulla Costituzione italiana] Credono tutti che sia democratica solo perché è antifascista.

Delle cause e degli aspetti del fascismo, storici di diverse tendenze hanno già dato svariate interpretazioni: e hanno messo in evidenza, secondo le premesse politiche o filosofiche da cui partivano, i fattori psicologici e morali, o quelli sociali ed economici di questa crisi: la esasperazione contingente del primo dopoguerra, o le lontane tare tradizionali di servaggio e di conformismo, o l'ultimo tentativo reazionario di una classe conservatrice, che tenta di sbarrare il cammino alle nuove forze progressive che avanzano. Forse in ognuna di queste concezioni c'è una parte di vero. Ma ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l'insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell'uomo: l'umiliazione brutale ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell'uomo degradato a cosa. [...] Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c'era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. Il primo passo, la rottura di una conquista millenaria, fu quello: il resto doveva fatalmente venire.

Facciamo comprendere a questi ridicoli vociferatori, che ogni tanto risognano, come nel macabro festino di Arcinazzo, di ritrovarsi a cantare le loro sconce canzoni di violenza, facciamo comprendere a questi miserabili superstiti che domani, se occorresse, se occorrerà, tutti quanti coloro che si sentirono fratelli nella Resistenza, democristiani e comunisti, liberali e socialisti, contadini e operai e studiosi e sacerdoti, tutti quanti si troverebbero, si troveranno ancora insieme, tutti uniti contro il mostro, tutti uniti in difesa della civiltà indivisibile. Tra noi lo sappiamo bene; ma è bene che tutti lo sappiano in Italia e fuori d'Italia.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora il partito dominante segue un'altra strada. Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. [...] Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. [...] Per vent'anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell'ombra.

I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».

Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza.

Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall'epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile.

Il compito degli uomini della Resistenza non è finito. Bisogna che essa sia ancora in piedi.

Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, ov'essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe.

I morti della Resistenza vollero essere, credettero di essere, le avanguardie di una nuova classe dirigente, pulita ed onesta, fatta di popolo, destinata a prendere il posto di tutti i profittatori e di tutti i corruttori. Quei morti furono la testimonianza e la promessa di un autogoverno popolare in formazione: ma, finita la guerra, i vecchi vivi risalirono sulle poltrone e la voce dei giovani morti fu ricoperta da quelle vecchie querele. [...] Eppure, amici, questa è stata la sorte singolare dell'Italia dopo il breve esperimento del governo Pani: che essa è tornata ad essere governata dalla classe dirigente prefascista; governata dai fantasmi.

Il mondo è purtroppo diviso in compartimenti stagni da grandi muraglie che si dicono invalicabili, senza porte e senza finestre ma queste mura non sbarrano soltanto quella linea che ormai si suol chiamare la «cortina di ferro » e che taglia il genere umano in due emisferi ostili. Mura altrettanto invalicabili ci attorniano, sui confini, nell'interno degli Stati, spesso nell'interno della nostra coscienza le mura del conformismo, dell'imperialismo, del colonialismo, del nazionalismo le mura che separano la miseria dal privilegio e dalla ricchezza spudorata e corrotta. Questo è ancora, secondo me, il compito della Resistenza. inutile qui ricercare le colpe per le quali siamo arrivati a questa tragica divisione del mondo forse non c'è partito o popolo che non abbia la sua parte di colpa. Ma gli uomini che appartennero alla Resistenza devono far di tutto per cercare che queste mura non diventino ancora più alte, che non diventino torri di fortilizi irte di ordigni di distruzione e ricercare i valichi sotterranei attraverso i quali, in nome della Resistenza combattuta in comune, si possa far passare ancora una voce, un sussurro, un richiamo. Quello che unisce, non quello che separa rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un'altra razza o a un'altra religione o a un altro partito.

Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono a uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell'aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c'era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Roselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.

In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi dieci anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. [...] Noi sentiamo, quasi con la immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti. Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: è la nostra vita, che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre.

La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.

"La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria.

Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica; ma alla base ci deve essere un sentimento di fede nell'uomo, di rispetto alla dignità dell'uomo, che è poi una grande idea cristiana [...]

La Resistenza aveva lasciato al mondo una speranza: più che una speranza, un impegno. Chi l'ha tradito? Perché l'abbiamo tradito?

Se si vuole intendere che cosa fu la Resistenza, non si deve dar questo nome soltanto al periodo finale che va dall'8 settembre al 25 aprile. Questo fu il parossismo finale della lotta; ma l'inizio di essa risaliva a venticinque anni prima. [...] Essa era cominciata fin da quando era cominciata l'oppressione, cioè fin da quando lo squadrismo fascista aveva iniziato per le vie d'Italia la caccia dell'uomo.

La scienza del diritto, se rinuncia ad ogni valutazione critica delle istituzioni vigenti, senza la quale non è possibile progresso verso ordinamenti migliori, si condanna ad essere vuota accademia, tagliata fuori dalla vita che è perpetuo movimento.

Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici.

Legalità significa partecipazione di tutti i cittadini alla formazione delle leggi; e significa altresì preventiva delimitazione dei poteri del legislatore, nel senso che esso si impegna in anticipo a non menomare colle sue leggi certe libertà individuali («diritti di libertà»), il rispetto delle quali si considera come condizione insopprimibile di legalità.

Lo avrai | camerata Kesselring | il monumento che pretendi da noi italiani | ma con che pietra si costruirà | a deciderlo tocca a noi.

[La Costituzione italiana] non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l'avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s'intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche.

Ovunque è un sacrificio per il bene degli altri, ovunque è la disposizione morale da preferire al tradimento lucroso di un'idea la morte squallida per quell'idea, ivi è religione.

Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità; per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l'indifferentismo che è, non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani, un po' una malattia dei giovani.

Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s'accorgono che è giunta l'ora di mettersi in viaggio. Era giunta l'ora di resistere; era giunta l'ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.

Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.

Questa è, secondo me, la grande eredità ideale che la Resistenza, anche quando i suoi eroismi saranno trasfigurati dalla leggenda, avrà lasciato al popolo italiano come viva forza politica del tempo di pace: il senso della democrazia; il senso del governo di popolo: del popolo che vuol governarsi da sé, che vuole assumere su di sé la responsabilità di governarsi, che vuol cacciare via tutti i tiranni, tutti i padroni, tutti i privilegiati, tutti i profittatori, e identificare finalmente, in una Repubblica fondata sul lavoro, popolo e Stato.

Se nel campo morale la Resistenza significò rivendicazione della ugual dignità umana di tutti gli uomini e rifiuto di tutte le tirannie che tendono a trasformare l'uomo in cosa, nel campo politico la Resistenza significò volontà di creare una società retta sulla volontaria collaborazione degli uomini liberi ed uguali, sul senso di autoresponsabilità e di autodisciplina che necessariamente si stabilisce quando tutti gli uomini si sentono ugualmente artefici e partecipi del destino comune, e non divisi tra padroni e servi.

Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest'aula, in cui una sciagurata voce [Benito Mussolini] irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l'esilio e la morte.

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l'andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l'eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all'Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.

Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.

Non dobbiamo tradirli.

Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale.

Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.

Sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

Uomini della Resistenza, questo è il vostro compito continuare, riaprire il dialogo della ragione ed educare, se ancora siamo in tempo, non in un solo partito ma in tutti i partiti, una nuova classe politica di giovani, che portino nella vita politica quella serietà civica, quell'impegno religioso di sincerità e di dignità umana, che fu il carattere distintivo della Resistenza questo senso di autoresponsabilità, questa volontà di governarsi da sé contro il paternalismo, contro il conformismo, contro l'immobilismo. E che torni, anche in politica, il tempo della buona fede.

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell'uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.

Aver riscoperto la dignità dell'uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l'apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.

Quando si dice che la guerra partigiana si distingue da tutte le altre guerre perché fu una guerra fatta interamente da volontari, si dice giusto, ma non si dice tutto. Essa fu qualcosa di più: un'adunata spontanea e collettiva: un movimento di popolo, una iniziativa di popolo. [...]

L'8 settembre, quando cominciò spontaneo e non ordinato da qualcuno questo accorrere di uomini liberi verso la montagna, avvenne qualcosa di misterioso che a ripensarlo oggi sembra un miracolo di cui si stenta a trovare una spiegazione umana. Nessuno aveva ordinato l'adunata: questi uomini accorsero da tutte le parti e si cercarono e si adunarono da sé. [...] Quella chiamata fu anonima, non venne dal di fuori: era la chiamata di una voce diffusa come l'aria che si respirava, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un'ispirazione che sussurrava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d'uomo, questa è l'ora!».

Citazioni tratte da articoli de Il Ponte

Agosto 1945

La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale: e sono sorti così quei movimenti politici che invece di accentuare l'antagonismo tra l'idea liberale e l'idea socialista, hanno messo in evidenza che una democrazia vitale può attuarsi soltanto nella misura in cui la giustizia sociale, piuttosto che come ideale separato ed assoluto, sia concepita come premessa necessaria e come graduale arricchimento della libertà individuale. Questo è il significato delle varie formule in cui è stata espressa ugualmente questa inscindibile interdipendenza dei due aspetti di un solo ideale: «socialismo liberale» di Rosselli; «liberalsocialismo» di Calogero; «giustizia e libertà» del Partito d'Azione; «democrazia progressiva» dei comunisti italiani.

Se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di esplicar senza ostacoli la sua personalità per poter in questo modo contribuire attivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire. E siccome una assai facile esperienza dimostra che il bisogno economico toglie al povero la possibilità pratica di valersi delle libertà politiche e della proclamata uguaglianza giuridica, ne viene di conseguenza che di vera libertà politica potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo di benessere economico, senza il quale viene a mancare per chi è schiacciato dalla miseria ogni possibilità pratica di esercitare quella partecipazione attiva alla vita della comunità che i tradizionali diritti di libertà teoricamente gli promettevano.

L'ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l'uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà.

Noi uomini vissuti e destinati a morire in questa tragica stagione del dolore, dovremo serenamente creare nella Costituente lo strumento per aprire alla giustizia sociale le vie di un domani che noi potremo soltanto intravedere.

Settembre 1945

Libertà: [...] a ripeterla oggi, questa dolce parola che si può ancora gridare ad alta voce, il cuore trema come al primo incontro con l'amante ritrovata; e vien voglia di abbracciare, in nome di essa, il primo sconosciuto che s'incontra per via, tutti fratelli in questo nome, tutti rinati per essa a dignità di persone? Superata la prima emozione si rimane esitante: che vuol dire libertà? Qualcuno potrebbe osservare che tutto quello che è avvenuto, è avvenuto proprio per colpa della libertà: libertà dei ricchi, di oziare e accumulare altre ricchezze; libertà di una banda di criminali, d'impadronirsi del potere e di precipitare i popoli nell'abisso; libertà di un popolo di preparare scientificamente la schiavitù di altri popoli. Se a questo ha servito la parola libertà, cinquantacinque milioni di uomini si sarebbero dunque sacrificati soltanto per ricominciare tra dieci anni la stessa esperienza?

Non vogliamo crederlo. Se la carneficina deve avere un senso, se essa non è stata soltanto un fenomeno cieco e senza perché, bisogna che essa abbia servito ad arricchire la coscienza umana di una verità che va oltre la libertà: di una fede che non è contro la libertà, ma che è un approfondimento di essa, una libertà più piena e universale. Unità e indipendenza, il programma del Risorgimento, non basta più. Libertà intesa soltanto come indipendenza può voler dire, nelle relazioni tra singoli, rissa di egoismi, privilegio, sfruttamento, «homo homini lupus»; nelle relazioni tra regioni di una stessa patria, campanilismo e separatismo; nelle relazioni tra nazioni, nazionalismo e guerra. Indipendenza, ecco il tragico pregiudizio: l'orgoglio dell'uomo che considera la propria sorte staccata da quella degli altri, la cieca albagia nazionale che si illude di servire la patria collo schiacciare le patrie altrui. Non più indipendenza, ma "interdipendenza": questa è la parola non nuova in cui se non si vuol che il domani ripeta ed aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato.

Alla fine di dieci anni di martiri, la bomba atomica si affaccia come un simbolo riepilogativo, come la morale di un apologo: basterà che un uomo tocchi un tasto, perché tutti gli uomini, lui compreso, siano cancellati dal mondo. Cinquantacinque milioni di vittime si sono immolate per arrivare a scoprire la chiave misteriosa che può dischiudere aUa civiltà umana le porte del nulla: questo è il guadagno fruttato dall'immenso sacrificio.

Da questa raggiunta interdipendenza nella morte, deve nascere, come unica salvezza, la coscienza mondiale della interdipendenza di tutti gli uomini nella vita. Ormai l'avvenire è ridotto a un dilemma: o la pace nella giustizia, o l'esplosione cosmica nell'infinito di questa folle bolla di sapone iridata di sangue.

Ottobre 1946

Quel miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto, quando ogni speranza pareva perduta, in tutti i popoli europei agonizzanti sotto il giogo della tirannia interna ed esterna, ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome: «resistenza». Sotto la morsa del dolore o sotto lo scudiscio della vergogna, gli immemori, gli indifferenti, i rassegnati hanno ritrovata dentro di sé, insospettata, una lucida chiaroveggenza: si sono accorti della coscienza, si sono ricordati della libertà. Prima che schifo della fazione interna, prima che insurrezione armata contro lo straniero, questo improvviso sussulto morale è stato la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza: sete di verità e di presenza, ritorno alla ragione, all'intelligenza, al senso di responsabilità. La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell'uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l'uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.

Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell'interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell'infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest'ultimo ventennio tutte le sciagure d'Europa, merita di avere anch'esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: "Desistenza". Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e la Resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col fuoco, da questo universale deperimento dello spirito.

Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.

Tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell'uomo ma la perpetuità dei suoi ideali.

Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo. [...] Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desistenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.

Sono questi i segni dell'antica malattia. E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d'animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.

Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.

Dicembre 1946[modifica]

Ma chi è che semina le guerre? Se tra uno o tra dieci anni una nuova guerra mondiale scoppierà, dove troveremo il responsabile? Nell'ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli che avevano in mano le leve dell'ordigno infernale, per decretare il sacrificio dei popoli innocenti. Ma oggi quelle dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia: rendere ogni cittadino, anche il più umile, corresponsabile della guerra e della pace del mondo: toglier di mano queste fatali leve ai dittatori paranoici che mandano gli umili a morire, e lasciare agli umili, a coloro ai quali nelle guerre era riservato finora l'ufficio di morire, la scelta tra la morte e la vita.

Ma ecco, si vede con terrore che, anche cadute le dittature, nuove guerre si preparano, nuove armi si affilano, nuovi schieramenti si formano. Chi è il responsabile di questi preparativi? Si dice che gli uomini, che oggi sono al potere, sono stati scelti dal voto degli elettori: si deve dunque concludere che le anonime folle degli elettori sono anch'esse per le nuove carneficine?

Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani; ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita. [...]

Se domani la guerra verrà, ciascuno di noi l'avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l'ombra dei dittatori: quando c'è la libertà, tutti sono responsabili, nessuno è innocente.

Luglio 1948

Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. [...]

La maggioranza, affinché il parlamento funzioni a dovere, bisogna che sia una libera intesa di uomini pensanti, tenuti insieme da ragionate convinzioni, non solo tolleranti, ma desiderosi della discussione e pronti a rifare alla fine di ogni giorno il loro esame di coscienza, per verificare se le ragioni sulle quali fino a ieri si son trovati d'accordo continuino a resistere di fronte alle confutazioni degli oppositori. Se la maggioranza si crede infallibile solo perché ha per sé l'argomento schiacciante del numero e pensa che basti l'aritmetica a darle il diritto di seppellire l'opposizione sotto la pietra tombale del voto con accompagnamento funebre di ululati, questa non è più una maggioranza parlamentare, ma si avvia a diventare una pia congregazione, se non addirittura una società corale, del tipo di quella che durante il fatidico ventennio dava i suoi concerti nell'aula di Montecitorio.

Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.

In realtà, se la opposizione intende l'importanza istituzionale della sua funzione, essa deve sentirsi sempre il centro vivo del parlamento, la sua forza propulsiva e rinnovatrice, lo stimolo che dà senso di responsabilità e dignità politica alla maggioranza che governa: un governo parlamentare non ha infatti altro titolo di legittimità fuor di quello che gli deriva dal superare giorno per giorno pazientemente i contrasti dell'opposizione, come avviene del volo aereo, che ha bisogno per reggersi della resistenza dell'aria.

Si dirà che questo idilliaco quadro del governo parlamentare pecca di ingenuo ottimismo. E sia pure. Ma insomma, chi vuol sul serio il sistema parlamentare, non può concepirlo che così: altrimenti del parlamento resta soltanto il nome sotto il quale può anche rinascere di fatto la «Camera dei fasci e delle corporazioni».

Talvolta ci si domanda perché le sedute parlamentari non si riducano per semplicità a riunioni dei soli capigruppo, ognuno dei quali si porti in tasca per le votazioni tante palline quanti sono i deputati ai suoi ordini.

In tutte le assemblee parlamentari, e anche nella Camera italiana dei tempi migliori, zuffe ci son sempre scappate ogni tanto; e sono state considerate sempre con indulgenza, come segni di esuberante vitalità politica. Non si dimentichi che quasi mezzo secolo fa a Montecitorio si dové provvedere a inchiodare i calamai sui banchi, come sono tuttora, per evitare che gli onorevoli se li lanciassero da un settore all'altro (una volta uno di questi proiettili sperduti arrivò a macchiare il palamidone di Giolitti); e che ci fu perfino un presidente contro il quale i deputati dell'estrema sinistra si divertivano a tirare pallottole di carta per spregio!

Queste forme di sprezzante rifiuto, colle quali la maggioranza ostenta di non degnarsi neppure di discutere gli argomenti dell'opposizione, mi sembrano, per la sorte del sistema parlamentare, più pericolose delle reazioni violente; è una specie di ostruzionismo a rovescio con cui la maggioranza, mirando a screditar l'opposizione, viene in realtà a tradire la ragion d'essere del Parlamento, nel quale il voto dovrebbe essere in ogni caso la conclusione di una discussione e non il mezzo brutale per soffocarla.

In questo fronteggiarsi di due intransigenze religiose, sembra quanto mai problematico che ci sia da attendersi dalle nuove assemblee legislative un funzionamento corrispondente alla fisiologia del sistema parlamentare: e si può dubitare se non ci si avvii a una situazione parlamentare che riproduca in forma torpida e cronica quella stessa malattia di cui in forma acuta soffrì la Camera italiana tra il 1924 e il 1927, quando la maggioranza considerava gli oppositori («biechi» e «lividi» per definizione) come banditi, e l'opposizione aventiniana a sua volta aveva lasciato l'aula proprio per non aver contatto con quella maggioranza di ritenuti criminali, coi quali non c'era più la possibilità morale neanche di una discussione polemica in stile parlamentare.

Marzo 1949

Il passaggio del ventennio fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori, colla riforma della legislazione penale e dei regolamenti carcerari, un soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria, che senza accorgersene sopravvive al fascismo.

Se oggi nella stampa è diventato un episodio ordinario di cronaca nera, che lascia indifferenti i lettori, il fatto di detenuti che soccombono alle sevizie inflitte loro nel carcere, si deve ringraziare ancora quel celebre art. 16 del Codice di procedura penale del 1930, che garantendo praticamente l'impunità agli agenti di pubblica sicurezza «per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica», costituiva una specie di tacita istigazione alla tortura.

E tuttavia, anche se la condizione delle carceri è ricaduta a quella che era mezzo secolo fa, vi è oggi nella vita pubblica italiana un elemento nuovo, che potrebbe essere decisivo per una fondamentale riforma di esse. Se nel 1904 gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono certamente centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di reclusione per condanna del Tribunale speciale.

Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po' di luce di umanità nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre questa volta la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!

Giugno 1950

Quando la fede si trasforma in partito, e la lotta politica diventa guerra di religione, il partito confessionale è portato anche senza volerlo, anche senza accorgersene, a comportarsi come partito totalitario: finché sarà minoranza, difenderà la libertà, perché cercherà di servirsene per diventare maggioranza; ma una volta diventato maggioranza, sentirà il dovere di negar la libertà degli altri, perché il credente ha il dovere di obbedire ciecamente all'unica verità che può salvarlo, e di combattere per sbarrare la strada all'eresia che vuol dir perdizione. «Credere, obbedire, combattere».

Anche questo ordinamento in cui viviamo oggi rischia, come accadde a quello che durò un ventennio, di diventare un regime a doppio fondo; un regime in cui le vere autorità che governano lo Stato non sono quelle che figurano sui seggi ufficiali, ma quelle, potenti ed invisibili, che dall'esterno ne tirano i fili.

Più grave è quello che avviene senza clamore, giorno per giorno, sul piano economico e sociale; dove la Democrazia cristiana, con ammirevole pazienza e coerenza, sta sistemando i suoi fedeli non soltanto nei pubblici uffici, necessariamente temporanei, ma nelle più stabili e più lucrose cariche direttive degli istituti controllati dallo Stato, nelle banche, nei giornali, nei consigli di amministrazione delle grandi industrie: ovunque ci sia un profitto da trarre, una prebenda da lucrare, un gettone di presenza da riscuotere, una poltrona comoda con molti campanelli sulla scrivania e alla porta un'automobile da sdraiarcisi senza pagare. [...] E c'è qualcos'altro: cioè la frode e la corruzione ammesse come sistema di finanziamento del partito, il quale non si rifiuta di farsi complice di speculatori e di avventurieri a spese dello Stato, purché questi versino nelle casse del partito una parte delle loro ruberie.

Quando per diventare direttore di una banca, o preside di una scuola, o socio di un'accademia scientifica, o componente di una commissione di concorso universitario è necessario aver la tessera del partito che è al governo, allora quel partito sta diventando regime: allora la politica, che è necessaria e benefica finché scorre fisiologicamente negli uffici fatti per essa diventa, fuori di li, un pretesto per infeudare la società a una classe di politicanti parassiti; diventa una specie di malattia paragonabile all'arteriosclerosi perché impedisce quella circolazione e quel continuo ringiovanimento della classe dirigente, che è la prima condizione di vitalità d'ogni sana democrazia.

[Parlando della Democrazia Cristiana] Questi falsi credenti che non credono a nulla, ma che vanno in processione perché questo serve a i loro sporchi affari; questi bocciati agli esami che vincono i concorsi, in mancanza di una laurea, con un certificato parrocchiale; questi professionisti della corruzione, i quali si accorgono che i metodi di arricchimento che ieri erano tollerati a prezzo di un saluto romano, sonò anche oggi rispettati ugualmente a prezzo di una genuflessione.

Giugno 1951

È stato detto che la vera Costituzione è la maggioranza: se la maggioranza non vuol rispettare la Costituzione, vuol dire che la Costituzione non c'è più. Ma proprio per non sentir ripetere questo discorso, che era di moda sotto il fascismo, la Costituzione aveva predisposto al disopra della maggioranza organi indipendenti di garanzia costituzionale, destinati a proteggere la Costituzione contro la stessa maggioranza.

Dall'arringa di difesa di Danilo Dolci

Pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo

«Non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.»

«Ma come possiamo non digiunare se non abbiamo più pesce da pescare?»

«Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto. È un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.»

Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?

No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.

Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: «Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera, la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà». Che cosa è questo? È la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.

Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.

È, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle «leggi non scritte» che preannunciano l'avvenire.

Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M. se non, esse stesse, correnti di pensiero? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.

E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.

Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.

Oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.

La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «Diritto al lavoro"; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia «un'esistenza libera e dignitosa»...

Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?

Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. «le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano». Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le «nostre» leggi.

Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!

Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.

Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: «su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere». E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni.

Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei «fraticelli della povera vita», che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo. [...]

A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: «Ma perché ti ostini a voler morire?», egli risponde: «Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch'io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti». E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: «ma dunque costui ha il diavolo addosso?»; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzata dal pianto): «Forse ci ha Cristo».

Da Critica sociale, XLVIII, 5 ottobre 1956.

Quando si parla in senso dispregiativo del «parlamentarismo» come degenerazione del sistema parlamentare, non si vuole intendere, è chiaro, che si possano corrompere in sé le leggi che stabiliscono in astratto il modo con cui i congegni parlamentari dovrebbero funzionare; ma si intende dire che gli uomini incaricati di metterle in pratica, gli elettori e gli eletti, i deputati e i governanti, le possono far servire a finalità in contrasto con quelle per le quali queste leggi sono state in astratto dettate: a finalità di gruppo, in contrasto coll'interesse pubblico (per esempio gli interessi di un gruppo finanziario), o addirittura a finalità private: vi mettono dentro i loro propri moventi psicologici di carattere personale, ed è proprio per questo che a poco a poco tutto il sistema si trova a essere deformato e corrotto.

Uno degli aspetti psicologici più inquietanti della crisi del parlamentarismo è costituito, secondo me, da quel fenomeno che si potrebbe chiamare il «professionismo politico».

Un tempo, quando le Camere si adunavano di rado e i loro compiti erano relativamente limitati, il mandato parlamentare non aveva carattere professionale: i deputati, quando il Parlamento era convocato, interrompevano per qualche settimana la loro professione; ma appena chiusi i lavori, tornavano a casa loro a vivere di essa (o magari, a casa loro, a vivere di rendita). Le cariche parlamentari erano un sovrappiù marginale aggiunto all'attività professionale; appagavano ambizioni, aumentavano magari il prestigio e talvolta il reddito professionale di chi ne era investito (specialmente degli avvocati), ma non erano esse stesse un impiego e un mestiere: l'indennità parlamentare non era stata ancora inventata. Il politicante professionale era considerato, nella pubblica opinione, come un affarista spregevole.

Ma questo sistema aveva indubbiamente i suoi gravi inconvenienti: veniva a fare del mandato parlamentare un privilegio riservato a chi viveva di rendita o ai professionisti; era un lusso, non consentito ai rappresentanti delle classi operaie e contadine, che non potevano interrompere periodicamente il loro lavoro dei campi e delle fabbriche e mantenersi a Roma, nei periodi di attività legislativa a spese loro o del partito.

L'indennità parlamentare fu una grande conquista democratica, resa necessaria dal costante allargarsi della attività legislativa e dall'ascesa politica delle classi lavoratrici. Il Parlamento, invece di stare aperto per brevi periodi di qualche settimana, ha dovuto gradualmente prolungare i periodi del suo lavoro, fin quasi a sedere in permanenza, in modo che l'attività dei deputati ha dovuto, in misura sempre crescente, rimanere assorbita dalle esigenze della carica; e nello stesso tempo restringersi sempre più, fino ad annullarsi, il margine lasciato alla attività professionale privata.

In questo modo deputati e senatori sono diventati a poco a poco, anche senza volerlo, professionisti della politica: la politica, da munus publicum, è diventata una professione privata, un impiego.

Il deputato e il senatore sta diventando sempre più, in tutti i paesi dov'è in esercizio il sistema parlamentare, un funzionario stipendiato. Bisognerà arrivare a inibirgli il cumulo coll'esercizio di ogni altra attività retribuita, professionale o impiegatizia, come si vieta oggi agli impiegati dello Stato, la cui attività dev'essere interamente dedicata alla loro funzione, dalla quale essi legittimamente ritraggono quanto basta per vivere.

Ma in questo modo è chiaro che la psicologia del parlamentare si «burocratizza»: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego: l'attivismo politico diventa una «carriera». Non esser rieletti vuol dire perdere il pane: le campagne elettorali diventano, per molti candidati, lotte contro la (propria) disoccupazione.

Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.

Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.

Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.

Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.

La costituzione e la gioventù

Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.

La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità.

La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

«La politica è una brutta cosa. Che me n'importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l'oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz'ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!». Questo è l'indifferentismo alla politica.

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.

La Costituzione deve essere considerata, non come una legge morta, deve essere considerata, ed è, come un programma politico. La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare.

La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.

Rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, un tutto nei limiti dell'Italia e del mondo.

Elogio dei giudici, scritto da un avvocato[modifica]

L'avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma sé stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l'avvocato che ha il dovere di farsi capire [...]. (p. 55)

– Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione (p. 81)

– Evidentemente lei ha sbagliato la difesa... – No – disse l'avvocato – ho sbagliato la porta.[23] (p. 152)

[...] A questa inversione della logica formale par che il giudice sia consigliato ufficialmente da certi procedimenti giudiziarii: come quelli che, mentre gli impongono di pubblicare in fine d'udienza il dispositivo della sentenza (cioè la conclusione), gli consentono di ritardar di qualche giorno la formulazione dei motivi (cioè delle premesse). (p. 170)

Citazioni su Piero Calamandrei

Calamandrei è il primo ad aver capito che in una repubblica parlamentare basata su un sistema elettorale rigidamente proporzionalistico, sull'esistenza di due Camere elettive perfettamente simmetriche, e su un capo dello stato dai poteri limitati, il potere reale sarebbe stato detenuto dai partiti, con scarse o nulle possibilità di ricambio alla maniera delle più antiche e attrezzate democrazie parlamentari dell'Occidente. (Gianni Corbi)

Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano "rosso" (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria). (da Elogio dei giudici, prefazione alla III edizione, p. XIV)

Molti anni fa, nel 1951, Piero Calamandrei teneva un discorso all'università; parlava a giovani e giovanissimi nati e cresciuti sotto il fascismo. Alle spalle, quei ragazzi avevano la tragedia della guerra, incrociata quando la loro vita iniziava. La Costituzione era in vigore da soli tre anni e quei ragazzi la conoscevano poco e male e Calamandrei, giurista e costituente, nel rivolgersi a loro, cominciò proprio citando l'articolo 34, l'uguaglianza sostanziale nel campo dell'istruzione. Lo definì - parole sue - l'articolo più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l'avvenire davanti. (Gianni Cuperlo)

Per decifrare i miasmi che dalla decomposizione del fascismo si avventavano sul presente della nuova Italia repubblicana, egli coniò l'immagine straordinariamente efficace della «desistenza». [...] Calamandrei usa il termine in contrapposizione a «resistenza», mettendo a confronto quelle che essenzialmente sono due diverse concezioni della politica, oltre che due modi diversi di vivere la realtà della guerra e del dopoguerra. (Giovanni De Luna)

Frasi e citazioni di Piero Calamandrei da aforrismario.eu

Selezione di aforismi, frasi e citazioni di Piero Calamandrei (Firenze, 1889-1956), politico, giurista e avvocato italiano, tra i fondatori del Partito d'Azione e fondatore del settimanale politico-letterario Il Ponte. 

Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede.

(Piero Calamandrei)

Elogio dei giudici scritto da un avvocato © Le Monnier, 1935 - Selezione Aforismario 

Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore. 

Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede. 

Per trovar la purezza in tribunale, bisogna entrarci con animo puro. 

Ho quasi sempre vinto le cause in cui avevo come avversarî avvocati più furbi di me; ma, se non le ho vinte, son stato fiero di non trovarmi al posto del vincitore. 

Il diritto, fino a che nessuno lo turba e lo contrasta, ci attornia invisibile e impalpabile come l'aria che respiriamo: inavvertito come la salute, di cui si intende il pregio solo quando ci accorgiamo di averla perduta.  

Il giudice è il diritto fatto uomo. 

Il senso della giustizia, per il quale, appresi i fatti, si sente subito da che parte è la ragione, è una virtù innata, che non ha niente a che vedere colla tecnica del diritto: come nella musica, in cui la più grande intelligenza non serve a supplire alla mancanza di orecchio. 

Affinché non vacilli la fede nella giustizia, non deve neanche esser possibile il sospetto che la libertà personale degli umili valga meno di quella dei potenti. 

Oggi, quando ormai tutti sanno che in ogni processo, anche in quelli civili, si esplica non un giuoco atletico, ma la più gelosa ed alta funzione dello Stato, le schermaglie non si addicono più alle aule giudiziarie. Gli avvocati non sono né giocolieri da circo, né conferenzieri da salotto: la giustizia è una cosa seria. 

Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa'. 

Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.  

Grave peccato per il giudice è la superbia; ma forse è una malattia professionale. 

I giudici son come gli appartenenti a un ordine religioso: bisogna che ognuno di esso sia un esemplare di virtù, se non vuole che i credenti perdano la fede. 

L'avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.  

L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri. 

All’avvocato, quando tratta col giudice, non disdice l’umiltà: che non è né viltà né piaggeria di fronte all’uomo, ma reverenza civica all’altezza della funzione. 

Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza. 

Ogni popolo, si potrebbe dire, ha la magistratura che si merita. 

Non basta che i magistrati conoscano a perfezione le leggi come sono scritte; sarebbe necessario che altrettanto conoscessero la società in cui queste leggi devono vivere. 

Non sempre sentenza ben motivata vuol dire sentenza giusta; né viceversa. 

Bisognerebbe che ogni avvocato per due mesi all'anno facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all'anno, facesse l'avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi: e reciprocamente si stimerebbero di più.

Discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano, 1955 - Selezione Aforismario 

La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere.  

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. 

In questa Costituzione [...] c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli. 

Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.  

Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.  

La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità. 

La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. 

Il Ponte Articoli dal 1948 al 1951 

La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale. 

Di vera libertà politica potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo di benessere economico, senza il quale viene a mancare per chi è schiacciato dalla miseria ogni possibilità pratica di esercitare quella partecipazione attiva alla vita della comunità che i tradizionali diritti di libertà teoricamente gli promettevano. 

L'ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l'uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà. 

Non più indipendenza, ma "interdipendenza": questa è la parola non nuova in cui se non si vuol che il domani ripeta ed aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato. 

Il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell'interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell'infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. 

La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell'uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l'uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui. 

Quando la fede si trasforma in partito, e la lotta politica diventa guerra di religione, il partito confessionale è portato anche senza volerlo, anche senza accorgersene, a comportarsi come partito totalitario 

Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo. 

Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.

 Tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell'uomo ma la perpetuità dei suoi ideali. 

Discorsi e arringhe Selezione Aforismario 

Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra. 

Ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l'insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell'uomo: l'umiliazione brutale ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell'uomo degradato a cosa.  

Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. [...] Per vent'anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell'ombra. 

Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall'epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile. 

Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale. 

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza. 

Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici. 

Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica; ma alla base ci deve essere un sentimento di fede nell'uomo, di rispetto alla dignità dell'uomo. 

Sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. 

"La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria. 

Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società. 

La maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico.  

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi 

Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta. 

Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra. 

Senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà.  

Rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un'altra razza o a un'altra religione o a un altro partito. 

Pubblicato da Aforismario 

Frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei da Fabrizio Caramagna su Aforisticamente

Piero Calamandrei (Firenze, 1889-1956), politico, giurista, insigne avvocato e strenuo antifascista, fu tra i fondatori del Partito d’azione; fu membro della Consulta nazionale, poi della Costituente, dal 1948 al 1953 deputato alla Camera. Fondò, con Giuseppe Chiovenda e Francesco Carnelutti, la Rivista di diritto processuale civile.

Presento una raccolta frasi, citazioni e aforismi di Piero Calamandrei. Tra i temi correlati si veda 25 aprile – Frasi, citazioni e aforismi sull’Anniversario della Liberazione, Frasi, citazioni e aforismi contro il fascismo, Frasi, citazioni e aforismi sulla Costituzione e Frasi, citazioni e aforismi sulla libertà.

Discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano, 1955

La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.

In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli.

Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.

Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.

La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere.

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.

La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità.

Dall’arringa di difesa di Danilo Dolci, 1956

La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «Diritto al lavoro”; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa»…

Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?

Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!

Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico.

Frasi di Piero Calamandrei sulla Resistenza

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.

Quando si dice che la guerra partigiana si distingue da tutte le altre guerre perché fu una guerra fatta interamente da volontari, si dice giusto, ma non si dice tutto. Essa fu qualcosa di più: un’adunata spontanea e collettiva: un movimento di popolo, una iniziativa di popolo

In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi dieci anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi.

Il compito degli uomini della Resistenza non è finito. Bisogna che essa sia ancora in piedi.

L’8 settembre, quando cominciò spontaneo e non ordinato da qualcuno questo accorrere di uomini liberi verso la montagna, avvenne qualcosa di misterioso che a ripensarlo oggi sembra un miracolo di cui si stenta a trovare una spiegazione umana. Nessuno aveva ordinato l’adunata: questi uomini accorsero da tutte le parti e si cercarono e si adunarono da sé. […] Quella chiamata fu anonima, non venne dal di fuori: era la chiamata di una voce diffusa come l’aria che si respirava, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un’ispirazione che sussurrava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d’uomo, questa è l’ora!»

Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora di mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.

I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell’adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».

Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, ov’essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe.

La Resistenza aveva lasciato al mondo una speranza: più che una speranza, un impegno. Chi l’ha tradito? Perché l’abbiamo tradito?

Se si vuole intendere che cosa fu la Resistenza, non si deve dar questo nome soltanto al periodo finale che va dall’8 settembre al 25 aprile. Questo fu il parossismo finale della lotta; ma l’inizio di essa risaliva a venticinque anni prima

I morti della Resistenza vollero essere, credettero di essere, le avanguardie di una nuova classe dirigente, pulita ed onesta, fatta di popolo, destinata a prendere il posto di tutti i profittatori e di tutti i corruttori. Quei morti furono la testimonianza e la promessa di un autogoverno popolare in formazione: ma, finita la guerra, i vecchi vivi risalirono sulle poltrone e la voce dei giovani morti fu ricoperta da quelle vecchie querele

Frasi di Piero Calamandrei sul fascismo

Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale.

Ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo: l’umiliazione brutale ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa.

Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. Per vent’anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell’ombra.

Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono a uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Roselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata

Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici.

Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1935

Per trovar la purezza in tribunale, bisogna entrarci con animo puro.

Ho quasi sempre vinto le cause in cui avevo come avversarî avvocati più furbi di me; ma, se non le ho vinte, son stato fiero di non trovarmi al posto del vincitore.

Il diritto, fino a che nessuno lo turba e lo contrasta, ci attornia invisibile e impalpabile come l’aria che respiriamo: inavvertito come la salute, di cui si intende il pregio solo quando ci accorgiamo di averla perduta.

Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore.

Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede.

Affinché non vacilli la fede nella giustizia, non deve neanche esser possibile il sospetto che la libertà personale degli umili valga meno di quella dei potenti.

Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’.

Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.

Il giudice è il diritto fatto uomo.

Grave peccato per il giudice è la superbia; ma forse è una malattia professionale.

I giudici son come gli appartenenti a un ordine religioso: bisogna che ognuno di esso sia un esemplare di virtù, se non vuole che i credenti perdano la fede.

Non era né un eroe né un santo: era semplicemente un avvocato.

“Che vuol dire «grande avvocato»? Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni.

L’avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.

L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri.

All’avvocato, quando tratta col giudice, non disdice l’umiltà: che non è né viltà né piaggeria di fronte all’uomo, ma reverenza civica all’altezza della funzione.

Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione

Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza.

Ogni popolo, si potrebbe dire, ha la magistratura che si merita.

Non basta che i magistrati conoscano a perfezione le leggi come sono scritte; sarebbe necessario che altrettanto conoscessero la società in cui queste leggi devono vivere.

Non sempre sentenza ben motivata vuol dire sentenza giusta; né viceversa.

Bisognerebbe che ogni avvocato per due mesi all’anno facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi: e reciprocamente si stimerebbero di più.

Piero Calamandrei, Il Ponte, articoli dal 1946 al 1951

Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.

Il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi.

La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.

Quando la fede si trasforma in partito, e la lotta politica diventa guerra di religione, il partito confessionale è portato anche senza volerlo, anche senza accorgersene, a comportarsi come partito totalitario

La sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.

Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.

La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale.

Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione

Non più indipendenza, ma “interdipendenza”: questa è la parola non nuova in cui se non si vuol che il domani ripeta ed aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato.

Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.

Tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell’uomo ma la perpetuità dei suoi ideali.

Quando per diventare direttore di una banca, o preside di una scuola, o socio di un’accademia scientifica, o componente di una commissione di concorso universitario è necessario aver la tessera del partito che è al governo, allora quel partito sta diventando regime […] diventa una specie di malattia paragonabile all’arteriosclerosi perché impedisce quella circolazione e quel continuo ringiovanimento della classe dirigente, che è la prima condizione di vitalità d’ogni sana democrazia.

[Parlando della Democrazia Cristiana] Questi falsi credenti che non credono a nulla, ma che vanno in processione perché questo serve a i loro sporchi affari; questi bocciati agli esami che vincono i concorsi, in mancanza di una laurea, con un certificato parrocchiale; questi professionisti della corruzione, i quali si accorgono che i metodi di arricchimento che ieri erano tollerati a prezzo di un saluto romano, sonò anche oggi rispettati ugualmente a prezzo di una genuflessione.

Da critica sociale, 1956

Il deputato e il senatore sta diventando sempre più, in tutti i paesi dov’è in esercizio il sistema parlamentare, un funzionario stipendiato. Bisognerà arrivare a inibirgli il cumulo coll’esercizio di ogni altra attività retribuita, professionale o impiegatizia, come si vieta oggi agli impiegati dello Stato, la cui attività dev’essere interamente dedicata alla loro funzione, dalla quale essi legittimamente ritraggono quanto basta per vivere.

L psicologia del parlamentare si «burocratizza»: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego: l’attivismo politico diventa una «carriera». Non esser rieletti vuol dire perdere il pane: le campagne elettorali diventano, per molti candidati, lotte contro la (propria) disoccupazione.

Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.

Altre frasi di Piero Calamandrei

Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica; ma alla base ci deve essere un sentimento di fede nell’uomo, di rispetto alla dignità dell’uomo.

Sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.

“La legge è uguale per tutti” è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria.

La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l’aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l’aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.

La maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico.

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi

Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta.

Rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un’altra razza o a un’altra religione o a un altro partito.

Senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà.

Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.

Anche quando si trovi un ministro pieno di buone intenzioni, il quale si proponga di ridurre la scuola a essere veramente creatrice della democrazia come la Costituzione vorrebbe, è difficile che esso abbia approfondita conoscenza dei problemi tecnici, attinenti a tutti gli ordini di scuole, che occorre affrontare per avvicinarsi a questo ideale: per la tecnica, gli uomini politici debbono rimettersi ai burocrati; e i burocrati, assai spesso, sono conoscitori di congegni amministrativi, ma non di anime.

Enrico De Nicola.

La nostra volontà gareggerà con la nostra fede". Enrico De Nicola, il primo presidente: firmò la Costituzione “con sicura coscienza”. Carmine Abate su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

È ricordato principalmente per essere stato il primo presidente della Repubblica. Enrico De Nicola è stato però l’unico a presiedere entrambe le assemblee parlamentari italiane, prima la Camera dei deputati e poi il Senato. Negli ultimi anni della sua vita diventa anche il primo presidente della Corte costituzionale andando a coronare una carriera unica e forse irripetibile. All’appello, per ricoprire tutte le maggiori cariche dello Stato, mancò soltanto la presidenza del Consiglio. Anche se a dire il vero ebbe in diverse occasioni la chance di formare un governo, ma preferì sempre rinunciare.

Napoletano, si laurea in Giurisprudenza alla Federico II, intraprendendo una brillante carriera da avvocato penalista che lo rende famoso in tutta Italia. È eletto deputato nel 1909 nella XXIII legislatura del regno d’Italia. Sarà due volte sottosegretario nei governi Giolitti e Orlando. Proprio a quest’ultimo, nel 1920, succede alla presidenza della Camera. Si rende protagonista di importanti riforme del regolamento interno, come l’introduzione delle Commissioni permanenti.

È lui, il 31 ottobre del 1922, a presiedere l’assemblea il giorno del primo discorso alla Camera di Mussolini come presidente del Consiglio. Due anni dopo si candida con i fascisti alle elezioni politiche, ma decide poi di rifiutare la sua elezione e di ritirarsi a vita privata dedicandosi totalmente all’attività di avvocato. Nel suo studio legale, tra gli altri, si segnalano collaboratori come Giovanni Leone, anche lui futuro presidente della Repubblica. Fatto alquanto curioso e inedito: pur essendo ancora in vita, a De Nicola viene in quegli anni intitolata una strada ad Afragola. Nella circostanza lui stesso prenderà la parola.

È decisivo, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, nel trovare una soluzione alla crisi istituzionale convincendo Re Vittorio Emanuele ad accettare la figura di Luogotenente del Regno, affidata al figlio Umberto. Dopo il referendum del 2 giugno del 1946, con la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, Umberto II è costretto all’esilio e Alcide De Gasperi diventa capo provvisorio dello Stato. Questi rimane in carica pochissimi giorni, sostituito proprio da Enrico De Nicola, il quale a sua volta conferirà l’incarico di formare il governo allo statista trentino.

L’elezione di De Nicola come capo provvisorio, in un contesto di faticosa transizione dei poteri dopo il referendum, non fu casuale. Bisognava scegliere una figura che incontrasse il favore della popolazione, per non rendere il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica eccessivamente traumatico. De Nicola, monarchico e meridionale, era l’uomo perfetto. Il giurista napoletano era consapevole della delicatezza e della responsabilità del ruolo che andava a ricoprire in quel particolare frangente, come dimostrano le parole pronunciate il giorno dell’insediamento:

«Per l’Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All’opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe. Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più».

De Nicola, data la provvisorietà della sua carica, ritenne opportuno sistemarsi a Palazzo Giustiniani, a pochi passi dal Senato, piuttosto che al Quirinale. Famoso per la sua sobrietà e per il suo estremo senso del dovere, rifiutò lo stipendio previsto per il suo ruolo e preferì muoversi spesso con la sua auto privata.

Il momento più altamente simbolico della vita di Enrico De Nicola si realizza il 27 dicembre 1947. Quel giorno firma a Palazzo Giustiniani “con sicura coscienza” la Costituzione repubblicana. Insieme a lui il presidente del Consiglio De Gasperi e dell’Assemblea Costituente Terracini. Un’immagine indimenticabile per la storia italiana. Con l’entrata in vigore della Costituzione, il primo gennaio del 1948, De Nicola assume finalmente il titolo di presidente della Repubblica italiana. Dopo pochi mesi, nel maggio di quello stesso anno, De Nicola lascia il testimone a Luigi Einaudi, eletto presidente al quarto scrutinio. In molti sostengono che nonostante le ufficiali smentite dello stesso De Nicola, il politico campano desiderasse ricandidarsi per il Quirinale. Celebre in quell’occasione divenne l’articolo del giornalista Manlio Lupinacci che per sottolinearne l’eccessiva indecisione invitava De Nicola a “decidere di decidere se accetta di accettare”.

De Nicola diventa, secondo Costituzione, senatore a vita e di diritto e nel 1951 viene eletto presidente del Senato. Nel ’55 Gronchi, succeduto a Einaudi, lo nomina giudice costituzionale. Un mese dopo Enrico De Nicola diventerà il primo giudice della Corte Costituzionale. Muore tre anni dopo, il primo ottobre del 1959, nella sua casa di Torre del Greco. Aveva 81 anni.

Mi piace concludere il ritratto di Enrico De Nicola con le parole del primo messaggio che rivolse all’Assemblea Costituente nel luglio del 1946. Un messaggio che restituisce a mio avviso tutta la levatura e lo spessore di un politico che ha guidato con saggezza e passione il nostro Paese in uno dei momenti più decisivi, e complicati, della sua storia:

«La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l’Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini».

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

Antonio Segni.

Mariotto Segni: «Mio padre voleva come inno la Canzone del Piave. Il piano Solo? Nessuna tentazione autoritaria». Storia di Roberto Gressi Corriere della Sera 31 luglio 2023.

Mariotto Segni, detto Mario, 83 anni, padre del tentativo del bipolarismo in Italia. E figlio di Antonio Segni, classe 1891, due volte presidente del Consiglio, ministro per 135 mesi, capo dello Stato dal 1962 al 1964, quando, il 7 agosto, fu colpito da una gravissima trombosi. «Sì, fu mio padre Antonio a chiamarmi Mariotto. Dopo tre maschi tutti volevano una femmina. Nacqui io, che delusione! ( Segni sorride). Avevano finito i nomi e mio padre scoprì che tal Mariotto Segni, messo dei Medici, fu tra i costruttori di un castello. Tra le sue mille scelte fu quella con meno seguito: in famiglia nessuno mi chiamò mai Mariotto».

Antonio Segni è del 1891, che padre è stato? «Affettuosissimo, anche se ansioso e agitato. Fu preziosa mia madre, altrettanto affettuosa, ma serena e tranquilla. Una famiglia fortunata. Lei aveva dedicato tutta la sua vita extrafamiliare ai poveri. Mio padre quando ero piccolo era già ministro dell’Agricoltura e alto commissario per l’Alimentazione. Credevo dovesse portare da mangiare a tutti».

E invece che faceva? «Certamente la riforma agraria. Espropriò circa un milione di ettari, duecento dei quali erano suoi. Scelta discutibile economicamente, ma depotenziò la campagna dei comunisti di occupazione delle terre. La miseria atroce del bracciantato del Sud diminuì».

Era un ragazzo all’alba del ‘900. «Combatté sul Carso, nell’aviazione. Si ammalò di tifo. Pensò a lungo di proporre la canzone del Piave come inno nazionale. Non lo fece, non so perché, forse lo fermò la malattia».

Anche da capo dello Stato appena poteva scappava in Sardegna. «Rispondo con una frase di Montanelli: “Il rapporto di Segni con la Sardegna è qualcosa di carnale, se è lecito usare questa espressione per un personaggio così diafano. Il venerdì sera non vi è crisi internazionale, non vi è problema politico, non vi è tempesta metereologica che gli impedisca di prendere il volo per Alghero».

Tutti di Sassari. Lui, Francesco Cossiga. E un bambino, allora: Enrico Berlinguer. «Le famiglie si conoscevano da sempre. Con i Berlinguer avevamo anche in comune le vacanze a Stintino. Con Francesco Cossiga, e con i miei fratelli, invece, facevamo delle vacanze divertentissime sulle Dolomiti, a Misurina. Mio padre Antonio ha avuto in vita un ventaglio straordinario di cariche pubbliche, ma gli era rimasto il cruccio di non averne mai avuta una alla quale teneva tantissimo: fare il sindaco di Sassari».

Stimava ma non amava Aldo Moro. «C’è un carteggio con De Gasperi che dimostra la forza e il successo dei governi centristi. Sarebbero durati ancora, senza la ferma volontà di Moro di governare con i socialisti. Comunque, è la verità: pur nel contrasto politico stimava Moro moltissimo».

Ma era più in sintonia con Guido Carli. «Certo. L’allora governatore della Banca d’Italia andò da Antonio Giolitti, allora ministro del Bilancio, con due banconote della repubblica di Weimar da cinquecento miliardi di marchi. E gli disse che avremmo fatto quella fine, con i piani che preparavano. Mio padre pensava che quei progetti avrebbero distrutto l’impresa e il libero mercato, e che avevano problemi di costituzionalità».

Moro lo sostenne nella corsa al Quirinale. «È vero, fu decisivo. Avere un conservatore al Quirinale era funzionale alla sua politica di apertura ai socialisti».

Per timore della sinistra osteggiò anche Montini. «Si è scritto che affidò a Luigi Gedda una lettera rivolta ai cardinali in conclave, dopo la morte di Giovanni XXIII, per fermare l’ascesa al soglio di Paolo VI. Mai trovato riscontri, credo sia una bufala».

Si dice che pure Konrad Adenauer temesse Montini. «Oggi si direbbe: puro gossip. È vero però che nelle relazioni internazionali quello con Adenauer fu il rapporto più stretto. Si scrivevano anche per commentare le rispettive politiche interne. Del resto, è di quegli anni la costruzione del muro di Berlino. Proprio in quel periodo mio padre andò a Washington per incontrare Dwight Eisenhower. Mi raccontò che gran parte del colloquio fu su Berlino. Secondo lui gli americani non capivano le drammatiche conseguenze che la divisione di Berlino avrebbe avuto sull’Europa».

Ci sono anche le parole di Cossiga. «Disse in un’intervista che passò la notte del 18 aprile del 1948, quella delle elezioni che contrapponevano la Dc e il Fronte popolare, armato di tutto punto, per paura di un golpe comunista. E disse che i mitra glieli aveva dati mio padre. È difficile per i giovani di oggi capire il clima di tensione di quegli anni. La paura di un colpo di mano comunista c’era. Ma quelle parole di Cossiga, su un volo di ritorno da un viaggio presidenziale, incalzato dai giornalisti, tra storie e storielle, furono probabilmente chiacchiere un po’ fantasiose».

Un passo indietro, la dittatura fascista. «Mio padre non amava parlare degli anni del fascismo. Non subì sanzioni, ma fu completamente emarginato. Ma non si può dimenticare che nel 1924 fu candidato nel Partito popolare di Luigi Sturzo, e quindi una scelta politica la aveva già fatta».

Incontrò più volte Charles De Gaulle. «Diceva che somigliasse più a un vescovo che a un generale, lo ammirava, anche se erano divisi sull’Europa. De Gaulle scrisse nelle sue memorie che fu mio padre, insieme al ministro belga Spaak, a sconfiggere la linea francese, che non voleva la Gran Bretagna nel Mec».

E il piano Solo? «Era un piano antisommossa, preventivo, contro un’ipotetica azione militare. “Solo” perché prevedeva che fossero soltanto i carabinieri a intervenire. Ma anche la polizia aveva un progetto simile, il piano Vicari. Non successe mai nulla. Pietro Nenni smentì per iscritto che ci fossero tentazioni autoritarie da parte di mio padre. Azioni politiche molto forti sì, ma niente di altro. Ho scritto un libro per contrastare lo scoop dell’Espresso del 1967, sul presunto tentativo di golpe del 1964. Lo considero una balla colossale».

Il 7 agosto 1964 ci fu il malore di suo padre, dopo un colloquio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat. «Fu devastante. Il suo medico, Giunchi, era nelle Marche. Un giovane dottore, emozionato e bravo, lo assistette fino al suo ritorno. Mio padre rimase paralizzato per metà del corpo e privo della parola, pur restando lucido. Escludo che la crisi fosse conseguenza di quel colloquio. Saragat venne a trovarci la mattina dopo commosso e emozionato. Non è un mistero che i suoi rapporti con mio padre fossero spesso tesi. Ci disse che quel giorno lui, di carattere sanguigno, era stato più moderato del solito perché aveva avuto l’impressione che il presidente non stesse bene. Aldo Moro, che era più freddo, fu affettuosissimo. Venne a trovarlo al Quirinale tutti i giorni».

Come reagì agli articoli dell’«Espresso»? «Era malato da tre anni. Gli leggevamo i giornali tutte le mattine, capiva tutto. Per lui fu un trauma».

Lei si appassionò presto alla politica, cosa le disse? «Mi diede un consiglio che ho sempre seguito: “Fai pure, ma solo dopo esserti costruito una posizione personale. Devi essere sempre in grado di andartene in punta di piedi».

Non amava Picasso. «Tra verità e leggenda. A Parigi, davanti a un quadro di Picasso, bersagliato dai flash dei fotografi, si coprì gli occhi con le mani. I giornali francesi scrissero che il presidente si proteggeva dall’orrore che gli “sgorbi” di Picasso gli procuravano. Gli valse grande popolarità in Italia, tra i tanti che non apprezzavano il cubismo. (Segni sorride). Posso solo dire che non ho dubbi che amasse più Leonardo Da Vinci, piuttosto che Picasso».

Giuseppe Saragat.

La democrazia è un problema di rapporti fra uomo e uomo. Giuseppe Saragat, il presidente intellettuale: lo champagne al Quirinale e l’amicizia-rivalità con Nenni. La rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

In questo quarto numero parliamo di un altro padre della Repubblica, un intellettuale prestato alla politica, presidente dell’Assemblea costituente e quinto presidente della Repubblica italiana: Giuseppe Saragat.

Torinese, si laurea in scienze economiche dopo aver combattuto durante il Primo conflitto mondiale. Diventa socialista e si schiera presto con i riformisti di Turati; dall’espulsione della corrente gradualista nasce il PSU (Partito Socialista Unitario). Saragat ne diventa uno dei principali esponenti, con Giacomo Matteotti segretario. Il suo antifascismo lo costringe all’esilio durante gli anni del regime. Nel 1929 raggiunge Turati e Pertini a Parigi.

Rientra nel PSI dopo aver incontrato Nenni, con il quale avrà sempre un rapporto controverso, fatto di stima reciproca e continua contrapposizione. Verranno infatti definiti gli amici rivali. In un bellissimo siparietto (documentato con tanto di video) Pertini si rivolge così a Saragat che ricordava di aver sempre litigato con Nenni: “Ma smettila, vi siete sempre voluti bene… per voi vale il detto Nec sine te, nec tecum vivere possum (Non posso vivere né con te né senza di te)”.

Saragat rientra finalmente in Italia nel 1943 e diventa direttore dell’Avanti. Entra a far parte della Resistenza e (come accennato nel primo numero di questa rubrica) viene arrestato dai tedeschi e rinchiuso a Regina Coeli insieme a Pertini, riuscendo ad evadere in modo rocambolesco un attimo prima di essere condannati a morte. La tragicomica evasione dei futuri presidenti della Repubblica Saragat e Pertini è raccontata da loro stessi (il video è facilmente reperibile su YouTube) che moltissimi anni dopo ritornano nel carcere romano per visitare la loro cella. Sottolineano il ruolo determinante di Nenni per la riuscita di quella delicata operazione che gli salvò la vita.

Come ricorda Pertini, la priorità di Nenni era salvare Saragat, ritenuto il vero cervello e il futuro del partito (nonché più fragile rispetto al guerriero Pertini che già aveva vissuto la dura esperienza del carcere e che veniva considerato impermeabile a qualsiasi sofferenza). Gli esponenti socialisti del tempo raccontano che intorno alla figura di Saragat vi era una sorta di mito, di aurea da predestinato, come se non si potesse fare a meno di lui per garantire un domani al Partito socialista.

Ambasciatore italiano a Parigi, Saragat è nella delegazione che accompagna De Gasperi alla Conferenza di pace del ‘45. Sa però che la partita più importante si gioca in Italia e decide quindi di tornare. Il 25 giugno del 1946 viene eletto presidente dell’Assemblea costituente, a dimostrazione del rispetto e della considerazione di cui godeva. Prosegue intanto il cammino complesso del socialismo italiano e la rivalità con Nenni continua a crescere, trovando il suo culmine al Congresso socialista del gennaio 1947. Saragat immagina un partito lontano dal PCI e da Mosca, posizione in antitesi all’epoca con quella di Nenni. Saragat voleva cercare di competere con lo strapotere della DC e per arrivare a questo obiettivo non si poteva far altro, a suo avviso, che svincolarsi il più possibile dai comunisti. La divisione è inevitabile. Saragat decide di abbandonare i lavori del Congresso in Città universitaria e di raggiungere insieme ai suoi Palazzo Barberini. La scissione è completa. Nasce così il PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani), che nel 1951 diventerà finalmente PSDI (Partito socialdemocratico italiano). La mossa di Saragat non ebbe però gli effetti sperati. Il PSDI non riuscirà mai ad attestarsi come una forza politica in grado di competere veramente con l’egemonia democristiana (fu comunque varie volte vicepresidente del Consiglio nei governi De Gasperi).

Nel 1956 l’incontro con Nenni a Pralognan darà il via alla ricomposizione della frattura socialista che dieci anni più tardi porterà alla riunificazione del partito. In mezzo l’elezione al Quirinale. Il 28 dicembre del 1964, dopo 21 scrutini, Giuseppe Saragat diventa il quinto presidente della Repubblica italiana. Storico il suo viaggio ad Auschwitz, primo presidente a visitare un campo di concentramento. Fu anche uno dei primi a utilizzare la TV e i nuovi mezzi di comunicazione. Fu spesso vittima della satira, soprattutto per la sua passione per il vino. Introdusse lo Champagne al Quirinale. Durante la sua presidenza affrontò le rivolte del ’68, difendendo le istituzioni democratiche con toni duri e per lui inediti. Lo colpì in modo particolare l’uccisione del giovane poliziotto Antonio Annarumma durante una manifestazione a Milano nel 1969. Quel 1969 che verrà ricordato come l’inizio dei cosiddetti anni di piombo con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Piazza Fontana, ancora a Milano.

Compiendo un balzo in avanti di vent’anni, ricorderei infine l’appello che Enzo Biagi (il quale, pochi sanno, prese parte alla scissione di palazzo Barberini) gli rivolgerà direttamente chiedendogli di sciogliere quello stesso partito, ormai lacerato dagli scandali, che aveva fatto nascere. Saragat non fece in tempo ad accontentarlo. Morirà qualche mese dopo, a quasi novant’anni.

Per chiudere il racconto di un uomo la cui memoria risulta talvolta offuscata e non all’altezza del personaggio (qualcuno dice per gli scarsi successi elettorali), vorrei ricordare le parole che Giuseppe Saragat pronunciò il 26 giugno del 1946, durante il discorso di insediamento da presidente dell’Assemblea costituente:

“Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano. Ricordatevi che la democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presidio di quello sovrano della Nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide”.

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

Sandro Pertini.

Sandro Pertini, il presidente partigiano nonno d’Italia: il bacio alla bandiera e quel “non ci prendono più”. La nuova rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 16 Giugno 2023 

Se c’è un uomo della nostra storia repubblicana che nell’immaginario collettivo è riuscito a far convivere nella stessa persona la figura del nonno e quella del Presidente è sicuramente Sandro Pertini. È ancora oggi ricordato come il presidente degli italiani, il più amato, il nonno d’Italia, il presidente di Spagna ’82. Quest’ultimo è un riflesso incondizionato; quando si parla di Pertini viene subito in mente la vittoria al Mondiale del 1982, la sua esultanza istintiva al Bernabeu e il suo “Non ci prendono più” dopo il terzo gol azzurro di Altobelli, la partita a carte in aereo con Bearzot, Causio e Zoff di ritorno da Madrid insieme alla Coppa del Mondo.

Ma Pertini ovviamente è stato tanto altro. Combattente durante la Prima guerra mondiale, partigiano e uomo di spicco della Resistenza sul finire della Seconda. Costretto al confino sull’isola di Ventotene prima e catturato a Roma dai nazisti poi. Celebre la sua rocambolesca evasione dal carcere di Regina Coeli insieme ad un altro futuro presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

Indimenticabile il suono della sua voce che il 25 aprile del 1945 annuncia dai microfoni di Radio Milano Libera lo sciopero generale contro l’occupazione tedesca: “…come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. Fu deputato all’Assemblea Costituente, presidente della Camera per due legislature, fino a diventare quindi il settimo presidente della Repubblica Italiana l’8 luglio del 1978, con il più alto consenso mai registrato (82,3%) per l’elezione di un Capo dello Stato.

La sua elezione avvenne in un momento molto delicato per le nostre istituzioni. A soli due mesi dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, nel pieno degli Anni di piombo, Sandro Pertini era chiamato a ricucire lo strappo che si era creato tra i cittadini e le istituzioni repubblicane. Un compito faticoso, che soltanto un uomo della sua personalità, del suo temperamento e anche della sua testardaggine poteva intraprendere.

Il carattere istintivo, passionale, a tratti burbero (lui stesso diceva: “tutte le persone di carattere hanno un brutto carattere e io modestamente ho un brutto carattere”), il parlare chiaro e senza filtri, furono alcuni dei segreti del successo di Sandro Pertini e dell’affetto che lo sommerse. Le persone riuscivano a immedesimarsi in lui, si sentivano finalmente comprese e rappresentare da un uomo fuori dagli schemi tradizionali; un uomo al quale non piaceva andare per il sottile, anche a costo di commettere qualche imprudenza, ma sempre con quella eccezionale genuinità che gli veniva riconosciuta. 

A Pertini piaceva circondarsi di questo affetto, non disdegnava i bagni di folla durante le sue numerose visite lungo la penisola, e amava, qualcuno dice anche troppo, sentirsi al centro della scena. Questo eccessivo protagonismo gli costò qualche inciampo. Qualcuno criticò e giudicò ingombrante la sua presenza durante le disperate operazioni di soccorso per salvare il piccolo Alfredo Rampi, caduto in un pozzo a Vermicino, nei pressi di Frascati. La drammatica vicenda di Alfredino segnò nel profondo Pertini, così come tutti gli italiani. Pertini accorse anche in Irpinia nel novembre del 1980 per consolare i terremotati e denunciare il ritardo e l’inefficienza dei soccorsi.

Fu proprio questa sua denuncia che diede il via all’organizzazione di un sistema di cooperazione tra Stato, Regioni ed enti locali sul quale si fonda oggi la struttura della Protezione Civile nazionale. Pertini viene ricordato anche per un’abitudine particolare, alla quale gli italiani assistono per la prima volta durante la sua presidenza: il bacio della bandiera. Il politico ligure non perdeva occasione per compiere questo gesto così intimo e simbolico, e non si limitava a farlo soltanto con la bandiera italiana.

Durante una visita negli Stati Uniti il presidente Reagan rimase particolarmente commosso (come scrisse nei suoi diari) quando vide Pertini avvicinarsi a un Marine e baciare la bandiera americana. Sono tante le cose della vita di Sandro Pertini che meritano di essere ricordate ma che per ragioni di spazio sarebbe impossibile elencare. Vale la pena però chiudere il nostro racconto del presidente partigiano menzionando un ultimo aspetto che lo caratterizzava: il rapporto con i giovani.

Pertini si rivolgeva spesso a loro nei suoi discorsi, parlava con loro quando poteva, cercava con loro un confronto costante. Nel corso del suo primo discorso di fine anno al Quirinale, nel 1978, Pertini disse che “… i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”. Ecco, in questo Pertini fu impareggiabile, nel capire l’importanza di educare le nuove generazioni e nel comprendere soprattutto che nulla come l’esempio risulta maggiormente efficace per contribuire alla crescita di un giovane. È questo, a mio avviso, il servizio più alto che con la sua vita esemplare Sandro Pertini ha cercato di rendere agli italiani.

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

Francesco Cossiga.

Per tutta la sua vita è riuscito a scalare i livelli, e molto velocemente. Francesco Cossiga, il “picconatore” della Repubblica tra Gladio, Aldo Moro e il Quirinale. Carmine Abate su Il Riformista il 22 Settembre 2023 

Francesco Cossiga è stato senza dubbio uno degli uomini più importanti e rappresentativi della politica italiana. Ottavo presidente della Repubblica, presidente del Consiglio e del Senato, ministro dell’Interno durante i complicati giorni del sequestro Moro. Gli ultimi anni al Quirinale, scopriremo perché, gli valsero l’appellativo di “picconatore”.

La storia di Cossiga parte da lontano, dalla sua amatissima Sardegna. Nasce a Sassari, è cugino di secondo grado di Enrico Berlinguer. Brucia le tappe: si diploma a 16 anni e si laurea in Giurisprudenza appena diciannovenne, ottenendo dopo poco tempo la cattedra di Diritto costituzionale all’Università di Sassari. Si iscrive ancora minorenne alla Democrazia Cristiana. Diventa deputato prima di compiere 30 anni ed è il più giovane sottosegretario (alla Difesa) nel terzo governo Moro.

Per comprendere al meglio la figura di Cossiga è necessario ricordare che il suo impegno politico si sviluppa durante gli anni della Guerra fredda. Cossiga è un atlantista convinto e vuole dare il suo contributo al rafforzamento del blocco occidentale. Ammette, anzi rivendica con orgoglio, di aver preso parte ad una organizzazione paramilitare, denominata Gladio, nata (in accordo con i servizi di intelligence americani) con lo scopo di scongiurare un’eventuale invasione dei comunisti sovietici. Questo è solo uno degli aspetti contraddittori, se così vogliamo definirli, che caratterizzano la vita di Cossiga.

Il momento più difficile della sua carriera politica ha una data ben precisa: 16 marzo 1978. Andreotti è ancora presidente del Consiglio e Cossiga viene confermato al Viminale. Quel giorno, come sappiamo, Moro viene rapito dalle Brigate Rosse; per Cossiga iniziano 55 giorni di inferno. Le lettere di Moro dalla prigione delle BR a lui indirizzate non fanno che aumentare la pressione sul ministro dell’Interno, impotente difronte alle richieste, per qualcuno irricevibili, dei brigatisti. Cossiga sapeva che la vita del suo amico Aldo Moro, nonché presidente della DC e uomo politico tra i più apprezzati nel Paese, dipendeva in gran parte dal suo operato. Il ritrovamento del cadavere di Moro il 9 maggio in via Caetani ne sancisce il fallimento. Cossiga si dimette due giorni dopo.

Il suo destino sembra segnato. Lui stesso pare non avere più le forze per riprendersi, provato anche nel fisico da quanto successo.

«Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro».

Queste le parole emblematiche riferite al giornalista Paolo Guzzanti. Chi pensava che la stella del politico sardo avesse intrapreso ormai un’irreversibile fase discendente dovette però presto ricredersi. Soltanto un anno dopo infatti, nell’estate del 1979, Francesco Cossiga giura da presidente del Consiglio. Dopo la breve esperienza a palazzo Chigi, coincisa anche con la misteriosa strage di Ustica (tornata di attualità nei giorni scorsi dopo le dichiarazioni di Amato), Cossiga trascorre qualche anno da semplice deputato, senza ricoprire incarichi di governo o di partito. Arriviamo così ad un’altra estate, quella del 1983, che vede Cossiga assumere la seconda carica dello stato diventando presidente del Senato. Per tutta la sua vita Cossiga è riuscito a scalare i livelli, e molto velocemente. Non si smentisce neanche in questa occasione, perché in due anni passa dalla seconda alla prima carica dello Stato. Nel 1985 è lui a prendere il posto di Sandro Pertini sul colle più alto, diventando così l’ottavo presidente della Repubblica.

Occorre dividere il periodo di Cossiga al Quirinale in due fasi distinte; se i primi cinque anni trascorrono in relativa tranquillità, gli ultimi due del settennato registrano un drastico mutamento del comportamento del democristiano di Sassari. Probabilmente la fine della Guerra Fredda e quindi della logica dei due blocchi (sulla quale si era fondata l’impostazione della politica italiana fino a quel momento), fu una delle principali cause dei continui interventi del presidente Cossiga. Questi cercava di scuotere dalle fondamenta un sistema che vedeva immobilizzato e non pronto alle grandi trasformazioni che di lì a poco lo avrebbero interessato. Lo fece attraverso esternazioni forti, colorite, non usuali per un capo dello Stato: le famigerate “picconate”. Memorabile il discorso ((tutt’altro che tradizionale) di fine anno del 1991, il più breve della storia repubblicana. Qualche giorno prima, in Parlamento, era stata presentata addirittura una richiesta di messa in stato di accusa nei suoi confronti (poi archiviata).

Qualche mese dopo Cossiga però si dimette per davvero, in anticipo di due mesi rispetto alla scadenza del mandato presidenziale. Il 25 aprile del 1992 annuncia in diretta televisiva le sue dimissioni. Il colpo di scena finale, un gesto forte e simbolico, di protesta e di liberazione (forse non a caso avvenuto il 25 aprile):

«C’è chi approverà il mio gesto, c’è chi questo gesto non lo approverà; spero che tutti lo consideriate un gesto onesto di servizio alla Repubblica. Ai giovani io voglio dire però di amare la patria, di onorare la nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese».

Con queste parole Cossiga mette fine a una delle presidenze più tormentate della Repubblica.

Nei suoi anni da senatore a vita Cossiga, come è nel suo stile, non rimane a guardare. Lascia la DC e fonda un nuovo partito (l’Unione Democratica per la Repubblica, UDR). Mi piace ricordare infine, fra le varie collaborazioni giornalistiche, quella che Francesco Cossiga ebbe proprio con questo giornale, per il quale scrisse attraverso lo pseudonimo di Mauro Franchi.

Cossiga muore a 82 anni a Roma, il 9 agosto del 2010, lasciando un segno indelebile nella vita politica italiana e la sensazione di non essersi per nulla annoiato durante la sua esperienza terrena.

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

Tina Anselimi.

Tina Anselmi: un’eroina civile con la passione per la politica. Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023 

Il 25 aprile su Rai 1 in prima serata va in onda «Tina Anselmi. Una vita per la democrazia». Protagonista Sarah Felberbaum con la regia di Luciano Manuzzi

È una studentessa di 16 anni Tina Anselmi quando, nel 1944 a Bassano, insieme a un gruppo di compagni, si ritrova davanti a 31 uomini impiccati dai tedeschi. Una visione atroce e al tempo stesso determinante perché quella ragazza, che come tutti alla sua età coltiva i sogni dell’adolescenza, assume improvvisamente una coscienza da adulta: capisce che, per cambiare quel mondo di orrori, non ci si può limitare a guardare, occorre agire.

Sono queste le prime immagini del film-tv Tina Anselmi. Una vita per la democrazia, prodotto da Angelo Barbagallo, in onda su Rai 1 in prima serata il 25 aprile. Protagonista Sarah Felberbaum, con la regia di Luciano Manuzzi, sulla base del soggetto della scrittrice Anna Vinci e con la sceneggiatura di Monica Zappelli. «Un’altra importante figura femminile, un’eroina civile che rientra nell’insieme di donne speciali cui stiamo dedicando spazio - afferma la direttrice di Rai Fiction Maria Pia Ammirati - Ho avuto modo di incrociarla quando facevo la giornalista e ho subito capito la sua capacità politica di andare incontro alle persone: un mix di empatia e generosità, mantenendo il rigore che le derivava dal suo Castelfranco Veneto».

Partigiana, ostinata sindacalista in difesa delle operaie e soprattutto prima donna ministra del Lavoro in Italia nel 1976, poi Presidente della commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2. «Se vuoi cambiare il mondo devi esserci», diceva Anselmi, misurandosi con un mondo politico affollato di uomini. Un personaggio sotto certi profili anche scomodo. «Per Tina era importante che l’idea diventasse azione - interviene Vinci, autrice di due libri su Anselmi, di cui era amica - Detestava i tradimenti, non sopportava le persone che venivano meno alla parola data. la cosa più bella di Tina è che ha mantenuto il suo essere capocciona e dispettosa, disciplinata e ribelle ... L’Italia ha un grande debito verso questa donna che, forse non a caso, veniva chiamata “mina vagante”».

Nel cast anche Gaetano Aronico (Aldo Moro), Enrico Mutti (Benigno Zaccagnini), Antonio Piovanelli (Sandro Pertini) e Sara D’Amario è Nilde Iotti. «Fu Iotti, comunista, a proporre a Tina di presiedere la Commissione P2 - rivela Vinci - Inoltre, quando firmò la legge sull’interruzione di gravidanza, pur se non d’accordo, incontrò molti esponenti del clero che le chiedevano di non firmare. Ma lei rispondeva di essere una donna della democrazia. E dopo tutto quello che ha fatto, la Democrazia Cristiana le tolse il suo storico seggio. Lei ha accettato la scelta del partito, ma ne ha sofferto in silenzio».

L’attrice Sarah Felberbaum esordisce emozionata: «Non avrei mai creduto di poter interpretare Tina Anselmi. Ho letto e studiato tantissimo, perché ho sentito immediatamente la responsabilità di questo ruolo. Questo film può insegnare alle nuove generazioni che la battaglia per la parità va avanti da tantissimi anni e non è questo il momento di fermarsi. Inoltre, è la prima volta che mi viene affidato un personaggio importante, in cui posso mostrare così tanto di me, senza che abbia nulla a che fare con l’aspetto fisico. La scena più difficile? Il racconto intorno al rapimento di Moro».

Nilde Iotti.

Nilde Iotti, madre costituente e prima donna presidente della Camera. La rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 30 Giugno 2023 

Al secondo piano di Palazzo Montecitorio c’è una sala dedicata alle donne che per prime hanno ricoperto cariche istituzionali (si chiama appunto Sala delle donne). L’ultima foto aggiunta in ordine di tempo è stata quella di Giorgia Meloni, prima presidente del Consiglio donna della storia. L’unica immagine che però compare due volte su quelle pareti è quella di Nilde Iotti: in qualità di deputata all’Assemblea costituente (insieme ad altre venti) e di prima donna a ricoprire il ruolo di presidente della Camera dei deputati.

Una vita quella di Nilde Iotti caratterizzata da primati: è ancora suo il record di permanenza sullo scranno più alto di Montecitorio (quasi 13 anni consecutivi, dal giugno del 1979 all’aprile del 1992).

L’incredibile storia della presidente Iotti parte da lontano, dalla Reggio Emilia degli anni Venti del secolo scorso. Nonostante le difficoltà economiche e la scomparsa prematura del padre, riuscì a laurearsi in Lettere alla Cattolica di Milano a 22 anni. Tra i suoi professori si segnala un certo Amintore Fanfani. Prende parte alla Resistenza e dopo la guerra si avvicina sempre di più al Partito Comunista Italiano. Viene eletta al consiglio comunale nella sua Reggio Emilia ma il suo impegno politico verrà presto assorbito da Roma.

Nel giugno del 1946 tra le 21 deputate elette dall’Assemblea costituente c’è anche lei. Indicativo il fatto che venne chiamata immediatamente a far parte della leggendaria Commissione dei 75, istituita per pensare e redigere materialmente la nuova Costituzione repubblicana. A lei venne assegnato in particolare il compito di occuparsi della sezione dedicata alla politica familiare. Fece molto discutere all’epoca il suo rapporto con il leader del PCI Palmiro Togliatti. Soprattutto perché nato quando questi era ancora sposato. La caratura di Nilde e l’autenticità della relazione che la legò a Togliatti fino alla sua morte, misero a tacere ogni tipo di polemica. Membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera, l’On. Iotti ne divenne in poco tempo presidente; anche qui, neanche a dirlo, prima donna a ricoprire l’incarico.

Storica la sua battaglia in favore del divorzio. Pochi anni dopo il famoso referendum del 1974, Nilde Iotti raggiunge dunque il picco della sua carriera politica con l’elezione alla presidenza della Camera. Il 20 giugno del 1979, con il suo discorso di insediamento, sottolineava l’importanza e la consapevolezza di quel passaggio storico: “Io stessa, non ve lo nascondo, vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci, si sono aperte la strada verso la loro emancipazione”.

Pochi ricordano che qualche anno più tardi rischiò di diventare anche la prima Premier donna (e per di più comunista) della storia italiana, quando Cossiga le diede l’incarico di formare un governo che però non trovò una maggioranza. Nilde Iotti rimase così presidente della Camera fino al 1992 quando venne candidata dalla sinistra persino alla presidenza della Repubblica. Insomma, non so se ci rendiamo conto; stiamo parlando di una madre costituente, della prima donna presidente della Camera, ma anche di una quasi presidente del Consiglio e della Repubblica. Questo giusto per restituire una vaga idea della levatura del personaggio.

Non paia secondario ricordare che è anche merito di Nilde Iotti se la Biblioteca della Camera dei deputati, prima riservata ai soli parlamentari, è ora aperta al pubblico e fruibile ancora oggi dagli studiosi che richiedono di accedervi. Motivo per cui (dal 2017) la biblioteca porta il suo nome. Non possiamo dimenticare infine il suo impegno in Europa, dove fu parlamentare per 10 anni (dal 1969 al 1979) battendosi per l’elezione diretta del Parlamento europeo; traguardo che venne raggiunto proprio sul finire del suo mandato nel ’79.

Arrivati a questo punto risulta facile constatare come Nilde Iotti sia riuscita a lasciare un segno profondo nel suo tempo, contribuendo in maniera decisiva ai miglioramenti (ancora purtroppo insufficienti) della condizione della donna nella nostra società. Oggi la Fondazione Nilde Iotti presieduta da Livia Turco svolge un compito preziosissimo nel tenere vivo il ricordo di questa donna formidabile e nel diffonderne il messaggio, che ci sentiamo di racchiudere in queste poche parole da lei pronunciate: “Dobbiamo rendere più umani i tempi del lavoro, gli orari delle città, il ritmo della vita. Dobbiamo far entrare nella politica l’esperienza quotidiana della vita, le piccole cose dell’esistenza, costringendo tutti – uomini politici, ministri, economisti, amministratori locali – a fare finalmente i conti con la vita concreta delle donne”.

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

De Gasperi.

Estratto dell’articolo di Federico Fornaro per “la Stampa” sabato 12 agosto 2023.

Sulla pagina del suo diario del 29 maggio 1945, Pietro Nenni appuntò una notizia che mai avrebbe voluto scrivere: «Una lettera di Saragat a De Gasperi conferma la notizia della morte di Vittoria. Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri». 

Appena finita la riunione, De Gasperi si diresse a piedi verso la sede dell'Avanti! e «in quel breve tratto pensai che cosa un padre (aveva tre figlie, ndr.) potesse dire a un altro padre. A furia di pensare arrivai alla porta, feci la scala, arrivai all'ufficio: aveva già capito tutto. Ci trovammo abbracciati, a piangere assieme». 

Vittoria, affettuosamente chiamata Vivà, era la terza delle quattro figlie (Giuliana del 1911, Eva, detta Vany, del 1913 e Luciana del 1921) di Nenni e di Carmen Emiliani. Vivà aveva concluso la sua vita terrena dopo sofferenze e umiliazioni disumane il 15 luglio 1943 nel campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Con uno stile narrativo asciutto e coinvolgente, Antonio Tedesco, direttore scientifico della Fondazione Nenni, ne ricostruisce la vita e il tragico epilogo nel libro Vittoria Nenni - n. 31635 di Auschwitz.

Vittoria era una giovane donna italiana che scelse di combattere a fianco dei francesi contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti. Era nata ad Ancona il 31 ottobre 1915 quando il padre era al fronte, partito volontario da convinto interventista repubblicano. Il giorno del suo undicesimo compleanno, il 31 ottobre 1926, Mussolini uscì illeso da un attentato a Bologna e Vittoria, di ritorno da scuola, si ritrovò sulle scale del palazzo di Milano dove abitava faccia a faccia con un gruppo di fascisti che avevano appena finito di devastare l'abitazione della sua famiglia. 

Interrogata su dove fosse il padre, Vivà rispose che lo ignorava e per tutta risposta gli squadristi le strapparono i libri di mano. Nel rogo dei mobili di casa Nenni scomparvero per sempre anche «i suoi regali, i suoi giocattoli, i suoi libri di favole ai quali teneva tanto».

Una bambina ancora spaventata salutò poche settimane dopo il padre in partenza per l'esilio clandestino in Francia. La madre e le quattro figlie lo raggiunsero a Parigi […] Nel giugno 1940, Hitler decise di attaccare la Francia e in due settimane i nazisti sbaragliarono l'esercito nemico ed entrarono trionfalmente a Parigi il 14 dello stesso mese. Iniziò per i fuoriusciti antifascisti e le loro famiglie una nuova fase drammatica dell'esilio, isolati nella Francia collaborazionista di Vichy, costantemente braccati e spiati. 

Vivà e il marito, nell'agosto 1940, decisero di tornare a Parigi dove Henri iniziò ad occuparsi della piccola stamperia di proprietà di Nenni. Ben presto, durante le ore notturne, nella tipografia si iniziò a stampare materiale di propaganda della resistenza francese, a cui Vivà, pur non essendo iscritta ad alcun partito, si era avvicinata a partire dal secondo semestre 1941.

Il 17 giugno 1942 i poliziotti francesi irruppero in casa dei coniugi Daubeuf e arrestarono Henri, mentre sorprendente Vivà venne lasciata in libertà. Avrebbe potuto mettersi in salvo. Scelse invece di rimanere vicino al marito, ma il 25 giugno fu arrestata anche lei. Trasferiti entrambi nel carcere-fortezza di Romainville, il principale penitenziario di Parigi, l'11 agosto, insieme ad altri 95 detenuti, Henri Daubeuf fu passato per le armi. […] 

Pietro Nenni apprese dalla figlia Eva dell'imminente deportazione della figlia e scrisse sul diario: «Brutte notizie della mia Vittoria. A quest'ora sarà già in procinto di partire verso la Germania. Verso quale destino?». Il 24 gennaio 1943, 230 donne, tra cui la figlia di Nenni, furono caricate su un carro bestiame con destinazione Polonia, in una località a loro sconosciuta, Auschwitz: soltanto 49 di loro si salveranno. […]

La morte di Vittoria Nenni sopraggiunse per una febbre tifoidea. «Da quando la nostra Vivà ci ha lasciati - avrebbe confessato Nenni - non c'è giorno, e forse non c'è ora, in cui non mi dica che forse è per causa mia, o per lo meno del mio genere di vita, che ella è stata presa dall'ingranaggio che l'ha schiacciata».

Il primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana. Alcide De Gasperi, l’uomo a cavallo tra monarchia e repubblica: “Politica vuol dire realizzare”. La nuova rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 23 Giugno 2023 

È sufficiente pronunciarne il nome per avvertirne il peso; un nome che racchiude in sé il passaggio dall’Italia monarchica a quella repubblicana, la genesi dell’Unione europea, la ricostruzione del Dopoguerra. Per conoscere e studiare la storia del nostro Paese, ma anche del nostro continente, non si può prescindere dalla sua figura. Il punto più alto dell’ascesa politica di Alcide De Gasperi coincide con l’inizio della Repubblica. È lui infatti il primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana. Per una manciata di giorni nel 1946 fu anche Capo provvisorio dello Stato subito dopo il referendum del 2 giugno. Enrico De Nicola (primo presidente della Repubblica) poco più tardi gli conferirà l’incarico per la formazione del primo governo del Dopoguerra.

Ma il cammino personale e politico di De Gasperi inizia molti anni prima. Basti pensare che stiamo parlando di un classe 1881. Un uomo nato nel XIX secolo, in quel Trentino che all’epoca faceva ancora parte dell’Impero austro ungarico. Fu anche deputato al Parlamento austriaco. Terminata la Prima guerra mondiale De Gasperi si unì al Partito popolare italiano fondato da Don Sturzo e nel 1921 venne rieletto deputato, questa volta in Italia.  Pochi anni dopo, con lui alla guida, il partito divenne sempre più ostile al fascismo. Ostilità che costò lo scioglimento forzato del PPI su ordine di Mussolini e l’arresto di De Gasperi. Trovò rifugio presso la Biblioteca apostolica vaticana con la quale iniziò a collaborare. Sul finire della Seconda guerra mondiale dagli incontri con Dossetti, Fanfani, Scelba, Gronchi tra gli altri, prenderà vita la nuova Democrazia Cristiana, il partito che sotto la guida di De Gasperi inaugurò la stagione del centrismo in Italia con le elezioni del 1948. In quell’occasione la DC ottenne il 48% dei consensi, un risultato che nessun partito riuscirà più a replicare.

Evitando però di addentrarci negli avvenimenti che contribuirono alla nascita del suo primo governo, mi soffermerei sugli eventi più significativi di cui lo statista trentino si rese protagonista e che cambiarono (per davvero) il corso della storia. Uno di questi è senza dubbio la Conferenza di Pace di Parigi. Era il 10 agosto del 1946 quando De Gasperi iniziava il suo intervento pronunciando queste parole indimenticabili, semplici ma potentissime: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…”. Giudicò dure le condizioni della pace inflitte al nostro Paese, ma più di ogni altra cosa aveva a cuore il riscatto morale dell’Italia; voleva riscattarla dal peccato originale del fascismo con il quale per lungo tempo il nostro Paese fu costretto a convivere.

Sarà lui, tornando indietro di un paio di mesi, a gestire il delicato passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Il risultato del referendum, come sappiamo, non venne subito accettato da Re Umberto. Il paziente operato di De Gasperi in quei giorni del giugno ’46 fu decisivo per una pacifica, e non scontata, transizione dei poteri. Una volta completato tale passaggio però, arrivava forse il compito più complesso: quello della ricostruzione. De Gasperi anche in questo frangente ricoprì un ruolo determinante. La sua tela di rapporti con gli Stati Uniti riuscì ad assicurare all’Italia i benefici del piano Marshall, un aiuto fondamentale che contribuì alla ripresa di un’economia e di una società come quella italiana terribilmente indebolita dagli effetti della guerra. La ripresa ci fu e portò addirittura qualche tempo dopo agli anni del cosiddetto miracolo economico.

Tra i tanti ambiti sui quali l’opera degasperiana ha lasciato un segno profondo, come non citare infine il progetto europeo. De Gasperi era fermamente convinto che soltanto una vera unità dei paesi europei avrebbe garantito la pace e scongiurato conflitti futuri. Contribuì con il suo impegno a creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) secondo quel concetto riassunto nella famosa frase “Dove passano le merci, non passano gli eserciti”.

Non fece però in tempo a veder realizzato il sogno europeo. De Gasperi muore il 19 agosto del 1954, tra le montagne del suo Trentino. Dispiace non aver sottolineato, per ragioni di spazio, il suo fortissimo rapporto con la fede e con il Vaticano. Basti in questa sede ricordare la causa di beatificazione avviata nel 1993, a ulteriore testimonianza di una vita eccezionale. Qui abbiamo menzionato soltanto alcune delle ragioni per le quali De Gasperi merita di essere ricordato e studiato. Un lascito il suo senza paragoni, fatto di opere concrete (lui stesso diceva “politica vuol dire realizzare”) ma anche di ideali profondi, di valori. Quei valori che Alcide De Gasperi ha saputo incarnare meglio di altri, e che ancora oggi ne fanno un punto di riferimento indiscusso dell’Italia e dell’Europa intera.

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

De Gasperi, il voto che 70 anni fa mise fine ai suoi governi. Il 7 giugno 1953 il voto nazionale determinò la conclusione politica dell’uomo che guidò l'Italia per otto anni di fila. Lorenzo Grossi il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Le elezioni politiche che si tennero in Italia il 7 giugno 1953 sancirono la fine dell'esperienza politica di Alcide De Gasperi dopo avere governato il Paese da presidente del Consiglio per otto anni consecutivi guidando altrettanti esecutivi di coalizione. Il lungo periodo dell'esponente della Democrazia Cristiana, che sperava di potere consolidare la propria leadership, si concluse bruscamente quindi con le consultazioni elettorali 70 anni fa esatti.

La vigilia agitata di De Gasperi

La Dc aveva già ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni del 18 aprile 1948; tuttavia questo stato di grazia non durò molto. Infatti, già nel 1951, una fetta consistente dei suoi elettori si era dimostrato insoddisfatto per via delle promesse mancate: nel Sud molti trovarono come interlocutore adatto la destra monarchica e del Movimento Sociale Italiano mentre molti notabili latifondisti avevano rotto i ponti con il partito. Le amministrative di quell'anno punirono severamente l'inerzia della Democrazia Cristiana, che da allora cercò sempre il sostegno di alleati politici che rinforzassero la sua stabilità. Un'abitudine - questa - che sarà sempre marchio di fabbrica della politica italiana.

Eppure De Gasperi, consapevole del panorama che si stava prospettando, cercò di impedire il declino nella maniera più semplice e brutale: cambiando le regole in corso e proponendo una nuova legge elettorale: quella che poi passerà alla storia come legge truffa. Promulgata il 31 marzo 1953 (n. 148/1953), la legge era composta da un singolo articolo che introdusse un premio di maggioranza consistente, assegnando il 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi.

I risultati delle elezioni politiche

Nel tentativo di ottenere questo premio di maggioranza, in vista delle elezioni politiche di giugno, l'apparentamento è costituito da Democrazia Cristiana, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Liberale, Partito Repubblicano, Südtiroler Volkspartei e Partito Sardo d'Azione. Con l'obiettivo opposto si propongono importanti uomini politici, tra i quali Ferruccio Parri che partecipa alla fondazione di Unità Popolare insieme a Piero Calamandrei e Tristano Codignola, provenienti dal Psdi. Questo movimento ha proprio lo scopo di avversare la nuova legge elettorale. Non mancano infatti, all'interno dei partiti che appoggiarono la nuova norma, pesanti contrarietà. Da una scissione nel partito Liberale si costituisce Alleanza Democratica Nazionale.

Alcide De Gasperi: Il più grande statista del ‘900 italiano

Le forze apparentate ottengono il 49,8% dei voti: per appena 54mila voti il meccanismo previsto dalla legge non scattò. Unità Popolare e Alleanza Democratica Nazionale raggiungono in totale l'1% dei voti riuscendo nel loro principale proposito. Rispetto alle elezioni del 1948 si constata una riduzione dei voti verso i partiti che avevano voluto e approvato la legge: la DC perse l'8,4%; i repubblicani arretrarono dello 0,86%, più di 200mila voti, e anche liberali e socialdemocratici devono registrare perdite. Il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista aumentano i consensi ottenendo 35 seggi in più; il Partito Nazionale Monarchico aumenta da 14 a 40 deputati mentre il Msi sale da 6 a 29 deputati.

Le conseguenze del fallimento centrista elettorale

Le elezioni del 1953 si rivelarono importanti per due ragioni: segnano la fine della carriera politica di De Gasperi, che morirà nell'agosto del 1954, e sanciscono la presenza stabile e continuativa del Movimento Sociale all'interno del panorama politico italiano. L'Alcide fu sicuramente la persona più rappresentativa del decennio '43-53 ma la sconfitta drammatica della legge truffa, che fu abrogata nel luglio successivo, fu la conclusione amara di una personalità di elevata statura politica e morale. I missini acquisirono grosse quantità di voti soprattutto nel Meridione e nei quartieri romani come il Flaminio e il 5% di preferenze alle elezioni del 1953 mostrò come il nazionalismo continuasse a esercitasse un forte ascendente sulle classi povere, gli studenti e la piccola borghesia del Sud Italia.

La primogenita De Gasperi, quando accompagnò il padre negli Usa si fece prestare un cappotto. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

Maria Romana fu staffetta partigiana e, dopo la scuola, divenne la segretaria di Alcide, ma non veniva pagata: «Mio padre riteneva che in famiglia non dovesse esserci più di uno stipendio pubblico, così mi dava parte del suo»

A tavola Maria Romana sedeva alla sinistra del padre, a destra la madre Francesca, via via le altre sorelle. A capotavola c’era sempre lui, papà Alcide: rigoroso ma affettuoso, che la domenica dopo la messa andava a comprare sette pastarelle, perché in casa si era ritirata a vivere anche zia Marcella, sorella di Alcide. «Io ero innamoratissima di lui. Quando diceva qualcosa aggiungevo: ha ragione papà», aveva raccontato Maria Romana De Gasperi, la figlia primogenita del premier del Dopoguerra, ad Aldo Cazzullo, ricordando nel 2020 la vita lunghissima di figlia adorata, prototipo non banale di tutte le First Daughter (è morta a Roma il 30 marzo 2022).

Devota al padre e alla sua idea severa della politica, Maria Romana lo seguì anche nel famoso viaggio in America del 1947, a cercar fondi per la ricostruzione, dove Alcide incontrò il presidente Truman e per l’occasione si fece prestare un cappotto acconcio, per non sfigurare, dall’allora segretario della Dc Attilio Piccioni. Poi il viaggio in quadrimotore che sorvolava l’Oceano a bassa quota, «durato un giorno e una notte, con scalo imprevisto alle Azzorre perché era venuta a mancare la benzina per il vento contrario, con papà che rileggeva il discorso camminando su e giù per la pista» ha raccontato a Monica Mondo che la intervistava nel 2009 su Tv2000. Di questa Italia rinascente Francesca Romani fu lucida memoria.

Ancora quasi bambina, Maria Romana durante gli anni del fascismo, portava un grosso pacco con le carte del padre, che del regime era oppositore, ogni volta che in città si annunciavano retate e perquisizioni. Poi fu giovanissima staffetta partigiana che consegnava gli articoli di Alcide, nascondendoli nella cesta della bici sotto i fiori o la verdura. A quei tempi lei, che per volere del padre non aveva la tessera fascista e quindi non poteva frequentare la scuola statale, andava dalle suore francesi di Nevers, all’ istituto Joseph de l’Apparition sul Lungotevere, per paradosso oasi laica che accoglieva ragazze di ogni religione e idea, e dove la divisa era una camicetta azzurra con gonna blu.

Finita la scuola, Maria Romana diventa quasi naturalmente segretaria di Alcide, «ma non era un ruolo importante», minimizzava, «ero una giovane ingenua». E non pagata: «L’Italia era molto povera e mio padre riteneva che in famiglia non dovesse esserci più di uno stipendio pubblico» raccontò a Riccardo Michelucci: «Così mi passava semplicemente una parte del suo». Il titolo del libro di Maria Romana su De Gasperi uomo solo, scritto nel 1964 per Mondadori, ha rappresentato, disse lo storico Pietro Scoppola, non solo un’intuizione familiare e letteraria, ma un’acuta definizione politica. Sposata con un partigiano cattolico, Piero Catti, Maria Romana ha ricevuto da Mattarella nel 2021 la nomina a Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica. Dei tanti incontri ricordava il francese Robert Schuman e il tedesco Konrad Adenauer, amici di papà: «Gente di età con l’anima giovane: sapevano di cominciare qualcosa di estremamente nuovo e importante come l’unità dei popoli europei per una politica comune. L’unità europea come era stata sperata da loro è una cosa stupenda».

Arnaldo Forlani.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - E' morto oggi l'ex leader democristiano Arnaldo Forlani. Avrebbe compiuto 98 anni l'8 dicembre. L'ex segretario democristiano si è spento serenamente a casa sua, a Roma. 

2. BIOGRAFIA DI ARNALDO FORLANI

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• Pesaro (Pesaro e Urbino) 8 dicembre 1925. Politico. Laurea in Legge, giornalista professionista, deputato della Democrazia cristiana dal 1958 al 1994, nel 1969 divenne segretario del partito (rieletto nel 1989). Dall’ottobre 1980 al maggio 1981 fu presidente del Consiglio (è il periodo in cui scoppiò lo scandalo della P2). Ministro degli Esteri nell’Andreotti III, IV e V (1976-1979), vicepresidente del Consiglio nel Craxi I e II (1983-1987). «Si può aver ragione ma sbagliare lo stesso». 

• Padre agricoltore, mamma maestra. Ai bei tempi perennemente in gessato. Furbo, prudente, è la “F” del Caf che dominò gli anni Ottanta (Craxi-Andreotti-Forlani). Il 16 maggio 1992, al sesto scrutinio, mancò il Quirinale per soli 29 voti, «fronda andreottiana, pare» (Sebastiano Messina): «Ero totalmente disinteressato all’esito finale. Dovetti presentarmi candidato in quanto segretario della Dc ma le assicuro che non ho sofferto lo stress degli scrutini, forse un po’ patirono i miei familiari» (ad Alessandra Longo).

• Fu processato per la maxitangente Enimont insieme a tutti i segretari del vecchio pentapartito nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite (vedi DI PIETRO Antonio): tristemente memorabile la sua deposizione in tribunale (17 dicembre 1993), pallido, quasi incapace di aprir bocca, un filo di saliva all’angolo delle labbra. 

• «Condannato definitivamente nel 1998 a due anni e quattro mesi, appena possibile Forlani ha chiesto l’affido ponendo tra le opzioni, si scrisse, la guardiania di una chiesa, la cura di una biblioteca, la Comunità di Sant’Egidio o la Caritas. Quest’ultima istituzione si è presa in carico l’ex leader della Dc, che pur con tutti i limiti del rango e dell’ufficio svolto, resta una delle figure più distaccate (e pigre) e civili, comunque, della Prima Repubblica. Così, fino all’ottobre del 2003 il democristiano che la penna arguta e fiorentina di Gianfranco Piazzesi aveva illustrato come “Il Coniglio Mannaro” si è diviso fra la sua casa dell’Eur-Laurentino e la sede centrale dell’organizzazione benefica della Chiesa cattolica» (Filippo Ceccarelli).

• «Tutti i giorni sulla Micra verde varcò il portone del Vicariato, diretto al suo ufficio presso la sede della Caritas diocesana: un locale spartano con scrivania in formica, armadi metallici e classificatori colorati, in una mansarda due piani sopra l’ufficio dell’allora Vicario del Papa, cardinale Ruini. “Bettino – commentò lui – andò ad Hammamet. Ognuno ha il suo carattere. Non tutti hanno la vocazione socratica a bere la cicuta anche sapendo di essere stati condannati ingiustamente”. In che cosa è consistita la pena di Forlani? L’ex premier collaborò senza firmare a Roma Caritas , bimestrale in bianco e nero. Sulla copertina, nel febbraio 2002, una mano tesa oltre le sbarre. E il titolo: “Ero in carcere e mi avete visitato”. E poi ricerche, giri per parrocchie.

“Tutte cose – assicurò – che nella mia visione della vita non sono meno utili di quello che potevo fare guidando la Democrazia cristiana o collaborando ai governi”. Disse anche apertamente che aveva potuto accettare tutto questo, in forza della sua fede, del suo essere cattolico». [M. Antonietta Calabrò, Corriere della Sera 14/8/2013]. 

• In un passaggio della nota diffusa il 13 agosto 2013 dal Quirinale, nella quale Giorgio Napolitano ha commentato la sentenza di condanna definitiva di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, si fa riferimento appunto al caso di Forlani («un’altra occasione nel recente passato in cui si è verificata una condanna a una pena detentiva di [una] personalità che ha guidato il governo»).

• «Con garbo doroteo rispondeva ai cronisti e con lo stesso garbo non diceva nulla di interessante. Gli si faceva presente: “Segretario, non sta dicendo niente...”. E lui, sempre con garbo, magari con un sorriso: “Ah, sapessi, carissimo: io potrei andare avanti così per ore”» (Stefano Di Michele).

• Padre putativo di Pier Ferdinando Casini (prima discepolo, poi collaboratore, poi portavoce), alle elezioni politiche del 2008 gli aveva consigliato di «mettere da parte certe forme di orgoglio personale, certe bizze» e di entrare nel Pdl.

• «Renzi ha l’abitudine di chiamare Guerini (membro della sua segreteria, ndr) con il soprannome di “Arnaldo”, in omaggio alle capacità diplomatiche di Arnaldo Forlani» (Roncone Fabrizio) [Cds 19/1/2014]. 

• Sposato, tre figli, tra i quali Alessandro (Roma 12 marzo 1959), nel 2001 eletto al Senato col Biancofiore, nel 2006 alla Camera con l’Udc, nel 2008 candidato ancora con l’Udc ma non eletto.

• Interista e buona mezzala in gioventù (giocò in Serie C con la Vis Pesaro). «Ero ambidestro, tiravo bene sia col destro che col sinistro. Così una volta giocavo di qua e l’altra di là. Poi mi chiesero di scegliere: mezzala destra o mezzala sinistra. Fu allora che lasciai il calcio» (a Sebastiano Messina).

Tommaso Labate per corriere.it venerdì 7 luglio 2023.

«Quanto poco ci vuole a far saltare l’elezione di un presidente della Repubblica. Un dettaglio, una fesseria, e la storia del Paese cambia». 

Tipo?

«Ha presente quella specie di catafalco, quella sorta di cabina con le tende scure che viene montata a Montecitorio, in cui i parlamentari si infilano per votare a scrutinio segreto? Ecco, quel coso ha cambiato la storia d’Italia in un giorno di maggio del 1992. Arnaldo Forlani stava per diventare presidente della Repubblica. Al quinto scrutinio aveva preso 469 voti, al sesto era salito a 479, una o massimo altre due votazioni e ce la avrebbe fatta». 

Ma che c’entra la cabina?

«L’accordo era che si procedesse senza usarla. L’accordo era che i parlamentari votassero a scheda aperta, così li vedevi in faccia. Il voto era segreto, certo; ma si poteva intuire quanto era lungo il cognome che scrivevano, capire se avrebbero rispettato gli accordi. Se sulla scheda scrivi “Forlani” o “Spadolini” c’è una differenza che l’occhio attento sa cogliere. Non solo, qualcuno sospettato di essere un libero pensatore poteva discolparsi mostrando la scheda». 

Un franco tiratore intende?

«Io li chiamo liberi pensatori». 

Comunque sia…

«Seguivamo i lavori dell’Aula nella stanza del governo. A un certo punto, dalla tv, Forlani sente che Oscar Luigi Scalfaro e l’ufficio di presidenza hanno appena accolto la proposta di Pannella di continuare le votazioni usando quel confessionale. Arnaldo teme la trappola e ritira la sua candidatura. Una settimana più tardi, dopo la strage di Capaci, il suo biglietto per il Colle l’avrebbe preso proprio Scalfaro». 

Di quell’elezione del presidente della Repubblica, anno 1992, Paolo Cirino Pomicino fu forse il miglior attore non protagonista. Era stato lui, andreottiano di ferro, ad aprire le danze qualche settimana prima, mettendo a sedere allo stesso tavolo i due pretendenti, Andreotti e Forlani.

La scena che si vede nel Divo di Sorrentino.

«La raccontai io a Sorrentino. “Se c’è la candidatura di Andreotti, la mia non esiste”, disse Forlani; “se c’è la candidatura di Forlani, la mia non esiste”, rispose Andreotti; e io che concludevo dicendo “ho capito, sono candidati tutti e due”». 

Oggi sembra più semplice di allora.

«Al contrario, è molto più difficile. Quando mollano l’ancoraggio alle tradizioni culturali, i partiti perdono il loro peso nella società e questo si riverbera nei gruppi parlamentari, oggi impossibili da controllare. Guardi la Germania: socialisti, popolari, liberali, ambientalisti, destra, tutto molto definito. Solo da noi non lo è».

Lei come si muoverebbe?

«Gli accordi trovati troppo presto o troppo tardi non reggono. Bisogna muoversi otto-dieci giorni prima dell’inizio delle votazioni. Enrico Letta, Matteo Salvini e Luigi di Maio chiusi in una stanza: si potrebbe partire da lì per poi allargare. Sono gli unici tre che hanno l’interesse a non far finire la partita nelle mani di Renzi».

La candidatura di Berlusconi?

«Aritmeticamente adesso è forte. Ma l’aritmetica, sa...».

Draghi?

«Penso che ci sia l’interesse nazionale e internazionale che rimanga a Palazzo Chigi, soprattutto ora che in Europa non ci sarà più la Merkel. Per il Quirinale bisogna cercare una personalità che abbia tanti anni di attività politica, un’importante esperienza di governo alle spalle, un grande prestigio internazionale. Nomi non ne faccio ma non è impossibile».

Nel 1992, con un partito ancora forte, Andreotti e Forlani arrivarono al «game over» prima del traguardo.

«La corsa di Andreotti durò due ore. Dalle 5 alle 7 del pomeriggio. Il giorno prima della riunione decisiva dei gruppi dc, Forlani va da Giulio e gli dice che avrebbe proposto il suo nome. Mi telefona da Palazzo Chigi Nino Cristofori, mi dice “Paolo, è fatta, muoviamoci per trovare altri voti fuori dalla maggioranza”. Andreotti era in Parlamento fin dalla Costituente, di rapporti ne aveva a destra e a sinistra». 

E poi?

«Mi fiondo nello studio di Andreotti e incrocio Mino Martinazzoli. Gli chiedo che cosa ci facesse lì e lui mi risponde che era andato a smentire l’ipotesi di una sua candidatura, a garantire che anche il suo voto sarebbe andato a Giulio». 

Sembra fatta.

«Sono da Andreotti quando ricevo una telefonata da Enzo Scotti, che mi dice che per il gruppo dei dorotei il candidato della Dc deve essere Forlani. “Ma chi ha deciso?”, urlo al telefono. C’era stata una riunione, presenti Gava, Silvio Lega, Leccisi, Prandini, lo stesso Scotti. A quel punto, dico ad Andreotti che deve telefonare a Forlani. E Arnaldo gli conferma che, tornando al partito, aveva trovato la rivoluzione... Si erano fatte le 7 di sera. Due ore prima era un altro mondo».

L’avrebbe spuntata Scalfaro.

«Dopo l’uccisione di Falcone, si trovano tutti a casa di Ciarrapico: Forlani, Andreotti, Gava, Craxi. È Craxi che spinge su Scalfaro, presidente della Camera, convinto che avrebbe potuto “garantirlo” dal Colle, Mani Pulite era già iniziata... Un altro calcolo sbagliato, la storia che cambia. Per dire a quelli di oggi che, alle volte, basta un niente».

È morto Arnaldo Forlani, ex segretario Dc e primo ministro. Storia di Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2023.

È morto, a 97 anni, nella sua abitazione di Roma, l’ex presidente del Consiglio e segretario Dc Arnaldo Forlani. Il leader politico, nel corso di una carriera durata dal dopoguerra agli anni ‘90 è stato a capo del governo tra l’ottobre 1980 e il giugno 1981 e segretario dello Scudocrociato tra l’89 e i ‘92. ha ricoperto altri incarichi governativi tra cui ministro degli esteri, della difesa, delle partecipazioni statali.

Nel 1992 era stato in corsa anche per la carica di presidente della repubblica ma un gruppo di «franchi tiratori» ne impedì l’elezione. A quel punto Forlani aveva ritirato la sua candidatura. Al suo posto era stato eletto Oscar Luigi Scalfaro.

Con il suo tramonto politico si chiuse la stagione politica della Dc quale «perno» dell’intera politica nazionale. Assieme a Bettino Craxi e Giulio Andreotti (con i quali costituì un asse politico allora denominato CA.F.) è stato tra gli ultimi protagonisti della Prima Repubblica, travolta poi dallo scandalo di Tangentopoli. Proprio sotto la guida di Forlani la Dc all’inizio degli anni ‘80 interruppe la collaborazione con il Pci maturata nel corso dei governi di «solidarietà nazionale» del decennio precedente, preferendo coltivare l’alleanza con i socialisti e i partiti laici: furono gli anni del «Pentapartito».Breve la sua esperienza al vertice dell’esecutivo, fatale per lui l’espolosione dello scandalo P2: la scoperta che Palazzo Chigi aveva tenuti nascosti gli elenchi della loggia segreta per alcuni mesi costrinse Forlani e il suo governo alle dimissioni.

In anni giovanili era stato anche buon calciatore (ruolo mezz’ala) nella squadra della sua città, la Vis Pesaro. Nella memoria comune rimane anche la sua deposizione sotto l’occhio delle telecamere al processo per la tangente Enimont nel dicembre del 1993: nell’aula del tribunale di Milano, incalzato dalle domande dell’allora «eroe nazionale» Antonio Di Pietro, Forlani aveva risposto balbettando, esitando, pallido in volto. Era parsa quella la vera immagine del passaggio storico a cui l’Italia si stava apprestando con l’uscita di scena dei partiti storici (e dei loro leader). Per il finanziamento illecito alla Dc Forlani i n quel processo fu condannato a due anni e quattro mesi, pena scontata prestando servizio alla Caritas. Appena tre mesi dopo quell’udienza Silvio Berlusconi vinse le elezioni aprendosi la strada per Palazzo Chigi.

« Apprendo con commozione la notizia della scomparsa di Arnaldo Forlani, e desidero esprimere ai figli e ai familiari i sentimenti della mia solidarietà e vicinanza» così in serata si è espresso il presidente della repubblica Sergio Mattarella, che di Forlani è stato amico e compagno di partito. «Forlani - prosegue il capo dello Stato - è stata una personalità di spicco della Repubblica per una lunga stagione, e la sua azione nel governo e nel partito di maggioranza relativa ha contribuito all’indirizzo del Paese, alla sua crescita democratica, allo sviluppo economico e al consolidamento del ruolo italiano in Europa, nell’Alleanza Atlantica, nel consesso internazionale. La formazione cattolico democratica lo ha spinto fin da giovanissimo all’impegno politico. La fermezza delle posizioni si univa in lui con stile di cortesia e con atteggiamento rispettoso con gli interlocutori anche di posizioni contrapposte, atteggiamenti che assumevano essi stessi un valore politico e democratico».

È morto Arnaldo Forlani, l'ultimo grande della Dc. Francesco Curridori il 6 Luglio 2023 su Il Giornale.

Due volte segretario della Dc, una breve esperienza da primo ministro. Forlani, l'ultimo esponente del Caf, è deceduto oggi all'età di 97 anni

È morto oggi, nella sua abitazione di Roma, l’ultimo dei grandi leader della Dc, Arnaldo Forlani. Ne dà notizia il figlio Alessandro. Presidente e vicepresidente del Consiglio dei ministri, ministro degli Affari esteri, ministro della Difesa e delle Partecipazioni statali. ha ricoperto il ruolo di segretario della Democrazia Cristiana nel quadriennio 1969-1973 e poi nel tra il 1989 e il 1992.

Gli esordi nella Democrazia Cristiana

Nato a Pesaro nel ’25, inizia la sua militanza nel partito ancora ventenne e nel 1955 diventa direttore della sezione Studi, Propaganda e Stampa (Spes). Tre anni più tardi entra alla Camera come esponente di punta della corrente di Amintore Fanfani, nel 1962 viene eletto vicesegretario nazionale dell Dc. Nel 1968 diventa ministro per la prima volta assumendo la guida del dicastero delle Partecipazioni statali, ma è il 1969 l’anno della svolta. A San Genesio stipula il patto con Ciriaco De Mita un patto per prendere in mano le redini del partito e dar vita a una “rottamazione” ante litteram. I due vengono soprannominati “i gemelli di San Genesio” ma il loro patto dà i suoi frutti: quello stesso anno Forlani viene eletto segretario e De Mita assume la carica di suo vice.

Forlani eletto segretario Dc per la prima volta

Nel 1970 si svolgono per la prima volta le elezioni Regionali in cui la Dc ottiene il 37% dei voti a livello nazionale, superando di dieci punti il Pci e diventando il primo partito in tutte le Regione ad eccezione dell’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria. Nonostante i buoni risultati nelle urne, l’anno successivo Forlani non riesce a far eleggere Amintore Fanfani presidente della Repubblica e a fermare l’avanzata delle destre alle elezioni politiche del 1972, le prime a svolgersi anticipatamente rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Ed è così che l’anno seguente Fanfani prende il suo posto nel partito e rilancia il centrosinistra con Mariano Rumor a capo del governo. Al Congresso del 1976 Forlani cerca di riprendersi la segreteria del partito in rappresentanza del blocco moderato e contrario all’alleanza col Pci ma viene sconfitto, per pochi voti, da Beniamino Zaccagnini, rappresentante dell’ala sinistra della Dc. Nonostante l’iperattivismo politico, era noto per la sua pigrizia tanto che egli stesso una volta disse: "Il lavoro mi affascina, potrei guardarlo per ore", mentre i suoi avversari lo descrivono come una persona apparentemente statica ma scaltra. Il giornalista Gianfranco Piazzesi lo soprannominò “Coniglio Mannaro”, mentre Carlo Donat Cattin disse di lui:"Arnaldo è come il Dio di Aristotele, il motore immobile, dovrebbe cercare di essere più motore e meno immobile". Frase che pare essere appropriata per il personaggio che, una volta disse: "la Dc se sceglie, sbaglia".

Forlani nominato primo ministro

Al di là delle ‘malelingue’ nel 1976 Forlani viene nominato ministro degli Esteri e nel 1980, a seguito della vittoria dell’ala moderata di Flaminio Piccoli al Congresso, diventa primo ministro. Durante il suo governo Papa Giovanni Paolo II subisce l’attentato per opera di Alì Agca, mentre la Dc perde il referendum sull’aborto e Forlani è costretto alle dimissioni dopo che scoppia lo scandalo della loggia P2 perché si scopre che alcuni suoi ministri ne fanno parte. Il 1982 segna un’altra sconfitta congressuale per Forlani che si vede mancare l’appoggio di Fanfani, sostenitore del vincitore Ciriaco De Mita. Sono gli anni dell’ascesa del Psi di Bettino Craxi come premier, di cui Forlani è vicepresidente mentre, sul fronte interno, si fa promotore di una nuova corrente democristiana di stampo centrista, Alleanza Popolare".

La seconda volta alla segreteria Dc e la nascita del Caf

Nel 1989 si celebra il XVIII Congresso della Dc all'ultimo che vede l'elezione di Forlani a segretario con l’85% dei voti. Una vittoria decisa a tavolino, o meglio a tavola nel corso di una cena tenutasi nella villa di Cirino Pomicino sull'Appia Antica. Qui i vertici della DC, dopo un'interminabile "caminetto" convergono su Forlani quale candidato unico di tutte le correnti. Alle elezioni europee dello stesso anno la DC ottiene il 32,9%, riconquistando il primato perso nel 1984 e, di lì a poco, nasce il Caf, l’alleanza politica tra Craxi, Andreotti e lo stesso Forlani, tesa a blindare la maggioranza del pentapartito e fortificare i rapporti con il Psi. Un tentativo che si scontra con il complesso panorama politico contrassegnato dal crollo del muro di Berlino, dai primi successi della Lega Nord, dai referendum di Mario Segni per modificare la legge elettorale. Ma a sconvolgere il governo è soprattutto l’ingresso dei comunisti a Palermo nella giunta guidata dal democristiano Leoluca Orlando il quale, di lì a breve, uscirà dalla Dc per fondare il movimento ‘La Rete’.

La mancata elezione a presidente della Repubblica

La fine della Prima Repubblica è vicina e Tangentopoli è alle porte. Forlani, alla fine del 1991, indìce a Milano la Conferenza nazionale programmatica della DC nella quale avverte che il sistema sta franando e individua possibili soluzioni per scongiurare la crisi. Propone l’introduzione della sfiducia costruttiva e una riforma della legge elettorale proporzionale che preveda un ‘correttivo maggioritario’. Nel corso del suo discorso rivendica con orgoglio la storia gloriosa del partito: “Non saremo noi – dice - a ripiegare la bandiera della Dc. La bandiera di Luigi Sturzo, di Alcide De Gasperi, di Aldo Moro. Come l’abbiamo ricevuta da loro, così noi la trasmettiamo ai giovani. Non abbiamo da cambiare i nostri simboli né da rinnegare la nostra storia. Non per orgoglio di partito, retorico o male inteso, ma perché con la Dc l’Italia è stata salvata. Con la Dc l’Italia è cresciuta, con la Dc difenderemo ancora l’unità della nazione e la sua libertà”. L’anno seguente ha inizio l’inchiesta Mani Pulite e, alle elezioni politiche del 5 aprile, la Dc perde il 5% ma la più grande sconfitta personale per Forlani arriva in maggio, in occasione del voto per il presidente della Repubblica. In quei giorni dice: "Se non vengo eletto presidente sarà la fine della Prima Repubblica". Una frase premonitrice che prelude al suo ritiro nella corsa per il Quirinale che termina il 16 maggio, al sesto scrutinio, quando gli mancavano solo 29 voti per essere eletto.

Lo scoppio di Tangentopoli e il ritiro dalla politica

La sua carriera politica termina con l’inizio del processo Enimont che lo vede imputato e per il quale venne condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere per finanziamento illecito. Pena scontata con l'affidamento in prova al servizio sociale ed espiata collaborando con la Caritas di Roma. “Bettino andò ad Hammamet. Ognuno ha il suo carattere. Non tutti hanno la vocazione socratica a bere la cicuta anche sapendo di essere stati condannati ingiustamente”, dirà in seguito Forlani che, in un’altra occasione ammetterà che su Tangentopoli “Non abbiamo reagito come avremmo dovuto. Avevamo un complesso di soggezione nei confronti della magistratura e della giustizia. Nonostante la storia dei cristiani fosse partita da un processo e da una sentenza di morte che ha tagliato in due la storia". Certo è che di quel periodo gli italiani ricordano soprattutto l’interrogatorio in cui l’allora pm Antonio Di Pietro lo incalza con domande continue per farlo cadere in contraddizione e lui balbetta, suda e si difende addossando tutte le responsabilità sul tesoriere, Saverio Citaristi.

E' stato Presidente del Consiglio dei Ministri e per due volte Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana. E’ morto Arnaldo Forlani, storico leader della Democrazia Cristiana. Fu anche Presidente del Consiglio. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2023

E’ morto nella sua abitazione di Roma all’età di 97 anni Arnaldo Forlani.

Nato a Pesaro l’8 dicembre 1925, Forlani è  stato uno dei massimi esponenti nazionali della Democrazia Cristiana e uno dei politici italiani più importanti ed influenti dagli anni ’70 fino agli anni ’90.

Dopo aver completato gli studi di giurisprudenza presso l’Università di Urbino, Forlani ha intrapreso la sua carriera politica nella DC, diventando un esponente di spicco del partito. Nel 1958 è stato eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, inaugurando una lunga carriera parlamentare che si sarebbe protratta per oltre trent’anni.

Forlani ha ricoperto vari incarichi di rilievo nel governo italiano. Nel 1968, è diventato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, mentre nel 1974 è stato nominato Ministro per i Rapporti con il Parlamento nel governo di Aldo Moro. Nel 1976, dopo l’omicidio di Moro, Forlani è stato eletto Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana, diventando così il leader del partito.

Durante il suo mandato come Segretario della DC, Forlani ha cercato di mantenere l’unità del partito in un periodo politicamente tumultuoso. Ha guidato il partito attraverso diverse crisi interne e ha cercato di favorire un dialogo con altri partiti politici italiani per raggiungere accordi di coalizione stabili.

Nel 1980, Forlani è diventato Primo Ministro italiano, incarico che ha ricoperto fino al 1981. Il mandato di Forlani come Primo Ministro è stato segnato da sfide politiche ed economiche. Durante il suo governo, l’Italia ha affrontato problemi come la crisi economica e l’aumento della disoccupazione. Nonostante gli sforzi di Forlani nel gestire queste difficoltà, il suo governo ha avuto vita breve e si è dimesso nel 1981.

Oltre ad essere stato presidente e vicepresidente del consiglio dei Ministri,  fu anche ministro degli affari esteri, ministro della difesa e ministro delle partecipazioni statali. Fu anche segretario nazionale della Democrazia Cristiana dal 1969 al 1973 e poi dal 1989 al 1992. E’ stato anche a lungo presidente del Consiglio nazionale del partito.

Candidato alla presidenza della Repubblica dal suo partito nel 1992, fu ostacolato dai franchi tiratori, tra i quali vi furono molti della corrente andreottiana. Forlani a quel punto si dimise da segretario e di lì a poco venne coinvolto nel processo per la maxi tangente Enimont, dove fu condannato in via definitiva a due anni e 4 mesi per finanziamento illecito dei partiti. Evitò il carcere con l’affidamento ai servizi sociali alla Caritas.

La fine della sua seconda segreteria diede inizio al percorso che, sotto la segreteria del suo successore Martinazzoli, portò allo scioglimento della DC e alla costituzione del Partito Popolare Italiano.

Dopo quella vicenda, minime furono le uscite pubbliche di Arnaldo Forlani: apparì poche volte, conducendo una vita ritirata, interrotta solo dalla presentazione di un libro nel 2009 e da alcune interviste. Fino alla tragica notizia di oggi.

Arnaldo Forlani, il geniere che guidò la Dc nei momenti più delicati. Nel 1972 gli toccò il compito di riportare al Governo, con Andreotti, i liberali di Malagodi al posto dei socialisti di Mancini. Dal 1979 si prodigò per la ripresa dell'alleanza con i Socialisti di Craxi. Francesco Damato su Il Dubbio il 9 luglio 2023

Ogni volta che ho provato, spontaneamente o su richiesta del direttore del giornale di turno al corrente dei nostri rapporti di stima e amicizia, a scrivere il cosiddetto “coccodrillo” su Arnaldo Forlani, prevedendone la morte, non sono riuscito a superare le prime righe per scaramanzia. Rifiutavo dentro di me l’idea della fine di uno dei leader politici con i quali mi sono trovato più in sintonia nella mia lunga attività professionale, forse più ancora di Bettino Craxi e di Aldo Moro. Ora non posso davvero sottrarmi. La nostra amicizia nacque quando Forlani era ancora vice segretario della Dc, e delfino di Amintore Fanfani, nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Avevo scritto di lui, sul Momento sera di Roma, un articolo come di un uomo che aveva il cuore con Fanfani e il cervello con Moro, l’altro cavallo di razza dello scudo crociato, come li definiva Carlo Donat- Cattin: cavalli generalmente in competizione fra loro.

Forlani, dandomi del tu, mi ringraziò dell’articolo, compiaciuto che io l’avessi “smembrato” col cuore da una parte e col cervello dall’altra. Fanfani mi invitò invece a colazione di prima mattina per dirmi, o spingermi a dirgli, che se avesse voluto accordarsi con Moro avrebbe saputo e potuto farlo da solo, senza mediazioni. E infatti lo fece nel 1973 ponendo fine alla prima lunga segreteria di Forlani alla Dc, cominciata nel 1969, per succedergli e ripristinare il centrosinistra con i socialisti interrottosi per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, alla fine del 1971. Fu l’accordo rimasto famoso per il luogo – Palazzo Giustiniani, una delle sedi del Senato- in cui Fanfani promosse la riunione fra i capi delle correnti dello scudo crociato alla vigilia di un congresso nazionale del partito che sembrava destinato a confermare Forlani alla segreteria e Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, alla guida di un governo “della centralità”, con i liberali al posto dei socialisti.

Forlani disciplinatamente si mise o si lasciò mettere da parte, assistendo l’anno dopo dalla finestra, diciamo così, di casa alla sconfitta referendaria di Fanfani sul divorzio. Che segnò l’inizio di una lunga crisi di rappresentanza della Democrazia Cristiana destinata, tra alti e bassi, a sfociare nella sua scomparsa, nonostante Forlani fosse tornato alla sua guida nel 1989 per cercare di evitarla.

Anche se consumatasi formalmente nel 1973, la rottura tra Fanfani e Forlani era di fatto avvenuta alla fine del 1971, in occasione delle elezioni presidenziali conclusesi con l’arrivo di Leone al Quirinale. In quella occasione Fanfani, il primo candidato ufficiale del partito, non ce l’aveva fatta per l’ostinata opposizione di un folto gruppo di “franchi tiratori” della Dc. Quando fu inevitabile cambiare cavallo nella corsa a colle più alto di Roma l’ancora segretario dello scudo crociato Forlani nella riunione congiunta dei gruppi parlamentari osò sostenere la praticabilità

della candidatura di Moro, ricordandone le funzioni già svolte di segretario del partito e di presidente del Consiglio e quelle in corso di ministro degli Esteri. “Traditore”, gli disse al termine della riunione un deputato fanfaniano di Taranto appoggiandogli una mano sul volto, come in uno schiaffo trattenuto a stento all’ultimo momento. Poi prevalse, come soluzione di compromesso, la candidatura del già ricordato Leone, eletto al secondo scrutinio alla vigilia di Natale dopo l’intervento di Moro su tutti i suoi amici di corrente perché votassero disciplinatamente il nuovo designato. Che comunque passò a stretta maggioranza di centrodestra, con tutte le sinistre contrarie. Oltre che leader - praticamente l’ultimo prima dello scioglimento del partito disposto da Mino Martinazzoli nel 1994 assegnandogli il nome pur non nuovo di “Partito Popolare”- il mio amico Forlani fu il geniere della Dc, chiamato alla sua guida nei momenti più delicati, per assumere decisioni non facili. Nel 1972, per esempio, gli toccò il compito di riportare al governo, con Andreotti, i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini sganciatisi da soli. Nel 1989, quando tornò alla segreteria del partito, gli toccò chiudere la lunga stagione di sinistra del suo - peraltro - ex vice segretario dei tempi giovanili Ciriaco De Mita. Ma già prima del 1989 - esattamente nel 1979 non votando in una tesissima riunione della direzione del partito contro la bocciatura dell’incarico di presidente del Consiglio conferito a Craxi dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini, e nel 1983 diventando vice presidente del Consiglio con lo stesso Craxi a Palazzo Chigi - egli si era prodigato per la ripresa dell’alleanza con i socialisti affrancatisi dalla paura avuta dal precedente segretario Francesco De Martino di governare con la Dc senza i comunisti. I quali si erano guadagnati così l’occasione di appoggiare dall’esterno, paradossalmente, due monocolori democristiani presieduti da Andreotti all’insegna della “solidarietà nazionale”.

Dal secondo turno di segretario democristiano Forlani avrebbe potuto passare al Quirinale nel 1992, candidato ufficialmente dal suo partito, se il clima politico non fosse stato intossicato dalla famosa inchiesta “Mani pulite” sul diffuso finanziamento illegale della politica con la pratica delle tangenti. E non fosse stato infine sconvolto dalla strage mafiosa di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutti gli uomini della scorta, nel pieno delle elezioni presidenziali per la successione a Francesco Cossiga.

L'ultimo leader della Dc. Chi era Arnaldo Forlani, l’ultimo leader della Democrazia cristiana. Politicamente era, in tempi in cui questa parola aveva ancora un senso, un moderato: non un uomo di destra, e nemmeno un conservatore, piuttosto un realista. Paolo Franchi su L'Unità l'8 Luglio 2023

Arnaldo Forlani non era una mammola. Era un democristiano di altri tempi. Un politico mite quanto coriaceo, della cui parola gli interlocutori potevano fidarsi. Si fidò di lui (infinitamente più di quanto si fidasse di Giulio Andreotti) Bettino Craxi. Ma pure Enrico Berlinguer ne riconobbe più volte la correttezza.

Personalmente era un pigro, poco incline a dare battaglia in campo aperto. Politicamente era, in tempi in cui questa parola aveva ancora un senso, un moderato: non un uomo di destra, e nemmeno un conservatore, piuttosto un realista, magari anche, se preferite, un iperrealista. Ne dette ampia prova all’indomani del terremoto (non solo elettorale) del 1992, quando la sua Dc scese per la prima volta sotto la soglia del 30 per cento, i socialisti, già entrati nel tritacarne di Mani Pulite, restarono al palo (ma persero una valanga di voti nella Milano di Craxi), il neonato Pds si attestò su un tristissimo diciassette per cento e i leghisti entrarono in massa in Parlamento.

Quel che restava della vecchia maggioranza lo candidò, sfidando le sue ritrosie, al Quirinale. Fallì alla prima votazione, fallì alla seconda, fallì alla terza, vittima del fuoco per nulla amico degli andreottiani e di un manipolo di grandi elettori socialisti. Conosceva troppo bene i suoi polli per pensare che alla quarta votazione, o alla quinta, le cose sarebbero andate meglio e, anche a difesa della propria dignità politica e personale, si ritirò. Se ce l’avesse fatta, la nostra storia avrebbe preso, con ogni probabilità, tutt’altra piega. Ma forse neanche lui aveva piena contezza della valanga che si era già messa in movimento e stava per travolgere un sistema politico – il suo – già corroso in profondità.

Capì qualcosa di più, o forse tutto, nel dicembre dell’anno successivo, quando fu interrogato da Antonio Di Pietro, come tutti o quasi i leader dei partiti di governo, nonché Giorgio La Malfa e Umberto Bossi, al processo Enimont.

A rivederla oggi su Youtube, la sua deposizione è impressionante, specie se la si raffronta con quella, spavalda, di Craxi. I tg e i giornali dell’epoca misero in grande risalto il grumo di saliva che si era formato sulle sue labbra, e resisteva a ogni tentativo di rimuoverlo con un fazzoletto di lino bianco: un po’ come era capitato alle vittime del Grande Terrore staliniano, che ascoltavano “con la bava alla bocca” le accuse del Grande Accusatore staliniano Andrei Viscinski. Ma Di Pietro non era Viscinski, non accusava Forlani, false prove alla mano, di aver tramato contro la Repubblica, la Costituzione, la democrazia. Voleva molto più semplicemente affermare il principio che un uomo politico con la sua storia e con il suo ruolo “non poteva non sapere” dei finanziamenti illeciti ai partiti in generale e della maxi tangente Enimont in particolare.

Solo che, a parte un paio di incontri di Forlani con Gardini e Sama, ricordati dallo stesso ex segretario della Dc, non aveva nulla di concreto da contestargli. E quanto più incalzava, restando però sempre sulle generali, tanto più Forlani si intestardiva a ripetere il medesimo concetto: no, lui delle tangenti aveva appreso, come tutti, leggendo i giornali, e in ogni caso di queste cose non si era mai occupato, anche perché, almeno nel suo partito, il ruolo del segretario politico era assolutamente distinto da quello del segretario amministrativo. Se quest’ultimo, Severino Citaristi, ricordava qualcosa di diverso, non sapeva che farci. E restava comunque in attesa di contestazioni concrete, che però, almeno in quell’udienza, non arrivavano.

Era, la sua, una linea esattamente opposta a quella adottata da Bettino, che aveva detto di essere a conoscenza del lato oscuro della politica fin da quando portava i pantaloni alla zuava. Si rivelarono entrambe perdenti, e in quel contesto non poteva essere altrimenti. Ma a Craxi per una volta – l’ultima – si riconobbero i caratteri del lottatore politico, che prova sino alla fine, anche quando è evidente che la battaglia è persa in partenza, a rovesciare il tavolo. A Forlani, neanche questo. Avendo scelto, a costo di far la parte dell’allocco, di comportarsi in tribunale secondo quelle che pensava fossero ancora le regole del gioco, fu il giudizio pressoché universale, si era mostrato per quello che era, un vigliacco, un coniglio non più mannaro, oltretutto con l’aggravante del grumo di saliva alla bocca.

Per dirla in una parola: un democristiano. Se posso dare un consiglio a chi mi legge, soprattutto ai più giovani, che all’epoca non c’erano, o erano bimbetti, suggerirei di guardarla, quella deposizione. Non rimpiangerebbero il bel tempo andato, quel sistema politico era ormai un termitaio. Ma forse capirebbero qualcosa di più di quella stagione, e della devastazione della politica (altro che “rivoluzione italiana”!) che quella stagione ha inaugurato. Prima di tutto nel senso comune della grande maggioranza italiana o, se preferite, in quella che un po’ pomposamente si definisce “l’opinione pubblica”.

Paolo Franchi 8 Luglio 2023

Il funerale di Forlani diventa un addio alla Dc 30 anni dopo. Tra le autorità presenti, oltre a Mattarella e Fontana la ministra azzurra Bernini e il suo ex "delfino" Casini. Anna Maria Greco l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Nella bara di legno chiaro c'è Arnaldo Forlani, ma forse questi sono i funerali della Democrazia Cristiana. Funerali di Stato, lutto nazionale, il presidente della Repubblica e tutte le più alte cariche dello Stato nelle prime file in chiesa, sì devono essere quelle esequie della Balena bianca che 30 anni fa, nella bufera di Tangentopoli, nessuno ha avuto il coraggio di celebrare.

Ora che il 6 luglio è arrivato alla fine lui, il novantasettenne Forlani, ex presidente del Consiglio, a lungo ministro e segretario della Dc, la cerimonia è anche per quel partito che Arnaldo ha incarnato pure nella sua ingloriosa dissoluzione, di fronte ai giudici. E infatti, quasi con un balzo indietro nel tempo, si materializza su un lato della basilica dei Santi Pietro e Paolo, un anziano militante che tiene alta la bandiera bianca con lo scudo crociato rosso e la scritta Libertas.

«La vita di Forlani - dice monsignor Vincenzo Paglia, che officia le esequie - è stata improntata ad un ideale di potere discreto. E' rimasto fedele sempre al partito in cui si è svolta la sua intera vicenda politica».

Quanti democristiani, senza «ex» davanti, ci sono nella grande chiesa, quanti oggi rappresentano le istituzioni, quanti sono figli di dc e seguono quell'esempio. Tanti, a cominciare dal Quirinale? Solo qualche nome: nei banchi siedono Paolo Cirino Pomicino, Bruno Tabacci, Lorenzo Cesa e soprattutto lui, l'allora delfino di Forlani, Pierferdinando Casini, che in quest'occasione rappresenta il Senato. «L'ultimo democristiano» si definisce nel suo recente libro.

A rendere omaggio a Forlani e al partito che ha fatto la storia della Prima Repubblica ci sono anche il presidente della Camera Lorenzo Fontana, la vicepresidente della Corte Costituzionale Daria De Petris, la ministra Anna Maria Bernini in rappresentanza del governo. E ancora Matteo Renzi, Giorgio Mulè, Gianni Letta, Nicola Zingaretti.

Lontani dai banchi delle autorità e fuori dalla basilica ecco la gente comune, che accoglie il feretro accompagnato dal picchetto d'onore interforze, con un lungo applauso.

«Aveva una radice profonda - dice il monsignore - che affondava nella formazione giovanile, nell'Azione cattolica e appariva tanto appassionato. In lui era sempre presente quel disegno biblico finalizzato alla pace, le spade convertite in vomeri. Visioni come queste spingevano Arnaldo a dare esempio di rigore, serietà, sobrietà». Nella sua omelia ricorda come Forlani abbia contribuito alla rinascita di un'Italia distrutta dopo la Seconda Guerra Mondiale e, molto tempo dopo, di averlo conosciuto proprio quando si abbatté anche su di lui Tangentopoli: «non si è mai sottratto all'azione della magistratura rispettandone l'azione, interpretando tutto come un effetto amaro del clima di quegli anni».

Ecco che di nuovo la vita dell'uomo coincide con la parabola storica della sua Dc. Monsignor Paglia dice che «nella sua solida formazione cristiana, Arnaldo ha trovato motivi ispiratori del suo impegno politico, lui lo riassumeva con dovere e passione» e, quando in un'aula di tribunale visse fino in fondo l'incubo di Mani pulite, interrogato da Antonio Di Pietro, «tutto ciò non lo intaccò, anzi ne rafforzò lo spirito». Non sappiamo se è vero, ma certo in quel momento lui rappresentò per la gente, con il suo smarrimento di fronte al pm che l' incalzava, la fine della Dc.

Gianfranco Rotondi, deputato e storico esponente del partito, dice di lui che «è stato anzitutto la politica, oltre che la Democrazia Cristiana. Ha rappresentato l'autorevolezza e la mitezza della politica. La sua era una linea atlantista, da testimone coerente e costante, senza scatti muscolari».

Fu, dice monsignor Paglia, «un uomo di pace», non solo da ministro degli Esteri, «primo governante europeo a visitare la Cina, ma in tutta la lunga attività politica, attentissimo alla cooperazione e all'europeismo».

Tutti temi oggi più che mai attuali, questioni irrisolte e, aggiunge l'alto prelato, «il Paese ha bisogno di visioni che uniscono». Forlani, «servitore dello Stato», adesso «troverà quelle risposte che riguardano il senso ultimo dell'esistenza umana e che la politica da sola non è in grado di dare».

De Mita.

Estratto dell'articolo di Antonello Caporale per “il Fatto Quotidiano” il 12 giugno 2023.

[…] La chiamavano la first baby, la figlia plenipotenziaria del leader irpino. Su Antonia De Mita vent’anni di racconti più o meno piccanti: e guarda come balla, e guarda con chi si accompagna, come si veste, chi bacia.

Senza merito ho avuto gli occhi del Paese su di me: ogni uscita, amicizia, parola veniva passata ai raggi x. E senza colpa ho poi ottenuto il titolo di super raccomandata facendo sempre la vita da precaria. Con cotanto padre la sottoscritta non è riuscita a farsi assumere in un giornale e nemmeno alla Rai. Niente, zero carbonella.

Lei ha raccontato del rapporto così enorme e intenso con suo padre.

L’ho amato con tutta me stessa, ed era una relazione certo filiale ma tanto assoluta da farmi decidere, quando ho sentito che stava avvicinandosi la sua fine, di passare tutti i giorni che gli restavano insieme. A Nusco, io e lui. L’ho chiamato e ho detto: papà vienimi a prendere, voglio stare con te. 

Traslocò.

Non mi sono più mossa da lì. Non ho fatto un passo che non fosse dietro mio padre. Ogni sera attendevo che mi venisse a salutare quando andava a letto e ogni mattina aspettavo che la cerimonia si riproponesse. Sentivo distintamente i suoi passi, ero in grado di afferrare anche il ritmo del suo respiro. Capivo se dormiva, capivo se aveva un problema.

Cosa le diceva?

Il solito De Mita: Andonia, ricordati della tua intelligenza. 

Battaglia persa con la t.

Aveva un carattere difficile ma era un uomo di una intelligenza debordante e di una cultura universalistica. Una mente così aperta al mondo malgrado la testarda volontà di costruire la sua piattaforma esistenziale in un piccolo borgo dell’Italia meridionale. C’è sentimento e strategia in questa decisione. 

Lei era sotto i riflettori anche perché lo accompagnava nei viaggi di Stato.

Mia madre non aveva voglia, impegnata com’era a crescere gli altri tre fratelli. Mi diceva: vai tu Antonia. 

Antonia De Mita, la figlia scapricciatella e presenzialista.

I giornalisti si occupavano di me per iniettare un po’ di veleno contro di lui. E gli avversari politici applaudivano, fomentavano, intignavano.

Raccomandazioni?

Papà diceva sempre: con l’elettorato meridionale ci accusano di fare clientelismo che al nord magicamente viene tradotto come aiuto all’imprenditoria. 

Lei non ha goduto di spintarelle?

Ora che ricordo, un trattamento di favore – diciamo così – l’ho ottenuto da Caltagirone, allora editore del Tempo. Mi mancavano tre mesi di contribuzione per ottenere la possibilità di sostenere l’esame da giornalista professionista. Gli chiesi di assumermi per quel breve periodo. Accettò ma nella lettera di assunzione stabilì anche la data del licenziamento: il giorno successivo ai tre mesi offerti. Un rigore svizzero.

Suo padre se ne è dispiaciuto?

Non ha detto nulla. Non mi sono sposata, non ha detto nulla. Non ho avuto figli, non ha detto nulla. I fidanzati che frequentavo non venivano indagati. Metteva a tacere ogni legittima curiosità. Li osservava senza profferire parola. [...] 

Estratto dell’articolo di Simona Brandolini per corriere.it il 19 maggio 2023.

«Un uomo di ghiaccio in politica, ma un padre e un nonno di zucchero filato». Il 26 maggio è una data che Antonia De Mita non dimenticherà più. È la figlia più grande e anche quella più vicina all’ex presidente del Consiglio, tra le figure politiche più longeve e potenti della storia italiana, mancato appunto un anno fa. «Sono sensitiva — dice Antonia —, alla fine del lockdown, mi sono detta: lascio tutto, lascio Roma e vado da mio padre. Perché lo sentivo che sarebbe successo. Ho attraversato un dolore impensabile, sapevo che avrei sofferto, a 93 anni te lo aspetti. Ma io sono morta insieme a mio padre». Quello che segue è il racconto, politico e personale, semplicemente di una figlia.  

(…) Certo che nell’immaginario di chi ha visto il De Mita pubblico è difficile pensare all’aggettivo “buono”: si direbbe ironico, a volte cinico, anche feroce, ma non buono. 

«In politica è stato l’uomo di ghiaccio. Gliene dicevano di qualsiasi tipo, non faceva una piega. Ma nel privato, no. Poi con gli anni si è ancora più ammorbidito. La grande svolta sono stati i nipoti, sette. Un uomo di zucchero filato». 

Andiamo per periodi: cosa ricorda del sequestro Moro? 

«Ciriaco era legatissimo ad Aldo Moro, aveva un affetto umano e un’ammirazione profonda nei suoi confronti. Lo amava anche caratterialmente, per la sua mitezza, così diverso da lui. Io ricordo solo che ero a scuola e tutti urlavano “la De Mita deve essere portata fuori”. Mi sono venuti a prendere, caricata in auto. Mio padre non l’ho visto per tutto il periodo del sequestro».  

Con Bettino Craxi invece non si sono mai capiti, in fondo. 

«Mio padre non era mondano, le riunioni si tenevano o a piazza del Gesù o in casa, quindi ascoltavo. Un giorno, prima della famosa staffetta, ricordo ancora cosa indossassi e cioè un pantalone grigio e una camicia bianca, mi giro e vedo in salotto Bettino Craxi. Io gli dico: ma lei è Craxi? Non aveva occhi, ma uno scanner. Sorrise e se ne andò. Io sentivo che tutti dicevano che litigavano, ma poi se si guardano le foto di papà e Craxi insieme non ce n’è una in cui non ridano. C’era stima e io penso che papà per riavere Bettino tra i piedi, avrebbe fatto i salti mortali». 

Dagli anni ’80 al 2008, la rottura con il Pd, anzi con Veltroni. 

«Prima della convention del Lingotto, papà chiama Veltroni, purtroppo aveva il vizio di pensare che gli altri lo dovessero ascoltare. La linea cade, Veltroni non lo richiama più. Mio padre capisce e in assemblea dice: questo è il mio ultimo discorso. Mi prese un colpo. Poi capii che voleva dire che sarebbe stato l’ultimo discorso nel Pd. Ne abbiamo la certezza, quando a un certo punto ci arriva una telefonata di una giornalista che avverte papà che Veltroni avrebbe preferito Pina Picierno a lui. Voleva chiudere la sua carriera politica. Lo minacciai, gli dissi: me ne vado, se butti la tua carriera politica così. Mi ascolta. Chiamiamo Tabacci, che stava mettendo su la Rosa bianca, e ci alleiamo con lui. Ma quella fu una botta vera, anche se si è ripreso da solo. De Mita spostava il 7 per cento o anche solo il 3 per cento, che ha fatto vincere De Luca in Regione. Era così».  

Poi ci sono state le schermaglie con Matteo Renzi, sul referendum soprattutto: De Mita sosteneva il no, storico il loro incontro moderato da Enrico Mentana su La7. 

«Una volta andammo al San Carlo ad ascoltare Kaufmann. Era atteso Matteo Renzi, presidente del Consiglio. Tutti erano lì per lui, mica per l’opera. Dopo ci fu un aperitivo sulla terrazza del Circolo dell’Unione, io ero stanca. Dico a mio padre: ma vuoi andare a salutare Renzi? Lui mi fa: e tu? No, allora andiamo a casa. Ce ne siamo andati, quando tutta Italia era ai piedi di Renzi». 

Uno degli uomini più potenti d’Italia perché torna a fare il sindaco, ad oltre ottant’anni, nel piccolo paese natale di Nusco? 

«Perché non fare politica, non era contemplato. E nella prima fase si è molto divertito: con Fabrizio Barca hanno messo insieme 25 comuni e le risorse. Un piccolo Pnrr anti litteram». 

E poi? 

«Poi si è divertito di meno, perché la testa di papà, fuori dalla norma, si è scontrata con il paese». 

(…)

Suo padre era un uomo di centrosinistra (nonostante la parentesi in Regione con Stefano Caldoro), ma alle politiche lei ha sostenuto Gianfranco Rotondi e la destra. 

«Quando è morto mio padre sono arrivati gli sciacalli che si contendevano il consenso e il nome di mio padre. Pensavano di essere gli eredi. A quel punto io e mia madre abbiamo deciso di sostenere Rotondi. Ho chiesto perdono a mio padre per quella fiamma nel simbolo, so che ha capito. Meloni ci ha ringraziato pubblicamente. Ma io pensavo che perdessimo. E invece abbiamo vinto. E sono sicura che papà sia stato contento: ho fatto fuori tutti quelli che lo hanno tradito. Questo sempre perché non faccio politica».

Clemente Mastella.

Estratto dell’articolo di Adolfo Pappalardo per “Il Mattino – ed. Napoli” mercoledì 6 settembre 2023.

«No, non ho molta voglia di parlare di politica: mi ha un po' nauseata ultimamente».

 Ma vogliamo solo parlare delle feste dell'Udeur di Telese: ne ha nostalgia?

«Moltissima: come potrei non averne?». 

Ecco, immaginate ora per un attimo Sandra Mastella: prima riottosa che però, magicamente, si illumina. Una festa di partito, di un piccolo partito, che per una settimana e per nove edizioni (l'ultima nel 2007), diventa il baricentro di tutta la politica italiana, segnandone il ritorno, vero, dopo la pausa estiva. Con tutti i leader di partito che si fiondano in questo paese di 7mila anime nel Sannio nella prima settimana di settembre. E attori, e imprenditori e leader sindacali. C'erano tutti. E tutti volevano esserci.

E qui si tessono e si sciolgono alleanze, si tracciano rotte della politica di governo e si scelgono, anche, leader di partito e di coalizioni. In un'atmosfera familiare, un po' glamour se volete, e lontana dalle pachidermiche (e impersonali) kermesse dei grandi partiti. Merito non solo dell'istrionico Clemente ma anche, e soprattutto, della moglie Sandra, ex presidente del consiglio regionale ed ex parlamentare, che curava ogni dettaglio. Perché non sfuggiva niente al suo occhio. 

In questa settimana da Telese praticamente si riorganizzava la politica.

«Quella vera. Ma non dimentichiamo perché tutto si è bloccato: guardi, mi fa ancora rabbia oggi se ci penso».

[…] Nel 2007, l'ultima edizione, si chiude con Clemente Mastella che prende in braccio Roberto Benigni facendo il verso alla storica foto con Enrico Berlinguer.

«Benigni aveva voglia di esserci. E assieme a lui moltissime persone. E noi avvertivamo questa voglia di partecipazione. Infatti non c'erano mai rifiuti ai nostri inviti. Anzi il contrario». 

Come mai?

«Bisogna anche rapportarsi al periodo. I social praticamente non esistevano e c'era una certa spensieratezza da parte di tutti. C'era voglia di sentire il contatto e il calore della gente. Tutti volevano esserci e tutti, senza che venisse chiesto nulla, osservavano un dress code per l'occasione: essere eleganti ma con grande leggerezza. Ad un certo punto esserci era uno status symbol. Ricordo chi chiamava lamentandosi del mancato invito. E Clemente lì a riorganizzare il programma per cercare di non scontentare mai nessuno».  […] 

E i politici non si tiravano indietro, quasi abbassavano le difese.

«Certo. Ricordo Massimo D'Alema, per carattere un po' freddo, che venne preso d'assalto dalla gente e lui che rimase a chiacchierare con tutti stupendo anche noi. Anche Berlusconi che era un meraviglioso barzellettiere, mai riso tanto. Ricordo il suo staff che voleva sapere tutto, menù e ospiti al tavolo, per ovvie ragioni di sicurezza: lui alla fine li mandò a quel paese. Come a dire sto a Telese, non succede nulla sono tutti amici, e non rompetemi le scatole...». 

Berlusconi era così.

«Ma qui si trasformavano. Anche Romano Prodi, che non ha certo lo stesso carattere di Silvio, si faceva coinvolgere dall'affetto della gente. Era così a Telese: chiunque poteva avvicinare un leader politico e parlarci. Si creavano grandi capannelli ma nessuno ne era infastidito. Anzi. Ricordo una volta con il presidente Mattarella...».

Dica.

«Ora conoscono tutti Mattarella per il suo stile e il suo rigore. Ma ricordo una sera: andammo a cena in un paese qui vicino, San Lorenzello, famoso per le ceramiche e lui così attento a parlare con gli artigiani. Voleva conoscere tutti i dettagli. Ma se è per questo venne anche Francesco Cossiga. Fu stre-pi-to-so». 

In che senso?

«Rimase anche dopo la festa: fu ospite a casa nostra per alcuni giorni. Chiacchierava molto con mio figlio e lui gli chiese se poteva portare qualche amico. Si presentarono in 70 e si dovettero sedere sul prato in giardino per ascoltarlo. Non ha idea di quante volte Cossiga volle ringraziarmi per quel pomeriggio a parlare con i ragazzi per oltre due ore. Ma non si meravigli: i politici qui scendevano dal piedistallo e parlavano con tutti»

[…] Ci fu anche il falso Francis Ford Coppola.

«Finimmo anche sulla Cnn. Oddio, non era la prima volta: proprio Cossiga finì sui notiziari Usa per una battuta sul caso Clinton-Lewinsky fatta a Telese». 

Ma Coppola si rivelò un sosia.

«Lo dissi a Clemente che non mi convinceva sta cosa. Ma stemmo allo scherzo fino alla fine. Ma anche noi ci divertivamo. Una volta Arturo Parisi ci diede buca, avvertendoci solo la sera prima. Clemente ci rimase male ma non si scoraggiò: tanto fece che riuscì a scovare un asinello (il simbolo del movimento prodiano di Parisi, ndr) per portarlo sul palco al posto suo». […]

Pier Ferdinando Casini.

Il trascorso sentimentale. Pier Ferdinando Casini: chi è la fidanzata Maddalena Pessina arrivata dopo la separazione con Azzurra Caltagirone e Roberta Lubich. Redazione su Il Riformista il 16 Novembre 2023

L’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, 66 anni, è stato fotografato dal settimanale Chi insieme alla nuova fidanzata, Maddalena Pessina, con cui fa coppia da qualche tempo. I due sono stati ripresi a passeggio per le vie di Bologna, città di origine di entrambi, e i loro sorrisi sono indice della stabilità di un rapporto che dura da tempo, lontano dai riflettori.

Chi è Maddalena Pessina, la nuova fidanzata di Pier Ferdinando Casini

51 anni, look acqua e sapone, figlia di un dirigente della Democrazia Cristiana degli Anni 80 ora scomparso, di professione Maddalena Pessina è addetta alla promozione culturale al Ministero degli Esteri. In passato ha lavorato a lungo in Nigeria, Albania e Tunisia. Lei e Pier Ferdinando Casini (che – come riporta Chi – si dichiara orgogliosamente innamorato di lei) si sono incontrati qualche mese a casa di amici qualche mese fa e da allora non si sono più lasciati.

Maddalena Pessina non è mai stata sposata, a differenza del compagno che ha due matrimoni alle spalle: il primo, dal 1982 al 1998, con Roberta Lubich, mamma delle sue figlie Benedetta e Maria Carolina; il secondo, dal 2007 al 2016, con Azzurra Caltagirone, da cui ha avuto Caterina e Francesco.

Il matrimonio con Azzurra Caltagirone

Sposati dl 2007, due figli, Caterina e Francesco, Pier Ferdinando Casini e Azzurra Caltagirone hanno annunciato la separazione consensuale nel lontano 2015. Dopo 16 anni di amore la coppia più influente della politica italiana – lui ex presidente della Camera dei Deputati e leader di Area Popolare, lei erede del secondo gruppo editoriale italiano, che controlla Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino, il Corriere Adriatico, il Nuovo Quotidiano di Puglia e Leggo – decide la separazione ufficiale «dopo una lunga riflessione» e in amicizia.

Per Casini si tratta del secondo divorzio:in prime nozze avevo sposato Roberta Lubich, figlia cardiologo Turno Lubich, dalla quale ha avuto due figlie, Maria Carolina e Benedetta.

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2023.

Pier Ferdinando Casini. Deputato a 27 anni, il 12 luglio del 1983 entra per la prima volta in Parlamento. C’era ancora l’Urss e l’Italia di Bearzot aveva da poco vinto i mondiali. Da allora quarant’anni di politica ininterrotti, undici legislature, che ne fanno l’uomo del Parlamento più longevo della Repubblica nella contabilità dei mandati elettivi. 

All’anagrafe gli anni sono sessantasette. Due volte sposato, quattro figli, tifosissimo del Bologna, difficilmente rinuncia alla corsetta mattutina.

Mille incarichi, tra i quali la presidenza della Camera. A gennaio dell’anno scorso è stato tra i tre candidati più accreditati nell’elezione che ha poi portato alla conferma di Sergio Mattarella come capo dello Stato. 

In politica da ragazzo. Ha mai pensato di smettere?

«La politica è una passione, prima che una carriera: se contrai questo virus non ci sono vaccini. Mai pensato di smettere, qualche volta ho temuto che gli elettori mi obbligassero a smettere...».

Che direbbe a Caterina, la più giovane delle sue figlie, se volesse fare politica?

«Da un lato ne sarei contento, dall’altro la inviterei a crearsi prima una professione solida. La società della rete difficilmente consentirà carriere politiche così lunghe come è capitato a me e alla mia generazione». 

(...)

La fine della Prima repubblica è stata un buon affare?

«Non è stata determinata da Tangentopoli come molti pensano, ma dalla caduta del muro di Berlino. Il mondo che cambiava richiedeva interpreti nuovi. Inutile vivere di nostalgia: tutto nella vita ha un inizio e una fine».

 E il presidenzialismo?

«In un Paese litigioso come il nostro una figura super partes, una sorta di pater familias, è indispensabile per comporre i conflitti e garantire un rispetto istituzionale. Non trovo alcuna utilità nel trasformare questa figura nell’epicentro dello scontro tra i partiti». 

È vero che i politici sono dei gran bugiardi?

«Un mio maestro mi insegnò che un politico intelligente non dice bugie, perché perderebbe ogni affidabilità. Al massimo, in certe circostanze, è meglio ricorrere alle omissioni...».

Politica in perenne affanno, ma anche l’antipolitica pare azzoppata.

«L’antipolitica è stata un’illusione ottica che ha fatto il suo tempo prima del previsto. E sa perché? Perché la democrazia e il Parlamento hanno un grande contenuto pedagogico: quando questi ragazzi sono entrati dentro i Palazzi del potere ne hanno capito la complessità e hanno dovuto superare i loro pregiudizi. 

Comunque, non dimentichiamo mai che il miglior alleato dell’antipolitica è la cattiva politica, la corruzione in primo luogo. La questione morale, che racchiude l’eterno conflitto tra il bene e il male, non è invenzione di qualche giornalista». 

Lei è stato fondatore del centrodestra e oggi è stato rieletto nel centrosinistra. Come si giudica? E come giudica Meloni e Schlein?

«Io non mi posso giudicare, so solo che si è mosso tutto... Ero atlantista, europeista e degasperiano sui banchi di scuola. Mi sembra di essere lo stesso, 40 anni dopo, sui banchi del Senato. La Meloni certamente ha doti di leadership e ha fatto una sua lunga marcia. I suoi peggiori nemici stanno nelle file della maggioranza: c’è un’evidente inadeguatezza. 

La Schlein è meno estremista di come viene rappresentata e di come lei stessa vuole farsi rappresentare. Ha davanti una sfida difficile e andrà giudicata con quella calma che mi sembra il Pd non sia mai disposto a riservare ai suoi leader».

Quarant’anni di politica. Qual è stato il giorno più brutto e quello più bello?

«Il giorno più bello è stato quello della seconda elezione di Mattarella, quando ricevetti un bell’applauso da tutti i miei colleghi. Il più brutto? Me ne sono dimenticato perché sono un positivo».

Marco Follini.

Marco Follini, il democristiano che ha sostenuto sia Berlusconi sia Prodi. Da segretario del movimento giovanile della Dc a vicepresidente del Consiglio con Berlusconi, poi il sostegno al governo Prodi prima di occuparsi (sempre) di politica ma in modo diverso. Lorenzo Grossi su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023

Tabella dei contenuti

 Il percorso fino alla vicepresidenza del Consiglio

 L'esperienza post-politica di Follini

Che cosa si può fare dopo avere abbandonato l'attività politica? Semplice: fare politica, possibilmente con la P maiuscola. Sembra un gioco di parole ma, a ben pensarci, è quello che praticamente è stato messo in atto da Marco Follini da quando ha lasciato i palazzi istituzionali dieci anni fa esatti. Oggi, infatti, l'esponente politico che è nato con la Democrazia Cristiana non sta facendo altro che continuare a portare avanti la propria passione, ma con modalità diverse. Ma di che cosa si sta occupando esattamente adesso Follini?

Il percorso fino alla vicepresidenza del Consiglio

Nato a Roma il 26 settembre 1954, Giuseppe Marco Follini completa gli studi nella Capitale al liceo Torquato Tasso per poi iscriversi all'albo dei professionisti dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio. Ed è proprio in questo periodo che entra far parte della Dc: prima come segretario del movimento giovanile – dal 1977 al 1980 – e poi alla direzione nazionale del partito, dove lavora nei sei anni successivi durante i governi Forlani, Spadolini, Craxi e Fanfani. A cavallo con la dissoluzione del partito, il politico all'epoca 32enne approda nel consiglio di amministrazione della Rai, dove resta fino al 1993.

Per lui arriva il momento di costruirsi una seconda vita politica e lo fa spingendo i membri eredi della Balena bianca a favorire un'alleanza moderata di centrodestra, seguendo così le orme di Pier Ferdinando Casini nella fondazione del Centro Cristiano Democratico (CCD): questa nuova formazione politica, che aveva rifiutato di aderire al nuovo Partito Popolare Italiano, darà vita alle coalizioni del Polo delle Libertà e Polo del Buon Governo. Follini vi parà parte come membro della direzione nazionale, fino al termine della storia del partito, mentre dal 2002 viene eletto segretario della neonata Udc.

Ora Alfano si aggrappa pure a De Mita e Follini

L'apice della sua storia politica arriva il 2 dicembre 2004: Silvio Berlusconi lo promuove a vicepresidente del Consiglio nel suo governo che presiede. Tuttavia tra i due la collaborazione istituzionale durerà poco tempo: già ad aprile del 2005, dopo la sconfitta del centrodestra alle elezioni regionali, Follini chiede un rimpasto di governo dal quale lui decide volutamente di sottrarsi (il 15 aprile successivo nascerà il Berlusconi ter). Nel 2006, poi, cambia totalmente rotta: eletto senatore e già dimessosi da segretario dell'Udc, voterà Napolitano presidente della Repubblica, esprimerà il suo NO al referendum costituzionale sulla riforma voluta dal centrodestra e si trasferirà nel Partito Democratico a sostenere il governo Prodi 2. Grazie al Pd viene riconfermato a Palazzo Madama, entrerà nella segreteria, ma quella del 2008-2013 si rivelerà come l'ultima legislatura parlamentare alla quale parteciperà.

L'esperienza post-politica di Follini

Ecco quindi che comincia la terza vita di Marco Follini. Dopo una parentesi di tre anni come presidente dell'Associazione Produttori Televisivi (APT), nel 2017 decide di tornare a occuparsi (seppur indirettamente) politica e lascia così la presidenza dell'associazione. Un anno prima aveva sostenuto le ragioni del No in occasione del referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi, poi la sua passione si sostanzia soprattutto nella proficua attività di giornalista, scrittore e intellettuale, a cui Follini si sta dedicando con intensità sempre maggiore. Un paio di suoi libri sono dedicati al rapporto tra politica del Palazzo e quella della Piazza, mentre in altrettanti si occupa della "sua" Democrazia Cristiana e di Aldo Moro.

Attualmente collabora come editorialista al settimanale L'Espresso e cura una rubrica settimanale ("Il punto di vista di Follini") sull'agenzia di stampa online Adnkronos. Proprio negli ultimissimi giorni era stato citato da Totò Cuffaro, ora neosegretario nazionale della Dc, perché Follini sarà una tra le "vecchie glorie" democristiane a tenere dei corsi nella nuova scuola di formazione politica, alla quale parteciperanno 250 giovani.

Occorre costruire un movimento di centro. Costruire davvero quella Seconda Repubblica auspicata da Craxi e mai realizzata da Berlusconi. Alessandro Chelo su Il Riformista il 7 Agosto 2023 

Era quarant’anni fa. Era il tempo di Reagan e di Berlinguer. Era quarant’anni fa quando Bettino Craxi denunciò come in Italia il normale processo democratico fosse di fatto impedito dalla dinamica DC-PCI. La definì “democrazia bloccata”: un sistema ingessato da un compromesso continuo fra DC e PCI che di fatto impediva l’alternanza di governo. Dedicò la sua esperienza politica alla costruzione della “democrazia dell’alternanza”.

Sul piano politico ciò presupponeva un ridimensionamento del PCI e un ampliamento dell’area socialista. Riteneva che ciò avrebbe dovuto essere accompagnato dal rinnovamento istituzionale e propose l’elezione diretta del Capo dello Stato. Perché? Per superare l’idea di un Presidente della Repubblica garante di quell’unità nazionale che in realtà si fondava su un patto di potere fra DC e PCI e affermare invece l’idea di un Presidente eletto come testimone della democrazia dell’alternanza. Quarant’anni fa. Craxi, leader visionario, vaso di coccio stretto fra due vasi d’acciaio, fu fatto a pezzi e il suo progetto rimase scritto sulla carta e enunciato nei congressi.

Dieci anni dopo, senza la DC nel frattempo travolta da tangentopoli e senza il PCI obbligato a reinventarsi dopo la caduta del muro di Berlino, in un quadro molto più “aperto”, Silvio Berlusconi raccolse il testimone craxiano e denunciò il “consociativismo” che per decenni aveva tenuto bloccato il sistema democratico. Scese in campo con l’intento di rinnovare le istituzioni e il Paese, ma la sua annunciata “rivoluzione liberale” non ebbe luogo. Le ragioni del suo fallimento sono molteplici. Fu vittima dei suoi conflitti di interesse e della persecuzione giudiziaria di cui fu fatto oggetto, subì un’opposizione feroce da parte di un fronte catto-comunista costituito dagli ex-PCI e da buona parte degli ex-DC, dovette infine inventarsi una maggioranza anomala e del tutto scricchiolante, composta da parti in odio fra loro: gli ex-missini e i leghisti di Bossi. Insomma, non c’erano le condizioni politiche affinché Berlusconi potesse realizzare quanto Craxi auspicava dieci anni prima. Così, la rivoluzione liberale non ebbe luogo e l’impianto istituzionale restò immutato.

Eppure da allora si dice che sarebbe nata la Seconda Repubblica. No, non stiamo vivendo in una Seconda Repubblica, stiamo ancora vivendo nella Prima: la Seconda Repubblica è stata auspicata, raccontata, narrata, ma non è mai nata.

Oggi siamo chiamati a realizzare davvero ciò che è stato solo annunciato, oggi, a distanza di quarant’anni dall’iniziativa di Craxi e di trent’anni da quella di Berlusconi, il rinnovamento istituzionale è divenuto urgente e, probabilmente, finalmente possibile. Sono mature le condizioni politiche? Sì, ma occorre il coraggio della consapevolezza, dell’onestà intellettuale, del superamento dei vecchi steccati. Il rinnovamento istituzionale non può certo essere promosso dagli eredi delle forze che tennero bloccato per decenni il sistema democratico italiano. Non può vedere come protagonisti neppure i nostalgici più o meno dichiarati del regime che la Prima Repubblica soppiantò.

Occorre costruire un movimento di centro, di ispirazione umanistica e liberale, mosso da spirito fortemente innovatore, totalmente svincolato dalla cultura politica della sinistra, che sappia costruire un asse con l’area politica di governo, isolandone le parti più arretrate. Qualcuno avrà il coraggio di mettere mano a un’operazione di tal fatta? Matteo Renzi è forse l’unico in grado di provarci e questa iniziativa potrebbe rappresentare per lui una vera e propria seconda vita politica. Se saprà recidere ogni residuo legame con la cultura politica della sinistra e saprà anteporre la visione alla tattica, questa sua seconda vita potrebbe rivelarsi entusiasmante e la Seconda Repubblica finalmente affermarsi.

Alessandro Chelo. Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo.

Silvio Berlusconi trionfa alle urne, così inizia la Seconda Repubblica. Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 aprile 2023.   

«Berlusconi trionfa e prenota il governo»: si legge in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 29 marzo 1994. Dopo due infiammate giornate elettorali, finalmente i dati ufficiali sono diffusi. «Il polo della Libertà ha raggiunto la maggioranza assoluta alle Camere. Sconfitta la sinistra, il centro (con Segni e Martinazzoli) conferma la scelta dell’opposizione. Per Fini, leader di Alleanza nazionale, Berlusconi sarà il prossimo capo del governo», si specifica nel pezzo d’apertura. Le elezioni di ventinove anni fa decretano definitivamente la sconfitta del vecchio sistema dei partiti, già messo a dura prova dalle conseguenze dell’inchiesta «Tangentopoli». È in vigore il nuovo sistema elettorale, il «Mattarellum», approvato dopo l’esito del referendum di un anno prima, che ha abrogato il proporzionale.

Al voto si sfidano, così, nuovi schieramenti: i partiti di sinistra si raccolgono nella formazione dei Progressisti, guidata dal Pds di Occhetto; il Polo delle Libertà è invece costituito dal neonato partito dell’imprenditore Silvio Berlusconi, dalla Lega nord e da Alleanza nazionale. Al centro restano il Partito popolare italiano, evoluzione della vecchia Democrazia cristiana, e altre piccole formazioni liberaldemocratiche. Il leader di Forza Italia, si legge sulla «Gazzetta», ha aspettato quasi l’una di notte per pronunciare il suo discorso della vittoria: costituitosi solo tre mesi prima, Fi è diventato il primo partito del Paese: «Per gioire aspetta i dati definitivi. Esorta i suoi alla prudenza, nella sala del Jolly Hotel di Roma gremita fino all’inverosimile. Ma negli occhi di Silvio Berlusconi brilla una furtiva lacrima mentre afferma che, comunque, il Polo delle Libertà un risultato già l’ha raggiunto: “consegnare il Paese ad un futuro di democrazia”».

Il giorno prima il Cavaliere si è recato a votare in una sezione del Ghetto di Roma, «in segno di solidarietà con la Comunità ebraica». Lì, però, l’accoglienza è stata a suon di urla: «Fascista!». «Se me lo avesse chiesto gli avrei detto che forse era meglio astenersi da questa manifestazione: un gesto demagogico, dettato dal desiderio di fare breccia», ha commentato Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche. Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia, ha insinuato che la contestazione sia stata organizzata dal Pds.

C’è un altro aspetto innovativo nel voto del 1994: «Mai come stavolta la televisione l’ha fatta da padrone, con quasi tutte le emittenti pubbliche e private impegnate in una maratona elettorale tuttora in corso», scrive in quarta pagina Oscar Iarussi. È stato naturalmente Enrico Mentana su Canale 5 ad anticipare tutti, annunciando i dati dei primi exit-poll. «Un gran circo sotto i riflettori bollenti, un barnum dell’informazione-spettacolo con Emilio Fede che rimbrotta i suoi inviati». Importante è stato anche il ruolo delle emittenti locali, specifica Iarussi: «In particolare di Antenna Sud che, consorziata con altre private di Puglia, ha cominciato a fornire dati dalle Prefetture e interviste ad alcuni colleghi del settore politico».

«Il vento di destra soffia forte anche nelle nostre regioni» scrive Michele Cristallo. È solo l’inizio della complessa e tormentata «seconda Repubblica». Il 1° aprile 1923 sulla «Gazzetta di Puglia» grande spazio è riservato alla critica teatrale e cinematografica. Al Petruzzelli è andata in scena la compagnia Tumiati, accolta con entusiasmo dal pubblico barese, con la La cena delle beffe di Sem Benelli. Al Margherita è stato proiettato Dolores, «uno dei pochi film spagnuoli oggi in Italia». Enorme il concorso di pubblico al cinema Umberto per Max Linder toreador – film muto del 1913, che riscuote ancora in quei mesi un notevole successo – e al cinema Cavour per la pellicola Kim, Kip e Kop, i vincitori della morte, «meravigliosamente interpretata dal noto artista Lionel Buffalo». È il cinema, insomma, già nel 1923, ad appassionare i baresi più di ogni altra forma d’arte: cento anni dopo, alcune di quelle stesse sale ospiteranno un Festival cinematografico internazionale, il Bifest, giunto alla 14esima edizione.

Palazzo Chigi: i forfait dei ministri dal 2001 al 2023. Chi sono i ministri che hanno lasciato Palazzo Chigi prima del tempo? Il primato del secondo governo Berlusconi nel quadro delle dimissioni degli ultimi ventidue anni. Marianna Piacente su Notizie.it il 6 Luglio 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Più di tre ministri ogni due anni

Il primato del governo Berlusconi

Il resto dei forfait

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Daniela Santanchè al rogo mediatico. Da circa una settimana la ministra del Turismo è bersagliata dalle pesanti critiche dei partiti di opposizione, che ne chiedono le dimissioni. Rai 3 rivela condotte giudicate ai limiti della legalità nei confronti e dei fornitori e dei dipendenti delle società di sua proprietà Visibilia e Ki Group. Ma chi c’è insieme a lei nei gironi infernali di Palazzo Chigi? Ecco l’elenco di tutti i ministri dimessisi dal 2001 a oggi.

Più di tre ministri ogni due anni

Sono trentadue. Quasi il 12% dei ministri (278 in totale). In media, ogni due anni hanno lasciato il loro incarico più di tre ministri. Una media che tuttavia non rispecchia la realtà dei fatti. Le dimissioni di un ministro non hanno interessato ugualmente tutti e dodici i governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi ventidue anni: se alcuni governi non hanno registrato alcuna defezione, portando a compimento il mandato con gli stessi ministri con cui lo hanno preso, ce ne sono altri che hanno visto riaggiornare (anche più volte) il proprio organico, sia per questioni personali che politiche e giudiziarie.

Il primato del governo Berlusconi

Il governo che ha registrato più ministri dimissionari nel range temporale considerato è stato il secondo governo guidato da Silvio Berlusconi (dal 2001 al 2006): otto i ministri che hanno lasciato l’incarico. Al secondo posto c’è il quarto e ultimo governo Berlusconi (dal 2008 al 2011): sei. L’ultimo gradino del podio nero va al governo Renzi: quattro i ministri dimissionari. A onor del vero, il record del secondo governo Berlusconi è figlio anche della sua stessa durata: con 1.412 giorni in carica, si tratta del governo più longevo della storia repubblicana. Di seguito, alcuni “meriti” del primato:

Luglio 2002: il ministro dell’Interno Claudio Scajola si dimette in seguito alle polemiche riguardo le sue dichiarazioni sul giurista Marco Biagi (lo definì «un rompicoglioni»), ucciso a marzo dello stesso anno dalle Nuove Brigate Rosse;

Agosto 2005: il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco si dimette dopo quattro mesi dall’incarico per divergenze con la maggioranza;

Febbraio 2006: il ministro per le Riforme istituzionali e la semplificazione normativa Roberto Calderoli è costretto a dimettersi per essersi mostrato in televisione con addosso una maglietta raffigurante delle vignette satiriche contro Maometto, causando violente proteste attorno al consolato italiano a Bengasi (Libia);

Marzo 2006: il ministro della Salute Francesco Storace si dimette per il suo coinvolgimento nell’inchiesta Laziogate della procura di Roma. Era indagato per associazione a delinquere insieme ad alcuni suoi ex collaboratori, accusato di aver spiato a livello informatico alcuni avversari politici mentre era presidente del Consiglio regionale della Regione Lazio. Dopo una condanna in primo grado, fu assolto in appello nel 2012.

Il resto dei forfait

A gennaio 2008 (secondo governo Prodi), il ministro della Giustizia Clemente Mastella lascia l’incarico perché accusato di concorso esterno in associazione a delinquere dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Le sue dimissioni provocano l’uscita dalla maggioranza dell’Udeur e collaborano alla caduta del governo della coalizione di centrosinistra (nel 2017 Mastella sarà assolto). Più recentemente, a marzo 2016 la ministra dello Sviluppo economico (governo Renzi) Federica Guida si dimette – pur non essendo indagata – per il coinvolgimento in un’inchiesta sul traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti legati all’Eni in provincia di Potenza. Le ultime ministre a dimettersi appartengono entrambe al governo Conte: si tratta della ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti e della ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Il motivo stavolta non ha a che fare con indagini e/o accuse: le due scelgono semplicemente di ritirare l’appoggio al governo (come aveva fatto a dicembre 2019 il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti).

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Dipende. Se le dimissioni partono da una volontà del ministro non è la stessa cosa che se sono richieste dal Parlamento. La mozione di sfiducia è un atto previsto dalla Costituzione con cui il Parlamento, o una parte di esso, manifesta il venire meno del rapporto di fiducia con il governo o con un suo esponente. In base ai regolamenti della Camera e del Senato, le mozioni di sfiducia devono essere motivate e sottoscritte da almeno un decimo dei componenti dell’aula (quaranta deputati e ventuno senatori), non possono essere discusse prima di tre giorni dalla presentazione e sono votate per appello nominale. Se la maggioranza assoluta dell’aula (50% o più) esprime un voto favorevole, la mozione è approvata e il suo destinatario deve dimettersi. Tuttavia, dal momento che i ministri di un governo sono espressione della maggioranza parlamentare, è difficile che il Parlamento voti a favore della sfiducia.

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Tornando al caso Santanchè, nelle aziende a suo nome sarebbero stati registrati comportamenti poco trasparenti nei confronti del fisco e scorretti nei confronti dei dipendenti (trattamenti di fine rapporto non pagati a chi è stato licenziato oppure lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore a loro insaputa, facendoli comunque lavorare).

Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera – Dataroom” lunedì 25 settembre 2023.

Dal 1946 la durata media dei governi in Italia è di 361 giorni, dal 1994 con la Seconda Repubblica arriviamo a 533. Nei 78 anni di storia repubblicana abbiamo avuto 68 governi e 32 presidenti del Consiglio. 

Dal '94 si succedono 18 governi con 12 premier. Dall'analisi dei dati elaborati dal politologo Marco Improta (CirCaP, Università di Siena) per Dataroom , in Europa siamo proprio i messi peggio. Il problema è che ogni nuovo governo cambia le leggi fatte da quello che l'ha preceduto, creando un contesto che incoraggia le imprese a programmare gli investimenti.

[…] Da anni si discute su come dare al Paese maggiore stabilità politica. L'Italia è una Repubblica parlamentare: vuol dire che il presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento, e ha funzioni di rappresentanza e garanzia della Costituzione, mentre i cittadini eleggono il Parlamento che deve poi dare la fiducia al governo, il cui presidente del Consiglio è espressione dei partiti di coalizione che vincono le elezioni. 

Un modello che la presidente Giorgia Meloni ha definito di «democrazia interloquente», al quale sarebbe da preferire uno di «democrazia decidente». L'urgenza di un cambiamento lo ha messo nel programma di governo presentato in Parlamento con il discorso per la fiducia […].

Il 17 maggio 2023 si svolge un summit di 110 costituzionalisti italiani riuniti al Cnel su iniziativa del nuovo presidente, Renato Brunetta, presente con il ministro per le Riforme Elisabetta Casellati che fa una sintesi dell'incontro: «La preferenza va al premierato». 

[…] Il semipresidenzialismo in Europa occidentale ce l'hanno Francia (1958), Portogallo (1976) e Romania (1991), ma è quello francese il modello di riferimento più importante. Anche lì prima c'era un sistema parlamentare simile al nostro, ei governi duravano in media 6 mesi, poi il generale de Gaulle introduce la riforma costituzionale. Il presidente della Repubblica è eletto dal popolo per un mandato di 5 anni, e condivide il potere esecutivo con il primo ministro, da lui stesso nominato, e con il quale forma il governo.

L'Assemblea Nazionale, eletta in un momento diverso, non deve votare la fiducia, ma può sfiduciare il governo, mentre il Presidente può sciogliere l'Assemblea. Sta di fatto che dal '58 in poi la durata media dei governi si ferma a 494 giorni. Non è un successo, ma ha un punto di forza che si comprende meglio con l'esempio delle ultime presidenziali in Francia. 

Ad aprile 2022 Emmanuel Macron vince col 58,54% contro Marine Le Pen al 41,46%. L'Assemblea nazionale invece viene eletta due mesi dopo (giugno 2022), e la coalizione a sostegno di Macron ottiene 245 seggi contro i 289 necessari per avere la maggioranza. 

Significa che la prima ministra Elisabeth Borne guida un governo di minoranza e che ha difficoltà a legiferare in Assemblea nazionale. Ma anche se il Presidente Macron deve scendere a patti con l'opposizione, resta al suo posto per i 5 anni di mandato, proprio per garantire alla Francia la continuità di indirizzo politico. 

[…] Con il premier gli elettori scelgono contestualmente sia il presidente del Consiglio che i rappresentanti dei partiti che vogliono mandare in Parlamento. Il candidato primo ministro che ha ottenuto più voti deve poi essere legittimato dal Parlamento eletto. 

L'unico Paese democratico ad aver introdotto questa forma di governo è Israele nel 1992. Lo scopo è quello di una maggiore solidità, ma in 9 anni Israele va 3 volte al voto: nel 1996 (Benjamin Netanyahu), nel 1999 (Ehud Barak) e nel 2001 (Ariel Sharon).

È la dimostrazione che il sistema non porta nessuna stabilità, perché quando i partiti sono tanti succede che i cittadini votano come premier il candidato del partito A, ma poi in Parlamento la maggioranza la raccolgono i partiti B e C. 

Risultato: per governare servono ampie coalizioni con difficoltà ad andare d'accordo. Nel 2001 il premierato viene abrogato. 

[…] C'è poi la sfiducia costruttiva, cioè la possibilità di mandare a casa un governo prima del tempo solo se c'è già la maggioranza per un altro esecutivo. La prevedono la Germania e la Spagna.  […] Sarà un caso, ma […] sono i Paesi europei dove i governi durano di più, rispettivamente 1.108 giorni e 944. 

Se in Italia ci fosse la sfiducia costruttiva, chi innesca la crisi, da Bossi a Bertinotti, da Mastella a Renzi, avrebbe dovuto trovare in tempi rapidi una figura alternativa dentro al Parlamento e con il consenso del Parlamento, senza mandare il Paese a nuove elezioni, fare ribaltoni o ricorrere al tecnico esterno.

Ad ogni modo se dovessimo decidere di cambiare forma di governo è necessaria la modifica di diversi articoli della Costituzione. Dei tre modelli esposti, quello che impatta di meno sulla nostra Costituzione e sul sistema parlamentare italiano è la sfiducia costruttiva. 

[…]  Le cause di caduta anticipata dei governi in Italia sono di varia natura. Per 30 volte è scatenata da conflitti tra i partiti che formano la coalizione. Se ci fermiamo agli ultimi 30 anni sono questi i casi più noti: Umberto Bossi fa saltare il governo Berlusconi I (1994), Fausto Bertinotti è l'artefice della crisi del governo Prodi I (1998), e poi Clemente Mastella abbatte Prodi II (2008). 

Per 8 volte è provocata da conflitti all'interno del principale partito della coalizione. Un esempio è l'avvicendamento tra Enrico Letta e Matteo Renzi nel febbraio 2014. Per 12 volte la causa nasce dall'incapacità dei governi di rispondere agli choc esterni, come nel caso del quarto governo Berlusconi (2011), minato dall'esplosione della crisi del debito e dal rischio declassamento dell'Italia.

Dal 1946 a oggi solo 14 volte si è andati al voto per fine naturale della legislatura. Non basterà dunque cambiare forma di governo per dare maggiore stabilità, senza curare prima la malattia genetica dei mille partiti che devono governare la coalizione, poiché è proprio la loro litigiosità cronica a generare quella instabilità del potere esecutivo che da 78 anni condiziona la vita politica del Paese.

Metodo e idee...Il caso Francesco Spina, il sindaco prima a Destra, poi a sinistra, oggi in Azione: in Puglia vince il trasformismo. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 12 Agosto 2023 

Era il 2016, e alle cronache di nazionali rimbalzò la storia del sindaco di Bisceglie Francesco Spina, e presidente dalla provincia Bat, di centrodestra, che prese la tessera del Partito Democratico insieme a 22 esponenti della sua maggioranza e altre 400 persone. Tutte tessere online, in una notte, fatte da poche carte di credito. Ne scrisse a lungo Alessandro De Angelis, sull’Huffington post. Il segretario nazionale dell’epoca si dissociò da questo episodio stigmatizzandolo. Ma la cosa avveniva in Puglia, che rispetto al partito democratico, ma anche rispetto alla politica in generale, ha sempre rappresentato un fortino autonomo e indipendente.

A vagliare il tesseramento del sindaco Spina e mezza Bisceglie, città di Ciccio Boccia, fu il segretario regionale, che all’epoca era il governatore in carica Michele Emiliano (prima che Csm e Corte costituzionale gli vietassero di partecipare alla vita di partito in quanto pm). Che ovviamente autorizzò, nonostante il Pd in consiglio comunale a Bisceglie rimanesse all’opposizione. Ma del resto l’anno prima il sindaco Spina, se pur con una maggioranza di centrodestra, era il coordinatore provinciale delle liste civiche di Emiliano alla regione. Mentre l’anno dopo al congresso nazionale, da iscritto Pd, sostenne Emiliano. Che pur perdendo il congresso, nel 2018 fece in autonomia le liste nel collegio pugliese, e candidò Spina all’uninominale alla Camera. Senza riuscire a farlo eleggere. E quindi lo nominò nel Cda di Innovapuglia, una delle agenzie regionali.

Lo scorso maggio Spina si è ricandidato sindaco di Bisceglie, con Lega e Fratelli d’Italia, perdendo. Ieri è stato nominato coordinatore provinciale di Azione: “L’ingresso in Azione di Francesco Spina, già sindaco di Bisceglie e presidente dell’amministrazione provinciale della BAT, arricchisce la qualità politica e amministrativa della classe dirigente del partito, soprattutto in vista dei prossimi congressi cittadini, provinciali e regionale, affinché altre persone possano condividere il metodo delle idee e delle riforme come unico mezzo per rendere significativo l’impegno in politica”. Metodo e idee, certamente. Annarita Digiorgio

(ANSA il 15 Giugno 2023) - Intelligenza Artificiale (IA) e politica si incontrano in un algoritmo: analizzando le votazioni passate, l'IA è in grado di prevedere il cambio di gruppo parlamentare dei deputati, permettendo quindi di indagare i comportamenti della classe politica. Lo studio italiano, pubblicato sulla rivista iScience, nasce dalla collaborazione tra due Istituti della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, l'Istituto di BioRobotica e l'Istituto Dirpolis.

La ricerca si fonda sulla combinazione di due ingredienti: gli algoritmi di apprendimento automatico e la possibilità di allenarli e testarli sui dati delle votazioni, che sono oggi di pubblico dominio. "L'uso combinato di 'open data' e intelligenza artificiale ha e avrà sempre di più un grosso impatto anche nelle scienze sociali", commenta Silvestro Micera, uno degli autori dello studio. "Sebbene la politica abbia criteri e modalità di azione specifici e quasi del tutto propri", aggiunge Emanuele Rossi, co-autore, "in alcune circostanze si può constatare che l'utilizzo di metodologie scientifiche apparentemente assai distanti da essa possono contribuire ad analizzare e a prevedere i comportamenti della classe politica, con possibili applicazioni che sono evidenti a tutti". 

I ricercatori guidati da Nicolò Meneghetti hanno indagato la relazione esistente tra le votazioni espresse all'interno della Camera dei Deputati e le dinamiche di cambiamento di gruppo parlamentare nelle ultime due legislature (quelle del 2013-2018 e del 2018-2022). L'algoritmo è stato in grado di distinguere con buona accuratezza tra i deputati in procinto di cambiare gruppo e gli altri.

In particolare, ha evidenziato due elementi che predicono con molte settimane di anticipo l'uscita dal gruppo: la maggior inclinazione a partecipare a votazioni segrete rispetto ai colleghi, e il livello di concordanza tra le votazioni del deputato e quelle della maggioranza del gruppo di appartenenza, poiché il deputato tende a votare progressivamente meno in linea con la posizione del gruppo che sta per abbandonare. (ANSA).

TRASFORMISTI. La giostra continua dei voltagabbana, sempre in direzione del potere. Sergio Rizzo su L'Espresso l'11 maggio 2023.

Nella scorsa legislatura ci sono stati 499 cambi di casacca. Ora è partita la corsa verso Fratelli d’Italia. Protagonisti non solo politici di primo e secondo piano, ma anche manager. Che così vengono premiati

Parlamentare a Roma e vicesindaco a Palermo. Ci vuole un fisico bestiale, se non il miracolo della bilocazione. Doni che ha ritenuto di non possedere l’onorevole leghista Francesco Scoma. Il quale, declinando la proposta avanzata da Matteo Salvini alla vigilia della campagna elettorale palermitana, ha però voluto precisare: «La mia indisponibilità ad accettare la carica di vicesindaco nel ticket Forza Italia-Lega deriva dall’incompatibilità dei ruoli di deputato e di vicesindaco sancita dalla legge».

Sbagliava. Formalmente non esiste alcuna incompatibilità. Il legislatore è stato infatti così abile, quando si è trattato nel 2011 di mettere fine all’interminabile disputa sul conflitto dei ruoli politici nazionali e locali, da stabilire che l’incompatibilità nei Comuni con più di 15 mila abitanti esiste solo nel caso di «cariche elettive monocratiche». E siccome il vicesindaco, a differenza del sindaco, non è una carica elettiva monocratica, si può fare.

Perciò quando Maria Carolina Varchi, deputata di Fratelli d’Italia nonché amica di vecchia data di Giorgia Meloni, ha assunto il doppio incarico, nessuno ha sollevato il problema. A dispetto di evidenti questioni di opportunità, se non banalmente tecniche. Perché per fare contemporaneamente il vicesindaco e l’assessore al bilancio a Palermo e il capogruppo di FdI in commissione Giustizia alla Camera dei Deputati a Roma servirebbe il teletrasporto. Ancora non disponibile sul mercato.

Inoltre l’onorevole Varchi, componente dell’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia, non prova imbarazzo a condividere il governo della città siciliana in una giunta sostenuta da Marcello Dell’Utri, ex senatore già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, con la Nuova Dc. Ovvero, il partito di Totò Cuffaro: l’ex presidente della Regione di cui chiedeva in modo veemente le dimissioni, da dirigente di Azione Giovani, all’epoca dell’inchiesta giudiziaria sfociata poi nella condanna per favoreggiamento a Cosa nostra.

A chi gli fa notare questa lieve incongruenza, replica intervistata da LiveSicilia: «Sia Cuffaro che Dell’Utri adesso sono fuori dalle istituzioni e si tratta di due cittadini che hanno pagato il loro debito con la giustizia». Per la serie che soltanto gli imbecilli non cambiano mai opinione.

I sostenitori di questo concetto, intendiamoci, non hanno torto. Ma quando si scopre che nella scorsa legislatura, calcola Openpolis, hanno cambiato casacca 299 fra deputati e senatori e alcuni di loro l’hanno cambiata anche ripetutamente per un totale di 449 giravolte, è assai difficile credere a un’epidemia di casi coscienza. Anche perché il fenomeno è inarrestabile. Non solo in parlamento, e sempre in direzione del potere.

Ne sa qualcosa l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Che nell’estate del 2020 ha visto alcuni dei suoi fedelissimi confluire in liste organizzate per correre in soccorso del presidente della Regione Vincenzo De Luca, candidato per il secondo mandato e pressoché sicuro vincitore alle elezioni di settembre di quell’anno. Due di loro, Fulvio Frezza e Francesco Iovino, siedono ora nel consiglio regionale della Campania.

Tornando in Sicilia, è invece da registrare il passaggio a Forza Italia di Giancarlo Cancelleri, ex viceministro del governo di Mario Draghi e bandiera del Movimento Cinque Stelle alla Regione. «Non c’è una strada che ci può ricongiungere a Forza Italia. Abbiamo un dna completamente diverso», diceva un anno e mezzo fa. «Chi non cambia mai idea non cambia mai nulla. Ho sbagliato. Il partito di Berlusconi è una famiglia di valori», dice oggi.

Ma è una mosca bianca. I tempi in cui Forza Italia era la destinazione privilegiata delle crisi di coscienza politiche, però, sono ormai lontani. Dal partito di Berlusconi adesso invece si scappa. Certo non per saltare il fosso verso la sinistra in disarmo. Bensì per cercare rifugio nelle più solide schiere meloniane.

Il fuggi-fuggi dalla galassia forzista coinvolge anche gli insospettabili. Come l’ex presidente del Senato Marcello Pera. O l’ex pasionaria forzista Elisabetta Gardini. Oppure Lucio Malan, già punta di diamante del partito del Cavaliere ora capogruppo di Fratelli d’Italia in Senato. Ma con Giorgia Meloni si è imbarcato perfino Giulio Tremonti, il superministro dell’Economia dei governi di Berlusconi, che da tempo aveva imboccato molte altre strade, dal suo movimento 3L alla Lega, a Vittorio Sgarbi. Sempre ostruite, a differenza di questa.

E poi il trasloco a Fratelli d’Italia, in blocco, del plotone di Raffaele Fitto, uno dei tanti delfini di Berlusconi lasciato alla deriva. Ecco quindi Ignazio Zullo. Ed ecco Luciano Ciocchetti, uno degli irrequieti orfani democristiani perennemente alla ricerca di occasioni per sfuggire all’oblio. Le più varie: Ccd, Udc, Ncd, Forza Italia… Prima, ovviamente, di essere folgorati sulla via della Scrofa (la sede romana di Fratelli d’Italia). Tipo l’ex ministro dell’ultimo governo Berlusconi e democristiano a trazione integrale Gianfranco Rotondi; o l’ex assessore del Comune di Roma Alfredo Antoniozzi, figlio dell’ex ministro e pezzo da Novanta della Dc dei tempi che furono, Dario Antoniozzi.

Non dev’essere stato facile, per Giorgia Meloni, accogliere tante anime perse. Provenienti tanto dalle sponde forziste quanto da quelle, opposte, del Movimento Cinque Stelle. Ma per qualche ex grillino che ce l’ha fatta, per esempio quella Rachele Silvestri recentemente approdata all’onore delle cronache per una sua clamorosa lettera pubblicata dal Corriere della sera nella quale ha rivelato di essere stata «costretta a fare il test di paternità» per smentire voci secondo cui avrebbe figliato con un influente politico di FdI, altri non hanno avuto la medesima fortuna. L’ex deputata M5S Tiziana Drago, per esempio, ci contava eccome. Non avendo trovato posto nelle liste meloniane ha sbattuto la porta e se n’è andata nell’Udc.

Per non parlare dei manager. Roberto Cingolani, ex ministro del governo di Mario Draghi che piaceva tanto ai Cinque Stelle, è stato nominato consigliere per l’energia di Giorgia Meloni e quindi amministratore delegato di Leonardo. Facendo sobbalzare chi ricorda come la legge vieti per un anno ai ministri di assumere incarichi pubblici confliggenti con il passato mandato ministeriale. E Stefano Donnarumma? Alla vigilia delle elezioni provocò scalpore la sua apparizione alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. Per anni era stato infatti coccolato dai grillini. Prima amministratore delegato dell’Acea, voluto dalla ex sindaca di Roma Virginia Raggi; poi promosso a Terna dal secondo governo di Giuseppe Conte. Giorgia Meloni l’avrebbe voluto spedire all’Enel, ma deve ripiegare su una società della galassia Cassa Depositi e Prestiti. Per ora.

Non sempre, tuttavia, i cambi di rotta sono repentini. C’è chi ha saltato la barricata solo dopo una lunga traversata nel deserto. Guardate Luigi Di Maio. Nel 2014 l’ex leader grillino plaudiva all’alleanza del suo Movimento in Europa con il nemico dell’Unione Nigel Farage. Dieci anni dopo, eccolo inviato speciale dell’Unione per il Medio Oriente. Perché solo i morti e gli stupidi, si dice, non cambiano mai opinione.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” mercoledì 2 agosto 2023. 

Correva il 2002. Silvio Berlusconi l’anno prima aveva stravinto le elezioni, il centrosinistra si leccava le ferite. […] A maggio […] il Parlamento, su impulso del centrodestra, istituì due commissioni d’inchiesta: Telekom-Serbia e Mitrokhin. La prima poggiava sulle vanterie di uno strano personaggio, Igor Marini, che sosteneva di saperla lunga su presunte tangenti versate a Romano Prodi, Piero Fassino, Lamberto Dini. La seconda voleva vederci chiaro, in chiave ex Pci, sul dossier dell’ex archivista del Kgb, Vasilij Nikitic Mitrokhin.

Fino a quel momento le commissioni parlamentari d’inchiesta si erano occupate in larga parte di rilevanti questioni sociali (la mafia, il Sud, il terremoto dell’80) o di tragedie della Repubblica (il delitto Moro, la P2), ora l’impressione era di trovarsi dinanzi a un inedito: commissioni cioè che avevano nel mirino gli avversari politici, per giunta all’opposizione.

[…] l’inchiesta non approdò a nulla, era tutto falso, non ci fu nemmeno la relazione finale, […] Marini venne condannato per calunnia […] Oggi l’opposizione si ribella alla Commissione Covid, perché vi coglie un modo per processare i governi Conte e Draghi. Protesta per quella sul reddito di cittadinanza contro l’ex presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, si oppone alla riscrittura degli anni di piombo e della strage alla stazione di Bologna: tutte portate avanti da Fratelli d’Italia. «Le commissioni clava», denunciano Pd, M5S, +Europa.

[…] Piovono commissioni d’inchiesta. Anche il centrosinistra ha le sue, perché vige una sorta di manuale Cencelli. Femminicidio. Periferie. Morti sul lavoro. Per il Covid manca il via libera del Senato. A fine giugno è stata varata in Commissione quella su Emanuela Orlandi. Ripartirà quella sulla morte di David Rossi e sugli abusi nel centro di Forteto, voluta dalla destra. Quella sulla tragedia Moby Prince, presieduta dal livornese Andrea Romano, è stata chiusa alla fine della scorsa legislatura, ma il pd Marco Simiani ha proposto di rifarne un’altra. Sono troppe?

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la settimana scorsa ha mandato un segnale fortissimo sul merito. «In quel messaggio ha detto che non possono essere al quadrato: quelle che fanno l’indagine all’inchiesta giudiziaria», specifica il costituzionalista Michele Ainis. «L’articolo 82 della Costituzione afferma che i poteri sono gli stessi della magistratura, in caso di audizione di un testimone, ma non fino al punto di trasformarsi in un quarto giudizio». E l’inchiesta Covid su Roberto Speranza e Giuseppe Conte è stata appena chiusa con l’archiviazione […]

La polemica. Cos’è una Commissione parlamentare d’inchiesta e perché la maggioranza la vuole sul reddito di cittadinanza. Nel mirino anche l'ex Presidente dell'Inps Pasquale Tridico. Il centrodestra vorrebbe far luce sugli scarsi controlli legati alle truffe causate dall'erogazione del sussidio. Insorgono le opposizioni. Redazione Web su L'Unità il 30 Luglio 2023

Una Commissione parlamentare d’inchiesta sul reddito di cittadinanza e sull’operato dell’ex President dell’Inps Pasquale Tridico. Ad aver annunciato l’intenzione di istituire tale Commissione, è stato Tommaso Foti, Presidente dei deputati di Fratelli d’Italia: “Il reddito di cittadinanza, nel tempo si è rivelato una misura assistenzialista, nata con uno scopo demagogico, scritta male, attuata peggio, il che ha comportato enormi danni all’erario. Il gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia ritiene sempre più necessaria la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta, limitando la responsabilità a Tridico per non avere consapevolmente attivato i controlli, al fine di non far perdere consenso elettorale e personale ai suoi mandanti“. Insomma per il partito della maggioranza di Governo è necessario far luce sui controlli – flop legati alle truffe causate dall’erogazione del sussidio nei confronti di falsi percettori.

Cos’è una Commissione parlamentare d’inchiesta e perché la maggioranza la vuole sul reddito di cittadinanza

“Non ho niente da temere“, ha affermato Tridico alla Stampa. “C’è stata una narrazione volutamente fuorviante. Sotto la mia gestione ho creato una direzione antifrode che non è mai esistita prima. Il sussidio è stata la misura più controllata di sempre. I controlli preventivi e successivi hanno evitato mancati esborsi del reddito a circa tre milioni di domande tra il 2019 al 2022, per un valore di 11 miliardi di euro. C’è una condanna –  ha dichiarato l’ex Presidente dell’Inps – dei poveri e non della povertà, una cosa che mi fa paura. Gli extraprofitti contribuiscono all’inflazione, eppure arriva la moratoria . Poi si premiano gli evasori, consentendo dei condoni di fatto. Nelle stesse ore si toglie il reddito di cittadinanza a 200 mila persone. È una politica di classe che contrasta con i principi di uguaglianza della nostra Costituzione. Questa è la natura del governo: forte con i deboli e deboli con i forti. Inoltre il salario minimo è necessario – ha concluso Tridico – La contrattazione non è più efficace come in passato“.

Insorgono le opposizioni

La notizia ha scatenato l’ira delle opposizioni, in particolare del Movimento 5 Stelle, ‘padre’ della riforma. “Si tratta di bullismo istituzionale – ha detto il Presidente grillino Giuseppe Conte – Mi sembra evidente che si stanno dimostrando dei dilettanti, l’avevamo detto. La prima cosa da fare è differire questi termini perché non ci sono corsi di formazione e aggiornamento e non c’è la possibilità di scaricare sulla categoria degli assistenti sociali tutti i destinatari di questi sms che stanno gettando nella disperazione tante persone“. Gli ha fatto eco Elly Schlein, Segretaria del Partito Democratico: “Il governo è brutale con persone che hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena“. Ma cos’è una Commissione parlamentare d’inchiesta e perché la maggioranza la vuole sul reddito di cittadinanza?

Il precedente

Innanzitutto bisogna dire che il Governo l’ha anche annunciata sulla gestione del Covid, quando a Palazzo Chigi c’era Conte nel ruolo di Premier e Roberto Speranza era Ministro della Salute. In generale una Commissione d’inchiesta parlamentare è un organo con funzione ispettiva, conoscitiva o anche di indagine, su materie di interesse pubblico. Essa è prevista dall’articolo 82 della Costituzione italiana: “Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni della Autorità giudiziaria“. Le commissioni possono essere monocamerali (se richieste tramite risoluzioni o dal Senato o dalla Camera) o bicamerali (se istituite tramite legge coinvolgendo sia Palazzo Madama che Montecitorio).

La Corte Costituzionale attraverso una delle sue sentenze (la n. 231 del 1975), ha stabilito i limiti delle commissioni (i cui atti devono essere pubblici): “Il compito di una Commissione d’inchiesta parlamentare non è di giudicare, ma solo di raccogliere notizie e dati necessari per l’esercizio delle funzioni delle Camere. I poteri d’inchiesta della Commissione dovrebbero salvaguardare le prerogative della ricorrente autorità giudiziaria, anch’essa titolare di un parallelo potere d’investigazione, costituzionalmente rilevante“.

 Nonostante il monito del presidente Mattarella le commissioni continuano a moltiplicarsi...Valentina Stella su Il Dubbio il 31 luglio 2023

«Iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della Magistratura si collocano al di fuori del recinto della Costituzione e non possono essere praticate. Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura», aveva avvertito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia del Ventaglio a proposito delle Commissioni di inchiesta parlamentari. Sembra che le sue parole abbiano sortito i primi effetti. Ma di quali stiamo parlando?

Abbiamo fatto un riassunto soprattutto di quelle della XVIII e quelle della XIX Legislatura che si intrecciano con le inchieste giudiziarie. Sicuramente quella di cui si sta discutendo di più negli ultimi giorni è la Commissione bicamerale sul Covid (adesso, dopo quello della Camera, dovrà ricevere anche il voto favorevole del Senato) che paradossalmente esclude l’operato delle Regioni il cui ruolo è stato assolutamente centrale nella gestione della pandemia.

Il dito è puntato contro l’ex premier Giuseppe Conte e contro l’ex Ministro della Salute Roberto Speranza, prosciolti, nelle scorse settimane, nei procedimenti penali aperti dalla Procura di Brescia prima e dal tribunale dei ministri di Roma poi. Se dal centrodestra annunciano un passaggio indietro dopo le parole di Mattarella – «riteniamo giusto procedere a precisare il punto al Senato e licenziare così il testo per un limitato riesame della Camera», ha annunciato il deputato Galeazzo Bignami - chi tiene il punto è il leader di Italia Viva Matteo Renzi: «Sul Covid è necessario fare chiarezza non per sostituirsi ai PM ma per ragioni strettamente parlamentari: cosa si è fatto bene, cosa non si è fatto bene. Fare chiarezza serve a evitare di ripetere errori. A meno che qualcuno non pensi che durante il Covid sia stato fatto tutto bene, dai banchi a rotelle fino alle mascherine, dall’esercito russo in Italia fino ai ventilatori cinesi, dalla didattica online fino ai ristori. Davvero qualcuno pensa che sia andato tutto bene, Giuseppe Conte e Rocco Casalino a parte?». Un’altra commissione che potrebbe doversi rimodulare è quella sui casi riguardanti la scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori e l'omicidio di Simonetta Cesaroni, della quale è primo firmatario il dem Roberto Morassut. Anch’essa passata alla Camera, attende il vaglio di Palazzo Madama. «Gli approfondimenti parlamentari non interferiranno sulle indagini degli uffici giudiziari», ha assicurato un parlamentare del Pd interpellato dall’Ansa. «Verrà stabilito un perimetro rigorosamente conforme alla separazione dei poteri delineata dalla Costituzione».

Un’altra annunciata, per voce del presidente dei deputati di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, è quella sulla gestione del reddito di cittadinanza, «limitando la responsabilità – ha detto il parlamentare - a Pasquale Tridico proprio per non avere consapevolmente attivato i controlli» su chi non avrebbe dovuto ricevere il sussidio. A marzo di quest’anno è arrivato poi il via libera all'unanimità dell'Aula della Camera alla proposta di legge che istituisce una Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena trovato morto 10 anni fa sotto una finestra del suo ufficio, a Siena. Essa acquisirà integralmente i materiali e la documentazione raccolti o formati dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, istituita dalla Camera dei deputati nella XVIII legislatura, compresi i resoconti delle audizioni, comprensivi delle parti secretate, e la relazione finale. A dicembre 2021 fu approvata la relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni la quale stabilì come «la responsabilità del sequestro, della tortura e dell'uccisione» dello studente «grava direttamente sugli apparati di sicurezza della Repubblica araba d'Egitto, e in particolare su ufficiali della National Security Agency (NSA), come minuziosamente ricostruito dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma». Una nuova commissione d’inchiesta sulla strage del Moby Prince, disastro navale del 1991 a Livorno, potrebbe nascere nuovamente alla Camera dei Deputati. Dopo l’esperienza breve della precedente, terminata anzitempo a nove mesi dall’inizio dei lavori per la caduta del governo Draghi, una nuova proposta istitutiva è già all’attenzione della commissione Trasporti di Montecitorio. Una delle Commissioni bicamerali più longeve è quella di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Istituita per la prima volta con legge del 20 dicembre 1962, da allora è stata promossa con legge all'inizio di ogni legislatura, tranne nella VII. Tra i suoi compiti ci sono: la verifica dell'attuazione della legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha, tra l'altro, introdotto nel codice penale l'articolo 416-bis; l'indagine sul rapporto tra mafia e politica, sia riguardo alla sua articolazione nel territorio, negli organi amministrativi, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive; la verifica dell'adeguatezza delle norme sulla confisca dei beni e sul loro uso sociale e produttivo e la proposta di misure al fine di renderle più efficaci. Infine, si è costituita qualche giorno fa, con l'elezione della presidente (Martina Semenzato di Noi moderati), delle vicepresidenti ( la dem Cecilia D'Elia e Laura Ravetto della Lega) e delle segretarie (la deputata di Avs Luana Zanella e la senatrice di Fdi Elena Leonardi), la commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere che per la prima volta è bicamerale. «La Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio nella passata legislatura ha avviato un percorso, indagando su tante delle cause e delle dinamiche del femminicidio e della violenza di genere, abbiamo scelto di farlo sempre all’unanimità, lasciando molte indicazioni che mi auguro possano essere raccolte», ha detto la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione nel corso della scorsa legislatura e prima firmataria del ddl per istituire la prima Bicamerale sul tema.

Bugiardi.

Parentopoli: Familismo e Nepotismo.

Pro Lobby.

Le Gaffe.

Gerontocrazia.

Dress Code.

Esibizionismo.

Forfait.

Botanica.

Retromarcisti.

Bugiardi.

Mai raggiunto negli ultimi centoquarantasette anni. Perché il pareggio di bilancio in Italia è una chimera: quando Matteotti scoprì la menzogna. Riccardo Nencini su Il Riformista il 4 Dicembre 2023

Tre giorni fa: “Il debito pubblico ingente ci espone molto più di altri e ridurre l’enorme fardello del debito è una precisa volontà del Governo”. Parola del ministro Adolfo Urso, l’ultimo di una lunghissima serie di uomini di governo impegnati, se non al raggiungimento del pareggio di bilancio, almeno in un contenimento del debito pubblico.

Del resto, il pareggio di bilancio, in Italia, è una chimera. Mai raggiunto negli ultimi centoquarantasette anni. Mussolini, nel 1924, in cerca di prestiti per rilanciare un’economia asfittica e ridurre un’imponente disoccupazione, il pareggio se lo inventò. Gli americani erano stati chiari con lui. Non avendo ancora riscosso i crediti maturati durante la Grande Guerra (senza i dollari Usa prestati alle potenze della Triplice Intesa chissà che piega avrebbe preso il conflitto) ed essendo in via di scomparsa il pericolo bolscevico, si doveva toccare con mano la capacità di un Paese a restituire i prestiti ottenuti. Dunque, bilancio in pareggio. L’Italia del tempo contava oltre due miliardi di buco, il che rendeva ardui impegni finanziari d’Oltreoceano di lunga durata. Il Duce, o chi per lui, fece avere a Vittorio Emanuele III un bilancio fasullo, proprio il bilancio che il re lesse in apertura della legislatura, nel maggio del 1924, di fronte alle Camere riunite.

Fu Matteotti ad accorgersi della menzogna. Era stato relatore di minoranza sul bilancio dello Stato dal 1919, conosceva alla perfezione entrate e uscite. Avrebbe tirato fuori le carte del grande falso nella seduta dell’11 giugno. Fu rapito e ucciso il giorno precedente. Nella cartella, scomparsa, conservava le prove della falsificazione. Non ricordo altri tentativi del genere, così pacchiani da apparire inverosimili. Ricordo invece l’unico caso in cui il bilancio dello Stato raggiunse davvero il pareggio, merito di Quintino Sella, ministro delle finanze dal 1864 al 1875, soprannominato ‘ministro delle mani nette’. Sella riordinò il sistema fiscale adottando il modello impositivo unico e risanò il deficit provocato dalle guerre d’indipendenza. La vera innovazione fu l’imposta sulla ricchezza mobile, la madre della dichiarazione dei redditi. Ogni cittadino doveva dichiarare tutti i redditi percepiti, non solo quelli fondiari. Una rivoluzione. E poi riordino delle imposte dazi e consumi, dei monopoli fiscali, vendita beni demaniali non destinati a uso pubblico, alienazione di alcuni beni ecclesiastici. Nel 1876 il presidente del consiglio Marco Minghetti dichiarò che l’obiettivo era stato raggiunto. Va sottolineato: a soli quindici anni dalla nascita dell’Italia unita che aveva ereditato bilanci in rosso da nord a sud. In conclusione rammento la previsione fatta dal presidente Conte nel 2018, proprio all’inizio del suo mandato. Eccola: ‘Il pareggio di bilancio in termini strutturali verrà raggiunto gradualmente negli anni a seguire’. Quel ‘gradualmente’ va tradotto in ‘lentamente’. Anche il suo Governo, infatti, non contribuì nemmeno marginalmente al risanamento delle nostre finanze. Riccardo Nencini

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” domenica 19 novembre 2023.

Superficiali, cinici, dispensatori di mezze verità o bugie intere. Secondo Raffaele Rio, presidente dal 2009 dell’istituto di ricerca Demoskopika, siamo in mano a un “esercito di politicanti” che pensa solo alla propria autoconservazione e riempie l’opinione pubblica, soprattutto attraverso i social, di messaggi semplicistici, intrisi di qualunquismo, spesso falsi. Rio la definisce OxyPolitik (è il titolo del libro edito da Tangram). Un nome provocatorio che fa il verso all’OxyContin, il farmaco a base di oppioidi che ha scatenato una terrificante epidemia negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2017.

[…] Nel suo libro stila la classifica dei “partiti Pinocchio”.

Il fact checking delle dichiarazioni pronunciate dai leader politici può aumentare la responsabilità di chi esercita la loro funzione. […] abbiamo messo insieme e catalogato oltre 1200 dichiarazioni dei principali esponenti politici. 

Il risultato è sconfortante.

Tutti i partiti sono sopra al 50% di dichiarazioni non accurate. Domina Salvini. Oltre 7 dichiarazioni su 10 di esponenti politici mancano di fondamento, dati o fatti in grado di garantire la loro accuratezza. La Lega è il primo partito (con l’88,6%, ndr). Invece sotto la media nazionale (76,3%) ci sono (in ordine decrescente di “bugie”, ndr) FdI, il M5S, il Pd, Avs e Azione. 

[…] i politicanti pensano che diffondere “Oxy” – abbracciando la comunicazione superficiale da social – favorisca la partecipazione. I dati dicono il contrario: l’utilizzo di social aumenta negli anni e l’astensionismo non si riduce. Anzi: se continua questo trend, nelle Politiche del 2027 voterà un italiano su due.

Tra i “titoli” più forti del suo saggio c’è quello sulla ’ndrangheta: se presentasse una sua lista – scrive – eleggerebbe 5 deputati e 3 senatori.

[…] Secondo i nostri calcoli una lista “’Ndranghetocrazia” potrebbe valere 700mila voti, distribuiti in tutto il territorio: la maggior parte al Sud, ovviamente, ma anche nel Nord ovest raccoglierebbe 200mila preferenze. 

Come è arrivato a queste cifre?

Con una mappatura dei gruppi di condizionamento elettorale, cioè le famiglie ’ndranghetiste distribuite sul territorio italiano in ogni Regione. […] La stima complessiva, 700 mila voti, credo sia persino per difetto.

Parentopoli: Familismo e Nepotismo.

Estratto da lastampa.it domenica 26 novembre 2023.

«Nove decimi di quelli che sono al governo non hanno alcuna competenza e diventano ministri […]. L'idea che qualcuno venga chiamato perché appartenente a un partito è la ragione per cui la politica non funziona. Occorre rimettere nei luoghi adatti le persone competenti». 

Lo ha detto il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi durante un evento della Biennale Milano International Art Meeting. «Nessuno si ribellerebbe ad avere ministro della Sanità Umberto Veronesi, chi ha conosciuto per tutta la vita la sanità potrebbe essere un buon ministro. […] Non c'è nel nostro governo, per esempio, una persona che ama la musica, una persona che possa essere intesa come riferimento per i conservatori di musica e questo è grave».

Nei primi governi Berlusconi «avevo immaginato allo spettacolo uno come Maurizio Costanzo che ha fatto teatro e mai politica. L'idea che dieci persone diventino ministri per la loro capacità, tra questi Morgan […] sarebbe la certezza per i cittadini che le cose che accadranno saranno fatte da chi sa quello che fa e non da chi ha un consigliere che ha dietro un partito o un sindacato che gli dice cosa fare. […]».

Nepotismi, parentopoli e affari: ecco come sono ridotti i partiti. Formazioni personali, classe dirigente inadeguata, conflitti d'interesse: le forze che siedono in Parlamento o nei banchi del governo (anche di quelli locali) non sono mai state così scollate dalla società. E la sfiducia verso di loro è una cattiva notizia per la democrazia. Sergio Rizzo su L'Espresso il 21 Settembre 2023. 

Nulla di illegale, ovvio. Ma che il capo di un partito si faccia la propria holding personale è un po’ curioso. Il nome è Ma.Re. holding e il suo proprietario, si può dedurre dalla sigla, è Matteo Renzi: fondatore e capo assoluto di Italia Viva. Ha costituito la società nell’aprile 2021, qualche settimana dopo l’ingresso del suo partito nel governo Draghi. Una piccola quota l’aveva anche il figlio Francesco, promessa del calcio. Che poi l’ha ridata a papà. E qualche mese fa la holding renziana ha filiato una seconda società: Ma.Re. adv. Consulenze aziendali, strategie imprenditoriali, pubbliche relazioni, marketing… Una prateria sterminata, per un ex premier con profumate relazioni che si spingono fino ai ricchi forzieri arabi. 

Ma non siamo a conoscenza del fatto che qualcuno dentro Italia Viva abbia alzato un sopracciglio. Né che l’abbia fatto un collega di partito del potente sottosegretario alla Giustizia meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove. Tre mesi dopo essere sbarcato al governo lui ha costituito una società di avvocati con la sorella Francesca, sindaca anch’ella meloniana di Rosazza, e la penalista biellese Erica Vasta. Diciamo subito che nulla impedisce a un sottosegretario di aprire una società. Ma a che serve, se per legge l’avvocato sottosegretario potrà esercitare di nuovo solo un anno dopo aver lasciato il governo? 

Davanti a questi fatti, non isolati a giudicare dal coacervo di interessi personali che alberga nei partiti, verrebbe da chiedersi: cosa è diventata oggi la politica? Che non se la passi troppo bene, e il solco fra i partiti e la realtà sia sempre più profondo, è un fatto. Parlano chiaro i dati. Il 25 settembre 2022 hanno votato 30,4 milioni di persone, come nel 1958. Peccato che allora gli aventi diritto al voto fossero 32,4 milioni, contro i 50,8 di oggi. In un Paese nel quale fino al 1979 votava alle politiche oltre il 90 per cento degli elettori, e fino al 2008 più dell’80 per cento, siamo scesi di botto al 63,9. In quindici anni sono andati perduti 8 milioni e mezzo di voti. Di questi, ben 5 milioni sono spariti domenica 25 settembre 2022. 

Al Sud gli elettori si sono praticamente dimezzati, da 16,2 a meno di 8,5 milioni. In Campania ha votato il 53,2 per cento. A Napoli Fuorigrotta l’affluenza è scesa dal 62 al 49 per cento. Gli elettori calabresi non hanno raggiunto il 51 per cento. A Crotone si sono fermati al 45,9. A Reggio Calabria, invece, al 48,9. Ma con situazioni da brivido in alcuni centri nelle aree ritenute più esposte al rischio criminalità. Ad Africo ha votato il 32,1 per cento. A Platì il 31,3. A San Luca il 21,5. La politica, che già serve a poco, lì evidentemente non serve a nulla. 

La cosa dovrebbe indurre i partiti a una profonda riflessione anche sulla legge elettorale. Invece, zero. L’Italia è l’unico Paese democratico dove le regole elettorali cambiano in continuazione, spesso a seconda delle convenienze di chi sta al potere. I risultati di tale follia sono evidenti. Giorgia Meloni è diventata premier con una maggioranza di quasi il 60 per cento dei seggi parlamentari grazie ai 7,5 milioni di voti di Fratelli d’Italia: vale a dire un settimo dell’intero corpo elettorale. O meno di un quarto, considerando i voti dell’intera coalizione. Si dirà che in molte democrazie avanzate la partecipazione al voto è bassa. Vero. Ma a parte il fatto che non sempre è così (alle ultime presidenziali americane ha votato il 66,7 per cento, più che alle ultime politiche italiane), la breve storia della nostra Repubblica è diversa. 

E dovrebbe preoccupare ancora di più la cosa che il crollo non riguardi solo le elezioni generali, ma anche le amministrative: dove la politica sarebbe in teoria più vicina ai cittadini. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana è stato eletto con 1,7 milioni di voti su 8 milioni di elettori: 22,1 per cento. Quello della Regione Lazio Francesco Rocca, con 936 mila voti su 4,8 milioni: 19,5 per cento. Roberto Gualtieri è diventato sindaco di Roma con i voti di 565 mila elettori su oltre 2,3 milioni: 24 per cento. 

Se la rappresentanza scende a questi livelli, ne risente la democrazia stessa. Ebbene, a un problema così gigantesco i partiti e i loro leader reagiscono facendo spallucce. Pur sapendo esattamente come è stato rotto il giocattolo. È cominciata con la trasformazione dei partiti da strutture collettive in apparati strettamente personali. Rivoluzione certamente riconducibile a Silvio Berlusconi, ma con avvisaglie anche nella cosiddetta prima repubblica. Il resto l’hanno fatto leggi elettorali scriteriate che hanno consegnato nelle mani del capo il potere di selezionare la classe dirigente del partito. Mai sulla base delle competenze: bensì per amicizia, relazioni, parentela e fedeltà. La ciliegina sulla torta, infine, è stata l’abolizione demagogica del finanziamento pubblico, anziché una sua necessaria e profonda riforma. Come aveva proposto, per esempio, il politologo Piero Ignazi. In compenso, non si è mai fatta nemmeno la legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, e i partiti sono rimasti in un comodo limbo. 

Le conseguenze sono devastanti. L’assenza di competizione e meritocrazia ha avuto riflessi penosi sulla qualità degli eletti, come avevano già segnalato Andrea Mattozzo e Antonio Merlo nel saggio sulla “Mediocrazia”. E una delle ragioni per cui il Parlamento è ridotto a semplice ufficio di ratifica dei decreti governativi è questa. Il confronto con l’inizio dell’epoca repubblicana è avvilente. In un’Italia nella quale l’analfabetismo assoluto toccava il 13 per cento e i laureati erano decisamente meno dell’un per cento, il 91,4 per cento dei deputati aveva la laurea. Oggi, che sia pure ai livelli più bassi d’Europa, ma gli italiani laureati sono il 20 per cento, i deputati con la laurea (vera) in tasca si fermano appena al di sotto del 70 per cento. Neppure Giorgia Meloni ha un titolo accademico, prima donna presidente del Consiglio nonché secondo capo del governo nel dopoguerra senza laurea dopo Massimo D’Alema. 

Per non parlare dei parenti. Questo Parlamento, nel quale il partito di maggioranza relativa è in mano alla sorella della premier, compagna di un ministro, ne è letteralmente invaso. Se ne possono contare più di una cinquantina; e più di 70, calcolando anche i pedigree parentali meno recenti. Un sistema sempre più chiuso in sé stesso anche ai vertici del potere. Il primo governo guidato da una donna si è presentato come una novità assoluta, ma è pura fantasia. Ben 11 fra ministri e sottosegretari, compresa la stessa premier, erano già nell’ultimo fallimentare governo di centrodestra targato Berlusconi. E se si contano anche le altre esperienze, addirittura 25 persone sui 64 componenti del gabinetto Meloni avevano già frequentato qualche governo. Compresi quelli di Conte e Draghi. 

Difficile stupirsi se in questo panorama il finanziamento dei partiti non sia affatto popolare. Su 41 milioni e rotti di contribuenti quelli disposti a dare il 2 per mille a un partito non sono che 1,3 milioni: il 3,3 per cento. Misera la platea dei finanziatori, misero il gettito. In tutto, poco più di 18 milioni. Oltre un terzo dei quali va al solo Partito Democratico. Come campano, allora? Con i soldi dei parlamentari, che spesso versano nelle casse dei partiti una fetta del plafond loro spettante per retribuire gli assistenti. E con pochi assistenti e mal pagati si può immaginare anche la qualità del lavoro parlamentare. 

I finanziamenti dei cittadini e delle imprese private sono quasi inesistenti. Nel 2022 il Pd ha avuto contributi da “persone giuridiche” per 125 mila euro, contro 3,8 milioni da “persone fisiche”, cioè quasi tutti parlamentari. Italia Viva ha incassato invece dalle società 675 mila euro, però contro 1,6 milioni versati quasi tutti dai parlamentari. Come del resto anche la Lega. E Fratelli d’Italia, cui non è stata negata una briciolina di 26 mila euro dal Twiga di Flavio Briatore e Daniela Santanchè. C’è poi chi si aiuta con i gadget. Il partito di Giorgia Meloni tira su 300 mila euro l’anno. Li vende la società Italica solution, che però non è del partito. Fa capo a Martin Avaro, ex “federale” di Forza Nuova a Roma Est. 

Anziché ai partiti, le imprese preferiscono versare alle fondazioni politiche, casseforti personali dei leader dei partiti personali. C’è più riservatezza. Openpolis ne ha censite 121, di cui oltre metà nate a servizio di una corrente di partito o di un singolo politico: appena 19 pubblicano un bilancio accessibile su Internet. Soprattutto, i potenziali finanziatori vanno direttamente al bersaglio. Altro che lobby. E pensare che nella scorsa legislatura la Camera ha approvato una legge per regolamentare finalmente l’attività dei lobbisti, proposta da due deputati Pd e M5S. Ma prima che il Senato la ratificasse la legislatura è evaporata. Grazie ai grillini: che hanno fatto così svanire anche la loro legge. E ora la Camera ha avviato sulle lobby una nuova indagine conoscitiva! 

Ecco dove siamo arrivati.

Estratto dell'articolo di Lisa Di Giuseppe per “Domani” il 12 Settembre 2023

Per la Rai sovranista mandare in onda trasmissioni ideate e finanziate da privati non è un problema. E quindi, ecco battezzati una serie di spin-off di Linea Verde, programma caposaldo della televisione pubblica fin dal 1981. Tra questi c’è anche quello ideato (gratuitamente, dice lei e la Rai) dalla figlia della ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Ludovica. 

In realtà nella prossima stagione, il programma si fa addirittura in sette, con un profluvio di “linee” che rende orgoglioso Angelo Mellone, direttore del Day time Rai e uno dei fedelissimi dell’ad Giampaolo Rossi, uno che non perde occasione per citare l’importanza del racconto della provincia in ogni intervista che rilascia. 

[…] 

Nello specifico, l’idea di raccogliere soldi facendo finanziare ad altri questo tipo di programmi. Gli spin-off come Linea Verde Bike, Linea Verde Start o Linea Verde Link sono infatti dei cosiddetti branded content, prodotti interamente pagati da committenti esterni. È una prassi che la Rai segue da anni: in passato hanno investito tra gli altri anche Enel X, Poste e Confartigianato (che, tra l’altro, continua a investire, spiegano da viale Mazzini).

L’idea (e il finanziamento collegato) viene presentata in Rai, dove la direzione competente – in questo caso quella del Day time, cioè quella di Angelo Mellone, fedelissimo della Meloni – valuta se il prodotto funziona e se rispetta tutti gli standard, e poi viene messo in onda. La questione economica, cioè il costo del programma sostenuto dal committente, viene poi gestita da Rai Pubblicità. 

È da anni che la Rai ha deciso di incassare introiti pubblicitari attraverso contenuti sponsorizzati. Già nel 2019, allora direttore di Raidue, Carlo Freccero, si esprimeva con entusiasmo: «Il branded content è il futuro della pubblicità delle reti generaliste». Una scelta non dettata dalla stretta necessità, visto che la Rai può contare sugli incassi del canone.

Ma Linea Verde Bike, in particolare, ha una genesi peculiare. Nei titoli di testa della trasmissione, che è andata in onda per la prima volta il 2 settembre, si legge che il programma è un’idea di Ludovica Casellati, la figlia della ministra per le Riforme ed ex presidente del Senato. Contattata da Domani, Casellati spiega che ha proposto l’idea al servizio pubblico, che l’ha raccolta e ne ha fatto un programma per cui, specifica, non riceve compensi di nessun tipo, né dalla Rai né da altri. 

La trasmissione da lei ideata viene infatti interamente pagata da sponsor esterni. Nel caso specifico, alla fine della prima (e unica, a causa di uno speciale sul terremoto in Marocco andato in onda sabato 9) puntata andata in onda finora, viene segnalato come sono stati «inseriti a fini promozionali i seguenti prodotti: Generali Italia e Cattolica e Cantina vecchia torre».

Casellati non riceve dunque pagamenti, ma il programma si sovrappone alla sua attività e ai suoi interessi. Dal 2013 è direttrice di Viagginbici.com, un portale dedicato al turismo in bici, mentre nel 2018 ha fondato Luxurybikehotels.com, «una collezione di alberghi 4 e 5 stelle, o country house di un certo livello che assicurano dei servizi minimi a chi vuole utilizzare la bicicletta per conoscere il territorio. Le strutture devono avere dei requisiti minimi e vengono recensiti con le ruote e non con le stelle», si legge sul suo profilo LinkedIn.

Il sito segnala strutture in quasi tutta Italia. Se qualcuno vuole segnalare la propria attività, bisogna compilare un modulo e lo staff di Luxurybikehotels.com provvederà a ricontattarvi. 

Ludovica Casellati, ex dirigente di Publitalia, era già diventata “famosa” per essere stata scelta da sua madre come capo della sua segreteria nel 2005, quando Casellati senior era stata nominata sottosegretaria alla Salute. L’incarico è durato circa un anno. 

Negli ultimi mesi, dunque, ha lavorato anche al programma su Raiuno e Rai Italia condotto da Federico Quaranta e Giulia Capocchi: nella brochure che illustra i palinsesti si legge di «un racconto del territorio italiano dalla prospettiva di chi lo percorre grazie all’utilizzo del mezzo di trasporto green per eccellenza: la bicicletta».

Semmai qualcuno avesse perso il lancio, Casellati ha provveduto anche a segnalare la partenza del programma sulla sua testata. «Il programma presenta il territorio italiano, con una carrellata di situazioni e personaggi virtuosi legati all’ambiente, all’agricoltura e all’enogastronomia» si legge su Viagginbici.com. Il sito di Casellati anticipa anche le destinazioni delle diverse puntate: dalla prima, quella già andata in onda, sul Salento, a quella sulla laguna veneta, le montagne del cuneese, la Maremma toscana, la provincia bresciana e quella perugina. [...]

Estratto da firenze.repubblica.it il 12 Settembre 2023 

Via della Pacificazione Nazionale da cui si biforcano via Almirante e via Berlinguer. Un progetto quello di Grosseto che aveva creato molte polemiche e che adesso, dopo il nullaosta della prefettura, guidata dalla prefetta Paola Berardino, moglie del ministro degli Interni Matteo Piantedosi, è diventato realtà. 

Poteva essere proprio la prefetta di Grosseto a bloccare l’iter che ha portato all’approvazione, nella giornata di ieri, della nuova denominazione delle tre vie. Infatti, dopo che ai primi di agosto la giunta comunale di centrodestra aveva respinto l’ultimo assalto dell’opposizione per bloccare il progetto, era Berardino a dover dire l’ultima parola sull’intitolazione.

Sull’intitolazione si era espresso negativamente anche l’Istituto di Storia Patria per la Toscana, ma questo non ha fermato la prefetta. Per il Pd toscano Emiliano Fossi e Marco Simiani accusano la prefetta “di non avere sensibilità. La Pacificazione non si impone con la toponomastica ma con il rispetto di tutte le posizioni politiche e non dimenticando fatti tragici causati dalla violenza nazista e fascista”. 

Un coro a cui si aggiunge anche l’assessora regionale per il lavoro e, in particolare, per la cultura della memoria, Alessandra Nardini: “Con il nulla osta della Prefettura arriva a compimento il piano oltraggioso della maggioranza dell'Amministrazione grossetana, la cancellazione delle responsabilità storiche spacciata come pacificazione nazionale. È una scelta pericolosa, che manda un messaggio inaccettabile – spiega Nardini – ossia che furono tutti uguali, chi si oppose al nazifascismo e chi, invece, lo sostenne e fece parte di quel regime di oppressione e morte. Non è pacificazione, è parificazione”.

(…) 

(ANSA il 12 Settembre 2023) "Io e Bellantone siamo parenti di quinto grado da parte di madre. Questa è la parentela che c'è tra noi. Certo, lo conosco bene e lo stimo, come in molti in ambito accademico, scientifico e politico". 

Così il sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari a proposito della nomina di Rocco Bellantone a capo dell'Istituto superiore di sanità. 

Bellantone, ricorda Fazzolari, ha un "curriculum riconosciuto" in ambito scientifico e, tra le altre cose, già era stato nominato dall'allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin come componente del Consiglio superiore di sanità.

Federico Capurso per “la Stampa” il 12 Settembre 2023

Nel partito di Giorgia Meloni deve essere iniziata una gara di cui non eravamo a conoscenza. Non si spiega altrimenti quel che accade in queste settimane. Lei, da premier, nomina sua sorella dirigente di Fratelli d'Italia e il cognato lo fa ministro. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha invece la moglie che fa affari immobiliari con la famiglia Santanchè. 

Ora spunta Giovanbattista Fazzolari, che da sottosegretario a Palazzo Chigi prova a recuperare terreno e schiera un cugino: Rocco Bellantone, endocrinologo, appena nominato alla guida del prestigioso Istituto superiore di sanità. Il cugino Bellantone tra un anno sarebbe andato in pensione, ma Fazzolari - se così funziona la gara - andrà subito a punti. Potremmo chiamarla Coppa Fratelli d'Italia, anche se a questo punto "Fratelli" ci sembra riduttivo.

 

Barbie Latza Nadeau per edition.cnn.com il 12 Settembre 2023

Quando la scorsa settimana il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni ha effettuato una visita ufficiale nel sobborgo napoletano di Caivano, tormentato dalla criminalità, ha promesso una “bonifica radicale” di un territorio in cui, ha ammesso, “lo Stato aveva fallito”. 

Meloni, la prima donna primo ministro del Paese, era lì per attirare l'attenzione su un presunto stupro di gruppo di due cugine preadolescenti da parte di un gruppo di delinquenti. I ripetuti stupri delle due ragazze – all'epoca di 10 e 12 anni e ora in custodia protettiva per paura che le loro famiglie non possano proteggerle – hanno coronato un'estate di titoli sulla violenza sessuale e sugli omicidi di donne e ragazze.

Nessuna di queste questioni è stata finora al centro dell'agenda familiare tradizionale “Italy First” della Meloni, che si è concentrata sulla rimozione dei genitori dello stesso sesso dai certificati di nascita , sulla repressione dei diritti di successione per le coppie gay e sul tentativo di criminalizzare la maternità surrogata con pene detentive, anche se effettuata all'estero.

Il suo viaggio a Caivano è stato oscurato dai commenti del suo compagno, Andrea Giambruno, un giornalista italiano con cui ha una figlia ma con il quale non è sposato, che ha suggerito che parte delle violenze sessuali avvenute durante l'estate fossero colpa delle vittime. 

«Se vai a ballare hai tutto il diritto di ubriacarti - ha detto nel suo programma televisivo - Ma se eviti di ubriacarti e di perdere conoscenza,  magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi”. I suoi commenti facevano riferimento al caso di una 19enne che sarebbe stata stuprata da sette ragazzi a Palermo. «Forse dovremmo iniziare a trasmettere questo messaggio ed essere un po’ più protettivi, in termini di vocabolario e linguaggio» ha aggiunto.

Forse pensava a sua figlia di 7 anni, Ginevra, che è la compagna costante della Meloni, in viaggio con lei negli Stati Uniti per incontrare il presidente Joe Biden e anche quando la Meloni ha incontrato Papa Francesco all'inizio di quest'anno. 

«Faccio tutto il possibile per portare mia figlia quando posso, e per tornare a casa la sera per metterla a letto» ha detto la Meloni, raccontando cosa significa per lei essere madre alla rivista “Donna Moderna” all’inizio di quest’anno.

Ora ha difeso i commenti di Giambruno che incolpano le vittime durante una conferenza stampa giovedì, dicendo che sono stati fraintesi: «Penso che Andrea Giambruno abbia detto in modo frettoloso e deciso niente di diverso di quello che la maggior parte delle persone ha pensa. Non leggo in quelle parole 'se vai in giro in minigonna ti violentano' ma qualcosa di simile a quello che mi diceva mia madre: 'occhi aperti e testa sulle spalle'. Gli stupratori esistono e non dobbiamo abbassare la guardia”.

Mia madre me lo diceva sempre. Dobbiamo essere sempre consapevoli, fare del nostro meglio per non metterci nella condizione di permettere a questi animali di fare quello che vorrebbero fare. Penso che sia un consiglio che molti genitori darebbero ai propri figli, questo non dà alcuna giustificazione agli stupratori».

Violenza legata alle bande

La Meloni si è concentrata sul contrasto duro alla criminalità organizzata nelle zone in cui si verificano i reati.

Tuttavia, ha appena menzionato l’aumento documentato delle segnalazioni di violenza di genere in Italia quest’estate. [...] Secondo il numero verde per la violenza domestica del Telefono Rosa, nel 2023 in Italia si è registrato un aumento del 25% della violenza di genere da parte di bande rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. L'organizzazione rileva che l'aumento è legato principalmente a delinquenti più giovani – come nel caso del presunto stupro di gruppo a Palermo, tra c’era anche un minorenne.

Elly Shlein, del Pd, ha detto: «Siamo di fronte a un diritto patriarcale, illiberale e nemico della diversità. Non sappiamo cosa fare con una donna al governo che penalizza le donne. Nella società riemergono pulsioni ataviche e, soprattutto, emergono proposte normative che cancellano faticose conquiste di autodeterminazione delle donne: dal diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro senza un sistema di welfare moderno e dinamico, all’aborto, ma anche alla maternità e alla genitorialità, nonostante i proclami sulla natalità; tra le nuove generazioni assistiamo a un’esplosione di violenza nei confronti delle giovani donne, e potremmo continuare. Per questo dobbiamo rimettere al centro il nostro pensiero analitico e propositivo».

Preoccupa il nepotismo

Si stima che in Italia ogni tre giorni una donna venga uccisa da qualcuno che conosce. La Meloni si è, invece, concentrata sulla propria famiglia, che è sempre più prominente nella politica dei partiti. Durante le vacanze di agosto, è stata fotografata a pranzo con i parenti con in mano un piatto di granchi blu, attualmente il principale nemico dei pescatori italiani di cozze e vongole, che hanno distrutto molluschi per milioni di euro. 

La foto è stata scattata dal cognato Francesco Lollobridgida, ministro italiano dell'Agricoltura, sposato con sua sorella Arianna, che in agosto è stata promossa a nuova responsabile della segreteria politica di Fratelli d’Italia. Una mossa che ha fatto sollevare il sopracciglio a molti membri del partito. Il deputato di Fratelli d'Italia Massimo Milani ha convocato un congresso straordinario all'interno del partito per discutere la questione.

Martedì, la Meloni ha pubblicato un selfie su Instagram sorridente tra i fedeli del partito durante una cena che ha suscitato più commenti sul nepotismo che sulla coesione del suo partito, sia da parte dei membri del partito di opposizione che del pubblico in generale. 

Le ripetute chiamate e messaggi della CNN ai portavoce del suo partito per un commento sull'aumento della violenza e sulla nomina di sua sorella nel partito non hanno ricevuto risposta.

Ma nel quartiere Garbatella di Roma, dove la Meloni è cresciuta con una madre single, viene lodata. «Ha dimostrato di essere una statista, ci ha reso orgogliosi - ha detto Giovanni Montuori, che gestisce il suo ristorante di zona preferito, “Da Giovanni” - Sua madre vive ancora qui, lei sta crescendo sua figlia nonostante le difficoltà. Lei è vera».

Alla domanda sui commenti del suo partner sullo stupro di gruppo, il ristoratore ha detto semplicemente: «C'è della verità, in poche parole». 

Anche Fratelli d'Italia hanno mantenuto la loro popolarità. Il partito di Meloni ha vinto le elezioni del 22 settembre scorso con quasi il 26% dei voti. Alla fine di luglio, il suo partito aveva superato il 29% dei consensi nei sondaggi d'opinione, perdendo circa un punto alla fine di agosto, secondo un sondaggio SWG per La7. 

Nonostante il successo, il primo anno in carica della Meloni è stato impegnativo. Ha dovuto affrontare arrivi record di migranti irregolari e la perdita di Silvio Berlusconi, un partner chiave della coalizione.

Ma il nepotismo e la sua riluttanza a promuovere le questioni di genere domineranno probabilmente il suo mandato, per quanto a lungo possa durare.

La sinistra parla di familismo intanto piazza mogli e figli. Stefano Zurlo il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

In Parlamento le lady Franceschini e Fratoianni. De Luca sistema i suoi eredi ed Emiliano la compagna

Parentopoli e dintorni. La memoria è una miccia corta, ma la sinistra frulla nomi e discendenze, pizzicando le corde evergreen dell'indignazione. Il Domani prova a buttare giù dalla bicicletta Ludovica Casellati, ma soprattutto sua mamma, Elisabetta, ex presidente del Senato e oggi ministro delle riforme: la figlia approda in Rai con una striscia sulle due ruote che suscita riprovazione nei salotti della gauche e un treno di commenti acidi. Sembra che per qualche combinazione astrale abbiano scoperto tutto d'un colpo il meridiano del nepotismo o qualcosa di simile.

Dunque, si accatastano episodi diversi: la prefetta di Grosseto Paola Berardino viene additata non una ma due volte: ha dato il via libera, nientemeno, a via Almirante, e in più è la moglie del ministro dell'interno Matteo Piantedosi. E non si sa se sia più grave il primo o il secondo problema.

E poi ci sono i ricambi al vertice dell'Istituto superiore di sanità, autorità ancora più ingombrante da quando è scoppiato il Covid. Qui arriva Rocco Bellantone che è cugino del sottosegretario alla presidenza del consiglio Giovanbattista Fazzolari. Una promozione celebrata con una selva di titoli, scoppiettanti come fuochi d'artificio, a sottolineare la vicinanza fra i due. Va così.

Il tema è di quelli che colpiscono l'opinione pubblica e infatti ruotando l'emiciclo della politica italiana si trovano assonanze e armonie, esattamente come quelle stigmatizzate oggi. Se non di più. Intrecci di mogli, fidanzate, compagne in una girandola di ruoli e medaglie all'ombra di questo o quel potente. Situazioni diverse ma che fanno mucchio. Perché gli spigoli, anche se si ammorbidiscono, restano spigoli.

Così nell'estate di otto anni fa il governatore della Puglia Michele Emiliano si infila dritto nel turbine, promuovendo sua portavoce la sua compagna Elena Laterza. Inevitabile la bagarre, ma lui tiene il punto: «È una scelta conforme alle regole di legge e fondata su un curriculum ineccepibile». La parola opportunità evidentemente non rientra nel vocabolario di Emiliano. Ma se da Bari ci spostiamo a Napoli, allora ci troviamo al cospetto della saga dei De Luca. Lui, Vincenzo, la prima generazione, è l'inimitabile presidente della Regione. Il rampollo, Piero, diventa deputato e poi sale fino a diventare vicecapogruppo del Pd alla Camera. Per la verità, c'è un altro figlio, Roberto, che a un certo punto va a fare l'assessore al bilancio al comune di Salerno. Così De Luca è uno e trino. Quella stagione meravigliosa finisce e nei mesi scorsi Elly Schlein toglie a De Luca junior il bastone del comando, ridimensionandolo a semplice deputato.

Dal Sud alla capitale. Michela Di Biase fa la gavetta come consigliera comunale, poi la carriera accelera. Tutto ok, compreso l'arrivo a Montecitorio nel 2022, ma naturalmente i critici incrociano quel percorso con la biografia e sottolineano un'altra data, il 2014, quando Di Biase sposa Dario Franceschini, uno dei leader del Pd, padre di sua figlia. Difficile distinguere la cifra personale dal blasone, riassunto nel titolo di Lady Franceschini che lei, va da sé, rifiuta sdegnata. Anzi, lo considera un marchio degradante, «profondamente ingiusto e frutto di una cultura maschilista che vuole raccontare le donne non attraverso il loro lavoro, la loro storia, ma attraverso l'uomo che hanno accanto». Ciascuno naturalmente è libero di indossare l'interpretazione che più gli dona, ma il Palazzo coglie al volo certe armonie e simmetrie, se ne impadronisce e le trasforma in strumento di lotta fra le fazioni. Si fa un gran parlare delle sorelle Meloni, perché accanto a Giorgia e forse anche prima di Giorgia c'è Arianna, ora uscita dalla penombra per ascendere alla segreteria di FdI. E, come se non bastasse, consorte del ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida.

Meno accecata dai riflettori la coppia della sinistra radicale Nicola Fratoianni-Elisabetta Piccolotti, eletta deputata a Lecce nel 2022, bersagliata e pronta all'immancabile sfogo: «Su di me solo fango». Infine, casa 5 Stelle, un tempo l'impero di Beppe Grillo. Che nomina vicepresidente del Movimento suo nipote Enrico.

Uno vale uno, ma se lo conosci è meglio. 

Pro Lobby.

Parole d'oro. L’eccessiva interferenza dello Stato nell’economia aumenta l’influenza dei lobbisti. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 29 Agosto 2023

In una democrazia pluralista è legittimo che i ricchi concorrano nel definire l’agenda politica, ma pensare che i soldi possano comprare il potere politico è una semplificazione da film hollywoodiano

L’intellettuale americano Noam Chomsky, uno dei maggiori critici del capitalismo, ha scritto che «la vera concentrazione di potere sta nelle mani dell’un per cento più ricco» della popolazione: «Ottengono quello che vogliono, perché in pratica gestiscono tutto loro». Secondo un sondaggio internazionale compiuto in 34 paesi da Ipsos MORI, i cui risultati sono stati illustrati nel mio libro Elogio del capitalismo, la maggior parte delle persone ritiene che i ricchi, all’interno di un sistema capitalista, detengono il potere.

Vorrei controbattere a questa percezione con tre argomenti. Primo: i ricchi esercitano effettivamente un potere di natura politica, ma non del tipo che viene rappresentato dai media, dai film hollywoodiani e da alcuni intellettuali anticapitalisti. Secondo: il fatto che i ricchi concorrano nel definire l’agenda politica, ad esempio attraverso pratiche lobbistiche, non è solo legittimo in una democrazia pluralistica, ma è anche importante. Inoltre, quelle leggi che attirano l’attenzione dei ricchi, spesso arrecano benefici anche i membri più poveri della società (ad esempio, tagli fiscali e deregolamentazione). Terzo: chiunque pensi che i ricchi esercitino troppa influenza sulla politica, dovrebbe essere a favore di meno intervento pubblico, ovvero più capitalismo. Dopotutto, più lo Stato interviene nell’economia (mediante investimenti, sussidi e regolamentazioni), più influenza può essere esercitata dai lobbisti. 

Gli Stati Uniti sono generalmente considerati un paese in cui i ricchi esercitano un’influenza particolarmente rilevante sugli sviluppi politici. Nonostante ciò, non è solo il denaro lo strumento atto a comprare il potere politico, altrimenti Donald Trump non avrebbe mai vinto la candidatura repubblicana per le elezioni presidenziali del 2016. Avrebbe invece vinto Jeb Bush, che aveva raccolto molte più donazioni. Perfino Benjamin I. Page e Martin Giles, due scienziati politici e fra i più importanti sostenitori della tesi secondo cui la politica degli Stati Uniti sia trainata dai ricchi, hanno riconosciuto che «la maggior parte dei grandi donatori e la maggior parte dei think-tank, così come il vertice del partito repubblicano supportavano altri candidati». Inoltre: «Le posizioni di Trump andavano direttamente contro le opinioni dei donatori e degli americani ricchi».

Oltretutto, se i soldi determinassero i risultati politici, Trump non avrebbe vinto le elezioni del 2016. Secondo la Commissione elettorale federale, Hilary Clinton, il Partito Democratico e i comitati che la sostenevano, hanno raccolto più di 1,2 miliardi di dollari per l’intero ciclo elettorale. Trump e i suoi alleati ne hanno raccolti seicento milioni. E se solo i soldi potessero comprare il potere politico, neanche Joe Biden avrebbe potuto diventare presidente. Invece, la Casa Bianca sarebbe stata affidata al ricco imprenditore Michael Bloomberg, che ai tempi della sua candidatura per i democratici era l’ottavo uomo più ricco al mondo, con un patrimonio stimato di 61,9 miliardi di dollari. Molto probabilmente, nessuno ha mai speso più soldi di lui, e in così poco tempo, per una campagna elettorale, ovvero 1 miliardo di dollari in neanche tre mesi.

Lo scienziato politico americano Larry M. Bartels ha analizzato l’effetto delle spese elettorali dei singoli candidati in 16 elezioni presidenziali degli Stati Uniti, dal 1952 al 2012. Per Bartels, solo in due elezioni, cioè quelle vinte da Richard Nixon nel 1968 e da George W. Bush nel 2000, i candidati repubblicani hanno riportato la vittoria grazie al maggior denaro speso.

Cosa dire poi del fatto che la maggior parte dei membri del Congresso statunitense sia composto da persone facoltose? Martin Gilens, che in generale critica l’influenza dei ricchi sulla politica degli Stati Uniti, ha ammesso che non c’è nessuna prova che collega la ricchezza personale con le decisioni politiche dei membri del Congresso. 

Molte persone associano il concetto di “capitalismo” con quello di “corruzione”. La visione secondo la quale la corruzione sia particolarmente diffusa nei paesi capitalisti è sbagliata; ciò è stato confermato confrontando l’Indice di percezione della corruzione (CPI) di Transparency International con l’Indice della libertà economica. I paesi con i livelli di corruzione più bassi sono gli stessi paesi che hanno i livelli di libertà economica più alti. E più i governi intervengono nella vita economica, più opportunità ci saranno per corrompere politici o dipendenti pubblici. Quindi, chiunque voglia limitare l’influenza immorale o criminale dei cittadini ricchi sulla politica, dovrebbe essere a favore di una limitazione del ruolo dello Stato.

Antonio Giangrande: INCHIESTA ESCLUSIVA. PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.

LIBERALIZZAZIONI FARLOCCHE E TUTELA DI CASTE E LOBBIES

ELETTORI. ATTENTI AL TRUCCO. ALZATE LA TESTA.

Tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono. I vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ( www.controtuttelemafie.it ) - Nomi e numeri: al 15 agosto 2012 il parlamentare con maggiore permanenza (40 anni) alla Camera è Giorgio La Malfa, ex ministro negli anni 80, tra i leader del Partito Repubblicano, di cui suo padre Ugo è stato uno storico dirigente: il suo debutto da onorevole risale al 1972. Al secondo posto Mario Tassone, (Udc) deputato da 34 anni e 14 giorni. Quindi Francesco Colucci (PdL) 33 anni e 34 giorni. Al quarto posto, appaiati, due "big" della scena politica nazionale: i presidenti della Camera Gianfranco Fini (Fli) e il leader Udc Pier Ferdinando Casini, entrambi con 29 anni e 32 giorni. ln Senato è il presidente della Commissione Antimafia Beppe Pisanu ad essere saldamente al primo posto: 38 anni e 128 giorni per lui. Il secondo, Altero Matteoli del Pdl, è staccato di ben 9 anni, come il collega di partito Filippo Berselli. La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro è all'ottavo posto con 25 anni e 42 giorni, più di Emma Bonino (21 anni e 90 giorni), ma soprattutto più di Franco Marini: 20 anni e 111 giorni. Maurizio Gasparri e i leghisti Roberto Calderoli e Roberto Castelli sono parlamentari da 20 anni. E Pedica? Lui, che ha fatto le pulci ai suoi colleghi, stilando la classifica dei vecchi, non lo scrive ma, eletto la prima volta alla Camera il 6 giugno 2006 (ora è al Senato), finora ha trascorso da onorevole 6 anni e 71 giorni.

Paolo Del Debbio che su Rete 4 ha condotto la prima puntata di Quinta Colonna in risposta ai cittadini in esterna a Roma che dicevano che i politici erano tutti uguali e che dovevano andare a casa ha risposto: “ma li vota la gente, li votate voi”. Bene. Questi giornalisti pagati dalla politica e dall’economia se nei loro salotti, anziché ospitare le solite litanie di vecchi tromboni con idee vetuste sulla società, invitassero qualcuno con idee innovative, forse sì che si farebbero le riforme.

RIFORME VERE, NON ARTEFATTE E MILLANTATORIE.

Per esempio vi ricordate delle liberalizzazioni di Bersani? Dopo due decenni alla voce carburanti i rincari più pesanti: +170%. Ma anche l'assicurazione non scherza: i costi sono triplicati e ora contano per il 17% del totale, mentre le tasse ammontano al 6%.

Per esempio sui concorsi pubblici a 13 anni dall'ultima selezione per esami e titoli - che si è svolta in ambito regionale soltanto per alcune classi di concorso - e dopo 22 anni da quella precedente, ancora valida per le materie d'insegnamento con le graduatorie più affollate, è facile immaginare che le persone interessate al concorso di insegnante sono davvero parecchie. La dichiarazione più autorevole è quella dello stesso Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo che parla di concorso destinato a coloro che sono già abilitati. In questo caso potrebbero partecipare tutti gli inclusi nelle graduatorie ad esaurimento dei precari e tutti coloro che, pur non essendo inclusi in queste liste, si sono abilitati attraverso i precedenti concorsi a cattedre. Insomma, chi lo dice ai candidati che questo non è un concorso, ma una sanatoria al precariato.

Ora parliamo delle riforme forensi ed in particolar modo di accesso alla professione. Tralasciando le innumerevoli interrogazioni parlamentari che denunciano le anomalie e l’irregolarità di un concorso che tutti sanno essere truccato ed impunito, passiamo all’analisi politica dell’approccio al problema. Con l’avvento di Berlusconi con le sue abbindolanti promesse di libertà si ebbe l’illusione che l’Italia delle professioni stesse per cambiare.

L’on. Luca Volontè, (UDC) alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Propose il doppio binario di abilitazione: esame ed al suo superamento l’abilitazione ovvero patrocinio legale di 6 anni ed al termine l’abilitazione. Nel 2003 (Legge 180, conv. Dl 112) si è partorito dalla mente geniale dei leghisti l’obbrobrio della pseudo riforma razzista dei compiti itineranti. Il 12 luglio 2011 sulla strada dell’approvazione della finanziaria il governo ha vissuto una giornata incandescente. Questa volta non si è trattato di proteste dell’opposizione o di leggi ad personam del premier. Il caso è esploso all’interno del Popolo della libertà. Perché diversi esponenti del partito hanno alzato le barricate contro una norma sulla liberalizzazione degli ordini professionali. Dopo una raccolta di firme di parlamentari del Pdl, è arrivata la retromarcia dell’esecutivo, con il ministro per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto che ha spiegato: “E’ stata raggiunta l’intesa tra maggioranza e governo sull’emendamento relativo alla liberalizzazione delle professioni”. L’annuncio dopo un incontro tra il presidente del Senato Renato Schifani, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e altri membri del governo. Nella nuova versione della norma dovrebbe esserci una distinzione tra gli ordini professionali che sostengono l’esame di Stato e quelli che non lo sostengono. Il governo ha concesso le modifiche all’emendamento dopo che 22 senatori del Pdl avevano inviato una lettera ai presidenti del Senato, del gruppo Pdl e della Commissione Bilancio di Palazzo Madama per esprimere la loro netta opposizione alla liberalizzazione degli ordini professionali. E dopo che all’interno del partito era iniziata una raccolta di firme. Tra gli ordini colpiti ci sarebbe stato quello degli avvocati: secondo il disegno del governo per esercitare la professione di avvocato in futuro sarebbe stato sufficiente avere conseguito la laurea e avere svolto il praticantato. “Fino a quando non verrà tolta la norma che abolisce gli ordini professionali, noi il testo – assicurava un avvocato del Pdl – non la voteremo mai dovesse anche cadere Tremonti”. Gli avvocati del Pdl sono 44, 13 i medici, un solo notaio. A difesa della posizione degli avvocati del Pdl, si era schierato forse il più noto tra loro: Ignazio La Russa. “Da avvocato ritengo che sia una norma che merita un approfondimento ulteriore. Non mi sembra materia da inserire in un decreto. Ritengo che la protesta degli avvocati – conclude La Russa – non sia affatto irragionevole”. Un’altra presa di posiziona, che rende l’idea del caos nel partito, è stata quella del capogruppo al Senato Maurizio Gasparri, secondo il quale il tema dell’abolizione degli ordini professionali “non sussiste. La formulazione del tema è già superata. Molti reagiscono a un testo che non c’è. Comunque ne stiamo parlando”.

Da qui si è capito che il centro-destra vuol tutelare gli ordini, quindi le lobbies. Da loro non arriveranno mai riforme. Della serie: i raccomandati alla riscossa.

Conosciute le pubbliche virtù del centro destra, si sperava nel centro sinistra, che a parole sono contro i poteri forti. L’On. Mario Lettieri (Margherita) presenta alla Camera una proposta di legge, n. 4048/03, contro gli abusi a danno dei Praticanti Avvocato, prevedendo la remunerazione per gli stessi e l’abolizione dell’esame. I Democratici di Sinistra, invece, chiedono un accesso alla professioni forense più rigoroso - si parla addirittura di concorso, non di esame di abilitazione - si schierano contro l'abolizione delle tariffe minime e massime che favorirebbero i Giovani Avvocati ed i praticanti abilitati e ripropongono quell'aberrazione rappresentata delle scuole di formazione forensi e post-universitarie a pagamento ed obbligatorie per potere sostenere l'esame forense.

Relazione introduttiva di Massimo Brutti (Responsabile DS Giustizia). Dal Convegno "Giustizia: voltare pagina; Il contributo dei Ds a un nuovo programma di governo" (30 giugno 2005) [.............] L'accesso alla professione va reso maggiormente selettivo e il concorso (nazionale o decentrato in più sedi, ma non certo presso ogni distretto) deve rappresentare il compimento di un complesso percorso di professionalizzazione, a cui dovrebbero contribuire Università, scuole comuni di formazione e scuole forensi.[.............]

Non basta: dello stesso parere il Senatore Guido Calvi DS che nello stesso convegno si è scagliato anche contro il numero eccessivo e patologico di avvocati e contro l'esame troppo facile.

La Proposta dei DS sulla Giustizia. 2 Novembre 2005. Commissione progetto DS. Area Istituzioni e Pubblica amministrazione. Le politiche istituzionali...............D’altro canto, gli abnormi numeri dell’avvocatura italiana (quasi 160.000 avvocati) ci dicono che il problema non è affatto, come per altre professioni, quello di una maggiore apertura alla concorrenza, ma di come garantire l’indipendenza, la professionalità e la responsabilità di professionisti così decisivi per la tutela di diritti primari dei cittadini..............La professionalità deve essere assicurata sia attraverso una maggiore selezione all’accesso, sia attraverso verifiche periodiche. In proposito, possibili strade appaiono: a) una selezione di merito nell’accesso a scuole post-universitarie obbligatorie e al tirocinio, ...............Proponiamo una liberalizzazione delle tariffe relative alle consulenze ed alle attività extra-giudiziarie............... (quindi non abolizione di quelle giudiziali che più interessano ai praticanti abilitati ed ai Giovani Avvocati).

Relazione di Massimo Brutti alla conferenza nazionale dei DS. 13 Gennaio 2006. Giustizia uguale per tutti e tutela dei diritti................. Numeri: quasi 160.000 avvocati. Il problema non è affatto, come per altre professioni, quello di una maggiore apertura alla concorrenza,................La professionalità deve essere assicurata sia attraverso una maggiore selezione all’accesso, sia attraverso verifiche periodiche. In proposito, le vie da seguire sono: a) una selezione di merito nell’accesso a scuole post-universitarie obbligatorie e al tirocinio pratico,.................

Proponiamo una liberalizzazione delle tariffe limitatamente alle consulenze ed alle attività extra-giudiziarie........

Donatella Ferranti, capogruppo dei democratici in Commissione Giustizia, in riferimento al ritardo nel 2011, lamentato dall’avvocatura, nell’esame del disegno di legge di riforma dell’ordine forense, sottolineava come “l’avvocatura necessiti di un ordinamento nuovo, volto alla verifica degli accessi, a garanzia della qualità e della professionalità”.

La senatrice Donatella Poretti, PD (in realtà Radicale) ha presentato in parlamento il ddl S.2994. Annunciato nella seduta pom. n. 632 del 26 ottobre 2011. L’«uovo di Colombo» – capace di aumentare, e di non poco, le entrate dello Stato – è quello di eliminare il limite di sei anni: si verrebbe così a creare una figura intermedia di professionista, il patrocinatore legale, che aprirebbe le porte al mondo del lavoro a circa 30.000 giovani, senza contrastare l’articolo 33 della Costituzione. Il patrocinatore legale potrebbe quindi decidere se rimanere tale (con limiti di materia e territorio) ovvero tentare, senza assilli, la strada che lo abiliti al pieno esercizio della professione. Se solo i 30.000 patrocinatori legali che si verrebbero così a creare versassero allo Stato la media di euro 1.000 annue, l’Italia incasserebbe 30.000.000 di euro in più, a partire da subito. Altra positiva innovazione che si propone, è che, sempre in campo forense, finito il tirocinio, risultino abilitati ipso iure i diplomati post-laurea alla scuola di specializzazione per le professioni legali istituita secondo quanto previsto dall’articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e dall’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, emanato in base alla delega conferita dal citato articolo 17, comma 113: l’ingresso in detta scuola è a numero programmato, è biennale e sono previsti tirocini. Si consideri infatti che il diploma (attualmente) esonera da un anno di pratica forense.

Alla luce di questa proposta si deve sapere che i progetti e le proposte di legge ogni fine legislatura decadono, quindi sono poco credibili quelle presentate artificiosamente nell’imminenza delle nuove elezioni.

Da qui si è capito che anche il centro-sinistra vuol tutelare gli ordini, quindi le lobbies. Da loro non arriveranno mai riforme. Della serie: i raccomandati alla riscossa.

Per dare spazio alla meritocrazia basta eliminare gli Ordini di costituzione fascista. (Ordinamento Forense, regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36). Oppure basterebbe togliere gli esami, che si truccano, o fare almeno gli esami per test attitudinali. Tutto il resto è truffa. Così come è stata l’ultima pseudo riforma. Non ci sarà alcuna cancellazione degli ordini professionali: il Consiglio dei ministri si è limitato a riorganizzarli. La questione era aperta da più di un anno, con la Casta fortemente contraria alle liberalizzazioni. Ma dopo i provvedimenti del governo, che non portano a grandi stravolgimenti, alcune categorie professionali lamentano una scarsa attenzione da parte dell’Esecutivo. Obbligo per i professionisti di stipulare polizze assicurative a tutela del cliente, formazione continua, durata massima del tirocinio a 18 mesi, separazione all’interno degli Ordini fra le funzioni disciplinari e quelli amministrative, sì alla pubblicità informativa: sono i contenuti principali della riforma delle professioni che dopo un lungo percorso è stata approvata lo scorso 3 agosto 2012. Il Dpr “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148” è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 agosto ed è in vigore dal giorno successivo. Per alcune norme (es.: obbligo assicurativo e formazione continua) ci sono ancora 12 mesi di tempo. Vediamo in sintesi i principali punti della riforma delle professioni.

Ambito di applicazione. Il regolamento riguarda solo le professioni regolamentate il cui esercizio è consentito a seguito dell’iscrizione a ordini e collegi. Significa che il decreto non riguarda gli iscritti ad albi o elenchi tenuti da amministrazioni pubbliche (precedenti stesure del provvedimento inglobavano invece anche queste professioni).

Tirocinio. L’obbligatorietà del tirocinio, o praticantato, continua a essere stabilita dall’Ordine (ci sono professioni che non prevedono un periodo di praticantato obbligatorio, e questo continuerà ad essere possibile). Per le professioni che prevedono il praticantato, la durata massima è fissata in 18 mesi (quindi gli Ordini che prevedono praticanti più lunghi dovranno uniformarsi). E’ previsto che il tirocinio possa essere svolto, per un periodo massimo di sei mesi, presso enti o professionisti abilitati di altri paesi. Prevista anche la possibilità di effettuare i primi sei mesi di praticantato nel corso dell’ultimo anno di università, oppure dopo la laurea presso una pubblica amministrazione. In entrambi i casi, è necessaria un’apposita convenzione fra Ordine e ministero. Questo non riguarda le professioni sanitarie.

Pubblicità. La pubblicità informativa relativa a esercizio dell’attività, titoli, studio professionale e tariffe è ammessa «con ogni mezzo». Deve essere «veritiera e corretta», non deve violare il segreto professionale, non può essere «equivoca, ingannevole o denigratoria». Le violazioni rappresentano illecito disciplinare.

Assicurazione. E’ una delle novità introdotte dal decreto: il professionista ha l’obbligo di stipulare un’assicurazione per i danni derivanti al cliente dall’esercizio dell’attività professionali, anche relativi a custodia di documenti e valori. L’assicurazione può essere stipulata attraverso convenzioni collettive degli Ordini o degli Enti Previdenziali di categoria. Questa disposizione diventa obbligatoria entro 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto, quindi dal 15 agosto 2013. L’obbligo di assicurazione non riguarda i giornalisti. La violazione rappresenta illecito disciplinare.

Formazione continua. Anche questa è una novità introdotta dalla riforma, e per dare il tempo di adeguarsi è previsto che entri in vigore entro 12 mesi: il professionista ha l’obbligo della formazione continua, attraverso corsi di formazione che possono essere organizzati da Ordini e Collegi, associazioni di iscritti all’Albo o altri soggetti autorizzati dagli Ordini. Sono gli Ordini che, entro un anno dal decreto (quindi entro il 15 agosto 2013) dovranno emanare i regolamenti per prevedere modalità è condizioni dell’aggiornamento professionale obbligatorio, requisiti minimi dei corsi, valore dei crediti professionali. Prevista la possibilità di convenzioni con le università.

Procedimenti disciplinari. Viene stabilita l’incompatibilità fra le cariche relative all’esercizio dei poteri disciplinari e quelle amministrative: prevista l’istituzione dei consigli di disciplina territoriali, composti da persone diverse dai consiglieri dell’Ordine.

Ma nel Governo dei tecnici che ha partorito una riforma, che non riforma un bel niente, non vi era quel presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, che diceva: «Sarebbe ora che gli Ordini professionali riconoscessero l'aleatorietà di quegli esami. Si tratta di prove che spesso non premiano il merito. Meglio prevedere percorsi più selettivi all'università e poi un quinto anno che serva da tirocinio o praticantato. E poi subito l'ingresso nel mondo del lavoro».

Alle prossime elezioni, prima di andare a votare si sappia prima e bene chi vuole veramente riformare questo paese allo sfascio.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

Le Gaffe.

Estratto dell’articolo di Francesco Ferasin per “Il Fatto Quodiano” domenica 27 agosto 2023.

Colpi di sole, oltreché di scena. Chiamati (per pudore): pensieri dal sen fuggiti, errori, refusi, sparate, smentite, retromarce; proferiti da sorelle e cognati d’Italia, di governo e dintorni. E tanto caldo. Troppo perché non arrivi un temuto svarione. Come quello che ha colpito (nuovamente) il ministro all’Agricoltura e Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, già cognato della premier Giorgia Meloni, gettandolo in uno sproloquio culinario (“i poveri in Italia spesso mangiano meglio dei ricchi”). 

Un’uscita comunque più discreta rispetto a cantare “Bella ciao”, col pugno alzato e la maglietta con falce e martello a una festa di simpatizzanti democristiani. Soprattutto se a farlo è Totò Cuffaro, condannato a sette anni di reclusione per favoreggiamento. Ma si può sempre recuperare un po’ di dignità sventolando in aula il cedolino da “4.718 euro al mese”, per smentire chi parla degli “stipendi d’oro” dei parlamentari. Ecco allora che l’architettura liberty dell’emiciclo di Montecitorio, a guardare bene, somiglia sempre più allo stile balneare.

Periodi ipotetici “Il prezzo industriale della benzina depurato dalle accise è inferiore rispetto ad altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania”. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso si difende così dalle critiche sui prezzi dei carburanti fuori controllo. Peccato siano loro a non aver mantenuto la promessa di tagliare le accise. 

Fascina Affetti stabili “Mi manchi amore mio. Diooooo se mi manchi”. Lo scrive la deputata di Forza Italia, ed ex compagna di Silvio Berlusconi deceduto il 12 giugno 2023, Marta Fascina nel suo stato di Whatsapp ai primi di agosto.

Elkann prima classe Non è bastata la prima classe del treno diretto a Foggia per salvare Alain Elkann da una mandria di ragazzini che, oltre ad aver parlato tutto il viaggio di ragazze, non l’ha nemmeno riconosciuto. Un accorato articolo di denuncia sul suo giornale, Repubblica, è stata l’unica magra consolazione. 

Salvini e Giambruno show “D’inverno fa freddo, d’estate fa caldo. Quando vedi i ghiacciai che si ritirano anno dopo anno ti fermi a pensare, poi studi la storia e vedi che sono cicli”. Alla festa della Lega a Cervia Matteo Salvini si abbandona a una analisi sui generis dei cambiamenti climatici. Avventura in cui si lancia anche il compagno della premier Andrea Giambruno. Il 18 luglio, mentre la temperatura supera i 50 gradi e molte regioni bruciano, il first-gentleman su Rete4 veste i panni del pompiere: “Nessun affetto del cambiamento climatico: è estate e fa caldo, come sempre”. 

De Angelis l’innocentista Il revisionismo è come l’appetito: vien mangiando. Dopo il clima, il responsabile della comunicazione della Regione Lazio, Marcello De Angelis, scrive su Facebook: “So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini”. Il giorno dopo rilancia: “Sulla strage di Bologna io al rogo come Giordano Bruno, pagherò con orgoglio”. Nessuna ustione, fortunatamente, e nemmeno mezzo passo indietro dallo staff di comunicazione della Regione.

Meloni quando c’era lei Il 16 luglio Giorgia Meloni, accompagnata dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, inaugura la tratta ad alta velocità Roma-Pompei. Presto si scopre che il treno parte dalla stazione Termini solo una volta al mese.

Sangiuliano stregato “Ho ascoltato le storie espresse nei libri finalisti. Proverò a leggere”, promette il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, membro della giuria del Premio Strega. La presentatrice Geppi Cucciari, visibilmente perplessa, chiede: “Ah, non li ha letti?”. “Sì, ma voglio approfondire questi volumi”, prova a smarcarsi. “Oltre la copertina…” chiosa Cucciari.

Renzi-Calenda divorziati A un anno esatto dalla nascita, l’esperimento del presunto Terzo Polo, in cui sono confluiti Azione e Italia Viva, è già un’esperienza archiviata. “Lo ha detto Renzi: ormai siamo due partiti separati” ha sentenziato Carlo Calenda a inizio agosto 2023. Poi il senatore, per avere un po’ di clamore, prova a lanciare una raccolta firme per abolire il Cnel. Il seguito è drammatico: appena 5mila firme. 

Roccella luci rosse “C’è una pornografia sempre più violenta e umiliante nei confronti delle donne. C’è un’esposizione precoce a questi contenuti che le nuove tecnologie facilitano: basti pensare che l’età media del primo accesso al porno è stimata in sette anni”. La spiegazione della ministra Roccella ai numerosi casi di stupro.

Vannacci uomini o generali? “Omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione!” si sfoga nel suo libro Il mondo al contrario. Una ventata di aria fresca rispetto alle uscite sulla pallavolista Paola Egonu: “è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità. Quando vedo una persona che ha la pelle scura non la identifico immediatamente come appartenente all’etnia italiana non perché sono razzista ma perché da 8mila anni l’italiano stereotipato è bianco”.

Livello competenza antropologica: sesto Campari.

Fitto siamo pronti, anzi no Dopo numerose rassicurazioni sul fatto che il governo avrebbe speso tutti i soldi del Pnrr, alla fine il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto il 27 luglio, in conferenza stampa dopo la riunione della Cabina di regia, ammette: “Dalla riunione è emersa la difficoltà evidente di completare tutti gli interventi entro il 30 giugno 2026”. 

Italia-usa bandiera rossa Durante la sua visita negli Stati Uniti, il leader della maggioranza democratica Chick Schumer chiede a Giorgia Meloni il significato dei colori della bandiera italiana. Lei, dopo qualche tentennamento, risponde : “Molti significati...”, lasciando cadere nel vuoto la domanda. Fortunatamente Schumer non approfondisce. 

Schlein bikini militante Aveva annunciato un’estate di “militanza”, Elly Schlein. Ma l’unica presa di posizione agostana si è registrata qualche giorno fa, quando la segretaria del Pd ha commentato una foto in bikini della conduttrice Andrea Delogu.

Conte censurato da Musk Troppa fretta: Giuseppe Conte denuncia sui social il caro carburanti con una foto del prezzo. Ma l’immagine risale al 10 marzo 2022. Uno svarione che viene censurato pure da X. 

Boschi un posto al twiga Al Twiga non si può dire no. E così, a inizio agosto, nel famoso stabilimento balneare cenano insieme la ministra meloniana Daniela Santanchè - fresca di indagine per Visibilia - e i renziani Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi, Andrea Ruggeri e Luciano Nobili. Perfino Renzi li critica. “Ci ha chiesto di unire i tavoli...” ha spiegato la Boschi. 

Santanchè turista È la giornata di Ferragosto e la ministra del Turismo Daniela Santanchè si presenta davanti alle telecamere del Tg1 con parole cariche di speranza: “Il governo sta lavorando per rendere le vacanze accessibili a tutti”, spiega, mentre passeggia nella piscina di un resort in Versilia, la titolare dello stabilimento da centinaia di euro a lettino.

Sgarbi via donne e stranieri La sensibilità per l’arte non sempre va a braccetto con il bon ton. E decisamente di cattivo gusto è stata l’uscita del sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, che il 21 agosto si è vantato del nuovo corso del suo ministero: “Si è mai visto al Louvre un direttore straniero? I simboli sono simboli. Quando arrivò Franceschini pensò che bisognava mettere molti stranieri, molte donne. Questa stagione è semplicemente finita”. 

Nordio paragoni home-made È da poco uscita la notizia che una donna detenuta in carcere si è suicidata, lasciandosi morire di fame e di sete perché non poteva vedere il figlio di quattro anni . E il ministro della Giustizia Carlo Nordio commenta (a modo suo) i limiti della sorveglianza nelle carceri: “Anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate nonostante avessero lo spioncino aperto 24 ore su 24”, ha proseguito il ministro, riferendosi ai gerarchi nazisti Hermann Göring e Robert Ley.

Albania conto alla romana La premier Meloni è ancora per qualche giorno ospite del presidente albanese Rama, ma nel Paese scoppia il caso di un gruppo di turisti italiani usciti da un ristorante senza pagare il conto. Meloni si indigna, Rama ci ride su. Ma alla fine la premier ordina all’ambasciata di Tirana di ripagare gli 80 euro di debito. Pioggia di critiche per l’uso dei fondi pubblici e lei precisa: “Erano soldi miei”. 

Colosimo foto segnaletiche Un selfie, geolocalizzato in una città della Grecia. “Avevo bisogno di qualche giorno senza la scorta” scrive sui social Chiara Colosimo, presidente della Commissione Antimafia.

Arianna m. sostituzioni  La vignetta sulla “sostituzione etnica” paventata dal compagno e ministro Lollobrigida, pubblicata sul Fatto , indigna Arianna Meloni a tal punto da sporgere querela. “Si colpisce una persona che non ricopre incarichi pubblici”, aveva spiegato la premier. Non l’avesse mai detto. Ora la sorella d’Italia è responsabile della segreteria politica. È sempre una questione di Dio, patria e famiglia. Ma soprattutto la terza.

Gerontocrazia.

A volte (parecchie) ritornano. Da Binetti a Vendola la «calamita» della politica. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

Moratti, Alemanno, Formigoni e Castelli. Chi prova a rimettersi in gioco dopo lunghe assenze. Nel centrodestra come nel centrosinistra

Pietro Lunardi, da Parma, classe 1939. Paola Binetti, Roma, 1943. Roberto Castelli, Lecco, 1946. Roberto Formigoni, ancora Lecco, 1947. Letizia Moratti, Milano, 1949. Tre ragazzini: Nichi Vendola, da Bari, 1958. Gianni Alemanno, di nuovo Bari, 1958. Marco Rizzo, Torino, 1959, che comunque la somma di ognuno, di anni, ne fa almeno 64.

L’eterno ritorno, gli dèi ci perdonino. Per Nietzsche è una concezione cosmologica secondo la quale il corso degli eventi del mondo, compiuto il proprio ciclo, ritorna su se stesso. Per Vico l’umanità passa dalla fantasia alla ragione e poi, corrompendosi, ricade nello stato selvaggio. Cincinnato ha un doppio volto: è colui che nonostante i meriti acquisiti si ritira a una modesta vita privata. Oppure gli piace darlo a credere, e ostenta una semplicità che non gli appartiene, pronto a piazzare la zampata. Ma indubbiamente il filosofo di riferimento è George A. Romero. Dai, che ve lo ricordate quel film capostipite, dove anche quelli di cui ti sei fidato in passato tornano per divorarti. Non per cattiveria, ma perché spinti dalla necessità.

Sì perché la politica e il potere sono malattie incurabili, che minano il sistema nervoso e dilaniano le viscere, finché non le nutri. Eccoli allora che ritornano, non perché lo fanno apposta, ma perché sono disegnati così.

Pietro Lunardi, ingegnere, ex ministro delle Infrastrutture del secondo e terzo governo Berlusconi, è diventato consulente di Matteo Salvini per il Ponte sullo Stretto, che, salvo errori, è immaginato al Sud. Ma era lui o non era lui che ebbe a dire: «Mafia e camorra ci sono sempre state e sempre ci saranno. Dovremo convivere con queste realtà». E quindi, sacrosanto, «questo problema non ci può impedire di fare le infrastrutture». E poi, meno sacrosanto, «c’è il segreto per evitare che nascano questi problemi di camorra, che ci saranno, per carità, e ognuno se li risolverà come vuole». Allerta spoiler: sì, era lui.

«Via passasti con la spada in pugno ed il cilicio al cristian petto», e questo è Carducci, e quindi lasciatela stare Paola Binetti, pure lei consulente, questa volta della commissione diritti umani per occuparsi dei feti. Anche lei tra i ritornanti, senatrice con la Margherita, poi nel Pd, poi con l’Unione di centro, poi con Scelta civica, e ancora gruppo misto, Forza Italia, infine sconfitta da Renate Gebhard della Svp. «Sono pure stata presa in giro per essermi lasciata sfuggire la storia del cilicio — ha raccontato ad Aldo Cazzullo —. Che Cosa pensavano? Di avere a che fare con una Zapatera?». Da vocabolario, cilicio: cintura ruvida e nodosa, che si porta sotto gli abiti, come pratica religiosa di penitenza.

«Nella politica di Salvini c’è ormai una deriva meridionalista. Per questo prima ho lasciato la Lega e oggi fondo il Partito popolare del Nord». Chi se lo ricorda Roberto Castelli? Ingegnere pure lui, ministro della Giustizia, fedelissimo di Umberto Bossi, avvistato in piazza nei tempi d’oro a gridare: «Chi non salta italiano è, è!». Punta alle elezioni europee in versione Jacques de La Palice: «Sotto l’uno per cento sarà un insuccesso, tra l’uno e il tre si vedrà, sopra il quattro sarà un trionfo».

«Sono felice e sto benissimo, sto per andare a pranzo con cinque o sei amici...». E fin qui ci sta, la gioia di Formigoni, dopo che si è scontato per intero la condanna a cinque anni e dieci mesi per corruzione. Il debito con la giustizia lo ha pagato, e ci mancherebbe che non possa sbocconcellare una cotoletta orecchia d’elefante con due foglie di rucola. È l’aggiunta che sa di recidiva politica: «La cosa che mi è pesata veramente è l’ingiustizia della condanna che ho subito — ha detto a Giuseppe Guastella sul Corriere —. Certo, avrei fatto meglio a non fare quelle vacanze… E che sia chiaro, in questo momento non sono candidato da nessuna parte e le elezioni sono a giugno, si vedrà, e comunque bisognerà prima verificare se e quando potrò candidarmi, e questo non è ancora chiaro». Perché al momento è interdetto, almeno fino a quando e se sarà riabilitato. E pure Letizia Moratti ci pensa alle Europee, lei che dopo essere stata tritata da Attilio Fontana nella corsa terzopolista alla guida della Regione Lombardia è tornata tra gli amici di Forza Italia.

E poi Gianni Alemanno, che ci proverà probabilmente in proprio a candidarsi, non fosse altro che per far dispetto a Giorgia Meloni, che considera schiacciata sotto il tallone di ferro di londoniana (nel senso di Jack London) memoria. Magari con al fianco Marco Rizzo, comunista come Mario Brega, cioè non con un pugno solo chiuso, ma con tutti e due, come da film di Carlo Verdone. Perché poi che Mario Brega fosse, nella realtà, convintamente di destra, lo sanno tutti.

Resta Nicola Maria Vendola, detto Nichi, che il gran passo del ritorno politico l’ha già fatto: è il nuovo presidente di Sinistra italiana, non c’è stato neanche bisogno di votare, trionfo per acclamazione. «È un ritorno alla politica attiva, questo sì, ma non mi candido a niente», ha giurato. E bisogna credergli, anche perché, quando c’è da essere eletti, in Sinistra italiana bisogna mettersi in fila dietro Elisabetta Piccolotti e suo marito Nicola Fratoianni, con ogni evidenza i più bravi di tutti.

Estratto dell’articolo di Giulia Merlo per “Domani” domenica 29 ottobre 2023.

Tornano come una risacca silenziosa, incuneandosi nei gangli complessi della macchina pubblica quando a presidiarla ci sono guardiani distratti. Il fenomeno dell’inserimento dei grandi vecchi della prima repubblica nei luoghi del potere del governo di Giorgia Meloni è riemerso ancora una volta. Dopo Luciano Violante e Sabino Cassese, è riapparso anche Giuliano Amato, nominato a presiedere una Commissione che si occuperà delle ripercussioni dell’intelligenza artificiale sull’editoria. 

[…] Dimenticate le dichiarazioni dell’ex presidente della Consulta sui segreti di Ustica […], la nomina è stata voluta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l’azzurro Alberto Barachini. 

In sè potrebbe apparire un ruolo di ripiego per un nome come Amato, che nei suoi quarant’anni di istituzioni è stato alla Camera, al Senato, ai ministeri di Interni, Tesoro e Riforme, a palazzo Chigi e alla Corte costituzionale, a cui manca solo il Quirinale tra i palazzi delle istituzioni.

Eppure proprio questa nuova attestazione di stima da parte dell’esecutivo di centrodestra testimonia, per l’ennesima volta, il vuoto di classe dirigente d’area ma anche la capacità di riempire i vuoti di illustri esponenti considerati di centrosinistra, i quali però si sono sempre fregiati del titolo di pontieri con la destra. 

Amato, infatti, ha mantenuto un filo di contatto costante con uno degli spauracchi della sinistra come Silvio Berlusconi: fu il Cavaliere […] a nominarlo presidente dell’Antitrust nel 1994 e che, nel 2015 lo immaginò presidente della Repubblica di compromesso. […]

L’ottantacinquenne ex premier socialista, però, è in ottima compagnia. Il governo Meloni, infatti, ha già bussato alla porta di altri due grandi vecchi, anche loro considerati riserve della repubblica del centrosinistra ma mai disdegnati anche a destra: Luciano Violante e Sabino Cassese. 

[…] Nel corso degli ultimi anni l’ex presidente della Camera Luciano Violante ha lentamente cambiato pelle, dismettendo quella di ex dirigente prima del Pci e poi del Pd, per sostituirla con un’immagine più tecnica.

Sempre con una sfumatura di parte, ma attentamente coltivando le sue amicizie nell’alveo del centrodestra. La più importante è quella con l’ex collega magistrato e oggi potentissimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che non a caso non viene dal mondo della destra sociale che ancora guarda Violante con diffidenza, a cui non è bastato il suo storico intervento del 1996 di pacificazione sui «ragazzi di Salò» per dimenticare il suo passato comunista e di giudice che indagò sulle trame nere degli anni Settanta. 

Il suo rapporto con il governo è un fatto certificato: nei mesi scorsi è stato investito della carica di presidente del Comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale e internazionale. Una attività a titolo gratuito tanto altisonante quanto nebulosa, che però ne certifica il legame con la galassia di palazzo Chigi.

Ma, soprattutto, a pesare nel curriculum è l’attività lautamente retribuita con 300 mila euro l’anno di presidente della fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine. Violante guida la fondazione […] sin dalla sua istituzione nel 2019 da parte di Alessandro Profumo e per i primi tre anni lo ha fatto a titolo gratuito. Ora, però, il compenso è stato pattuito e fa gola a molti, tuttavia nessuno è ancora riuscito a sottrarre il ruolo all’ex presidente della Camera. 

Secondo fonti ministeriali, infatti, il Dicastero dell’Economia sarebbe stato pronto a sostituire Violante con un nome di fiducia come quello di Geminello Alvi, economista ed editorialista molto vicino al ministro Giancarlo Giorgetti, tanto da essere considerato il ghostwriter dei suoi discorsi.

Il Mef, principale azionista di Leonardo, avrebbe avuto titolo per imporre un avvicendamento e il via libera sarebbe arrivato anche dalla premier Giorgia Meloni, che con Violante ha un rapporto mediato da Mantovano. Invece, nemmeno il Mef è riuscito a smuovere Violante dalla fondazione e l’ipotesi di avvicendamento con Alvi sembra ormai destinata a tramontare. […] 

[…] Minori fortune in questa fase, invece, sta raccogliendo l’amministrativista Sabino Cassese. Nonostante sia tenuto in massima considerazione tra le voci autorevoli che sussurrano al governo Meloni, il comitato e che presiede su mandato del ministero dell’Autonomia di Roberto Calderoli si è arenato. Istituito a fine marzo, il comitato per individuare i livelli essenziali delle prestazioni per le regioni doveva essere la chiave per mettere in moto l’agognata autonomia regionale tanto cara alla Lega.

Invece, basta guardare la lista dei dimissionari di metà estate per capire che qualcosa si è messo di traverso già alle prima battute: a pochi mesi dall’inizio dei lavori, infatti, ha lasciato proprio Luciano Violante, qualche settimana dopo è stato il turno anche di Giuliano Amato, seguito da Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno. 

L’incarico, a questo punto, si è fatto improbo anche per un luminare del calibro di Cassese. […] L’abilità di Cassese, affilata in tanti anni di palazzi, però, è quella di non avere mai una sola carta in mano. Non a caso, infatti, il professore emerito di diritto amministrativo è comparso a parlare di «crisi della burocrazia e semplificazione» alla kermesse organizzata dalla ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati. La stessa che lo avrebbe voluto nominare la guida di un tavolo di esperti sul presidenzialismo, se Calderoli non la avesse bruciata sul tempo scegliendolo per il Clep.

Il tratto comune di Violante, Amato e Cassese è l’attitudine al potere, che si trasforma in confidenza quando non può essere direttamente esercitato. A questo, tutti e tre hanno saputo sommare una innegabile autorevolezza non solo nei confronti della attuale classe politica, ma anche dei vertici della macchina burocratica senza i quali nessuna posizione può mai essere conservata a lungo. Accanto all’abilità, però, è stato fondamentale anche un pizzico di fortuna: un governo rampante che si fregia di essere nemico dei «poteri forti», inconsapevole di averli chiamati alla propria corte.

Forse la responsabilità non è solo da attribuire ai ragazzi: La politica (non) è una cosa da giovani: alla Camera zero deputati con meno di 30 anni. Gabriele Sada su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

In questi giorni in USA si è acceso un dibattito sull’età media dei politici. Il tutto nasce da una conferenza stampa in cui il senatore repubblicano Mitch McConnell Jr (dove evidentemente Jr indica un ricordo ormai lontano dati i suoi 81 anni) si blocca a metà di una frase durante una conferenza stampa: dopo venti lunghi e interminabili secondi di impasse, viene scortato via da colleghi e assistenti. Ripreso da telecamere, è ovviamente diventato virale su Twitter (pardon, su X) e su TikTok, raggiungendo milioni di visualizzazioni in poche ore con migliaia di commenti.

Il caso McConnell segue di pochi giorni quello della senatrice democratica Dianne Feinstein, novantenne, mostratasi in grande confusione durante una votazione al Senato. Da qua si è aperto il dibattito: gli Stati Uniti hanno un problema con la gerontocrazia in politica? Probabilmente la risposta è sì, anche pensando al probabile duello tra Joe Biden, ottantenne, e Donald Trump, settantasettenne, alle prossime elezioni per il nuovo Presidente. Sta quindi diventando più forte la proposta di inserire, così come in altri settori, un limite di età per l’elezione al Congresso: oggi al Senato il 40% dei seggi è coperto da ultrasettantenni, mentre alle Camera l’età media è di 54 anni.

Nelle scorse elezioni di MidTerm però è stato eletto il primo ragazzo della Generazione Z, Maxwell Frost. Venticinquenne, la sua elezione ha avuto un grande risalto, e vederlo seduto tra i banchi del Congresso più anziano di sempre ha generato non pochi titoli di giornale.

In Italia come siamo messi? Bene, ma non benissimo. L’attuale parlamento ha un’età media di poco più di 51 anni, meno di quella degli USA ma più alta di Paesi europei come Germania (49 anni) o Francia (46 anni). Nel corso degli anni l’età media del nostro parlamento è aumentata costantemente, passando dai 45 anni circa delle prime legislature all’attuale compagine. Sapete quanti deputati con meno di trent’anni siedono oggi alla Camera? Zero. Se invece pensiamo che i giovani siano quelli con meno di quarant’anni, allora il numero sale a 65. Ma il problema è ritenere ancora giovani quelli con poco meno di quarant’anni.

Perché in Italia, così come in USA, c’è poco spazio per i giovani in politica? Partiamo dagli ultimi anni. Crisi economiche e sociali vissute in prima persona o attraverso i propri genitori, scandali politici che hanno occupato le cronache quasi quotidianamente, disastri ambientali ovunque, una percezione di essere sempre all’ultimo posto nell’agenda politica del Paese (spesso con ragione). Se oggi c’è distacco tra i ragazzi e la vita politica attiva forse la responsabilità non è solo da attribuire ai ragazzi: forse è stato fatto poco per evitare un progressivo allontanamento o anche solo per spiegare il mondo attuale.

Pensiamo poi a come si è evoluta l’informazione negli ultimi anni. Instagram, TikTok, Facebook sono ormai canali dove si fa informazione: e la Generazione Z, nativa digitale, è la prima a saperli usare al meglio, non solo per caricare balletti (cit.) ma anche per informarsi, approfondire, capire. Col problema però che spesso le informazioni a disposizioni dicono tutto e il contrario di tutto, perché da nessuna parte come sui social è tutto un derby, un continuo scontro tra chi la pensa in un modo e chi dice il contrario: in un contesto così complesso e sovraccarico è difficile orientarsi, e quando orientarsi diventa difficile la repulsione è una risposta naturale.

C’è poi il significato più profondo della parola rappresentanza. Come possiamo pensare che un ragazzo di diciotto o vent’anni possa sentirsi rappresentato da chi, pensando di fare il giovane, li scimmiotta su TikTok? O da chi condanna ogni forma di protesta etichettando i ragazzi come scansafatiche che pensano solo a stare in piazza?

Attenzione però: se non ci sono giovani al Congresso o nel nostro Parlamento non significa che i giovani non vogliano fare politica. Semplicemente significa che oggi non ci sono giovani seduti lì: la politica viene fatta perlopiù altrove.

Si pensi ai movimenti di Fridays for Future o per i diritti LGBTQ+, alle battaglie condotte sulla salute mentale o sull’istruzione. Si pensi ai nuovi linguaggi, dai meme alle nuove testate editoriali, con cui certi messaggi sono veicolati con forza a un pubblico giovane e non solo. La Generazione Z sta dimostrando che politica non è solo essere seduti su un seggio o votare ogni tot anni.

Politica è partecipare tutti i giorni a battaglie, difendere i valori con mezzi e strumenti nuovi, è l’attivismo 2.0. Ed è per questo che diventa ancora più importante e urgente far sì che i giovani si avvicinino alla politica “tradizionale”, nel luogo sacro dove la politica diventa indirizzo, diventa futuro: il Parlamento. Solo così potremo evitare che cresca l’antagonismo istituzioni – giovani, solo così potremo dare valore all’attivismo che oggi spesso è confinato in piazze e canali social e inascoltato, solo così potremo costruire oggi una società più aperta.

Siamo a pochi mesi dalle elezioni europee, iniziano le prime trattative su accordi e alleanze, il dibattito si sta lentamente accedendo. Sarebbe un bell’esempio se la generazione Z fosse sia parte di questo dibattito, sia parte dei candidati. Gabriele Sada

Dress Code.

Quando anche l’abito fa il deputato. Storia di Aldo Grasso Corriere della Sera 6 agosto 2023.

Ansia da outfit. Cosa mi metto per andare in Parlamento? Di fronte alla selvaggeria vestimentaria (mancano solo le infradito), una risoluzione a Montecitorio invita i parlamentari a mantenere un «maggior decoro nel vestiario».

Non è un problema di facile soluzione. Anni fa, quand’era di moda «la vita bassa», scorgendo quegli ombelichi al vento, Alberto Arbasino parlava di segni antropologici tribali, «di cose che sono metafore di altre cose». Una volta il Parlamento era anche metafora di Elezione (nel duplice senso della parola) mentre adesso gli si confà di più la metafora dello Specchio (del Paese).

La vulgata vuole che il Parlamento meriti sommo rispetto, che il guardaroba sia consono alla solennità dell’Istituzione per evitare che alla sciatteria nell’abbigliamento corrisponda una sciatteria legislativa. È giusto che Montecitorio auspichi un’Aula di rimpannucciati, di apprendisti del total look, di stravaganti couturier del voglio ma non posso, ma forse sarebbe meglio augurarsi un Parlamento meno trasandato nel rappresentare il Paese.

Come sosteneva Coco Chanel, il buongusto nel vestire è qualcosa di innato: l’invocato decoro ha questo di paradossale, che è fatto di gesti e di gusti che stanno a impersonare ciò che non si può imparare. Viviamo in un’epoca in cui «la gloria dell’abito» non trasforma più le persone.

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

Per ora i parlamentari casual l'hanno scampata: la Camera dei deputati non adotterà il codice d'abbigliamento più severo previsto da un ordine del giorno del deputato di Fratelli d'Italia Salvatore Caiata, cravatta obbligatoria e scarpe da ginnastiche vietate. […] Starà agli uffici di presidenza e ai questori valutare specifiche disposizioni […]  «Peccato – commenta Paolo Cirino Pomicino […] – al contrario di quello che dice il noto proverbio, in parlamento l'abito fa il monaco». 

È necessario un dress code più rigido per le istituzioni?

«La capacità creativa del parlamentare è legata anche al decoro. La lenta sciatteria nell'abbigliamento dei parlamentari ha corrisposto a una sciatteria legislativa inimmaginabile. Dopo la discesa, il degrado, non si può che risalire». 

La discesa?

«A volte sembra che il parlamento sia un condominio o uno stadio con curva sud e curva nord». […] «Spero che la preoccupazione di ripristinare un codice di abbigliamento segni l'alba di un nuovo giorno». […] «Però […] a volte nelle persone anziane la vecchiaia prende o le gambe o la testa per cui le scarpe di gomma aiutano». 

Cosa prevedeva il codice di abbigliamento quando lei era parlamento?

«Ma ai miei tempi non sarebbe mai stato necessario sollecitare delle disposizioni. Tutti avevano la cravatta e il giusto abbigliamento. Le eccezioni confermavano solo la regola». 

E quali erano le eccezioni?

«Alla fine degli anni '80 il movimentismo del Partito radicale cominciò a fare accettare che qualcuno avesse uno stile meno formale, ma fra i dubbi di molti. In ogni caso magari i radicali erano sciatti nel modo di vestire ma avevano delle idee». 

Qualche caso?

«Beh, portarono in Parlamento Cicciolina […]». […] «Le donne in Parlamento erano decorose, nessuno aveva un abbigliamento da pin up. Molte erano ex partigiane, portavano sul corpo le cicatrici di lunghe battaglie politiche».

Per alcuni partiti uno stile più casual è servito ad avvicinarsi agli elettori?

«Ma è sempre stata una finzione. Come quella dell'ex presidente della Camera Roberto Fico che il primo giorno arrivò in autobus. Poi mica l'ha preso più. Ma il Movimento 5 stelle è un incidente della storia». 

Un po' severo. In fondo la richiesta di sobrietà veniva dagli elettori.

«L'autorevolezza impone il decoro e certi segni fra cui l'auto blu. Non si va a Palazzo Chigi in bicicletta».

Esibizionismo.

Antonio Giangrande: ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

Viene prima il volto televisivo o il politico? Conta più la telegenia e la sfrontatezza o la competenza e la capacità? La notorietà deriva dal piccolo schermo o dalle aule parlamentari?

Ne parla il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Gli esordi televisivi di molti politici è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.

La politica come strumento dell’esibizionismo. Sono sempre di più, infatti, i volti televisivi che decidono di impegnarsi in politica.

Dal 1948 a oggi, quanti hanno intrapreso la carriera politica tra attori, attrici, showgirl, cantanti, presentatori, presentatrici, comici, barzellettieri, ecc.?

Syusy Blady, nota per il programma Turisti per caso: ha aderito alla causa dei Verdi e correrà per loro alle europee 2014.

Alessandro Cecchi Paone, dopo dieci anni il conduttore torna a schierarsi con Forza Italia. “Non potevo dire di no”, ha dichiarato Paone, “sono prontissimo” e correrà per loro alle europee 2014.

Elisabetta Gardini, primo volto di Uno Mattina Rai. Ci aveva provato già nel 1994 ad entrare in parlamento, candidata nel Patto Segni. Ma Elisabetta Gardini viene eletta, alle Europee, solo dieci anni dopo nelle liste del Pdl. Conquistando 34mila preferenze, in sole tre settimane di campagna elettorale. Una carriera, quella di Gardini, cominciata come attrice teatrale e continuata con l'esperienza in tv a Domenica In.

Fabrizio Bracconieri, un ex “ragazzo della III C”, noto anche per il programma Forum, correrà per le europee 2014.

Enzo Tortora al parlamento europeo nel 1984 per il Partito Radicale.

Iva Zanicchi. Da "La zingara" che conquistò Sanremo nel 1969, alla trasmissione "Ok, il prezzo è giusto". Non solo cantante e presentatrice televisiva, Iva Zanicchi ha fatto carriera anche in politica: prima è stata candidata per Forza Italia alle elezioni europee del 1999 e del 2008, senza essere eletta. Poi è subentrata al dimissionario Mario Mantovani ed è stata rieletta europarlamentare nel 2009. La candidata più votata al parlamento europeo nel 2009, battuta solo da Silvio Berlusconi.

Enrico Montesano e Michele Santoro sempre al parlamento europeo a sinistra.

Vladimir Luxuria, dall’organizzazione del Muccassassina, una delle feste più famose di Roma, fino a diventare la prima parlamentare transgender di un parlamento europeo. Eletta come indipendente nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria si è battuta alla Camera per i diritti della comunità Lgbt.

Lilli Gruber sempre al parlamento europeo, lo schieramento quello dell'Ulivo.

Barbara Matera, dopo aver conquistato la notorietà diventando “signorina buonasera” in Rai, prima rinuncia alla candidatura alla Camera nel 2008, così da finire gli studi, poi un anno dopo accetta l’offerta del Pdl per le Elezioni europee.

Come si arriva all’elezione della velina Barbara Matera al Parlamento europeo? Quando l’uso strumentale del corpo si impone al punto da diventare esso stesso messaggio politico?

Per raccontare questa storia è necessario fare un passo indietro al settembre 2004: Flavia Vento. "Nasce il mio nuovo movimento Figli dei fiori". Così Flavia Vento, la soubrette nota al grande pubblico grazie a Libero, il programma di Teo Mammucari, aveva annunciato su twitter il suo ingresso in politica.

Ylenia Citino, candidata nelle liste di Forza Italia alle Europee e laureata alla LUISS. L'ex tronista, per un paio di mesi, della nota trasmissione di Maria De Filippi “Uomini e donne”.

Ilona Staller, in arte Cicciolina, una delle più note pornodive, fa il suo ingresso in Parlamento nel 1987, eletta alla Camera dei deputati nelle liste del Partito Radicale, con 20mila preferenze, seconda solo a Marco Pannella.

Gabriella Carlucci, della sua carriera televisiva si ricorda soprattutto l’edizione di Buona Domenica condotta insieme a Gerry Scotti nel 1994. Lo stesso anno in cui si iscrive alla neonata Forza Italia. Due lauree, una in letterature straniere, l’altra in Storia dell’Arte, Carlucci è stata deputata dal 2001 al 2013 nei gruppi parlamentari di Forza Italia, poi Pdl, fino all’Udc di Pier Ferdinando Casini.

Debora Caprioglio. Il ruolo da protagonista in Paprika, il film di Tinto Brass del 1991, l’ha portata al successo. E’ stato Francesco Pionati, leader dell’Alleanza di Centro, a offrirle il ruolo di madrina della seconda Assemblea nazionale dell’Adc e poi responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nello stesso partito.

Alessandra Mussolini, nipote d'arte di Sophia Loren, prova a intraprendere la stessa carriera della zia come attrice. Ma invece viene candidata giovanissima alla Camera nel 1992 nelle liste del Movimento Sociale Italiano. Poi, un percorso all'interno di Alleanza Nazionale per poi approdare nel Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi.

Ombretta Colli, cantante e attrice, dopo aver condiviso col marito Giorgio Gaber ideali di sinistra, comincia la sua carriera politica in Forza Italia, diventando prima deputata nel 1995, poi senatrice, fino ad essere eletta come Presidente della Provincia di Milano e poi nominata Sottosegretaria alle Pari Opportunità, Moda e Design della Regione Lombardia nella giunta di Roberto Formigoni.

Anna Kanakis Miss Italia nel 1977, ha avuto anche una breve carriera politica come responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nell’Unione Democratica per la Repubblica, fondato da Francesco Cossiga nel 1998 e di cui Clemente Mastella è stato segretario.

Carlo Calenda, Ministro del Governo Renzi, ed il passato da attore. Oltre ad essere figlio, come detto, dell’economista Fabio Calenda, Carlo è anche figlio della regista Cristina Comencini. E forse non è un caso che nel suo pedigree ci sia anche un brevissimo passato di attore. Infatti, nell’estate del 1983, quando aveva solo dieci anni, ha interpretato il piccolo scolaro Enrico Bottini nello sceneggiato televisivo «Cuore», ispirato all'omonimo romanzo di Edmondo de Amicis. Il film è stato diretto dal nonno Luigi Comencini.

Daniela Santanché, quando aveva ventidue anni, nel 1983, fu intervistata da una trasmissione tv che si chiamava “Viva le donne”, condotta da Amanda Lear. Le chiesero a quale programma televisivo avrebbe voluto partecipare e lei rispose: al telegiornale. Poi le chiesero cosa volesse fare da grande e lei rispose: "il ministro del Tesoro".

Michela Brambilla. Finisce tra i più visti di YouTube il video, scovato dalla Gialappa's, che documenta i suoi primi passi in tv. La rossa del Pdl era inviata di "I misteri della notte" nel 1991: occhiali scuri e guanti di pizzo, visitava i locali notturni di Barcellona, tra topless e balli sadomaso. Per la sua entrata in politica la motivazione l’ha data Silvio Berlusconi: “E’ un’ira di Dio, una che non molla l’osso”, ha detto scherzando, ma non troppo, perché Michela è sempre stata così, una “rompiballe che non si arrende mai”, come dice lei stessa, e che quando vuole qualcosa non demorde finché non l’ha ottenuto, scrive “Affari italiani”. Lo sa anche Giorgio Medail, che tenne a battesimo la ventenne Michela nel mondo del giornalismo televisivo. Michela l’aveva incontrato a Salsomaggiore, dove, con la fascia di Miss Romagna, partecipava alle finali di Miss Italia: non vinse, ma cominciò a tempestare di telefonate Medail, finché non la prese a lavorare con lui a Canale5. Su Youtube è ancora cliccatissimo uno dei suoi servizi tv del 1991 per “I misteri della notte”, programma “esoterico” di Medail, dove Michela gira per le discoteche di Barcellona in abbigliamento dark e succinto.

Mara Carfagna. La valletta della tv. Tra i video più datati, quello del suo esordio a TeleSalerno: Mara aveva 21 anni ed era una studentessa. Presentando Carfagna, il conduttore spiega che «i suoi hobby sono il piano e il canto», «non sopporta la falsità e l’ipocrisia» e che il suo sogno nel cassetto è «danzare all’American Ballet Theatre». Di lei, Silvio Berlusconi disse: "Se non fossi già sposato, la sposerei immediatamente". Mara Carfagna, dopo la carriera televisiva, si affaccia alla politica diventando coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania. Poi viene eletta alla Camera nel 2006 e nominata nel 2008 Ministro per le pari opportunità.

E poi ci sono loro: l’aspirante Premier ed il Premier.

Matteo Salvini. «Striscia la notizia» ha scovato un video di Matteo Salvini, attuale leader del Carroccio, quando partecipò alla trasmissione «Il pranzo è servito» condotta da Davide Mengacci. Era il 1993. Capelli lunghi, pizzetto e basettoni, giacca e cravatta fantasia e qualche chilo in meno di adesso, il giovane Matteo si presentò così al conduttore che gli chiedeva la sua professione: «Sono nullafacente, iscritto all’università in attesa di fare esami».

Matteo Renzi. Da tempo circola il filmato di Matteo Renzi, quando partecipò nel 1994 alla trasmissione «La ruota della fortuna con Mike Bongiorno. Il giovane Matteo arrivato «da un piccolo paese in provincia di Firenze, Rignano sull’Arno», come dice lui stesso nel video, racconta il suo hobby: «Faccio l’arbitro di calcio a livello dilettantistico, in seconda categoria».

Sicuramente in quest’elenco molti nomi mancano. Mi scuso per loro non averli ricordati.

Forfait.

Palazzo Chigi: i forfait dei ministri dal 2001 al 2023. Chi sono i ministri che hanno lasciato Palazzo Chigi prima del tempo? Il primato del secondo governo Berlusconi nel quadro delle dimissioni degli ultimi ventidue anni. Marianna Piacente su Notizie.it il 6 Luglio 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Più di tre ministri ogni due anni

Il primato del governo Berlusconi

Il resto dei forfait

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Daniela Santanchè al rogo mediatico. Da circa una settimana la ministra del Turismo è bersagliata dalle pesanti critiche dei partiti di opposizione, che ne chiedono le dimissioni. Rai 3 rivela condotte giudicate ai limiti della legalità nei confronti e dei fornitori e dei dipendenti delle società di sua proprietà Visibilia e Ki Group. Ma chi c’è insieme a lei nei gironi infernali di Palazzo Chigi? Ecco l’elenco di tutti i ministri dimessisi dal 2001 a oggi.

Più di tre ministri ogni due anni

Sono trentadue. Quasi il 12% dei ministri (278 in totale). In media, ogni due anni hanno lasciato il loro incarico più di tre ministri. Una media che tuttavia non rispecchia la realtà dei fatti. Le dimissioni di un ministro non hanno interessato ugualmente tutti e dodici i governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi ventidue anni: se alcuni governi non hanno registrato alcuna defezione, portando a compimento il mandato con gli stessi ministri con cui lo hanno preso, ce ne sono altri che hanno visto riaggiornare (anche più volte) il proprio organico, sia per questioni personali che politiche e giudiziarie.

Il primato del governo Berlusconi

Il governo che ha registrato più ministri dimissionari nel range temporale considerato è stato il secondo governo guidato da Silvio Berlusconi (dal 2001 al 2006): otto i ministri che hanno lasciato l’incarico. Al secondo posto c’è il quarto e ultimo governo Berlusconi (dal 2008 al 2011): sei. L’ultimo gradino del podio nero va al governo Renzi: quattro i ministri dimissionari. A onor del vero, il record del secondo governo Berlusconi è figlio anche della sua stessa durata: con 1.412 giorni in carica, si tratta del governo più longevo della storia repubblicana. Di seguito, alcuni “meriti” del primato:

Luglio 2002: il ministro dell’Interno Claudio Scajola si dimette in seguito alle polemiche riguardo le sue dichiarazioni sul giurista Marco Biagi (lo definì «un rompicoglioni»), ucciso a marzo dello stesso anno dalle Nuove Brigate Rosse;

Agosto 2005: il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco si dimette dopo quattro mesi dall’incarico per divergenze con la maggioranza;

Febbraio 2006: il ministro per le Riforme istituzionali e la semplificazione normativa Roberto Calderoli è costretto a dimettersi per essersi mostrato in televisione con addosso una maglietta raffigurante delle vignette satiriche contro Maometto, causando violente proteste attorno al consolato italiano a Bengasi (Libia);

Marzo 2006: il ministro della Salute Francesco Storace si dimette per il suo coinvolgimento nell’inchiesta Laziogate della procura di Roma. Era indagato per associazione a delinquere insieme ad alcuni suoi ex collaboratori, accusato di aver spiato a livello informatico alcuni avversari politici mentre era presidente del Consiglio regionale della Regione Lazio. Dopo una condanna in primo grado, fu assolto in appello nel 2012.

Il resto dei forfait

A gennaio 2008 (secondo governo Prodi), il ministro della Giustizia Clemente Mastella lascia l’incarico perché accusato di concorso esterno in associazione a delinquere dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Le sue dimissioni provocano l’uscita dalla maggioranza dell’Udeur e collaborano alla caduta del governo della coalizione di centrosinistra (nel 2017 Mastella sarà assolto). Più recentemente, a marzo 2016 la ministra dello Sviluppo economico (governo Renzi) Federica Guida si dimette – pur non essendo indagata – per il coinvolgimento in un’inchiesta sul traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti legati all’Eni in provincia di Potenza. Le ultime ministre a dimettersi appartengono entrambe al governo Conte: si tratta della ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti e della ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Il motivo stavolta non ha a che fare con indagini e/o accuse: le due scelgono semplicemente di ritirare l’appoggio al governo (come aveva fatto a dicembre 2019 il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti).

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Dipende. Se le dimissioni partono da una volontà del ministro non è la stessa cosa che se sono richieste dal Parlamento. La mozione di sfiducia è un atto previsto dalla Costituzione con cui il Parlamento, o una parte di esso, manifesta il venire meno del rapporto di fiducia con il governo o con un suo esponente. In base ai regolamenti della Camera e del Senato, le mozioni di sfiducia devono essere motivate e sottoscritte da almeno un decimo dei componenti dell’aula (quaranta deputati e ventuno senatori), non possono essere discusse prima di tre giorni dalla presentazione e sono votate per appello nominale. Se la maggioranza assoluta dell’aula (50% o più) esprime un voto favorevole, la mozione è approvata e il suo destinatario deve dimettersi. Tuttavia, dal momento che i ministri di un governo sono espressione della maggioranza parlamentare, è difficile che il Parlamento voti a favore della sfiducia.

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Tornando al caso Santanchè, nelle aziende a suo nome sarebbero stati registrati comportamenti poco trasparenti nei confronti del fisco e scorretti nei confronti dei dipendenti (trattamenti di fine rapporto non pagati a chi è stato licenziato oppure lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore a loro insaputa, facendoli comunque lavorare).

Estratto dell’articolo di Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023.

La gestazione si fa lunga. Camera e Senato continuano a non costituire buona parte delle commissioni bicamerali o di inchiesta previste o annunciate. Persino quelle la cui gestazione è stata accompagnata da grandi discussioni, quelle che in alcuni momenti parevano essere diventate il cardine della democrazia italiana, spesso sull’onda di fatti di vasta risonanza mediatica. 

Mai più senza, dicevano. E invece, sono passati 277 giorni dalle elezioni (9,03 mesi, 39,57 settimane), il tempo necessario a far nascere un bambino. Eppure, a dispetto delle costanti reprimende del presidente della Camera Lorenzo Fontana, ma anche di quelle al Senato di Ignazio La Russa, nulla da fare: i partiti continuano a fare orecchie da mercante. Non forniscono ai presidenti delle due Camere i nomi dei componenti delle commissioni, che dunque non possono essere istituite.

Certo, esiste il problema del taglio dei parlamentari che in questa legislatura ha complicato tutto. Per esempio, le commissioni permanenti del Senato sono passate da 14 a 10.

Inutile chiedere ai parlamentari. Tutti, come un sol uomo, spiegano che il pacchetto è pronto, manca soltanto il via libera formale. E allora, un buon punto di partenza è affiancare l’elenco delle commissioni della scorsa legislatura a quelle dell’attuale, quelle che vanno sotto il nome «bicamerali e di inchiesta».

Alla Camera, erano 19 fino all’anno scorso, ora sono sei. Un terzo, anzi meno. Il tutto, al netto delle commissioni annunciate che in passato non c’erano, prima fra tutte quella sul Covid. Via libera lo scorso aprile tra le proteste delle opposizioni (la commissione non si occuperà delle Regioni, che sulla sanità hanno vastissime competenze). 

Il Terzo polo si era smarcato dal no delle opposizioni, la presidenza dovrebbe andare a Davide Faraone di Italia viva. Se ne sarebbe dovuto parlare mercoledì scorso, e invece nulla: si vedrà la settimana prossima.

[…] 

La lista delle commissioni a bagnomaria è lunga. Per esempio, ancora non è stata istituita la commissione sulla violenza di genere e il femminicidio. Nata il 23 febbraio, giusto ieri sono partite le lettere destinate ai commissari. Pochi segni di vita, ad oggi dalla commissione sull’attuazione dell’accordo di Schengen.

Usciti dai radar anche gli organi parlamentari di indagine nati da fatti rilevantissimi come quello sulla morte di Giulio Regeni. Così come la commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi e per il disastro della Moby Prince. Sempre ieri, invece, è stata votata d’urgenza la commissione sui fatti del Forteto. Resta invece in attesa quella di cui molto si parlò a suo tempo, quella sul sistema bancario, che nella scorsa legislatura era presieduta da Pier Ferdinando Casini. Senza commissione il federalismo fiscale, centrale per la discussione sulle Autonomie regionali.

Giulia Merlo per “Domani” il 26 maggio 2023.

Anche al tempo del governo Meloni, i grandi vecchi della politica rimangono sempreverdi. Uno di loro è Luciano Violante, che negli anni ha lentamente cambiato pelle, dismettendo i panni apertamente politici di ex dirigente prima del Pci e infine del Pd, per vestire quelli di tecnico. Sempre con una sfumatura di parte, ma fortificando le entrature a destra.  

Utili soprattutto ora che il colore dell’esecutivo si è fatto più scuro ed è alla ricerca di referenti e interlocutori non ostili. Non a caso, negli ultimi tempi Violante si è esercitato in articoli e interviste in cui ha allontanato timori sul fascismo, difeso la nomina di Chiara Colosimo al vertice della commissione Antimafia e criticato i contestatori della ministra Eugenia Roccella, al salone del Libro di Torino.  

Del resto, forte anche dell’aura istituzionale di ex presidente della Camera, la voce più ripetuta è la sua ambizione al Quirinale. Oggi fresco ottantaduenne, il bis del suo coetaneo Sergio Mattarella ne avrebbe tenuta accesa la speranza. Proprio questa sua vocazione alla trasversalità lo sta favorendo con il nuovo vento di destra. 

Negli ultimi tempi il suo è stato il nome più richiamato nelle locandine dei convegni d’area, a partire da quelli della fondazione Tatarella dove Violante è intervenuto per ricordare l’ex avversario politico ed è stato accolto più che calorosamente. 

Tanto da essere diventato ormai il jolly per coprire la quota “sinistra” in tavole rotonde istituzionali. Tuttavia, il ruolo di pontiere gli è sempre stato congegnale: a consolidarlo definitivamente come volto avversario ma non nemico della destra fu però un suo discorso del 1996 da neo presidente di Montecitorio, diventato celebre come l’apertura ai «ragazzi di Salò», in cui disse che serviva uno sforzo per capire le ragioni per cui tanti giovani si arruolarono per la repubblica sociale italiana. 

Non tutto il mondo intorno a Meloni, però, ama Violante e una parte di chi viene dalla destra sociale non apprezza ritrovare un ex comunista ma anche ex magistrato così vicino alla stanza dei bottoni. «Non tutti noi si sono dimenticati che Violante diventò Violante anche con le indagini che fece da magistrato su quelle che all’epoca venivano chiamate “trame nere”», dice una fonte dell’ex Movimento sociale di Roma. Violante, infatti, indagò sulla sigla terroristica neofascista Ordine nero e sui campi paramilitari in val di Susa.

Un passato considerato remoto per i suoi estimatori tra cui l’ex collega di toga e amico Alfredo Mantovano, oggi potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio – un’onta incancellabile invece per i più legati alle tradizioni post-fasciste. Il suo rapporto con il governo, però, è un fatto: corroborato anche formalmente con l’investitura – rivelata da l’Espresso – come presidente del Comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale e internazionale. 

Un compito tanto altisonante quanto nebuloso, che però ne certifica il legame con la galassia che ruota intorno a palazzo Chigi. L’attività verrà svolta a titolo gratuito, ma un’entrata fissa per Violante è tornata comunque ad esserci. 

La fondazione 

Dal 2019, infatti, Violante è presidente della fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine, un piccolo paradiso dal bilancio di 3 milioni di euro che ha l’obiettivo di essere «un ponte tra la cultura umanistica e industriale» ed è finanziata dalla super partecipata di stato Leonardo, che si occupa di difesa, aerospazio e sicurezza.

La fondazione è stata voluta dall’amministratore delegato Alessandro Profumo, che ha appena concluso il suo mandato. A lui si deve la chiamata di Violante, il quale per i primi tre anni ha rivestito la carica di presidente a titolo gratuito. Allo scattare del primo triennio e quindi dal 2023, però, è stato lo stesso Profumo a proporgli un compenso – accettato - da circa 300 mila euro per un impegno a tempo pieno.  

Cifra decisamente alta, in linea con quella di un manager d’azienda con responsabilità apicali. Cifra, del resto, in linea con quella che percepisce sempre da un incubatore di Leonardo anche un altro esponente del vecchio Pci, amico di Violante ed ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. 

Nel 2021, infatti, Profumo ha creato un’altra fondazione che fa capo al colosso delle armi controllata dal ministero dell’Economia: Med-Or, che si occupa di intelligence e geopolitica dei paesi che affacciano sul Mediterraneo e del Medio Oriente. A presiederla ha chiamato proprio Minniti in qualità di esperto di sicurezza nazionale e lui, per diventarne presidente a circa 300 mila euro l’anno, a febbraio 2021 l’ex ministro ha lasciato il Pd e il parlamento.

La fondazione Civiltà delle Macchine, con i suoi 3 milioni di bilancio, è un perfetto ingranaggio inserito nella patinata vetrina di Leonardo. La fondazione si occupa di progetti di sviluppo e in questa fase sta investendo moltissimo sulla transizione digitale e sull’intelligenza artificiale, che sono anche il tassello fondamentale per il Pnrr. 

A voler riassumere gli obiettivi in uno slogan spesso usato da Violante, la fondazione si occupa di promuovere «l’umanesimo digitale». In pratica, si traduce in una fitta attività di convegnistica e di valorizzazione dell’immagine della società madre, Leonardo Spa.

Fiore all’occhiello, però, è la rivista “Civiltà delle macchine”. 

Fondata nel 1953 da Leonardo Sinisgalli dentro Finmeccanica e chiusa nel 1979, nel 2019 è tornata su carta in forma di trimestrale. Dal 2020 al 2021, direttore è stato Antonio Funiciello, che ha poi lasciato per diventare capo di gabinetto di Mario Draghi e lo ha sostituito l’ex giornalista Mediaset Marco Ferrante.  

La rivista può permettersi addirittura due direttori: a capo della parte online, infatti, c’è l’opinionista di riferimento del mondo conservatore Pietrangelo Buttafuoco, il cui nome è girato vorticosamente come volto amico del governo da portare in Rai. La fondazione, infatti, ha fatto da incubatore per una quota di personale tecnico che ha ruotato intorno agli ultimi governi. 

Sotto l’ala di Violante è transitato anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, di area leghista ma sostenuto da tutti e tre i partiti. Al momento dell’elezione il suo tratto biografico più noto, dopo quello di avvocato del governatore del Veneto Luca Zaia, era il ruolo di membro del comitato scientifico della fondazione Leonardo. 

Tutto questo, per un bilancio complessivo che risulta a Domani essere di circa 3 milioni di euro: tanti o pochi - soprattutto se ben spesi - a seconda delle prospettive. Certo è che le informazioni sono ben custodite. Dal fascicolo fornito a maggio 2022 all’assemblea degli azionisti di Leonardo, infatti, risulta che il fondo in dotazione assegnato alla fondazione è stato di 120mila euro (il minimo necessario per il riconoscimento della personalità giuridica) e che le principali voci di bilancio sono «costo del personale e costi per servizi».  

Il bilancio completo, però, non viene pubblicato sul sito ma, secondo gli obblighi normativi, solo depositato in prefettura. Se il compenso dei presidenti si equivale, il budget dei due think-tank paralleli è differente. Risulta a Domani che Med-or abbia un bilancio da circa 5 milioni di euro, con l’obiettivo di favorire le relazioni internazionali italiane e «il dialogo costruttivo tra sistemi economici». Circa 8 milioni, sommando le due fondazioni, per rafforzare – dentro e fuori l’Italia – il soft power di Leonardo. 

Estratto dell'articolo di Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 28 giugno 2023.

Comunicare il governo più a destra della storia repubblicana non deve essere facile. L'addio di Mario Sechi, il più rumoroso, è solo l'ultimo di una lunga serie, iniziata praticamente subito dopo l'insediamento di Giorgia Meloni. Portavoce di ministri, capi dell'ufficio stampa o di gabinetto, segretari particolari: evidentemente si aspettavano modalità di lavoro e rapporti professionali diversi [...] 

Il record spetta a Marco Ventura, durato meno di una settimana in qualità di portavoce della ministra dell'Università Anna Maria Bernini. Peraltro, già reduce da una fine burrascosa del suo incarico come consigliere per la comunicazione dell'allora presidente del Senato Elisabetta Casellati.

A proposito della ministra per le Riforme, a fine gennaio è stata abbandonata dal suo capo di gabinetto: Alfonso Celotto, professore di diritto costituzionale, avrebbe dovuto contribuire alla messa a terra del presidenzialismo, ma il carattere difficile di Casellati ha colpito ancora.

In quegli stessi giorni sono arrivate le dimissioni di Gerardo Pelosi, portavoce del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che in un colpo solo ha perso anche la sua segretaria particolare Valentina Colucci. Incomprensioni legate a un annuncio troppo frettoloso sull'accordo con i benzinai, sui cui ci sono versioni divergenti, ma che aveva messo in difficoltà Urso di fronte alla premier Meloni.

Un mese dopo, all'inizio di marzo, sono arrivate altre due dimissioni, quasi in contemporanea. Quelle di Giovanni Sallusti (nipote del direttore di Libero Alessandro), che ha lasciato il posto da portavoce del ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara. E quelle di Marina Nalesso, giornalista nota per aver condotto il Tg2 con un vistoso crocifisso attaccato al collo, che ha rinunciato a fare da portavoce al ministro della Cultura (e suo ex direttore in Rai) Gennaro Sangiuliano. 

[...] 

L'ultima a mollare, in questi giorni, è stata Nicoletta Santucci: dopo soli tre mesi, ha salutato Daniela Santanché e il ministero del Turismo. Professionista con una certa esperienza alle spalle, già portavoce di Lorenzo Guerini ministro della Difesa, Santucci forse ha colto qualche segnale negativo sulla vicenda che ha travolto Santanché.

[...] 

Il prossimo a fare gli scatoloni, salvo sorprese sarà appunto Sechi, il cui rapporto con Meloni e con la sua cerchia ristretta non è mai davvero decollato. Per lui, dopo tre mesi complicati nei corridoi di Palazzo Chigi, si profila la poltrona di direttore di Libero. Sempre meglio che fare il portavoce.

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 giugno 2023.

Caro Dago, ti confesso che mi sento come in difficoltà nei tuoi confronti, nel senso di non sentirmi all'altezza dell'impegno professionale che ho verso di te. 

Ossia scriverti qualcosa che interessi i tuoi lettori, qualcosa che stia accadendo nell'Italia in cui noi tutti viviamo, scriverti ad esempio qualcosa sulla situazione di un ministro del governo Meloni che ha un bel carico di debiti non pagati nei confronti dello Stato. 

Non ci riesco proprio a scrivertene, perché penso sia robetta che accada tutti i giorni in Italia. Per quanto mi riguarda in questi ultimi trent'anni credo di averci rimesso trenta o quarantamila euro di prestazioni professionali mai pagate. Inezie, così stanno le cose nella società reale del nostro tempo.

Il punto semmai è come mai quel tale è divenuto un ministro (un ministro donna) nell'Italia del terzo millennio, quando tutto è nuovo e inedito. Riuscite a dirmi un solo motivo e una sola prerogativa per cui Daniela Santanché, alla quale auguro ogni bene, è divenuta un ministro del governo Meloni? 

Riuscite a dirmi un solo motivo per cui noi cittadini della Repubblica dovremmo oggi accalorarci a suo favore o disfavore, tirarle calci negli stinchi oppure dirne che è una brava persona eccetera? Io non ne vedo alcuno, è tutta robetta da quattro soldi.

Il fatto è che la mia generazione addivenne alla passione per la cosa pubblica quando i protagonisti della politica partitante italiana si chiamavano Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Filippo Maria Pandolfi, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, Pietro Nenni, Riccardo Lombardi, Giovanni Spadolini, il Randolfo Pacciardi che s'era guadagnato tre medaglie al valor militare nella Prima guerra mondiale e che avevano denominato "il comandante" da come aveva difeso Madrid dall'attacco delle truppe franchiste. Più tardi tipi alla Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Achille Occhetto e ne sto dimenticando. 

Vi sembrano paragonabili ai misirizzi di oggi, appartengano al movimento Cinque stelle o al partito della Giorgia Meloni o altro? Riuscite ad appassionarvi ai loro itinerari o alle loro parolette da quattro soldi anche quando toccano argomenti cruciali quali la devastazione provocata dalla diffusione del consumo di droghe nella società reale del nostro tempo?

Riuscite ad appassionarvi a qualcuna delle loro esternazioni? Sì o no avete l'impressione di avere a che fare con congreghe di mentecatti che nella professioni che contano non avrebbero potuto fare niente di meglio? Avreste sì o no affidato il vostro cane a qualcuno della truppa parlamentare del partito inventato da Beppe Grillo? 

A parte la simpatia e il rispetto umano, c'è qualcosa che vi interessa sia pur minimamente in ciò che dice Elly Schlein, sovrana del partito un tempo guidato da Togliatti e da Enrico Berlinguer? A me non pare possibile. Assolutamente no. No, no, no.

Def, sciatteria più che congiura, ma il baco è nel sistema. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Aprile 2023

La storia repubblicana è stata fitta -fin troppo, si dirà- di governi caduti in imboscate parlamentari, di candidati presidenziali impallinati a pochi metri dal traguardo quirinalizio, e anche di nobili contese in nome di quella che un tempo si chiamava la centralità delle Camere

di Marco Follini

Laddove c’era una volta la congiura ora sembra piuttosto esserci la sciatteria. Non più gli agguati dei parlamentari scontenti, le grandi manovre delle correnti di maggioranza, i segnali di oscure trame politiche destinate a cambiare gli equilibri di governo. Semmai la neghittosa e svogliata partecipazione a una disciplina parlamentare sempre meno sentita e sempre più sofferta. La sciatteria, per l’appunto.

L’’innocenza’ degli assenti suona come una colpa di tutto il sistema politico. E autorizza perfino qualche nostalgia per le grandi e discutibili spregiudicatezze del tempo che fu. Le cronache del passato rimandano a stagioni parlamentari assai più vivaci. Non prive di qualche tratto più torbido, peraltro. Era la stagione dei cosiddetti franchi tiratori, deputati e senatori a cui i capi delle fazioni dell’epoca suggerivano voti difformi dalla disciplina di partito e di governo. Segnalando così la necessità di rinegoziare i patti politici. Pratica tutt’altro che commendevole, si dirà. Dato appunto che tutto avveniva nell’ombra, senza mai assumere la responsabilità di un esplicito dissenso.

E poi, di tanto in tanto, c’era la rivolta dei “peones”, quei deputati e senatori di quarta fila che si mettevano apertamente di traverso disobbedendo ai loro capi in nome della loro funzione di liberi rappresentanti del popolo. Una ribellione alla luce del sole che segnalava la necessità di aggiornare l’agenda del potere e finiva per costringere i leader dell’epoca ad allargare la platea dei decisori destinati a contare qualcosa.

La storia repubblicana è stata fitta -fin troppo, si dirà– di governi caduti in imboscate parlamentari, di candidati presidenziali impallinati a pochi metri dal traguardo quirinalizio, e anche di nobili contese in nome di quella che un tempo si chiamava la centralità delle Camere. Nei lontani anni settanta Gerardo Bianco, il mitico e assai mite capo della pattuglia dei più anonimi parlamentari democristiani, tenne in scacco il suo stesso partito facendo saltare l’elezione del capogruppo che era stato designato dalle potentissime correnti dell’epoca.

Storie vecchie, consumate dal tempo che è passato. Storie che però rimandano a un’epoca nella quale deputati e senatori erano rappresentativi, curavano il loro elettorato, sapevano di contare anche a dispetto del loro apparente anonimato. Anche allora ci si lamentava dello strapotere delle elite partitocratiche. Ma c’era poi una sorta di consapevolezza diffusa del valore di quell’equilibrio di poteri che regolava tutto il meccanismo della nostra complicata sfera pubblica.

Da allora sono successe due cose che hanno inceppato quel meccanismo. La prima è stata il varo di una legge elettorale (il Porcellum, nel 2006) che espropria i cittadini di ogni voce in capitolo sulla scelta dei loro rappresentanti. La seconda è stata la riduzione del numero dei parlamentari, come a significare la loro progressiva irrilevanza. L’intero equilibrio dei poteri è stato così sconvolto. E quei deputati e senatori che già contavano meno in virtù dell’accentramento di potere indotto dalla globalizzazione dell’economia si sono trovati per due volte di più ai margini del sistema. Troppo deboli per farsi ascoltare dai ministri, troppo lontani per farsi riconoscere dagli elettori

Serve a poco invitare i singoli parlamentari, nel loro stesso interesse, ad essere appena più diligenti e appropriati nello svolgimento di quei compiti che dovrebbero svolgere “con onore e disciplina” come si usa dire. Il baco è nel sistema, ed è da lì che andrà stanato, prima o poi. Redazione CdG 1947

Defilati la vera storia. Domenico Pecile su L'Identità il 29 Aprile 2023

Dopo l’autogol della maggioranza che per sei voti è andata sotto in aula impedendo lo scostamento di bilancio di 3,4 miliardi (i fondi sarebbero stati utilizzati per il taglio del cuneo fiscale e per il decreto lavoro il 1 maggio), è arrivato ieri pomeriggio il disco verde sia della Camera sia del Senato al Def nonostante la bagarre che ha fatto da contorno alle votazioni (alla Camera i lavori erano stati anche sospesi per un malore di Bonelli). Alla Camera i voti favorevoli sono stati 221 e 116 i contrari. L’Aula del Senato ha dato il suo sì con 112 voti favorevoli, 57 contrari e nessun astenuto; l’altro ieri i voti favorevoli erano stati 110, 59 i contrari e 4 le astensioni. E lo scivolone della maggioranza sempre dell’altro ieri, ha fatto cambiare la posizione del Terzo polo sullo scostamento di bilancio al Senato: ieri ha dato un voto contrario a differenza dell’altro ieri quando sei senatori avevano votato sì alla relazione sullo scostamento e no alla risoluzione di maggioranza sul Documento di economia e Finanza. Al Senato a scaldare gli animi è stato l’intervento della senatrice Michaela Biancofiore (Cdl) che ha ammesso che “ieri alla Camera la maggioranza non ha fatto una bella figura, ma non l’ha fatta nemmeno l’opposizione che ora si accinge e dare fuoco alle polveri gettando fango sul Parlamento”. Parole che hanno innescato una forte reazione levatasi dai banchi dell’opposizione. “Credo che dagli errori si impara. Quindi spero per il futuro che non si ripetano situazioni simili”, è stato invece il commento del ministro all’Economia, Giancarlo Giorgetti. Secca anche la controreplica del leader dei Pentastellati, Conte: “L’approvazione di oggi non toglie nulla alla pagina che questa maggioranza ha scritto ieri, l’ennesima dimostrazione di incapacità”. E a difesa della maggioranza è intervenuto il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti. “Abbiamo sentito che noi abbiamo disfatto l’economia italiana. L’Istat – ha sottolineato – certifica che nel primo trimestre di quest’anno il Pil è aumentato dello 0,5%, più di Germania e Francia. Sono questi i dati che qualcuno non vuole dire, ma questi sono dati neutrali. Io non cito i dati del governo ma quelli neutrali dell’Istat”: Foti ha poi aggiunto che sul Pnrr nessuno cita la relazione della Corte dei conti, “che è un’altra fonte neutra”, del 2023 in cui “si certifica che i 20 miliardi di euro che dovevano essere spesi nel 2020-2022 sono stati spostati al biennio 2022-2024 perché non si potevamo spendere da parte del governo in carica. Noi non è che non accettiamo le critiche, ne facciamo tesoro, ma un governo in carica da 180 giorni non può risolvere tutti i problemi, soprattutto quelli ereditati”. Immediata la replica del deputato Dem, Emiliano Fossi. “Il presidente del primo gruppo parlamentare nazionale, Tommaso Foti, è riuscito – ha tuonato – a incolpare l’opposizione per le assenze dei deputati nei partiti di maggioranza. Ha ragione il ministro Giorgetti, non è un problema politico, è soltanto sciatteria, incapacità di governo, mancanza di rispetto per le istituzioni e per i problemi degli italiani”. Ma il botta e risposta con Foti ha riguardato anche il fatto che a suo avviso “alcuni quorum funzionali per rendere efficaci le votazioni sono stati stabiliti quando alla Camera c’erano 630 deputati e adesso 400 e questo è un problema riferito soprattutto agli incarichi di governo”. Parole che per l’opposizione significano voler cambiare in corsa le regole della democrazia. Parole di scusa per istituzioni, partiti e cittadini sono arrivate dal senatore della Lega Massimo Garavaglia: “Quando si sbaglia semplicemente si chiede scusa. Scusa al presidente Meloni e al ministro Giorgetti, perché il Governo non c’entra nulla; scusa all’opposizione che merita rispetto e scusa ai cittadini che dal Parlamento si aspettano che risolva i problemi e non polemiche”. E sulla vicenda non poteva mancare l’opinione del premier Meloni, arrivata dal punto stampa dell’ambasciata italiana a Londra. “Credo – ha sottolineato – che dobbiamo fare i conti con il fatto che il taglio dei parlamentari incide perché il doppio incarico rende più facile che in Aula manchino i voti”. Per il premier bisogna allora parlare con i capigruppo e trovare un modo per garantire che si riesca a fare il doppio lavoro, “lavorando di più se necessario perché purtroppo riguarda tutti ma non prevedo l’ipotesi di sostituzioni di doppi incarichi, credo che il Governo stia lavorando bene è non è nelle mie intenzioni adesso assolutamente rivedere qualcosa”. Poi, l’esortazione finale: “Bisogna però garantire i numeri”. “Di fronte alle assenze del centrodestra in aula nel voto durante il ponte del Primo maggio, che dire? Open to meraviglia”, è stato invece l’ironico commento del capogruppo del M5S in Senato, Stefano Patuanelli. “E mentre il centrodestra non lavora – ha aggiunto – si convoca un consiglio dei ministri per il 1 Maggio, obbligando molti lavoratori a lavorare quel giorno, e convocando i sindacati il giorno prima”. Il riferimento è al fatto che il Consiglio dei ministri è convocato per lunedì 1 maggio, alle 10, a palazzo Chigi. A quanto si è appreso all’ordine del giorno c’è un decreto legge con misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro e in materia di salute. Tra i provvedimenti all’esame, anche un disegno di legge in materia di lavorio e un decreto legislativo in attuazione della Delega al Governo in materia di disabilità del 2021.

Estratto dell'articolo di Fabrizio Roncone per corriere.it il 29 aprile 2023.

Mai viste tante orecchie basse in Transatlantico. E facce biancastre. E parlamentari che biascicano scuse come pinocchi ubriachi.

L’ordine, tra i ranghi della maggioranza, è: minimizzare.

Alla buvette s’avvicinano e soffiano il loro mantra: può succedere di non avere i numeri necessari per approvare questo benedetto scostamento di bilancio, ma comunque tra poco rivotiamo, e buonanotte. 

Chiacchiere: un pasticciaccio così brutto è inammissibile. Tanto più sei hai la presidente del Consiglio che è a Londra, a Downing Street, a incontrare per la prima volta il premier britannico e a rassicurare — come sempre accade quando Giorgia Meloni va all’estero — i mercati, sospettosi, e propensi a esserci ostili.

Ecco, appunto: c’è qualcuno di voi che ha parlato con la Meloni? (furibonda, ha preteso l’elenco dei 25 assenti ingiustificati di giovedì pomeriggio: 11 della Lega, 9 di FI, 5 di FdI). 

(...)

Il cronista di un’agenzia ha il compito di verificare se, gli assenti di ieri, oggi si sono presentati (notare che, nel corridoio davanti all’ufficio postale, giacciono cinque trolley: si ipotizza pieni di calzoncini e bikini, pinne, creme abbronzanti. Ponte del primo maggio già mezzo saltato e molti parlamentari — anche della minoranza — bofonchiano perché essere costretti a lavorare pure di venerdì, con un sole così giaguaro lì fuori, fa proprio male).

Comunque: confermato che il forzista Luca Squeri non c’era perché a Reggio Calabria doveva consegnare un encomio a un vecchio presidente dell’associazione benzinai (sembrava una fake news) e che il suo collega di partito, Francesco Maria Rubano, stava barricato in bagno («Una colica improvvisa, fitte terribili»: inverificabile, bisogna fidarsi). L’Umbertone Bossi aveva spedito il certificato medico. Il sottosegretario all’Istruzione, Rossano Sasso, continua a giurare: «Non sono riuscito a votare per trenta secondi». Voce di poco fa: sembra stia per arrivare persino il leghista Antonio Angelucci, che di solito viene avvistato con la frequenza di un Amazilia dell’Honduras (presente a una votazione ogni cento: nel genere, un fuoriclasse).

Certezze: capigruppo sotto accusa per non aver saputo controllare le truppe (ai bei tempi andati di FI, il Cavaliere aveva affidato il comando della fanteria al temibile Denis Verdini: criniera bianca e orologio d’oro massiccio come i gemelli della camicia, scarpe di velluto tipo Briatore e voce cavernosa tipo ruggito, una volta tenne tutti i deputati in Aula per due ore, impedendo a chiunque anche di andare al bagno). Al posto di Verdini adesso c’è Paolo Barelli. Riccardo Molinari della Lega, leggermente — diciamo così — teso («Le nostre assenze uno sgambetto a Giorgetti? Ma le pare? È un nostro ministro, lo sosterremo sempre. Piuttosto, guardi: a voler essere severi con noi stessi, è stata sciatteria organizzativa». Il Fratello capogruppo Tommaso Foti, invece, se la tira: dei suoi mancavano solo in cinque (tra cui tre ricoverati).

Foti, oggi, compie 63 anni. Ed è chiaro che un po’ gli scoccia mettersi in ginocchio sui ceci. La capa, però, gli ha dato ordini precisi. Così, nelle dichiarazioni di voto, in Aula, prende la parola e dice: «Chiediamo scusa agli italiani…». Poi, di suo, aggiunge: «… e al presidente del Consiglio». Sembra tonda: hai fatto un casino, chiedi scusa. Fine. E invece Foti non si tiene: e comincia ad accusare l’opposizione. «Chi ci viene a dare lezioni di istituzioni, guarda caso proprio ieri ha scelto l’Aventino in commissione Giustizia solo perché si era presentato il sottosegretario Delmastro nel pieno delle sue funzioni!» (per spiegarvi chi è e di cosa è sospettato Delmastro, servirebbe una pagina intera: ma se cercate su Google, risolvete).

Segue scambio di insulti (nel frattempo, è pure svenuto il verde Angelo Bonelli). Dai banchi della maggioranza: «Fuori! Fuori!». Quelli del Pd cominciano a uscire. Tutti. Tranne uno: Nico Stumpo. Un calabrese tosto che, minaccioso, punta diritto verso gli scranni della maggioranza vestito come un vecchio comunista, jeans e giaccastra blu mezza lisa, si suppone disgustosa agli occhi della segretaria Elly Schlein, la quale a Vogue (rivista preferita dalla classe operaia), in un’intervista esclusiva, ha appena confessato di affidarsi (300 euro ogni seduta) a un’esperta di armocromia, l’arte di abbinare i vestiti alla carnagione.

I commessi hanno poi bloccato Stumpo.

La Schlein ha sorvolato sulla giacca del suo deputato.

Lo scostamento di bilancio, dopo mezz’ora, è stato approvato.

Botanica.

Il centrodestra vuole nascondere il curriculum e il casellario giudiziale dei politici. Simone Alliva su L’Espresso il 4 Aprile 2023

Una proposta di legge depositata da Noi moderati, partito della maggioranza, punta ad abolire questo strumento di trasparenza nei confronti degli elettori: “Viola la privacy”

Troppa trasparenza la pubblicazione dei curriculum e del casellario giudiziale degli aspiranti onorevoli a ridosso del voto? Troppa, trova Giuseppe Bicchielli, deputato di Noi Moderati (il piccolo partito di maggioranza di Maurizio Lupi). Così ha presentato una proposta di legge composta da solo un articolo che interviene sulla cosiddetta “Spazzacorrotti” dell’ex ministro della Giustizia del M5S Alfonso Bonafede. Bicchielli punta ad abrogare l’obbligo per i partiti che oggi prevede la pubblicazione di tutti i casellari giudiziali e dei curriculum dei candidati sul proprio sito e di inoltrarli al ministero dell’Interno che li pubblicherà “in maniera accessibile” nella sezione “Elezioni trasparenti” sul proprio portale.

Una pubblicazione che, sottolinea il proponente, non passa per «il consenso espresso degli interessati», e non definisce neanche il «lasso di tempo entro cui tali dati debbono rimanere pubblicati sul sito web del partito/lista elettorale». Violazione della privacy, dunque. Il deputato di Noi Moderati, ha dichiarato anche all’Adnkronos che curricula e casellario giudiziale non siano «richiesti all’atto di accettazione delle candidature e, pertanto, non sono necessari ai fini della convalida delle stesse». Per questo il documento rilasciato dalle procure della Repubblica che certifica le condanne passate in giudicato e, nel caso, le relative pene accessorie (come l’interdizione dai pubblici uffici) va nascosto.

La proposta di legge è stata soltanto depositata al momento ma, come scrive Il Fatto Quotidiano, potrebbe scivolare nella riforma della Giustizia che il ministro Carlo Nordio presenterà tra fine aprile e inizio maggio, per via parlamentare.

Dall’opposizione si leva per adesso soltanto la voce del Terzo Polo: «Io trovo che, una volta stabilite le regole, sia giusto che i cittadini sappiano se un candidato è condannato – dice il deputato di Azione Enrico Costa – va invece cambiata la legge Severino che incide sull’incandidabilità per i condannati».

Duro l'ex presidente della Commissione Antimafia ed ex senatore M5S Nicola Morra «Siamo proprio alla frutta commenta all'Adnkronos - Se sei un uomo che ambisce a rivestire cariche pubbliche devi sottoporti a obblighi di trasparenza, perché in molti casi vai a gestire i denari dei contribuenti. Questo è proprio l'Abc».

Specchio rotto. Tutto quello per cui nell’Italia bipopulista si vincono le elezioni è falso. Carmelo Palma il 22 Marzo 2023 su L’Inkiesta.

L’emergenza migranti, l’austerità, la casta, le pensioni, il problema sicurezza. Sono tutte menzogne che vengono ripetute ciclicamente da anni e che permettono ai bipopulisti di vincere le elezioni. Questo eterno ritorno finirà mai?

Ha ragione Francesco Cundari: l’infinita e immobile transizione politica italiana non è mai iniziata e mai finita e chiunque si fosse pesantemente addormentato nel 1993, risvegliandosi trent’anni dopo, troverebbe un mondo uguale a quello su cui aveva chiuso gli occhi. Le stesse parole d’ordine: il presidenzialismo, il federalismo, la riforma fiscale e della giustizia, quella delle pensioni e del mercato del lavoro, fino al Ponte sullo Stretto.

La stessa tensione di un Paese sempre più uguale a sé stesso e, allo stesso tempo, sempre più ansioso di rovesciarsi in una sembianza diversa, che né gli appartiene, né gli assomiglia. Una sembianza di serietà e di rigore, di pazienza e di coerenza, di concretezza e fattività.

Che però la politica italiana sia un continuo movimento senza spostamento, un frenetico e convulso ripudio di sé nella comfort zone dell’eterno trasformismo italiano è una verità che dice molto, ma non tutto della crisi della nostra democrazia. C’è di più, c’è di peggio.

Tutto quello per cui nell’Italia bipopulista si vincono le elezioni è falso. Da decenni in Italia le elezioni si vincono non solo promettendo qualcosa che non può essere mantenuto, ma battagliando contro i fantasmi della frustrazione e gli alibi del fallimento.

Si vincono contro gli stranieri che sono troppi, ma sono invece troppo pochi, che non ci stanno invadendo ma se ne stanno, anche loro, andando, come molti dei “nostri figli” a cui avrebbero rubato il posto.

Si vincono contro il liberismo e contro il giogo dell’austerità, anche se la pressione fiscale è al 43,5 per cento e la spesa pubblica al 54,3 per cento del Prodotto interno lordo.

Si vincono lamentando la lesina dell’Europa matrigna e stiamo da anni a galla aggrappati ai salvagenti della Commissione europea e della Banca centrale europea.

Si vincono contro la criminalità, anche se i reati continuano a diminuire. Si vincono contro Elsa Fornero e la sua riforma delle pensioni, che nessuno ovviamente è in grado di cambiare, senza finire come Bernard Madoff, ma solo di sabotare per il tempo sufficiente a passare all’incasso coi pensionandi di legislatura.

Si vincono contro i vitalizi e i privilegi della Casta, l’argent de poche della nostra democrazia di scambio, anche dopo che i vitalizi sono stati aboliti e il Parlamento mutilato.

Si vincono contro la dittatura delle multinazionali, che ad avercene di più – e non ne abbiamo – sarebbe un guadagno e per la difesa delle nostre piccole imprese, che invece se ne avessimo un po’ meno e un po’ meno piccole – ne abbiamo invece di infinite e infinitesimali – sarebbe davvero una svolta. 

E ovviamente si vincono contro il fascismo e il comunismo che non ci sono più (quello di Benito Mussolini e Palmiro Togliatti, di Giorgio Almirante e di Enrico Berlinguer) e strizzando l’occhio ai fascisti e ai comunisti che invece ci sono ancora, in un tripudio di fascinazioni, spesso bipartisan, da Pantheon degli orrori.

Winston Churchill diceva che la Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma (con Putin, ammettiamolo, ora è tutto più chiaro: è un banalissimo stato criminale – ma questo è un altro discorso). L’Italia è un’ossessione avvolta in un falso, che sta dentro a una menzogna. La speranza di miglioramento di quello che si è surrogata da un’ansia di risarcimento per quello che non si è più. Le scelte che ci hanno portato fino a qui sono state tutte democratiche e spesso consociative e, sempre, tanto più popolari, quanto più rovinose. Davanti a queste rovine, l’Italia politica più che invocare la salvezza, proclama la propria innocenza.

Il bipopulismo, alla fine, è la vera unità nazionale del malcontento e dell’impostura. È lo specchio rotto, per frantumare l’immagine riflessa di una verità inaccettabile.

Querce, ulivi, edere: la politica è botanica, connubio spesso non in buona fede. Il Biancofiore, le spighe e tanti altri simboli fanno parte del regno vegetale e s’insinuano... tra cicorie e fave. MICHELE MIRABELLA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 febbraio 2023

È voga ormai accertata quella di combinare la politica con la botanica, almeno nell’onomastica e nelle metafore sbrigative dell’oratoria comiziante.

È trascorso il tempo delle simbologie magniloquenti, la stagione antica delle Aurore sociali, dei Fasci contundenti, delle alacri Ruote dentate, dei muscolosi Proletari con Falci minacciose E Martelli spietati, delle Spade eloquenti e delle battagliere Aquile spadroneggianti su destini fatali e delle immancabili Vittorie alate. E non saprei confermare che la Repubblica Italiana, nella iconizzazione della tipografia dello stato perduri quella austera matrona armata di lancia, assisa sul trono con la corona turrita che figurava delle cambiali e su qualche francobollo. Da ragazzo, dunque, fui portato a pensare che, per far politica in Italia, bisognava fraintendere il Carducci ed essere retorici fino alla sazietà e, per far debiti, occorreva l’avallo di una Repubblica austera e implacabile.

Tutto questo, cambiali pagate e incendiate, nella parte dell’icona italica, riposa illacrimato nel patetico baule della paccottiglia con i merletti pazienti di Zia Caterina e la collezione delle cartoline illustrate con le vedute di Chianciano e la stazione di Abano. Nel sobrio turismo dei nostri antenati prevalevano le terme. E prevaleva una fantasia dislocata a metà tra tenerezze gozzaniane e truculenze dannunziane. Da questo derivava una simbologia politica altera di retorica ginnasiale e un poco tronfia, ma efficace a raccontare per la Storia e, non ancora, per la televisione.

Il connubio tra politica e botanica, invece, è recente e ambisce ad una bonarietà interessata e, spesso, non in perfetta buona fede. Ed ecco le Spighe, le Rose, il vecchio, caro Garofano, il Biancofiore, le Querce, l’Edera antica, le Stelle Alpine regionali e da gruppo misto. Abbandonato l’obsoleto Alloro, da ultimo trasferito dalle fronti dei magnanimi poeti ai fegatelli di maiale, scartati il gentile gelsomino, il ceduo mughetto e la tuberosa, destinati ad altri, più intimi usi o alle acque di colonia, come la verbena e la tuberosa, la scelta si fa ogni giorno più difficile per i nuovi, tanti partiti che il fallimento dell’impraticabile bipolarismo italiano sforna ogni giorno con insistenza.

Lo seppero bene quelli della destra che, anni or sono, optarono per una dolce e inerme Coccinella che tentò di sostituire Lupe bellicose e Aquile militanti. Non fu un successo, anzi: la coccinella arrancò e non passò la stagione. Stessa sorte toccò all’elefantino. Il pachiderma in dimensione vezzeggiativa non diede lo sviluppo e non ebbe mai le zanne. Oggi gli epigoni hanno più successo benché ripropongano nel simbolo, funebri fiamme. Altri, sempre a destra (forse) incitano quello che credono essere non un popolo, ma dei tifosi.

Va da sé che a nessuno verrebbe in mente di ricorrere ad alberi ad alto fusto come il pino ad ombrello e l’abete, già titolari di altri prodotti come il Vesuvio a Napoli e lo sciroppo al mugolio o al troppo allusivo cipresso e dopo che i più adatti sono stati cooptati già da due formazioni antiche e nuovissime al tempo stesso: Quercia e Ulivo.

A me, che tra gli ulivi sono nato, sembra che spetti una specie di diritto d’autore come a tutti i Pugliesi i quali furono molto più preoccupati della crisi dell’Olivo che non di quella dell’«Ulivo», con tutto il rispetto per questi uomini alacri e tenaci che, oggi decidono il proprio domani. Il futuro sarebbe troppo. Intanto la crisi dell’ulivo albero, oggi, mi angoscia ancora.

Ci fu il momento del fruttivendolo. Si arruolò la cicoria. Il saggio Rutelli, in un discorso di quasi venti anni or sono, a Monopoli, la propose come sobrio pasto e ancor più sobria metafora dell’asciutta programmazione politica della Margherita, in pochi minuti, invase l’immaginario collettivo dopo essere stata l’umile protagonista di tanti deschi contadini. Quale l’universo simbolico cui rinvia il vegetale fibroso? Ai più anziani ricorda anche il disgustoso sostituto del caffè bellico da tessera annonaria. Ai moderni palati suggerisce rudi diete, sane e coraggiose astinenze, frementi e silenziose vigilie, ma, soprattutto la grama attesa di tempi migliori e un provvidenziale rimedio per la stitichezza.

Ma, poi, abbiamo notizie precise sul tipo di cicoria menzionata? Il botanico ne annovera numerose, la massaia ne riconosce almeno tre o quattro, l’intenditore predilige quelle selvatiche da raccogliere nei prati incolti e da spadellare con l’aglio dorato nell’olio. (a proposito, a quando un partito dell’aglio?). E non sarebbe auspicabile anche l’alleanza politica e gastronomica della cicoria con le fave? In Puglia non ci lasceremo sfuggire il gustoso e sanissimo connubio. Ma se la cicoria ha trovato casa simbolica, le fave stenteranno, lo so. Nonostante il grottesco autolesionismo del centro-sinistra sia incoercibile, non mi riesce di intravedere all’orizzonte politico una formazione detta della «fava» o della «favetta». Immagino, piuttosto, fazioni pronte a sbandierare le cime di rapa o «riso, patate e cozze». Si perde lo stesso, ma, almeno, si mangia bene. Molto meglio che nella trattoria Cinque Stelle.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

E se l'underdog fosse già diventato il watchdog dell'Europa? Tanto per restare all'anglicismo scelto da Giorgia Meloni il giorno della fiducia in Parlamento: la sfavorita che diventa il cane da guardia dei conti e degli equilibri di Bruxelles.

 A ripercorrere i primi cento giorni del governo guidato dalla leader di Fratelli d'Italia, che cadranno il 30 gennaio, la parabola sembrerebbe proprio questa. Nulla di nuovo. Tutto già visto in Italia. Dove la marcia in più di chi entra nel palazzo di governo è la retromarcia, e i fiammeggianti propositi di quando si è all'opposizione si spengono, uno dopo l'altro.

[…] Questi cento giorni di giravolte e ripensamenti cominciano con un battesimo speciale, sulla giustizia. Sull'ergastolo ostativo. Durante il governo Draghi, Meloni si oppose al compromesso raggiunto dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Troppo poco, disse, astenendosi al momento del voto: troppo poco per chi a destra aveva fondato la propria storia sull'emozione di rabbia provata di fronte alla strage mafiosa di Capaci. Passano pochi mesi, passano le elezioni, Meloni siede a Palazzo Chigi.

 Prima conferenza stampa, primo passo indietro. Il governo di FdI dà il via libera alla riformulazione dell'ergastolo ostativo che FdI aveva respinto. Lo fa per scelta obbligata, per fretta: dopo pochi giorni sarebbe scaduta la tagliola imposta al Parlamento dalla Consulta. È solo l'inizio.

[…] La sovranista Meloni che non voleva le trivelle nei mari d'Italia («un regalo alle lobby») è diventata la principale sostenitrice del gas patrio già durante il discorso programmatico […]

 Come per le accise sulla benzina. Gli archivi ai tempi dei social sono impietosi. Spunta un video del 2019 in cui la futura premier si faceva beffe delle vecchie imposte risalenti anche a 70 anni fa, promettendo un taglio netto una volta che FdI avrebbe conquistato il governo.

Anche nel programma con cui il partito si lancia verso la vittoria del 2022 è scritto che il taglio ci sarà. Condizionato a maggiori entrate, ma ci sarà. E invece: lo sconto previsto da Draghi sulle accise va a scadenza al 31 dicembre e non viene rinnovato.

La risposta è quella di prima. Il contesto: «Non sfugge ai più che il mondo è cambiato rispetto al 2019 e stiamo affrontando una situazione emergenziale. Io non ho promesso di tagliare le accise sulla benzina in questa campagna elettorale perché sapevo in che situazione mi sarei trovata». […]

 [+ …Il caso più eclatante è la norma sul limite all'utilizzo obbligatorio del Pos. La destra lo vuole portare a 60 euro. E annuncia che lo farà in manovra. Un'enormità che secondo la Commissione europea rischia di vanificare la lotta all'evasione, prevista come obiettivo del Pnrr.

 Bruxelles soffoca la norma sul nascere, ma questo non impedisce a Meloni di scatenare il sempre vigile e fidato Fazzolari contro Bankitalia, accusata di favorire le speculazioni delle banche. Fino alla capitolazione. […]

Nel rapporto con l'Europa c'è un po' il senso della svolta che sta tentando Meloni, da fiera erede della fiamma post-fascista a conservatrice del nuovo Millennio. Non urla più contro l'Unione europea dei «burocrati franco-tedeschi» che schiacciano il tacco sulla debole Italia. L'amore per l'autocrate di Budapest Viktor Orban si è un po' appannato. Sceglie Bruxelles e le istituzioni europee per la sua prima visita ufficiale, e non le capitali dei duri di Visegrad. Entrata a Palazzo Chigi, Meloni ha scoperto quanto sia necessario muoversi lungo l'asse Parigi-Berlino.

[…] Come per incanto, l'Europa è diventata per Meloni un interlocutore con cui dialogare volentieri, senza avventurarsi sull'extradeficit come qualche tempo fa, non troppo tempo fa, prometteva di fare. Il sovranismo ha trovato la sua nemesi e il suo paradosso. Oggi è la Germania a chiedere meno vincoli sugli aiuti di Stato alle imprese, e l'Italia cerca alleati per strutturare un nuovo fondo sul modello del Recovery contro la pandemia, e non restare impiccata al proprio debito.

 Con l'Europa Meloni – un tempo anche no-euro – si deve rimangiare tutto o quasi.Il blocco navale per fermare il flusso dei migranti è già diventato altro. […] Ora tocca al Mes e alle concessioni balneari. Basta inserire una delle due parole online per imbattersi facilmente nella gemella sovranista di Meloni.

[…] Nella costruzione del Grande Nemico, in questi anni, la leader ha avuto una certa predilezione per la grande finanza internazionale, per George Soros, immancabile bersaglio, per i banchieri che avrebbero allungato gli artigli «sull'oro del popolo italiano».

 Ebbene, come nuovo direttore generale del Tesoro ha scelto Riccardo Barbieri Hermitte, una carriera passata tra J. P. Morgan, Morgan Stanley e Merril Lynch. Segno che anche sulle nomine non c'è stata una polverizzazione delle relazioni di sistema, e i profili vengono scelti sempre con un occhio rassicurante rivolto all'Ue.

  La politica italiana è un romanzo di realismo magico. Nello specchio in cui la leader si riflette, Meloni di un tempo svanisce e al suo volto si sovrappone quello di Draghi, confondendosi in esso. «Cara Europa, la pacchia è finita», disse la futura premier in campagna elettorale, e lo fece un po'per risvegliare le pulsioni di un tempo. Ma sapeva già che a Bruxelles stavano pensando la stessa cosa, riferendosi a lei.

Retromarcisti.

La carica dei retromarcisti. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Da destra a sinistra, i politici come i gamberi: l’orizzonte è dietro le spalle

Retromarcia su Roma. Tra molte promesse, Matteo Salvini voleva abolire il canone Rai, la legge Fornero e azzerare l’Iva sui beni di prima necessità; per ora ha preferito ripiegare. Giorgia Meloni ha fatto un passo indietro sulle accise, sul Mes («la pillola avvelenata del Mes»), sul tetto dei contanti. Le poche risorse hanno costretto la maggioranza a cancellare le proposte bandiera fatte durante la campagna elettorale: una giostra di dietrofront sotto il segno dell’arretrare.

Indietro, c’è posto! Le retromarce su Roma raccolgono una folta schiera. Maurizio Gasparri cerca di fermare sul bagnasciuga la direttiva Bolkestein, per arretrare la scadenza di legge sulle concessioni balneari (dicembre 2023). Per evitare l’ennesimo avvitamento e guardare avanti, il Pd litiga ancora su Renzi e si rimangia il calendario del congresso. Le primarie, ultima tappa di un’assise autolesionistica, slittano di una settimana. Dal mattino alla sera, il duo Fratoianni & Bonelli ha fatto marcia indietro su Aboubakar Soumahoro. È una politica votata all’indietrologia, la scienza occulta del passo a ritroso.

I politici retromarcisti si comportano come i gamberi, il loro orizzonte è dietro le spalle. A differenza del gambero, però, danno la colpa alla cattiva comunicazione e non arrossiscono se, metaforicamente, finiscono in pentola.

Claudio Tito per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

Il Mes non può essere modificato. La doccia gelata sul governo italiano arriva da Bruxelles. Il Meccanismo europeo di Stabilità deve essere approvato così com' è. L'esecutivo e la maggioranza di Giorgia Meloni avevano chiesto delle correzioni. Ma si tratta ormai di un'intesa che ha fatto troppi passi avanti. Anche perché ormai l'Italia è rimasta l'unico Paese a non averlo ancora ratificato. […]

 Insomma, pensare a questo punto di rimettere in discussione una riforma varata da diverso tempo equivarrebbe a far saltare uno strumento che viene considerato fondamentale nelle situazioni di emergenza. Va infatti ricordato che il Mes consiste nell'evoluzione del famigerato Fondo Salva- Stati e venne introdotto nel 2012 dopo le crisi finanziarie del 2008-2009.

Ora sono in discussione solo alcuni ritocchi. «Gli emendamenti alla riforma del Trattato del Mes - spiegano a Bruxelles in vista dell'Eurogruppo di lunedì prossimo - non saranno negoziati. Dovrà essere ratificato così com' è. Ovviamente continueremo la discussione su come sviluppare il Mes ma è una discussione che va avanti tutto il tempo e soprattutto partirà solo una volta che sarà completata la ratifica».

 Nonostante le proteste italiane, Commissione e vertici dello stesso Mes sono convinti che il nostro Paese alla fine darà il suo voto favorevole. Il contrario, del resto, sarebbe difficile da digerire per i partner e isolerebbe l'Italia dentro l'Unione europea. […]

l'accordo sulla nuova versione del Mes era stata concordata oltre due anni fa da tutti gli esecutivi della zona euro. Ma a cosa serve questo Meccanismo? Sostanzialmente ad aiutare quei Paesi che in caso di crisi finanziaria abbiano difficoltà a reperire risorse. La dotazione del Mes è di oltre 700 miliardi, di cui oltre 100 sono a carico del nostro Paese (al momento però ne sono stati versati solo 14). È evidente che sono previste delle condizioni per concedere gli aiuti. Ma non esiste una procedura automatica di ristrutturazione del debito come di tanto in tanto si lamentano gli esponenti della maggioranza […]

Poi c'è il capitolo sanitario. Una delle modifiche introdotte concerne la possibilità di chiedere prestiti esclusivamente per interventi nel campo sanitario. L'unica condizione è proprio che questi soldi vanno spesi in questo settore. Per l'Italia si tratterebbe di 37 miliardi con un tasso di interesse molto basso […]

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per “la Stampa” il 14 gennaio 2023.

Sostiene Rino Formica: «[…] mai si era visto un governo che nelle sue decisioni negasse del tutto gli impegni assunti durante la campagna elettorale, mai. Ed è un governo di rassegnati. È bastata una timida ribellione dei gestori degli impianti di carburante a fargli dire, vabbe', rivediamo tutto». […] Rino Formica […] «Nel giro di 48 ore sono […] si sono rassegnati davanti alla prima protesta. Tra l'altro una protesta corporativa. […] la stella del ministro dell'Economia ha avuto l'abilità di negare e di rinnegarsi nel giro di poche ore».

 […] «[…] Il governo porterà il Paese ad una rassegnata acquiescenza verso decisioni sovranazionali: ogni giorno perderemo peso ed importanza. Saremo trascurati e l'unica speranza è che il trattamento sia compassionevole».

 I primi tre mesi cosa le suggeriscono?

[…] «Prima si diceva: lo vuole l'Europa. Ora dicono: non possiamo farlo perché l'Europa si distaccherebbe da noi».

 Margini finanziari risicati: si rifaranno con le riforme politiche?

«Non sono in grado di farle. Perché sono riforme che non rispondono ad un disegno politico. Sono strumentalizzazioni. Prendiamo il presidenzialismo. […] servirebbe soltanto ad eliminare un punto di equilibrio come l'attuale Presidente della Repubblica».

Il consenso virtuale dei sondaggi per Meloni è alto: durerà?

«A medio termine non me la sentirei di escludere un governo con una parte della destra e una parte della sinistra. In Italia soluzioni di questo tipo non arrivano per un compromesso politico ma per necessità di sopravvivenza delle nomenclature. E d'altra parte credo che dopo 30 anni sia arrivato il momento di chiarire il non-detto che è alla base della nascita della Seconda Repubblica».

Sarebbe a dire?

«La reciproca legittimazione tra destra e sinistra. Tra marzo e aprile 1993, col voto segreto su Craxi, l'uscita dei ministri del Pds dal governo Ciampi, l'assalto all'Hotel Raphael, le bandiere nere di Buontempo e quelle rosse di Occhetto si salda l'antisocialismo sicuramente presente nella società italiana. E si stringe un patto. La destra riconosce che il suo anticomunismo non si spinge sino a battersi perché i comunisti possano andare al governo e la sinistra, da una parte accetta che il fascismo abbia una legittimità costituzionale, dall'altra si accredita con il moderatismo sociale».

Ora è in campo il Pd: ce la farà a rimettersi in piedi?

«Un partito che si interroga se il segretario debba essere eletto dai militanti o dai cittadini che passano in quel momento davanti ad un computer, è un partito in deperimento».

 […] «I partiti populisti sono morti, ma in Italia il populismo è vivo. La stessa discussione nel Pd cos' è? Partito o movimento? […] la sinistra esiste per cambiare sul serio: sul piano politico, sociale e sindacale, altrimenti non ha senso. Per ora non vedo grandi capacità di ripresa in una forza come il Pd […]».

 Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

Poveri illusi: bastasse un incontro di vertice a Palazzo Chigi per chiudere la bocca ai ministri narcisoni, smaniosi di paginate e telecamere. […] non c'è governo che abbia mai ottenuto il silenzio dai suoi stessi maggiorenti […] si arriverà presto alle bozze dei decreti passate di nascosto […] alle "manine", alle "manone" e quindi all'individuazione dei capri espiatori, alcuni dei quali beccabili via chat, audio, labiali e account fasulli. E hai voglia pure a "centralizzare" la comunicazione dei deputati e senatori […] Da che mondo è mondo nessuno è mai riuscito a legare la lingua dei peones […]

[…] Si delinea così all'orizzonte il super- classico dell'auto-conforto: l'errore di comunicazione, che sarebbe in realtà l'errore politico vero e proprio, ma non si può dire così perché sarebbe peggio. Di solito i potenti s'illudono che funzioni, dal che si sforzano di confezionare meglio il messaggio, o cambiarlo in corsa, deviare l'attenzione, rinforzare gli apparati. […] Renzi portò a Palazzo Chigi una maga danese, Salvini si appoggiava all'arsenale di Morisi, i 5S arrivarono ad assumere mentalisti, a parte gli esperti di Programmazione Neuro Linguistica […]

Gli Appunti social di Giorgia, col suo quaderno e i fiorellini di Ginevra, sono la prosecuzione di questo mesto, buffo e alla lunga inutile andazzo. […] l'odierna classe politica non ha un problema di comunicazione, ha un problema di credibilità; e questo perché da quasi trent'anni è schiava della comunicazione. Di essa solo si preoccupano in pratica i protagonisti, che non sanno più fare altro, leggi, programmi, soluzioni di buon senso, il tipico patto col diavolo per apprendisti stregoni.

"Quella Bestia apocalittica che chiamiamo comunicazione", come profetizzava il vecchio Ceronetti nel frattempo si è fatta ipercomunicazione: verticale, dispersiva, istantanea, semplificata, insidiosa come può esserlo una inedita ragione di Stato, e anche un po' oscena. Il prefisso rafforzativo "iper" le ha recato in dote l'enfasi, la retorica, l'amplificazione emozionale, il manicheismo funzionale, il moralismo retrattile, il romanzo del leader o della leader e tante altre diavolerie, compresa la stupidità che in un mondo iper connesso ha moltiplicato le occasioni per esprimersi […]

Alessandra Ghisleri, signora dei sondaggi: «Studiavo da geologa e vendevo smoking. Il Paese? Si capisce sul taxi»

Storia di Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Alessandra Ghisleri, sondaggista, politologa e fondatrice di Euromedia research. Quando ha iniziato a fare domande? «Da piccola, facevo domande su tutto. Ero la bambina dei perché, la curiosità mi accompagna da sempre: mia madre diceva che ero una rompic... atomica».

Prima dei sondaggi chi interrogava? «Mi sono laureata in Geologia alla Statale di Milano con una tesi in Oceanografia paleontologica: studiavo il mare e mi vedevo imbarcata su una nave. Non potevo fare domande agli animaletti, ma ne studiavo i comportamenti».

Dai fondali ai sondaggi. «Nel mezzo ho fatto anche l’intervistatrice nei call center, la pubblicità della carne irlandese nei supermercati, la venditrice in uno showroom che aveva abiti di Saint Laurent, di cui conservo smoking strepitosi. La carriera universitaria era complicata e poco pagata, così sono capitata in Datamedia. Grazie al professor Morris Ghezzi ho capito che potevo fare domande di ogni tipo».

Che genere di domande? «Le più banali, ma che dicono molto delle persone. Con Gianluigi Pardo , nella trasmissione, Ti sembra normale? agli intervistati chiediamo se hanno mai rubato gli asciugamani in hotel: vizi privati e pubbliche virtù».

Nel libro «La Repubblica dei sondaggi» scrive: «Conoscere il pensiero delle persone è il grande desiderio proibito di ogni essere umano». È anche il suo? «Sì, ma l’ho capito dopo. Da ragazza sognavo la famiglia e i figli, poi ho creato una azienda. I decenni costruiscono e ti cambiano».

La chiamano la signora dei sondaggi: la marcia in più? «C’era necessità di unire la lettura dei dati ai numeri e comprenderne il contenuto. Ho deciso di mettermi in proprio con quello che poi è diventato mio marito, Alfonso».

Il suo libro è dedicato «Ad Alfonso e al suo coraggio». «È l’unione riuscita tra una cispadana e un siciliano».

C’è competizione tra voi? «È stato lui a spingermi a fare la front-woman. Sono stata lasciata da uno che mi ha detto: “Fai un lavoro troppo importante, con un part-time potremmo stare insieme”».

La sua famiglia di origine? «Benestante. Ero spesso in vacanza».

Sua madre le ha insegnato l’indipendenza economica. «Vero, oggi però se mi vede in tivù più dei contenuti commenta i capelli. O le collanine: “ma con tutte le cose che hai metti quelle”?» Cose così».

Rivela la sua età? «Quasi mai».

Mi dice di che anno è? «Sono del 1966: devo guadagnare tempo, quando qualcosa non funziona devo trovare la soluzione alternativa».

Un incontro decisivo. «Bruno Vespa è stato il primo a darmi visibilità in trasmissione. Ricordo che lì un politico insinuava il colore politico dei miei numeri. Invece erano veritieri».

È stata la sondaggista d’elezione di Berlusconi. «Mi ha chiamata nel 2004: una stretta collaborazione fino al 2013. Alle ultime elezioni abbiamo fatto solo piccoli studi, adesso ha altri consiglieri e consigliori».

Che esperienza è stata? «Mi ha dato delle chance rispettando quel che facevo. Ho lavorato con i consulenti di Clinton e Blair dai quali ho aspirato tutto il sapere. Abbiamo fatto passaggi storici: lo spostamento del G20 da La Maddalena a L’Aquila e il predellino».

Si sentiva «vincolata»? «Mentre acquisivo capacità acquisivo altri clienti».

Berlusconi era geloso? «No, anzi, era contento perché voleva dire che ci aveva visto giusto. Poi mi diceva: “Tanto so che non mi voti...”»

Era vero? «Era vero, non sono una yes-woman. Nel mio lavoro più sei sincero più aiuti il tuo committente»».

Un altro aneddoto. «Mi chiamò di sabato: “Vieni ad Arcore”. Ero in giro, non ero vestita perbene, ero giovane e creativa. Non ci fece caso, disse: “Siediti e ascolta”».

Ha ascoltato? «Certo, ascoltare è una dote rara. Berlusconi ce l’ha».

Non avete mai litigato? «Una volta, per gioco: mi ha chiesto uno sconto di 1.000 euro per un sondaggio».

I colleghi le hanno fatto pesare di essere donna? «I colleghi no, ma altri sì. Ricordo che un giornalista nel 2006 disse che davo previsioni sbagliate e che dovevo tornare a fare il lavoro più antico del mondo...».

Quali pregiudizi ha dovuto abbattere? «L’essere donna e ingaggiata da un uomo che proveniva da una parte politica. Poi quando ti vedono le prime rughe sul viso ti accettano».

Giorgia Meloni. «Sposo quello che ha detto Ritanna Armeni: il fatto che sia diventata Presidente del Consiglio ispirerà i giovani».

Aveva previsto la vittoria? «Sì, c’erano due punti e mezzo da aggiungere, era voto nascosto».

Il vostro lavoro è più da cartomanti o da scienziato? «Siamo studiosi, anche se vorrei avere la palla di cristallo per vincere l’ Enalotto».

La domande che non ha mai il coraggio di fare? «Quelle sulle malattie: lavoriamo con la farmaceutica e vediamo le persone nella parte più fragile ».

La sessualità? «Da italiani rispondiamo come ci piacerebbe essere e non come siamo. Ma esiste una batteria di domande dalle quali dedurre la verità».

Dire una bugia a lei è impossibile? «Sono la più tonta del mondo, baso tutto sulla fiducia: “Ma daiiiiii” è la mia battuta. Forse perché non posso fare tutte le domande che vorrei».

Adesso su cosa indaga? «Sulla politica e gli scenari. C’è fiducia nelle istituzioni, ma non nei politici».

La chiacchiera con il tassista è lo specchio del Paese? «Sì, in quell’abitacolo passa molta eterogeneità, è una intervista in profondità».

I salotti? «Ne frequento pochi, ma sbaglio: lì ti rendi conto chi è la classe dirigente del Paese».

Il vantaggio di essere donna nel suo lavoro. «Siamo puntigliose e più portate per la matematica».

Il famoso istinto? «Ti da il l a per imporre una tavola di calcolo».

Cosa ci manca? «Il passare oltre, tipico degli uomini: si insultano nel campo da calcetto e poi vanno a mangiare la pizza insieme»

Il candidato al contrario. Report Rai PUNTATA DEL 10/12/2023 di Luca Chianca

Collaborazione di Alessia Marzi  

Sono passati 10 anni dall'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

Nel 2013 il governo Letta mette fine ai finanziamenti pubblici ai partiti. Sono passati 10 anni esatti e oggi quei partiti per svolgere la loro attività politica possono raccogliere soldi dalle donazioni dei privati e dal 2x1000 devoluto dai contribuenti. Spesso, la fonte principale di finanziamento dei partiti è data dai contributi dei loro stessi parlamentari. Lo faceva un tempo solo il Partito Comunista. Report ha scandagliato i bilanci di tutti i partiti politici e delle maggiori fondazioni legate agli stessi partiti, dove i simboli politici diventano anche terreno di cause in tribunale. Come quella che riguarda l'antica fiamma del Movimento Sociale Italiano, che oggi troviamo dentro il simbolo di Fratelli d'Italia. Chi controlla? La Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici. È composta da 5 magistrati e solo 4 funzionari che, tra partiti e fondazioni, controllano ogni anno circa 120 bilanci, le donazioni dei privati e la fedina penale di migliaia di candidati per ogni elezione, e con un budget di solo 60mila euro l'anno. Come si convince un potenziale candidato a entrare in campagna elettorale? Report racconterà in esclusiva in che modo la Lega di Salvini corteggerebbe personaggi illustri per potersi giocare al meglio le prossime europee.


 

Le domande poste dalla redazione e le risposte ricevute:

- Ministero dello Sviluppo Economico

- Ministero della Cultura

- Segreteria di Italia Viva

- Fondazione Alleanza Nazionale

- Ministro Adolfo Urso

- Il partito Fratelli d'Italia

- La risposta dell'Ufficio stampa della Lega


 


 

- Ministero dello Sviluppo Economico

UFFICIO STAMPA Buon pomeriggio, Innanzitutto, alla domanda si può rispondere affermativamente, nel senso che appare possibile l’uso della “fiamma” da parte del partito Fratelli d’Italia in quanto simbolo elettorale, utilizzabile nell’ambito dei poteri attribuiti al competente Ministero dell’Interno. Vi è infatti una netta separazione tra gli istituti di “simbolo elettorale” e “marchio di impresa” che sono gestiti da autorità diverse (rispettivamente Ministero dell’Interno e MIMIT) e che hanno finalità diverse :una in ambito elettorale e l’altra in ambito commerciale. Ciò premesso, può capitare l’eventualità che i detentori di simboli elettorali vogliano registrare gli stessi anche come marchi d’impresa. Questa prassi viene utilizzata da chi ritiene che possedere un titolo di proprietà industriale come il marchio di impresa possa ad esempio: · Proteggere il proprietario in un’ottica di merchandising, collegandolo alle attività promozionali che ogni movimento politico può mettere in campo: ad esempio, pensando ai gadget che si possono distribuire (si pensi a registrazioni di marchi protetti per varie classi di beni, come la 16 per cartoline, adesivi e penne, la 25 per magliette e cappellini, la 26 per le spille). · Proteggere maggiormente i simboli; può capitare anche di evidenziare depositi plurimi di nomi e loghi, più o meno diversi tra loro quanto al testo o alla grafica, utilizzandoli come marchi difensivi. Esiste quindi una prassi volta a chiedere di registrare come marchi di impresa i simboli elettorali, ma questo non significa che simboli elettorali contenenti nomi e/o loghi simili o uguali ad altri già registrati come marchi di proprietà di terzi, non possano essere legittimi secondo l’interpretazione del competente Ministero dell’Interno a cui la legge demanda l’esclusivo potere di escludere o meno la presenza di simboli e segni elettorali per l’opportuna identificazione di un movimento politico. Infine, giova ricordare quanto stabilisce la legge, onde si possano evitare al massimo problemi interpretativi in questa delicata materia. In base all’art. 10 del codice della proprietà industriale, infatti, in caso sia pervenuta domanda di registrazione di un nuovo marchio di impresa che contenga “parole, figure o segni con significazione politica” l’Ufficio italiano brevetti e marchi del MIMIT “invia l’esemplare del marchio e quant’altro possa occorrere alle amministrazioni pubbliche interessate, o competenti (in questo caso il Ministero dell’Interno), per sentirne l’avviso”. “Se l’amministrazione interessata, o competente (sempre Ministero dell’Interno), … esprime avviso contrario alla registrazione del marchio, l’Ufficio italiano brevetti e marchi respinge la domanda”. Come emerge quindi da questa procedura, la valutazione di merito sul significato politico di un segno odi un simbolo è rimessa dall’ordinamento esclusivamente al Ministero dell’Interno. Lo stesso ordinamento nel contempo non attribuisce all’Ufficio italiano brevetti e marchi alcun potere di controllo o vigilanza sull'utilizzo in concreto del marchio e/o sulla conformità dello stesso a eventuali simboli elettorali o di movimenti politici esistenti. Questo comporta che, nei casi di usurpazione o violazione dei propri diritti di proprietà, l’unica strada percorribile dal titolare del simbolo elettorale o del marchio che si ritenga leso, è adire l'autorità giudiziaria. Si desume pertanto il principio per il quale la titolarità civile/commerciale di un emblema non si sovrappone alla sua titolarità elettorale e viceversa: la disciplina dettata per i contrassegni in uso durante le elezioni è legge speciale rispetto a quella applicabile ai segni distintivi come i marchi di impresa. Cordialmente, MIMIT - Ufficio stampa e comunicazione Via Molise, 2 - 00187 Roma Alla cortese attenzione della Direzione Generale per la Tutela della Proprietà Industriale - Ufficio Italiano Brevetti e Marchi Ministero delle Imprese e del Made in Italy Gentilissimi, vi contattiamo dalla redazione Report, in onda su Rai 3. Al fine di poter verificare un’informazione per una ricerca che stiamo svolgendo, avremmo necessità del vostro supporto per approfondire alcuni elementi che ci sono stati segnalati. Queste le risultanze utili al riscontro di cui avremmo necessità: - Il 27 maggio 2011 il Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale ha presentato domanda per registrare il proprio simbolo presso l'ufficio italiano brevetti e marchi, ottenendo la registrazione il 14dicembre 2011. A distanza di 10 anni, la stessa domanda è stata rinnovata in data 25/11/2021 e registrata il 12/5/2022. Dal momento che il simbolo presentato dal partito Fratelli d'Italia alle ultime elezioni utilizza la stessa fiamma registrata nell'ufficio italiano brevetti e marchi, pur senza la scritta Msi, avremmo necessità di capire se ciò sia possibile, ma soprattutto se rispetti la legge. Per ogni dettaglio in merito alla nostra richiesta è possibile contattare l’autore del servizio Luca Chianca. Ringraziandovi sin d’ora per quanto potrete fare, porgiamo i più cordiali saluti Alessia Marzi


 

- Ministero della Cultura

DIREZIONE GENERALE BIBLIOTECHE E DIRITTO D’AUTORE Ministero della Cultura Spett.le RAI - Report Oggetto: Richiesta informazioni Report Rai 3 – rif. richieste del 15 novembre 2023 (prot. 14183 del 15 novembre 2023) e del 4 dicembre 2023 (prot. 15040 del 5 dicembre 2023). Riscontro Gentile Redazione, si fa riferimento alle comunicazioni in oggetto per rendere di seguito alcuni opportuni chiarimenti e i dati richiesti. La normativa nazionale che disciplina il diritto d’autore e i diritti ad esso connessi, quasi integralmente derivante da quella europea e dal diritto internazionale pattizio, tutela non le idee, ma l’opera nella sua forma espressiva che integri le caratteristiche di originalità e creatività, non intese in senso assoluto come nel caso delle privative industriali, . Sia l’art. 2576 del codice civile sia l’art. 6 della legge n. 633/1941 dispongono che il titolo originario dell’acquisto del diritto d’autore è costituito dalla “creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale”. Ciò significa che l’acquisizione del complesso di quei diritti è data dal solo fatto della creazione dell’opera in qualche modo espressa, senza che siano richiesti ulteriori atti-fatti o formalità costitutive. In tale ottica, l’attuale funzione del Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla legge sul diritto d’autore (RPG), disciplinato dagli articoli 103 e ss. della legge n. 633/1941 e dal R.D. n. 1369/1942 di relativa esecuzione, non è quella di decretare la nascita dei diritti d’autore sull’opera, né quella di valutarne nel merito il valore creativo o distintivo rispetto ad altre opere, bensì quella di rendere noti i dati sulla paternità della stessa, sulla sua pubblicazione, quelli inerenti le eventuali cessioni patrimoniali ed ogni altra annotazione connessa ai predetti dati, con gli effetti propri di un sistema di pubblicità- notizia. L’art. 103, comma 4, della legge n. 633/1941 stabilisce in particolare che la registrazione fa fede, sino a prova contraria, della esistenza dell'opera e del fatto della sua pubblicazione. Gli autori e i produttori indicati nel registro sono reputati, sino a prova contraria, autori o produttori delle opere che sono loro attribuite. Peraltro i dati presenti nel registro sono pubblici: l’art. 41 del R.D. 1369/1941, stabilisce che “le istanze, le dichiarazioni e i documenti allegati sono pubblici. Chiunque può prenderne visione e ottenere, per certificato o per estratto, notizia delle registrazioni o delle annotazioni che si trovano nel registro, nonché copia delle istanze, delle dichiarazioni e dei documenti allegati”, mentre il successivo art. 42 dispone che l’Ufficio “provvede a dar notizia nel suo bollettino delle opere depositate, nonché degli atti registrati à sensi degli articoli 37 e 39 di questo regolamento”. Da ciò si evince che il deposito/registrazione delle opere presso il registro tenuto da questa Direzione Generale è facoltativa e riguarda solo opere già pubblicate o diffuse, nelle forme e nelle modalità prescelte dall’autore o dall’avente causa, e che il MIC non riveste alcun ruolo in ordine alla valutazione delle opere o in merito alla spettanza dei diritti. Ciò stante, per quanto di competenza, tenuto conto di quanto disposto dall’art. 41 del R.D. n. 1369/1942 si riportano di seguito i dati richiesti, già pubblicati nelle forme sopra illustrate, corredati dalle copie del bollettino di pubblicazione delle opere, nonché dalle ulteriori notizie presenti sul registro, anch’esse regolarmente pubblicate, consistenti, nel caso di una delle opere in esame, nell’annotazione di estremi di pronunce dell’autorità giurisdizionale adita nell’ambito di procedimenti inerenti l’utilizzazione dell’opera. • Opera delle arti del disegno dal titolo: “PARALLELEPIPEDO CON FIAMMA TRICOLORE” dell’autore Gaetano SAYA registrata nel Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla LdA, Parte I, in data 10/02/2006 al n. B.A0031973: - allegato 1 bollettino di pubblicazione dell’opera con relativa annotazione - allegato 2 bollettino dell’anno 2017 disposizioni e comunicati pag. 1 - allegato 2 bis sentenza Corte di Appello di Firenze n. 265/2016 • Opera delle arti del disegno dal titolo: “MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO”, dell’autrice Maria Antonietta CANNIZZARO registrata nel Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla LdA, Parte I, in data 25/05/2017 al n. A110270: - allegato 3 bollettino di pubblicazione dell’opera • Opera delle arti del disegno dal titolo: “FIAMMA CON TRICOLORE”, dell’autrice Maria Antonietta CANNIZZARO registrata nel Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla LdA, Parte I, in data 31/01/2019 al n. A119498: - allegato 4 bollettino di pubblicazione dell’opera. LA DIRETTRICE GENERALE (Dott.ssa Paola PASSARELLI)


 

- Segreteria di Italia Viva

Buongiorno. 1. Sulla Fondazione Open, come vi è sicuramente noto, è in corso un processo presso il Tribunale di Firenze. Siamo ancora all’udienza preliminare dopo che per cinque volte la Cassazione ha dato torto ai PM di Firenze e la difesa di Matteo Renzi ha vinto contro i PM in Corte Costituzionale. Tutte le informazioni sono contenute negli atti processuali, peraltro ampiamente divulgati anche se sequestrati in modo illegittimo. Né Bonifazi né Renzi avevano alcun ruolo nella fondazione. 2. Il finanziamento a Italia Viva rispetta pedissequamente tutte le leggi dello Stato. Ogni ingresso e ogni uscita è certificata secondo le procedure previste dalle vigenti normative. La trasparenza è assoluta e ogni spesa è tracciata e rendicontata. Ciascuno può fare le proprie valutazioni personali e politiche sulle cifre e i numeri che rendiamo pubblici ma nessuno può avere dubbi sulla totale trasparenza di Italia Viva e dei suoi dirigenti. L’ufficio stampa di Italia Viva


 

- Fondazione Alleanza Nazionale

Gentile Signora, rispondo alle domande che Lei mi pone nella mia qualità di Presidente della Fondazione di Alleanza Nazionale. Tutto ciò che riguarda le attività della Fondazione è oggetto di puntuali relazioni che accompagnano i bilanci e vengono versati nei competenti uffici della Camera dei Deputati, della Prefettura e tempestivamente pubblicati sul sito internet della Fondazione. Per ciò che attiene le richieste fatte a proposito del Consigliere, Dottor Petri, mi preme far presente che egli ha ricoperto incarichi prestigiosi nel corso degli anni in strutture pubbliche ed a mia domanda specifica ha negato di far parte della massoneria, circostanza che, peraltro, mi riferisce d'aver già segnalato alla Vostra redazione. Quanto alle circostanze che mi riguardano direttamente, Vi rispondo benchè esse esulino dalla mia attività di Presidente della Fondazione e riguardino vicende di oltre venti anni fa per le quali è intervenuto decreto di archiviazione del 18.9.2006 (procedimento contrassegnato dal n 138/2006RGNR) e decreto di archiviazione del 19.1.2010 ( procedimento 156/2006 RGNR). Devo far presente che non ho mai ricevuto comunicazioni formali di procedimenti nei miei confronti a Reggio Calabria mentre indiscrezioni sull'argomento (violazione del segreto di indagine) apparivano sui giornali. Il cenno improprio che di tali eventi è stato effettuato in occasione delle ultime votazioni per il CSM mi ha indotto ad assumere le iniziative di rito davanti agli organi competenti. Quanto alla richiesta circa mie interlocuzioni con tale Vecchio, che non conosco, non appena queste sono apparse sui giornali ho presentato denunzia nei confronti di questo signore. Le faccio, infine, presente che anch'io non sono mai stato massone. Salvezze illimitate. Avv. Giuseppe Valentino Roma, 4 dicembre 2023 Gentilissimi, come da comunicazioni intercorse, per una delle prossime puntate di Report, avremmo la necessità di poter ricevere un Vostro riscontro circa alcuni temi che tratteremo all’interno di uno dei nostri approfondimenti. Pur prendendo atto della maturata indisponibilità a rilasciare una video intervista da parte del dott. Roberto Petri, del presidente Giuseppe Valentino e del vicepresidente vicario Antonio Giordano, tale richiesta si rende fondamentale al fine di poter dare una informazione chiara e corretta ai nostri telespettatori nell’ambito di un servizio che si occuperà di tutti i partiti politici. Siamo certi che nell’interesse della completezza dell’informazione la Fondazione sarà disponibile nel fornirci la sua versione dei fatti. Le informazioni per le quali si rende utile un Vostro intervento sono state divise per tematiche. Per esigenze di produzione avremmo necessità di ricevere cortese riscontro entro la mattinata di venerdì 8 dicembre. Le informazioni inerenti la storia e l’andamento economico della Fondazione Alleanza Nazionale: · Gli immobili di proprietà della Fondazione e l’attuale valore di mercato · A quanto ammonta la cifra dei rimborsi elettorali confluiti nella gestione della Fondazione una volta determinato lo scioglimento del partito Alleanza Nazionale · A quanto ammonta la cifra veicolata dalla Fondazione al partito Fratelli d’Italia ogni anno, a quale titolo per quali tipologia di attività · Secondo le informazioni raccolte durante l’inchiesta, la Fondazione ha deciso di pagare i lavori di manutenzione della Cripta di Benito Mussolini nel cimitero di Predappio. Quanto è stato investito? · Secondo le evidenze raccolte, la sede di Rimini, in stato di abbandono da alcuni anni, ha un acquirente interessato. È possibile conoscerne il nome e in che modalità eventuali si intende gestire la vendita di un bene della Fondazione? · Dopo l’avvenuta uscita del gruppo Forza Nuova dall’immobile di Via Paisiello in Roma, indebitamente occupato, a chi la Fondazione ha affittato i locali e per quale canone? · Ogni quanto viene organizzata l'assemblea dei soci? Quante ne sono state organizzate nel corso degli ultimi 10 anni? · Quante sono le controversie legali che la Fondazione ha attive nei confronti di Gaetano Saya e del suo partito M.S.I. Destra Nazionale relativamente a paternità e uso del simbolo della Fiamma. A che stadio si trovano? Le informazioni relative al dott. Roberto Petri delle quali avremmo necessità di ricevere dettaglio · Nel corso dell’attività giornalistica abbiamo rilevato come sia esistito un conflitto politico tra il dott. Petri, allora commissario provinciale FdI di Forlì e Cesena, e l’avvocato Francesco Minutillo. Al di là delle divergenze politiche abbiamo raccolto testimonianza di come l’avvocato Minutillo avesse accusato il dott. Petri di far parte della massoneria senza essere mai stato smentito. Avremmo necessità di sapere il punto di vista del dott. Petri sulla sua presunta iscrizione alla massoneria, tenuto conto che il suo nome compare in una lista di presunti appartenenti alla massoneria pubblicata dal Centro Studi Malfatti a partire dal 2010 e mai contestata. Sarebbe nostro interesse inoltre conoscere la loggia a cui il dott. Petri sarebbe iscritto Le informazioni relative al presidente Valentino delle quali avremmo necessità di ricevere dettaglio: · Nel corso dell’attività giornalistica abbiamo rilevato come all’intero della sentenza di primo grado del “processo Gotha” emergerebbe un forte legame tra Paolo Romeo, avvocato ed ex parlamentare del Partito socialista democratico italiano (Psdi), e l'avvocato Giuseppe Valentino, attuale presidente della Fondazione Alleanza Nazionale. Secondo i giudici, da un'intercettazione ambientale nello studio di Romeo, emergerebbe l'appartenenza di entrambi alla massoneria segreta. Pur riconoscendo la non imputazione nel procedimento del dott. Valentino, avremmo necessità di riceve il Suo punto di vista. Tale necessità si rende stringente anche considerando il fatto che la posizione di indagato dalla Procura di Reggio Calabria per reato connesso, avrebbe visto sfumare la Sua nomina al Csm dove era stato proposto in quota Fratelli d'Italia all'inizio dell'anno. Avremmo inoltre necessità di ricevere un commento relativamente alle dichiarazioni fatte dal collaboratore Seby Vecchio, ex assessore comunale di Reggio Calabria secondo cui il pres. Valentino avrebbe partecipato a una riunione tenuta a Roma tra il 2006 e il 2007. In tale occasione si sarebbe sottolineato all’ex sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti, prima di essere ricandidato al Comune, la necessità garantire non solo la cosca De Stefano ma anche la cosca Condello. Per qualsiasi informazione ulteriore è possibile contattare Luca Chianca al Certi della Vostra cortese collaborazione porgiamo i più cordiali saluti, Redazione Report


 

- Ministro Adolfo Urso

Buongiorno, In relazione alla vostra richiesta, si precisa che anche questa notizia è del tutto falsa e gravemente diffamatoria. Cordiali saluti - Giuseppe Stamegna Capo Ufficio Stampa e Portavoce del Ministro Roma 4 dicembre 2023 Gentilissimi, facendo seguito alla richiesta inviata mercoledì 15 novembre, vi scriviamo per aggiungere un’altra richiesta di chiarimento da indirizzare alla diretta attenzione del Ministro. Siamo certi che nell’interesse della completezza dell’informazione sarà disponibile nel fornirci la sua versione dei fatti. Nel corso di un'inchiesta sul finanziamento pubblico ai partiti che andrà in onda domenica prossima, abbiamo raccolto la testimonianza di Kitty Montemaggi, coordinatrice comunale di Fratelli d'Italia a Savignano, e Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Entrambi dichiarano l’iscrizione del ministro Adolfo Urso alla Massoneria. Pur essendo consapevoli che il partito Fratelli d’Italia non inibisce questa tipologia di affiliazione, riteniamo interesse pubblico poter ricevere conferma da parte del Ministro in quanto titolare di una carica pubblica di alto profilo come la Sua. Per esigenze di produzione avremmo necessità di ricevere cortese riscontro entro la mattinata di venerdì 8 dicembre. Per qualsiasi informazione ulteriore è possibile contattare Luca Chianca al Certi della Vostra cortese collaborazione porgiamo i più cordiali saluti, Redazione Report


 

- Il partito Fratelli d'Italia

Da: Ufficio stampa Fratelli d'Italia Inviato: giovedì 7 dicembre 2023 16:50 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Re: Richiesta informazioni_Report, RAI 3 Buongiorno. Inviamo le risposte alle vostre richieste di chiarimento. In merito all’erogazione una tantum alla quale fate riferimento, l’informazione è falsa. Inoltre la Fondazione Alleanza Nazionale è un soggetto di diritto distinto da Fratelli d'Italia. Riguardo la disponibilità del simbolo della fiamma, preme segnalare che, negli anni scorsi, il sig. Saya e il partito politico MSI promossero delle azioni legali nei confronti di Fratelli d’Italia per l’inibizione dell’uso di tale simbolo, ma le loro richieste sono state sempre riconosciute dal tribunale come prive di ogni fondamento. Le controversie legali comunque non riguardano in alcun modo Arianna Meloni, essendo il suo ruolo di responsabile del dipartimento "Adesioni e segreteria politica" uno dei tanti ruoli interni all’organigramma e quindi privo di titolarità nella rappresentanza legale. Certi di aver fornito i chiarimenti richiesti, porgiamo distinti saluti. L'Ufficio stampa di Fratelli d’Italia Il giorno mar 5 dic 2023 alle ore 21:56 [CG] Redazione Report ha scritto: Gentili, facciamo seguire alla precedente richiesta una correzione rispetto al secondo quesito posto. Ovviamente la richiesta relativa alle controversie legali nei confronti di Gaetano Saya, sono da intendersi relative al partito, non alla Fondazione Alleanza Nazionale, a cui abbiamo posto lo stesso quesito con una diversa comunicazione. Cordiali saluti, Redazione Report Da: [CG] Redazione Report Inviato: Martedì, Dicembre 5, 2023 3:31:00 PM Oggetto: Richiesta informazioni_Report, RAI 3 Roma, 4 dicembre 2023 Gentilissimi, per una delle prossime puntate di Report, avremmo la necessità di poter ricevere un Vostro riscontro circa alcuni temi che tratteremo all’interno di uno dei nostri approfondimenti. Tale richiesta si rende fondamentale al fine di poter dare una informazione chiara e corretta ai nostri telespettatori nell’ambito di un servizio che si occuperà di tutti i partiti politici. Avremmo necessità di confermare l’iniziativa secondo cui il partito ha indicato erogazione una tantum da parte dei suoi eletti da 50 mila euro a per finanziare la campagna elettorale europea. Inoltre, avremmo esigenza di conoscere le controversie legali che la Fondazione ha attive nei confronti di Gaetano Saya e del suo partito M.S.I. Destra Nazionale relativamente a paternità e uso del simbolo della Fiamma; tra queste vorremmo conferma che esista una controversia contro Arianna Meloni nuovo capo segreteria del partito di Fratelli d'Italia che nel 2012, si presenta in politica con un altro simbolo. Per esigenze di produzione avremmo necessità di ricevere cortese riscontro entro la mattinata di venerdì 8 dicembre. Per qualsiasi informazione ulteriore è possibile contattare Luca Chianca Certi della Vostra cortese collaborazione porgiamo i più cordiali saluti, Redazione Report


 

- La risposta dell'Ufficio stampa della Lega

Riceviamo e pubblichiamo la risposta dell’Ufficio Stampa della Lega È totalmente falso, temiamo che la vostra fonte sia la stessa di tante altre inchieste fantasiose finite nel nulla come i presun> finanziamen> russi. L'Ufficio stampa della Lega


 

IL CANDIDATO AL CONTRARIO di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi immagini di Alfredo Farina, Paolo Palermo, Cristiano Forti, Carlos Dias montaggio e grafica Giorgio Vallati

17/09/2023 - RADUNO DI PONTIDA MATTEO SALVINI – SEGRETARIO NAZIONALE LEGA SALVINI PREMIER La Lega ha tutto l'obiettivo, l'interesse, la determinazione che questo governo che è il miglior governo che gli italiani potessero scegliere duri non solo i 5 anni del primo mandato ma anche i 5 anni del secondo mandato. Quindi prenotiamoci 10 Pontida con la Lega al Governo

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Inizia così il discorso di Matteo Salvini durante lo storico raduno sul pratone di Pontida. É il giorno in cui si consacra l'alleanza in Europa con Marine Le Pen, rappresentante del partito di estrema destra francese, suscitando non poche critiche all'interno della maggioranza di governo.

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO NAZIONALE LEGA SALVINI PREMIER Per uno che se ne va, dieci migliori si avvicinano quindi saluti e baci a chi ha fatto altre scelte. Noi siamo la grande Lega, voi siete la grande Lega e per me siete la vita. Grazie dal profondo del cuore. Viva Pontida, viva la Lega, viva i difensori di ogni libertà: andiamo a vincere amici miei, andiamo a vincere.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo alla fine di settembre, e già è iniziata la nuova campagna elettorale per le prossime europee di giugno, e l’asso nella manica di Salvini potrebbe essere il generale Roberto Vannacci. Il generale Roberto Vannacci è stato nominato da pochi giorni capo di stato maggiore delle forze operative terrestri. Alle spalle una lunga carriera militare. Ha seguito per anni operazioni speciali in Iraq e in Afghanistan, presentando un esposto sull'uso dell'uranio impoverito. Mimmo Leggiero, pilota militare ormai in congedo, lo conosce molto bene.

MIMMO LEGGIERO – PILOTA MILITARE IN CONGEDO Io mi permisi di andare a parlare con Crosetto illustrandogli i contenuti dell'esposto che fece Vannacci e parlandogli anche di questa idea del libro che stava facendo per ottenere qualche soldo per fare la campagna elettorale e perché no in Fratelli d'Italia che poteva essere un riferimento e la casa naturale di Vannacci

LUCA CHIANCA Che cosa le dice Crosetto su Vannacci?

MIMMO LEGGIERO– PILOTA MILITARE IN CONGEDO Le parole furono una candidatura non si nega a nessuno, ma un personaggio di questa levatura può essere molto importante per il partito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In estate esce il tanto discusso libro di Vannacci “Il mondo al contrario”. Nel suo libro Vannacci se la prende con quella che chiama la “dittatura delle minoranze, degli immigrati, omosessuali, femministe, ambientalisti, attacchi corredati da frasi shock: “Cari omosessuali, normali non siete”, “I tratti somatici di Paola Egonu non rappresentano l’italianità” “Le femministe? Moderne fattucchiere. Il libro entra nelle classifiche dei più venduti dell’anno ma lui viene così destituito dal comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze, dove si era insediato pochi mesi prima. E il ministro Crosetto prende le distanze e annuncia un’inchiesta disciplinare.

10/09/2023 - IN MEZZ’ORA GUIDO CROSETTO – MINISTRO DELLA DIFESA Le idee possono essere diverse, io e lei possiamo pensarla diversamente, scontrarci e avere e farlo per sempre, i principi e i valori sono un'altra cosa, sono quelli su cui si regge la nostra convivenza, su cui si regge lo stato democratico, su cui si reggono le istituzioni. I principi e i valori tutti dobbiamo difenderli, in primis le forze armate che hanno come compito la difesa della democrazia e delle libere istituzioni.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La settimana scorsa, tra lo stupore di molti, Vannacci viene comunque promosso a nuovo incarico: capo di stato maggiore delle forze operative terrestri e chi in questi mesi lo ha difeso fin dall'inizio è Gianni Alemanno da poco a capo di un nuovo movimento politico: Indipendenza.

LUCA CHIANCA Lei vorrebbe candidarlo alle prossime elezioni, no?

GIANNI ALEMANNO – MOVIMENTO INDIPENDENZA! Ah, certo. Perché rappresenta l'uomo comune che non ne può più di questa cappa ideologica che in qualche modo ci condiziona dobbiamo stare sempre attenti a come parliamo, non possiamo difendere la famiglia tradizionale, non possiamo difendere determinati valori perché sennò siamo sempre sotto schiaffo.

LUCA CHIANCA Lei ha già preso contatti con lui? Gli ha proposto una candidatura ufficiale?

GIANNI ALEMANNO – MOVIMENTO INDIPENDENZA! Allora Vannacci in origine voleva candidarsi con Fratelli d'Italia, poi quando è successo tutto il patatrac creato dal ministro Crosetto ci siamo sentiti, ci siamo confrontati, lui fino adesso continua a dire io per adesso sono militare devo continuare la carriera militare non mi posso esporre da questo punto di vista quindi non ha sciolto nessuna riserva.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma chi strizza l'occhio da mesi in difesa del generale Vannacci è sicuramente il vicepremier Matteo Salvini. Tg1 21/08/2023 MATTEO SALVINI Ognuno vive la sua vita privata, la sua sessualità come vuole, detto questo mi rifiuto di vivere in un Paese che mette all'indice Tizio o Caio perché quel libro non s'ha da leggere. Questo succede nei regimi.

LUCA CHIANCA Oggi sta promettendo qualcosa a Vannacci per tirarselo dentro per le prossime europee?

MIMMO LEGGIERO– PILOTA MILITARE IN CONGEDO Non ne ho idea, ma non mi meraviglierebbe. È stile Salvini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Incontriamo una fonte interna al partito che conosce come stanno veramente le cose tra Salvini e il generale Vannacci.

FONTE LEGA SALVINI PREMIER Quello che sta succedendo non è condiviso da tanti di noi. Si parla di un accordo molto forte anche dal punto di vista economico

LUCA CHIANCA In che senso economico?

FONTE LEGA SALVINI PREMIER Ci sono centinaia di migliaia di euro in ballo eh

LUCA CHIANCA cioè?

FONTE LEGA SALVINI PREMIER più di 2, 300mila euro di sicuro

LUCA CHIANCA e perché si parla di soldi?

FONTE LEGA SALVINI PREMIER Io credo che Salvini abbia promesso la candidatura certa a Vannacci e se ciò non si verifichi probabilmente Salvini dovrà pagare dei grandi soldi a Vannacci.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Una sorta di penale in caso di mancata elezione e secondo la nostra fonte questo accordo privato si starebbe scrivendo in queste ore. Lo incontriamo mercoledì scorso ad Anagni.

LUCA CHIANCA Ma è vero che ha un contratto, state chiudendo un contratto blindato con Lega di Salvini

ROBERTO VANNACCI – CAPO DI STATO MAGGIORE DEL COMANDO DELLE FORZE OPERATIVE TERRESTRI E lei come fa a sapere queste cose? Assolutamente non confermo nulla di tutto ciò. Sono probabilmente fantasticherie giornalistiche io non ho contratti con nessuno

LUCA CHIANCA Lo state chiudendo il contratto si parla anche di centinaia di migliaia di euro per una candidatura sicura

ROBERTO VANNACCI – CAPO DI STATO MAGGIORE DEL COMANDO DELLE FORZE OPERATIVE TERRESTRI e chi gliel'ha detto? Io smentisco totalmente tutte queste dicerie

LUCA CHIANCA smentisce?

ROBERTO VANNACCI – CAPO DI STATO MAGGIORE DEL COMANDO DELLE FORZE OPERATIVE TERRESTRI Certo che smentisco

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO e non potrebbe dire altrimenti perché come militare ancora in servizio non potrebbe concludere nessun accordo con un partito politico per essere candidato alle elezioni.

LUCA CHIANCA Però i soldi escono e vanno a Vannacci nell’accordo solo se non viene eletto…

FONTE LEGA SALVINI PREMIER solo se non viene in un collegio al primo posto e dovrebbe essere candidato Italia centrale dove Vannacci è forte perché gran parte dello Stato Maggiore lo appoggia anche se non si può dire è così, sembra sia così. LUCA CHIANCA MA era mai successa una cosa del genere in cui un partito che garantisce in questa maniera? FONTE LEGA SALVINI PREMIER Semmai l'incontrario noi pagavamo per essere eletti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche perché a leggere i bilanci la lega di Salvini è in profondo rosso, meno quattro milioni di euro

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Allora la Lega è un disastro perché nel ‘21 ad esempio aveva un patrimonio positivo e oggi questo patrimonio è oggi questo patrimonio andato in negativo, fosse una società dovrebbe andare in liquidazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La raccolta del 2X1000 del partito di Salvini nel 2022 sembra aver seguito l'andamento delle ultime elezioni dove ha perso oltre 3 milioni e 200mila voti.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Il 2x1000 è in picchiata. Prendeva 1,8 milione di euro, nel 2022 ha preso un milione e 2.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E se nel 2021 aveva un avanzo di gestione di 1,4 milioni, nel 2022 il disavanzo è enorme: una perdita di ben 4 milioni di euro.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Hanno cercato di forzare la campagna elettorale e hanno speso un sacco di soldi e infatti i costi sono raddoppiati, sono diventati 12 milioni nel 2022. Allora 12 milioni di costi con 1,2 milioni di 2X1000 c'hai poche verze da sfogliare, come diciamo noi al Nord.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il partito di Salvini ha chiuso il bilancio a meno 4 milioni, ma solo grazie ai contributi dei privati che hanno versato circa 7,2 milioni, quasi tutti provenienti da donazioni dei parlamentari eletti, poi fuori dal bilanci del partito ci sono a disposizione i soldi pubblici dei rispettivi gruppi parlamentari. Nel 2012 a chiedere maggiore trasparenza su come venivano utilizzati dai partiti, è stato Pietro Ichino, giurista ed ex senatore Pd. E aveva presentato un emendamento al regolamento del Senato. PIETRO ICHINO – SENATORE PARTITO DEMOCRATICO 2008-2015 L'emendamento prevedeva che venisse indicato online accessibile da chiunque il nome del destinatario e la causale per esteso, quindi il perché del pagamento.

LUCA CHIANCA Oggi ogni gruppo è tenuto a pubblicare online ogni mandato di pagamento con indicazione della relativa causale, no?

PIETRO ICHINO – SENATORE PARTITO DEMOCRATICO 2008-2015 Ecco qui manca l'indicazione del beneficiario, è un caso tipico di intervento della manina anonima che di fatto depotenzia la norma o addirittura la svuota. Ancora oggi Belsito potrebbe acquistare i diamanti mascherandoli come attrezzature o beni…

LUCA CHIANCA Come attività di consulenza

PIETRO ICHINO – SENATORE PARTITO DEMOCRATICO 2008-2015 O sotto forma di consulenza

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Infatti c’è poi chi c’è ricascato di nuovo. È il gruppo del Senato della Lega di Salvini quando quando nel 2018 aveva firmato un contratto da 480mila euro con una società riconducibile a Vanessa Servalli, cognata dell'allora direttore amministrativo del gruppo alla Camera Alberto Di Rubba, attuale tesoriere del partito. Dovevano servire a divulgare le attività istituzionali del gruppo sui social, peccato che la cognata avesse un bar a Clusone, in provincia di Bergamo.

LUCA CHIANCA Lei è la cognata di Di Rubba, no?

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI ALBERTO DI RUBBA Sì.

LUCA CHIANCA Avete aperto a un certo punto una società, la Vadolive, a maggio 2018.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI ALBERTO DI RUBBA Non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Dopo 8 giorni, avevate un contratto da parte del gruppo della Lega al Senato. VANESSA SERVALLI – COGNATA DI ALBERTO DI RUBBA Io non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Lei lavora nel campo dei social, della comunicazione? Cioè come fa lei a far aprire una società e ad avere poi un contratto da 480mila euro con il gruppo del Senato…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il contratto è stato poi interrotto, ma come emerge dai rendiconti pubblicati online, la società della cognata dell'attuale tesoriere del partito, Alberto Di Rubba, mai esplicitamente indicata, avrebbe incassato per mesi 36600 euro al mese per una generica attività di comunicazione.

LUCA CHIANCA Il contratto che nel 2018 avete fatto con il gruppo del Senato alla società di sua cognata

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Stiamo tornando ancora...

LUCA CHIANCA Stiamo tornando a soldi che sono rimasti lì, no? Son rimasti lì?

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Niente dai, non rispondo.

LUCA CHIANCA Però se ci dà una mano a capire, sua cognata aveva un bar qui su a Clusone

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER La mano l'ho già data a capire tutto: Chi vuol capire capisca

LUCA CHIANCA A me non me l'ha mai data

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Chi vuol travisare la realtà la travisa

LUCA CHIANCA Me la spieghi. Arrivano dei soldi, un contratto da 480mila euro

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER la prego, ho un'attività, ho dei clienti, per cortesia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tesoriere fino ad aprile scorso c'era Giulio Centemero condannato in primo grado per finanziamento illecito al partito. Salvini lo ha sostituito proprio con Alberto Di Rubba, ex direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera, ma con alle spalle due condanne in primo grado per peculato per la vicenda legata all'acquisto della sede della Lombardia Film Commission.

LUCA CHIANCA Oggi lei è stato nominato tesoriere della Lega

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Sì, sì perché fino al terzo grado di giudizio c'è…

LUCA CHIANCA Certo. Però era opportuno promuoverla?

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Ma cos'è promuoverla, è lavoro perché voi parlate di promozione?

LUCA CHIANCA Era un amministratore del gruppo la fanno diventare tesoriere del partito.

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Lei è bravo a fare il suo lavoro e le faccio i miei complimenti che siamo qui ancora nelle mie attività private a farmi un'intervista…

LUCA CHIANCA Ho capito ma lei è il tesoriere di un partito nazionale non è un uomo qualsiasi, non è un imprenditore qualsiasi, io vengo da lei è perché è un uomo pubblico

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Non posso svolgere la mia attività?

LUCA CHIANCA Lei è liberissimo ci mancherebbe

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Io sono sempre stato un manager di aziende private adesso sono manager di un partito, non posso?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Secondo i giudici Di Rubba si sarebbe appropriato di soldi pubblici durante l'acquisto della nuova sede di Cormano quando era capo della Lombardia Film Commission.

LUCA CHIANCA Il giudice dice: l'ente pubblico come cosa propria, lei ha preso l'ente pubblico come cosa propria

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER è la sua interpretazione le carte dimostrano tutt'altro

LUCA CHIANCA il contrario

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Io ho sempre fatto la mia attività, io ho sempre svolto l’attività professionale, consideri che io in Film Commission proprio perché lo facevo volontariamente non ho mai chiesto un rimborso spese di un euro utilizzando le mie auto, utilizzando tutto a mie spese a fare qualsiasi trasferta. Quindi vado a prendere soldi a usare soldi pubblici come se fosse cosa mia? E’ il contrario.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Della vicenda ci eravamo occupati qualche anno fa, quando dal Brasile ci chiama Luca Sostegni, uno dei prestanome dell'operazione che ha portato all'acquisto, per 800mila euro, di questo capannone da parte della Lombardia Film Commission guidata all'epoca da Alberto Di Rubba. Sostegni era originariamente subentrato per 1000 euro nella società in liquidazione proprietaria dell'immobile, poco dopo l’aveva rivenduto a 400 mila euro alla società Andromeda, di fatto del commercialista Michele Scillieri, che poi lo venderà a sua volta alla Film Commission di Di Rubba per 800 mila euro. E secondo Sostegni, che incontriamo dopo 3 anni di domiciliari, gli 800 mila euro dovevano essere suddivisi così:

LUCA SOSTEGNI I 400mila euro del pagamento del capannone chiamiamolo così, l'altra parte doveva andare per la ristrutturazione, 400 dovevano andare: 300 a, ridendo dicevano alla campagna elettorale del 2018 e 50 a me e 50 a Michele, questo era il patto. I 50 che mi avete detto me li dovevate dare, me li avete dati 20, io per fare il patteggiamento quei 20 li ho dovuti anche tirar fuori praticamente l'ho fatto per nulla. Michele era il mio tramite però lui aveva chiesto a questi a Manzoni e Di Rubba che mi dessero questi soldi, Di Rubba era d'accordo, Manzoni no.

LUCA CHIANCA Io so che lei era di quelli che voleva darglieli quei soldi

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Non rispondo

LUCA CHIANCA Eh?

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER No, travisate la realtà, non è la realtà dei fatti, non è la realtà dei fatti. Anche sull'immobile le sembra che io abbia comprato un immobile che tutti dicono, voi per primo, 400mila pagato 800, ma se fosse vero perché in bilancio è ancora scritto 800mila ancora al 31.12.2022.

LUCA CHIANCA Perché?

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Perché l'immobile vale, quindi che danno ho fatto io?

LUCA CHIANCA Il tema è come arrivate a quell'immobile, attraverso il prestanome Sostegni

ALBERTO DI RUBBA – TESORIERE LEGA SALVINI PREMIER Io non sapevo nulla di quelle robe

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine Luca Sostegni, che per la sua attività di prestanome si è fatto 4 mesi di carcere e 3 anni di domiciliari, non avrebbe ricevuto l’intero compenso pattuito

LUCA CHIANCA In parallelo c'è chi viene promosso

LUCA SOSTEGNI E in parallelo c'è chi viene promosso

LUCA CHIANCA Difficile capirlo eh?

LUCA SOSTEGNI Ma che nessuno non gli va a dir nulla? È questo che io mi chiedo

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Roma giriamo la domanda a Matteo Salvini durante il congresso regionale della Lega.

LUCA CHIANCA Ci dica sul tesoriere di Rubba da poco nominato dopo aver avuto due condanne in primo grado, ministro

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO NAZIONALE LEGA SALVINI PREMIER Buonasera, buonasera, buonasera

LUCA CHIANCA Sostegni il prestanome dell'operazione è rimasto sconcertato. Mi ha chiesto di chiederle come mai lei ha nominato Di Rubba? Ministro, Di Rubba come si fa a nominare Di Rubba tesoriere dopo quello che è successo?

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO NAZIONALE LEGA SALVINI PREMIER Mi stai Mi stai simpaticissimo

LUCA CHIANCA anche lei ci sta simpaticissimo però cerchi di rispondere a qualche domanda ogni tanto ministro. Risponda a questa semplice domanda: come avete fatto a nominare tesoriere Alberto Di Rubba con due condanne?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, la Lega di Salvini non è messa bene dal punto di vista dei conti. Dopo dieci anni dall'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, le casse segnano -4 milioni di euro. Ma da chi viene finanziata la Lega, come tutti gli altri partiti? Intanto dai contribuenti con il versamento del 2 per 1000 e poi dalle donazioni dei privati che però non possono superare la soglia di 100.000 euro a testa. Nel 2019, per esempio, sono stati versati 100.000€ euro da una piccola media impresa edile di Pozzuoli la coseco. Poi c'è la Vaporart, l'azienda che produce sigarette elettroniche quest'anno ha donato al Carroccio 5.000 euro euro , l'anno scorso 50.000, 100.000 nel 2018 quando era al Governo altri 145.000 euro. Negli anni sono arrivati dalla famiglia Polidori gli imprenditori che hanno fondato la scuola telematica Cepu e Link Campus. Poi Francesco Polidori oggi è indagato per una serie di reati finanziari, tra i quali anche la bancarotta fraudolenta. Altri 50.000 euro sono arrivati dalla Giessegi industria mobili, e nel 2021 50.000 euro da Giovan Battista Carosi, patron di Mondo Convenienza. Insomma però va detto che la maggior parte dei contributi alle casse della Lega per Salvini arrivano dai suoi stessi eletti che contribuiscono con un versamento di che va dai 2000 ai 3000 euro al mese e arriva anche fino a 20.000 euro quando c'è da candidarsi. Ecco, questo è un discorso che vale generalmente per tutti, tranne secondo una fonte leghista che ha parlato con il nostro Luca Chianca, per il generale Vannucci, che andrebbe addirittura risarcito, indennizzato qualora una volta candidato non fosse eletto. Ora sono notizie prive di ogni fondamento, dice. Dicono Salvini e Vannacci, però, prima di smentire categoricamente si è lasciato scappare "Ma voi come avete saputo? Chi ve l'ha detto?" Vedremo come andrà a finire. Ecco, quello che va detto è che dopo l'abolizione del finanziamento pubblico, l'unico tesoretto proveniente dal pubblico su cui i partiti possono contare è quello dei contributi che vengono dati ai gruppi parlamentari, stiamo parlando di 55 milioni di euro che vengono distribuiti in base al rapporto degli eletti. Quindi va da sé che chi vince le elezioni è più. Insomma incassa più soldi. Ecco però su questo c'è una trasparenza a metà nel senso che va rendicontata la cifra, va anche rendicontata il motivo per cui viene spesa, ma non il beneficiario. Ed è per questo, come ha raccontato il nostro Luca, è stato possibile che dal gruppo della Lega partisse un uno stanziamento di 480.000 euro destinato alla comunicazione social del gruppo, però poi è finito, come abbiamo visto, ad una società che fa riferimento alla cognata dell'attuale tesoriere e che gestisce un bar. Ma chi le controlla queste cose? Su questa cosa poi nessuno ha dato mai una spiegazione, anche perché se le controllano da soli, vige l'autodichia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Predappio, paese natale di Benito Mussolini. Come ogni anno, centinaia di nostalgici, si riuniscono per festeggiare l'anniversario della marcia su Roma.

LUCA CHIANCA Voi siete il gruppo di?

UOMO Bologna

LUCA CHIANCA Arditi?

UOMO Arditi

LUCA CHIANCA Oggi per la marcia su Roma

UOMO No, noi siam qui perché è una tradizione

LUCA CHIANCA Però l'evento quale sarebbe? UOMO L'omaggio a Mussolini certamente

LUCA CHIANCA Durante la ricorrenza del 28 ottobre sulla marcia su Roma

UOMO È concentrato a ottobre diciamo

LUCA CHIANCA Non me la dice sta cosa, eh, non la vuole dire?

UOMO Ottimo, siamo apposto

LUCA CHIANCA Grazie

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La marcia si avvia verso il cimitero, dove è sepolto il corpo di Benito Mussolini, all'interno della Cripta di famiglia.

LUCA CHIANCA Ma la marcia si svolge così?

SERVIZIO D'ORDINE Sì.

LUCA CHIANCA Sembra più una marcia funebre?

UOMO SERVIZIO D'ORDINE È una commemorazione, non è un circo.

LUCA CHIANCA Per la marcia su Roma dico, eh?

LUCA CHIANCA Quanta gente ci sarà? DONNA SERVIZIO D'ORDINE Non saprei dirti

LUCA CHIANCA Sembra più una commemorazione funebre, molto silenziosa. Dai fateci fare due domande.

UOMO SERVIZIO D'ORDINE Ma sta robetta infame così, lascia stare

UOMO Facciamo sentire il nostro presente. Per il duce Benito Mussolini: Presente! Per il duce Benito Mussolini: Presente! Per il duce Benito Mussolini…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E dopo il presente con saluto romano tutti in fila a rendere omaggio al duce, nella cripta di famiglia, realizzata tra il 1928 e il 1933, per volere dello stesso Mussolini che qui, però, porteranno solo nel 1957, molti anni dopo la sua morte.

LUCA CHIANCA Creò diversi problemi?

GIORGIO FRASSINETI – SINDACO PREDAPPIO (FC) 2009 – 2019 Ah, certamente. Mussolini fa rumore ancora oggi quindi figuriamoci all'epoca, botte tutti i giorni, venivano a Predappio a picchiarsi da tutta Italia e nel ‘71 misero una bomba di fianco alla tomba di Mussolini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Negli anni Trenta a occuparsi della sistemazione del cimitero, dove è sepolto Benito Mussolini, è l'architetto Cesare Bazzani che a Predappio, per volontà del duce, progetta anche la chiesa di Sant'Antonio da Padova riempiendola di simboli massonici, come testimoniano le colonne al suo ingresso.

GIORGIO FRASSINETI – SINDACO PREDAPPIO (FC) 2009 – 2019 Mussolini si arrabbia e li fa togliere però non può far togliere le colonne all'ingresso della chiesa che rappresentano le colonne di Salomone, il tempio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La guerra di Benito Mussolini alla Massoneria, culminò con il divieto ai fratelli massoni di accedere a cariche pubbliche. Nel frattempo passano gli anni e la cripta del duce versa in condizioni di degrado e abbandono.

GIORGIO FRASSINETI – SINDACO PREDAPPIO (FC) 2009 – 2019 Nel 2017 si presenta qui un esponente della fondazione di Alleanza Nazionale, Petri: Chiedeva cosa ne pensassi del fatto che qualcuno potesse mettere i soldi per sistemare la tomba. Io ho ovviamente ho detto, guarda che il Comune di Predappio non è disponibile e lui ha detto che probabilmente la fondazione di Alleanza nazionale avrebbe trovato le risorse, non tante, per sistemarlo.

LUCA CHIANCA A parlare con lei è quasi sempre Petri

GIORGIO FRASSINETI – SINDACO PREDAPPIO (FC) 2009 – 2019 Sì.

LUCA CHIANCA Anche perché lui è di Forlì?

GIORGIO FRASSINETI – SINDACO PREDAPPIO (FC) 2009 – 2019 Assolutamente, abita qui

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A seguire l'operazione, per conto della Fondazione di Alleanza Nazionale nata nel 2011 dopo lo scioglimento del partito di Fini, è Roberto Petri, ex capo della segreteria dell'allora Ministro della Difesa, Ignazio La Russa. È stato nei consigli di amministrazione di Finmeccanica ed Eni. Oggi è il presidente dell'immobiliare della Fondazione di An e vive in Romagna, con sua moglie, la senatrice di Fratelli d'Italia Farolfi.

LUCA CHIANCA Può farlo uscire? DONNA È fuori, dovrebbe aver aperto il cancello

LUCA CHIANCA Aspetti, no è chiuso

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE ITALIMMOBILI SRL Chi è?

LUCA CHIANCA Dottore buongiorno, sono Chianca di Report, sono un giornalista della Rai posso

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE ITALIMMOBILI SRL Guardi sono molto impegnato non la posso

LUCA CHIANCA Dottore volevo sapere come vi è venuto in mente di finanziare la ristrutturazione della cripta del duce. Un attimino, un attimino, le chiedo una cortesia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Petri non vuol parlare, come il resto della Fondazione che al suo interno ha tutti gli ex colonnelli di Fini: La Russa, Gasparri, Alemanno, Bocchino e l'ex tesoriere di Fratelli d'Italia, l'onorevole Antonio Giordano, oggi alla guida dei conti di Ecr, il partito conservatore europeo che a Scilla, la scorsa estate, ha organizzano un evento sul Ponte sullo stretto.

ANTONIO GIORDANO - VICEPRESIDENTE VICARIO FONDAZIONE AN Abbiamo qui oltre 200 delegati che provengono da 14 nazioni europee LUCA CHIANCA Fondazione che rappresenta un po' l'anima della destra nazionale italiana, no? Una fondazione dove sarebbe poi confluito tutto quello che c'era nel vecchio partito di Alleanza Nazionale giusto?

ANTONIO GIORDANO - VICEPRESIDENTE VICARIO FONDAZIONE AN Mmmh, tanta roba però così io pensavo fosse una cosa un po' più breve.

LUCA CHIANCA Vabbè

ANTONIO GIORDANO - VICEPRESIDENTE VICARIO FONDAZIONE AN Ma io non è che mi nascondo in maniera particolare ma è tanta roba UFFICIO STAMPA FUORI CAMPO Io pensavo fosse una domanda più generica

LUCA CHIANCA Diciamo era un intro ancora non ho fatto la domanda, era un intro

ANTONIO GIORDANO - VICEPRESIDENTE VICARIO FONDAZIONE AN se volete la facciamo poi a Roma in Fondazione con più calma oggi sono concentrato su Scilla.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma l'intervista nessuno l'ha voluta fare. Quando nel 2011 si è sciolta Alleanza Nazionale, nella Fondazione sono arrivati ben 55 milioni di euro, costituiti quasi tutti dai vecchi rimborsi elettorali.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Certo, è una Fondazione ricchissima, si vede che in passato i partiti incassavano una quantità di soldi imbarazzante. Questi oggi hanno 32 milioni di euro liquidi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Con tutti quei soldi in cassa, ristrutturare la cripta del duce non è stato un problema anche perché parliamo di circa 100mila euro.

LUCA CHIANCA Il rischio che noi abbiamo pagato con i soldi pubblici la ristrutturazione della cripta del duce è altissimo?

GIANLUIGI PELLEGRINO - AVVOCATO - ESPERTO DI DIRITTO AMMINISTRATIVO Direi una certezza, ma non per questo illegittima. Nel senso che la legge non lo impedisce, la legge non dà un vincolo di destinazione ai soldi che si acquisiscono con quello che era il finanziamento pubblico.

LUCA CHIANCA È incredibile che abbiamo pagato la ristrutturazione della cripta

GIANLUIGI PELLEGRINO - AVVOCATO - ESPERTO DI DIRITTO AMMINISTRATIVO E chissà quante cose strane abbiamo pagato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nel 2011, quando Alleanza Nazionale si è sciolta, la Fondazione ha ereditato 55 milioni di vecchi rimborsi elettorali e per questo oggi può godere di 32 milioni di euro di liquidità. Insomma, un bel colpo, una Fondazione ricca. Ecco, una parte di questi soldi potrebbero essere stati destinati alla ristrutturazione della cripta del Duce e della sua famiglia. Ora noi abbiamo detto che dopo l'abolizione del finanziamento pubblico, ad alimentare le casse di un partito sono soprattutto i contributi dei singoli eletti del partito stesso. Nel 2013 Fratelli d'Italia aveva 13 deputati e senatori, nel 2018 64. Oggi 18, è il primo partito d'Italia. Può godere di una liquidità di circa 3 milioni di euro i contributi del 2 per mille sono passati da 2,7 milioni a 3,1 milioni i versamenti dei privati da 1,7 a 5,6 milioni. Ecco 40.000 euro li ha versati anche la Fondazione Alleanza Nazionale, che con Italimmobili gestisce tutto il patrimonio immobiliare ereditato dal Movimento Sociale Italiano, sarebbe un po' la cassaforte di Fratelli d'Italia. Tra i 19 membri del consiglio di amministrazione c'è Arianna Meloni, sorella del premier, ma c'è anche Maurizio Gasparri che ormai da tempo non ha più nulla a che fare con il partito. Appartiene a Forza Italia, Gasparri è anche del comitato esecutivo. Con lui c'è l'avvocato del ministro Urso, Valentino Alemanno, Giordano La Russa e Menia. E a Forlì, a partire dal 2018, la Fondazione ai militanti, cioè quegli stessi militanti che avevano contribuito ad acquistare quegli immobili e che li hanno anche mantenuti e che non sanno quasi nulla di quello che sta combinando la Fondazione, una fondazione che avrebbe come mission quella di conservare il patrimonio politico, culturale, sociale e storico della destra italiana, anche di quei movimenti che l'hanno originata. Tra questo patrimonio c'era anche l'avversione del Duce alla massoneria. Ecco, questo aspetto l'hanno conservato?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Fondazione è considerata da molti la cassaforte del partito di Giorgia Meloni. E il grosso che si trova nella pancia della Fondazione, oltre all'enorme liquidità, è dato dagli immobili ricevuti negli anni dal Movimento sociale Italiano, come questo a Rimini.

GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI Almirante mi diede l'equivalente di 75 milioni di lire con 6 cambiali da 10 milioni ciascuna

LUCA CHIANCA E perché le cambiali? GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI E perché non avevano i soldi il partito

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Renzi, oggi in Fratelli d'Italia, nella sede di Rimini ha investito oltre 30 anni della sua vita e anche tanti soldi, suoi e dei militanti. Nel 2018 la fondazione Alleanza nazionale che nel frattempo era diventata proprietaria dell'immobile, gli dà lo sfratto perché voleva che i militanti di Fratelli d'Italia pagassero l'affitto.

GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI Che noi non eravamo minimamente in dovere di pagare l'affitto perché a un certo momento non solo noi abbiamo acquistato quella sede con tanti anni di lotta e militanza ma c'abbiamo messo fuori pure i soldi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Da 5 anni l'immobile è vuoto, inutilizzato, ci sono ancora i manifesti della discesa in campo di una giovanissima Giorgia Meloni e il tetto perde acqua.

LUCA CHIANCA Però più passa il tempo e più quel buco per esempio distrugge tutto

GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI Logico, tra l'altro quando piove forte io c'ho messo il secchio perché guardi

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eppure l'idea della fondazione era quella di mettere l'immobile a reddito.

GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI Io non conosco nulla di quelli che sono...

LUCA CHIANCA Gli investimenti, come vengono gestiti i soldi

GIOENZO RENZI – CAPOGRUPPO CONSILIARE FRATELLI D’ITALIA RIMINI Noi non sappiamo nulla. Le assemblee della fondazione io ho partecipato mi sembra in 10 anni a due assemblee

LUCA CHIANCA E basta?

GIOENZO RENZI – SEGRETARIO FDI RIMINI E basta. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Gli immobili in tutta Italia sono circa una cinquantina per un valore di mercato che si aggira intorno ai 10 milioni di euro. Alcuni sono vuoti e abbandonati, come quello di Milano, in altri ci sono le sedi di Fratelli d'Italia, mentre alcuni sono affittati a privati di cui non si conosce il nome come quello più prestigioso dei Parioli.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Rendono pochissimo perché rendono 340mila euro l'anno.

LUCA CHIANCA Nulla rispetto al patrimonio che valgono no?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Dipende a chi sono stati affittati certo la società perde, ogni anno perde un po'.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A capo dell'immobiliare della Fondazione di Alleanza Nazionale troviamo sempre Roberto Petri. Quando è stato commissario provinciale di Forlì e Cesena entra in conflitto con l'avvocato Francesco Minutillo, noto per le sue posizioni conservatrici all'interno del partito di Giorgia Meloni, da cui è uscito tre anni fa.

FRANCESCO MINUTILLO – EX MEMBRO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE FDI Mi risulta che sia nella lista dei massoni italiani e da membro dell'assemblea nazionale ho chiesto più volte a Petri, quando era commissario della federazione provinciale di Forlì e Cesena, di smentire la sua appartenenza alla massoneria. E non ho mai avuto risposta sul punto.

FRANCESCO MINUTILLO – EX MEMBRO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE FDI Io vorrei capire, la tua appartenenza alla massoneria che roba sia? Se sei un massone dovresti abbandonare Fratelli d'Italia.

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL Taccio perché non c'è nessuna correlazione e quindi non sono tenuto a dare nessuna risposta, io non sono tenuto conoscendo lo statuto di Fratelli d'Italia a dare una risposta. Punto.

FRANCESCO MINUTILLO – EX - MEMBRO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE FDI Bene la darai ai cittadini, però, perché uno che è esponente della massoneria non può far parte di Fratelli d'Italia

KITTY MONTEMAGGI – COORDINATRCE COMUNALE SAVIGNANO (FC) Scusa fermati un attimo, ma tu sai chi degli altri parlamentari di Fratelli d'Italia chi è massone o no? Lo sai o no?

FRANCESCO MINUTILLO – EX - MEMBRO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE FDI Non mi interessa, io ho a che fare con lui

KITTY MONTEMAGGI Ti deve interessare perché Urso è massone

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Perché lo statuto di fratelli d'Italia parla chiaro, perché non vieta l'iscrizione alla massoneria.

LUCA CHIANCA Petri buonasera Chianca di Report come sta?

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL Oh benissimo, come posso aiutarla

LUCA CHIANCA Si femri un attimo facciamo due battute. Minutillo dice che lei è iscritto alla massoneria

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL Può dire quello che vuole, Minutillo

LUCA CHIANCA Ma lei smentisce? Non ha mai smentito questa sua appartenenza alla massoneria, giusto?

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL È un problema che non mi tocca, che non esiste LUCA CHIANCA Ci dice in che loggia è iscritto?

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL Ma assolutamente

LUCA CHIANCA Non ci fa il nome della loggia?

ROBERTO PETRI – PRESIDENTE CONSIGLIO AMMINISTRAZIONE ITALIMMOBILI SRL Non sono iscritto, nessuna Loggia

LUCA CHIANCA Beh questa sarebbe la prima volta che smentisce ufficialmente la cosa perché ci sono delle liste anche pubblicate su diversi centri studi che la inseriscono come massone.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Come questa lista in cui compare il nome di Roberto Petri, pubblicato dal centro studi Malfatti. Gioele Magaldi è Gran Maestro del Grande Oriente Democratico.

LUCA CHIANCA È attendibile questa lista

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Ci sono dei nomi veri, va visto caso per caso

LUCA CHIANCA In questo caso Roberto Petri lei che mi dice?

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Essere massoni per me è un titolo di orgoglio e quindi semmai Petri e chiunque altro potrebbe essere orgoglioso, ma se una persona in un Paese come l'Italia un po' massonofobico non vuole dichiarare la propria appartenenza non sarò io a dir di questo e di quello lo è. Tuttavia, io credo che sia bene che un personaggio pubblico dichiari le proprie ascendenze che sia massoniche o di qualunque altro tipo, cioè è un fatto di trasparenza.

LUCA CHIANCA Che mi dice di Urso, del ministro Urso?

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Beh ecco di Urso, del fratello Adolfo Urso posso dire che è un massone

LUCA CHIANCA Fratello lei intende fratello massone?

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Fratello massone certamente

LUCA CHIANCA Quindi le mi dice...

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Adolfo Urso è un fratello massone certamente, fratello massone schierato su posizioni neoaristocratiche neoliberiste.

LUCA CHIANCA Questo rapporto tra il partito e la massoneria non è così esplicito nessuno dice nulla?

GIOELE MAGALDI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO Nessuno ama raccontare della propria cifra massonica, c'è un vecchio patto dal dopoguerra, secondo dopoguerra in poi per cui ai massoni italiani viene chiesto di stare abbastanza cauti perché non verrebbe compresa dall'opinione pubblica, ma chiaramente voglio dire, i massoni abitano le stanze del potere avendo costruito la contemporaneità, abitano le stanze del potere contemporaneo.

LUCA CHIANCA – FUORI CAMPO E nonostante l’incompatibilità, ribadita più volte da Almirante, nella storia del Movimento sociale italiano non mancheranno personaggi legati alla massoneria, come Paolo Romeo, avvocato calabrese, condannato in primo grado a 25 anni e ritenuto uno degli invisibili della masson’ndrangheta. Il cosiddetto livello superiore, che collega la ‘ndrangheta con la massoneria, la politica e gli apparati dello Stato, emerso dalle inchieste della procura di Reggio Calabria sulle stragi di mafia. Nel 2021 lo aveva incontrato il nostro Giorgio Mottola.

DA REPORT DEL 22/11/2021 PAOLO ROMEO - AVVOCATO Ma non è così, io sono un povero spiazzato cioè, ecco perché non combattono la mafia e la mafia è forte, perché se la pigliano con me che non sono nessuno

GIORGIO MOTTOLA Eppure, era il centro propulsore di un sistema di potere estremamente complesso.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Io sono stato da quando ho i pantaloncini corti sempre impegnato in politica, fino al 1980 sono stato dirigente di partito nel Movimento sociale italiano, vertice di tutte le organizzazioni giovanili del Movimento Sociale Italiano

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Consigliere comunale, poi passa alla socialdemocrazia, diventa assessore e nel '92 parlamentare.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Perché io continuo ad essere punto riferimento di alcuni soggetti politici? Perché io ero difeso dall'onorevole, senatore Giuseppe Valentino. Per partecipare alle udienze mensilmente veniva qui a Reggio Calabria. Non aveva naturalmente una sua segreteria e quindi utilizzava il mio studio che era al centro della città

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dalla sentenza di primo grado del processo Gotha emerge un forte legame tra Romeo e l'avvocato Giuseppe Valentino, attuale presidente della Fondazione Alleanza Nazionale e legale di Adolfo Urso. Da un'intercettazione ambientale nello studio di Romeo, emergerebbe l'appartenenza dei due alla massoneria segreta.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Di fatto il mio studio in via Diana nel 2002 è parzialmente una segreteria politica di Giuseppe Valentino.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Che con noi di Fondazione e Logge non ha voluto parlare. Mentre chi ha accettato di parlare con noi è Gaetano Saya, maestro venerabile della loggia Divulgazione 1 di rito scozzese antico ed accettato, amico di Licio Gelli. Nel 2005 viene arrestato con l'accusa di aver costituito una struttura segreta e clandestina da cui viene poi prosciolto.

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Noi eravamo la struttura The italian stay behind next. Quella che voi giornalisti chiamate Gladio

LUCA CHIANCA Di cui lei ha fatto parte

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Di cui io ho fatto parte. Dopodiché dopo i casini successi a me rimandarono direttamente all'estero e io non operai più sul territorio nazionale

LUCA CHIANCA Missioni militari lei faceva?

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Certo

LUCA CHIANCA Vestito in uniforme

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Logico LUCA CHIANCA Eh sì va be' non si direbbe.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO GRAFICA Nel 2005 fonda il nuovo Movimento sociale italiano – destra nazionale. L'anno dopo registra il simbolo, come opera protetta dal diritto d'autore e nel maggio del 2011 lo fa anche presso l'ufficio marchi e brevetti. Poi registra la fiamma, con e senza la scritta Msi. Oggi quella fiamma, dall'alto valore simbolico, e forse anche economico, la troviamo anche sul simbolo di Fratelli d'Italia e Saya non l'ha presa bene.

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Mi perdoni, io ora prendo un palazzo scrivo Rai3 Report e io dico: buonasera sono Sigfrido Ranucci e scusatemi. Lei ride

LUCA CHIANCA Sarebbe il colmo.

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE La fiamma è nostra e lo dicono i documenti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La storia ha dell'incredibile. Saya ha registrato come opera protetta un simbolo conosciuto da tutti e usato da almeno 70 anni, ma che nessuno prima di lui ha mai pensato di brevettare

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Evidentemente io ci ho pensato, i disegni divini sono imperscrutabili.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma da qualche anno Saya passa il suo tempo tra procure e tribunali. Da un lato si difende dalla Fondazione An che gli contesta a sua volta l'uso della fiamma, dall'altra contrattacca presentando querele. L'ultima l'ha fatta contro la sorella di Giorgia Meloni nuovo capo segretaria del partito di Fratelli d'Italia che nel 2012, si presenta in politica con un altro simbolo. GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Lo brevetta tra l'altro Ignazio Benito Maria La Russa, c'è scritto qui.

LUCA CHIANCA Presidente del senato.

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Oggi. Quindi il simbolo che loro hanno brevettato è questo.

LUCA CHIANCA Questo con il cordino?

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Questo con il nodo dell'amore, loro lo chiamavano.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel 2014 la fondazione Alleanza Nazionale, che usava ancora la fiamma nel proprio simbolo, la concede a Fratelli d’Italia. Prima con la scritta Msi, poi senza e quel simbolo è stato depositato insieme allo statuto presso la Commissione che vigila sui partiti politici e certifica anche la possibilità di accedere ai finanziamenti privati e al 2x1000.

LUCA CHIANCA Gaetano Saya rivendica il fatto che sia il proprietario della fiamma, eppure la Meloni nel simbolo la usa

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Cioè a me se non mi arriva un provvedimento coercitivo io perché, non posso, ma giustamente perché me devo impiccia', quelle sono soggetti privati LUCA CHIANCA Però voi sui simboli potete mettere...

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Come no? Lo Statuto approvato in via definitiva dalla commissione, unitamente al simbolo, viene inviato por la pubblicazione alla Gazzetta ufficiale

LUCA CHIANCA E quindi voi lo certificate e quindi in questo caso il rischio è che abbiate certificato...

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Ma finché non c'è un provvedimento adottato da un giudice competente, non gli posso dire nulla.

LUCA CHIANCA Il simbolo però di Fratelli d'Italia è stato pubblicato in Gazzetta proprio perché la commissione dei partiti l'ha certificata lo Statuto del partito…

GAETANO SAYA – MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DESTRA NAZIONALE Ascolti, siamo nel paese dove accade tutto e il contrario di tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E cosa è accaduto infatti? Che Saya nel 2005 fonda, il nuovo Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale registra il simbolo della Fiamma con il nome M.S.I. e anche senza nome come opera protetta dal diritto d'autore presso il Ministero dei Beni Culturali. Poi nel 2011 la registra anche come marchio nell'Ufficio brevetti e Marchi del Ministero dello Sviluppo Economico. Poi all'improvviso se la ritrova come simbolo elettorale di Fratelli d'Italia. La fiamma ha un valore oltre che simbolico, anche economico. E quindi Saya protesta. Ma chi ha ragione? Il paradosso è che anche se sei titolare di un marchio, non puoi vietare che questo venga utilizzato da qualcun altro dal punto di vista politico. e infatti il ministero del Made in Italy. Ci scrive che l'Ufficio brevetti e Marchi non è competente perché non ha alcun controllo su questo tipo di vicenda. I marchi e i simboli politici sono tutelati da una legge speciale. Anche il Ministero della Cultura ci scrive che non è competente, quindi alla fine, insomma, se uno si sente usurpato di un marchio, di un simbolo, non rimane altro che fare una denuncia presso un tribunale ed eventualmente chiedere un risarcimento, che poi è quello che sta facendo Saya. Per quello che riguarda il presidente dell'immobiliare della fondazione di An Roberto Petrini il nome era apparso in una lista di iscritti alla massoneria pubblicata dal Centro Studi Malfatti. L'avvocato Minutillo ha detto questo rende incompatibile Petri con Fratelli d'Italia, Si dimetta. Petri risponde che lo Statuto non vieta l'iscrizione e l'appartenenza alla massoneria. E però poi, dopo, incalzato dal nostro Luca Chianca, dice di non essere iscritto ad alcuna loggia. Per quello che riguarda invece la presunta appartenenza del ministro Urso che è stata citata tra gli altri anche dalla Gran Maestro del Grande Oriente democratico Gioele Magaldi insomma ci scrive che non è vero e che anche diffamante solo pensarlo. Poi c'è la questione del suo avvocato, Giuseppe Valentino, che è anche presidente della Fondazione di Alleanza Nazionale. Il suo nome emerge all'interno della sentenza del processo Gotha ecco ci sarebbe un'intercettazione nel 200. Mentre parla con l'avvocato Paolo Romeo. E secondo i magistrati questa intercettazione farebbe pensare ad una appartenenza ad una loggia massonica segreta di entrambi. L'avvocato Valentino dobbiamo dire che non Valentino è stato imputato nel processo gotha. È indagato per un altro procedimento a Reggio Calabria per reato connesso. L'avvocato Valentino ci scrive e ci dice che non appartiene alla massoneria, che non gli risultano comunicazioni formali di procedimenti aperti nei suoi confronti. Ecco, rimanendo sul tema delle fondazioni. Insomma, ce ne sono tantissime nel mondo anche della sinistra sono servite per salvare il Partito comunista il PDS poi i DS che erano sommersi da oltre 150 milioni di euro di debiti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La sede della fondazione Gramsci si trova a due passi da Villa Ada. Durante la Liberazione viene occupata dai comunisti diventando la sede del Pci Sezione Salario. Dentro, storie di lotte sindacali del secolo scorso, ma ancora attuali come questo volantino dei braccianti viterbesi che chiedevano un giusto salario.

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Volevano incorniciare questo volantino. Cittadini braccianti, lavoratori tutti, chiediamo un giusto salario con vitto e vino, il vino serviva per lavorare eh.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Documenti d'archivio e alcune opere d'arte che appartenevano al Pci. Un Treccani sulla rampa delle scale, uno Schifano regalato al partito da Gianmaria Volontè.

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS E questa è una prova d'autore di Guttuso durante il sequestro Moro.

LUCA CHIANCA Che cos'è questo?

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Questa è una sottoscrizione per il Pci per fare la campagna elettorale per il referendum del 2 giugno.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Era il 1946 e già si raccoglievano soldi per far politica. Nel frattempo il Pci è diventato Pds, poi Ds e nel 2008 ha interrotto le attività con la nascita del Partito Democratico. Ugo Sposetti, oggi a capo dell'associazione Enrico Berlinguer, è l'ultimo tesoriere del partito. LUCA CHIANCA Esistono ancora i Ds?

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Sì, purtroppo sì, perché devo sistemare ancora delle vicende

LUCA CHIANCA e come state messi con i conti?

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Ci sono ancora bei debiti, c'è un contenzioso con le banche e con la presidenza del Consiglio

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il debito dell'ultimo bilancio pubblicato è di circa 158 milioni, di cui 100 garantiti dallo Stato. Quindi parliamo di almeno 50 milioni di debiti certi.

LUCA CHIANCA eh ma 50 milioni di debito è una cifra incredibile

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Ci sono un paio di banche

LUCA CHIANCA Anche? Che li vorrebbero? Li rivorrebbero indietro questi soldi

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS ma...

LUCA CHIANCA E come fa un partito morto a garantire alle banche

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Alla fine, quando ho sistemato l'Inps e TFR ci metteremo seduti e c'è la norma per sovra indebitamento, quello che c'è se lo prenderanno i creditori.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Con ogni probabilità non troveranno nulla perché prima che nascesse il Pd, sono state create ben 60 fondazioni per salvare il patrimonio del partito dai debiti accumulati dai Ds.

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS È salvato, c'ha presente che significa salvare un patrimonio così grande?

LUCA CHIANCA Che intende quando lei però quando mi dice che è salvato?

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Cioè tenere un magazzino umido, una tela un'opera d'arte significa buttarla, quando dico salvato dico questo. Voi pensate sempre a quello che ruba, tesoro mio

LUCA CHIANCA Un po' ve lo siete meritato, sono stati anni… scandali contro scandali

UGO SPOSETTI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BERLINGUER - TESORIERE DS Però attento, si colpiscono gli scandali ma non si colpisce la democrazia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E di scandali la Repubblica ne ha visti. A partire da tangentopoli che nel '93 portò al referendum per abolire i finanziamenti pubblici ai partiti. Poi introdotti nuovamente attraverso la formula dei rimborsi elettorali. Nel 2012 arrivano due nuove inchieste: i 49 milioni della Lega Nord con il tesoriere Belsito che aveva presentato rendicontazioni irregolari al Parlamento per ottenere fondi pubblici e i 25 milioni di euro della Margherita distratti dal tesoriere Lusi. Passa un anno e si arriva allo stop definitivo dei fondi pubblici per volontà del governo Letta.

13 DICEMBRE 2013 ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Il governo oggi ha assunto un decreto legge che abolisce il finanziamento pubblico dei partiti quindi da oggi è legge. Quindi è un sistema che dà tutto il potere ai cittadini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Al posto del finanziamento pubblico vengono introdotte le erogazioni da parte dei privati con un tetto massimo l'anno di 100mila euro e il meccanismo del 2X1000.

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Io difendo il principio, cioè il principio per il quale dare il potere al cittadino che attraverso un metodo certificato, qual è il 2x1000, decide a quale partito dare le sue tasse io lo difendo, è il modo migliore che infatti non ha creato frodi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo i grandi scandali di quegli anni, montava l'onda dell'antipolitica di Beppe Grillo e Matteo Renzi stava scalando il Pd con le sue Leopolde.

06/06/2018 MATTEO RENZI – PARTITO DEMOCRATICO C’è bisogno di cambiare il verso dell’Italia? Sì. Sì. Dici: “ma cambiare come?”. Sì

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Quindi c'era una forte pressione sì, perché si arrivasse a un sistema che evitasse il più possibile malfunzionamenti, scandali.

LUCA CHIANCA All'epoca nel 2013 nulla avete deciso sulle fondazioni, una sorta di limbo, di terra di nessuno

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 No, invece era, come quello, così come anche la questione della trasparenza rispetto a chi dava i finanziamenti era tutto sul tavolo, dopodiché fu fatto un passo per volta il mio governo è caduto immediatamente dopo.

LUCA CHIANCA Per mano di chi?

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Ma quella è la storia su, non mi faccia tornare su quelle storie.

LUCA CHIANCA È cruciale no? Il fatto che voi facciate una legge sull'abolizione del finanziamento pubblico al partito e poi si costituisce un indotto parallelo

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Ognuno fa le sue scelte ed è responsabile delle sue scelte

LUCA CHIANCA Senza controlli questo è il punto, erano senza controlli quelle Fondazioni?

ENRICO LETTA – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2013-2014 Fino a che non sono stati messi sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel giro di un mese dall'abolizione del finanziamento pubblico deciso dal Governo Letta, Renzi sale a palazzo Chigi, ma sulle fondazioni nessuno mette più le mani fino alla legge Spazzacorrotti del 2019 voluta dai 5 stelle che ha poi equiparato i controlli sui partiti anche alle fondazioni come Open, concludendo il lavoro iniziato dal Governo Letta. Avevamo intervistato Renzi già nel 2013 quando era ancora a Palazzo Vecchio e aveva già aperto la sua prima fondazione, Big Bang, diventata poi fondazione Open.

DA REPORT DEL 02/12/2013 MATTEO RENZI – SINDACO DI FIRENZE 2009- 2014 Io non ho trovato una sola persona, una, che mi abbia chiesto un ritorno per avermi dato un contributo

LUCA CHIANCA Vabbè, ancora è presto ad oggi è ancora il sindaco di Firenze però in prospettiva potrebbe essere il presidente del consiglio

MATTEO RENZI – SINDACO DI FIRENZE 2009- 2014 Io ho fatto il sindaco in questi anni, sa quante persone avevo che oh ti ho dato un contributo dammi una mano se vale il suo principio, figlio della cultura del sospetto.

LUCA CHIANCA Però non c'è il rischio di metterci nelle mani delle aziende che per esempio prendono gli appalti pubblici in questo Paese?

MATTEO RENZI – SINDACO DI FIRENZE 2009- 2014 Non puoi pensare, secondo me, di avere una gabbia di regole che ti aiuti a meno che tu non vieti il finanziamento privato, perché nel momento in cui accetti che anche soltanto uno di dia 100 euro, in teoria se vige il principio che lo fa per avere un ritorno che sia un cittadino singolo, che sia un'azienda, che sia un fondo pensioni americano o l'associazione della bocciofila sotto casa, se vige il principio per cui hai una sorta di cultura del sospetto, la partita è finita. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sarà, ma nel 2019 scoppia l'inchiesta della procura di Firenze sulle presunte irregolarità nei finanziamenti a Open. Renzi viene indagato per finanziamento illecito e tra le accuse mosse c'è anche quella di corruzione per l'allora braccio destro, Luca Lotti e il presidente della fondazione Alberto Bianchi. L'ipotesi sono soldi in cambio di favori normativi per British American Tobacco e Toto Costruzioni con cui Bianchi aveva preso consulenze per circa 2 milioni di euro.

DA REPORT DEL 09/12/2019 LUCA CHIANCA Queste consulenze con Toto... Lei ha preso quasi 2 milioni di euro, no?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Non ho dichiarazioni da fare. Quello che avevo da dichiarare è uscito adesso sulle agenzie.

LUCA CHIANCA Cioè? Me lo dica anche a me ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Le ho scritte apposta per non fare l'intervista LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le modalità dell’accordo con Toto, Bianchi le spiegherà a Luca Lotti, in questo appunto, sequestrato dalla Guardia di Finanza, scrive che a seguito degli accordi con Toto e British American Tobacco, riceverà 830mila euro, versandone 200mila nel comitato per il sì e altri 200mila nella Fondazione Open. Secondo i magistrati, però, Toto contribuisce economicamente nella fondazione in maniera indiretta schermato da una consulenza pagata all'avvocato Bianchi.

DA REPORT DEL 09/12/2019 LUCA CHIANCA Senta, mi conferma la raccolta fondi di oltre 6 milioni di euro, quasi 7 milioni di euro, in tutti questi anni?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN È nota da molto tempo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra i finanziatori troviamo un vero e proprio record man: l'ex onorevole Gianfranco Librandi. Nella Fondazione Open le società di Librandi ben 900mila euro in soli due anni, sforando il limite dei 100mila euro l'anno imposto invece ai partiti. Dopo diverse telefonate, siamo andati a trovarlo in azienda. UOMO Il dottor Librandi al telefono

LUCA CHIANCA Sì eccolo dottore buongiorno

GIANFRANCO LIBRANDI - IMPRENDITORE Buongiorno, l'intervista non la voglio fare

LUCA CHIANCA Perché?

GIANFRANCO LIBRANDI - IMPRENDITORE Perché di no LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Librandi nel 2018 diventa cruciale per far arrivare in tempo Renzi a Washington per il memoriale dell'ex Presidente Kennedy. Renzi deve fare un intervento di qualche minuto e non vuole mancare, così chiede alla Fondazione di prendergli un volo privato su un Falcon 900: partenza 5 giugno con ritorno il 6. Costo iniziale 134mila euro. I soldi in cassa però non ci sono, ma si procede ugualmente perché fortunatamente ai primi di luglio arrivano 100mila euro da Librandi. Qualche giorno dopo, anche la fattura da pagare per ben 128.992 euro.

LUCA CHIANCA Io volevo chiederle tra l'altro dei finanziamenti che aveva fatto per l'aeroplano di Renzi

GIANFRANCO LIBRANDI - IMPRENDITORE Ma non voglio parlare di queste cose, non esiste, ok?

LUCA CHIANCA Che lei aveva finanziato questi 100mila euro l'aeroplano di Renzi no? UOMO Va bene capo

LUCA CHIANCA Volevo capire se glieli avevano chiesti loro della fondazione Open oppure di sua spontanea volontà aveva deciso di finanziare questo passaggio a Washington pronto? Dottore?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Bianchi esclude che l’affitto del mezzo fosse stato concordato con l’onorevole Librandi e dice che i finanziamenti sono stati offerti spontaneamente

20/11/2021 – LEOPOLDA 11 - MATTEO RENZI- PRESIDENTE ITALIA VIVA Secondo il pm, la fondazione faceva finta di essere una fondazione, ma in realtà di nascosto era un partito. La differenza è che se i soldi vanno alla fondazione vanno rendicontati con un determinato modulo, chiamiamolo Modulo A, se vanno a un partito vanno rendicontati con il modulo B.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La differenza sostanziale, oltre all'ipotesi di finanziamento illecito messo però in discussione anche dalla Cassazione è però la possibilità di sforare il limite dei 100mila euro l'anno imposto ai partiti per legge, come il versamento di 200mila euro arrivato da Toto e i soldi di Librandi che solo nel 2018 ha messo ben 500mila euro.

DA REPORT DEL 09/12/2019 LUCA CHIANCA Perché nasce una fondazione? La Fondazione Open cosa doveva sostenere? Le spese di Renzi?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Le ripeto, altrimenti diventa una inutile ripetizione, quello che dovevo dire l'ho scritto

LUCA CHIANCA Però ce lo dica anche a noi

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN E sta oggi sulle agenzie.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che all'epoca non poteva scrivere alle agenzie però, lo mettono nero su bianco l'onorevole Boschi e l'avv. Bianchi in un’e-mail prima di chiudere definitivamente la Fondazione. La Boschi chiede a Bianchi di non citare, nell'ultimo verbale, Matteo Renzi, se possibile, di essere più stringati nelle motivazioni di scioglimento della Fondazione, per evitare polemiche, ma soprattutto futuri accertamenti.

LUCA CHIANCA Onorevole salve, Luca Chianca di Report, Rai3. Mi sto occupando della Fondazione Open

MARIA ELENA BOSCHI – DEPUTATA ITALIA VIVA Davvero?

LUCA CHIANCA Sì MARIA ELENA BOSCHI – DEPUTATA ITALIA VIVA Strano perché non ve ne occupate mai e quindi avete scelto un filone nuovo

LUCA CHIANCA Quando lei scrive alla fine di giugno 2018, quando chiudete la fondazione e scrive a Bianchi degli accertamenti no?

MARIA ELENA BOSCHI – DEPUTATA ITALIA VIVA Nessun problema perché non c'era nessun accertamento, quindi, non c'era nessuna preoccupazione, nessun problema, è normale attività che c'è all'interno di una fondazione quindi nessuna preoccupazione, dopodiché come sa c'è un processo basato sul nulla in corso io sono fiduciosa che nonostante tutto si risolverà positivamente perché verrà fuori la verità

LUCA CHIANCA Però è lei che ha paura che ci saranno degli accertamenti e di non fare il nome di Matteo Renzi

MARIA ELENA BOSCHI – DEPUTATA ITALIA VIVA Nessuna paura, no, nessuna preoccupazione

LUCA CHIANCA No, lo scrive lei nero su bianco a Bianchi

MARIA ELENA BOSCHI – DEPUTATA ITALIA VIVA Se mi fa una domanda io le rispondo nessuna preoccupazione

LUCA CHIANCA E di evitare di mettere delle specifiche sulla chiusura della fondazione

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi i sequestri delle chat e delle email acquisite nel corso delle indagini su Open, sarà il Senato a decidere se autorizzarne l’uso da parte dei magistrati. A luglio scorso però il Csm ha nominato nuovo procuratore capo di Firenze Filippo Spiezia. A fare la differenza è il voto del nuovo vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, ex avvocato di Bianchi, presidente della Fondazione Open, che è tra gli indagati della Procura di Firenze.

LUCA CHIANCA È normale passare da essere avvocato di un imputato in un processo così importante a vicepresidente del Csm che fa la differenza nella votazione che elegge il nuovo procuratore capo di Firenze

GIANLUIGI PELLEGRINO - AVVOCATO - ESPERTO DI DIRITTO AMMINISTRATIVO Dal punto di vista legale è normale magari sul versante dell'opportunità si capisce che si possa essere criticati per le scelte che si compiono come componente del Csm o addirittura come vicepresidente.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ed è sempre l'avvocato Fabio Pinelli, insieme a un altro collega, che prima di entrare al Csm, aveva sollevato davanti alla consulta il conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Firenze per aver sequestrato telefoni agli indagati con dentro le chat dove compariva anche il senatore Renzi.

20/11 2011 - LEOPOLDA 2011 - MATTEO RENZI - PRESIDENTE ITALIA VIVA E a tutti quelli che dicono voi siete caduti, sì c'è capitato di cadere, sapete chi è che non cade mai? Chi striscia, chi è mediocre, chi vive semplicemente sugli avanzi degli altri, chi non ha dignità, solo chi striscia non cade

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La vicenda Open ha lasciato alle spalle delle macerie. Tra queste alcuni professionisti coinvolti in analisi di marketing, campagne di comunicazione, ricerche sui social e sondaggi coinvolti da Open in prestazioni da centinaia di migliaia di euro, e poi non pagati per mesi, anche se per il presidente Bianchi erano “fisiologiche trattative”. Questo è uno dei rappresentanti della società di marketing che aspettava un bonifico per 108 mila euro.

FONTE 1 Avevamo così dei pagamenti sospesi poi diciamo abbiamo fatto una transazione con loro, diciamo così una mediazione

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A distanza di un anno dalla prima richiesta su 108 mila euro chiesti, incassano solo 65mila euro. Uno sconto di quasi 50mila euro.

FONTE 1 Sì sì, poi insomma date le dimensioni nostre rispetto alle persone con cui avevamo a che fare era anche obiettivamente difficile chiedere e ottenere di più

LUCA CHIANCA pazzesco

FONTE 1 Sì

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nello stesso periodo, a pochi mesi dalle elezioni del marzo 2018, stravinte dal M5S e dal partito di Salvini, la fondazione Open commissiona a un'altra società nuove indagini di social intelligence per 47mila euro. FONTE 2 Tanto che avevamo intercettato la crescita esponenziale di Salvini e i suoi amici, una cosa paurosa. Mentre lui stava scendendo quegli altri stavano salendo a picco

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A un mese e mezzo dalle elezioni del 2018 il credito di 47mila euro per prestazionI fatte prima di settembre 2017, non è ancora saldat. Bianchi propone uno sconto di 10mila euro perché non ha soldi.

FONTE 2 In quel momento quando ti trovi di fronte a un soggetto che è in crisi e che si avvia verso il fallimento purtroppo bisogna scendere a questi patti.

LUCA CHIANCA Non ha mai pensato di fargli causa per i soldi, dice è troppo complicato?

FONTE 2 Che causa fai? Ci conviene rinunciare al margine che è legittimo, ma almeno ci paghiamo il lavoro che abbiamo fatto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Altro contratto tra Open e un'azienda veneta per 24mila euro, non pagato. È così la Fondazione ottiene un altro sconto, questa volta di 5mila euro, ma il tentativo iniziale, stando a questo scambio di email tra l'avv. Bianchi e l'allora tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, oggi tesoriere di Italia Viva, era stato quello di accollare la spesa al Pd, che però non paga

FONTE 3 Sì, era una piattaforma web che doveva essere usata all'interno del Pd alla fine per raccogliere un po' il sentiment delle varie realtà

LUCA CHIANCA Ah, per il Pd?

FONTE 3 Sì, sì alla fine sì.

LUCA CHIANCA non per la Fondazione Open?

FONTE 3 No, no, la Fondazione faceva da tramite diciamo, c'ha messo il nome, ma era per il Pd il discorso.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Fondazione pagava lavori che servivano però al Pd, che a sua volta aveva enormi difficoltà finanziarie. Alla fine della fiera, il Pd targato Renzi, con Bonifazi tesoriere, accumula in quegli anni un debito di circa 12 milioni di euro a causa del referendum lanciato nel 2016 con un centinaio di dipendenti che sono ancora oggi in cassa integrazione. Durante la festa di Italia Viva, il nuovo partito di Renzi, tenutasi a settembre presso il bellissimo castello sul mare di Santa Severa, l’ex premier cambia decisamente strategia.

17/09/2023 - FESTA NAZIONALE ITALIA VIVA MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Io mi rifiuto di pagare per i sondaggi e non utilizzerò i soldi delle vostre tessere per pagare per i sondaggi e se questo crea un po' di depressione in qualche dirigente cureremo la depressione a spese del dirigente.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Italia viva è un cinema

LUCA CHIANCA È un cinema eh?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Cosa vogliamo dire di Italia Viva

LUCA CHIANCA Va bene o non va bene?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Perde perché ha tanti costi, i costi sono quasi triplicati, pubblicità e propaganda e 300mila euro di alberghi e ristoranti

LUCA CHIANCA Che non è poco?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Eh vabbè

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Incontriamo Renzi alla festa di Italia Viva a Santa Severa.

LUCA CHIANCA Meno 54mila euro, il rosso del partito

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Sigfrido Ranucci e dell'Autogrill

LUCA CHIANCA E io invece mi occupo di queste cose e sentire lei no?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Se lei mi fa delle domande di politica sono felicissimo di risponderle, c'è proprio per legge, legge italiana che sicuramente lei conosce che prevede che su questi argomenti risponde il tesoriere

LUCA CHIANCA Avete speso oltre 300mila euro tra pranzi viaggi

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA E chi deve rispondere su questi temi?

LUCA CHIANCA Ma lei mi può anche rispondere politicamente no? È possibile spendere tutti questi soldi

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA I nostri soldi sono assolutamente trasparenti per cui se ha bisogno di chiarimenti va dal tesoriere, non è difficile Report ce la fa

LUCA CHIANCA Ce la facciamo anche noi, una cosa che mi ha sorpreso è che lei non ha speso un euro nella campagna elettorale

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Esattamente e chiede a chi? Al committente

LUCA CHIANCA E però lo chiedo a lei perché è lei che è ospite in giro da una parte all'altra dell'Italia, presenta ovunque il partito la sua Italia Viva

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Se ha dei dubbi

LUCA CHIANCA Mi spieghi come ha fatto a fare una campagna elettorale senza spendere un euro?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Lei mi ha chiesto di rispondere e io le rispondo: i soldi del partito sono soldi che hanno un tesoriere, i soldi delle candidature elettorali hanno un committente responsabile.

LUCA CHIANCA Lei non mette neanche un euro nel partito e questo è lei che lo decide a prescindere dal tesoriere lei non mette un euro nel partito non ce li mette, li mettono tutti i soldi, lei non mette soldi

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Lei è sicuro di quello che sta dicendo? Se lei è sicuro di quello che sta dicendo va benissimo. Lei sta dicendo che non metto soldi nel partito questa frase è falsa

LUCA CHIANCA Perfetto, mi dica quanto mette perché io non trovato nessun finanziamento

MATTEO RENZI – PRESIDENTE ITALIA VIVA Mi perdoni, mi perdoni lei non mette soldi nel partito lei sta dicendo il falso

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ha ragione Renzi, perché solo due giorni prima la nostra intervista realizzata di domenica, ha versato 5500 euro, fino al 15 settembre non aveva donato nulla per tutto il 2023. Dal 2020 ad oggi il Presidente di Italia Viva ha versato nel suo partito 28.500 mila euro, mentre la Boschi, a titolo di esempio, nello stesso periodo, ha messo oltre 100mila euro

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Vien da ridere, capisco però lui è così

LUCA CHIANCA Quasi niente calcolando chi è

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Ha messo pochi soldi, tanto ce li mettono gli altri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È stato presidente del consiglio dal febbraio 2014 fino al 2016 quando è entrato aveva un reddito di 99 mila euro l’anno e oggi secondo l’ultima dichiarazione dei redditi disponibile supera i 2 milioni e mezzo. È presidente di Italia Viva, un partito che ha fondato nel settembre del 2019 tuttavia in 4 anni ha contribuito pochino alla sua creatura meno di 30mila euro. Più generosa Maria Elena Boschi, la senatrice che ha contribuito per oltre 100 mila euro al partito. Anche più generosi sono stati i privati, pensate che in 4 anni hanno donato più di 4 milioni di euro. Poi solo nel 2022 dal 2X1000 Italia Viva ha incassato quasi 1 milione di euro, mentre in donazioni private 2,2 milioni di euro. Tra i finanziatori c’è il solito Davide Serra con 50mila euro, Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, con 100mila euro, l’armatore monegasco, Manfredi Lefebvre d'Ovidio con altre 100mila euro, 30mila euro da Emma Marcegaglia. 30mila euro da Marco Rotelli, della famiglia che guida il gruppo ospedaliero privato San Donato. 50 mila euro a Italia viva. Giovanni Tamburi, fondatore, presidente e amministratore delegato di Tamburi investimenti partners Spa, una società che si occupa di investimenti e che è quotata in Borsa. Non è male per un partito che naviga tra il 2 e il 3%. Tuttavia, il bilancio è in rosso nonostante i cospicui investimenti e donazioni di -54 mila euro. Colpisce soprattutto la voce delle spese di rappresentanza, cioè viaggi, alberghi e ristoranti che superano nel solo 2022 i 331mila euro. Il nostro Luca ha chiesto a Renzi come mai? Insomma lui dice i nostri pagamenti, la nostra contabilità, del partito è assolutamente trasparente è tutto tracciabile, donazioni e spese. Verissimo. Però quando gli abbiamo chiesto come avete fatto a fare -54mila, lui dice parlate con l’uomo dei conti, l’uomo dei conti però con noi non ha voluto parlare. È il tesoriere Bonifazi che specifichiamo non c’entra nulla con la questione Open, non è stato coinvolto ma nei panni di vecchi tesoriere del Pd, è rimasto coinvolto in un processo, al termine del quale è stata chiesta una condanna per due anni e 8 mesi. Secondo i magistrati il versamento di 150 mila euro del costruttore Luca Parnasi alla fondazione Eyu di riferimento proprio di Bonifazi sarebbe stato un versamento, un contributo mascherato un finanziamento illecito al vecchio Pd che è stato poi mascherato con operazioni e fatture per operazioni inesistenti. Ecco, Bonifazi che avrebbe lasciato un debito al nuovo Pd di circa 12 milioni di euro, un debito con cui la Schlein sta ancora facendo i conti. Deve pagare 1 milione e 300mila euro alle Poste. Allora come si fa?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Cuperlo contribuisce al partito mensilmente per 1500 euro e in occasione della sua candidatura doveva versare 50mila euro tra partito nazionale e regionale.

GIANNI CUPERLO – DEPUTATO PARTITO DEMOCRATICO Sono partiti costruiti come comitati elettorali permanenti che transitano da un'elezione all'altra, macchine del consenso che servono anche a garantire un ceto politico

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Una corsa al seggio permanente, dove tutto è legato al numero degli eletti. Ma anche e soprattutto al loro patrimonio che gli consente di finanziarsi la campagna elettorale LUCA CHIANCA quindi di finanziarsi?

GIANNI CUPERLO – DEPUTATO PARTITO DEMOCRATICO Quanto costa frasi eleggere al parlamento europee, voteremo tra qualche mese…

LUCA CHIANCA Se non ho quelle risorse non sono eletto?

GIANNI CUPERLO – DEPUTATO PARTITO DEMOCRATICO Beh no. Se non hai quelle risorse devi prenderti l'impegno comunque a garantirle e quindi la scelta è di rateizzare quel contributo nel corso della legislatura, visto che godiamo di…

LUCA CHIANCA posso sapere di quant'è?

GIANNI CUPERLO – DEPUTATO PARTITO DEMOCRATICO Al netto del finanziamento ordinario che facciamo tutti i mesi. 15mila euro al Partito Democratico nazionale e 35mila euro al Partito Democratico regionale dove io sono stato indicato ed eletto.

LUCA CHIANCA Lei ha fatto un pagherò al partito?

GIANNI CUPERLO – DEPUTATO PARTITO DEMOCRATICO Una cambiale come Totò, no semplicemente ho concordato di rateizzare questo versamento

10/09/2010 - BEPPE GRILLO Sul finanziamento occulto dei partiti il 98% degli italiani ha detto di no, no ai finanziamenti ai partiti. È vero? Ve lo ricordate il referendum? Bene hanno cambiato la parola la magia invece di finanziamenti li hanno chiamati rimborsi e oggi i partiti di maggioranza si spartiscono un miliardo di euro, un miliardo di euro dei nostri soldi chiedendo sacrifici a noi.

LUCA CHIANCA Siete contro il finanziamento pubblico, non accettate il finanziamento privato, diventa un problema sostenere un partito come il vostro, cioè di che campate?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Tutto il grosso 4,5 milioni e oltre arrivano dagli eletti che sono i nostri parlamentari e i nostri consiglieri regionali che per vincolo statutario e poi per codice etico devono dare un contributo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Soldi che però nel M5S, a differenza degli altri partiti, vanno ad alimentare sia l'ordinaria amministrazione che un fondo per progetti di beneficenza.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Facciamo una restituzione complessiva di 2500 euro ogni mese, in parte al partito in parte alla collettività.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così, come in quasi tutti gli altri partiti, è il contributo degli eletti a garantire la sopravvivenza di un partito. E il numero di parlamentari sposta milioni di euro. Se nella passata legislatura i 5 stelle potevano raccogliere quasi 10 milioni di euro con circa 300 parlamentari, oggi con soli 80 eletti non superano i 2,5 milioni l'anno.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il tema dei mancati fondi è rientrato in agenda la scorsa estate e a porlo, a sorpresa, è stato uno dei colonnelli del M5S, Stefano Patuanelli, rilasciando un'intervista al Corriere della sera.

LUCA CHIANCA Si confusero i costi della politica con i costi della democrazia e da lì è nato il caso: il 5 stelle rivuole il finanziamento pubblico ai partiti. Conte l'ha stoppata immediatamente le ha scritto subito, il giorno dopo vi siete sentiti …da Patuanelli solo parere personale, ha creato il panico con questa cosa

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ho spiegato chiaramente che in un mondo ideale il finanziamento pubblico dovrebbe sostenere almeno parzialmente quei costi perché se non c'è il finanziamento pubblico c'è il privato e non è detto che sia meglio

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Però poi si è chiarito anche non voleva...

LUCA CHIANCA perché lei si è arrabbiato un pochino

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE No, ci siamo sentiti ovvio che l'ho chiamato ho letto le agenzie

LUCA CHIANCA L'ha sconfessato subito

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE L'ho sconfessato perché era fuori la linea, ma lui mi ha chiarito ed è intervenuto con un post di chiarimento che non era certo un ritorno a finanziamento pubblico del passato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello a cui si sta assistendo però è sicuramente uno storico cambio di rotta del M5S, perché anche il movimento di Grillo ha deciso di prendere il 2x1000, diventando un vero e proprio partito presentando anche lo statuto alla commissione dei partiti politici.

LUCA CHIANCA Che sono soldi pubblici però

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Sono soldi pubblici però attenzione cioè se obbiettivamente esiste questa possibilità e ci accedono tutti lasciamo anche a coloro che condividono le nostre battaglie la libertà di contribuire LUCA CHIANCA Presidente fino a due anni questa cosa era impensabile all'interno del movimento, oggi ripeto anche voi siete costretti a prendere i soldi dal 2x1000 perché difficilmente state in piedi

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma noi guardi l'abbiamo preso perché vogliamo migliorare le nostre iniziative sul territorio. Però abbiamo dimostrato che anche prima eravamo in equilibrio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È vero gli ultimi due bilanci fino alle ultime elezioni sono positivi con una liquidità di 7 milioni di euro nel solo 2022, ma in futuro rischiano senza contributi pubblici.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI DIRITTO DELL'ECONOMIA Se diminuiscono i parlamentari chiaro che nel 23 tracollerà, però hanno il cuscinetto della liquidità vecchia, avranno il 2X1000 forse ce la fanno è chiaro che devono ridurre i costi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra i costi ci sono i 300mila euro che ogni anno il M5S dà a Beppe Grillo sottoforma di consulenza per la comunicazione.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Perché dovrei andare a prendere un comunicatore esterno e non avvalermi di Beppe Grillo che addirittura è fondatore?

LUCA CHIANCA È come se Forza Italia avesse pagato per anni Berlusconi, era Berlusconi che metteva dentro i soldi

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Lei è molto suggestivo nei paragoni. È come se il M5S pagasse Giuseppe Conte per fare la comunicazione del movimento ecco quello sarebbe scorretto, io mi avvalgo di un comunicatore che non ha un ruolo politico LUCA CHIANCA Beh è il garante dell'associazione

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma è il garante assolutamente ma quello è un vantaggio per me

LUCA CHIANCA in quanto garante non lo pagherei con 300mila euro per fargli fare un'attività di consulenza

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE E come lo pagherebbe?

LUCA CHIANCA Non lo pagherei il garante non si paga non gli si dà un contratto diverso dal ruolo del garante

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma che le regole le fa lei scusi? Adesso vuole decidere a chi devo fare un contratto per avvalermi di una comunicazione efficiente, efficace ed esperta eh mi dica, la prossima volta la consulto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora anche loro poi alla fine hanno capitolato e prendono i contributi del 2 per 1000. Però non sono sufficienti. Tanto è vero che chiedono anche un contributo agli eletti 2.500€ al mese. Una parte va al partito, l'altra in beneficenza. Però insomma, questo il contributo lo chiedono un po' tutti i partiti. Abbiamo sentito anche Cuperlo, Pd, anche solo per candidarsi 35.000 euro. La Lega chiede 20.000 euro e 3.000 euro al mese per il partito. 30.000 anche chi si candida nelle fila di Forza Italia che contribuisce poi al partito ogni eletto per 900 euro al mese. Non tutti ci partecipano, abbiamo visto ma in un'altra puntata. I Verdi Sinistra e Libertà chiedono agli eletti un contributo di 1.800 euro. Ecco il Movimento cinque Stelle non chiede nulla per candidarsi per la prima volta. Chi invece si è candidato già una volta e si ricandida un contributo di almeno 20.000 euro. Ecco, ma che cosa accadrà se il Movimento non riuscirà a piazzare molti eletti? Il tesoretto che aveva a disposizione fino a oggi anche perché è stato virtuoso, rischia di erodersi se non piazza dei deputati dei parlamentari e anche perché poi di spese ne ha circa 300.000 euro solo per mantenere un contratto di consulenza per la comunicazione al suo garante, Beppe Grillo. Ora sembra un po' strano, perché di consulenti per la comunicazione del Movimento ce n'è anche di bravi all'interno del partito. Però indubbiamente Grillo è un grande comunicatore e proprio per esempio l'armatore Onorato con la sua Moby aveva stretto un accordo una partnership per sfruttare il poderoso blog di Grillo 240.000 euro, ecco però i magistrati invece sospettano che fosse il contributo per un traffico di influenze, influenze da esercitare a favore di Moby proprio con la parte del governo a lui vicina. Vedremo come andrà a finire.

LUCA CHIANCA Chi è che fa le buste paga qui?

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Sergio Puglia

LUCA CHIANCA Che è un ex senatore del M5S

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Che fa il consulente del lavoro, faceva il consulente del lavoro prima di entrare in politica, ha fatto 10 anni politica e poi esce torna a fare il suo mestiere.

LUCA CHIANCA Ma fino all'anno scorso chi è che vi faceva le buste paga? Non Puglia.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE No, c'era un altro

LUCA CHIANCA Potevate tranquillamente continuare il lavoro con l'ex consulente

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ma io ho fatto il progetto di casa di mia sorella non dovevo farlo?

LUCA CHIANCA Ma l'ha pagata sua sorella?

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Certo

LUCA CHIANCA Appunto non i soldi pubblici del Senato. Questo è il punto.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Non è una spesa in più, non è una spesa in più.

LUCA CHIANCA Il punto è questo dipende chi finanzia cosa

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ah, quindi bisogna penalizzare Sergio Puglia che non può lavorare con il pubblico perché ha fatto il senatore?

LUCA CHIANCA Ma non con il pubblico, con il gruppo con cui è stato 8 anni.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ma sono sempre soldi pubblici

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora rieccoci qua. Dieci anni fa è stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti, però da quella legge sono rimaste fuori le fondazioni, soprattutto quelle riferibili a personaggi politici. L'ex premier Enrico Letta, al nostro Luca Chianca aveva detto era tutto pronto, sul tavolo c'era la questione delle fondazioni, poi il governo è caduto e sono rimaste fuori controllo per sei anni. Fino a quando nel 2019, introducendo la spazzacorrotti, il movimento ha anche equiparato le fondazioni ai partiti politici. Bene però in tema di trasparenza è sfuggito purtroppo il tesoretto. Quei circa 55 milioni di euro che sono a disposizione dei gruppi parlamentari e che vanno rendicontati ma parzialmente cioè va rendicontata la cifra va rendicontata anche la motivazione, la causale del versamento non i beneficiari.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mentre il finanziamento ai partiti nel 2013 veniva ridotto drasticamente, introducendo il meccanismo del 2X1000, quello ai gruppi parlamentari di Camera e Senato è rimasto sostanzialmente in piedi per un totale di circa 53 milioni di euro. GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Cioè spieghiamolo a tutti, i senatori hanno bisogno di una struttura di supporto LUCA CHIANCA È quello che le dicevo prima, la democrazia ha bisogno di essere pagata e finanziata, ma non per sperperare soldi per garantirla, che è una cosa ben diversa

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma a lei che è un vessillifero del finanziamento pubblico possiamo chiarire ai telespettatori che ci seguono che infatti i gruppi del Senato e della Camera vengono finanziati pubblicamente dal bilancio rispettivo della Camera e del Senato

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che abbiamo scoperto, però, è che mentre alla Camera non c'è nessun obbligo di trasparenza, e gli unici a pubblicare le spese sostenute sono i 5S, al Senato ogni gruppo è obbligato a pubblicare online tutti mandati di pagamento, ma senza mai indicare il destinatario.

LUCA CHIANCA Io trovo su internet indicazioni di fatture, più o meno l'oggetto della fattura, non so mai a chi arrivano i soldi

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Perché vanno tutelati i due elementi: la trasparenza sulle spese, ma anche la privacy di chi riceve quelle cifre può non consentire a un'eventuale pubblicazione. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Spulciando tra le dichiarazioni del gruppo al Senato del M5S nei soli primi mesi del 2023 ci siamo imbattuti in diversi pagamenti di cui non è noto il destinatario, 3 consulenze legislative per 12 mila euro, 6 attività professionali per 18 mila euro e 2 elaborazioni di buste paga per oltre 8mila euro.

LUCA CHIANCA Chi è che fa le buste paga qui?

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Sergio Puglia

LUCA CHIANCA Che è un ex senatore del M5S

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Che fa il consulente del lavoro, faceva il consulente del lavoro prima di entrare in politica, ha fatto 10 anni politica e poi esce torna a fare il suo mestiere.

LUCA CHIANCA Ma fino all'anno scorso chi è che vi faceva le buste paga? Non Puglia.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE No, c'era un altro

LUCA CHIANCA Potevate tranquillamente continuare il lavoro con l'ex consulente

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ma io ho fatto il progetto di casa di mia sorella non dovevo farlo?

LUCA CHIANCA Ma l'ha pagata sua sorella?

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Certo

LUCA CHIANCA Appunto non i soldi pubblici del Senato. Questo è il punto. STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Non è una spesa in più, non è una spesa in più.

LUCA CHIANCA Il punto è questo dipende chi finanzia cosa

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ah, quindi bisogna penalizzare Sergio Puglia che non può lavorare con il pubblico perché ha fatto il senatore?

LUCA CHIANCA Ma non con il pubblico, con il gruppo con cui è stato 8 anni.

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE Ma sono sempre soldi pubblici

LUCA CHIANCA ma glieli dà lei con cui era fino al giorno prima collega senatore

STEFANO PATUANELLI – CAPOGRUPPO SENATO MOVIMENTO 5 STELLE o il principio è, o il principio è, o il principio è che chi ha fatto il parlamentare non può più avere a che fare con i soldi pubblici…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E Puglia non è l'unico, anche Crimi e la Taverna, finito il secondo mandato, sono diventati collaboratori pagati dai gruppi parlamentari di Camera e Senato

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma perché non mi devo servire di una persona che già conosco e devo per forza prenderla da fuori, non c'è una gara pubblica lo diciamo non c'è un concorso pubblico anzi le dirò di più ma se ci sono addirittura tra questi professionisti di cui il gruppo si avvale e sono riconosciuti anche per aver avuto anche una grande affidabilità politica che ha testimoniato perché non avvalersene, a lei dà fastidio?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, si trova in piazza San Macuto vicino al Pantheon, non lontano dal Parlamento. Ci lavorano 5 magistrati e solo 4 funzionari che controllano ogni anno circa 120 bilanci tra partiti e fondazioni, le donazioni dei privati e la fedina penale di migliaia di candidati per ogni elezione.

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Oggi abbiamo a disposizione nulla tranne una piccola somma che ci viene riversata

LUCA CHIANCA parliamo di quanto soldi?

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Parliamo di 60mila euro l'anno

LUCA CHIANCA in tutto?

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI In tutto sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO e visto che la commissione può irrogare sanzioni che sono impugnabili davanti al giudice quando hanno perso una causa contro un partito non avevano i soldi per pagare nemmeno le spese di giustizia

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Spese ineludibili anche perché gli avvocati difensori dei soggetti che avevano vinto la causa minacciavano sequestri pignoramenti

LUCA CHIANCA ma è vero che lei ha aperto un conto corrente

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI ho dovuto aprire un conto corrente presso

LUCA CHIANCA lei proprio lei fisicamente è andato in banca ad aprire il conto corrente?

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI tutte cose che in una struttura articolata ci sono uffici deputati a farlo

LUCA CHIANCA perché siete un ibrido in questo momento voi siete una commissione ma non siete un'autorità siete che cosa? Siete un soggetto pubblico o no?

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI Potrei dire né carne né pesce mi passi

LUCA CHIANCA eh ma lo è, non siete né carne né pesce

AMEDEO FEDERICI - COMMISSIONE DI GARANZIA DEGLI STATUTI E PER LA TRASPARENZA E IL CONTROLLO DEI RENDICONTI DEI PARTITI POLITICI la definizione impropria.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È impropria ma rende l'idea. La Commissione di garanzia per gli statuti e per la trasparenza che controlla i rendiconti dei partiti e anche il funzionamento trasparente all'interno di un partito insomma è nata senza personale e senza soldi. è nata così ed è rimasta così negli anni. Più volte la Commissione ha lanciato il grido d'allarme che non può vigilare. Chi è che dovrebbe dotarla degli strumenti per vigilare? Gli stessi che sono vigilati. Il presidente Federici è stato costretto lui stesso ad andare di persona ad aprire un conto in banca. Insomma, la questione del controllo sulla trasparenza è rimasta una chimera, così come è rimasta una chimera anche il controllo sulla trasparenza della gestione del tesoretto di circa 55 milioni di euro che viene dato in dotazione ai gruppi dei partiti alla Camera e al Senato. Ecco, c'è l'obbligo di rendicontare la cifra stanziata, la motivazione non il beneficiario. Questo perché è intervenuta nel 2012 una manina che ha di fatto modificato la legge ispirata dall'allora senatore del PD Pietro Ichino giuslavorista. Insomma, l'ha svuotata nel suo significato. Questo significa che ancora oggi il Belsito di turno può comprare con quei soldi, con quel tesoretto, dei diamanti facendoli passare per una semplice consulenza.

Estratto dell’articolo di Sergio Rizzo per “l’Espresso” mercoledì 27 settembre 2023.

Nulla di illegale, ovvio. Ma che il capo di un partito si faccia la propria holding personale è un po’ curioso. Il nome è Ma.Re. holding e il suo proprietario […] è Matteo Renzi: fondatore e capo assoluto di Italia Viva. Ha costituito la società nell’aprile 2021, qualche settimana dopo l’ingresso del suo partito nel governo Draghi. 

Una piccola quota l’aveva anche il figlio Francesco, promessa del calcio. Che poi l’ha ridata a papà. E qualche mese fa la holding renziana ha filiato una seconda società: Ma.Re. adv.

Consulenze aziendali, strategie imprenditoriali, pubbliche relazioni, marketing... Una prateria sterminata, per un ex premier con profumate relazioni che si spingono fino ai ricchi forzieri arabi. Ma non siamo a conoscenza del fatto che qualcuno dentro Italia Viva abbia alzato un sopracciglio. Né che l’abbia fatto un collega di partito del potente sottosegretario alla Giustizia meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove. 

Tre mesi dopo essere sbarcato al governo […] ha costituito una società di avvocati con la sorella Francesca, sindaca anch’ella meloniana di Rosazza, e la penalista biellese Erica Vasta. Diciamo subito che nulla impedisce a un sottosegretario di aprire una società. Ma a che serve, se per legge l’avvocato sottosegretario potrà esercitare di nuovo solo un anno dopo aver lasciato il governo? Davanti a questi fatti, non isolati […], verrebbe da chiedersi: cosa è diventata oggi la politica?

Che non se la passi troppo bene, e il solco fra i partiti e la realtà sia sempre più profondo, è un fatto. Parlano chiaro i dati. Il 25 settembre 2022 hanno votato 30,4 milioni di persone, come nel 1958. Peccato che allora gli aventi diritto al voto fossero 32,4 milioni, contro i 50,8 di oggi. In un Paese nel quale fino al 1979 votava alle politiche oltre il 90 per cento degli elettori, e fino al 2008 più dell’80 per cento, siamo scesi di botto al 63,9. In quindici anni sono andati perduti 8 milioni e mezzo di voti. 

Di questi, ben 5 milioni sono spariti domenica 25 settembre 2022. Al Sud gli elettori si sono praticamente dimezzati, da 16,2 a meno di 8,5 milioni. In Campania ha votato il 53,2 per cento. A Napoli Fuorigrotta l’affluenza è scesa dal 62 al 49 per cento. Gli elettori calabresi non hanno raggiunto il 51 per cento. […] con situazioni da brivido in alcuni centri nelle aree ritenute più esposte al rischio criminalità.

Ad Africo ha votato il 32,1 per cento. A Platì il 31,3. A San Luca il 21,5. La politica, che già serve a poco, lì evidentemente non serve a nulla. La cosa dovrebbe indurre i partiti a una profonda riflessione anche sulla legge elettorale. Invece, zero. 

[…]  I risultati di tale follia sono evidenti. Giorgia Meloni è diventata premier con una maggioranza di quasi il 60 per cento dei seggi parlamentari grazie ai 7,5 milioni di voti di Fratelli d’Italia: vale a dire un settimo dell’intero corpo elettorale. 

O meno di un quarto, considerando i voti dell’intera coalizione. Si dirà che in molte democrazie avanzate la partecipazione al voto è bassa. Vero. Ma a parte il fatto che non sempre è così […], la breve storia della nostra Repubblica è diversa. […]

[…] Ebbene, a un problema così gigantesco i partiti e i loro leader reagiscono facendo spallucce.  Pur sapendo esattamente come è stato rotto il giocattolo. È cominciata con la trasformazione dei partiti da strutture collettive in apparati strettamente personali. Rivoluzione certamente riconducibile a Silvio Berlusconi, ma con avvisaglie anche nella cosiddetta prima repubblica. Il resto l’hanno fatto leggi elettorali scriteriate […]. 

[…] La ciliegina sulla torta, infine, è stata l’abolizione demagogica del finanziamento pubblico, anziché una sua necessaria e profonda riforma. […] In compenso, non si è mai fatta nemmeno la legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, e i partiti sono rimasti in un comodo limbo. Le conseguenze sono devastanti. […] 

[…] Difficile stupirsi se in questo panorama il finanziamento dei partiti non sia affatto popolare. Su 41 milioni e rotti di contribuenti quelli disposti a dare il 2 per mille a un partito non sono che 1,3 milioni: il 3,3 per cento. Misera la platea dei finanziatori, misero il gettito. In tutto, poco più di 18 milioni. Oltre un terzo dei quali va al solo Partito Democratico.

Come campano, allora? Con i soldi dei parlamentari, che spesso versano nelle casse dei partiti una fetta del plafond loro spettante per retribuire gli assistenti. E con pochi assistenti e mal pagati si può immaginare anche la qualità del lavoro parlamentare. I finanziamenti dei cittadini e delle imprese private sono quasi inesistenti. Nel 2022 il Pd ha avuto contributi da “persone giuridiche” per 125 mila euro, contro 3,8 milioni da “persone fisiche”, cioè quasi tutti parlamentari.

Italia Viva ha incassato invece dalle società 675 mila euro, però contro 1,6 milioni versati quasi tutti dai parlamentari. Come del resto anche la Lega. E Fratelli d’Italia cui non è stata negata una briciolina di 26 mila euro dal Twiga di Flavio Briatore e Daniela Santanchè. […] 

Anziché ai partiti, le imprese preferiscono versare alle fondazioni casseforti personali dei leader dei partiti personali. C’è più riservatezza. Openpolis ne ha censite 121, di cui oltre metà nate a servizio di una corrente di partito o di un singolo politico: appena 19 pubblicano un bilancio accessibile su Internet. Soprattutto, i potenziali finanziatori vanno direttamente al bersaglio. Altro che lobby. 

E pensare che nella scorsa legislatura la Camera ha approvato una legge per regolamentare finalmente l’attività dei lobbisti, proposta da due deputati Pd e M5S. Ma prima che il Senato la ratificasse la legislatura è evaporata. Grazie ai grillini: che hanno fatto così svanire anche la loro legge. E ora la Camera ha avviato sulle lobby una nuova indagine conoscitiva! Ecco dove siamo arrivati 

Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 luglio 2023.

I Cinque Stelle? «Un problema per il progetto dello stadio». Il Pd? «Un partito con cui dialogare» La Lega? «Lo stesso». I finanziamenti alla politica?

«Una grande strategia di marketing alla quale nessun imprenditore si sottrae. A meno di essere un colosso quotato alla borsa di Singapore». I media? «Lo strumento più sicuro per bruciare un piano: quando esce sui quotidiani allora non si fa». 

Cinque anni dopo il carcere, in un’aula Occorsio con pochi cronisti, l’imputato di corruzione Luca Parnasi racconta e precisa, descrive ed elenca in una deposizione fiume che a tratti si fa affresco di un’epoca. Nel 2018 l’agenda di Luca Parnasi è fitta di impegni. È da Vanni in via Col di Lana per parlare con l’allora presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito (pentastellato).

È in un ristorante del centro storico per dialogare con il tesoriere Pd dell’epoca, Francesco Bonifazi, circa l’eventualità di offrire il proprio contributo economico che, infine, saranno «centocinquantamila euro» versate all’associazione Eyu. Ci sono poi le messe «in una chiesetta vicino a piazza della Pigna» con Giancarlo Giorgetti che gli presenta Giulio Centemero, l’uomo dei conti della Lega (ma a qualche cena dal carattere più ufficiale fu lo stesso «segretario Matteo Salvini» ad affacciarsi spiega il costruttore). 

(...)

Parnasi torna su Bonifazi: «Rividi Bonifazi in un incontro casuale al circolo canottieri Aniene e toccai con mano quello che faceva Eyu. Quindi lo rincontrai dieci minuti a Sant’Andrea delle Fratte. La loro fondazione mi sembrava valida. Era nato anche un rapporto tra coetanei, ricordo che mi fu presentato Domenico Petrolo di Eyu e, a quel punto, lo misi in contatto con Talone (Gianluca Talone, un suo collaboratore, imputato, ndr)» Duecentocinquantamila euro andarono invece alla Lega, tramite «Più voci» l’associazione che faceva capo al partito di centrodestra: «I romani a Milano sono visti come marziani.

Io mi considero un po’ tedesco per l’approccio ordinato e metodico nel mio lavoro. Centemero, persona quadrata, mi presentò “Più voci”. Il mio obiettivo era conoscere imprenditori del Nord, quello era un modo». Su questo aspetto il costruttore torna più volte: il suo approccio con la politica è duplice. Da un lato i partiti lo dovrebbero mettere al riparo da possibili terremoti amministrativi, dall’altro gli permettono di farsi conoscere, lo promuovono diciamo così.

C’è però il politico pressante che Parnasi individua nel suo coimputato forzista Adriano Palozzi al quale elargisce cinquemila euro: «Palozzi — spiega — è un tipo corpulento e verace che aveva fatto bene da sindaco di Marino. Era chiaro che, se lo avessi finanziato, lui avrebbe messo la sua funzione al mio servizio. Mi pressava. Lo accontentai. Tutti i finanziamenti hanno lo stesso obiettivo. Non avere nemici e avere riconoscibilità all’esterno». Ce n’è per il vero nemico di Parnasi: l’allora assessore all’urbanistica Paolo Berdini che ridusse le cubature del suo stadio: «Se tutti gli assessori fossero come Berdini le città sarebbero all’età della pietra».

Da una necessità gli americani ne hanno ricavato un vincolo partecipativo con i donatori. La democrazia ha un costo: lo dice anche Obama, perché noi no? Il tabù del finanziamento ai partiti. La rubrica “Democrazie in progress” di Emanuele Cristelli, consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali e appassionato di democrazia e istituzioni. Emanuele Cristelli su Il Riformista il 5 Luglio 2023 

Un tema spinoso, ma tuttavia ricorrente quando si parla di politica italiana, è il tema del finanziamento pubblico alla politica. Esso ha avuto una storia travagliata, fatta di luci ed ombre, che risalgono alla prima legge (Legge Piccoli) del 1974 che istituiva il finanziamento ai partiti tramite i gruppi parlamentari e ai rimborsi delle spese elettorali. Un’importante potenza di fuoco messa a disposizione della politica per dare solidità alle sue strutture e renderle capillari, capaci di agire sulla massa e con i migliori mezzi a disposizione, dando inoltre la possibilità anche a chi non era necessariamente troppo abbiente di poter sostenere una campagna elettorale, all’epoca anche molto più dispendiosa per l’assenza del digitale e per la corsa alle preferenze.

L’oggettiva involuzione di un pezzo importante della nostra classe politica, i casi di corruzione che crescevano, e le battaglie contro la casta che iniziavano a imperversare concludendosi poi con gli scandali di tangentopoli hanno decretato prima l’abolizione per via referendaria dei finanziamenti ai partiti tramite i gruppi parlamentari nel 1993, riemersi in maniera carsica come rimborsi elettorali , ridotti e ristretti dal Governo Monti e infine cancellati sull’onda del populismo anticasta grillino dal Governo Letta nel 2013. Di questa breve e infausta storia di questo istituto si possono dire varie cose: la politica dopo un primo tempo in cui ha usato bene quelle risorse, ha dimostrato ahinoi di non avere senso della misura , abusandone, ma poi, quando ridotti all’osso, gli stessi esponenti di una classe politica indebolita non hanno avuto il coraggio di ammettere che la politica necessitava di sempre nuove e maggiori risorse , per poter far stare in piedi dei partiti di massa nell’era dei mass media e consentirgli di svolgere la loro funzione.

Personalmente credo che in Italia il finanziamento pubblico alla politica, in dimensioni più massicce, ma sicuramente più controllato e con un regime rigido di rendicontazione, andrebbe reintrodotto per poter dare gli strumenti ai partiti che, liberi da una totale dipendenza dai grandi finanziatori privati , potrebbero essere capaci di consentire veramente alla politica di arrivare a chiunque e permettere a tutti di farla, e non solo a chi ha 10.000 o 20.000 euro da spendere per diventare deputato , consigliere regionale ecc.

Ma al netto della mia posizione, contrari o favorevoli dovrebbero registrare un fatto oggettivo: dinanzi alla reticenza nei confronti del finanziamento pubblico, il legislatore e la politica tutta non hanno voluto trovare una soluzione, prima culturale che tecnica, per aprirsi a un nuovo modello che garantisse di avere comunque risorse e mezzi necessari per essere presenti nella società, e non solo fungere da meri comitati elettorali estemporanei, scevri dai grandi interessi organizzati pronti a finanziare tizio o caio, affinché i finanziamenti di quest’ultimi rappresentassero un aspetto complementare, non totalizzante del finanziamento dei partiti in Italia.

Ho riflettuto su questo aspetto dopo che mi è capitato sott’occhio, scrollando il mio feed di Instagram, un video di Barack Obama che ha iniziato a scendere in campo per la riconferma di Biden. Nulla di strano, tutto come da programma, se non che mi ha colpito e meravigliato ancora una volta di più come la politica americana non si vergogni affatto nel dire ai propri cittadini che i partiti e le organizzazioni politiche hanno bisogno di denaro per poter funzionare.

Ascoltando quelle parole ho immaginato a come in Italia genererebbe sdegno una pubblicità in cui Elly Schlein o Giorgia Meloni chiedessero di donare direttamente con un SMS al loro partito 2-5-10 euro perché “La politica ha bisogno di risorse”: e in effetti non accade, nessuno si sogna di far pubblicità del genere, in un Paese che è forse ancora troppo intriso da quel sentire comune di matrice culturale cristiana per cui “Il denaro è lo sterco del demonio”, e del quale quindi se ce l’hai o lo chiedi , in fondo te ne devi sempre un po’ vergognare, figuriamoci per una cosa squalificata come il fare politica.

Fatto sta che gli USA, che non sono l’Italia, nel corso dei decenni hanno costruito un sistema e soprattutto un modello culturale per cui le piccole donazioni dei singoli cittadini rappresentano una parte preponderante del finanziamento alla politica e attraverso le quali costruisci un vincolo, un impegno alla partecipazione da parte dei cittadini alla politica. Aver valorizzato l’aspetto della donazione, ha portato nel tempo a dare valore alla politica, perché in fondo siamo fatti così noi uomini: quando paghiamo una cosa gli diamo un valore e al contempo chiediamo riscontro di quanto “investito”, viceversa la trattiamo come qualsiasi oggetto trovato per strada. Le grandi strutture partitiche americane, che fungono da federatori di galassie civiche, sociali e di base, hanno quindi strutturato un pezzo significativo della loro organizzazione e comunicazione dedicandolo proprio al fundraising: al confronto quello che si fa in Italia con il 2×1000 son briciole e pochissimi partiti in Italia hanno vere strutture dedicate.

Ma la cosa più importante, che poi fa la differenza nelle società moderne di oggi, è che da una necessità gli americani ne hanno ricavato l’opportunità di creare un vincolo partecipativo con i donatori: coinvolti nelle piccole scelte, sempre aggiornati, trattati come persone che danno un valore, non solo economico ma anche umano alla politica. Sarà un caso ma gli USA, nonostante le loro mille contraddizioni, è da 20 anni che sono l’unica democrazia occidentale nella quale l’affluenza al voto è cresciuta.

E se provassimo a toglierci i paraocchi che abbiamo addosso da diversi decenni in Italia e, se non si vuole ritornare al finanziamento pubblico, perché non abbracciamo come sistema politico, ma anche mediatico e dell’informazione, le opportunità date dal finanziamento diffuso alla politica? Solo come sistema Paese riusciremo ad accogliere questa occasione come si deve, perché solo con un ecosistema economico e culturale predisposto potremo far sì che dire che la politica, e quindi la democrazia, hanno un costo, non sia più una frase vista come assurda e per la quale sentirci in imbarazzo.

Emanuele Cristelli. Ho 28 anni, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna

Più vitalizi per tutti. In questa puntata de La Buvette ci occupiamo del ritorno dei vitalizi, uno dei privilegi più odiato dagli italiani. Michel Dessì il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Rieccoli, a volte ritornano! È il caso dei vitalizi. Sì, avete capito bene: i vitalizi. Nel caos di questi giorni fatto di veline velenose sulla giustizia, di ministri e vice indagati, i senatori hanno ripristinato uno dei privilegi più odiato dagli italiani. Sì, si sono riassegnati l’assegno d’oro. Andrea Indini, cosa ne pensi? “I soliti pasticci dei giallo - rossi, di Movimento 5 Stelle e Partito Democratico…” dici? “Beh…”

Ma andiamo per ordine. Ve lo ricordate Luigi di Maio con le forbici in mano a Piazza Montecitorio? Era il 2018 quando i 5 Stelle annunciavano il taglio dei vitalizi. Ma era solo un bye bye, un arrivederci e non un addio. Tanto è vero che ora, i vitalizi, sono tornati! A deciderlo il Consiglio di Garanzia del Senato che, approfittando dell’informativa del Ministro del Turismo Daniela Santanchè, e della distrazione dei cittadini e di alcuni colleghi, ha annullato il taglio dei vitalizi voluto dai 5 Stelle nel governo Conte I.

Un taglio che portò al risparmio per le casse dello Stato di oltre 40 milioni di euro, mica pochi… Ma attenzione, il ripristino del privilegio non vale per tutti. Solo i vitalizi antecedenti al 2012 torneranno dritti nelle tasche dei senatori. Per il resto tutto sarà come prima. Sistema contributivo e pensione solo una volta superati i 65 anni d’età.

A votare la delibera incriminata un ex grillino (forse pentito) e il presidente del Consiglio di Garanzia, Luigi Vitali. Lui, nel 2021 scelse di lasciare Forza Italia per aderire al gruppo in sostegno di Giuseppe Conte. Astenuto il Pd, mentre Fratelli d’Italia e Lega hanno detto no. Ma non è bastato.

Così, mentre il Paese fa i conti con l’inflazione e gli italiani fanno fatica ad arrivare alla fine del mese i senatori si riprendono il privilegio. Una notizia che ha mandato su tutte le furie Giuseppe Conte tornato alle origini, al vecchio e caro populismo. Attacca e tira in ballo il salario minimo: “Dice no al salario minimo? Comprensibile, guadagna fino a 30 volte tanto” afferma. Dimenticando, però, che lui ogni mese percepisce lo stesso stipendio. Intanto gli ex non si fermano e godono. 851 i senatori che beneficeranno nuovamente del vitalizio insieme ai 444 familiari dei senatori defunti. Mica male.

Polemiche dopo lo stop al taglio dei vitalizi, l'ex senatore Vitali: "Era illegittimo". Con lo stop al taglio dei vitalizi, quello dell'ex senatore Vitali, di 4.300 euro. aumenterà di 500 euro. Vera Monti su Notizie.it il 8 Luglio 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Stop al taglio dei vitalizi, è polemica

La (presunta) composizione politica del voto

Vitali: “Ex parlamentari passati a pensioni di 1200 euro”

La pronuncia della Corte Costituzionale

“Il taglio doveva essere temporaneo”

Dopo le polemiche scatenate dallo stop al taglio dei vitalizi – che ha annullato una delibera del 2018 – il presidente del Consiglio di garanzia di Palazzo Madama, organismo autore della decisione, difende la sua scelta

Stop al taglio dei vitalizi, è polemica

Dopo il via libera del consiglio di garanzia del Senato a una delibera che prevede il ripristino dei vitalizi – quelli relativi a prima del 2012 – tagliati per gli ex senatori, è stata annullata la delibera del 2018 voluta da M5s, che aveva stabilito il taglio per adeguare il trattamento degli ex senatori ai criteri della riforma Fornero.

La decisione ha ovviamente scatenato una serie di polemiche, prima tra tutte quella di Conte che ha attaccato il governo: “I patrioti della Meloni ripristinano i privilegi”. Ma Fratelli d’Italia ha prontamente replicato: “Noi abbiamo votato contro, la colpa è del campo largo”, riferendosi con ironia all’astensione del Pd al voto.

La (presunta) composizione politica del voto

Da quanto riferiscono fonti parlamentari riportate ieri da Repubblica infatti, il voto ha visto il no dei componenti di Lega e FdI,il si di un componente del consiglio ex M5s e l’astensione del Pd, mentre il presidente ,l ‘azzurro Luigi Vitali,ha votato sì.

Proprio l’ex senatore oggi ha argomentato la decisione sulle pagine di Repubblica.

Vitali: “Ex parlamentari passati a pensioni di 1200 euro”

Secondo Vitali, la “sforbiciata” del 2018 “ha colpito alla cieca senza creare un sistema di bilanciamento. Ci sono ex parlamentari che con il retributivo prendevano fino a 5 mila euro e con il ricalcolo contributivo si sono trovati di punto in bianco con una pensione di 1.200 euro”,

La pronuncia della Corte Costituzionale

L’ex senatore entra poi in dettagli più tecnici: ” Abbiamo deciso sulla base di quanto è stato detto dal presidente dell’Inps e dal Consiglio di Stato. . Con queste due valutazioni abbiamo trasmesso gli atti alla Corte costituzionale chiedendole di pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento che, nei fatti, stabiliva con effetto retroattivo un taglio di un diritto acquisito” – ha raccontato sempre a Repubblica – ” Ci ha risposto che la strada da seguire era quella delle pensioni d’oro, calcolate con il sistema retributivo come i vitalizi. Dunque il taglio retroattivo è legittimo a condizione che sia proporzionato e, soprattutto, temporaneo”.

“Il taglio doveva essere temporaneo”

“Quindi” – puntualizza – “il taglio retroattivo è legittimo a condizione che sia proporzionato e, soprattutto, temporaneo. Ecco, noi abbiamo applicato lo stesso principio ai vitalizi, circoscrivendo la durata del taglio a tre anni e dunque facendolo terminare con l’inizio di questa legislatura”.

L’ex senatore di Forza Italia difende dunque con forza la sua decisione. Che porterà il suo vitalizio, attualmente di 4300, ad aumentare di ulteriori 500.

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” venerdì 7 luglio 2023.

Può un dipendente all’ultimo giorno di lavoro decidere di aumentarsi la pensione e di aumentarla anche per tutti i suoi ex colleghi che in pensione ci sono già? Nel Paese reale la risposta è scontata: no, chiaramente. Ma nel dorato mondo di Palazzo Madama è accaduto questo e proprio nelle stesse ore nelle quali la ministra Daniela Santanchè in Aula chiedeva aiuto ai senatori contro i poteri esterni, a partire da quello della magistratura.

Lo stesso giorno si è riunito il Consiglio di garanzia di Palazzo Madama: organo di secondo grado e inappellabile per tutte le questioni che riguardano i senatori, compresa quella del vitalizio. E cosa ha deciso lo scorso 5 luglio questo organismo? Si legge nel verbale: “La cessazione degli effetti della delibera 6 del 2018 a far data dal 13 ottobre 2022”. 

Tradotto: stop al taglio dei vitalizi deciso cinque anni fa sulla spinta del Movimento 5 stelle. Taglio che prevedeva il ricalcolo dell’assegno in base ai contributi realmente versati e non allo stipendio da senatore percepito.

Un passo verso il mondo reale, allora. Un passo verso il ritorno ai mega assegni quello deciso ieri dall’organismo di garanzia presieduto dall’ex senatore Luigi Vitali, dal vice Ugo Grassi, anche lui ex senatore, e composto a maggioranza da ex senatori. Quella del 5 luglio era l’ultima seduta utile del vecchio organismo prima dell’insediamento dei nuovi componenti del Consiglio di garanzia eletti in questa legislatura.

Nel 2018 gli assegni erano stati ridotti in alcuni casi anche del 50 per cento con il ricalcolo contributivo, portando a un risparmio di 60 milioni di euro per Palazzo Madama. Nel 2020 il taglio era stato ridotto, prevedendo il ricalcolo dal 2018 soltanto, ma il Senato ha comunque continuato a risparmiare 40 milioni di euro all’anno. […] Di questo regalo, per la precisione, beneficeranno 851 ex senatori ed ex senatrici e 444 familiari di senatori scomparsi per il principio della reversibilità al coniuge.

Dice l’ex senatore Luigi Vitali, sentito da Repubblica: “Abbiamo rimesso le cose in regola secondo quanto ci ha suggerito il Consiglio di Stato e secondo la strada tracciata dalla Corte costituzionale per i tagli alle pensioni d’oro che devono prevedere un tempo limitato di riduzione – dice Vitali  […]”.

Estratto dell’articolo di Franco Bechis per open.online il 29 giugno 2023.

La Camera dei deputati è diventata un pensionato, sia pure d’oro. Per la prima volta nella sua storia infatti fra il 2022 e il 2023 la spesa per pensioni e vitalizi ha superato – e non di poco – la spesa per indennità a rimborsi parlamentari e stipendi del personale dipendente o a contratto temporaneo. 

Nel bilancio di previsione 2023 approvato dal collegio dei Questori e appena pubblicato dalla Camera in vista della discussione e del voto d’aula la spesa previdenziale sarà di 446,025 milioni di euro a fronte di una spesa complessiva per gli stipendi di 324,235 milioni di euro. Il sorpasso era già avvenuto alla fine del 2022 (414,5 milioni di euro per pensioni e 380,7 milioni di euro per stipendi), ma si è ulteriormente amplificato.

Ha inciso ovviamente in questo rapporto il taglio del numero dei deputati che è scattato proprio in questa legislatura dopo le elezioni del settembre 2022. I deputati erano 630 e ora sono 400, costando quindi assai meno di prima. Tanto che la fine anticipata della legislatura ha consentito un risparmio di spesa 2022 di 10 milioni proprio a quella voce di costo. Nel 2023 la spesa per indennità e rimborsi ai deputati sarà così di 84,05 milioni di euro, contro i 144,92 milioni dell’anno precedente (in cui il taglio ha operato solo da ottobre in poi). Ma cresce, anche grazie ai deputati non più rieletti, la spesa per pensioni e vitalizi: nel 2023 sarà di 147,4 milioni, contro i 133,8 milioni consuntivati nell’anno precedente. 

A pesare sui conti previdenziali della Camera sono ancora e soprattutto i vitalizi, il cui taglio di importo si è molto affievolito dopo i ricorsi degli ex parlamentari. […]

Nonostante il taglio dei parlamentari la Camera dei deputati continuerà ad avere la stessa dotazione di prima (943,16 milioni di euro l’anno) e quindi a spendere la stessa somma di quando i deputati erano 630. Un po’ per il boom della spesa previdenziale che si mangia parte considerevole dei risparmi. E poi perché alcuni tagli non sono stati effettuati. 

I collaboratori diretti dei deputati sono stati ora regolarizzati con contratti a termine, ma la spesa è triplicata […]. In maniera poco comprensibile anche i finanziamenti pubblici ai gruppi parlamentari sono restati di circa 30 milioni di euro l’anno nonostante abbiano perso 230 loro componenti […]. I costi per la ristorazione non solo non si sono ridotti avendo meno commensali, ma sono passati da 2,095 a 2,360 milioni. Colpa – si dice – dell’inflazione […].

Estratto dell’articolo di Wanda Marra per Il “Fatto Quotidiano” l'8 giugno 2023.

I mecenati degli onorevoli rappresentano una galassia pittoresca. Ieri Il Fatto ha raccontato del generoso Stefano Bandecchi – mister Unicusano finanziatore di Maria Elena Boschi e del partito di Luigi Di Maio – e di Federfarma, che ha sponsorizzato l’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Ma dai documenti depositati alla Camera emergono altre bizzarrie: George Soros, un resort di Capalbio, Alfredo Romeo. E ancora Bandecchi, che con Unicusano, per non farsi mancare nulla, ha donato 30mila euro pure al forzista Raffaele Nevi.

Il più fortunato, in questa riffa, è l’ex governatore dem dell’Abruzzo Luciano D’Alfonso, che si è portato a casa 300mila euro da una lunga lista di aziende. È il caso, per esempio, della Guerrato spa (20mila euro), attiva nell’edilizia, che peraltro ha più volte lavorato con la regione di D’Alfonso. Parecchio denaro è arrivato da società del petrolifero: 25mila euro dalla Walter Tosto, 10mila dalla Sea Stock, 20mila dalla Ibh srl. Il totale è impressionante ma non un record. 

Inarrivabili sono infatti i 312mila euro dichiarati da Benedetto Della Vedova, che si è guadagnato il seggio anche grazie alla generosità del miliardario George Soros, benefattore unico della sua fortuna.

Singolare la vicenda del leghista Riccardo Molinari, finanziato invece con 10mila euro da Lorenza Jona Celesia, proprietaria di un lussuoso resort a Capalbio, vecchio fortino estivo della sinistra. E poi c’è la forzista Deborah Bergamini, già co-direttrice del Riformista e perciò coccolata con 10mila euro dal suo ex editore Alfredo Romeo. Ad aiutare il forzista Alessandro Sorte sono invece i genitori: ogni mese, dopo l’insediamento, mamma e papà gli hanno girato 2.350 euro.

A far notizia è anche la Social Changes, la benefit corporation americana che ha sponsorizzato con 110mila euro Nicola Fratoianni. Il versamento al leader di Sinistra italiana non è un caso isolato: da anni la società cerca “talenti” nel centrosinistra italiano. L’agenzia diretta da Arun Chaudary, filmmaker della Casa Bianca ai tempi di Obama, ha finalità politiche precise: battere la destra […] nessuno sa esattamente chi, viceversa, finanzi Social Changes […]. 

Tra i profili prescelti spicca quello di Elly Schlein, alla quale offrì i suoi servizi nel 2019, ai tempi della candidatura in Emilia-Romagna […]

Schlein, però, è solo una delle tante. È capitato anche a Stefano Bonaccini, per dire, di servirsi dell’agenzia. Che però per le Europee del 2019 fece un lavoro più strutturale: puntò su Caterina Cerroni […] E su Brando Benifei […]Tra gli altri, pure Peppe Provenzano si fece dare una mano per un video “emozionale”. A dimostrazione che Fratoianni è in buona compagnia.

(Adnkronos il 6 giugno 2023) - Dai 110mila euro versati da una 'benefit corporation' americana a Nicola Fratoianni ai 30mila euro donati dall'ateneo telematico 'Unicusano' a Maria Elena Boschi, passando per i 20mila euro elargiti da una ditta di trasporti alla premier Giorgia Meloni e i 25mila euro offerti da una società investimenti all'attuale viceministro dell'Economia in quota Fdi, Maurizio Leo. 

Sono alcune delle 'donazioni' ricevute da parlamentari eletti alla Camera in occasione della campagna elettorale per le politiche del 25 settembre 2022 e riportate nell'elenco dei contributi 'incassati' da ogni deputato, che l'Adnkronos ha potuto consultare. 

Spulciando i documenti depositati a Montecitorio, si scopre così che il leader di Si e deputato del gruppo Alleanza Verdi-Sinistra, Fratoianni ha beneficiato per l'esattezza di 110 mila 367,19 euro da parte della 'Social Changes Inc', con sede in California e diretta da persone molto vicine ai 'democrats' obamiani. "Lavoriamo per intrepidi promotori del cambiamento e campagne audaci", si legge sul sito dell'organizzazione che ha come obiettivo la costruzione di una "sinistra transnazionale" per arginare il ritorno dell'"estrema destra".

La 'Social Changes', spiegano fonti di Sinistra italiana, è una 'benefit corporation', formula usata, di solito, per le organizzazioni Usa senza fini di lucro: opera a livello internazionale e si occupa di comunicazione per le campagne elettorali dei candidati progressisti, laddove la destra è più aggressiva. I 110 mila euro sono, precisano le stesse fonti, 'offerte di servizi: dalla realizzazione di spot video all'advertising social alla social strategy.

Ammonta a 61 mila 200 euro la cifra che, nel complesso, i 'benefattori' di Meloni hanno versato all'attuale presidente del Consiglio per finanziare la sua scalata a palazzo Chigi. Tra le

donazioni, oltre ai 5mila euro stanziati dal suo partito, Fdi, e ai

mille euro versati da Alfredo Mantovano - nominato poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio dopo la vittoria elettorale di settembre - spiccano due bonifici da 20mila euro effettuati rispettivamente da 'Cospe srl' e dall'azienda di trasporti e logistica 'Italtrans Spa'. 

E ancora: 3 mila 500 euro sono arrivati nella tasca del futuro presidente del Consiglio da 'Bresi Srl', 4 mila 200 euro da 'Dcs Costruzioni srl' e 1.500 euro da 'Mc Home Srl'.

(Adnkronos il 6 giugno 2023)- All'ex ministro della Salute Roberto Speranza, rieletto col Pd in questa legislatura, sono stati donati 15mila euro da 'Farmaservizi srl' e altrettanti da 'Federfarma', la Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani, la stessa che ha aiutato l'attuale sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato di Fdi, con una donazione pari a 3mila euro. Rimanendo nel partito di Meloni, uno dei fedelissimi della premier, il questore Paolo Trancassini, ha potuto contare in campagna elettorale sul sostegno di varie aziende: Assopetroli/Assoenergia (5mila euro), Ospedale San Carlo di Nancy (2.500 euro, stesso importo donato all'ex governatore del Lazio Nicola Zingaretti, del Pd), Socylab Srl (3mila euro), Tiberia Hospital Srl (2.500 euro).

Tra i sostenitori di Boschi di Italia Viva spuntano invece 'Unicusano' (30mila euro), 'Valsabbia investimenti' e 'Telefin' (20mila euro a testa). 

Il ministro leghista dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha invece ricevuto 10mila euro dall'imprenditore Antonio Tirelli e 3 mil 850 euro da 'Alba multimedia srl', mentre al suo vice Maurizio Leo (Fratelli d'Italia) sono arrivati 25mila euro dalla società di investimenti 'Victoria Capital srl' e 20mila euro dalla 'Ducoli Achille srl', azienda attiva nel settore delle demolizioni industriali. 

Per il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin (Forza Italia) un contributo di 7 mila 500 euro dalla 'Almac srl' azienda che produce macchine e impianti per l'industria casearia. Nell'elenco dei finanziatori del sottosegretario della Lega alle Infrastrutture Edoardo Rixi si leggono i nomi di 'Paratori Spa' (5mila euro), 'Piccioni srl' (5mila euro), 'Trasporti pesanti srl' (6mila euro), 'Cosme Spa' (5mila euro). 

La presidente di Azione Mara Carfagna, invece, ha ricevuto 10mila euro dalla 'Marican Heritage 4 Srl', società che opera nell'edilizia industriale. Alla dem Michela Di Biase, moglie dell'ex ministro Dario Franceschini, è arrivato un contributo di 10mila euro da parte del gioielliere Paolo Bulgari. 

Non risultano donazioni ricevute né spese effettuate in campagna elettorale dal leader del M5S Giuseppe Conte o dalla deputata azzurra Marta Fascina, compagna del presidente di Fi Silvio Berlusconi. Anche Elly Schlein, segretaria del Pd, non ha ricevuto nessun 'obolo', pagando di tasca propria (circa 8mila euro) ogni spesa per mezzi e materiale di propaganda elettorale.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 2 marzo 2023.

Lui si chiama Ludovico Manzoni, è un brillante neolaureato della Bocconi, ha un gatto che si chiama Obama ed è soprattutto uno dei giovani emergenti del Pd milanese, consigliere in zona 1 (il Centro storico, la roccaforte rossa del capoluogo lombardo).

 Ludovico è in ottimi rapporti con molti maggiorenti del Pd, anche perché sua mamma è la famosa giornalista Daria Bignardi. Ed è anche l'unico volto italiano sul sito di una fondazione americana che si chiama Social Changes, dove viene indicato come «political expert».

«Sono solo un consulente», si schermisce lui ieri al telefono. Ma davanti ai tentativi di approfondire, invita a rivolgersi all'ufficio stampa della fondazione: «Peraltro oggi sarei anche in viaggio».

 È un peccato, perché ovviamente l'ufficio stampa resta muto. Così rimangono senza risposta diverse domande sulla strana storia sollevata l'altroieri con una interpellanza parlamentare da Giovanni Donzelli di Fratelli d'Italia sul fiume di soldi, quasi mezzo milione di euro, che da Social Changes è arrivato in Italia per finanziare le campagne elettorali di una serie di candidati: tutti di sinistra, e più esattamente quasi tutti del Pd, e ancor più esattamente della sinistra del partito.

 Recordman Brando Benifei, capogruppo Pd al Parlamento europeo, che intasca 48mila euro; a ruota Stefano Bonaccini, governatore dell'Emilia, che per le regionali riceve 30mila euro. Ma ci sono anche una sfilza di nomi semisconosciuti, alcuni beneficiati con poche migliaia di euro, altri più generosamente: come Barbara Cagnacci, candidata alle regionali in Toscana, che incassa 24mila euro: e ieri intervistata dalla Nazione dichiara candidamente «mi hanno contattato loro, io non li conoscevo».

Qualcuno avrà suggerito il suo nome a sua insaputa. Già, ma chi? Il giovane Manzoni, di fronte alla domanda se sia stato lui a indicare i nomi (tra cui quello di Bonifei, di cui è stato un acceso sostenitore) spiega «non sono autorizzato a parlare a nome dell'azienda». Ma questa, in fondo, è una curiosità marginale. La vera domanda è: da dove arrivano i soldi che Social Changes ha girato ai candidati piddini in Italia?

La fondazione (o «l'azienda», come la chiama Manzoni) in America si muove nell'ala più liberal del Partito democratico, e il suo uomo di punta, Arun Chaudhary, è stato il filmaker ufficiale della Casa Bianca ai tempi della presidenza di Barack Obama.

 «Lavoriamo per progressisti senza paura e per campagne audaci» è lo slogan accompagnato da una immagine della battagliera Alexandria Ocasio-Cortez. Il problema è che dove Social Chanages prenda i soldi non lo sa nessuno, perché la fondazione non rivela i nomi dei sottoscrittori.

La conseguenza è che una sfilza di esponenti del Pd devono oggi le loro cariche anche a soldi di padre ignoto. In Italia, d'altronde, partiti e liste hanno il divieto di incassare finanziamenti da governi stranieri o da società con sedi all'estero. È vero che formalmente i finanziamenti di Social Changes vanno a singoli candidati, ma l'anno scorso quando Il Foglio rivelò che una candidata toscana, Federica Benifei, era appoggiata dalla fondazione Usa, la federazione locale del Pd spiegò che «è una campagna decisa dal nazionale».

Eppure non risulta che la Procura di Firenze, che pure ha indagato alacremente sui finanziamenti alla Open di Renzi, stia ficcando il naso su Social Changes, né che lo abbiano fatto le diverse Procure sparse per l'Italia che hanno concorso all'inchiesta-fiasco sui fondi della Lega.

«Con il finanziamento dell'organizzazione Social Changes - spiega ieri al Giornale Giovanni Donzelli - gli esponenti del Pd hanno accettato soldi in cambio dell'ingerenza di un interesse straniero sull'Italia». In attesa che la ministra Lamorgese risponda all'interpellanza di Donzelli e del suo collega di partito Stefano Mugnai, ci sarà qualche pm disposto a muoversi?

Della Vedova e gli oltre 300mila euro ricevuti da Soros: "Tutto vero, niente in cambio". Il Tempo il 19 gennaio 2023

Oltre trecentomila euro ricevuti in campagna elettorale. Nella dichiarazione patrimoniale di Benedetto Della Vedova, segretario di Più Europa, spiccava questo dato. L'ex finiano è il parlamentare ad aver ricevuto più contributi dai privati cittadini. Anzi, da un privato cittadino. Perché, benché sul sito della Camera il nome del donatore sia sbianchettato, in un'intervista al Corriere Della Vedova ammette: "Quei soldi me li ha dati George Soros".

"Non c'è nulla di nuovo e nulla di strano" si giustifica il segretario di Più Europa. E quando gli viene chiesto il motivo dell'enorme entità della somma, lui replica: "Ad altri sono andate cifre equivalenti, e comunque io ero candidato in cinque circoscrizioni". Della Vedova, che ha incontrato Soros "più volte", ha spiegato che il filantropo ungherese "non ci ha chiesto nulla", "ha solo deciso di spendere la parte finale della sua vita dando contributi a forze che combattono per le sue idee, dall'immigrazione all'antiproibizionismo".

Estratto dell’articolo da repubblica.it il 5 gennaio 2023.

Per la prima volta il M5S potrà accedere ai finanziamenti pubblici. Il Movimento di Giuseppe Conte ha sanato le irregolarità dello scorso anno che avevano causato l'esclusione e ora spunta nell'elenco dei beneficiati del due per mille.

  Nella lista c'è anche Italia dei Valori: l'ex partito di Antonio Di Pietro potrà ricevere i finanziamenti grazie all'alleanza con la formazione centrista di Maurizio Lupi. Restano fuori invece Rifondazione comunista e Italexit di Gianluigi Paragone: entrambi non sono riusciti a eleggere alcun parlamentare nelle ultime elezioni politiche.

Il Movimento di Conte debutta così nell'elenco dei beneficiari del due per mille. Lo scorso anno la Commissione di garanzia sugli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici aveva respinto la richiesta del leader dei grillini. Una richiesta con cui l'ex premier aveva infranto il tabù del finanziamento pubblico ai partiti, nonostante il gelo di Beppe Grillo. […]

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 5 gennaio 2023.

La legge dice che i contributi alla campagna elettorale devono essere resi pubblici. Così come l'identità dei benefattori. Poi però in Parlamento fanno come gli pare. Tanti deputati e senatori sbianchettano i nomi lasciando solo le cifre. Altri, tanti altri, sono in ritardo nella consegna della dichiarazione patrimoniale.

 Il caso è sollevato da Franco Bechis, direttore di Open. Solo un centinaio di parlamentari hanno presentato le carte patrimoniali. Reddito più rendiconto elettorale. Tra i leader che non hanno ancora depositato la dichiarazione ci sono: Giorgia Meloni, Enrico Letta, Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Nicola Fratoianni, Carlo Calenda, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi.

E indovina un po' chi altro non ha consegnato la documentazione fiscale? Aboubakar Soumahoro. Per carità, non è il solo. Però negli ultimi tempi il deputato di origini ivoriane è finito nell'occhio del ciclone per il suocera-gate. E anche per polemiche sollevate dai suoi ex compagni dei sindacati di base, che hanno accusato l'ex paladino dei braccianti di una gestione poco trasparente nelle raccolte fondi. Abou, che si è autosospeso dal gruppo di appartenenza, l'Alleanza Verdi e Sinistra, per il momento priva i cittadini della possibilità di farsi i fatti suoi.

Chiara Appendino non ha immobili, non ha macchine, non ha quo L'europarlamentare Andrea Cozzolino, coinvolto nell'inchiesta della magistratura belga sul cosiddetto Qatargate «non intende invocare l'immunità parlamentare per l'attività politica che ha svolto in maniera libera e trasparente». Cozzolino chiederà all'europarlamento di essere sentito per «rispondere a tutte le domande e offrire tutte le informazioni e i chiarimenti».

Il terzo polista Matteo Richetti ha ottenuto 5mila euro per la campagna: strisciata nera sul contribuente. Michela De Biase ha ricevuto bonifici per 30mila euro. Da ignoti. Nel senso che l'identità è coperta.

E questo nonostante la legge dica altro. E, cioè, trasparenza totale per tutti i contributi provenienti da società, persone giuridiche, associazioni, fondazioni, comitati. Indicazione obbligatoria anche per le persone fisiche che versino cifre superiori ai 5mila euro. Non solo. In caso di finanziamenti da parte di società è obbligatoria anche la delibera degli organi societari. Quello che non è chiaro è se i pdf sono stati consegnati già sbianchettati dai deputati o se sono stati gli uffici di Montecitorio a coprirei benefattori.

 Molto probabile la prima tesi, la seconda non avrebbe senso. Anche la dem Anna Ascani tutela l'identità dei due finanziatori: uno le ha dato 500 e l'altro 150. Giusto, se sono persone fisiche; sbagliato, se sono società. In ogni caso: quanta avidità, oh. Campagna low cost anche per Matteo Orfini. La sua rielezione è costata 500 euro. Tutto qui. Piero Fassino dichiara sei immobili tra Roma e Torino, un casale in Toscana, un terreno agricolo in Piemonte.

Ma tralascia la parte sui finanziamenti elettorali. Distrazione. Il senatore Bruno Astorre ha ricevuto 12mila euro di contributi. In questo caso, trattandosi di singole elargizioni sotto i 5mila, la pecetta ci sta. L'esponente dem, inoltre, non nasconde di essersi appena fatto una BmwX3 xdrive, tremila di cilindrata, 184 cavalli. Presa in leasing, precisa però.  

Estratto dell’articolo di Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 22 Dicembre 2022

[…] La scena in Aula se la prende il renziano Roberto Giachetti. «Potete essere definiti con un solo termine - grida ai contiani l'esponente di Italia viva -. Miserabili!». Applausi, boatos, risate e il coro «buffoni, buffoni» dai banchi della destra. I 5 Stelle, bersaglio dell'invettiva, restano imbarazzati e silenti. 

Giachetti va giù duro, rimprovera il questore del M5S e Conte per essersi intestati la scelta di non aumentare le indennità dei deputati fino al 2025: decisione che i partiti hanno preso all'unanimità, in linea con le scelte degli ultimi tre lustri. «Vergognoso», accusa Giachetti e punta il dito contro il questore Filippo Serra e poi contro Conte, colpevole di aver cantato immeritatamente vittoria. […]

Parla il candidato segretario Pd. Cosa è il finanziamento pubblico ai partiti, il tema rilanciato da Bonaccini contro il populismo. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Stefano Bonaccini incontra i giornalisti e con il Riformista approfondisce i temi della giustizia e delle riforme per ridurre la burocrazia. L’appuntamento è convocato al teatro Vascello di Roma, un luogo simbolo della sinistra: amato da Pier Paolo Pasolini che vi abitò accanto, diede rifugio e lavoro agli Intillimani, riparandoli dal golpe in Cile. È qui che Bonaccini incorona Pina Picierno – “non in ticket ma in tandem”, precisa – dopo che il mini sindaco del Municipio, il dem Elio Tomassetti, un giovane che sa muoversi bene anche tra i ‘grandi’, gli dà il benvenuto tra gli applausi di quella comunità democratica che cerca di recuperare unità.

Si capisce dai dettagli, dall’emozione che vela la voce del governatore Bonaccini e della vicepresidente del parlamento europeo, che dietro le quinte del Vascello la sinistra torna a fare i conti con la storia. In prima fila siedono Claudio Mancini, Piero Fassino e Alessandro Alfieri, l’ex ministra Valeria Fedeli, Silvia Costa, Iside Castagnola. E il coordinatore della segreteria Pd, Marco Meloni. I sondaggi sono stabilmente a favore: il gradimento della base e la popolarità tra gli elettori mettono in sicurezza la corsa di Bonaccini, ‘Bona’, verso il Nazareno. “Ho 55 anni e non sono mai stato in Parlamento, forse se si parla di nuova classe dirigente posso dire la mia”, si limita a rispondere ai graffi di Franceschini. “Voglio unire i democratici e tornare a lavorare sull’identità del partito, io che rispetto a Gianni Cuperlo sono quello più a sinistra – il tono si fa ora ironico, ora più serio – lavorerò all’apertura di una grande scuola di formazione politica, una esigenza che sento impellente”.

Ma è su alcune riforme in chiave antipopulista che il candidato alla segreteria dem dialoga con Il Riformista. Gli proponiamo alcuni temi: la semplificazione, la riforma dell’abuso d’ufficio e il finanziamento alla politica. “Sono per rivedere l’abuso d’ufficio e permettere agli amministratori locali di fare bene il servizio al quale sono chiamati dagli elettori”, esordisce. L’impianto sanzionatorio deve lasciare il posto alla linearità delle agende amministrative. “Discutiamone insieme: sul funzionamento di certi strumenti non si può fare un problema di destra e sinistra. Penso che di burocrazia ce ne sia troppa, e sono convinto di una cosa: la corruzione e le infiltrazioni – anche mafiose – proliferano quando c’è la giungla normativa. Se si semplifica, si aiuta a combattere l’illegalità. Non servono nuove norme ma buone norme”, dice. E accenna ad un progetto di progressiva eliminazione degli adempimenti: “Ho in agenda, se farò il segretario del Pd, di impegnarmi per la burocrazia zero”.

Parla il pragmatismo dell’amministratore locale, ma per ora non entra nel merito. Teniamoci l’appunto: ‘burocrazero’. “Sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, se guardiamo indietro, si arrivò a quella decisione per una degenerazione per la quale spesso quelle risorse non finivano allo scopo per cui nascevano. Detto questo, sono oggi tra coloro che sono pronti a ridiscuterne. Serve il coinvolgimento di tutte le forze politiche per capire, con la forza della massima trasparenza della rendicontazione necessaria, se non sia arrivato il momento di rivedere quella decisione e di tornare a pensare allo strumento del finanziamento pubblico ai partiti”.

Anche Pina Picierno entra nel merito: “In passato sono stati fatti errori, troppe concessioni hanno reso un servizio al populismo. Adesso va restituita dignità alla politica: la democrazia ha i suoi costi e vanno messi tutti in condizione di fare politica con quei partiti che la Costituzione individua come pilastri dell’agire pubblico”. L’applauso della sala scatta su queste parole. Per questa parte del centrosinistra la riappropriazione della politica riparte dal finanziamento pubblico dei soggetti portatori di democrazia.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchiest

Il Pd fiaccato dagli scandali ora rivuole il finanziamento pubblico. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 16 dicembre 2022

La teoria ha un certo fascino: se oggi il finanziamento pubblico ai partiti non c'è più; se i giornali di partito sono rimasti senza soldi e hanno abbassato le serrande; se la figura dei funzionari di partito- nell'impossibilità di pagar loro gli stipendi- si è praticamente estinta; se, in sintesi, per chi fa politica la poltrona di parlamentare è l'unica possibile fonte di reddito, allora è da ipocriti scandalizzarsi se c'è qualcuno che, per mettersi in sicurezza, si mette a fare il lobbista, nella migliore delle ipotesi. O incassa tangenti, nella peggiore.

Il naturale corollario della tesi è il seguente: ritorniamo ai contributi statali e non avremo più scandali come il «Qatargate» che sta facendo tremare la sinistra. Ragionamento suggestivo, come detto, e finanche condivisibile. Se non fosse per due particolari. Il primo è che la corruzione c'era anche prima, quando i partiti erano generosamente foraggiati dal bilancio pubblico. E, d'altronde, il referendum del 1993 sull'abolizione del finanziamento ottenne un sì plebiscitario (90%) proprio sull'onda del più celebre di quegli scandali, Tangentopoli.

La seconda obiezione, invece, sta nel fatto che fu la medesima sinistra a schierarsi per lo stop ai fondi statali. Prima cavalcando il referendum del 1993, poi abolendo - con il governo Letta nel 2013 - anche i rimborsi elettorali che ne avevano preso il posto.

Eppure sono stati due esponenti del Pd non certo di secondo piano- il vicesegretario Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo, in procinto di candidarsi alla segreteria- a indicare nella fine del finanziamento pubblico il padre di tutti i mali. Ed è stato incardinato al Senato un ddl per reintrodurlo firmato dal senatore Dem Andrea Giorgis. «Se sopprimi ogni forma di finanziamento della politica argomenta Cuperlo - rimanere nelle istituzioni diventa il traguardo a cui non puoi rinunciare. I soldi gli strumenti per conservare lo status. Le responsabilità sono sempre personali, ma paghiamo anche gli errori di questi anni, a partire dalla selezione dei gruppi dirigenti.

C'è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Chi non è nelle istituzioni non esiste». «Se negli anni passati - aggiunge Provenzano all'Huffington Post un'intera classe dirigente non ha avuto le palle, scusi il termine, per opporsi al vento populista, se siamo stati noi ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti, allora vuol dire essere pronti a rinunciare al "professionismo della politica". È un errore, a mio avviso».

Dai rimborsi ai rimorsi il passo è breve. Male obiezioni restano. La prima: la battaglia culturale sul finanziamento pubblico non era il caso di farla quando la decisione di abolirlo fu presa? Ora che i buoi sono scappati non è tardi per chiudere il recinto? E ancora: come conciliano Cuperlo e Provenzano l'improvvisa sterzata anti -populista con l'auspicio a riallacciare i ponti col M5S, il «partito» più populista e anti -casta di tutti? E, infine, dopo giorni di imbarazzato silenzio, davvero l'unica riflessione arrivata da sinistra sul «Qatargate» (e sul caso Soumahoro) è sulla necessità di reintrodurre il finanziamento pubblico? Che fine ha fatto la questione morale? E il tradimento ideale di chi ha sfruttato il «bene» (le coop e le ong) per fare il «male» (corruzioni e tangenti)? E il fatto che lo scandalo abbia colpito solo la sinistra e non la destra? Davvero si può ridurre tutto questo all'assenza di contributi statali? Davvero si rimetterà tutto a posto con quello che Provenzano chiama «l'elogio del funzionario di partito»? Per il Pd, evidentemente, sì. Caso chiuso, compagni.

La rancida polemica sui vitalizi, un mix di falsità e demagogia. Franco Corleone su L'Espresso il 24 Agosto 2023.

La propaganda è uno strumento da maneggiare con cura, evitando l’uso di fatti non veri che disorientano i cittadini e alimentano un clima di odio. Lo dimostra la sempiterna querelle sui privilegi dei parlamentari (mentre queste entrate sono state abolite nel 2012)

Il 2 agosto alla Camera è andata in scena, a opera dei 5 Stelle, una mediocre replica della rancida polemica contro i vitalizi. Lo scopo era quello di montare l’indignazione contro i privilegi da parte di chi condanna la cancellazione del reddito.

La propaganda è uno strumento che va maneggiato con cura, evitando l’uso disinvolto di falsità che disorientano i cittadini e alimentano un clima di odio inutile. La demagogia contro la casta spinse il Parlamento ad abolire i vitalizi nel 2012 e a instaurare un sistema pensionistico contributivo e legato al raggiungimento dei 65 anni di età. Quindi i vitalizi non esistono più. Nel 2018 la scure si abbatté sugli ex parlamentari con una operazione di ricalcolo retroattivo con il metodo contributivo.

L’errore marchiano nell’utilizzo di coefficienti sbagliati ha obbligato l’amministrazione di Camera e Senato a effettuare dei riconteggi. I ricorsi dei parlamentari hanno costretto gli organi di giustizia interna, Consigli di Giurisdizione e Consigli di Garanzia, ad assumere decisioni anche tenendo conto delle indicazioni della Corte costituzionale. Siamo di fronte a un contenzioso giudiziario, perdipiù affidato, secondo la vigenza della autodichia, a parlamentari che devono resistere a pressioni partitiche ed essere autonomi nel giudizio.

Per fortuna nella discussione è intervenuto Piero Fassino a difendere la dignità dei rappresentanti del popolo stigmatizzando l’orgia populista dei 5 Stelle e di Fratelli d’Italia. Un connubio che spiega la deriva del Paese e molti accordi sottobanco.

La vicenda non merita una particolare attenzione nel merito, ma vale la pena di ricordare che nel 2018 un carneade chiamato Di Maio vomitava verso gli ex parlamentari frasi del genere: «I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati», «Parassiti sociali che hanno campato sulle spalle di tanta gente», «Questi ex dis-onorevoli, vitalizio-dipendenti, non conoscono vergogna». In questi anni sono scomparse figure eccezionali della storia della Repubblica e con ipocrisia sono state celebrate. Il proverbio secondo cui il bue dà del cornuto all’asino si attaglia a un personaggio che si è accaparrato un ruolo internazionale senza merito e solo grazie a spartizioni di sottopotere.

Quali lezioni si devono trarre da questo episodio minore, ma non trascurabile? La prima: la ricostruzione di una cultura politica che caratterizzi l’opposizione, capace di contrapporsi alla destra al potere, richiederà intelligenza inedita e pensieri lunghi. La seconda: la consapevolezza che la crisi della democrazia è assoluta, se non irrimediabile, è drammaticamente assente. La terza: il ruolo del Parlamento è inesistente e ridotto a pura caricatura, a luogo di registrazione di decisioni prese altrove, stretto tra decreti e voti di fiducia.

Prima di pensare al cosiddetto campo largo, occorre chiedere conto degli errori politici e istituzionali compiuti con il taglio dei parlamentari (sempre a opera dei 5 Stelle) e del delitto di Carlo Calenda alle ultime elezioni politiche. Il Pd deve giustificare l’incapacità di imporre la modifica di una legge elettorale che dà la maggioranza alla minoranza.

Va ricordato l’ultimo ammonimento di Mario Tronti che auspicava che «nell’irrazionalità della storia» si accendesse una scintilla «capace di incendiare la prateria».

Bonanni: un Parlamento di sconosciuti altro che stipendi bassi. Redazione su L'Identità il 5 Agosto 2023

Bonanni: un Parlamento di sconosciuti altro che stipendi bassi; L’intervento di Fassino riporta al centro del dibattito l’indennità di deputati e senatori: ma sono altri i frutti velenosi della democrazia.

di RAFFAELE BONANNI

Ed ecco che torna di nuovo l’antico tema su quanto deve essere la paga di un parlamentare. Ma se ne parla come se dovessimo discutere dell’onorario di un medico a prescindere dalla professionalità e della sua fedeltà al giuramento di Ippocrate; come se dovessimo disquisire sul costo del trasporto ferroviario pubblico a prescindere dalla sua efficienza e dalla sua capacità a servire anche i luoghi più sperduti del paese. Un secolo e più fa lo Statuto Albertino vietava la retribuzione dei parlamentari; i senatori venivano nominati dal Re, i deputati eletti da poche decine di possidenti del collegio elettorale. Ma con Giolitti nel 1912 si iniziò ad allargare sensibilmente la base elettorale per dare spazio ai “figli del popolo” e non solo a ricchi possidenti e nobili.

Infatti, istituì l’indennità parlamentare per permettere a chi non aveva patrimoni di mantenersi a Roma dovendo interrompere le proprie attività lavorative per il sostentamento. Giovanni Giolitti, statista liberale di grande valore, volle così cambiare la fonte della rappresentanza: la spostò, dalla casta dei nobili e dei grandi possidenti, ai ceti popolari rendendola effettiva nella libertà di voto, ma anche nella reale possibilità di esercitarla attraverso rappresentanti del popolo eletti e forniti di indennità in grado di renderli autonomi dai poteri privati, nell’interesse superiore della Democrazia. A distanza di più di un secolo non ci sono in Italia statisti che si pongono il tema di come allargare la base elettorale, e come rimuovere le nuove caste che ostacolano la libera espressione della rappresentanza? I votanti si sono ormai ridotti pericolosamente a meno del 50% a causa della gabbia maggioritaria costruita appositamente per togliere di mezzo il pluralismo. Agli elettori, per protestare, non rimane che disertare le urne in carenza di offerte politiche compatibili con le proprie culture di riferimento.

E come se non bastasse, a scegliere i candidati sono i capi partito che ne fanno la base principale per reggere i loro partiti personali. I cittadini ormai sanno che si sostituiscono arbitrariamente a loro nel scegliere con preferenza il loro rappresentante di territorio. Dunque il becero populismo che si esprime sulle indennità parlamentari, sono per intensità proporzionali al discredito ed al rifiuto della truffa che si avverte nel funzionamento della rappresentanza parlamentare. In tale contesto, se si tenesse un sondaggio per sapere chi sono i rappresentanti in parlamento del proprio territorio, sono sicuro che solo qualche unità percentuale saprebbe rispondere. Questo solo perché non li conoscono e perché in gran parte la loro affidabilità non è stata testata nella loro comunità, ma forse in taluni circoli ristretti. Probabilmente sarà più facile associarli e riconoscerli a causa di pettegolezzi per essere congiunti o compagni formali od occulti di notabili.

C’è dunque qualcosa di perverso nel continuare a negare l’esistenza di questi frutti velenosi per la Democrazie e dunque dell’economia. Che senso ha annunciare come maggioranza di governo, riforme costituzionali ed istituzionali come il premierato per garantire più governabilità, senza porsi i problemi della rappresentanza in balia di nuove caste? In democrazia la governabilità dipende proprio dalla efficienza e credibilitàdei sistemi elettorali. E l’opposizione? Anchessa fa finta di non capire perché anchessa funziona internamente come in un sistema feudale con vassalli, valvassini e valvassori, che trova conveniente il sistema. Ha dimenticato la proria storia legata costitutivamente alla rappresentanza coinvolgente ed efficiente espressione di tutti i cittadini. Ma finchè l’opacità è forte per responsabilità delle nuove caste, vanno sotto attacco strumenti nobili che mirano alla tutela delle rappresentanze dei meno abbienti. Per le culture che si rifanno all’umanesimo, la battaglia per la rappresentanza agli albori della Democrazia fu costitutiva per i movimenti che si generarono. Chissà se l’hanno dimenticato per interesse o per ignoranza. Probabilmente per ambedue le ragioni.

GIUSTO DIRE CHE I PARLAMENTARI NON HANNO STIPENDI D’ORO? Si & No

I parlamentari hanno un buon compenso e molti vantaggi. Bisognerebbe ringraziare i cittadini e non sventolare il cedolino. Enrico Rossi (ex presidente Toscana) su Il Riformista il 4 Agosto 2023

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sui compensi dei parlamentari: giusto dire che non hanno uno stipendio d’oro?  Favorevole il deputato del PD PieroFassino, che partendo dal suo discorso alla Camera, riflette su un generalizzato umore antipolitico. Contrario l’ex Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi il quale si chiede che senso abbia sventolare il cedolino della paga dei deputati di 4718 euro proprio mentre il paese si infiamma per la perdita di un reddito di cittadinanza.

Qui il commento di Enrico Rossi: 

Qualche premessa. La prima è che sono un uomo politico, innamorato della politica. E che se continuiamo ad alimentare il mostro dell’antipolitica, questa non sarà mai sazia. E guardate, è causa della delegittimazione della politica, se oggi qualcuno chiedesse: “Quanto dovrebbe guadagnare un parlamentare?” si sentirebbe rispondere: “Zero”.

Una seconda premessa è che sono anche un grande estimatore di Piero Fassino, che da leader del principale partito della sinistra italiana è stato anche il fondatore del Partito Democratico. Insomma, gli voglio veramente bene: come tutta una generazione che ha assunto responsabilità pubbliche negli ultimi anni, ho una grande stima per Fassino anche se non sempre sono stato d’accordo con lui.

Vedo che anche la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha dichiarato che Fassino ha parlato “a titolo personale”. Più che altro, ha parlato a titolo parziale: in aula l’ex segretario dei Ds ha fatto riferimento solo all’indennità. Ma ogni deputato gode anche di un fondo ‘per l’attività parlamentare di 3.610 euro al mese. Fassino ha chiarito che il suo viene utilizzato per i compensi di due suoi collaboratori. Non è così per tutti, ovviamente. Poi c’è la voce diaria: 3.500 euro al mese.

Ogni deputato decide come impiegarla. Nel Pd, per esempio, di solito viene versata al partito per le attività politiche, altri la utilizzano per le spese di alloggio. La diaria però non è fissa, può essere decurtata di 200 euro per ogni giorno di assenza nelle votazioni in aula e fino a 500 euro per le assenze negli organismi interni della Camera.

Altro capitolo è poi rappresentato dalle spese di viaggio, per le quali sono previsti circa 3.300 euro trimestrali (una voce variabile, legata alla distanza tra residenza e un aeroporto) che si aggiungono alle facilitazioni per la circolazione (autostrade, treni). Insomma, il bicchiere che era parso mezzo vuoto nel suo appassionato intervento in aula, agli occhi del pubblico a casa appare mezzo pieno. Anzi no, è proprio colmo.

Che senso ha, gli chiedo, sventolare il cedolino della paga dei deputati di 4718 euro al mese dichiarando che non si tratta di uno stipendio d’oro? Proprio mentre il paese si infiamma per la perdita di un reddito di cittadinanza di 500 euro a persona e proprio mentre il PD propone un salario minimo intorno a 1.000 euro.

Oltretutto Fassino si dimentica una serie di indennità di diverse migliaia di euro appannaggio dei parlamentari e di cui certo non godono i normali lavoratori. Non tener conto di tutto questo e lasciarsi andare ad una filippica in difesa del proprio stipendio è quantomeno politicamente inopportuno ed espone a critiche e reazioni forti per tanti aspetti comprensibili e pure motivate.

Esse non sono certo il segno di un populismo deleterio come dice Fassino, ma sono piuttosto il frutto di una situazione salariale sempre più insostenibile per i ceti più deboli e i lavoratori in genere. In politica bisogna cogliere anche l’attimo, il momento giusto. L’agenda della sensibilità pubblica, senza scadere mai. Ma proprio mentre in Italia viene sospeso a 169.000 persone il reddito di cittadinanza, sventolare un cedolino da quasi cinquemila euro non è esattamente sintonico con la pancia del Paese. E ignorare questo stato di cose significa correre il rischio di una disconnessione sentimentale con larghi strati popolari.

Poi è tutto vero quello che Fassino dice, cioè che ormai in Italia gli stipendi dei parlamentari alla Camera -diversamente al Senato- sono sostanzialmente allineati con quelli degli altri paesi europei, ma in politica il senso della opportunità e la scelta dei tempi giusti per parlare o tacere sono fattori fondamentali che non dovrebbero essere ignorati.

Io penso che si dovrebbe prima di tutto ringraziare gli italiani che pagano gli stipendi a noi politici e poi se proprio si deve parlare dei costi suggerirei di rispondere così: “Guadagno bene e ho molti vantaggi rispetto a tanti cittadini, anche per questo mi impegno molto nel mio lavoro, per essere all’altezza di quanto mi viene dato, e non mi pare mai di fare abbastanza”. Enrico Rossi (ex presidente Toscana)

I parlamentari non hanno stipendi d’oro. Diaria forfettaria e Fondo per l’attività di mandato vengono interamente spesi. Basta con il populismo e la demagogia. Piero Fassino (Deputato Pd) su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sui compensi dei parlamentari: giusto dire che non hanno uno stipendio d’oro?  Favorevole il deputato del PD PieroFassino, che partendo dal suo discorso alla Camera, riflette su un generalizzato umore antipolitico. Contrario l’ex Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi il quale si chiede che senso abbia sventolare il cedolino della paga dei deputati di 4718 euro proprio mentre il paese si infiamma per la perdita di un reddito di cittadinanza.

Qui il commento di Piero Fassino:

Le polemiche suscitate da un mio intervento in sede di discussione del bilancio della Camera sono prive di un serio fondamento. Come quasi sempre accade in Italia la possibilità di ragionare è soffocata dalla demagogia. E il mio intervento è stato sollecitato dalla presentazione di tre ordini del giorno – due di 5Stelle e uno di FdI – che richiedevano ulteriori riduzioni ai vitalizi, che peraltro già sono stati ridotti applicando il metodo retributivo. E allora partiamo da cosa ho detto. Ho ricordato ai colleghi che l’indennità lorda di 10.435 euro erogata a ogni parlamentare, ridotta giustamente dell’Irpef, delle addizionali regionali e provinciali, dei contributi previdenziali scende a 4.718 euro netti per 12 mensilità. È una dimensione congrua, tant’è che intervenendo non ne ho chiesto alcuna modifica, né me ne sono lamentato. Quel che però ho richiamato è la differenza tra quell’indennità e quel che viene reiteratamente raccontato secondo cui i deputati hanno indennità d’oro di 10.000 euro e più al mese. E per questo mi sono rivolto ai colleghi parlamentari invitandoli a non cavalcare demagogicamente voci prive di fondamento. Insomma: ho fatto un discorso di verità che avrebbe dovuto essere accolto favorevolmente. E molti in privato mi hanno espresso consenso.

E invece si è scatenata una canea guidata dai social mettendo in campo il solito linciaggio mediatico quando non si vuol accettare la verità. Naturalmente subito c’è stato chi ha voluto ricordare che i deputati non ricevono solo un’indennità, ma anche una diaria forfettaria e un fondo per l’attività di mandato.

Verissimo e non ho avuto difficoltà a rendere conto dettagliatamente di come io utilizzo quei fondi: 3.670 euro sono totalmente assorbiti dai compensi ai miei due collaboratori parlamentari e della diaria 2.500 euro sono devoluti al PD nazionale e al PD Veneto – dove sono stato eletto – e la rimanenza di 1.000 copre le spese mensili per abbonamenti giornali, trasferte e iniziative politiche. In altri termini tutto ciò che ricevo per l’attività parlamentare è spesa per quella finalità. Non c’è dunque nessuna forma di arricchimento indebito e il netto di cui dispongo sono i 4.718 euro dell’indennità.

Questi i fatti, che richiedono anche qualche riflessione politica.

Mi si è obiettato che è stato inopportuno evocare il tema, mentre è il governo elimina il reddito di cittadinanza e si oppone al salario minimo. Obiezione che non mi appare plausibile perché sono battaglie in cui mi riconosco e con tutti i parlamentari del PD sono impegnato da settimane nell’opporci alla brutale eliminazione del reddito di cittadinanza e nel chiedere che si discuta della nostra proposta di salario minimo legale.

Ma più al fondo anche questa vicenda rende evidente quanto l’antipolitica abbia messo radici profonde in convinzioni errate: che i politici non abbiano competenze e che ricoprano quell’incarico senza merito; che i partiti siano inutili e il loro finanziamento uno spreco; che la politica non debba costare, quando qualsiasi attività umana ha dei costi (se affitti un teatro il proprietario vuole essere pagato e così un tipografo se stampi dei manifesti). E la logica dell’ “uno vale uno” che già molti danni ha prodotto in questi anni.

Un umore antipolitico cresciuto anche certo per responsabilità della politica. Non mi sfuggono certo gli impatti devastanti di Tangentopoli o delle troppo manifestazioni di occupazione del potere da parte della politica. E di fronte a quei fatti troppo spesso la politica si è piegata a soluzioni di destrutturazione. Si è eliminato il finanziamento pubblico dei partiti, si è ridotto il numero dei parlamentari, si è adottata una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, si sono tagliate indennità e vitalizi (perfino con incidenza retroattiva). Ebbene, non solo in quel modo non si rinnovata la politica, ma la si è’ snervata rendendola fragile. E quanto più la politica è debole, tanto più i problemi incancreniscono.

Credo che sia tempo di spezzare la spirale di populismo e demagogia che soffoca sempre di più la democrazia e il Paese. Se il mio agire di questi giorni, forse un po’ ingenuo, può concorrere a intraprendere una diversa strada, non sarà stato inutile per affermare le ragioni della buona politica contro la cattiva politica.

Piero Fassino (Deputato Pd)

Estratto dell'articolo di Cesare Zapperi per corriere.it mercoledì 2 agosto 2023.

«L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta certamente di una buona indennità, ma non è certamente uno stipendio d’oro». Dichiarazione che ha subito scatenato polemiche, soprattutto in giorni in cui al centro dell’attenzione degli italiani c’è il tema del reddito di cittadinanza per migliaia di persone. 

Piero Fassino si è presentato in Aula sventolando il “cedolino” dello stipendio da parlamentare poco prima di votare il Bilancio interno della Camera. Il deputato del Pd, ex segretario dei Ds e con una lunga carriera nel Pci, nel corso del dibattito aveva anche dichiarato il suo no all’odg di Fratelli d’Italia e del M5s sullo stop ai vitalizi parlando di «demagogia e populismo».

[…] «Un luogo comune è che i parlamentari godano di stipendi d’oro, qui ho il cedolino di luglio 2023, è uguale per tutti - ha spiegato Fassino-. Risulta che l’indennità lorda è di 10.435 euro, da cui giustamente vengono defalcati l’Irpef, l’assistenza sanitaria, la previdenza dei deputati che è di 1000 euro, le addizionali regionali e comunali». 

Fassino ha aggiunto: «Fatti questi giusti prelievi, l’indennità netta dei deputati è di 4718 euro al mese. Va bene? Sì. L’unica cosa che chiedo è che quando sento dire che i deputati godono di stipendi doro dico non è vero, perché 4718 euro al mese sono una buona indennità ma non sono uno stipendio d’oro». 

[…]

Fassino ha parlato dell’indennità, ma i parlamentari ricevono anche altre somme a vario titolo che li aiutano a rendere più agevole il loro impegno istituzionale. A loro viene infatti riconosciuta una diaria a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. L’importo della diaria è attualmente pari a 3.503,11 euro mensili. 

A tale importo sono applicate ritenute in caso di assenza dai lavori parlamentari. A ciascun deputato, inoltre, è riconosciuto il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato. Tale rimborso ammonta a 3.690 euro mensili ed è corrisposto per metà in via forfetaria e per la restante parte a fronte di specifiche categorie di spese che devono essere attestate con dichiarazione quadrimestrale. E poi ci sono agevolazioni per i trasporti […] e per le bollette telefoniche.

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it giovedì 3 agosto 2023.

Lui, Fassino, continua a insistere: lo stipendio dei parlamentari non è poi così alto […]. E più insiste[…] più i social si scatenano e i meme […] si moltiplicano […]. Uno più esilarante dell’altro. […] come il signore che ha sistemato un affaticato Fassino alla guida del «Quarto Stato» di Pelizza da Volpedo intento a sventolare il «magro» cedolino. Nuovo titolo dell’opera: «Parlamentari di tutto il mondo unitevi». 

[…]  l’hashtag #Fassino è primo su Twitter con 16.700 lanci. In mezzo a questa giungla di commenti un 90 per cento di comicità e un residuo 10 di «incazzatura» scritta proprio così, magari da chi 1000 euro al mese li vede con il binocolo.

A esercitare una mai così facile ironia sul senatore pennarelli illustri come Makkox, Osho e Natangelo. Ma anche i fotomontaggi artigianali come quello di Andrea C. che mostra un emaciato primo piano di Fassino che in un’anonima gelateria di Milano chiede: «In che senso la panna si paga?». 

Fra le immagini più ritwittate […] quella appunto firmata Osho dove c’è Fassino che stringe la mano di un’anziana al mercato che, visibilmente commossa gli dice: «Sor Fassì, nun faccia compimenti, se prenda sti 10 euro». E lui, con un malinconco sorriso: «Nun se preoccupi signò in qualche modo m’arangio».

Estratto dell'articolo Ser. Rif. per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

«È un luogo comune che i deputati godano di stipendi d'oro». Piero Fassino, ex segretario dei Ds e deputato Pd, si alza in piedi, annuncia che voterà contro un ordine del giorno che conferma il taglio dei vitalizi e – senza temere l'impopolarità – sventola la sua ultima busta paga: «Ho qui con me il cedolino di luglio – dice – e fatti i giusti prelievi, l'indennità netta è di 4718 euro al mese». 

Pausa scenica: «Va bene così. È una buona indennità, ma non diciamo che i deputati godono di stipendi d'oro», conclude il parlamentare di lunga data. Colleghi e responsabili della comunicazione Pd si mettono le mani nei capelli davanti a una dichiarazione che nessun eletto avrebbe avuto il coraggio di pronunciare in aula sedici anni dopo la pubblicazione de "La Casta" e dopo due legislature segnate dalla più feroce anti-politica.

[…] la frase del parlamentare, già su un terreno scivoloso, contiene un significativa omissione. Ai 5mila euro netti di indennità, vanno aggiunte diverse voci. Fa il calcolo l'ex deputata M5s Roberta Lombardi: «Aggiungiamoci anche i 3.500 euro di diaria mensile, i 3.700 euro mensili di spese esercizio mandato, i 3. 500 euro trimestrali delle spese accessorie di viaggio, i 1. 200 euro di spese telefoniche forfettarie annue, la dotazione per le spese informatiche di inizio legislatura pari a 5.500 euro». 

L'ex segretario dei Ds non indietreggia di un passo, anzi risponde cifra per cifra: «Ad ogni deputato – scrive qualche ora dopo Fassino – è corrisposto un Fondo per l'attività parlamentare di 3.610 euro che, per quel che mi riguarda, utilizzo interamente per i compensi ai miei due collaboratori parlamentari», specifica.

E poi ancora: «Ogni deputato riceve una diaria mensile di 3.500 euro che, per quel che mi riguarda, devolvo al Pd nazionale e veneto in misura di 2.500 euro per il sostegno alle attività politiche, utilizzando i restanti 1.000 euro a copertura delle spese per l'attività parlamentare». 

[…] 

Nella stessa seduta, mentre viene approvato e pubblicizzato un ordine del giorno per non ripristinare i vitalizi ai deputati che abbiano svolto il mandato prima del 2012, passa più inosservato un altro testo, primo firmatario il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi. La proposta: equiparare e indennità dei deputati (circa 5mila euro) a quelle dei senatori (circa 5300). Insomma, un aumento. 

Alla fine approvato in forma più tenue come un invito al collegio dei questori ad «adottare le dovute modifiche al regolamento e al bilancio della Camera al fine di tendere verso l'equiparazione del trattamento dei deputati e dei loro collaboratori a quello previsto dal Senato». «Tendere», almeno per cominciare.

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

Elly Schlein viene inseguita dal fantasma di Piero Fassino mentre cammina tra gli alberi di Bosco Albergati. I giornalisti che la accompagnano tra gli stand della festa dell'Unità di Castelfranco Emilia, mentre visita le cucine e si fa le foto con i volontari, chiedono alla segretaria del Pd cosa pensi del siparietto andato in scena nell'aula di Montecitorio: l'ex segretario di Ds che sventola il proprio cedolino dell'indennità da parlamentare e dice che il suo stipendio da quasi 5mila euro «non è d'oro». 

[…] però, i giornalisti tornano alla carica con la domanda su Fassino e allora Schlein si apparta al telefono con il suo portavoce, rimasto a Roma. Concordano poche righe per prendere le distanze, recapitate in tempo reale ai cronisti via WhatsApp: «Fassino ha parlato a titolo personale, in dissenso rispetto al voto del Pd. Noi continuiamo a batterci per il salario minimo».

Prima di partire verso Reggio Emilia, per partecipare a Villalunga a un'altra festa dell'Unità, si ferma a mangiare un paio di tigelle al bar della "Combriccola". […]  «Mi sembra evidente che la politica debba riallinearsi ai bisogni dei cittadini – spiega a La Stampa la segretaria – dovremmo discutere subito di salario minimo, non di indennità e vitalizi. Dobbiamo pensare a chi non arriva a fine mese, categoria a cui certo non apparteniamo noi parlamentari». 

[…]

L'imbarazzo al Nazareno è palese, ma si prova a restare concentrati sulla battaglia. Questa mattina Schlein sarà di nuovo in Aula a Montecitorio per intervenire nel dibattito che precederà il rinvio sul salario minimo: «Credo che interverremo tutti, non faremo passare facilmente questa mossa della maggioranza – assicura – un altro schiaffo a chi non ce la fa». […]

Fassino e lo stipendio: «La diaria di 3.500 euro? Va via per il Pd, gli hotel e le trasferte. La politica non è a costo zero». Gabriele Guccione su Il Corriere della Sera giovedì 3 agosto 2023.

Il deputato torinese: «Non ho detto che sia poco, non mi sono lamentato. La democrazia ha un costo, non sopporto l'antipolitica» 

Piero Fassino, 74 anni, deputato del Pd, lei ha sventolato in aula, alla Camera, la sua busta paga: non vorrà mica far intendere che un parlamentare guadagna poco?

«Basta leggere lo stenografico del mio intervento. Non ho detto che sia poco, non mi sono lamentato e ho detto che per me va bene così. Vorrei che però fosse chiaro che l’indennità che percepisce un parlamentare è meno di quello che prende un medio dirigente di azienda. Per non parlare dei magistrati o di altre alte cariche dello Stato».

Di che cifre si tratta?

«L’indennità lorda di 10.435 euro è un conto, ma da quella cifra vengono giustamente detratte l’Irpef, le addizionali regionali e locali e i contributi previdenziali. Il risultato è che l'indennità netta mensile che ogni deputato percepisce è di 4.718 euro».

Molti italiani ci metterebbero la firma…

«È una buona indennità, ma molto lontana dalle cifre astronomiche di cui spesso si parla. Il mio voto è stato un atto contro la demagogia di chi cavalca l’antipolitica per screditare il Parlamento e delegittimare la politica».

Suoi colleghi politici…

«Mi sono astenuto nel voto sul bilancio della Camera dei deputati perché, pur apprezzando il lavoro fatto dai questori, sono stati approvati tre ordini del giorno del Movimento 5 Stelle e di Fratelli d’Italia che contribuiscono a una campagna di delegittimazione del Parlamento».

Dai 5 Stelle forse ce lo si aspetterebbe, ma da FdI…?

«È facile fare demagogia, ma non è mai una buona scelta. Occorre essere seri e intellettualmente onesti e non alimentare campagne populiste. Non sopporto chi pensa che l’antipolitica sia la soluzione, tanto più quando cavalcata da chi, una volta al governo, ha moltiplicato incarichi. Come qualsiasi attività anche il funzionamento delle istituzioni democratiche ha un costo. Affittare un teatro per una manifestazione ha un costo, far stampare dei volantini ha un costo… Non si può pensare che la politica sia una attività a costo zero. Il problema è che sia pagata in modo trasparente e proporzionata alle responsabilità. E mi lasci dire che l’indennità percepita dai sindaci è assolutamente sottodimensionata rispetto alle loro responsabilità».

I parlamentari però non contano soltanto sull’indennità…

«Ad ogni deputato è corrisposto un fondo per l'attività parlamentare di 3.610 euro che, per quel che mi riguarda, è interamente assorbito dai compensi dei miei due collaboratori».

E poi c’è la diaria…

«Sono 3.500 euro al mese».

E lei come li spende?

«Li devolvo al Pd nazionale e veneto nella misura di 2.500 euro. Mi restano 1.000 euro con cui pagare le trasferte, gli abbonamenti ai giornali, le iniziative politiche. Domani sarò nel mio collegio, a Venezia, e non è che l’albergo è gratis…».

Non tutti sono così ligi come lei, molti suoi colleghi non si fanno neanche vedere nei loro collegi…

«Io parlo per me, e posso assicurare che le risorse che ricevo non rappresentano una indebita forma di arricchimento, ma le utilizzo tutte per l’attività politica e parlamentare. E sono in grado di rendicontare ogni spesa».

E chi ne approfitta?

«Ne risponderà lui, singolarmente. E in ogni caso si colpisca chi eventualmente ne approfitta, non chiunque ha responsabilità politiche».

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “la Stampa” venerdì 4 agosto 2023.

Piero Fassino, ex segretario dei Ds, oggi deputato Pd non ritratta. In aula alla Camera, mercoledì, ha sventolato la propria busta paga e sfidato l'impopolarità con la frase: «4718 non è uno stipendio d'oro». In barba alle polemiche (e alla nota con cui la segretaria del Pd Elly Schlein si è dissociata dalle sue parole), l'ex ministro rivendica: «Ho posto temi su cui credo sia utile che tutti riflettano». 

Si è pentito?

«No, ho fatto un discorso di verità, non ho detto nulla di eretico. Ho solo ricordato che l'indennità che percepisce un deputato è di 4.700 euro, e non è di 10mila o 12mila come spesso si favoleggia».

Quindi oggi rifarebbe lo stesso discorso?

«Non sono abituato a recriminazioni. Forse c'è stata in me l'ingenuità di credere che si potesse ragionare di questi temi in modo razionale e pacato e invece, come si è visto, non è possibile». 

Non suona male quell'uscita, mentre il Pd porta avanti la battaglia un salario minimo di 9 euro all'ora?

«Io non ho mica detto che quella indennità debba essere cambiata o aumentata. La ritengo adeguata, non mi sono lamentato. Ho ricordato che quello stipendio ha un valore e non un altro» […]

Ma non ha pensato al danno di immagine per il partito?

«Ma perché dovrebbe essere un danno di immagine dire la verità? Ho spiegato che i parlamentari non percepiscono 10mila euro ma molto di meno». 

Però dire che 4.718 euro non sia uno stipendio d'oro di certo a chi ne prende 1000-1500 può suonare male.

«Ma sono i 10mila euro che vengono definiti "stipendi d'oro"». 

Il M5s la accusa di aver taciuto altri emolumenti.

«Non è vero. Le risorse che la Camera mi eroga sono utilizzate esclusivamente per l'attività politica e parlamentare». 

La segretaria Schlein ha preso le distanze. Vi siete chiariti?

«Non ce n'era bisogno, non ne abbiamo parlato. Io ho detto fin da subito che avrei parlato a titolo personale e non a nome del gruppo».

[…] 

Qualche collega le ha detto che sarebbe stato meglio evitare l'intervento?

«Ho ricevuto anche molti consensi». 

Certo si viene da una stagione segnata dall'antipolitica.

«È ora di dire che l'antipolitica non fa bene al Paese. Abbiamo ridotto il numero dei parlamentari, adottato una legge che non consente ai cittadini di scegliersi i propri rappresentanti, eliminato il finanziamento pubblico ai partiti, tagliato i vitalizi, anche con effetto retroattivo. Tutto questo non ci ha consegnato una politica più forte». 

Perché ha votato anche contro gli ordini del giorno che chiedevano di non ripristinare i vitalizi?

«Mi sembravano ispirati da una logica demagogica. Ed è la ragione per cui sono intervenuto». […]

Altroché 4.718 euro: ecco quanto guadagna veramente un Parlamentare. Salvatore Toscano - L’Indipendente - giovedì 3 agosto 2023.

È diventato virale il video del deputato Piero Fassino (Partito democratico) intento a sventolare a Montecitorio la busta paga di luglio, pari a «10.435 euro lordi e 4.718 euro netti». «Una buona indennità ma sicuramente non uno stipendio d’oro», ha commentato l’ex sindaco di Torino, omettendo però diverse voci che fanno lievitare il trattamento economico netto di un parlamentare a quasi il triplo di quanto dichiarato in Aula. Se all’indennità (l’equivalente dello stipendio per un lavoratore) percepita da un parlamentare si aggiungono infatti la diaria, ovvero il rimborso spese per il soggiorno a Roma, le spese di trasporto e quelle per “l’esercizio del mandato” si arriva per i senatori a un trattamento economico netto di 12.540 euro, circa mille euro in più rispetto ai colleghi deputati, che possono arrivare a guadagnare mensilmente 11.700 euro netti. Il tutto non considerando sconti ed esenzioni che non figurano nei cedolini ma di certo aiutano i parlamentari ad arrivare a fine mese.

Mentre milioni di famiglie si trovano a fare i conti con il caro vita e la perdita del potere d’acquisto, alla Camera si è discusso sugli stipendi dei deputati, con questi ultimi che hanno chiesto un adeguamento salariale rispetto ai colleghi senatori. Istanza formalizzata dall’adozione di un ordine del giorno di Maurizio Lupi (Noi moderati) che impegna l’Ufficio di presidenza a incrementare lo stipendio dei deputati di circa mille euro per allinearlo a quello dei senatori. Così facendo tutti i parlamentari arriveranno a percepire quasi 13 mila euro netti al mese, non considerando sconti, esenzioni e benefici vari che impattano positivamente sulle tasche di deputati e senatori. Come si legge sul sito della Camera, “l’importo netto mensile dell’indennità parlamentare risulta pari a circa 5.000 euro. Per i deputati che svolgono un’altra attività lavorativa, l’importo netto dell’indennità ammonta a circa 4.750 euro”. Cifre pressoché identiche al Senato, dove l’indennità mensile risulta pari ad 5.304 euro (5.122 per coloro che svolgono attività lavorative).

A questa “voce base” va poi aggiunta la diaria. Per il rimborso delle spese di soggiorno a Roma i deputati e i senatori guadagnano mensilmente 3.500 euro netti e non tassati. “Tale somma viene decurtata di 206,58 euro per ogni giorno di assenza del deputato dalle sedute dell’Assemblea in cui si svolgono votazioni con il procedimento elettronico”, tuttavia “se un deputato partecipa ad almeno il 30 per cento delle votazioni previste in un giorno, è considerato presente e quindi non subisce una decurtazione della diaria”, si legge sul sito della Camera. Discorso analogo per gli inquilini di Palazzo Madama. Sia ai deputati sia ai senatori è poi riconosciuto un rimborso spese per l’esercizio del mandato: nel primo caso si tratta di una cifra pari a 3.690 euro mensili, metà dei quali servono a coprire i costi per i collaboratori, le consulenze, la gestione dell’ufficio e il sostegno delle attività politiche. L’altra metà viene invece erogata forfetariamente al deputato, senza dunque vincoli di rendicontazione. Per i senatori il rimborso segue lo stesso principio, con l’unica eccezione rappresentata dalla cifra in ballo: 4.180 euro totali e non 3.690. Considerando indennità, diaria e rimborso spese per l’esercizio del mandato i deputati guadagnano 10.345 euro netti al mese, circa 500 euro in meno rispetto ai senatori.

Non è finita qui: “per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra l’aeroporto di Roma-Fiumicino e Montecitorio è previsto un rimborso spese trimestrale pari a 3.323,70 euro per il deputato che deve percorrere fino a 100 km per raggiungere l’aeroporto più vicino al luogo di residenza e a 3.995,10 euro se la distanza da percorrere è superiore a 100 km”. Si parla dunque di altri 1100-1300 euro netti che entrano mensilmente nelle tasche dei deputati. Per i colleghi senatori, invece, la cifra è fissa ed è pari 1.650 euro. Qui vengono incluse anche le spese telefoniche, una voce che per i deputati si traduce in un rimborso annuale da 1.200 euro. Ciò vuol dire che gli inquilini di Montecitorio possono arrivare a guadagnare mensilmente 11.745 euro netti, mentre i rappresentanti del popolo a Palazzo Madama 12.540 euro. Queste le cifre che compongono il guadagno mensile di un parlamentare, lontane dalla sola indennità sbandierata da Fassino in Aula.

A tutto ciò si aggiungono poi benefici ed esenzioni varie, come le “tessere per la libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima ed aerea per i trasferimenti sul territorio nazionale”. Viaggi che non vengono finanziati dunque con il proprio guadagno mensile ma con ulteriori soldi dei contribuenti. Lo scorso Natale i deputati hanno ricevuto in dono il raddoppio del bonus per comprare tablet, smartphone, schermi a 34 pollici, auricolari e pc, passato da 2.200 euro a 5.500. Adesso hanno chiesto, e ottenuto, un “adeguamento salariale” rispetto ai colleghi senatori. Una richiesta decisamente fuori luogo, considerato l’attuale periodo storico, dove milioni di famiglie hanno visto bruciare i propri risparmi a causa di inflazione, caro vita e aumento del costo del denaro (attraverso i continui rialzi del tasso di interesse da parte della BCE) e ora si trovano a fare i conti con salari erosi dalla perdita di potere d’acquisto. Soltanto a fine luglio, 160 mila famiglie hanno ricevuto tramite SMS la notifica della cessione del reddito di cittadinanza, la cui abolizione è stata fortemente voluta dal governo Meloni per strizzare l’occhio alla classe imprenditoriale elettrice, che ha più volte denunciato di non trovare forza-lavoro a causa del reddito di cittadinanza, non considerando evidentemente le condizioni lavorative offerte, rasentanti spesso lo sfruttamento, soprattutto nel caso degli stagionali.

Considerando lo stipendio dato da indennità, diaria e rimborsi vari, i parlamentari italiani arrivano a percepire il miglior trattamento economico netto in Europa. A dispetto della retorica dei diretti interessati, che evitano di concentrare l’attenzione su rimborsi e benefici,  i guadagni di senatori e deputati li collocano nell’élite italiana dei contribuenti con redditi superiori ai 100 mila euro. Un’élite composta nel 2022 da 576 mila persone, pari all’1,4% dei contribuenti totali. [di Salvatore Toscano]

Il caso. Quanto guadagna un parlamentare tra indennità, diaria e rimborsi: la cifra di Fassino è quasi triplicata. Qual è lo stipendio di un parlamentare ma calcolando tutte le entrate possibili. La vicenda è esplosa dopo che il deputato del Partito Democratico ha mostrato in Aula il suo cedolino. Redazione Web su L'Unità il 3 Agosto 2023

Nei giorni in cui si parla di salario minimo e reddito di cittadinanza, Piero Fassino ha scatenato il putiferio. Il deputato del Partito Democratico, in occasione del voto per il bilancio della Camera, ha mostrato il suo cedolino ed ha affermato: “L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta certamente di una buona indennità, ma non è certamente uno stipendio d’oro. Un luogo comune è che i parlamentari godano di stipendi d’oro, qui ho il cedolino di luglio 2023, è uguale per tutti. Risulta che l’indennità lorda è di 10.435 euro, da cui giustamente vengono defalcati l’Irpef, l’assistenza sanitaria, la previdenza dei deputati che è di 1000 euro, le addizionali regionali e comunali. Fatti questi giusti prelievi, l’indenità netta dei deputati è di 4718 euro al mese. Va bene? Sì. L’unica cosa che chiedo è che quando sento dire che i deputati godono di stipendi doro dico non è vero, perché 4718 euro al mese sono una buona indennità ma non sono uno stipendio d’oro“.

Quanto guadagna un parlamentare

Fassino ha anche votato ‘No’ a un ordine del giorno posto da Fratelli d’Italia per tagliare i vitalizi ai parlamentari. L’esponente Dem ha motivato la sua decisione dichiarando che si è trattata di un’argomentazione demagogica e populista. Ma quanto guadagna un parlamentare? Oltre l’indennità ai parlamentari è riconosciuta una diaria, ovvero un rimborso a loro destinato per vivere a Roma. L’importo è pari a 3.503,11 euro al mese. La diaria è tagliata di 206,58 euro per ogni giorno di assenza del deputato dalle sedute previste in Aula e per le quali si vota con procedimento elettronico. È considerato presente il deputato che partecipa almeno al 30% delle votazioni nell’arco della giornata. È stata disposta una ulteriore decurtazione di 500 euro al mese in base alla percentuale di assenze dalle sedute delle Giunte, delle Commissioni permanenti e speciali, del Comitato per la legislazione, delle Commissioni bicamerali e d’inchiesta, delle delegazioni parlamentari presso le Assemblee internazionali.

Diaria, rimborsi e trasporti

Poi vi è un ulteriore rimborso per le spese legate all’esercizio del mandato. Quest’ultimo ammonta a 3.690 euro mensili. Tale importo è erogato per metà in via forfetaria e per la restante parte rispetto a specifiche spese che devono essere attestate con dichiarazione quadrimestrale. Rientrano nella categoria i costi previsti per collaboratori; consulenze, ricerche; gestione dell’ufficio; utilizzo di reti pubbliche di consultazione di dati; convegni e sostegno delle attività politiche.

Inoltre, ai parlamentari è garantito sul territorio nazionale il trasporto autostradale, ferroviario, marittimo e aereo gratuito. In merito ai trasferimenti per e da l’aeroporto di Fiumicino, c’è un rimborso spese trimestrale in due fasce: di 3.323,70 euro, per il deputato che deve percorrere fino a 100 chilometri per raggiungere l’aeroporto più vicino al luogo di residenza; di 3.995,10 euro se la distanza da percorrere è oltre i 100 chilometri.

Spese telefoniche, assistenza sanitaria e fine mandato

Questo rimborso è stato tagliato ed oggi vale 1.200 euro all’anno, a fronte dei 3.098,74 euro precedenti. In merito alle spese sanitarie, il parlamentare versa ogni mese, in un fondo ad hoc, un importo pari a 526,66 euro. Esiste un altro fondo per il fine mandato. In questo caso il parlamentare versa ogni mese 784,14 euro e a fine mandato riceve un assegno che comprende l’80% di ciò che ha versato negli anni. A questo, è doveroso rendere noti altri due aspetti: che i costi per fare politica sono tanti e che il guadagno lordo medio e annuo degli italiani è pari a .28.781 euro. Redazione Web 3 Agosto 2023

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 26 gennaio 2023.

È il più ricco, anche se lo sarà da adesso un po’ meno con lo stipendio da ministro. E come annunciato dopo le polemiche su possibili conflitti di interesse, ha liquidato la sua influente società di lobby, mantenendo comunque una quota in uno studio commercialista che si occupa di consulenza aziendale. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha consegnato, con qualche ora di ritardo rispetto ad alcuni colleghi, la documentazione sullo stato patrimoniale e sui redditi. E ha subito sorpassato tutti gli altri ministri.

Crosetto con una nota firmata 20 gennaio dichiara di avere partecipazioni in sei società. (...)

Crosetto dichiara di avere ancora una quota del 50 per cento inoltre nella società di consulenza personale, le altre quote sono della moglie Graziana Saponaro e dal figlio Alessandro. Ma dalla banca dati camerali la società risulta in fase di liquidazione dal 7 dicembre: il ministro aveva annunciato la liquidazione di questa srl dopo le polemiche per alcune aziende che avevano chiesto consulenze alla sua società, tra le quali colossi del settore armi.

 Il ministro nella dichiarazione del 2022 su redditi 2021 ha dichiarato 935 mila euro: quasi un milione di euro, di gran lunga la cifra superiore a tutti i colleghi che siedono con lui in Consiglio dei ministri.

Estratto dell’articolo di Claudia Voltattorni per “il Corriere della Sera” il 24 gennaio 2023.

La ministra per le Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati e il ministro della Giustizia Carlo Nordio sono in cima alla lista con rispettivamente 253 mila 385 euro e 232 mila 438 euro. Li seguono il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara con 210 mila 411 euro e il ministro della Cultura ed ex direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano con 204 mila 780 euro. Sono i ministri più «ricchi» del governo Meloni secondo le dichiarazioni dei redditi del 2021 pubblicate sul sito di Palazzo Chigi.

 Non tutti i ministri hanno ancora comunicato i loro dati, ma il Guardasigilli, ex magistrato eletto con Fratelli d’Italia e l’ex presidente del Senato eletta con Forza Italia sono per ora in cima al podio con il reddito imponibile più alto dei loro colleghi. Incluso quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che nel 2021 ha dichiarato redditi per circa 152 mila euro. E, come primo ministro, ha appena fatto sapere ufficialmente che non percepirà alcun compenso avendovi rinunciato in base al divieto di cumulo con l’indennità spettante ai parlamentari. Stessa scelta fatta anche dalla ministra Casellati.

Gli altri membri dell’esecutivo, al momento, hanno redditi tutti al di sotto dei 200 mila euro. […]

 Sono 6, per ora, i ministri che nel 2021 hanno avuto un reddito imponibile sotto i 100 mila euro. Si tratta di Paolo Zangrillo (Funzione Pubblica) con 98 mila 471 euro, Francesco Lollobrigida (Agricoltura) con 99 mila 982 euro, e Luca Ciriani (Rapporti con il Parlamento con 94 mila 540 euro. In coda si trovano il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani (54 mila 434 euro) e il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto che con i suoi 2.089 euro di reddito imponibile risulta il più «povero» dell’esecutivo, ma, viene spiegato, l’ex governatore della Puglia nel 2021 era europarlamentare e a Bruxelles il reddito viene tassato alla fonte.

Ma Fitto è anche appassionato di auto e ha dichiarato di possedere una vecchia Jaguar del 1986. Passione condivisa con il ministro per gli Affari regionali e l’Autonomia Roberto Calderoli che nel suo parco auto può vantare una Spider Nuvolari Cisitalia 202 SMM […], che si aggiunge ad una Fiat 500 del ’63 e ad una Mini del 2009, oltre ad una moto Bmw Hp2 del 2006. […]

Claudio Bozza per corriere.it il 19 gennaio 2023.

 Nel 2021 Matteo Renzi ha guadagnato 2,6 milioni. È questo l’ammontare dell’ultima denuncia dei redditi che tutti i parlamentari, secondo quanto previsto dalla legge, devono depositare presso Camera o Senato. Per l’ex premier, ora leader di Italia viva, è un boom dopo la forte battuta d’arresto causata dal Covid.

Nel corso della pandemia, infatti, l’attività di conferenziere di Renzi era drasticamente rallentata: per quanto riguarda le attività del 2020, il 730 di Renzi ammontava a 488 mila euro (nel 2019 era sopra il milione).

 Ora i viaggi in giro per il mondo, dalle Bahamas agli Emirati arabi passato per le capitali europee, sono ripartiti, assieme agli affari privati del senatore di Firenze.

 Nel 2022, dato ancora non pubblicato perché rientrerà nella prossima denuncia dei redditi, l’ex premier si è dimesso dal board di Delimobil, colosso russo del car sharing, il cui accordo prevedeva un milione di stipendio. Nel giorno dell’invasione dell’Ucraina Renzi si è però dimesso, rinunciando a quasi tutti gli emolumenti ancora non percepiti: 880 mila euro.

Solo nelle ultime settimane (come aveva raccontato il Corriere), il personalissimo tour d’affari dell’ex presidente del Consiglio ha toccato — e non per forza in quest’ordine — Tokyo, Atene, Miami, Riad, le Bahamas, Zurigo, Londra, Bangkok, Cipro. Tre continenti su cinque, con viaggi e fatture che nell’ultimo mese e mezzo hanno fatto decollare il fatturato di Renzi, che tra l’indennità da senatore e la sua attività privata è appunto arrivato a 2,6 milioni annui.

Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.

[…] Il leader dei 5Stelle Giuseppe Conte nel 2021 ha dichiarato 34.095. Un reddito normale: va ricordato che nel 2021 Conte è stato premier per meno di due mesi, e poi l'attività da professore era limitata da una serie di vincoli. Ma tanto la compagna è «ricchissima», tanto per citare l'ex moglie di Conte, e quindi il Grand Hotel di Cortina se lo può permettere: suvvia, grillini e terrapiattisti, fatevi una risata ogni tanto, che noi ce ne facciamo parecchie. L'avvocato ha comunque una Jaguar da 320 cavalli del '96.

Il segretario uscente del Pd, Enrico Letta, nel 2021 ha dichiarato 388.863 euro.

L'aspirante successore, Elly Schlein, da vicepresidente dell'Emilia Romagna ne ha incassati 88mila. L'ex ministro della Salute Roberto Speranza 100.942 e possiede anche cinque fabbricati: due a Potenza (di cui uno al 50%) e tre a Roma.

[…] Nel centrodestra spicca, e non potrebbe essere altrimenti, il milione 588mila dell'ex ministro Giulio Tremonti, esponente di Fratelli d'Italia, che oltre a un Jeep Gran Cherokee e un Land Rover Defender possiede numerosi fabbricati tra Lorenzago di Cadore (Belluno), Pavia e Roma. [...]

Torniamo a sinistra, dove il dem Piero Fassino ex sindaco di Torino ne ha incassati 163.420. Nel Torinese ha due appartamenti, un terreno agricolo e un garage, a Roma un altro appartamento e un casale a Scansano, a Grosseto. Il reddito complessivo della renziana Maria Elena Boschi è di 98.471.

 Uno dei decani della politica italiana, Bruno Tabacci eletto col Pd, ha dichiarato 130.586 euro e ha proprietà tra Roma, Mantova, Milano e Polignano a Mare, in provincia di Bari. La grillina Chiara Appendino, anche lei ex sindaco di Torino, nel 2021 ne ha guadagnati 90.923. […]

Estratto dell'articolo di Antonio Bravetti per “La Stampa” il 18 gennaio 2023.

La più ricca, per ora, è Cristina Rossello, deputata di Forza Italia e avvocata di Silvio Berlusconi nel divorzio da Veronica Lario. Il più povero Aboubakar Soumahoro, l'ex sindacalista dei braccianti al centro delle polemiche per le vicende giudiziarie che riguardano moglie e suocera. Lei dichiara 2 milioni di euro, lui appena 9mila.

 Sono online da ieri le documentazioni patrimoniali dei parlamentari: case, auto, redditi e investimenti.

Un dossier di cifre e curiosità. Come la Jaguar del 1996 di Giuseppe Conte, che dichiara un imponibile di poco meno di 35mila euro.

 Deputati e senatori sono obbligati a rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi entro 90 giorni dall'elezione, ma […] mancano ancora tanti documenti. Compresi quelli di Giorgia Meloni o di due come Silvio Berlusconi e Antonio Angelucci. […]

In attesa di quelle cifre, la più ricca è Rossello, alla seconda legislatura. Avvocata patrimonialista, ha curato la parte economica del divorzio di Berlusconi e Lario. La deputata di Finale Ligure dichiara 1.985.183 euro, con quattro fabbricati di proprietà tra Savona, Finale Ligure, Milano e Bruxelles e 3 in comproprietà a Londra. Siede inoltre nei cda di 6 società, tra cui Monza calcio e Mondadori.

 Dietro di lei Giulio Tremonti: 1,5 milioni di imponibile, accompagnato da 10 proprietà immobiliari e due auto: una Jeep Grand Cherokee e una Land Rover Defender, che denotano un certo amore per i fuori strada. […]

Restando tra i banchi dell'opposizione spicca Enrico Letta: 388mila euro dichiarati nel 2021 per il segretario del Pd.

Ha guadagnato 88mila euro la candidata alla segreteria Elly Schlein. Ancora più a sinistra, il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, dichiara 105mila euro, mentre il leader dei Verdi Angelo Bonelli quasi 79mila, con 135.422 azioni possedute in Tiscali e 14.000 in Inovio.

 Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha un imponibile di 91.773 euro e possiede dieci quote della Cooperativa dei pescatori del Lago di Varese. […]

 Più bassi i redditi di altri due esponenti dell'esecutivo: la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella dichiara 47.690 euro; il titolare della Farnesina Antonio Tajani 54.434, a cui si aggiungono numerosi terreni e fabbricati tra Fiuggi e Ferentino, in provincia di Frosinone.

 Anche il sito del Senato ha iniziato a pubblicare le prime dichiarazioni, meno di trenta per ora. Liliana Segre ha un reddito complessivo di 276.711 euro; Carlo Calenda di 63.990 euro. Il più "povero" è Etelwardo Sigismondi, architetto e senatore abruzzese di Fratelli d'Italia: per lui lo scorso anno 34.815 euro. […]

Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.

Nel 2021 Aboubakar Soumahoro ha guadagnato 9.150 euro. Lo si legge nella dichiarazione dei redditi pubblicata in queste ore sul sito della Camera. […]

 […] Se è vero, e non ne dubitiamo, che il reddito complessivo di Soumahoro è di 9.150 euro, viene da pensare che la compagna, Liliane Murekatate, ne guadagni parecchi di più, ma molti di più, perché- ha detto l'ivoriano e gli crediamo di nuovo - al mutuo da 270mila euro concesso per il villino da quasi mezzo milione a Roma ha contribuito anche la signora, così ha detto Soumahoro la cui compagna e suocera sono indagate per i mancati pagamenti ai dipendenti delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. E in effetti dalla dichiarazione sul sito della Camera risulta che l'abitazione è al 50%: il nome del proprietario dell'altro 50 è annerito, ma insomma, si capisce.

Poco più di 9mila euro in un anno sono 750 euro circa al mese, al di sotto della soglia di povertà, poco più dell'importo medio di un reddito di cittadinanza. Soumahoro ha anche dichiarato 7.291 euro ricevuti da finanziatori in campagna elettorale, quasi come il suo reddito complessivo. [...] 

Vitalizi, armocromista, eleganza: la sinistra fuori dalla realtà. Lorenzo Grossi il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Non solo il caso più recente caso di Piero Fassino, ma sono tanti gli esponenti giallorossi che sono scivolati dialetticamente sul tema degli stipendi e dei costi della politica 

La dichiarazione di Piero Fassino sui "soli" 4mila euro netti abbondanti che ogni parlamentare porta a casa alla fine di ogni mese ha destato particolare scalpore: anche perché quel cedolino mostrato alle telecamere era arrivato in occasione di un suo discorso tenuto alla Camera dei Deputati, in dissenso con il gruppo parlamentare del Partito Democratico, mentre si stava discutendo dello stop ai cosiddetti vitalizi, al quale l'ex segretario dei Ds si era pronunciato in maniera contraria. Tuttavia, il fatto di essersi elevato a portabandiera di questa battaglia - destinata (inevitabilmente) a fare discutere - ha completato una collezione di gaffe generate da esponenti di sinistra che riguardano proprio i tempi personali di bilancio economico: scivoloni dialettici per i quali è stato soprattutto il loro elettorato di riferimento a storcere il naso, frastornato da atteggiamenti pubblici che palesano un movimento politico completamente scollegato dalla realtà.

L'armocromista di sinistra

Il nome di Enrica Chicchio comincia a risuonare in maniera "prepotente" nella seconda metà di aprile di quest'anno: di chi stiamo parlando? La citò esplicitamente AEAlly Schlein in un'intervista rilasciata a Vanity Fair. Chicchio è un'image consultant e personal shopper assunta dalla nuova segretaria del Pd per selezionarle i colori più adatti a essere indossati per creare un outfit "perfetto". Probabilmente per la prima volta della storia della politica emerse la parola "armocromista". Le sue consulenze possono arrivare a costare anche 400 euro l'ora. Un prezzo che non tutti i militanti e simpatizzanti dem possono permettersi, specialmente per un servizio non esattamente di fondamentale necessità.

I due stipendi incompatibili

Appena venne eletto come senatore del Partito Democratico, Andrea Crisanti rivendicò nelle prime settimane da parlamentare il proprio diritto di continuare a percepire, ugualmente, lo stipendio anche da medico nonostante si fosse messo in aspettativa per esercitare il proprio ruolo politico. La vicenda aveva fatto alterare (e non poco) l'Azienda ospedaliera Padova il cui vertice, Giuseppe Dal Ben, aveva giustamente contestato la richiesta del professore: il compenso del microbiologo poteva essere accordato solamente nel caso in cui avesse lavorato nei termini stabiliti dal contratto con l'Università: con un altro lavoro, non poteva pretendere più nulla. Un po' costretto sostanzialmente dalle circostanze, alla fine Crisanti rinunciò allo stipendio da dottore: seppur dopo tanta insistenza altrui.

La casa pagata con le copie di un libro

Lasciando stare per un momento le vicende giudiziarie che stanno riguardando la sua famiglia, l'autodifesa televisiva di Aboubakar Soumahoro fu un disastro dietro l'altro. Il deputato eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra (poi passato al gruppo misto) venne intervistato da Corrado Formigli per Piazzapulita pochi giorni dopo l'esplosione dello scandalo sulle sue cooperative. Due frasi fecero letteralmente il giro dei social. La prima riguardava il fatto che fosse stato grazie ai proventi del sui libro scritto che poté acquistare casa: peccato che fosse complicato riuscire a fornire garanzie alla banca per accedere al credito di 270mila euro esclusivamente con delle copie di un libro che non fu esattamente un best seller. La seconda sottolineò il "diritto all'eleganza" di sua moglie: un "diritto" più che legittimo, se non fosse che lei ostentasse sui social vestiti griffati proprio nel lungo periodi in cui i dipendenti non venivano più pagati.

Gli ex grillini strapagati ma scontenti

Non avevano ancora cominciato a lavorare ufficialmente nei gruppi del Movimento Cinque Stelle in Parlamento, ma già si lamentavano ed erano addirittura pronti a chiedere l'aumento. All'inizio di quest'anno alcuni ex dipendenti dei grillini di Camera e Senato e gli attuali parlamentari manifestarono malumori e denunciarono le presunte pretese dei big pronti a prendere servizio negli staff pentastellati di Montecitorio e Palazzo Madama. Si sottolineavano soprattutto le recriminazioni di Paola Taverna e Vito Crimi, ripescati da Giuseppe Conte a 70mila euro lordi all'anno: circa 3mila euro al mese. Ma si parlò anche di proteste da parte degli altri ex in procinto di rientrare nel Palazzo. Dall'ex ministra Fabiana Dadone all'ex tesoriere del gruppo alla Camera Claudio Cominardi. Insomma: risarciti e già delusi.

Cirinnà tuttofare

"Nei pochi giorni di ferie, cinque per la precisione, sto facendo la lavandaia, l'ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all'altro". A parlare così fu Monica Cirinnà, reduce già dallo stress per i 24mila euro in contanti ritrovati nella cuccia del cane in giardino e di cui nessuno ha mai conosciuto la provenienza. In quello sfogo, raccolto dal Corriere della Sera, c'era tutto: il disprezzo per le mansioni più umili, i capricci di chi non è abituato alla fatica fisica, la spocchia verso i diritti di una lavoratrice, l'indifferenza per la vita interiore dei propri dipendenti, lo snobbismo classista nonché - un elemento che accomuna tutti questi personaggi - la piena incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie parole.

La vita esentasse dei diplomatici italiani. Linda Di Benedetto su Panorama il 18 Aprile 2023

Oltre alla tassazione di fatto zero sullo stipendio vanno aggiunti anche benefici nelle spese quotidiane 

Provate ad immaginare che da domani dalla vostra paga sparissero tutte le trattenute. Come vi sentireste? E adesso provate a pensare che tutti gli acquisti personali e per la casa fossero senza iva o imposte varie, insomma, con uno sconto di almeno il 20%. Ebbene secondo le normative internazionali gli ambasciatori e gli agenti diplomatici hanno diritto a tutto questo perché non sono soggetti ad imposte al di fuori dei confini nazionali in cui svolgono la loro attività. Stipendi che a seconda del ruolo ricoperto arrivano anche a 20mila euro al mese lorde per chi svolge il suo lavoro in Italia ma si trasformano immediatamente in nette negli altri stati in cui si è chiamati a ricoprire il ruolo di ambasciatore. Allo stipendio degli ambasciatori si deve anche aggiungere il diritto di abitazione che prevede alloggi molto lussuosi e le spese di rappresentanza che possono arrivare anche a 20mila euro al mese. Ma non finisci qui, tra le varie agevolazioni a cui è soggetto chi intraprende la carriera diplomatica c’è come abbiamo anticipato anche l’esenzione dell’IVA sugli acquisti istituzionali. Nel dettaglio secondo i dati tabellari del Ministero degli Esteri chi arriva al livello intermedio tra i cinque gradi diplomatici, come ad esempio il consigliere d'ambasciata, può contare su uno stipendio lordo di tredici mensilità di 65.840 euro, che si elevano fino a 133.942 euro all'anno. Mentre per quanto riguarda la base stipendiale per la figura al vertice della carriera diplomatica, come l'ambasciatore di grado o il segretario generale di rappresentanza diplomatica, si parla di 240.000 euro lordi l'anno. Retribuzioni decisamente superiori ai colleghi europei come nel caso dell’ambasciatore tedesco a Roma che percepisce uno stipendio di circa 124mila euro lordi mensili più un bonus assegnato in base alla zona in cui si viene chiamato a ricoprire l’incarico, in questo caso l’Italia (area "Zonenstufe 1", ossia a basso rischio), di 2.183,56 euro. «I membri delle rappresentanze diplomatiche estere e delle organizzazioni internazionali godono di benefici fiscali previsti sia dalle norme internazionali che dalla normativa italiana»- commenta l’avvocato Giuseppe Mongiello, dottore commercialista studio Tonucci & partners esperto in diritto tributario Qual è la norma nello specifico? «Con riferimento ai redditi percepiti dai dipendenti di ambasciate e consolati italiani all’estero (compresi ambasciatori e consoli) l’art. 49 della Convenzione di Vienna prevede la completa esenzione fiscale dei redditi dei membri delle Ambasciate e dei Consolati, a prescindere dalla nazionalità e dal Paese di residenza.La disciplina internazionale si pone in parziale contrasto con la normativa domestica secondo la quale l’esenzione dall’IRPEF vale solo per i redditi degli ambasciatori, dei diplomatici e degli impiegati (questi ultimi sono a condizione di reciprocità) degli Stati esteri accreditati in Italia che non siano cittadini italiani, né italiani non appartenenti alla Repubblica.In forza di ciò l’Agenzia delle Entrate ha avviato numerose attività di accertamento sui redditi percepiti dai dipendenti delle ambasciate e consolati italiani all’estero, poggiando la ripresa a tassazione sul principio generale sancito dagli artt. 2 e 3 del successivo D.P.R. n. 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), secondo cui sono sottoposti a tassazione in Italia i redditi di tutte le persone fisiche residenti o domiciliate nel nostro paese (principio della Word Wide Taxation).Tuttavia, La Costituzione italiana, agli articoli 10 e 11, stabilisce la supremazia delle norme internazionali sulle disposizioni nazionali con esse contrastanti e la conseguente inapplicabilità di queste ultime.Ne deriva che il contrasto tra le due discipline dovrà essere risolto in senso favorevole alla disciplina internazionale, la quale prevede la completa esenzione fiscale». Quali sono le categorie interessate?

«Tra le categorie di lavoratori interessati dalla disciplina di esenzione vi rientrano ambasciatori, consoli e, più in generale, tutti gli agenti diplomatici.Per quanto riguarda invece il personale non diplomatico impiegato nelle ambasciate e nei consolati (dall’impiegato all’archivista, dall’interprete all’addetto delle pulizie), l’esenzione è ammessa solo a condizioni di reciprocità. Infatti, ai sensi dell’art. 4, co. 2 del DPR n. 601/73 l’esenzione è riconosciuta al personale delle rappresentanze diplomatiche estere in Italia solo ove la medesima esenzione sia riconosciuta anche nell’altro Stato estero ai dipendenti delle rappresentanze diplomatiche italiane» Secondo lei perché è stata applicata questo tipo di esenzione? «La ratio della norma è quella di garantire l'effettiva realizzazione degli scopi delle missioni diplomatiche e delle organizzazioni internazionali, favorendo la libertà di espressione e la cooperazione internazionale.L'esenzione fiscale rappresenta un incentivo per i soggetti in questione a svolgere il proprio lavoro nel migliore dei modi, senza condizionamenti esterni ed in totale terzietà e imparzialità». Ci sono sono state delle polemiche su questo? «L'equità della disciplina è oggetto da tempo di ampio di dibattito addirittura sfociata in una interrogazione parlamentare (n 05-01715 del 2019).Alcuni ritengono che i membri delle rappresentanze diplomatiche estere e delle organizzazioni internazionali godano di privilegi rispetto ai cittadini comuni.Tuttavia, è importante considerare che l'esenzione fiscale sui redditi percepiti rappresenta uno strumento utile per garantire l'efficace svolgimento delle attività diplomatiche e internazionali».

Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 19 febbraio 2023.

«Questa è la nostra vittoria». Così l'allora capo politico del M5s Luigi Di Maio, a ottobre 2019, al flash mob davanti alla Camera dopo l'approvazione in Parlamento del taglio di deputati e senatori. […] Dopo quasi quattro anni, quella in corso è la prima legislatura con le Aule assottigliate. I deputati sono passati da 630 a 400, i senatori sono 115 in meno, da 315 a 200. Ma, mentre è diminuito il numero dei parlamentari, gli stipendi d'oro dei dipendenti di Montecitorio sono rimasti gli stessi di prima. È l'altra casta. Intoccabile, impermeabile anche al furore populista degli ultimi anni.

 Assistenti parlamentari, segretari parlamentari, documentaristi tecnici ragionieri, consiglieri parlamentari. Ma anche operatori e collaboratori tecnici. Sono i dipendenti di Montecitorio, tutti con retribuzioni fuori mercato rispetto a ciò che avviene nelle aziende private e nella grande maggioranza degli enti pubblici.

Gli esempi più lampanti di questo squilibrio con il mondo fuori dai Palazzi sono rappresentati dalle ultime due categorie: collaboratori e operatori tecnici. Chi sono? Si tratta di figure professionali come centralinisti, elettricisti, falegnami, idraulici, autisti e dei famigerati quattro barbieri della barberia di Montecitorio.

 Operatori e collaboratori tecnici dopo dieci anni di servizio possono arrivare a guadagnare, rispettivamente, 52mila e 62mila e 900 euro lordi all'anno. A venti anni dall'assunzione elettricisti, autisti e barbieri sono già sui 100mila euro (92mila euro e 104mila euro), ovvero circa 7mila e 8mila euro al mese. Altri dieci anni e si arriva a 125mila e 140mila euro, al trentacinquesimo anno sono 131mila euro e 150mila euro.

Fino ad arrivare alla cifra astronomica di 140mila e 157mila euro dopo quarant'anni di servizio. Il tutto è consultabile sulla tabella dei compensi dei dipendenti scaricabile dal sito della Camera, aggiornata al 1 febbraio 2023. […] Segretari, documentaristi e consiglieri parlamentari dopo vent'anni si ritrovano rispettivamente 108mila, 158mila e 235mila euro all'anno. A quarant'anni di servizio la progressione giunge a 160mila euro per i segretari, 245mila per i documentaristi tecnici ragionieri, 369mila per i consiglieri parlamentari. […]

Un Paese sotto scorta. Linda Di Benedetto su Panorama il 21 Febbraio 2023.

Non è passata inosservata la presenza di Roberto Fico allo spettacolo di Beppe Grillo della scorsa settimana. L’ex presidente della Camera si è presentato scrive “Il Foglio” con scorta al seguito. Ma Fico non è l’unico ex politico a muoversi in giro per il Paese accompagnato dagli agenti di scorta. Infatti tutti presidenti del Consiglio, della Camera, del Senato e della Repubblica come prevede la norma sulla tutela, hanno diritto di mantenere la scorta a vita e il numero degli agenti da impiegare non viene deciso dall’interessato ma dal Ministero dell’Interno in base alle informazioni raccolte dall’Ucis (Ufficio centrale interforze per la sicurezza).

Una scorta a cui soprattutto gli ex politici che non sono stati raggiunti da minacce ma ne hanno comunque diritto potrebbero rinunciare come nel caso di Fico che ci ha risposto che lui non la vuole ma è la Prefettura a dargliela. Anche perché come è stato evidenziato più volte ci sono persone realmente a rischio che e per cui non ci sono dispositivi di protezione sufficienti per la loro tutela. Scorte in Italia, i numeri Secondo gli ultimi dati resi noti dal Viminale che risalgono al luglio 2019 in totale le persone che vivono sotto scorta in Italia sono 569. Numeri che hanno subito un aumento durante la pandemia a causa delle minacce ricevute dai virologi da parte dei no vax. Per assicurare questo servizio il Ministero dell’Interno, oltre a fornire 404 vetture blindate e 234 vetture non specializzate, a giugno 2019 impiegava in totale 2.015 agenti formati per il servizio di protezione. A vivere sotto scorta oltre i politici sono soprattutto magistrati, imprenditori, diplomatici, giornalisti, alti dirigenti dello Stato pentiti di mafia ma anche sindacalisti della Cgil, Uil e Cisl. I politici sotto scorta sono circa 90 tra questi compare il nome di Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano, Giuseppe Conte, Roberto Fico, la senatrice Lilliana Segre, Giuliano Amato e molti altri. Nel dettaglio per loro ci sono quattro livelli di scorta.

Primo livello: 2 o 3 auto blindate con 3 agenti ciascuna

Secondo livello: 2 auto blindate con 3 agenti ciascuna. Terzo livello: 1 auto blindata con 2 agenti. Quarto livello: 1 auto non blindata con 1-2 agenti I giornalisti sotto scorta Una categoria molto minacciata è quella dei giornalisti. Massimo Giletti è sotto scorta dal giugno del 2020, dopo aver ricevuto minacce da parte della mafia. Sigfrido Ranucci è invece protetto dall'agosto del 2021, a causa di alcune inchieste di “Report” sul narcotraffico. Lo scorso ottobre Roberto Saviano è arrivato a 15 anni di vita sotto tutela, dopo le minacce ricevute per il libro “Gomorra”. Accanto a questi nomi celebri, ci sono anche tanti giornalisti meno famosi, ma che con analogo coraggio combattono battaglie pericolose. Ad esempio Marilena Natale che lo scorso novembre è stata aggredita verbalmente da un pregiudicato che le detto, tra l'altro, “ti faccio vedere io”. Proprio la presenza della scorta ha consentito di gestire l'episodio senza gravi conseguenze. L’assegnazione delle scorte La gestione delle informazioni per l’assegnazione delle scorte è in carico all'UCIS (Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale), ente fondato nel 2002 dal Governo Berlusconi dopo l'omicidio del giuslavorista Marco Biagi. Secondo i suoi ultimi dati ufficiali i suoi interventi con le scorte vengono decisi per queste motivazioni: 58% per un possibile attacco da parte della criminalità organizzata, 38% per rischio attentato terroristico e il 4% per altri tipi di minaccia. Cosa fa l’Ucis? «L’Ucis è stato ridotto ad un mero raccoglitore di informazioni che vengono fornite alla commissione centrale speciale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione di cui è a capo il sottosegretario Nicola Molteni. La scorta a vita spetta a tutti i presidenti di Camera, Senato, del Consiglio e della Repubblica. Ad esempio Massimo D’Alema ha un dispositivo di scorta che prevede 2 agenti, Roberto Fico ne ha 4, mentre Silvio Berlusconi ha 6 agenti di scorta più altri che paga da solo. Mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha 10 agenti di scorta ed il magistrato Nicola Gratteri scortato dai NOCS, ha 8 agenti e tre macchine blindate per muoversi. Anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha la sua scorta nonostante non esca a causa delle sue gravi condizioni di salute. Tenga presente che tra Roma, Milano e Palermo sono 600 gli agenti di polizia impiegati per le scorte che vengono tolti ovviamente dal servizio ordinario e diventano operativi solo dopo un periodo di formazione speciale. In più a questi numeri vanno aggiunti tutti i dispositivi di protezione previsti per i pentiti ed i giornalisti» ci racconta un poliziotto Di che cifre parliamo per il solo impiego degli agenti di scorta? «Facendo una stima, basti pensare che ogni agente perlomeno di polizia ha uno stipendio base di circa 3mila euro. Se lei considera solo i 600 agenti di polizia per le città di Roma, Milano e Palermo parliamo di oltre 21 milioni di euro l’anno. Ovviamente a questi andrebbe sommato il costo delle altre forze dell’ordine impiegate per la protezione». Come mai l’Italia detiene il record assoluto in Europa per le scorte? «Perché Italia c’è una mafia molto radicata, per questo abbiamo numeri da record anzi molto spesso mancano anche le auto per le scorte e le assicuro che è un problema. Inoltre nessuno degli ex politici ha mai rinunciato alle scorte anche quelli che non ne avrebbero più bisogno ma è comunque prevista dalla norma. Comunque i dispositivi di tutela e scorta sono sottoposti a revisione periodica per valutare l’attualità della minaccia».

Si aggiungono alle dimissioni di Pelosi e Celotto. La fuga dei portavoce dal governo Meloni: liti, accuse e ‘ragioni personali’, Valditara e Sangiuliano senza comunicatori. Redazione su Il Riformista l’1 Marzo 2023

Pochi giorni fa è stata la volta dei portavoce di Adolfo Urso, Gerardo Pelosi, e il capo di gabinetto della ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati, Alfonso Celotto. Entrambi per “motivi personali”. Ieri sono arrivate le dimissioni di Giovanni Sallusti, il portavoce del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, insieme a quelle di Marina Nalesso, la portavoce del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

Per tutti le motivazioni sono sempre le stesse: motivi personali e familiari, questa la versione ufficiale. I portavoce del governo Meloni sono in fuga, e se prima poteva essere solo un caso, adesso la tendenza è confermata, con le dimissioni, in un solo giorno, di ben due responsabili della comunicazione.

L’attuale direttore dell’Agi potrebbe invece arrivare a fare il portavoce del governo Meloni. Mario Sechi è stato visto entrare ieri a palazzo Chigi. Il suo ruolo però probabilmente non sarà proprio di addetto stampa, quanto più di consigliori.

Meloni vuole così rafforzare la sua comunicazione dopo aver portato a palazzo Chigi come consigliere la sua storica portavoce, Giovanna Ianniello. Sechi, in ogni caso, se riuscirà a diventare portavoce, lo farà dopo aver vinto diverse resistenze interne a Fratelli d’Italia e alla Lega, e nel mondo dell’informazione di centrodestra.

Ma ci sono stati altri esempi tra gli uomini e le donne di questo esecutivo. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso non si è solo separato dal portavoce, Gerardo Pelosi, già firma economica del Sole 24 ore, ma anche dalla responsabile della sua segreteria, Valentina Colucci, che in passato aveva collaborato con i ministri Vittorio Colao e Federico D’Incà.

Il retroscena vedrebbe un furibondo litigio scoppiato a fine gennaio dopo il frettoloso annuncio sull’accordo raggiunto con i benzinai. Invece Giovanni Sallusti, 40 anni, ha lasciato ieri, dopo che Valditara è finito sotto accusa per l’annunciata punizione della preside fiorentina, che aveva scritto una lettera in cui denunciava il pestaggio squadrista.

La Bestia e i suoi fratelli: chi sono i comunicatori che sussurrano al potere. Dagli “istituzionali” Ansuini e Rubei agli spin doctor di partito. Ecco le donne e gli uomini che governano le strategie decisive per il successo o la sconfitta dei leader politici. di Giorgio Chigi su L’Espresso l’1 febbraio 2023.

La comunicazione è sempre più lo strumento determinante per indirizzare successi o débâcle di un governo, di un partito o più in generale di un brand aziendale, soprattutto nell’epoca in cui ogni elemento, anche della vita privata, diventa preda dei social e di pubblici influenti.

In questa cornice, sono diversi i nuovi comunicatori che negli anni si sono distinti per aver inciso positivamente sull’immagine dei propri leader.

Estratto dell’articolo di Giorgio Chigi per “l’Espresso”

[…] Sono diversi i nuovi comunicatori che negli anni si sono distinti per aver inciso positivamente sull'immagine dei propri leader.

 Talvolta, instaurando un network di contatti imponente dal punto di vista strategico e relazionale. Tra questi ci sono indubbiamente Augusto Rubei e Paola Ansuini.

 Il primo, classe 85 e già portavoce del ministero della Difesa e del ministero degli Affari Esteri, è forse l'unico under 40 in Italia ad aver saputo coniugare una profonda esperienza ai più alti livelli dello Stato, del giornalismo, della comunicazione politica/istituzionale e del management.

Considerato un giornalista autonomo e indipendente, è salito alle cronache per aver ricostruito da zero l'immagine internazionale di Luigi Di Maio alla Farnesina dopo i disastri dei suoi predecessori, oggi è in forza alle relazioni internazionali di Leonardo Spa. 

La seconda, […] cresciuta […] in Banca d'Italia […], viene chiamata nel 2021 da Mario Draghi ai vertici dell'ufficio stampa di Palazzo Chigi. Soprannominata, con ironia, la "portasilenzio" per i suoi modi sobri e cauti di gestire l'esposizione mediatica dell'ex premier […].  Restando tra le file governative, oggi spiccano l'attuale e storica portavoce della premier Giorgia Meloni, Giovanna lanniello e il suo braccio destro Tommaso Longobardi […]. La lanniello […], […] donna di partito, da sempre legata al centrodestra, iniziò la sua collaborazione con Giorgia ai tempi di Azione giovani. Dal 2008 al 2013 è stata impegnata nella giunta di Gianni Alemanno quando questi ha ricoperto il ruolo di sindaco di Roma.

Luca Morisi e Matteo Pandini per la Lega incarnano invece il momento forse di maggior successo della Lega. Non a caso il primo Governo gialloverde fu pesantemente condizionato dalla strategia aggressiva di Matteo Salvini […]. Il vero direttore d'orchestra fu proprio Morisi, che […] con La Bestia […] contribuì a costruire il successo delle Europee del 2019. Non è forse un caso che l'erosione dei voti del Carroccio abbia coinciso con la scelta obbligata […] di defilarsi. Pandini del canto suo continua a ricoprire il ruolo di portavoce del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Già a capo della comunicazione di Salvini quando sedeva al Viminale, ha un trascorso storico nel Carroccio.

Per il M5S sarebbe impossibile non considerare il social media manager di Giuseppe Conte, Dario Adamo, vero artefice del successo del nuovo capo politico grillino insieme a Rocco Casalino, che alle ultime elezioni ha saputo dimostrare ancora un'ottima visione strategica per il successo del nuovo Movimento. Infine il Partito Democratico, con Monica Nardi e Laura Cremolini. […]

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 25 febbraio 2023.

[…] Giorgia Meloni si accorge di avere un problema con la sua comunicazione. Decide di offrire il ruolo di capo ufficio stampa e portavoce a Mario Sechi, ex direttore del Tempo, oggi direttore di Agi. La notizia viene data domenica 19 febbraio dal Giornale a firma di Adalberto Signore, presidente dell’Associazione stampa parlamentare. La sua storia professionale e il suo ruolo sono garanzia e verifica della notizia.

 Sechi oltre alla sua attività da giornalista si è candidato con Scelta Civica di Mario Monti risultando non eletto. E’ una delle ragioni per cui non è amato da FdI. Alla Camera i parlamentari oggi dicono: “Non è uno di noi, è un ambizioso. Non vuole fare la sua ombra ma farle ombra”. Per ratificare la nomina serve un dpcm. E’ molto probabile che arrivi. E’ tuttavia vero che, mentre scriviamo, non è arrivato.

A Palazzo Chigi, appresa la novità, chi lavora vicino a Meloni, ha dichiarato: “Non sapevamo nulla”. Meloni ha una portavoce storica che si chiama Giovanna Ianniello a cui non sarebbe stato proposto un nuovo incarico. Si parla di una partecipata di stato, c’è chi dice un ruolo in Rai, chi in regione Lazio (voci non confermate).

 Potrebbe restare e lavorare insieme a Sechi ma è difficile che Sechi, un direttore, accetti di fare il semplice capo ufficio stampa.

[…] Le chiacchiere dunque. La prima è che anche il ministro Francesco Lollobrigida, persona di misura, abbia espresso perplessità. Questa potrebbe essere una falsa chiacchiera. La seconda, ed è più di una chiacchiera, è che i direttori dei giornali di destra abbiano avuto dei confronti telefonici con la premier ed esternato il loro disappunto per la nomina.

 La terza chiacchiera è che Salvini sia rimasto poco convinto da questa decisione. A pochi chilometri da Chigi, un altro ministro, Adolfo Urso, continua a cercare il suo portavoce e promette “un rafforzamento muscolare” della sua comunicazione.

Ci siamo dimenticati di ricordare che Meloni ha già un vice capo ufficio stampa. E’ Fabrizio Alfano, ex capo del politico di Agi, agenzia dove direttore è ancora Sechi. E’ così che la nomina di uno nuovo comunicatore rischia di essere un altro eccezionale pasticcio comunicativo.

Chi è Mario Sechi, il nuovo portavoce della premier Giorgia Meloni. di Redazione Openonline l’1 marzo 2023

Il giornalista guiderà la comunicazione di Palazzo Chigi a partire dal 6 marzo. Ecco il suo profilo

Ora è ufficiale. La premier Giorgia Meloni avrà un portavoce istituzionale dall’inizio della prossima settimana: sarà il giornalista Mario Sechi, attuale direttore dell’agenzia di stampa Agi. Lo ha comunicato oggi ufficialmente Palazzo Chigi, confermando una voce circolata con insistenza crescente negli ultimi giorni. Sechi assumerà l’incarico il prossimo 6 marzo. 55 anni, originario di Cabras in Sardegna, Sechi ha lavorato e diretto molti giornali e riviste italiane, ed è noto anche al pubblico televisivo per le sue numerose apparizioni in programmi di approfondimento e talk show.

La carriera del nuovo portavoce

Dopo aver studiato giornalismo alla Luiss di Roma, Sechi ha intrapreso la carriera giornalistica nel 1992 all’Indipendente. Ha lavorato poi per molti anni al Giornale, diventandone in breve caporedattore e poi, dal 2001, vicedirettore. Nel mezzo, la sua prima direzione nella “sua” Sardegna, all’Unione Sarda. Dal 2007 al 2009 è stato vicedirettore di Panorama, quindi di Libero. Nel 2010 ha assunto quindi la direzione del quotidiano romano Il Tempo. Dal 2013 al 2017 ha scritto per Il Foglio e per Prima Comunicazione, prima di dedicarsi alla fondazione del progetto editoriale List. Dal 2017 ha assunto la direzione di WE – World Energy, trimestrale del gruppo Eni dedicato alla geopolitica dell’energia. Il 1° luglio 2019 era iniziata infine la sua ultima avventura professionale prima della chiamata al fianco di Giorgia Meloni, con la direzione dell’Agi. Sechi ha all’attivo anche una breve (tentata) parentesi politica: nel 2013 si candidò infatti al Senato nella lista del movimento politico lanciato allora dal premier uscente Mario Monti: ma il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento in Sardegna da parte della lista ne pregiudicò l’approdo in Parlamento.

Salvini non voleva Sechi come capo ufficio stampa di Meloni. La nomina divide la maggioranza. Emanuele Lauria su La Repubblica il 2 marzo 2023

La nomina, avversata da Salvini, annunciata mentre la premier è in partenza per l’India

Il balletto è finito: l’ombra di Sechi, a Palazzo Chigi, diventa Sechi medesimo. E sarebbe riduttivo definire solo capo ufficio stampa il giornalista scelto da Giorgia Meloni per guidare lo staff della comunicazione. L’ormai ex direttore dell’agenzia Agi è destinato a diventare consigliere privilegiato della presidente. Stratega, spin doctor. Insomma un ruolo che ha anche un contenuto politico.

Mario Sechi capo ufficio stampa di Palazzo Chigi. Redazione Politica su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023

Da giornalista ha lavorato a il Tempo, il Giornale, Panorama e Libero. Ultima direzione assunta prima della nomina governativa, quella dell’Agi

Mario Sechi, 55 anni, giornalista, come nelle previsioni è diventato capo ufficio stampa e relazioni con media di Palazzo Chigi. La presidenza del Consiglio dei ministri ha comunicato che l’incarico sarà operativo a partire dal prossimo 6 marzo. Sechi, che lascia la direzione dell’Agi, ha lavorato tra l’altro all’Indipendente, l’Unione Sarda, Panorama, il Tempo, il Giornale, Libero.

Esperto di politica internazionale ed economia, direttore di più testate, Sechi nel 2013 si è candidato alle Politiche con Scelta civica di Mario Monti. Non riuscirà a farsi eleggere, anche perché nella sua Sardegna non scatta il seggio al contenitore montiano e per un periodo rimane fuori dal giro dei grandi giornali. Dopo qualche mese Giovanni Minoli lo coinvolge in un programma di Radio24, Mix24, assieme a Pietrangelo Buttafuoco e lui decide di impegnarsi in una newsletter a pagamento, List , nel 2017. Nello stesso periodo entra a far parte del comitato scientifico di Oil , il magazine di Eni. È il trampolino per arrivare al vertice dell’agenzia giornalistica Agi, controllata proprio dall’Ente. Ha rapporti con il mondo dei conservatori americani e forse anche questo lo ha avvicinato a Meloni. La sua ambizione, dicono gli amici, è «trasformarsi in una sorta di consigliere diplomatico, conoscitore di ogni protocollo come della esatta miscela dei drink».

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” giovedì 10 agosto 2023.

Le ha fomentate, accolte e gridato in loro difesa in campagna elettorale. E adesso a loro in fondo dà conto. Nei primi mesi di governo con atti concreti, o con slogan, ha continuato in questa strategia con un unico obiettivo: il consenso di alcune corporazioni che da anni bloccano qualsiasi modernizzazione del Paese e vivono di privilegi e rendite. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni che lancia in resta va contro le banche, su altri settori dell’economia è più che cauta. 

[…] Sui taxi, blocco sul quale da sempre qualsiasi governo va a sbattere, l’ultimo Consiglio dei ministri ha partorito una norma “topolino”: il tutto di fronte alle storie e alle immagini delle file chilometriche all’uscita di stazioni e aeroporti per i taxi introvabili. […]

Il Cdm si è limitato a prevedere la possibilità nei Comuni di nuove licenze, ma solo per chi ne ha già una e che potrà utilizzare quella aggiuntiva come vuole, noleggiandola anche a terzi. Nei Comuni capoluogo e sede di aeroporti si potranno mettere a gara nuove licenze fino a un massimo del 20% in più: ma chi parteciperà al bando dovrà avere auto elettriche e di ultima generazione. 

Norme che non scalfiscono un blocco che detta legge ed è difeso da Fratelli d’Italia in tutti i territori […] Ma almeno in questo caso nessun ministro ha interessi diretti nel settore.

[…] Come invece accade per la lobby dei balneari, autorevolmente rappresentata dalla responsabile del Turismo ed “ex” socia dello stabilimento Twiga Daniela Santanchè: “ex” perché ha ceduto le quote al compagno Dimitri Kunz e all’amico di sempre Flavio Briatore. 

Chi sta seguendo il dossier sulle concessioni balneari che per una direttiva europea devono essere messa a gara? Ma il ministero del Turismo, chiaramente. La strategia del governo è quella di prendere tempo, con l’ennesima mappatura dello stato dall’arte. E poi provare a bandire una gara, dando però tanto vantaggio a chi ha già le concessioni da rendere impossibile che “terzi” possano entrare in questo business redditizio, a fronte di canoni irrisori. A proposito: il Twiga paga allo Stato circa 23 mila euro all’anno, a fronte di un fatturato di 8 milioni. Si parla al governo almeno di un possibile aumento dei canoni? No.

[…] Altra lobby che conta e che ha una forte influenza sul governo della destra è quella delle associazioni di categoria degli agricoltori: a partire dalla più potente, Coldiretti. Il ministro e cognato d’Italia Francesco Lollobrigida ha imposto lo stop alla ricerca sulla carne in laboratorio. Chi chiedeva questa norma? Coldiretti, naturalmente. Poi il governo ha detto no al salario minimo, ha tolto il Reddito di cittadinanza a una fascia ampia di disoccupati e aumentato il decreto flussi per lavoro stagionale. Chi invocava insieme queste tre norme? Le associazioni di categoria dei padroncini dei campi.

[…] Poi ci sono le lobby che il governo accarezza con messaggi più che confortanti: a partire da quella dei commercianti legati soprattutto al mondo di Confcommercio. Appena insediatosi il governo Meloni aveva annunciato lo stop al tetto del contante, poi rimasto a 5 mila euro ma che secondo le indicazioni del governo Draghi doveva essere ridotto a mille euro. Poi la presidente Meloni una sera da Catania ha aggiunto: «La lotta all’evasione si fa alle grandi compagnie, non ai piccoli commercianti a quali chiedi il pizzo di Stato». Giù applausi. […]

Italia, Europa e Usa si mettono in fila alla corte del denaro saudita. Il regno di Mbs e l’Occidente sono quasi amici fra armi, aziende, calcio e petrodollari. Grazie a lobbisti e politici embedded. Ma gli sforzi del paese del Golfo nel campo dei diritti umani rimangono in larga parte solo propaganda. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 3 Luglio 2023

Sono con noi e un po’ contro di noi, riformisti nelle intenzioni ma stretti alla leva formidabile del petrodollaro. Soprattutto sono sempre più vicini. I principi e i finanzieri dell’oligarchia saudita guidata dal reggente Mohammed bin Salman, in breve Mbs, hanno scatenato un’offensiva economica, diplomatica, di immagine che ha l’Italia fra i suoi tasselli principali. Da giugno il governo di Giorgia Meloni ha rimosso i limiti alle armi tricolori vendute alla dinastia al Saud che rivaleggia con l’Italia nella corsa all’Expo del 2030. Il duello fra Roma e Riad per l’esposizione universale, che si concluderà con il verdetto previsto alla fine di novembre, non invertirà una tendenza alla collaborazione segnata da un interscambio 2022 a quota 11,5 miliardi di euro (+41 per cento rispetto al 2021).

Al tavolo delle trattative commerciali si è seduto, in maggio, il ministro del made in Italy Adolfo Urso, noto per i suoi rapporti con il nemico numero uno di Riad, l’Iran. Urso ha coinvolto il Saudi italian business council e Invimit, la sgr pubblica guidata da Giovanna Della Posta.

Frequenta da tempo la monarchia araba Luigi Di Maio che un anno fa da ministro degli esteri dichiarò: «L’Italia è pronta a sostenere le significative riforme sociali del regno». Di Maio è dal primo giugno rappresentante dell’Ue nei paesi del Golfo arabico su designazione congiunta di Mario Draghi, Josep Borrell e, più sotterraneamente, del potentissimo Claudio Descalzi, numero uno riconfermato dell’Eni, che con l’Arabia saudita è in affari da oltre sessant’anni. 

L’ex premier Matteo Renzi è da considerarsi ormai embedded. Il senatore di Italia viva è l’unico europeo fra gli otto fiduciari del think tank saudita Fii institute guidato da Yasir al Rumayyan, braccio destro di Mbs nel business. Al Rumayyan presiede il colosso petrolifero Saudi Aramco, quotato a dicembre del 2019 per quasi 30 miliardi di dollari, e il fondo sovrano Pif che in Italia ha appena investito 419 milioni di euro nei cantieri nautici Azimut-Benetti, dopo avere comprato due anni fa una quota delle auto di lusso della modenese Pagani. È praticamente chiusa la trattativa per il 49 per cento del gruppo Forte hotels, valutato 1,3 miliardi di euro.

Al Rumayyan, che attraverso Pif gestisce beni per 650 miliardi di dollari comprese quote in Blackrock, Microsoft, Accor, Huber, Jp Morgan e Softbank, è anche alla guida del golf mondiale e del Newcastle united, club calcistico di Premier league che ha acquistato dal Milan il centrocampista Sandro Tonali per 80 milioni di euro.

Non poteva mancare il football nell’operazione simpatia, o antipatia, secondo i punti di vista del tifoso. Le magnifiche quattro del pallone saudita (al Ittihad e al Ahli di Gedda, al Hilal e al Nasr di Riad) hanno rastrellato campioni non necessariamente a fine carriera come Karim Benzéma, Kalidou Koulibaly, N’Golo Kanté. Il frontman è il portoghese Cristiano Ronaldo, attirato da un contratto senza senso: 190 milioni di dollari annui fino al 2025, più un secondo quinquennio come ambasciatore della candidatura saudita ai mondiali di calcio del 2030. Per lui si parla di oltre 1 miliardo in totale, altro che Russell Crowe ingaggiato dal Campidoglio per sostenere la candidatura di Roma all’Expo.

Non sono mancati i paragoni con altre fughe in avanti del calcio a fini di propaganda. Il numero uno dell’Uefa Aleksander Ceferin ha fatto riferimento alla Cina, che è uno dei nuovi alleati di Mbs da quando ha sostenuto la travagliata ipo di Saudi Aramco acquistando il 5 per cento delle azioni collocate. Dopo l’ingaggio dell’ex centravanti azzurro Graziano Pellè per 15 milioni nel 2016, la Repubblica popolare ha chiuso i rubinetti. Nel 2021 ha fatto clamore la liquidazione del Suning Jiangsu della famiglia Zhang, tuttora proprietaria dell’Inter.

Mentre si dedica alla diplomazia diffusa del calcio, il Regno continua a fare leva sulle fonti energetiche, che hanno trascinato il piccolo potere locale dei Saud sul proscenio del G20 in tempi storici relativamente brevi. L’associazione dei produttori petroliferi Opec, costituita a Bagdad il 14 settembre 1960 e tradizionalmente dominata da Riad, si è trasformata in Opec+ alla fine del 2016 con l’ingresso di altre dieci nazioni guidate dalla Russia.

Lo scorso aprile, su pressione congiunta del ministro saudita dell’energia Abdulaziz bin Salman, fratellastro di Mbs maggiore di 25 anni, e del vicepremier russo Aleksander Novak, l’associazione ha votato un taglio a sorpresa della produzione. Il greggio, risalito fino a circa 90 dollari, e una nuova riduzione dal prossimo luglio da 10 a 9 milioni barili al giorno hanno scontentato l’alleato Usa. Il presidente Joe Biden da tempo mal sopporta il multipolarismo di Mbs, ribattezzato “the new Nasser” in memoria del leader egiziano che abbatté la monarchia e nazionalizzò il canale di Suez.

Eppure Mbs, figlio di re Salman bin Abdulaziz, 87 anni, rimane un tassello chiave per la stabilità dell’area. Solo l’anno scorso il Pif ha dotato di 24 miliardi di dollari sei veicoli di investimento destinati a Egitto, Oman, Giordania, Iraq, Bahrein e al Sudan sconvolto dalla guerra civile, mentre pare destinato a crescere il ruolo del Regno nella Parliamentary assembly of Mediterranean, l’organizzazione internazionale con sede a Napoli.

Superata la stagnazione economica, l’Arabia è tornata a spendere alla grande, confortata da un pil 2022 in crescita dell’8,7 per cento. Nessuno fra i paesi del G20 ha fatto meglio. Sul fronte interno c’è il rilancio del turismo e il progetto della megalopoli Neom, in costruzione per 500 miliardi di dollari nella provincia settentrionale di Tabuk, affacciata sul Mar Rosso.

Sul fronte esterno, dopo il superamento della crisi 2017-2021 con i vicini del Golfo, il Regno sta tentando la strada di uno storico accordo di normalizzazione con Israele, già firmato dagli Emirati e dal Bahrein tre anni fa.

Nell’area mediorientale rimane vicina al potere saudita la Giordania governata dagli hashemiti, un’antica famiglia di mercanti con origine e interessi economici nelle città sacre all’Islam di Mecca e Medina. Il primo giugno 2023 si è celebrato il matrimonio del principe della corona giordana, Hussein bin Abdallah, con Rajwa al Saif, figlia di un imprenditore edile saudita e di una cugina di re Salman.

Insieme ai reali e al jet set internazionale, al matrimonio di Amman hanno partecipato la signora Agnese Landini e il suo consorte. Il senatore Renzi difficilmente mancherà alla settima edizione del Fii, intitolata The new compass (la nuova bussola), che si terrà a Riad dal 24 al 26 ottobre.

Il programma di Fii7 esprime forte preoccupazione per il potere del popolo «che è in declino da 96 democrazie elettorali nel 2016 a 90 nel 2022 con metà dei governi democratici in ritirata». Che cosa si intenda per ritirata (in retreat, nel testo inglese dalle colorature renziane) è difficile dire. Ma la predica non arriva precisamente dal pulpito più qualificato.

Al netto della pretesa irrealistica che i paesi dell’ex terzo mondo realizzino in pochi anni i progressi fatti dall’Europa nel corso dei secoli, ci sono aree del Rinascimento saudita dove i passi avanti appaiono solo negli annunci.

Nelle classifiche delle ong internazionali su diritti umani e libertà di stampa il Regno non abbandona gli ultimi posti. Il World press freedom index 2023 di Réporters sans frontières ha retrocesso il paese di Mbs dal 166° al 170° posto. Solo altre dieci nazioni fanno peggio. Il Report 2023 di Human rights watch (Hrw) sintetizza: «Le autorità hanno arrestato pacifici dissidenti, intellettuali e attivisti dei diritti umani e hanno emesso condanne decennali per post sui social. Rimangono pervasivi gli abusi in carcere, compresi maltrattamenti e torture, detenzioni arbitrarie e confische di beni senza procedimenti legali chiari. Le riforme annunciate sono minate severamente dalla diffusa repressione».

Amnesty international ha puntato l’indice sulla ripresa delle esecuzioni capitali da 65 nel 2021 a 196 nel 2022. Il 2023 è già segnato da due casi terrificanti. In un solo giorno, il 12 marzo, sono stati messi a morte 81 detenuti. La metà veniva dalla minoranza sciita, bersagliata dalle accuse di terrorismo e dai presunti legami di fede con l’arcinemico iraniano. Il 16 giugno Amnesty ha lanciato l’allarme sulla condanna alla decapitazione di sette cittadini. Al tempo dei fatti erano tutti minorenni. Uno di loro aveva dodici anni. Nel gruppo c’è un solo omicida mentre gli altri hanno partecipato a forme di protesta. Intanto proseguono i sit-in davanti all’ambasciata del Regno a Istanbul, dove nell’ottobre 2018 è stato assassinato il giornalista saudita di origine turca Jamal Khashoggi, critico con il regime. Per la Cia il mandante è Mbs.

Nel campo dei diritti civili, il principe ereditario ha dichiarato benvenuti i turisti Lgbtq+. I locali rischiano carcere e frustate. In quanto alle donne, la fine della segregazione di genere e il permesso di guidare non bastano a intaccare il maschilismo della tradizione beduina. Di aperture democratiche neanche a parlarne.

Mbs ha mostrato il pugno di ferro fin dalla sua nomina a erede al trono, il 21 giugno 2017, al posto del successore designato in precedenza, Mohammed bin Nayef, sopravvissuto a quattro tentativi di omicidio. Nella visione del principe la corte reale, con le sue centinaia di nobili, fratellastri e cugini, è un covo di serpenti e di corrotti nullafacenti. Così, dopo essere stato il primo monarca saudita in carica a visitare la Russia nell’ottobre 2017, Mbs si è allineato alle best practices di governo di Vladimir Putin. Il 4 novembre del 2017 l’hotel Ritz-Carlton di Riad è diventato una prigione per decine di oligarchi. Il lusso alberghiero ha fatto da sfondo a brutalità e torture. Il più noto dei fermati, il principe Al Walid bin Talal bin Abdulaziz, parente di Mbs, ha accettato come tutti gli altri il patto leonino e ha ceduto allo Stato parte delle ricchezze accumulate nel suo gruppo Kingdom holding.

Dopo avere superato il trauma, ed essere sceso dal numero 7 al 117 nella classifica mondiale dei miliardari, al Walid ha accettato di collaborare con l’onnipotente procugino. Fra i suoi ultimi investimenti, oltre a 1,9 miliardi piazzati su Twitter dopo l’acquisizione di Elon Musk, grande amico di Mbs, Kingdom holding ha impegnato 500 milioni di dollari nei tre giganti russi dell’energia Gazprom, Rosneft e Lukoil, alla viglia dell’invasione dell’Ucraina.

Intanto i repulisti sono andati avanti almeno fino al marzo 2020, quando un fratellastro di re Salman, il principe Ahmed, è stato arrestato con l’accusa di tramare il rovesciamento del nipote. Ahmed era sfuggito alla retata del 2017 perché si trovava a Londra. Ma il destino di complottisti e dissidenti nel regno di Mbs è comunque segnato.

Non solo Matteo Renzi: chi sono e che fanno gli amici dell’Arabia Saudita nel Parlamento italiano. L’ex premier si muove da sé ma non è l’unico: ecco i politici che guardano con attenzione al regime saudita (e meno ai diritti civili). In questa legislatura all’Intergruppo – presieduto da Marco Osnato di Fdi e in passato da Elena Murelli della Lega – fin qui hanno aderito 19 eletti. Carlo Tecce su L'Espresso il 3 Luglio 2023

Qui si esegue un esperimento ardito. Scrivere di Arabia Saudita e non scrivere di Matteo Renzi. Per il riguardo che si deve a un rapporto bilaterale così proficuo e assai remunerato, una citazione in breve del senatore fiorentino Matteo Renzi è inevitabile. Il Matteo Renzi amico del principe ereditario Mohammed bin Salman, il Matteo Renzi conferenziere affascinato dal «rinascimento» saudita, il Matteo Renzi coinvolto nel rilancio a tratti onirico della città di Alula. Attorno a Matteo Renzi, un Matteo Ricci fermatosi a Riad, cresce spontanea una comunità ben variegata di parlamentari appassionati di Arabia Saudita. In quest’epoca di patriottismo&sovranità, è chiaro che la passione dei parlamentari appassionati di Arabia Saudita è rivolta al bene nostro, di madre Italia, al vendere e fatturare per le imprese nazionali, al «fare sistema» qualsiasi cosa voglia dire. Perciò non c’è molto spazio né molto tempo per quelli con il ditino alzato al calduccio di casa, peggio se borghesi, che stanno lì a denunciare che la monarchia saudita calpesta i diritti civili, sociali, umani, discrimina le donne, ignora la democrazia, effettua quasi duecento condanne a morte in un anno, tortura, sevizia e ammazza i giornalisti dissidenti.

E con cruda sincerità lo ammette, la senatrice leghista Elena Murelli, che il tema dei diritti civili è abbastanza intangibile: «Noi ci basiamo principalmente sulle attività relative agli scambi commerciali tra i due Paesi. Quando sono arrivata a Riad, tre anni fa, erano state inflitte trenta pene di morte in un giorno. Con l’ambasciatore di allora, Luca Ferrari, abbiamo affrontato l’argomento in un colloquio della visita, e basta. Lo sanno anche loro. Qualche piccolo passo si sta facendo. L’apertura mentale verso l’Occidente è importante». Murelli è un perfetto Virgilio per inoltrarsi nelle relazioni fra i politici italiani e i regnanti sauditi. La scorsa legislatura ha presieduto l’intergruppo parlamentare per l’Arabia Saudita, adesso ha ceduto la guida al collega deputato Marco Osnato che presiede la commissione Finanze, figura di rango di Fratelli d’Italia, in particolare in Lombardia, genero di Romano La Russa, dunque nipote acquisito di Ignazio. Fdi ha scalzato gli alleati leghisti perché l’Arabia Saudita è ormai un interlocutore stabile, caduta la ritrosia etica. 

Al momento diciannove parlamentari hanno aderito all’intergruppo. La maggioranza è saldamente di centrodestra con le presenze solitarie di Nicola Carè, che proviene da Italia Viva e oggi rappresenta il Partito Democratico, e di Giorgio Lovecchio per i 5S. La renziana Iv schiera Mauro Del Barba. Oltre al capo Osnato, Fratelli d’Italia partecipa con Salvatore Caiata, Giangiacomo Calovini, Grazia Di Maggio, Fausto Orsomarso, Cinzia Pellegrino, Fabio Rampelli, Sandro Sisler. A far compagnia a Murelli, invece, per la Lega c’è Stefania Pucciarelli. Forza Italia ne ha tre, Roberto Pella, Catia Polidori e Francesco Rubano.

La tratta Riad-Roma con frequenti tappe a Milano è spesso battuta. Ogni due o tre settimane c’è un evento che poi è occasione per aggiornarsi/informarsi. Cos’è che chiedono i sauditi? «Vogliono che le aziende italiane investano nel loro Paese. Loro sono interessati - dice Murelli - a tutte le collaborazioni in tutti i settori, in particolare meccanica, meccatronica, arte, tessile, moda, arredamento, cultura, alberghi, tutto per attuare il programma “visione 2030”. Per esempio, per le infrastrutture, creano le strade o i porti. Ci sono già le nostre Webuild e Fincantieri, però hanno bisogno di produrre e ci chiedono conoscenze e occupazione. Il turismo va sviluppato. Hanno una città stupenda che si chiama Hegra, è la gemella di Petra, ma non è famosa. Adesso una compagnia da crociera italiana ha aggiunto l’Arabia fra le sue destinazioni. Non è sufficiente perché i sauditi sono carenti con i servizi».

La bilancia commerciale pende sempre verso i sauditi perché sono ricchi di petrolio e carbone, comunque gli affari aumentano in ingresso e in uscita. Nel ’22 Riad ha esportato in Italia merce per un valore di 7,4 miliardi di euro di cui circa 6,6 riferiti a materiale per l’energia. Nel medesimo periodo, l’Italia ha mandato 1,2 miliardi di euro in apparecchiature e macchinari, 373 milioni in cibo e vino, 234 milioni in mezzi di trasporto per un totale di 4 miliardi. Il divario è tanto. L’appetito anche. Murelli racconta i fondamentali appuntamenti che si sono tenuti a maggio con la trasferta italiana del Business Council, il corrispettivo di Confindustria. I sauditi hanno incontrato imprenditori, istituzioni, il ministro Adolfo Urso, diversi sottosegretari e l’intergruppo parlamentare. «Desiderano che le nostre aziende siano presenti in Arabia Saudita. (stabili, non per appalti. A oggi sono una cinquantina, ndr). Quando sono andata a Riad - spiega Murelli - mi hanno domandato quanti imprenditori avrei poi portato. Io gli ho risposto che devono migliorare la comunicazione perché qui in Italia non si conosce il cambiamento che state facendo, il desiderio di avvicinarvi all’Occidente, tutti pensano che siate integralisti, invece la realtà è diversa. Le aziende italiane non sanno dell’evoluzione saudita. E in secondo luogo, dobbiamo cambiare le procedure, la burocrazia: semplificare. La nostra ambasciata è operativa. In passato il capitale di un’azienda doveva essere totalmente controllato dai sauditi, adesso i requisiti sono diversi. Lo stesso succede con la tassazione, la doppia tassazione, e su questo punto in Parlamento stiamo lavorando e ne abbiamo discusso col viceministro degli Esteri».

La senatrice leghista menziona il viaggio in Italia di Saud Al Sati che si è svolto anche in forma privata, a porte chiuse, nel centro di Roma: «Un momento di confronto e di dialogo, in un’ottica di rafforzamento», si legge nell’invito riservato ai parlamentari. Una settimana dopo il ministro Gennaro Sangiuliano (Cultura) ha firmato un protocollo d’intesa con l’omologo saudita Bader bin Abdullah bin Farhan Al Saud: «Pronti a sviluppare una collaborazione nell’ambito museale, archeologico e musicale». Ancora un’altra settimana, e il calendario testimonia la marcatura stretta dei sauditi agli italiani, il gruppo che negozia la pace nello Yemen, capeggiato da Mohammed bin Saeed al Jaber, ha illustrato ai parlamentari italiani le buone intenzioni per ottenere una vera pace dopo il cessate il fuoco. Fu l’utilizzo saudita nello Yemen di bombe tedesche fabbricate in Sardegna a spingere l’esecutivo giallorosso di Giuseppe Conte a limitare le forniture di armi. Il vincolo è stato definitamente rimosso dal governo di Giorgia Meloni come era accaduto già per gli Emirati Arabi Uniti. Il ministro Antonio Tajani (Esteri) ha difeso la scelta alle Camere: «I miei colleghi del G7 hanno salutato con favore questa nostra decisione». Riad è un presidio di pace. Il suo ruolo nel mondo è condiviso. Lo attesta anche la missione in Arabia Saudita, la prima, di Luigi Di Maio in qualità di inviato europeo per il Golfo Persico. 

A L’Espresso risulta che i sauditi stiano per entrare, dopo una breve esperienza da uditore, come membro permanente nell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo (Pam): «Io ho portato l’argomento Pam sul tavolo saudita e il ministro degli Esteri mi ha ringraziato», rivendica Murelli. Le distanze si accorciano. Il ballottaggio Roma-Riad per l’Expo 2030 dividerà fino a novembre (e magari qualche italiano tifa per i sauditi). La diplomazia è spumeggiante. «L’intergruppo parlamentare ha ricevuto l’invito dal nostro ambasciatore per la Festa della Repubblica a Riad. Non è stato possibile organizzare. Ci andremo in autunno». Osnato e Murelli vorrebbero aggregarsi alla delegazione di Confindustria che sarà a Riad a settembre. Male che vada si rinvia per ottobre. Tanto ormai in Arabia Saudita splende sempre il sole. E che bel sole.

I Servizi.

Spioni.

Il Caso Cappato.

Russiagate.

Il Battello affondato.

I Fallimenti.

Il Caso dei fratelli Occhionero.

Il Caso Artem Uss.

Nel Myanmar.

Il caso CGIL.

Il Caso Biot.

Il Caso Renzi.

Il Caso Mattei.

Il caso PCI.

Il Caso dell’atomica.

La Guerra Fredda.

Scandalo Qatar.

I Servizi.

Estratto dell’articolo di Irene Famà per lastampa.it venerdì 8 dicembre 2023.

Un consulente informatico della procura. Due ex carabinieri dei Ros che, con il capitano Ultimo, parteciparono alla cattura di Totò Riina. Ex poliziotti e ancora altri ex carabinieri. Tutti insieme a gestire in modo illegale servizi di security (la vigilanza a strutture pubbliche e concerti e altro tipo di eventi) e a portare avanti indagini private non autorizzate. 

Con metodi spavaldi e decisamente al di là della legge. Il pubblico ministero Gianfranco Colace ha chiuso l’indagine monstre su questo sistema di gestione della sicurezza privata. E ha individuato ventotto persone indagate, a vario titolo, per corruzione e associazione a delinquere finalizzata ad accessi abusivi, email false, esercizio abusivo della professione di investigatore.

Tre, almeno, i personaggi di spicco di questa vicenda. Il primo è Riccardo Ravera, nome in codice «Arciere», ex maresciallo dei Ros, faceva parte della squadra del capitano Ultimo e poi finito in varie inchieste giudiziarie. Amministratore di fatto delle società Crew Service e Crew Investigazioni. 

Con lui anche Pinuccio Calvi, nome in codice «Vichingo», l’uomo che, secondo la leggenda, materialmente strinse le manette ai polsi del boss mafioso e da qualche anno ritirato a vita privata ad occuparsi di vino. Il terzo nome di rilievo è quello di Giuseppe Dezzani, pinerolese, consulente per i servizi informatici della procura di Torino. E ancora. Davide Barbato, ex addetto al servizio scorte della Questura. E Maurizio Emilio Trentadue, ex comandante del Nil dei carabinieri di Torino.

[...] Con 30mila o 40mila euro si potevano trovare professioniste «capaci di creare situazioni imbarazzanti per i soggetti da monitorare, così da procurarsi indebitamente notizie o immagini della vita privata». Tra gli elementi più clamorosi di quest’inchiesta ci sarebbero gli accessi abusivi a sistemi informatici utilizzati da esponenti delle forze dell’ordine. [...] 

Gli episodi contestati raccontano una battaglia senza scrupoli per ottenere il monopolio della security a Torino e non solo. E per limitare a zero i problemi. Ravera, secondo gli inquirenti, avrebbe chiesto ai “suoi fidati” di attivarsi per ottenere informazioni su l’assetto del servizio di sicurezza del Lingotto. Per fare un esempio. Carpire informazioni, dunque. E ottenere denaro e biglietti per svariati eventi.

Trentadue, invece, avrebbe agito «contro i suoi doveri d’ufficio» per promuovere «gli interessi di Ravera». Ad esempio «attivandosi per ottenere l’annullamento di una sanzione amministrativa» nei confronti dell’amministratore delegato della Crew Service in occasione di un controllo del personale «impiegato al concerto di Tiziano Ferro», il 21 giugno 2017 allo stadio Olimpico. Oppure «disponendo d’iniziativa un controllo» nei confronti di un’altra società di investigazioni. In cambio? Ravera sfodera tutte le sue conoscenze e lo accompagna da un generale in servizio alla Presidenza del Consiglio per farlo entrare nei servizi segreti.

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per il “Fatto quotidiano” il 22 ottobre 2023

Il sottosegretario Alfredo Mantovano parla poco e ieri, nella sede dei Servizi che Giorgia Meloni gli ha affidato, ha parlato di “volumi che contengono un bel po’ di trash” e soprattutto di “deontologia” e “riservatezza” nel mondo dell’intelligence, sottolineando che sono necessarie anche in caso di “possibili delusioni di aspettative”.

Interveniva nell’aula magna del quartier generale del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che coordina Aisi (ex Sisde) e Aise (ex Sismi), in occasione della consegna dei premi ai giovani autori delle 10 migliori tesi di laurea sui temi dell’intelligence (152 i partecipanti, in crescita): lavori interessanti dalle “infiltrazioni” cinesi alla guerra cyber, dalla difesa nell’Europa post-Brexit al ruolo dell’Ue nel Sahel dove si incrociano le rotte dei migranti, i gruppi jihadisti e le reti criminali.

Mantovano […] Benché non l’abbia nominato, era difficile non cogliere il riferimento a Marco Mancini, l’ex capo del controspionaggio del Sismi coinvolto ma sempre assolto nei casi Telecom e Abu Omar, che di recente ha pubblicato un libro molto discusso, Le regole del gioco (Rizzoli), in cui se la prende con i vertici del settore. Come si ricorderà, Mancini aveva grandi aspirazioni ma è stato convinto ad andare in pensione nel 2021 dopo che Report ha reso noto il suo incontro con Matteo Renzi all’autogrill di Fiano Romano, avvenuto nei giorni della crisi del governo Conte 2.

Il libro e le sue ultime uscite televisive hanno irritato Palazzo Chigi e il Dis, oggi come allora guidato da Elisabetta Belloni che ieri era accanto a Mantovano con Giovanni Caravelli (Aise) e Mario Parente (Aisi). Anche perché nessuno del Dis, né dei vecchi colleghi, può rispondergli nel merito senza violare segreti. Si pensa ora a un possibile intervento legislativo per rafforzare la tutela della riservatezza a cui sono tenuti gli appartenenti ai Servizi, anche al di là del segreto di Stato.

L’idea, tutta da verificare, è quella di introdurre sanzioni pecuniarie o rafforzare gli accordi di riservatezza con penali in denaro. Le novità potrebbero arrivare con la riforma annunciata tempo fa da Mantovano che vorrebbe un’unica agenzia operativa. Una riorganizzazione assai complessa.

Dagonews lunedì 23 ottobre 2023.

Ospite di “L’aria che tira”, condotta da David Parenzo, l’ex 007 Marco Mancini risponde al sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, che aveva puntato il dito contro “volumi che contengono un bel po’ di trash” (un riferimento, neanche troppo velato, al libro scritto da Mancini, "Le regole del gioco”): “Forse non ha letto il libro, ma magari glielo invio”. 

E quando Parenzo lo stuzzica ricordando che Mantovano ha ipotizzato nuove regole di riservatezza per gli ex agenti segreti, Mancini ribatte: “Eh lo auspico così non vengo identificato all'autogrill, con un ex agente segreto che mi identifica essendo io un agente operativo” (il riferimento è all’incontro all’Autogrill di Fiano romano con Matteo Renzi il 23 dicembre 2020 filmato da una professoressa, come ampiamente verificato e accertato dalla magistratura).

Parenzo: “Il Sottosegretario che ha la delega ai servizi segreti, Alfredo Mantovano, l'altro giorno ha detto, questo è un libro pieno non di bugie ma di cose…” 

Mancini: “Forse non ha letto il libro, ma magari glielo invio” 

Parenzo: “In più ha detto che anche gli ex agenti segreti, non dovrebbero fare libri. Prossimamente vorrebbero fare una norma”: 

Mancini :”Prossimamente. Eh lo auspico così non vengo identificato all'autogrill, con un ex agente segreto che mi identifica essendo io un agente operativo. Mi hanno minacciato di uccidermi, sono sotto scorta e vengo identificato da un ex agente. Giusta questa norma”.

Parenzo: “Beh, lei però in questo modo ci scompiglia tutto. Lei dice ben venga questa norma perché io sono stato identificato da un altro agente segreto”. 

Mancini: “Sono stato identificato io da un agente segreto”.

(askanews il 3 settembre 2023) - Il tema della riforma dei servizi segreti "non interessa il Governo ma la nazione, non intendiamo fare questa riforma senza coinvolgere tutte le forze politiche presenti in Parlamento". Lo ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, intervistato a Bisceglie nel corso di Digithon 2023. 

"L'ultima legge è del 2007 - ha riconosciuto Mantovano – non sarebbe tanto lontana in realtà, ma in 16 anni è cambiato il mondo più volte. Cito due espressioni di questo cambiamento: uno è il fronte cyber e l'altro è l'incremento notevole del lavoro dell'intelligence sugli interessi economico-finanziari del Paese, un lavoro che ha assunto una estensione che 16 anni fa non era neanche in nuce".

"Ora - ha proseguito il sottosegretario - l'esigenza principale è quella della specializzazione e dell'efficienza. Andiamo alla sostanza: l'equazione che leggo su certi giornali particolarmente 'amici' del Governo... è che essendoci un governo di destra unificherà tutto in un solo servizio per rafforzare il suo autoritarismo. Ma l'unificazione della guida politica risale ad anni fa, è una delle più importanti novità della riforma del 2007: la guida politica non è più di Interno e Difesa ma direttamente del presidente del Consiglio o dell'autorità delegata. Il Dis è un dipartimento e gli sono sottoposte le due agenzie. Questo - ha spiegato ancora Mantovano - è un sistema che va migliorato: le due agenzie hanno un'autonomia fondata su una ripartizione che forse andava bene per il Regno di Sardegna. Se degli hacker che stanno a San Pietroburgo attaccano la Asl di Bari, cos'è, interno, esterno, chi si muove?" 

"C'è un problema strutturale, ci sono troppe sovrapposizioni, le sovrapposizioni generano dispersione e le energie vanno rese più efficaci possibile. Non parliamo - ha sottolineato in conclusione - di corpi di polizia da centomila l'uno ma di un comparto che nel suo complesso a non più di 4500 unità fra le due agenzie e il dipartimento".

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” martedì 17 ottobre 2023.

«Questo non è un libro di riflessioni, ma di fatti, cose, azioni, intrighi vecchi e ancora in corso». Marco Mancini, lo 007 (oggi in pensione) più famoso d’Italia, l’uomo finito due volte in carcere e poi assolto per fatti ancora oscuri, perché coperti dal segreto di Stato, la spia che custodisce alcuni dei segreti più importanti del nostro Paese, ha scritto un libro che comincia così: si chiama “Le regole del gioco”, pubblicato da Rizzoli, e sarà in libreria nelle prossime ore.

Mancini […] racconta un pezzo di storia del nostro Paese, dalla lotta al terrorismo interno italiano, alla stagione di Al Qaeda (con la scabrosa vicenda del rapimento di Abu Omar su cui però l’ex spia resta afona) arrivando fino a oggi, con il lavoro del controspionaggio che Mancini dirigeva nei confronti per esempio della Russia, prima dell’invasione dell’Ucraina, in un racconto che sembra il canovaccio di una serie americana. 

Ma “Le regole del gioco” è un libro, com’era in realtà anche facile attendersi, pieno di messaggi: all’attuale governo, a cui Mancini concede anche un’apertura, usando parole al miele sia per Giorgia Meloni («solo a lei potrei riferire segreti di Stato») sia per l’Autorità delegata, Alfredo Mantovano, ai quali però lancia una specie di ultimatum, in una lettera aperta alla premier: lancia l’allarme sull’attuale situazione del controspionaggio e chiede di usarla come “arma” per gestire i flussi migratori, sostenendo per esempio che la strage di Cutro poteva essere evitata.

Mancini lancia messaggi al vice premier Matteo Salvini, di cui ricorda un’inedita visita in carcere (come quella dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si scopre ora grande amico di Mancini), quando appunto il nostro 007 era stato arrestato e Salvini era soltanto un consigliere regionale. 

E si toglie diversi sassolini con l’ex premier Giuseppe Conte, di cui racconta inediti e inusuali incontri a Palazzo Chigi, con discussioni di promozioni a numero 2 dell’Aise, il nostro servizio Esterno (promesse condivise anche con l’allora ministro degli Esteri, Luigi di Maio) prima di un’improvvisa frenata. Dettata, fa intendere, dalla famosa storia dell’autogrill di Matteo Renzi.

Lo 007 in pensione insiste con la storia — sulla quale onestamente non possono che restare dei dubbi — di un appuntamento, nel mezzo della crisi che stava portando alla caduta del governo Conte proprio per mano di Renzi, con l’ex premier per uno scambio di doni natalizi: i “babbi”, speciali wafer romagnoli, che distribuiva ad amici e conoscenti. 

Ma esprime tutte le sue perplessità sulla circostanza che vuole un’ignara professoressa, fortunata testimone oculare dell’incontro «durato soltanto 13 minuti» scrive, e autrice degli scatti che poi grazie alla trasmissione Report diventeranno mesi dopo pubblici. La magistratura ha accertato che le cose sono andate così ma Mancini si chiede se i vertici dei Servizi avessero verificato se qualche agente «avesse avuto contatti, anche occasionali, con l’insegnante o il suo compagno».

La vicenda dell’autogrill, per come è raccontata nel libro, è oggettivamente molto interessante, non fosse altro perché è quella che mette fine alla sua carriera. «L’11 maggio del 2020 — scrive — il direttore del Dis, Gennaro Vecchione, mi chiese con urgenza il curriculum. 

In quel periodo il presidente Conte mi intrattenne quattro volte a Palazzo Chigi, lusingandomi con prospettive di carriera. Anche Luigi di Maio, in quel momento ministro degli Esteri, mi convocò due volte alla Farnesina per riferirmi esplicitamente il suo sostegno (…) Il 22 gennaio del 2021 il presidente Conte fece le sue nomine. E io contro ogni anticipazione ero stato escluso: che è accaduto?». Mancini lascia intendere che qualcuno potesse aver avvisato Conte dell’incontro, “innocente”, con Renzi all’autogrill. Che insomma quella era stata una trappola. Fatale.

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” martedì 17 ottobre 2023. 

La memorialistica degli ex 007 è genere assai esplorato nei Paesi di lingua anglosassone. […] Non fosse altro perché chi ha ricoperto incarichi apicali nella sicurezza nazionale può contribuire, a distanza di tempo, a restituire lacerti di verità lì dove la verità è, per definizione, dissimulata, manipolata, trasfigurata, in nome della ragione di Stato. 

Non ce ne voglia, dunque, l’ex agente segreto Marco Mancini, in quiescenza dall’estate del 2021, al secolo “tortellino” (nome di battaglia guadagnato negli anni ’80 come carabiniere della sezione speciale anticrimine di Milano) e quindi “doppio Mike” (come in gergo sarebbe stato apostrofato da capo divisione del Sismi e quindi da dirigente del Dis) se, richiuso il suo ponderoso “Le regole del gioco”, ci si scopra delusi per l’occasione mancata da queste 339 pagine.

Al netto di una ciclopica considerazione di se stesso e del risentimento per non aver ottenuto dallo Stato ciò che riteneva di meritare (la a lungo inseguita nomina alla vicedirezione dell’Aise, la nostra agenzia di spionaggio all’estero), la ricca […] aneddotica — declinata […] con tono da […] “sburòn” (in Romagna) — delle sue memorie brilla soprattutto per ciò che non vi si trova. Ci saremmo aspettati, per dire, una digressione sulle attività del Sismi di Nicolò Pollari in Calabria.

O qualche interessante delucidazione sulle attività di “controspionaggio offensivo” condotte dallo stesso Pollari, Mancini, Pio Pompa dall’appartamento “coperto” di via Nazionale, a Roma. E non su agenti di un’Intelligence estera o su pericolosi jihadisti, ma sul lavoro condotto su questo giornale da Giuseppe D’Avanzo e dal sottoscritto, o sulle indagini condotte dal procuratore di Milano Armando Spataro nella ricerca delle responsabilità per il sequestro di Abu Omar.

Eravamo certi di trovare finalmente una spiegazione della “regola del gioco” in base alla quale il celebrato Sismi di Pollari e Mancini, in violazione della legge istitutiva dei Servizi, avesse imbarcato come informatori giornalisti professionisti (possibile non meritasse neanche una nota a piè di pagina almeno il noto giornalista dal nome in codice “Betulla”?). O sulle ragioni che a un certo punto indussero Nicola Calipari (direttore della divisione ricerca del Sismi e medaglia d’oro al valore, ucciso a Baghdad durante l’operazione di recupero della giornalista del “Manifesto” Giuliana Sgrena) a non fidarsi proprio di lui, Marco Mancini. E invece, niente.

Ci siamo dovuti accontentare di leggere i dettagli dell’amicizia speciale di Mancini con Francesco Cossiga. Della riconoscenza verso Matteo Salvini per una visita in carcere durante la detenzione per il sequestro di Abu Omar. Del sincero disprezzo per Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Gennaro Vecchione per una vicedirezione di Aise promessa e poi goffamente rimangiata.

E dell’altrettanto sincera ammirazione per la premier Giorgia Meloni e il sottosegretario Alfredo Mantovano […] il memoir è costruito per convincere il lettore a porsi un’unica domanda: il perché di tanto accanimento e diffidenza verso questo servitore dello Stato. Può soccorrere forse qualche indizio. La maniacale annotazione e conservazione, con tanto di giorno, ora e minuti, delle sue conversazioni con un presidente del Consiglio, un ministro e un direttore del Dis che si impegnavano alla sua nomina a vice direttore di Aise. 

E la formidabile spiegazione dell’ultimo fotogramma della sua carriera di agente segreto: l’incontro con Matteo Renzi in un autogrill di Fiano Romano mentre il governo Conte era alla disperata ricerca di far rientrare lo strappo di Renzi. […] è difficile dire cosa guadagnerà la saggistica italiana dal suo nuovo acquisto Marco Mancini. Ma leggere “Le regole del gioco” è decisamente utile a comprendere cosa ha perso la nostra Intelligence. E perché, per quanto l’autore non sappia darsene pace, non lo rimpianga.

Spioni.

Dossieraggio nella prima Repubblica.

Killeropoli.

Le Intercettazioni.

Dossieraggio nella prima Repubblica.

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” sabato 12 agosto 2023.

C’era una volta Vienna: la città del “Terzo Uomo” sospesa sulla Cortina di Ferro, luogo prediletto per incontri discreti in zona neutrale. Con la caduta del Muro, il suo fascino si è dissolto e per qualche anno il circo degli 007 si è trasferito più a Est: a Budapest, meta di vacanzieri russi e nuovi imprenditori cinesi. È durata poco e dalla fine degli anni Novanta Roma si è imposta come capitale internazionale delle spie.

«Semplicemente perfetta, perché non c’è bisogno di nascondersi. — ricorda un ex operativo della Cia — Avete presente quelle trattorie dove i camerieri fanno sedere a caso gli stranieri uno accanto all’altro in lunghe tavolate? Sono l’ideale per stabilire contatti o scambiare documenti». 

Il grande gioco dei servizi nell’Urbe gode di opportunità uniche. Ci sono triplici rappresentanze diplomatiche — Italia, Santa Sede e Fao — che moltiplicano l’occasione di dare copertura agli agenti. C’è un flusso ininterrotto di turisti in cui confondersi. E un vortice di attrazioni culturali e appuntamenti goderecci che contagia chiunque […] Roma è rimasta il cuore delle trame. Il riscontro viene dalla serie di casi finiti sotto i riflettori […] 

La manovra più spettacolare resta quella messa a segno dai nostri servizi quattro anni fa, che hanno gestito la defezione di un alto dirigente nordcoreano […] Jo Song-gil non era solo l’ambasciatore reggente: faceva parte della cerchia ristretta del dittatore Kim Jong-Un. È sparito assieme alla moglie, mentre la figlia diciassettenne sarebbe stata riportata in patria. 

Nel 2016 […] tra i tavolini di Trastevere c’è stato l’esordio della nuova Guerra Fredda. In mezzo a ignari gitanti è stato arrestato Frederico Carvalhao Gil, figura di spicco degli apparati di sicurezza portoghesi: lo hanno bloccato mentre vendeva dossier top secret della Nato agli emissari di Mosca […] 

Numerose partite sono rimaste nell’ombra. Come l’operazione che ha sventato un ricatto sessuale contro un prelato venezuelano in visita al Vaticano: un tentativo di screditare la Chiesa che si opponeva al regime bolivariano di Caracas. E quanto sia intenso il via vai di spie nella nostra Penisola lo testimonia pure l’ultimo drammatico episodio: il naufragio dello scorso 28 maggio nel Lago Maggiore, con la morte di tre agenti. 

L’epilogo di una missione congiunta italo-israeliana di contro-proliferazione per fermare il traffico di armi apocalittiche: un’operazione condotta con rigore, salvo la scelta di festeggiarne l’esito alzando i calici in un ristorante stellato. Neppure i veterani del Mossad hanno resistito al richiamo della Dolce Vita, lo stesso che vent’anni prima aveva portato Aldrich Ames — la più famosa talpa russa nella Cia — a comprare una Jaguar per esibirsi dentro Roma: un lusso che ha smascherato i pagamenti di Mosca al traditore.

Spie e giornalismo: cosa succede quando sfuma il confine. Martina Piumatti il 2 Agosto 2023 su Inside Over.

Se tutti i giornalisti sono un po’ spie, non tutte le spie sono anche giornalisti. Qualcuno sì. La collaborazione tra giornalisti, scrittori e servizi ha radici antiche. Vite giocate sempre sul crinale del doppio, dove il confine tra realtà e finzione si confonde. A cominciare dall’inventore della spia più famosa di sempre. Ian Fleming, prima di diventare giornalista e poi dar vita a James Bond, lavorò per la Royal Navy’s Intelligence, il servizio segreto della marina. E non fu l’unico.

Prima di lui, durante la Grande Guerra, Somerset Maugham entrò nella British Intelligence. Reclutato da John Wallinger (il capospia “R” nei racconti di Maugham, poi interpretato da Charles Carson in Agente segreto di Hitchcock) faceva parte della rete di agenti britannici che operavano in Svizzera contro il Berlin Committee (il Comitato per l’indipendenza dell’India). Usò la sua esperienza di 007 per scrivere le avventure di Mister Ashenden, spia solitaria e tormentata che ispirò a Flaming la serie di Bond. 

Anche Graham Greene, venne ingaggiato dall’MI6 (l’agenzia britannica di spionaggio per l’estero) grazie alla sorella, Elisabeth, che già lavorava per l’organizzazione, e durante la Seconda guerra mondiale fu inviato in Sierra Leone. Posti visitati, avventure vissute, personaggi incontrati, confluirono nei suoi romanzi, da Un americano tranquillo a Il nostro agente all’Avana, a Il fattore umano.

Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva “la più pericolosa spia degli alleati”. Spina nel fianco dei nazisti, Virginia Hall, corrispondente in Francia del New York Post, fu al soldo prima dei servizi segreti britannici, poi dell’Oss, l’Office of strategic services statunitense, (predecessore della Cia). La “dama zoppa”, come era nota tra i tedeschi per via della gamba amputata dopo un incidente durante una battuta di caccia a Smirne, si rivelò decisiva per il trionfo alleato in Normandia.

In tempi più recenti, è Mikhail Butkov a incarnare lo spregiudicato doppiogiochismo delle spie sovietiche. Entrato a far parte del Kgb nel 1984, si trasferì in Norvegia cinque anni dopo, operando under cover come corrispondente per Rabotsjaja Tribuna. Da Oslo passò al soldo dei servizi segreti norvegesi e britannici, servendosi della copertura per reclutare fonti, spiare cittadini di alto profilo e diffondere storie fuorvianti sui giornali locali.

I tentacoli dell’intelligence russa, però, non conoscono limiti geografici. Vicky Peláez è una giornalista peruviana, vive al “17 di Clifton Avenue a Yonkers dal 1985” e scrive, da New York, per The Moscow News e Sputnik. Ufficialmente. Quando nel giugno 2010, l’Fbi l’arresta, insieme al marito Mikhail Vasenkov e altri otto. L’accusa: essere una spia sul libro paga del Cremlino. Dichiaratasi colpevole viene deportata in Russia come parte di uno scambio di agenti. Ora, stando alle ultime notizie, sarebbe tornata in Perù.

Federico Umberto D’Amato è un caso a parte. L’uomo che sapeva tutto di tutti. E che tutti riusciva a far parlare. FUDA, o Umbertone, come lo chiamavano gli amici per la corporatura che tradiva la passione per il buon cibo, di vite ne ha vissute almeno due. La prima, da spia, iniziò quando, a soli venticinque anni, dopo l’8 settembre 1943, lavorò alle dipendenze di James Angleton, capo del servizio segreto Usa, l’Oss, finendo per diventare dal 1971 al 1974 direttore dell’Ufficio Affari Riservati (il servizio segreto politico di allora) del ministero dell’Interno.

Nell’altra, Zaff (così lo chiamavano in codice, come emerge dagli atti giudiziari, gli organizzatori della strage di Bologna, in quanto amante dello zafferano) è stato un raffinato giornalista enogastronomico, inventore, con lo pseudonimo di Federico Godio per il Gruppo L’Espresso, della Guida d’Italia. 1500 ristoranti e trattorie, 500 alberghi e pensioni, noti e meno noti. Il “Grande Fascicolatore”, che, tra una vodka (che beveva fin dal mattino) e una Philip Morris, non negava un dossier a nessuno, resta un mistero difficile da decifrare. Dalle segrete trame delle stragi di Stato alla disputa sull’abolizione della pastasciutta, trasversale e sotto traccia come solo lui riusciva ad esserlo. “Ogni buon agente segreto, – rivela FUDA in un’intervista riportata da RollingStone – insieme al cifrario o al mini-registratore, ha sempre un taccuino con i buoni indirizzi di forchette nel suo Paese e all’estero. Questi ristoranti sono convenzionalmente una specie di campo neutro, dove si parla liberamente, senza timore di registrazioni clandestine o di altri trucchi”. Perché una spia, in fondo, resta pur sempre una spia. Anche a tavola.

“Sono centinaia i giornalisti di tutti i Paesi europei che lavorano per i propri servizi segreti o per quelli statunitensi. Il loro compito è quello di obbedire e favorire Washington. Sanno benissimo che potrebbero perdere il loro lavoro nei media se non rispettassero l’agenda pro-occidentale”. A gettare la bomba è Udo Ulfkotte. Firma di punta della Frankfurter Allgemeine Zeitung, inviato di guerra e poi caporedattore di politica estera, nel 2014 pubblica il libro Giornalisti comprati, in cui denuncia di essere stato per ben 17 anni un agente per conto della Cia e di altre agenzie di servizi segreti (tra cui la Bnd, l’intelligence tedesca). “Non è giusto quello che ho fatto in passato, ho manipolato le persone – ammette Ulfkotte – e ho fatto propaganda contro la Russia. Sono stato corrotto da miliardari e dagli americani per non riferire la verità. Mi sono sentito manipolato, non mi hanno permesso di dire quello che sapevo”.

Il meccanismo è tanto semplice quanto subdolo. “I giornalisti – spiega – vengono spesso avvicinati di nascosto. Niente soldi. Usufruiscono di compensi sotto forma di regali, di viaggi gratuiti, opportunità di entrare in una rete di relazioni precostituite dalle varie agenzie di spionaggio, funzionali alla propria carriera e lavoro. Ti invitano a vedere gli Usa, pagano tutto, ti riempiono di benefit, ti corrompono. Ti danno la possibilità di intervistare politici americani, ti accosti sempre di più ai circoli del potere. E poi tu, che vuoi rimanere all’interno di questo cerchio d’élite, finirai a scrivere qualsiasi cosa per compiacerli. Se non lo fai, la tua carriera non andrà da nessuna parte. Ho molti contatti con i giornalisti britannici e francesi: hanno tutti fatto lo stesso percorso”.

Poco dopo aver deciso di svelare nuovi intrighi, il 13 gennaio del 2017 viene trovato morto nella sua abitazione. Il governo tedesco lo ha liquidato come infarto, facendolo cremare senza disporre l’autopsia e impedendo, così, per sempre di fare chiarezza. Una fine degna di una spia.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” venerdì 4 agosto 2023.

È una Repubblica fondata sul ricatto, a partire dal dopoguerra quando la corsa al vertice della Democrazia cristiana viene giocata dai protagonisti anche a colpi di falsi memoriali. Sullo sfondo, allora, c’era il caso Montesi, la giovane donna trovata morta sul litorale di Torvajanica. 

Nelle indagini sull’omicidio fu coinvolto anche Piero Piccioni, figlio di Attilio uno dei potenti della Dc. […] Negli anni Sessanta venne la stagione delle 150mila schedature del Sifar, il servizio segreto militare del generale Giovanni De Lorenzo, a carico di persone ritenute politicamente “pericolose”.

Uno di questi dossier era dedicato a Giuseppe Saragat, divenuto nel frattempo presidente della Repubblica. Quella era la stagione del “tintinnar di sciabole” e del “piano solo”, un colpo di Stato sventato. Fino ad arrivare ai lunghi dossier pubblicati dall’agenzia Op del giornalista Mino Pecorelli, informatissimo su ogni aspetto degli uomini delle istituzioni e di chi stava nell’ombra. Per il suo lavoro e per le informazioni che incamerava e spesso pubblicava, è stato ucciso, e il suo omicidio a Roma nel marzo del 1979 non ha ancora un colpevole.

[…] Gherardo Colombo […] disse che le riforme, anche quelle sulla giustizia, «sono ispirate dalla società del ricatto». […] «Nel metabolismo politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di realizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso». 

La tradizione italiana dello spionaggio e del dossieraggio illegale non si è fermata. Lo abbiamo visto attraverso centrali private d’intelligence, come quella gestita da Giuliano Tavaroli, all’epoca responsabile della sicurezza Telecom, accusato dalla procura di Milano di avere raccolto fino al 2005 migliaia di dossier illegali su uomini politici, imprenditori, banchieri, personaggi pubblici e privati cittadini. 

La struttura aveva stretto rapporti di collaborazione con uomini appartenenti a servizi segreti stranieri e italiani e si era strutturata come una multinazionale dello spionaggio privato che il giudice di Milano definì una «formidabile macchina per manovre e ricatti». 

Dossier illegali sono stati raccolti anche dentro i tradizionali apparati dello Stato. Nel 2006 emergono episodi d’accesso illegittimo nell’anagrafe tributaria realizzati da uomini della Guardia di finanza, per attingere informazioni poi utilizzate in una campagna di stampa contro Romano Prodi. 

Ma soprattutto viene scoperto un ufficio che collaborava con il Sismi, in via Nazionale nel centro di Roma, in cui venivano organizzate operazioni d’intossicazione informativa, anche attraverso il rapporto con giornalisti controllati, lusingati o tenuti a libro paga. In quell’ufficio, gestito da un funzionario di nome Pio Pompa, venivano conservati dossier su magistrati, politici, intellettuali, giornalisti, funzionari dello Stato: tutti catalogati come “nemici” dell’allora governo presieduto da Silvio Berlusconi per i quali veniva proposto di “neutralizzare” e “disarticolare”, anche con “eventi traumatici”, queste persone “nemiche”.

[…] In un Paese spiato da uomini infedeli alle sue istituzioni, ascoltato da centri illegali e privati di potentissime imprese, giocato da rivelazioni inventate […] appartenervi o esserne a capo significa disporre di […] potere […] […] A Roma è emerso alla fine degli anni Novanta un altro gruppo composto da ex agenti segreti, poliziotti e uomini vicini a Licio Gelli, il quale era riuscito a ottenere illegalmente piani di scorta di personalità, misure di protezione, mappe di località protette, piani di servizi di sicurezza, e poi truffe ed estorsioni ai danni di imprenditori, collegamenti con il mondo della finanza, in particolare quella francese e statunitense. La raccolta di notizie utilizzate per confezionare falsi dossier allo scopo di ricattare personalità come Luciano Violante.

E poi c’è l’intelligence deviata. A Napoli la Dia che si occupò di questa inchiesta la chiamò “operazione Nilo”. Venne arrestato un tenente colonnello dei carabinieri, un brigadiere dell’Arma, un maresciallo in servizio al Ros, un imprenditore, un funzionario del ministero del Tesoro. Erano accusati di aver dato vita ad una struttura di intelligence deviata, che serviva ad acquisire informazioni riservate da utilizzare per ricatti e pressioni […] Spaziavano dalle investigazioni illegali, comprese intercettazioni telefoniche, agli accertamenti bancari, all’accesso a fascicoli riservati, alla costruzione di falsi dossier ed all’inquinamento delle indagini. […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” sabato 5 agosto 2023.

[…] Ieri […] i principali quotidiani per raccontare l’iscrizione sul registro degli indagati di Pasquale Striano, un finanziere alla vigilia della pensione, per accesso abusivo a banche dati informatiche (neanche, almeno per ora, una piccola rivelazione di segreto di Stato) hanno scomodato titoli degni di tempi peggiori: «La fabbrica dei ricatti», «La Repubblica dei dossieraggi», «È caccia ai mandanti», «Una centrale dei dossier screditava politici e vip», «Da Pecorelli al Sismi la storia d’Italia da spioni e ricatti». 

Eppure, ad oggi, non risultano iscritti altri soggetti a parte il militare e all’orizzonte non si scorgono grandi vecchi o burattinai di sorta. Ma solo una delle tante storie di fonti più o meno qualificate che passano notizie riservate ai giornalisti. 

Rapporti un po’ borderline su cui da sempre campa il giornalismo d’inchiesta, piaccia o non piaccia. Anche se la vicenda odierna non sembra nemmeno lontanamente paragonabile a quelle dei dossier stampati con il ciclostile dalla security Telecom di Giuliano Tavaroli o dell’archivio segreto dell’ex 007 Pio Pompa.

Giovedì i colleghi dei cosiddetti giornaloni […] hanno dato in pasto all’opinione pubblica la storiella in versione comunicato stampa di una centrale di dossieraggio alla Direzione nazionale antimafia su cui sono saltati subito politici di ogni colore. Ma nello sfizioso pastiche, buono per rivitalizzare i languidi notiziari agostani, è entrato un po’ tutto e anche il suo contrario. 

E così i cronisti, […] hanno iniziato a propalare la fòla della centrale dei dossier, mettendo in unico calderone tutte le segnalazioni di operazioni sospette uscite in questi mesi su diversi quotidiani. 

L’inviato del Corriere ha pure inserito Matteo Renzi tra le presunte vittime, senza ricordare che la storica compagna aveva pubblicato una Sos sull’ex premier. E chi scrive è testimone oculare di una telefonata del fu Rottamatore in Procura per segnalare ai vertici dell’ufficio la presentazione di una querela contro la giornalista per una presunta rivelazione di segreto, forse per trovare una scorciatoia che i normali cittadini non possono percorrere.

Tra gli ultrà dell’inchiesta si segnala Nicola Porro che quando c’è da festeggiare insieme con qualche potente è sempre in prima fila. Ma in questo caso sbaglia bersaglio e prova a insinuare che saremmo diventati garantisti con il tenente per chissà quali oscuri motivi. Lui che una decina di anni fa minacciò di scatenare «i segugi» contro la Confindustria poco berlusconiana. 

Tranquillizziamo Porro: Striano non è mai stata una nostra fonte. E lo sfidiamo a provare il contrario. Detto questo, il conduttore ci accusa di pubblicare «schifezze». Evidentemente meglio il suo tranquillo chiacchiericcio salottiero e pettinato a notizie-zero (così non inquina). 

Il Riformista di Renzi, dopo aver ribattezzato l’indagine «Killeropoli», ha indicato i bersagli e stilato un elenco di articoli contenenti Sos e relativa testata di pubblicazione con questa chiosa: «Negli ambienti politici (sic, ndr) si fa notare come a essere coinvolti siano sempre due o tre giornali e pochissimi giornalisti».

Insomma a compilare le liste di proscrizione dei cronisti «cattivi» sono i membri della Casta. Davvero poco rassicurante. L’articolo era firmato da Alessio De Giorgi, noto alle cronache per aver fatto parte della Bestiolina renziana, la squadretta che a un certo punto aveva persino teorizzato la mascariata social degli avversari politici, magari con l’ingaggio di «almeno due giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (costo medio-altro)».

I consiglieri di Renzi ipotizzavano una «contropropaganda» fatta anche di pedinamenti del nemico di turno e di «character assassination» ovvero «notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi». Ma adesso l’ex premier fa la verginella.

Ieri mattina il non memorabile pezzo di De Giorgi è stato aggiornato con un attacco personale contro chi scrive, in stile Porro. Ma se il conduttore Mediaset aveva alluso, in questo caso i kamikaze del Riformista ansiosi di perdere altri soldi in cause civili scrivono: «E come si mormora tra i palazzi romani potrebbe essere proprio il giornalista de La Verità (verità che piace a loro) ad aver ricevuto ghiotte informazioni proprio da parte di questo maresciallo sotto inchiesta o da altri personaggi dello stesso affaire». 

Dunque chi comanda ha trovato il capro espiatorio ideale per le proprie disavventure mediatiche: un finanziere prossimo alla pensione accusato di «spiare» i potenti e magari di passare qualche velina all’amico cronista (che non sta nella nostra redazione). 

Una lezione inviata a reti unificate ai pochi che sentono come un dovere civico far emergere possibili conflitti di interesse o altre magagne della classe dirigente anche a costo di commettere un reato (in questo caso ancora tutto da accertare) e di rischiare la carriera.

Ma mentre il finanziere viene bastonato […], è passata sotto silenzio la notizia che abbiamo scritto ieri, ossia che, secondo l’indagato, alla Direzione nazionale antimafia una toga importante gli avrebbe commissionato un report sugli affari di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Ovviamente in via riservata. 

In passato sono diventate icone progressiste Edward Snowden e Bradley Manning (poi divenuto Chelsea) che, comunque, hanno diffuso documenti coperti da segreto militare, ma il finanziere che spiava gli affari quanto meno degni di approfondimento del ministro della Difesa quello va sotterrato. Meglio trasformare in eroi da film i militari altrui. 

[…] I vari consorzi internazionali di giornalismo investigativo di cui si pregia di far parte La Repubblica da tempo diffondono sui media carte rubate nei computer di questa o quella società privata da impiegati infedeli, ma «democratici». Si va dai Panama e Pandora papers sino all’ultimo caso degli Abu Dhabi secrets. E tutti si spellano le mani.

Ma adesso il finanziere che non passava le notizie a loro, ma ad altri giornalisti (ex dipendenti proprio dello stesso gruppo Gedi) merita la gogna e un titolo di apertura a nove colonne come il già citato «La fabbrica dei ricatti». 

Anche se in passato il quotidiano di Largo Fochetti aveva enfatizzato le segnalazioni di operazioni sospette, per esempio quella che riguardava fondi destinati allo staff di Matteo Salvini. Ieri hanno iniziato a circolare sulle chat di Fiamme gialle e magistrati dossierini già confezionati su Striano.

[…]  Come ciliegina è stato postato un articolo scritto dal tenente, per far «notare il tenore di alcuni suoi interventi». La magistratura stabilirà se Striano abbia commesso reati ed, eventualmente, quali. Ma vedere i cronisti che alzano i calici insieme con i politici di fronte all’indagine su una fonte giornalistica un po’ ci preoccupa.

Il 9 agosto 1974. Cosa era il Sifar, il servizio segreto dei militari che spiava i politici: perché Andreotti fece distruggere l’archivio. Giulio Andreotti, Ministro della Difesa, presenziò alla distruzione del tesoro dei servizi segreti. 33mila fascicoli frutto di anni e anni di accurato spionaggio finirono in un inceneritore. David Romoli su L'Unità il 5 Agosto 2023

Il 9 agosto 1974, giornata torrida, il ministro della Difesa Giulio Andreotti la passò senza cercare refrigerio. Al contrario, presenziò per ore alla distruzione dei fascicoli del Sifar, frutto di anni e anni di accurato spionaggio. L’ordine di distruzione era partito dallo stesso divo Giulio poco più di un mese prima, il 4 luglio. Nell’inceneritore finirono uno dopo l’altro 200 scatoloni, contenenti circa 33mila fascicoli, nei quali il Sifar, servizio segreto delle Forze Armate, aveva a partire dal 1958 raccolto peccati veri o presunti di tutti quelli che contavano qualcosa in Italia.

I dossier si occupavano certo di politica ma anche di più di faccende private all’epoca inconfessabili: come strumento di ricatto e pressione ma anche come arma per sgambettare i rivali la vita privata era più utile di quella politica. Come è inevitabile fioccarono da subito le accuse di non aver davvero distrutto tutto lo scottante materiale, di averne conservato gelosamente fotocopia, di averlo passato all’immancabile Licio Gelli ma queste sono solo ipotesi più o meno verosimili e spesso fantasiose. Il grosso del tesoro del Sifar andò in cenere quel giorno.

Di cosa si parla lo chiarì il generale Aldo Beolchini, incaricato nel gennaio 1967 di presiedere la commissione d’inchiesta su quei fascicoli illecitamente compilati, raccolti e conservati. Al termine dei lavori, in marzo, Beolchini fece il punto sui dossier: “Per contenerli tutti ci vuole, se non una piazza, un salone molto grande. I nostri sono calcoli approssimativi per difetto: 157mila fascicoli per nome e per soggetto. Alcuni erano mastodontici. Per l’on. Fanfani c’erano 4 volumi, ciascuno gonfio come un doppio dizionario. Poi ci sono quelli per materia e argomento: altri 40mila”.

Il generale De Lorenzo, comandante del Sifar dal 1955, aveva iniziato la raccolta nel 1958 e al prezioso materiale si era aggiunto quello, affine, messo insieme dall’ex ministro degli Interni ed ex primo ministro rovesciato da una rivolta popolare nel 1960 Tambroni. All’inizio la platea spiata e sorvegliata era circoscritta: 2mila fascicoli, robetta. Nel 1960 erano già 17mila ma 2 anni dopo si erano moltiplicati in maniera esponenziale, 117mila e destinati, in base alle stime ufficializzate 5 anni dopo da Beolchini a crescere ancora.

La moltiplicazione era naturale, dal momento che il metodo seguito dal Sifar era quello dell’epidemia: chiunque entrasse in contatto con qualcuno sotto sorveglianza, o come si dice oggi con orrido neologismo fosse “attenzionato”, finiva automaticamente nel mirino a propria volta. Il Sifar stesso descriveva così il proprio obiettivo: “Al Servizio interessa poter avere sempre un preciso orientamento sulle varie personalità che possono assurgere ad alte cariche pubbliche o comunque inserirsi o essere interessate nelle principali attività della vita nazionale in qualsiasi campo”. Raggio decisamente vasto.

Non che fosse proprio necessario accertare i fatti: come d’abitudine nella sorveglianza dei servizi segreti dicerie e pettegolezzi bastavano e avanzavano e se non ce n’erano a sufficienza era il Sifar stesso a mettere in circolazione voci che poi raccoglieva nei fascicoli come fatti accertati. Ad Amintore Fanfani, ad esempio, capitò di vedersi consegnare come prezioso dossier segretissimo una serie di fandonie che lui stesso aveva fatto mettere in circolazione dai suoi uomini nei servizi qualche tempo prima. Perché i potenti della Dc avevano tutti qualche loro uomo nel Sifar e finiva così che tutti spiavano tutti e da tutti erano spiati.

Il gigantesco archivio non fu scoperto nel quadro delle indagini sul Piano Solo, il golpe organizzato più come minaccia che come progetto reale dal presidente della Repubblica Antonio Segni coadiuvato da De Lorenzo, diventato nel frattempo capo dei Carabinieri nel 1964. All’origine ci fu invece la guerra tra lo stesso De Lorenzo, promosso nel frattempo capo di Stato maggiore dell’Esercito, e il pari grado Giuseppe Aloja, capo di Stato maggiore della Difesa. De Lorenzo era in quell’occasione schierato “a sinistra”, contrastava le manovre di un alto ufficiale come Aloja, coinvolto nella strategia della “guerra asimmetrica” contro il comunismo e che aveva pertanto varato “corsi d’ardimento” altamente ideologizzati in tutte e tre le componenti delle Forze armate ma subito aboliti da De Lorenzo nell’esercito.

Lo scontro fu senza esclusione di colpi e l’arma più potente nelle mani di De Lorenzo era proprio il Sifar, che aveva lasciato nelle mani dei suoi fedelissimi: i colonnelli Viggiani e Allavena, promossi a generali senza seguire le procedure per l’occasione e posti a capo rispettivamente del Sifar e della sua struttura principale, l’Ufficio “D”. Il Sifar martella il nemico di De Lorenzo a colpi di veline fatte arrivare alla stampa sulla corruzione nelle Forze armate. Aloja reagisce sostituendo Allavena che prima di lasciare il servizio si porta a casa i dossier più incandescenti. Messo alle corde, Aloja reagisce facendo arrivare alla stampa la notizia sulle schedature illegali del Sifar e nasce così la commissione d’inchiesta Beolchini, che conferma e rincara l’accusa.

Terminati i lavori della commissione, il ministro della Difesa Andrea Lugo convocò De Lorenzo per proporgli una via d’uscita “onorevole” in cambio delle dimissioni spontanee sarebbe stato nominato a breve ambasciatore. De Lorenzo registrò segretamente il colloquio e rifiutò l’accordo. Nel giro di un mese arrivarono all’ Espresso le prime informazioni sul golpe minacciato nel 1964, il Piano Solo. Lo scandalo fu enorme e la censura dovette sudare sette camicie per coprire gli aspetti più imbarazzanti della vicenda. Lo denunciò subito lo stesso Beolchini: “Al Parlamento è stato comunicato poco della metà del testo della relazione. I testimoni interrogati furono 67, gli allegati erano 32: nessuno di essi è giunto in Parlamento. Un intero capitolo è stato saltato a pie’ pari, quello delle intercettazioni”.

La registrazione del colloquio tra Lugo e De Lorenzo fu oggetto di un braccio di ferro con l’opposizione. Alla fine, quando la commissione parlamentare che indagava sul Piano Solo stava per premere il fatidico pulsante e avviare la registrazione, arrivò trafelato il sottosegretario Cossiga con un ordine di requisizione. Il segreto fu conservato. Per eliminare i dossier ci vollero altri sette anni.

David Romoli 5 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” domenica 6 agosto 2023.

Clemente Mastella, che ne pensa di questa storia dei dossier sui politici?

«Potrei dire: tutto normale. Si tratta di vicende carsiche, che tendono a colpire politici e imprenditori». 

C'è uno specifico?

«Negli ultimi anni c'è stata una subalternità, una sudditanza psicologica, da parte della politica rispetto agli apparati statali che hanno in mano o realizzano dossier. Anche se apparentemente lo fanno con alchimie regolari». 

Che cosa intende per apparenti alchimie regolari?

«Banca d'Italia, Procura nazionale antimafia, Guardia di finanza. Poteri legittimi, che maneggiano dossier per motivi istituzionali. Talvolta, però, questa alchimia non funziona. Produce distorsioni». 

Perché la politica ha sudditanza?

«Per debolezza, perché ha qualcosa da nascondere. Ha nei confronti di questi poteri un atteggiamento subalterno: li teme e tenta di blandirli». 

E questi poteri come si atteggiano?

«Nei confronti della politica con sufficienza, pur vivendo a ridosso di essa. Come se ce l'avessero sempre sulle scatole». 

Del caso in sé si è fatta un'idea?

«Dipende tutto dall'ufficiale della Finanza: s'è mosso valutando un proprio tornaconto che gli è sfuggito di mano, o era utilizzato per scopi impropri?». 

A lei è capitato di incrociare vicende di questo tipo?

«Una volta su tutte: la vicenda che portò alle mie dimissioni e alla caduta del governo Prodi. Ero stato avvertito da un parente napoletano che lavorava nei servizi: "Guarda che vogliono fregarti". Avvertii le autorità di controllo. Non fecero niente, e così successe». 

[…] E altre volte?

«Il meccanismo è periodico. Pensi che io finii dentro Telekom Serbia e ancora non ho capito come».

C'è un modo per capire che sta capitando qualcosa?

«Si avvicina qualcuno, manifestando un'amicizia, diciamo così, maliziosa. "Ho saputo…", "Stai attento…", […]. Vero o non vero, tu sei sotto scacco. In una condizione psicologica di fragilità. […]». 

[….] Qual è l'effetto sulla politica?

«La politica vive sotto una sorta di estorsione, intimidazione. Tutti i politici sono ricattati. Un ricatto limaccioso, a bassa intensità. Ma permanente». 

Accadeva anche nella prima Repubblica?

«La storia italiana ne è piena. Penso ai grandi scandali, ma non solo. Nella Dc un grande classico era la voce sull'omosessualità. Giravano foto equivoche. Tutti sapevano, ma in un perimetro circoscritto. La calunnia trapelava, ma non usciva mai del tutto. L'obiettivo era limitare il raggio di azione dell'avversario interno». 

[…] Ha fatto bene Crosetto a denunciare un complotto contro la democrazia?

«Credo sia stato messo in guardia. Sta in un posto dove gli apparati che maneggiano informazioni, legittimamente intendo, non mancano». 

Può essere che la sua vicenda sia legata alle nomine nelle grandi aziende?

«Non mi pare che gli abbiamo fatto toccare palla, in quelle nomine».

Killeropoli.

Riportato da Il Corriere della Sera.

Riportato da La Repubblica.

Riportato da La Stampa.

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Riportato da Il Corriere della Sera.

Dossieraggio su vip e politici, dal 740 ai conti correnti: dentro il pc del maresciallo oltre cento nomi illustri. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera venerdì 4 agosto 2023. 

Tra gli spiati politici e manager. Striano ai pm: «Ero autorizzato» 

«Da aprile l’ufficio sta proseguendo in assoluta riservatezza le indagini preliminari, che si sono ovviamente estese rispetto all’ipotesi originaria di violazione di notizie riservate in danno del ministro Crosetto. E sono già state sentite numerose persone ed esaminata una rilevante quantità di documenti». Sono sufficienti poche righe dello scarno comunicato del procuratore di Perugia Raffaele Cantone per comprendere la delicatezza e l’importanza dell’indagine sui presunti accessi abusivi alle banche dati per ipotetiche attività di dossieraggio ai danni di politici e altri personaggi pubblici, legati ad ambienti imprenditoriali e istituzionali.

L’inchiesta partita dalla denuncia del ministro della Difesa s’è allargata perché molto più largo è risultato il raggio d’azione del maresciallo della Guardia di finanza Pasquale Striano, indagato per l’intrusione nei sistemi informatici statali e riservati, alla ricerca di informazioni che arricchissero quelle contenute nelle Segnalazioni di operazioni economiche sospette (Sos). Sul ministro Crosetto, ad esempio, avrebbe interrogato i terminali per conoscere le dichiarazioni dei redditi del politico che prima di entrare al governo faceva l’imprenditore, e altri dati sensibili. Ma oltre che sul ministro, dagli accertamenti svolti dai suoi colleghi delle Fiamme gialle su delega della Procura umbra, hanno documentato numerosi altri accessi sospetti, su altre personalità. Un centinaio e più. Scoprire a che scopo è l’obiettivo dell’indagine. E soprattutto per conto di chi.

La difesa dell’ufficiale

Interrogato dopo la perquisizione – quando ancora l’inchiesta era condotta dalla Procura di Roma – l’ufficiale ha spiegato di essersi attenuto, in maniera del tutto lecita, a un protocollo instaurato all’interno della Direzione nazionale antimafia, presso la quale lavorava su specifica richiesta del sostituto procuratore nazionale che all’epoca si occupava del Servizio Sos, Antonio Laudati.

Secondo il racconto del maresciallo, lui era autorizzato a muoversi liberamente tra le varie banche dati alla ricerca di informazioni che potessero risultare utili alle varie Procure distrettuali, sulla base di spunti investigativi individuati anche di propria iniziativa proprio sulla base delle Sos che dalla Banca d’Italia, tramite l’Ufficio informazioni finanziarie, vengono trasmesse alla Guardia di finanza che poi le smista alla Direzione nazionale antimafia. Il problema è che da tutta quella mole di dati raccolti, non sarebbe scaturito alcun atto d’impulso verso le altre Procure. Né c’erano a monte richieste delle Procure.

Lo scudo della Dna

Proprio l’entrata in gioco della Dna che ha sede a Roma, e il possibile coinvolgimento, in qualunque veste, di uno o più magistrati di quell’ufficio, ha spostato la competenza dell’inchiesta a Perugia. Dove s’è allargata alle altre interrogazioni di cui il maresciallo avrebbe lasciato traccia, effettuate forse con i computer del Nucleo di polizia valutaria della capitale di cui continuava formalmente a fare parte, nonostante l’assegnazione alla Dna. L’ipotesi — da dimostrare — è che abbia utilizzato lo scudo della Procura nazionale, e l’eventuale «delega in bianco» ricevuta secondo un protocollo informale concordato con quell’ufficio, per altri scopi. Magari su commissione di altre entità.

Il sospetto del dossieraggio nasce proprio dagli approfondimenti allargati ad altri sistemi non collegati alla Dna. Lì le Sos arrivano criptate, solo con il nome della persona ma senza il contenuto. Gli accertamenti successivi — secondo criteri in vigore già prima, ma ora resi ancora più stringenti e controllati dal procuratore nazionale Giovanni Melillo — si fanno mettendo in relazione quei nomi con le liste degli indagati nelle diverse Procure d’Italia e con le informazioni contenute nella banca dati della Dna. Solo sulla base di eventuali coincidenze tra questi contenitori avvengono le comunicazioni successive.

Se il maresciallo Striano è andato oltre questi confini, accedendo appunto a dichiarazioni dei redditi, movimentazioni bancarie e altre informazioni, per «vestire» le Sos criptate a disposizione della Dna, bisognerà capire perché l’ha fatto e su richiesta di chi.

Anche perché di notizie contenute nelle Sos e pubblicate negli ultimi tempi sui giornali ne sono uscite molte, su personaggi che spaziano dagli ex premier Matteo Renzi e Giuseppe Conte all’ex portavoce di quest’ultimo, Rocco Casalino, fino all’ex capitano della Roma Francesco Totti.

L’indagine di Perugia per ora non riguarderebbe questi nomi ma molti altri, altrettanto noti. Non è però escluso che possa allargarsi anche ad essi, per verificare eventuali collegamenti. Compatibilmente con un’inchiesta da condurre «con particolare rigore e speditezza», assicura il procuratore.

Così i dati dell’Antimafia venivano usati dal finanziere per i dossier su vip e politici. Storia di Giovanni Bianconi su Corriere della Sera il 5 Agosto 2023

Il presunto «mercato» delle segnalazioni di operazioni sospette, le ormai famigerate Sos, è venuto alla luce per un articolo di giornale sui guadagni di un ministro e potenziali conflitti d’interesse (negati dall’interessato). Ma l’attività del luogotenente della Guardia di finanza Pasquale Striano, indagato per accesso abusivo a sistemi informatici a partire da quell’episodio, e poi rimosso, potrebbe non essere confinata a notizie uscite sulla stampa. Le informazioni rastrellate dal finanziere dietro lo scudo del suo lavoro per la Direzione nazionale antimafia potevano avere altri obiettivi: da un lato essere destinate a circuiti diversi da quello dei mass-media, da individuare – se esistono – per poi capire l’eventuale uso che ne avrebbero fatto; dall’altro sfociare in cosiddetti «atti d’impulso» (cioè sollecitazioni a svolgere indagini) alle varie Procure d’Italia nei confronti di soggetti anche non direttamente collegati alle Sos da cui avevano preso spunto le ricerche. Infine c’è l’ipotesi più «minimale» di raccolte dati su singole persone derivanti da specifiche richieste o esigenze di amici e conoscenti; dietro un’attività così vasta e prolungata del tempo può nascondersi di tutto.

Dunque l’oggetto dell’indagine avviata dopo la denuncia del ministro Crosetto e transitata alla Procura di Perugia per il possibile coinvolgimento di magistrati in servizio alla Dna, oltre il luogotenente Striano, riguarda l’attività del «Gruppo Sos» di quell’ufficio giudiziario. Presso il quale giungevano (e giungono, ma ora il sistema di trattamento dei dati è profondamente mutato) migliaia di segnalazioni, dentro le quali bisognava pescare quelle meritevoli di approfondimento. Di che tipo? Dall’indicazione di un nome, attraverso l’accesso alla banca dati della Dna e ad altri sistemi informatici (da quello dell’Agenzia delle entrate in giù) è possibile raccogliere informazioni da cui ricostruire l’intera vita di una persona, sotto il profilo economico e non solo. Che uso si poteva fare o è stato fatto, dopo, di quei potenziali «dossier»?

Il finanziare indagato ha spiegato di essersi sempre mosso secondo le regole stabilite da un protocollo informale in vigore presso la Dna, concordato con il sostituto procuratore nazionale Antonio Laudati che all’epoca si occupava di quella materia; una sorta di delega in bianco alla ricerca di qualsiasi spunto utile d’indagine, e anche gli accertamenti sul ministro Crosetto sarebbero derivati da presunti intrecci (a lui presumibilmente ignoti) con soggetti forse legati a esponenti di organizzazioni criminali.

Era lecito questo modo di operare? Le Sos erano davvero solo lo spunto per approfondimenti legati ai compiti che la Dna è chiamata a svolgere oppure sono diventate un pretesto per una sorta di pesca a strascico di informazioni su personaggi noti e meno noti?

Le centinaia di accessi relativi a nomi della politica e non solo, hanno fatto sorgere il dubbio di attività che difficilmente sarebbero potute sfociare verso indagini collegate alla criminalità organizzata e al riciclaggio, dietro il quale spesso si nascondono gli affari delle mafie. Sarebbero state individuate interrogazioni ai terminali che sembrano difficilmente riconducibili alla «missione» originaria della Dna. Insomma, c’è l’ombra che di una possibile deviazione rispetto ai fini istituzionali sui trascorsi di una struttura presso cui confluiscono una mole impressionate di dati sensibili, che possono a loro volta essere coltivati con l’acquisizione di dati altrettanto sensibili.

Di qui i necessari approfondimenti. Così come resterebbe da chiarire, se fosse confermato il «mercato», in cambio di che cosa il luogotenente si sarebbe dato da fare con le sue ricerche. Soldi o altro genere di utilità? Su questo per adesso non sono stati raccolti elementi utili, ma le verifiche sono in corso.

Anche rispetto agli accessi sui nomi più famosi circolati in questi giorni e in passato finiti sui giornali per essere stati oggetto di Sos ci sono stati finora riscontri negativi; dall’ex premier Giuseppe Conte e la sua compagna Olivia Paladino, a Matteo Renzi e Matteo Salvini, Francesco Totti e altri ancora. Pure su loro ci sono state segnalazioni per diverse operazioni economiche o finanziarie, ma finora non risulta che il militare assegnato alla Dna se ne sia interessato. Pure in questo caso, però, i controlli non sono esauriti.

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” lunedì 7 agosto 2023.lNon ci vorrà molto a capire se l’inchiesta sul «dossieraggio» denunciato dal ministro Guido Crosetto […] vedrà altri indagati: in particolare il magistrato responsabile del Sos (Servizio operazioni sospette), Antonio Laudati. 

Oppure se lui e l’organismo di coordinamento delle indagini antimafia saranno considerati parti lese di una presunta attività illecita da parte del finanziere Pasquale Striano. […]

Nell’ipotesi iniziale della Procura si trattava di accesso abusivo a sistema informatico. In quella del ministro Crosetto del «tentativo di condizionare la composizione del nuovo governo attraverso l’acquisizione illecita e la diffusione strumentale di notizie false». 

Accuse che l’indagato ha respinto in toto. Spiegando ai pm romani di aver raccolto informazioni su «impulso» di Laudati. E pronto a dimostrarlo ora ai pm umbri. Secondo il quotidiano La Verità grazie a un diario elettronico, tenuto giorno per giorno, sulle richieste di accertamenti ricevute. «Si è sempre mosso nell’alveo delle regole, seguendo le direttive che gli arrivavano e senza divulgare notizie coperte dal segreto istruttorio» assicura il suo avvocato Massimo Clemente. 

Fare presto è l’obiettivo della Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Senza rallentare per il consueto stop di Ferragosto, anzi accelerando. Si vogliono chiarire al più presto i contorni di un’inchiesta che fa fibrillare la politica tra timori di presunti dossieraggi e richieste di interventi normativi che buttino via, assieme «all’acqua sporca» del presunto complotto, persino preziose norme anti-riciclaggio e la legge Spazzacorrotti.

I pm dovranno gettare luce su quella «zona grigia» relativa al mandato del finanziere.

Era una delega in bianco? O per ogni nome da approfondire c’era stata una autorizzazione specifica? E perché, visto che la Dna ha il compito di coordinare indagini altrui? 

L’allora capo della Procura Antimafia, eletto nel M5S, Federico Cafiero De Raho, destinatario ultimo delle informazioni sui soggetti sospetti, ha cercato di chiarire il meccanismo che, assicura, impedisce la «pesca a strascico». «In Dna — spiega — c’è una tutela incredibile dei soggetti sospettati. I dati che giungono dall’Ufficio Informazioni bancarie della Banca d’Italia come operazioni di sospetto riciclaggio sono criptati. Il sistema li incrocia con le banche dati delle procure distrettuali antimafia e se i nomi coincidono con soggetti accusati di mafia li segnala alla Dna che li gira alle dda».

E da dove viene allora «l’impulso»? «Sono verifiche accurate», chiarisce De Raho, svolte prima di inviare tutto alle Dda, anche incrociando informazioni di altre banche dati e fonti aperte. E passavano il vaglio prima di Laudati, poi dell’allora procuratore aggiunto della Dna, Giovanni Russo, per arrivare, in appositi fascicoli, al superprocuratore.

Un meccanismo che l’attuale capo della Dna Giovanni Melillo ha bruscamente mutato, avocando a sé la supervisione del Servizio operazioni sospette. Ma di ciascun passaggio, informatico e non, resta traccia. Quindi dovrebbe essere molto facile risalire a come è andata la fuga di notizie che ha allarmato Crosetto. […] Non è difficile appurare le mosse del finanziere: gli accessi ad altre banche dati richiedono una password personale. Più difficile risalire agli eventuali mandanti.

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” domenica 6 agosto 2023.

A otto mesi dallo scoccare dei 70 anni, età della pensione, Antonio Laudati, il magistrato mandato a dirigere la Procura di Bari quando esplose lo scandalo delle escort pugliesi portate all’allora premier Silvio Berlusconi dall’imprenditore Giampaolo Tarantini, torna a suscitare l’attenzione dei media. 

Se l’inchiesta sul presunto dossieraggio «con notizie false» e «fughe di notizie» volte «a screditare il governo» denunciato dal ministro Guido Crosetto, è giunta a Perugia è perché il luogotenente della Guardia di Finanza accusato di accesso abusivo ai sistemi informatici per aver fatto centinaia di ricerche sul sistema Segnalazioni Operazioni sospette su politici e vip (alcune finite sui giornali) dipendeva da lui. E ai pubblici ministeri avrebbe detto che non erano dossier ma una vera e propria attività di indagine effettuata «su impulso» di Laudati.

Il magistrato irpino smentisce. Lo ha fatto anche quando è stato interrogato come persona informata dei fatti. Ma l’inchiesta su cosa è accaduto al servizio Sos […] lo fa ripiombare al centro della scena. Un déjà-vu. 

Nato a Forino, a 11 km da Avellino, esponente di Mi, autore di un saggio sulla mafia nella finanza, amante del tennis e del ballo, Laudati inizia la carriera a Lecco, poi torna ad Avellino, quindi va come sostituto procuratore all’Antimafia di Napoli e nel 2007 diventa Direttore degli Affari Penali del ministero della Giustizia. 

Nel 2009, mentre fanno il giro del mondo le rivelazioni dell’inchiesta barese sulle cene e i dopocena «eleganti» del premier Berlusconi, arriva nel capoluogo pugliese, fresco di nomina a procuratore capo, determinato a impedire fughe di notizie.

Ma nel giorno del suo insediamento i verbali di Giampaolo Tarantini sul Corriere raccontano che cosa accadeva nella residenze di Berlusconi. Decide così di affidarsi a una squadra di investigatori fedelissimi, diversi da coloro che hanno seguito le indagini che invece mette sotto inchiesta. 

La guerra è aperta, anche lui viene denunciato e c’è chi racconta di averlo sentito dire: «Mi manda il ministro Alfano», all’epoca titolare del ministero della Giustizia. Viene accusato di aver voluto rallentare le indagini per favorire Berlusconi, impedendo che con la fine dell’inchiesta uscissero le registrazioni hard tra il premier e la escort Patrizia D’addario.

Ad aumentare l’imbarazzo c’è una registrazione compiuta, a sua insaputa, da due giornalisti di Panorama (uno è l’attuale deputato forzista, Giorgio Mulè) nella quale Laudati sostiene che Berlusconi era vittima di un complotto e Patrizia D’Addario era una ricattatrice pagata per far emergere lo scandalo. 

La Procura di Lecce chiede per lui due anni e due mesi di carcere per favoreggiamento personale di Berlusconi e per abuso d’ufficio. Viene assolto da tutte le accuse anche in secondo grado. Ma al Csm finisce sotto procedimento disciplinare […]. Assolto. Il pg della Cassazione, chiede per lui la perdita dell’anzianità per aver organizzato con un suo indagato, l’allora governatore pugliese, Niki Vendola, un convegno da 100 mila euro. Esce assolto anche in questo caso. […]

Riportato da La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci,Giuliano Foschini per “la Repubblica” giovedì 3 agosto 2023. 

Funzionava così: il finanziere in servizio all’“Ufficio Sos” (Segnalazioni di operazioni finanziarie sospette) della Direzione nazionale antimafia a un certo punto decideva di approfondire la posizione di un personaggio X per verificare eventuali transazioni anomale sui suoi conti correnti; lo poteva fare senza un’indicazione a monte del magistrato responsabile dell’ufficio (fino all’anno scorso Antonio Laudati) e senza alcun obbligo di rendicontare a valle, per iscritto, ciò che aveva fatto.

Il finanziere si arrogava il diritto di interrogare le banche dati della Dna e quelle collegate dell’Agenzia delle entrate […] Le Sos sono tante […]: in un anno all’Antimafia ne arrivano dalla Banca d’Italia circa 15 mila, il 10 per cento di quelle che l’Unità di informazione finanziaria di Palazzo Koch elabora. Per questo motivo, il finanziere spesso effettuava le sue ricerche non dal computer della Dna ma da un terminale della Finanza, dove sono accessibili tutte le 135mila Sos e non solo quelle di potenziale interesse per i magistrati antimafia: era il suo modo per avere maggiore possibilità di rendere la pesca “fortunata”.

[…] perché il finanziere faceva ricerche proprio sul personaggio X e non su Y? Con quali criteri erano scelte le persone su cui effettuare gli approfondimenti che poi venivano trasmessi alle procure distrettuali perché aprissero indagini? Chi li suggeriva? Su quali basi? Sono le domande a cui sta cercando di trovare risposta il procuratore capo Raffaele Cantone che indaga sulla presunta attività di dossieraggio condotta dal 2019 da Pasquale Striano, luogotenente della Guardia di Finanza in forza al nucleo di Polizia valutaria di Roma, ma distaccato alla Dna. […]

Striano è indagato per accesso abusivo al sistema informatico: secondo l’accusa avrebbe effettuato centinaia di consultazioni delle banche dati senza giustificazione. Il militare, interrogato, ha spiegato invece di averle fatte legittimamente: quelle ricerche, ha detto, facevano parte degli «atti di impulso» del suo gruppo di lavoro, erano cioè iniziative mirate a trovare elementi utili per gli investigatori. 

Ha anche specificato che tale sistema costituiva la prassi dell’“Ufficio Sos” dell’Antimafia ed era pienamente autorizzato da Laudati (non indagato e ascoltato come testimone nei giorni scorsi a Perugia), con un protocollo che ammetteva la possibilità di non rendicontare per iscritto le ricerche che non avessero dato gli esiti sperati.

La sua versione, però, non convince gli inquirenti. Anche perché Striano non frugava soltanto tra le Sos. Si prenda il caso del ministro Guido Crosetto […] su di lui il finanziere indagato ha cercato e scaricato i documenti fiscali, senza alcuna esplicita ragione di investigazione né una Sos di riferimento […] La Procura di Perugia […] ha […] trovato situazioni analoghe: ricerche […] su personaggi noti, per lo più politicamente esposti, senza un motivo valido o con un motivo diverso da quello poi dichiarato. È un fatto che il contenuto di alcune Sos sia finito sulla stampa.

[…] il punto cruciale dell’inchiesta perugina non è la fuga di notizie, bensì, […] i criteri per cui l’“Ufficio Sos” dell’Antimafia decideva di approfondire una posizione piuttosto che un’altra […] È da capire, infatti, dove finissero gli esiti di tutte le interrogazioni ritenute abusive: restavano nei cassetti? Oppure venivano consegnate a qualcuno? Avevano dei committenti? Il «mercato delle informazioni finanziarie», per usare la definizione dei pm, era da tempo nel mirino dei più importanti magistrati italiani […]

Dossieraggio contro politici e manager: l’inchiesta che scuote l’Antimafia. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica il 3 Agosto 2023 

L’ipotesi dei pm: scaricati senza autorizzazione i dati di operazioni e conti correnti di centinaia di personaggi noti. Indagini partite da una denuncia del ministro Crosetto

Una potenziale centrale di dossieraggio abusivo, all’interno della Direzione nazionale antimafia. Che ha scavato, negli ultimi anni, nei conti correnti e nelle transazioni finanziarie di centinaia di personaggi noti, tra politici di primo piano, giornalisti e capitani d’industria. È questa la pista su cui, da mesi, sta lavorando la procura di Perugia con un’indagine delicatissima seguita direttamente dal procuratore capo Raffaele Cantone e che, già dopo l’estate all’esito di ulteriori accertamenti, rischia di diventare uno scandalo nazionale.

Il reato per cui i magistrati si stanno muovendo è l’accesso abusivo a sistemi informatici. A essere iscritto nel registro degli indagati è un maresciallo della Guardia di Finanza che per lungo tempo è stato a servizio della Dna. Dove, sospetta la procura sulla base di evidenze che ritiene inequivocabili, ha interrogato il sistema informatico interno per scaricare atti riservati senza autorizzazione: si tratta delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos) — cioè le transazioni anomale che le banche e gli operatori finanziari hanno il dovere di comunicare alla Unità di informazione finanziaria (Uif) di Banca d’Italia per approfondimenti — che vengono trasmesse per legge sia alla Dna sia al Nucleo Valutario della Guardia di Finanza.

Già nel corso del 2020 la pubblicazione su diversi quotidiani di Sos che riguardavano personaggi politici di primo livello (Matteo Renzi, Giuseppe Conte, Rocco Casalino, soltanto per fare alcuni nomi) avevano destato dei sospetti. Le Sos devono essere trattate con molta cura perché contengono informazioni riservate e in un certo senso neutre: come si diceva, Bankitalia fa un’istruttoria e invia a Dna e Finanza transazioni apparentemente sospette (bonifici dall’estero, strani scambi di denaro) ma che potrebbero essere lecite. Spetta infatti alla polizia giudiziaria effettuare gli approfondimenti. Quei documenti, invece, in alcuni casi sono finiti sui giornali prima che alle procure, circostanza che ha inquietato non poco i vertici delle Fiamme Gialle e del ministero dell’Economia. Ci sono diverse riunioni operative, vengono ricostruiti i percorsi di trasmissione delle Sos (finite appunto al Valutario, alla Dna, alla Direzione investigativa antimafia e in alcuni casi anche ai Servizi) ma non si arriva a nulla.

Le cose cambiano a ottobre dello scorso anno quando Guido Crosetto, ministro della Difesa, presenta una querela alla procura di Roma. «A seguito della pubblicazione di miei dati personali e non pubblici, accessibili solo da parte di persone autorizzate, ho deciso di sporgere una querela alla procura di Roma per capire come fossero stati recuperati», spiega oggi a Repubblica. La pm Antonia Giammaria delega i primi accertamenti e qualcosa trova. Un finanziere in servizio alla Dna avrebbe infatti, nei giorni precedenti alla pubblicazione degli articoli, effettuato ricerche proprio su Crosetto. Il militare viene perquisito e poi sentito: nega ogni irregolarità, ammette il fatto ma spiega che le interrogazioni al sistema venivano effettuate abitualmente dal suo ufficio per motivi di servizio. Non mentiva: nel senso che gli investigatori scoprono che sulla stampa sono finite solo alcune delle centinaia di interrogazioni alla banca dati che risultano dai log digitali fatte nell’ufficio della Dna. Ricerche non giustificate né da una richiesta a monte, né da una relazione a valle: nessuno per motivi di indagine chiedeva di scaricare quelle Sos. E soprattutto il lavoro non finiva in nessuna informativa alla procura. Perché allora? 

Il finanziere ha provato a scaricare sulle modalità organizzative dell’ufficio, la cui sezione all’epoca era guidata da un magistrato esperto, l’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, non convincendo però gli inquirenti. Il nuovo capo della Dna, Giovanni Melillo, ha cambiato nel frattempo le procedure, mettendo a guida di quel dipartimento tre sostituti. Il fascicolo sul finanziere è finito a Perugia, proprio perché Cantone possa valutare le responsabilità eventuali di magistrati in servizio a Roma. E soprattutto riesca a dare una risposta a una domanda inquietante: perché si cercavano dati sensibili su alcuni dei personaggi politicamente più esposti del nostro Paese? Chi aveva chiesto quelle informazioni? E soprattutto: a chi sono state girate?

Riportato da La Stampa.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” venerdì 4 agosto 2023.

Non una «mela marcia», ma tante. In tante ceste. Legate da «una rete» a più livelli istituzionali, che agisce sul mercato lucroso e opaco delle informazioni riservate a sfondo politico-economico-finanziario. Da usare per colpire i nemici, aiutare gli amici, acquisire crediti e promuovere carriere nelle istituzioni e nelle grandi centrali del potere parastatale, dove passano miliardi, rapporti internazionali, insomma la vera politica.

Per capire a fondo la portata potenziale della vicenda, occorre ricostruire il funzionamento di quella che viene considerata la banca dati investigativa più ampia e completa a livello internazionale. Chi ha la chiave per accedervi, trova un tesoro. 

È la Procura nazionale antimafia a detenerla […] Sullo sfondo c'è l'enorme aumento di importanza delle informazioni finanziarie dal punto di vista investigativo, a cui è corrisposta una parallela crescente influenza della Guardia di finanza, anche in rapporto agli altri corpi di polizia giudiziaria.

Il nucleo originario di questa attività è rappresentato dalle Sos, segnalazioni di operazioni sospette che la legge impone a banche, intermediari finanziari, professionisti (notai, avvocati, commercialisti), assicurazioni e sale da gioco anche online quando rilevano operazioni anomale, che potrebbero nascondere riciclaggio di denaro sporco, finanziamento a terroristi e trasferimento di proventi di reati. 

Il funzionario di banca riceve un allarme dal sistema informatico e lo valuta. Poi trasmette la segnalazione all'Uif, l'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia.

Bankitalia fa un ulteriore vaglio, se necessario chiedendo informazioni più precise. 

Negli ultimi due anni le Sos valutate «a classe di rilevanza alta» sono il 40%. Poi inoltra la segnalazione in tre direzioni: due di polizia (Direzione investigativa antimafia e Nucleo valutario della Guardia di finanza), una giudiziaria. La Procura nazionale antimafia.

Dove un gruppo di magistrati e di investigatori le analizza, incrociandole con tutti gli atti giudiziari che in tempo reale la sua banca dati acquisisce dalle Procure territoriali: indagini, sentenze, intercettazioni, perquisizioni e sequestri, misure di prevenzione patrimoniale, interdittive antimafia. Persino informazioni su mafia e terrorismo provenienti dai servizi segreti, grazie a un recente accordo.

[…] Tutte le operazioni bancarie oltre 15mila euro vengono registrate. Il software Gianos (Generatore indici di anomalia per operazioni sospette) è un'eccellenza mondiale e fa uno screening sulla base di centinaia di parametri, periodicamente raffinati. Risultato: le 840 Sos del 1997 sono diventate 14.602 nel 2008, poco più di 100mila nel 2019 e 155mila l'anno scorso. Nel primo semestre di quest'anno sono state 78mila, quasi tutte per riciclaggio. Le regioni più coinvolte sono Lombardia, Lazio e Campania.

[…] Partendo da una semplice operazione anche di modesto importo (compresi bonifici di poche migliaia di euro, frazionati nell'arco di una settimana), genera una formidabile ricostruzione economica e relazionale attorno a una persona. Alcune Sos non vengono sviluppate per carenza di rilevanza. Altre vengono catalogate come «di profilo interessante». La Procura nazionale antimafia fa di questa miniera d'oro informativa due «servizi[…]: la trasferisce su loro richiesta alle Procure distrettuali che già stanno indagando sulle persone coinvolte; la gira alle stesse Procure come impulso per nuove indagini. Anche la Finanza le elabora e, nel caso, le segnala alle Procura per indagare. È proprio il Nucleo valutario, che ora indaga su delega di Cantone, a occuparsene.

[…] le Sos non sono notizie di reato ma uno spunto investigativo. Nel gioco politico-economico, rappresentano armi letali. Dunque costituiscono «materiale prezioso ma da maneggiare con cura, come le intercettazioni» […] Negli ultimi due anni, la diffusione delle Sos a livello pubblico è cresciuta in modo esponenziale. E diverse Procure hanno sospettato l'esistenza di una «rete». 

Anche perché alcune Sos venivano divulgate prima ancora di finire sulle scrivanie dei pm. Con tempistiche sospette. E finalità talvolta molteplici. Non escludendo, sia come finalità accessorie sia come danni collaterali, l'uccisione in culla delle indagini attraverso l'anticipata messa in allarme dell'interessato. Così è per esempio accaduto a Roma, nell'inchiesta sulle truffe sulle mascherine.

Uno degli effetti di questa vicenda, se usata strumentalmente, potrebbe essere una stretta sulle Sos e sul metodo di lavoro della Procura nazionale antimafia […] Il nome di Crosetto, da cui è partita l'inchiesta, richiama due fasi chiave della stagione cominciata con il trionfo meloniano alle elezioni: formazione del governo e la stagione di nomine nelle grandi aziende pubbliche. Crosetto ha avuto un ruolo di primo piano, con posizioni anche apertamente antagonistiche rispetto a Palazzo Chigi. Sia su Leonardo, la roccaforte dell'industria militare; sia sulla Guardia di Finanza. In questo mercato di potere e ricatti una Sos può salvarti la carriera. Ma anche stroncarla.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” sabato 5 agosto 2023. 

[…] UF201700000000385948. È il numero di protocollo di una Segnalazione di operazioni sospette. Per la precisione, quella «inoltrata da un intermediario bancario nei confronti di Carrai Marco». Conteneva la «descrizione dell’attività sospetta» (un bonifico estero da 500mila euro sul suo conto corrente personale) e i «motivi del sospetto»: importo anomali e assenza di causale. 

Secondo prassi, la successiva relazione tecnica dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, inviata al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza, contestualizza la segnalazione. È poi la stessa Finanza a connettere queste informazioni grezze con le indagini giudiziarie, a informare i pm, a sviluppare i dati «interessanti».

Nel caso di Carrai, erano tre le Sos ritenute meritevoli di «approfondimento» in ragione di «reiterate anomalie». Nell’ambito di questa «analisi» la Finanza si era imbattuta nel 2019 nella «altrettanto anomala emissione di un assegno circolare» di 5mila euro richiesta da Carrai con beneficiaria «una neo-impresa di consulenza che vedeva come titolare effettivo e amministratore unico il senatore Matteo Renzi». 

Per questo alla Sos era stato allegato l’estratto del conto corrente di Renzi con il dettaglio dei bonifici tra il 2018 e il 2020, compresi quelli ormai famosi dall’Arabia Saudita. Informazioni tratte dall’anagrafe tributaria, dichiarazioni dei redditi, elenco fatture, atti notarili.

Renzi è entrato anche in altre Sos. Motivo per cui da anni denuncia operazioni di dossieraggio. […] 

Fatto sta che dati sensibili di questo tipo sono tra quelli drenati dalle centinaia di ricerche informatiche su cui sta indagando ora la procura di Perugia. Ricerche effettuate in parte nella banca dati della Procura nazionale antimafia, in parte in quella della Finanza. Quindi le informazioni originate dalle Sos possono prendere due strade diverse: una legittima, nell’ambito di inchieste giudiziarie; l’altra parallela, abusiva e con finalità improprie, fino all’ipotesi di killeraggi e ricatti.

Negli ultimi anni, Sos e riguardanti personaggi politici sono diventate di dominio pubblico. Quella sul ministro Crosetto, da cui è partita l’indagine, riguardava 1,8 milioni di euro ricevuti tra il 2018 e il 2021 nell’ambito della sua attività professionale da Leonardo, colosso pubblico dell’industria militare. 

Con una Sos, peraltro un rivolo della stessa inchiesta fiorentina su Renzi, erano stati segnalati dall’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia alla Guardia di finanza pagamenti della Moby dell’armatore Vincenzo Onorato a Grillo e Casaleggio per totali 850mila euro, a fronte di «accordi di partnership» e consulenze. […] E così è poi stata sviluppata a Milano, con l’archiviazione per Casaleggio e l’accusa di traffico di influenze illecite per Grillo.

Nel 2021 Rocco Casalino, superportavoce del premier Conte, era finito in una Sos in quanto catalogato come «soggetto politicamente esposto». Una banca aveva inviato all’Uif di Bankitalia la segnalazione di 126 bonifici. Alcuni di modesto importo e destinati al compagno Josè Carlos Alvarez Aguila, cameriere cubano che a sua volta era stato oggetto di una precedente Sos per operazioni di trading online. Nessuna conseguenza giudiziaria. «Sono stato segnalato per aver spostato i miei soldi dalla banca alla Posta», aveva commentato Casalino all’epoca. Oggi dice all’Huffington Post: «Quando me lo dissero, ebbi subito l’impressione di qualcosa di molto strano». Anche Conte era stato oggetto di segnalazione per vicende fiscali, nel 2018 quando poi sarebbe diventato premier. 

La Sos più recente riguarda la ministra Daniela Santanchè, per la lucrosa compravendita di una villa a Forte dei Marmi, in società con la moglie del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha fruttato 1 milione di guadagno in meno di un’ora. […] 

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” domenica 6 agosto 2023.

«La Procura nazionale antimafia non è un colabrodo, le Sos uscivano da altri canali», dice Federico Cafiero De Raho, che l'ha guidata dal 2017 al 2022 e oggi è deputato del M5S. 

Che impressione del caso dei dossier sui politici?

«Appare gravissimo per il sospetto di utilizzo di elementi riservatissimi, ricavati dalle Sos, segnalazioni di operazioni sospette. Ma si sta facendo confusione su competenze e regole degli uffici che ne dispongono. Trattati come centrali di dossieraggi. Cosa totalmente falsa». 

In che senso?

«Si omettono due circostanze fondamentali. La prima: non tutte le Sos arrivano alla Procura nazionale antimafia, ma solo quelle attinenti alle sue competenze su riciclaggio di denaro compiuto dalle organizzazioni mafiose e terroristiche. La seconda: le Sos sono schermate da un codice criptato che rende i nomi non leggibili; invece a Direzione investigativa antimafia e Nucleo speciale valutario della Guardia di finanza arrivano Sos in chiaro, con i nomi leggibili». 

Come fa la Procura nazionale antimafia con le Sos?

«Vengono trattate da un applicativo informatico molto avanzato, che incrocia in automatico i nomi di persone e società presenti nelle Sos con quelle delle banche dati delle Procure. Nessuno può avere accesso». 

Poi che cosa succede?

«All'esito della ricerca automatica, le Sos che hanno dato corrispondenza positiva vengono inviate alle Procure distrettuali. Secondo regole precise e con protocolli di sicurezza […]». 

[…] Chi lavora su queste Sos, all'interno della Procura nazionale?

«Il magistrato con gli ufficiali di polizia giudiziaria». 

Com'era organizzato l'ufficio quando lei arrivò?

«C'era un magistrato, Antonio Laudati, con una ventina di persone della Dia e del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza. Distaccati presso la Procura nazionale per esperienza, competenza, capacità lavorativa. […] a coordinare l'ufficio era un procuratore aggiunto: Giovanni Russo, che oggi è stato nominato dal governo Meloni al prestigioso incarico di capo del Dap, dipartimento dell'amministrazione penitenziaria». 

Ricorda il finanziere Striano, su cui ora indaga la Procura di Perugia?

«Solo di nome».

[…] Quando è andato via l'ufficio era ancora così?

«Sì. Fino al 18 febbraio 2022, quando sono andato in pensione». 

Poi il suo successore, Melillo, ha modificato l'organizzazione, con tre pm al posto di uno.

«Non conosco quello che è successo dopo. So che il sistema era rigorosamente controllato, con una filiera stringente […]». 

Negli anni in cui è stato procuratore ha mai avuto sospetti?

«Assolutamente no. Se abbiamo chiesto trasferimenti di ufficiali di polizia giudiziaria, è per motivi di produttività, non di infedeltà. Anzi, ricordo che un giorno si creò allarme perché un giornale pubblicò una Sos su un politico. Chiesi spiegazioni ai colleghi. Verificarono che quella Sos non era mai arrivata alla Procura nazionale. Dunque era uscita da un altro circuito. Feci una nota apposita».

[…] Come fa a escludere che qualcuno entri nelle banche dati?

«È normale che gli ufficiali di polizia giudiziaria abbiano accesso alle banche dati. Ma con due limiti: il perimetro del dossier che gli è stato assegnato; la tracciabilità dell'operazione. Fuori da questi limiti, l'accesso è abusivo, un reato. Non si fanno pesche a strascico. Naturalmente non c'è una telecamera di sorveglianza, ma attraverso le password si può risalire all'autore».

Fratelli d'Italia ha sottolineato che gli ultimi tre procuratori nazionali antimafia sono poi entrati in Parlamento: due con il Pd, lei con il M5S.

«Sembrano attribuire il dossieraggio al procuratore nazionale. Fuori dal mondo. Si parla di cose che non si conoscono. Molto raramente le Sos sui politici arrivano alla Procura nazionale. Solo quando riguardano un sospetto riciclaggio mafioso. Dunque se sono uscite, ciò è avvenuto utilizzando altri canali».

Che cosa intende?

«Sarà l'inchiesta del procuratore Cantone, che conosco e stimo, a dircelo. […]».

Ha fatto bene Crosetto a denunciare qualcosa di simile alla P2?

«Un discorso valido avendo la certezza di un'unica regia, che per anni ha messo a rischio la democrazia. Al momento non credo che si sappia». 

La Procura nazionale ne uscirà ridimensionata?

«Credo di no. Svolge un ruolo di grandissima importanza e le Sos costituiscono indicatori utili per smascherare fatti di riciclaggio mafioso o terroristico. […]».

Riportato da Il Domani.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian per “Domani” domenica 6 agosto 2023.

Una nuova P2, secondo il ministro della Difesa Guido Crosetto. Una fabbrica dei ricatti o dei dossier, i titoli più eclatanti delle testate giornalistiche. C’è chi ha evocato persino la stagioni in cui il giornalismo è stato utilizzato per minare le istituzioni democratiche, venendo meno alla funzione più alta: il controllo del potere. 

Ha scatenato tutto ciò l’indagine della procura di Perugia sul tenente della finanza che avrebbe avuto accesso in maniera abusiva a documenti riservati su politici. Nessuno si è però soffermato sulla genesi dell’indagine, cioè su come sia nata questa inchiesta della magistratura sui “dossieraggi” contro le istituzioni.

È nata dopo un articolo di Domani, che svelava per la prima volta le cifre reali e milionarie delle consulenze ricevute dal ministro della Difesa Crosetto. Compensi che arrivavano non da un settore qualunque. Ma dall’industria delle armi, ambito dunque che lo pone in palese conflitto di interessi con il suo ruolo: gli affari con Leonardo e altre aziende del settore sono proseguiti fino al suo incarico di governo. 

In molti ne avevano chiesto le dimissioni. Lui si era difeso alla Berlusconi: «Dati privati», ossia fatti suoi, insindacabili. Ma i cittadini, forse, non sono tenuti a conoscere se un ministro ha introiti inopportuni per la carica che ricopre? Forse in Italia funziona diversamente che nel resto dell’Unione Europea?

[…] Il ministro reagì al nostro scoop minacciando querele. In realtà la denuncia per diffamazione non è mai arrivata perché ha scelto una strada ancora più violenta contro l’informazione. Violenta ma silenziosa: presentare un esposto per individuare chi aveva fornito le informazioni ai giornalisti autori dello scoop. In pratica ha chiesto alla procura di Roma di cercare le fonti di Domani. 

Questo avrebbe dovuto suscitare reazioni indignate di tutta la politica, ma nessuno né a destra né a sinistra ha sollevato la questione. La richiesta del ministro è stata presa in carico dai pm romani, che hanno effettivamente iniziato un’indagine come da desiderio del ministro delle Armi.

Non deve stupire: la procura capitolina ultimamente si è distinta per un atteggiamento ostile nei confronti del giornalismo di inchiesta, è la stessa che ha acquisito i tabulati dei giornalisti di Report (Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola) per indagare su una loro fonte dopo un esposto di Matteo Renzi; lo stesso ufficio ha mandato i carabinieri in redazione a Domani per sequestrare un articolo dopo che il sottosegretario Claudio Durigon ha presentato querela […]; è la stessa procura che ha rinviato a giudizio il nostro direttore, Emiliano Fittipaldi, per un articolo di cronaca giudiziaria su Giorgia Meloni e gli affari nelle mascherine.

Questo è il contesto ostile contro il giornalismo di inchiesta in cui matura l’attività della procura di Perugia, che ha ricevuto da Roma gli atti dell’indagine iniziata su spinta di Crosetto per svelare le fonti di Domani. 

A Perugia l’indagine si è allargata e ha preso di mira il gruppo di lavoro interno alla procura nazionale antimafia, dove fino all’anno scorso lavorava il tenente Pasquale Striano. L’inchiesta ipotizza un’attività di dossieraggio contro politici. Nessuno però  […] ha spiegato in che modo sarebbe avvenuto e molte sono le omissioni sulla modalità di lavoro di questo pool di investigatori all’interno della procura antimafia […].

[…] Tra i vari atti con cui lavorava questo gruppo c’erano le segnalazioni per operazioni sospette (sos): sono i documenti dell’antiriciclaggio, l’Unità informazione finanziaria di Banca d’Italia, l’ufficio […] che analizza e intercetta i flussi finanziari ritenuti sospetti. Le sos sono diventate negli anni uno strumento imprescindibile per la lotta alla corruzione, alle mafie, all’evasione e riciclaggio.

Spesso in queste relazioni finiscono nomi di chi ricopre cariche istituzionali e siede in parlamento. Se i politici o persone a loro collegate compiono operazioni bancarie anomale, visto che ricadono nella categoria Pep (persone esposte politicamente), scatta l’alert dell’istituto di credito, il quale invia la segnalazione all’antiriciclaggio di Banca d’Italia, la Uif appunto. 

La prima conseguenza dell’indagine di Perugia e Roma è che si è creato un blocco politico trasversale che vorrebbe demolire il sistema delle sos. Va ricordata la mansione dell’investigatore ora sotto accusa: era uno degli uomini più esperti del gruppo interno alla procura nazionale antimafia che si occupava di studiare le segnalazioni sospette per incrociarle con altre banche dati della procura nazionale.

Il gruppo godeva fino all’arrivo del nuovo procuratore Giovanni Melillo della massima fiducia e il suo lavoro ha prodotto l’apertura di molte indagini in giro per l’Italia. […] Con la denuncia di Crosetto e il clamore dell’indagine di Perugia, sos è diventato sinonimo di spionaggio. Una cosa possiamo dirla con certezza lo scoop sulle consulenze milionarie di Crosetto non nasce da una segnalazione dell’antiriciclaggio. Peccato però che pur sapendolo, i giornali che più hanno cavalcato la vicenda hanno dato un’informazione errata: hanno scritto che i dati finiti su Domani erano contenuti in una sos. 

Questo ha prodotto il desiderio di vendetta contro l’antiriclaggio di un vasto blocco politico che va da Renzi a Fratelli d’Italia passando per Lega e Forza Italia, e anche nel Pd qualcuno sta ragionando su che fare. È curioso che la guerra alle sos la stiano combattendo soprattutto quei leader che in passato soni finiti nella rete dell’antiriciclaggio, e certamente non perché il finanziare gli ha teso una trappola. Piuttosto per le loro operazioni bancarie spericolate. Di certo però per raccontare i conflitti di interesse del ministro abbiamo usato altro materiale, non le ormai famigerate sos. […]

In questa confusione ormai generale una cosa è certa: dei soldi ricevuti da Crosetto dall’industria delle armi nessuno ne parla più, il paese l’ha digerito così come i giornali. Il conflitto di interesse resta lì, è più importante il presunto dossieraggio ordito da un tenente, che dopo decenni di lotta alle mafie in giro per l’Italia […].  

Una cosa è certa: "lo spione delinquente” è arrivato al nome di Crosetto verificando alcuni nomi legati alla criminalità organizzata. Stava indagando sui fratelli Mangione, che hanno un profilo inquietante, un capitale relazione fatto di contatti con personaggi legati alla criminalità organizzata. I Mangione sono tutt’ora soci del ministro. Cosa avrebbe dovuto fare un investigatore? Lasciare perdere queste figure solo perché hanno un socio potente?

L’impressione è che tutto questa polvere sollevata serva a sferrare l’attacco a strumenti decisivi per chi indaga […] Ma è un articolo apparso su un foglio digitale poco conosciuto che dà conferma di un tentativo del potere di arginare ogni genere di controllo. 

L’articolo è a firma Guido Paglia, direttore di Sassate, persona molto vicina al ministro: racconta un retroscena sulla volontà del nuovo comandante generale della finanza, Andrea De Gennaro (nominato da questo governo), di voler approfondire quanti dei suoi finanzieri hanno accesso a dati sensibili dei politici. Il messaggio ai naviganti è chiaro: state attenti a dove mettete le mani, su chi indagate. Il potere vi osserva.

Riportato da L’Identità.

Come nascono i dossier anti-vip, Rapetto: attenzione ai nomi non pubblicati. Redazione su L'Identità il 5 Agosto 2023 

Spioni di Stato – Come nascono i dossier anti-vip: attenzione ai nomi non pubblicati

di UMBERTO RAPETTO

Non caschiamo dal pero. Lo scandalo dei dossier non può sbalordire proprio nessuno. Appartiene ad una quotidianità sopita, ad una normalità trascurata: quel combattere con le informazioni fatto di abilità, scorrettezze, creatività dell’intreccio, infedeltà di soggetti autorizzati, commercio sotterraneo di carte e supporti magnetici.

Ecco come nascono i dossier. La costruzione di fascicoli multimediali sul conto di qualcuno hanno una ricetta ormai nota a tutti. Il committente (quello che non sempre salta fuori), una volta individuato il bersaglio, sa di dover disporre di qualcuno la cui password equivale ad un “Apriti Sesamo” capace di spalancare la grotta digitale in cui sono custodite le infinite ricchezze dei nostri tempi: i dati, quelli necessari a radiografare chi viene preso di mira. Non serve un ritratto artistico, ma piuttosto un disegno caricaturale che evidenzi quegli elementi che piacciono e servono a chi ha conferito il delicato incarico.

L’artista sa bene di correre rischi ma confida di farla liscia persino a dispetto dei “log”, ovvero i registri automatizzati che annotano ogni azione compiuta su un determinato sistema informatico nel rispetto dei “privilegi” concessi ad uno specifico utente.

In condizioni di legittimità le architetture tecnologiche consentono l’accesso a chi è stato abilitato in ragione delle mansioni da svolgere e – una volta inseriti il cosiddetto “id-user” (che identifica chi bussa alla porta) e la “parola chiave” (che abbinata dà conferma dell’autenticità dell’interlocutore) – gli consentono di agire nel perimetro assegnatogli. Il “log” annota chi/quando fa cosa, riportando i dettagli delle interrogazioni, delle risposte ottenute, delle stampe eseguite, dei file salvati: difficile sbugiardare un meccanismo che con fastidiosa precisione non perde nulla di quanto accade.

In qualunque momento – “tabulati” alla mano – si può chiedere all’interessato il perché del lavoro svolto e chi è prudente – anche nelle organizzazioni più lacunose – ha cura di prender nota (e magari verbalizzare) l’input ricevuto, la riconducibilità all’indagine svolta, l’esito (cosa e dove è stato “salvato”) e l’eventuale necessità di estendere/incrociare le ricerche.

La documentazione (cartacea o elettronica, poco importa) viene inserita in cartelle (materiali o digitali) e resa inaccessibile a terzi non autorizzati facendo ricorso a casseforti o file protetti crittograficamente, procedendo alla loro trasmissione (senza conservare copia) a chi ne deve far uso lecito con passaggi di consegna controfirmati e alla distruzione (o cancellazione non recuperabile) di quanto rimasto a disposizione dell’operatore.

Se le attività vengono svolte a seguito di un ingaggio non istituzionale, restano le rigorose registrazioni dei “log” ma si perdono le tracce delle informazioni reperite.

Il nemico di chi indaga? E’ il tempo. Chi deve far luce su certi orribili episodi ha un avversario inesorabile, costituito dal trascorrere del tempo. I “log” ingombrano e spesso hanno dimensione superiore a quella degli archivi consultati perché per ogni riga di una “scheda” disponibile ci possono essere pagine e pagine di azioni svolte da più operatori in momenti diversi… Il periodo di conservazione dei “log” varia in ragione delle norme in tema di “data retention” e dei costi da sostenere in termini di risorse tecnologiche necessarie…

Chi vende o regala i dati cui riesce ad accedere considera il calendario che scorre il principale alleato. Un domani la ricostruzione del suo lavorare alla tastiera potrebbe esser resa impossibile perché nel frattempo i “log” sono stati eliminati per far spazio sui dischi dedicati a quello scopo…

Dossier & fughe di notizie. Le raccolte viscerali di dati difficilmente finiscono sui giornali e il più delle volte sono armi di ricatto e condizionamento. “Io so che tu sai che io so” potrebbe essere scolpito in un prossimo Palazzo della Civiltà…

I dati possono essere proiettili capaci di perforare la corazza anche di chi si ritiene blindatissimo.

Quel che finisce indebitamente in una redazione può essere considerato carta o file proveniente da attività delittuosa e incombe lo spettro dell’incriminazione per ricettazione, ma nonostante questo a spaventare è quel che non arriva ai giornali ma pende come la spada di Damocle sulla testa di chi è stato scelto come vittima.

Riportato da Il Giornale.

Chi è il croupier? Da alcuni dati dello scorso maggio emerge che dalle banche nel 2022 sono arrivate 155mila segnalazioni di operazioni sospette, le famose sos. Augusto Minzolini il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Da alcuni dati dello scorso maggio emerge che dalle banche nel 2022 sono arrivate 155mila segnalazioni di operazioni sospette, le famose sos. Di queste solo 25mila sono state trasmesse alla Dna. Diciamo che su 200 giorni lavorativi l'anno quegli uffici avrebbero dovuto verificarne poco meno di mille al giorno. Impossibile. Allora c'è da chiedersi in quel grande calderone di informazioni pronte all'uso come vengono decisi i casi, le persone su cui indagare? Visto che non è possibile verificare tutte quelle notizie come vengono pescate nel mazzo da magistrati e finanzieri e con quale «ratio»? Probabilmente scopriremmo che sono scelte o perché saltano fuori i nomi dei soliti sospetti, o perché alla selezione sovrintende una logica politica o parapolitica, o perché riguardano persone più o meno note che garantiscono un'eco mediatica ad una potenziale indagine: se non fosse così non si comprenderebbe la storia degli ultimi quarant'anni di questo Paese.

Tutto ciò per dire che nessuna scelta è neutra, specie se riguarda un politico di qualsiasi colore: chi lo sostiene pecca di ingenuità o ha interesse a crederlo. Ecco perché, senza polemica, anche tra chi fa il mestiere di giornalista ci dovrebbe essere un minimo di umiltà nel ragionare sui criteri che si nascondono dietro alla diffusione delle «sacre carte». Cioè bisognerebbe porsi degli interrogativi su chi è il croupier che le dà e sul perché. Sempre che non si vogliano trasformare i giornali in cassette postali dove magistrati, deep State, corpi deviati imbucano notizie, vere o false, da dare in pasto all'opinione pubblica. Per dirla tutta: a volte la notizia più succulenta non è la «carta», il «dossier» ma il soggetto che la offre e la logica per cui lo fa. All'epoca erano più interessanti le notizie pubblicate da Mino Pecorelli su O.P. o chi ne muoveva i fili? Altro esempio: a posteriori era più notizia l'avviso di garanzia che nel '94 innescò la caduta del governo Berlusconi per una vicenda che poi non portò a nulla sul piano giudiziario, o «l'intelligenza» che fece uscire quella notizia proprio in quel momento recapitandola al Corriere della Sera con l'obiettivo di determinare una serie di conseguenze politiche? Lo stesso discorso vale per la questione sollevata dal ministro Crosetto - con le possibili relazioni con la nascita del governo Meloni - su cui la Procura di Perugia sta indagando e sugli altri casi che possono essere collegati alla vicenda del finanziere «pifferaio».

Ora è legittimo che qualcuno sostenga convinto che la storia si esaurisca solo nell'attivismo e nella curiosità di un ufficiale della Guardia di finanza che ha approfittato della libertà che gli concedevano i protocolli interni della Dna e che non ci sia altro dietro. È una visione un po' semplicistica per chi spesso nei suoi ragionamenti fa ampio uso del sospetto e della dietrologia. Tant'è che dalle stesse parti si annota giustamente che lo stesso finanziere ha rivelato che un magistrato di primo piano gli aveva commissionato un report in via riservata sugli affari di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. È una notizia che stride con la tesi minimalista, ma ci sta. Questo non vuol dire, però, che chi la pensa diversamente, che chi immagina che ci sia ben altro sotto, abbia torto. In fondo tra gli elementi cardine della democrazia c'è il pluralismo dell'informazione: sapere che ci sono giornali che si limitano a pubblicare «le carte» e altri, invece, che sono più curiosi di scoprire il nome del croupier, della «manina», del perché le dà, è in fondo una garanzia per il nostro bistrattato Paese.

Estratto dell’articolo di Domenico Ferrara per “il Giornale” domenica 6 agosto 2023.

[…] Cafiero De Raho è il plastico esempio della liaison tra dem e penstallati. E lo dimostra anche il suo pedigree familiare e professionale. «Salvate il soldato Cafiero». Era il 2021 e l’allora ministro dell’Interno piddino Marco Minniti scriveva queste parole all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, per sponsorizzare la candidatura di De Raho all’indomani della nomina del collega Melillo alla procura di Napoli. Rimaneva il posto di procuratore nazionale antimafia. Posto che De Raho avrebbe ottenuto poco tempo dopo.

Ma sulla vicenda il Csm archiviò tutto non ravvisando anomalie. Nel 2000 De Raho si sposa con Paola Piccirillo, anche lei magistrato e il cui fratello Raffaele, quando il ministro della Giustizia era il dem Andrea Orlando, dal 2014 al 2018 è stato direttore generale della Giustizia penale e capo del Dipartimento per gli affari di giustizia (Dag). A maggio 2020 l’allora Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede nomina il cognato di De Raho suo capo di Gabinetto. In perfetta continuità.

Il 26 maggio scorso De Raho è stato nominato vice presidente della Commissione antimafia ed ha subito tuonato contro la maggioranza di governo, colpevole a suo dire di esercitare «ogni giorno un potere assoluto». 

E per tale motivo si è anche auto proclamato «guardiano» dell’esecutivo. Insomma, non ha perso tempo a mettere subito le cose in chiaro. Di tempo invece ne avrebbe perso parecchio, 10 mesi per l’esattezza, quando era procuratore nazionale antimafia per dar seguito alla richiesta della Procura generale della Corte di Cassazione che il 14 settembre 2020 chiedeva una relazione sull’inchiesta Aemilia sui presunti legami con le cosche calabresi di Cutro e il Pd in Emilia Romagna e sull’operato del pm Marco Mescolini (quest’ultimo verrà poi cacciato dal Csm dalla Regione con l’accusa di aver «aiutato» il Pd).

Relazione - esplosiva - firmata poi dall’ex procuratore antimafia Roberto Pennisi e insabbiata per anni e giunta solo pochi mesi fa sul tavolo del Guardasigilli, che ha avviato un’indagine ispettiva coperta da segreto. Nel testo, vergato da Pennisi, si fanno i nomi di alcuni esponenti dem (tra cui Graziano Delrio) che avrebbero dovuto essere indagati ma che vennero in qualche modo «salvati».

Le uniche persone a essere indagate nell’inchiesta Aemilia sono stati due politici di centrodestra, Pagliani e Bernini, poi prosciolti da ogni accusa. […]

E pensare che nel 2016, il M5s attaccava duramente il Pd proprio sulla maxi inchiesta Aemilia accusandolo di collusioni con le cosche. Ma le urla e i vaffa durarono poco. Qualche anno dopo, infatti, alle politiche del 25 settembre 2022, il procuratore De Raho (nato a Napoli) viene candidato alla Camera dei Deputati proprio dal M5S come capolista nel collegio plurinominale Emilia Romagna 3, dove risulterà eletto, e in quello della Calabria. Coincidenze?

Estratto dell’articolo di Luca Fazzo per “il Giornale” sabato 5 agosto 2023.

Come è potuto accadere che la Dna, la Procura nazionale antimafia voluta da Giovanni Falcone per combattere Cosa Nostra, diventasse il crocevia di una attività criminale di dossieraggio e di manovre giornalistiche? 

È questa la domanda che bisogna porsi davanti alla indagine della procura di Perugia che ha portato alla luce centinaia di accessi abusivi alle banche dati per confezionare veleni e scoop. Tutto […]  partiva dalla struttura creata all’interno della Dna per incamerare le Sos, le segnalazioni di operazioni sospette provenienti dall’Ufficio antifrodi della Banca d’Italia.

Segnalazioni che nella stragrande maggioranza dei casi non avevano niente a che fare con la criminalità organizzata, ma che all’interno della Dna sono state utilizzate per colpire il nemico di turno. 

Sulle attività di questa sorta di centro occulto si stanno concentrando le indagini della procura di Perugia. Pasquale Striano, il luogotenente della Guardia di finanza scoperto a interrogare senza motivo la banca dati in innumerevoli occasioni, […] è solo un pezzo del meccanismo deviato. La caccia ai suoi complici è aperta, qualche risposta i pm l’hanno già trovata.

Il problema è che l’attività di Striano […] è stata resa possibile solo dalla espansione a dismisura dei poteri della Dna, nata per coordinare le indagini antimafia delle diverse Procure italiane, e divenuta un organismo inquirente non previsto da alcuna legge ma qualcosa di più, una sorta di struttura di intelligence finanziaria fuori da ogni controllo. La centosessantamila Sos arrivate ogni anno sui tavoli della Dna sono la benzina che ha alimentato questo motore deviato.

L’espansione della Dna inizia quando a dirigerla è Franco Roberti, oggi eurodeputato del Pd, ma raggiunge la sua punta massima quando diventa procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho, ora deputato con i 5 Stelle. Il caso esplode quando il ministro grillino Alfonso Bonafede fa circolare un testo che allarga a macchia d’olio i poteri della Dna, creando la reazione di numerosi procuratori a partire dal milanese Francesco Greco, che va in Parlamento a denunciare i pericoli dell’operazione e per questo viene attaccato frontalmente da Cafiero.

Greco chiede che venga spezzato il monopolio delle Sos da parte di Guardia di finanza e Dia, che anche polizia e carabinieri possano accedere al materiale utile alle indagini. D’altronde è quello che prevederebbero le direttive europee. Ma in Italia si va nella direzione opposta, il monopolio di quei dati è un potere enorme. É così che nasce la struttura parallela all’interno della Dna. 

Iniziano ad accadere cose strane che solo adesso, alla luce dell’inchiesta di Perugia, assumono una spiegazione chiara. A Milano e in altre Procure si guarda con stupore e preoccupazione la facilità con cui certe Sos arrivano sui giornali, si cerca la falla negli uffici giudiziari, o nelle sezioni di polizia giudiziaria. Invece nella gran parte dei casi le Sos erano ancora ferme a Roma, al blindatissimo Ufficio antifrodi della Banca d’Italia. E nei computer della Dna, quelli dove il luogotenente Striano succhiava i segreti.

Solo con l’arrivo alla Dna di Giovanni Melillo, nuovo procuratore nazionale, si è corso ai ripari. La struttura di analisi delle Sos, quella dove lavorava Striano agli ordini del sostituto procuratore Antonio Laudati, è stata rivoltata come un calzino. Ma per anni in quelle stanze si sono accumulate fuori da ogni controllo notizie riservate. Lì si è scelto quale usare per colpire il nemico di turno. Come - secondo quanto riporta ieri la Verità - da una indagine antimafia a Roma, dal conoscente del conoscente di un indagato si arriva a Crosetto. […]

Non solo dossieraggio su Crosetto. Corvi anche sulla Lega. Luca Fazzo il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Prima o poi si capirà quanto in questa storia abbiano contato le ambizioni personali, le amicizie, gli affari, i vantaggi economici. Di certo finora c'è che nel cuore della Direzione nazionale antimafia si era creato un centro di potere occulto, un punto di raccolta di notizie riservate su centinaia di italiani più o meno in vista. «Una struttura di intelligence finanziaria non prevista da alcuna legge», l'ha definita un addetto ai lavori. In che modo siano stati impiegati i dossier è in buona parte ancora da capire. Ma è evidente che il passaggio in tempo reale di notizie riservate alla stampa amica è stata per oltre due anni una delle armi più utilizzate dalla struttura occulta per colpire i propri nemici.

In questi giorni le sconcertanti novità emerse grazie all'indagine della procura di Perugia vengono lette con attenzione quattrocento chilometri più a nord, a Milano. Perché è qui, nella procura del capoluogo lombardo, che i pm dovettero fare i conti con uno dei casi più eclatanti di diffusione di materiale segreto basato sulle Sos: le segnalazioni di operazioni sospette dell'Uif di Bankitalia, che del centro di potere operante in Dna erano lo strumento principale.

Accade tutto nel giugno 2021, mentre la procura milanese indaga sulla Film Commission della Regione Lombardia, amministrata da uomini in quota Lega. Alcuni commercialisti legati al Carroccio finiscono nel mirino dei pm. Ma quando l'indagine è ancora in corso una sfilza di Sos riguardanti i leghisti finisce in prima pagina su Domani (lo stesso quotidiano che pubblicando le Sos del ministro Guido Crosetto ha dato il via all'inchiesta di Perugia). A Milano scoppia il finimondo, parte la caccia alla talpa tra gli uffici della Procura e della Guardia di finanza. Fin quando si scopre che quelle Sos a Milano non erano ancora arrivate. Erano ancora ferme a Roma, negli uffici inaccessibili dell'Uif. Oltre ai funzionari di Banca d'Italia, gli unici ad avere accesso a quelle Sos erano i finanzieri, come il luogotenente Pasquale Striano, in servizio alla Direzione nazionale antimafia.

Ma non è tutto. Perché poco dopo accade sullo stesso versante un altro episodio che manda l'allora procuratore capo a Milano Francesco Greco su tutte le furie. Greco viene a sapere che dagli uffici della Dna, guidata allora da Federico Cafiero de Raho, è partita una relazione informativa proprio sulle attività del partito di Matteo Salvini. Una clamorosa fuoriuscita dai compiti istituzionali della Dna, che può occuparsi solo di mafia e terrorismo, non indagando in proprio ma coordinando i lavori delle procure distrettuali. A che titolo indaga sulla Lega? Per Milano, quell'invasione di campo è la prova provata che Cafiero de Raho sta lavorando per mutare pelle alla Dna, trasformandola in una specie di superprocura. La pretesa di Cafiero de Raho di avere in esclusiva la gestione delle decine di migliaia di Sos provenienti dalla Banca d'Italia è funzionale a questo obiettivo. Ed è grazie a questo monopolio che all'interno della Dna può crearsi il centro di potere scoperchiato dall'indagine di Perugia dopo la denuncia di Crosetto.

In questo momento, l'inchiesta della procura umbra è a un bivio. Perugia, come sottolinea ieri il deputato di Azione Enrico Costa, è competente solo se tra gli indagati ci sono magistrati. È in vista di questa possibilità che la procura di Roma, quando si è imbattuta nel nome di Antonio Laudati, sostituto procuratore in Dna e capo di Striano, si è fermata e ha mandato le carte a Perugia. Ma adesso o Perugia decide di incriminare Laudati, o restituisce tutto a Roma, decidendo che il sottufficiale è l'unico colpevole. Ma accetterebbe Striano di restare col cerino in mano? Luca Fazzo

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “La Stampa” sabato 5 agosto 2023.

«Non sono una spia, non ho divulgato all'esterno le notizie recuperate nella banca dati della Dna e non ho cercato appositamente informazioni sul ministro Guido Crosetto. Ci sono arrivato partendo da un'altra ricerca per un problema di riciclaggio». 

Pasquale Striano, il tenente della Guardia di Finanza indagato dalla Procura di Perugia per accesso a dati informatici sulla presunta attività di dossieraggio contro il titolare della Difesa, respinge le accuse. E, attraverso il suo legale, l'avvocato Massimo Clemente, difende la sua pozione. 

Di più non vuole aggiungere, non vuole entrare nei dettagli perché ci sono le indagini in corso ma si definisce «amareggiato e preoccupato».  […] All'epoca dei fatti, la sezione della Dna dove lavorava il finanziere indagato era diretta dal magistrato Antonio Laudati, che non risulta tuttavia indagato. […]

Estratto dell'articolo di Luca Fazzo per “il Giornale” lunedì 7 agosto 2023.

Un asse di ferro tra la Direzione nazionale antimafia e il governo a guida 5 Stelle - compreso il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede - per tenere sotto controllo un intero paese attraverso le Sos, le segnalazioni di operazione bancarie sospette provenienti dalla Banca d’Italia. 

È questo il vero scenario dietro l’inchiesta di Perugia sulle centinaia di dossier e di veleni trapelati dalla Dna e utilizzati per scoop e attacchi. Ed è anche il grande assente dell’autodifesa tentata in queste ore dall’uomo che incarna il trait d’union tra i due versanti del patto: Federico Cafiero de Raho, procuratore capo della Dna dal 2017 al 2022, e oggi deputato dei 5 Stelle. 

[…]  è sotto il suo regno che le fughe di notizie, dapprima sporadiche, diventano sistematiche. Ed è sotto il suo regno che si concentrano gli accessi abusivi alle banche dati compiuti da Pasquale Striano, ricostruiti ora a ritroso dall’indagine della Procura di Perugia.

Poi c’è un altro dato di fatto, ancora più rilevante: è Cafiero a chiedere e ottenere dal governo Conte che la Dna diventi il terminale della grande maggioranza delle Sos. Non solo quelle riguardanti i temi istituzionali della procura nazionale, ovvero mafia e terrorismo, ma praticamente l’universo mondo. 

Ieri Cafiero affida la sua verità ad una lunga intervista alla Stampa, in cui nega l’esistenza di una centrale di dossieraggio interna alla Dna, sostiene di avere già trovato operativo (al momento della sua nomina, alla fine del 2017) la struttura che riceveva le Sos guidata dal sostituto procuratore Antonio Laudati, e dice persino di conoscere «solo di nome» il luogotenente Striano, quello indagato adesso dalla procura di Perugia.

 È una affermazione sorprendente, perché Striano negli uffici e nei corridoi della Dna lo conoscevano praticamente tutti. Ma ancora più sorprendente è un’altra affermazione di Cafiero: quella in cui dice di «non avere mai avuto sospetti» sull’esistenza di una falla, e di essere intervenuto una volta sola per la pubblicazioni sui giornali delle sos di un politico […] 

A colpire, tra le dimenticanze di Cafiero, è soprattutto quella sulle pressioni esercitate per allargare a dismisura i compiti e i poteri della Dna, grazie ai rapporti privilegiati col governo e col ministro della Giustizia. È Alfonso Bonafede, su input di Cafiero, a scegliere di andare in senso contrario alla settima direttiva antiriciclaggio dell’Unione Europea, che raccomanda di rafforzare e estendere il ruolo degli uffici di informazione finanziaria (per l’Italia è l’Uif di Banca d’Italia) allargandone il potere di «disseminazione»: termine che indica la diffusione delle notizie sensibili ad ogni entità investigativa in grado di svilupparli, compresi i servizi segreti.

L’Italia a trazione grillina sceglie di andare invece nella direzione opposta, e consente alla Dna di mantenere pressoché il monopolio del flusso di segnalazioni. 

Ieri Cafiero nella sua intervista sostiene che alla sua procura pervenivano solo le Sos «attinenti alle sue competenze su riciclaggio di denaro compiuto da organizzazioni mafiose e terroristiche». Peccato che tra i dossieraggi compiuti grazie agli accessi abusivi non compaiano nomi di boss o di jihadisti ma di politici, imprenditori, personaggi pubblici. Tra le sos finite sui giornali, tanto per dire, ci furono anche quella sull’ex capitano della Roma Francesco Totti, nel pieno del suo tempestoso divorzio.

Riportato da Libero Quotidiano.

Domani, dossieraggio: il giornale di De Benedetti nasconde la notizia. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 06 agosto 2023

Quanti sono attualmente i giornalisti a disposizione dei Servizi e di altri apparati dello Stato per diffondere notizie ed informazioni con il solo scopo di screditare o mettere in difficoltà politici non graditi? Numeri, ovviamente, è impossibile darne ma non sarebbero pochi. L’inchiesta della Procura di Perugia, caratterizzata peraltro da un’ennesima fuga di notizie che rischia di comprometterne gli esiti, al momento ha messo ancora una volta in evidenza l'esistenza di canali privilegiati fra uomini delle Istituzioni e giornalisti per veicolare fuori dai protocolli ufficiali comunicazioni riservate o coperte dal segreto.

La storia è nota: alcuni esiti degli accertamenti effettuati dall'ex maresciallo della Guardia di finanza Pasquale Striano distaccato presso la Direzione nazionale antimafia e che ufficialmente sarebbero dovuti servire a fini info-investigativi, come le segnalazioni di operazione sospette (Sos) nei confronti del ministro della Difesa Guido Crosetto, furono pubblicati lo scorso ottobre con grande risalto sul Domani. 

Stranamente, però, il giornale di Carlo De Benedetti in questi giorni sta nascondendo la notizia circa gli sviluppi dell’indagine nata proprio dalla denuncia di Crosetto dopo la pubblicazione di tali atti. Gli investigatori, da quanto si è potuto apprendere, avrebbero accertato che Striano si sarebbe incontrato con il giornalista del Domani a ridosso dei giorni in cui quest’ultimo aveva pubblicato lo scoop. Da capire, quindi, se si sia trattato di una casualità o meno. Pare, infatti, che Striano fosse legato da un’amicizia risalente nel tempo con l’autore degli articoli incriminati.

In passato, come afferma il direttore dell’Unità Piero Sansonetti, i giornalisti che avevano rapporti con i Servizi o con i vari apparati dello Stato erano chiamati in modo dispregiativo 'buste gialle'. "Si riconoscevano perchè quando entravano in redazione tiravano fuori dall'interno della giacca o dalla tasca dei pantaloni una busta gialla con all'interno le 'veline' da pubblicare", ricorda Sansonetti.

Adesso con lo sviluppo tecnologico di carte nella classica busta giallo ministeriale ne girano meno trattandosi nella maggior parte dei casi di documenti che vengono fatti circolare con sistemi di messaggistica istantanea come whasttap, criptati e che mettono al riparo da intercettazioni.

In questo rapporto hanno tutti da guadagnare: il giornalista pubblica lo scoop e gli agenti dei Servizi o degli apparati dello Stato riescono a far uscire le informazioni d’interesse. Il tema è capire chi ci sia dietro i singoli operatori dei Servizi o delle Forze di polizia.

Difficile pensare, tornando alla vicenda Crosetto da cui è nato il caso, che l'ex maresciallo Striano possa aver messo a repentaglio la sua carriera professionale senza un motivo valido che, in ipotesi, potrebbe essere anche di carattere economico ad oggi però non riscontrato. Come è difficile immaginare che possa aver fatto tutto da solo come invece in queste si sta cercando di accreditare. Possibile che i capi di Striano non abbiano verificato cosa egli facesse durante il giorno? Striano si è difeso affermando che produceva dei report ma ciò sarebbe una aggravante in quanto certificherebbe che si possono effettuare accertamenti senza alcun limite, anche a carico del Presidente della Repubblica, come avrebbe detto interrogandolo la pm romana Antonia Giammaria.

Ad esempio, dove sono custoditi, a parte finire in prima pagina sul Domani, gli accertamenti che Striano ha effettuato? «Il mio assistito non ha mai fatto alcun dossier, ha sempre fatto il suo lavoro nel rispetto delle regole». A dirlo ieri all’Adnk è stato l’avvocato Massimo Clemente, difensore di Striano. «Siamo colpiti dal clamore che ha assunto questa vicenda. Abbiamo appreso dalla stampa che l'indagine dalla Procura di Roma è stata trasferita a quella di Perugia.

Davanti ai magistrati di piazzale Clodio», ha spiegato il penalista, «il mio assistito ha reso un interrogatorio dove ha fornito la sua versione dei fatti e non ha difficoltà a farlo nuovamente davanti ai pm di Perugia. Ora confidiamo che il lavoro della magistratura sia rapido per poter dimostrare che non ha commesso alcun reato: ha sempre svolto il suo compito con rigore, senso del dovere e non ha mai divulgato notizie a terzi. Il suo lavoro era investigare, lo fa da quasi trent’anni. Non ha mai usato le indagini per attività di dossieraggio».

Riportato da La Verità.

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “La Verità” sabato 5 agosto 2023.

La classe politica si aggrappa spesso alle notizie del giorno per giustificare le proprie azioni e trarne vantaggio. […] Dunque, non c’è da sorprendersi che qualche onorevole strumentalizzi i fatti di cronaca per addomesticare la realtà a proprio favore. Semmai stupisce che al gioco si prestino alcuni giornali […] 

[…] parliamo […] dell’ultimo scandaletto sulle indagini abusive a carico di alcune figure istituzionali. Tutto nasce dalla denuncia del ministro della Difesa Guido Crosetto, il quale ha visto spiattellate sulle pagine di un quotidiano alcune notizie che riguardavano la sua dichiarazione dei redditi e che avrebbero dovuto rimanere segrete perché non sottoposte a indagini.

Niente di grave [...]. Solo elementi coperti da riservatezza, che invece sono diventati pubblici anche se il ministro non era neppure al centro delle indagini. Gli accertamenti dell’autorità giudiziaria hanno appurato che un pubblico ufficiale appartenente alla Direzione nazionale antimafia ha probabilmente raccolto quelle informazioni, accedendo abusivamente alla banca dati del sistema e passandole a un giornale che le ha pubblicate. Fin qui la cronaca e l’inchiesta. La Procura di Perugia dovrà accertare se vi siano stati reati […] 

E però la classe politica, spalleggiata da alcuni giornali che non vedono l’ora di rifarsi dei buchi subiti, cioè delle notizie che non hanno mai pubblicato, ha pensato bene di usare la questione per gridare al complotto e sostenere che nel nostro Paese esista una centrale che spia gli onorevoli, accedendo abusivamente alle banche dati nazionali per poi dare in pasto alla stampa le notizie.

A strillare sono principalmente Matteo Renzi e i grillini, i quali - a differenza di Crosetto - nel passato sono stati effettivamente oggetto di accertamenti per operazioni che hanno destato l’attenzione degli uffici preposti al controllo dei flussi finanziari. Come ricorderete, l’ex premier ha ricevuto dosi massicce di denaro prima dell’acquisto di una villa e, successivamente, ha incassato centinaia di migliaia di euro per prestazioni svolte a favore di società riconducibili a Stati esteri. 

Tutto ciò ha spinto le autorità ad accendere un faro, segnalando alla Procura le operazioni ritenute sospette, e la notizia si è risaputa ed è finita sui giornali. Nel caso dell’ex portavoce di Giuseppe Conte, Rocco Casalino, a entrare nel radar dell’unità di informazione finanziaria contro il riciclaggio di denaro è stato il fidanzato cubano, il quale negli anni del lockdown e del Covid ricevette un certo numero di bonifici sul proprio conto corrente e gli accrediti non passarono inosservati.

Insomma, sia nel caso di Renzi che di Casalino c’erano buoni motivi per indagare. Tuttavia, fare di ogni erba un fascio e cioè unire il caso del ministro Crosetto, il quale a sua insaputa ha avuto solo il torto di essere stato socio di un’azienda in cui altri azionisti non avevano la fedina penale pulita, a quelli di Renzi e Casalino, per sostenere che esista una spectre che accumula dossier contro la politica, non solo è una sciocchezza, ma è anche un falso. 

Nel corso degli anni, con la scusa di scovare gli evasori, proprio la politica ha consentito l’accesso ai conti correnti di ciascun cittadino. E dunque oggi il Fisco, ma anche gli investigatori, possono scoprire ogni nostro avere e ogni nostra transazione. E l’attenzione riservata ai cittadini è ancora maggiore quando le operazioni oggetto di accertamento sono a carico di quella che in gergo è definita persona politicamente esposta. […]. Siamo di fronte a normali indagini che il Parlamento ha autorizzato, anzi sollecitato, per combattere la corruzione.

Chiunque sia eletto a una carica politica o sia un famigliare di una personalità che ricopre incarichi istituzionali (come per esempio il portavoce del presidente del Consiglio) riceve un supplemento di attenzione, soprattutto quando maneggia soldi. È la legge anti corruzione, voluta proprio dai governi di sinistra per combattere uno dei fenomeni da essi sempre criticato. 

Dunque, perché oggi Renzi e Casalino si lamentano sostenendo che contro di loro ci siano stati episodi di spionaggio e di dossieraggio? Le operazioni che li videro chiamati in causa sono vere? Sì. L’ex premier ricevette o no centinaia di migliaia di euro che servirono per comprare casa? Sì. E Casalino aveva o no un fidanzato che, mentre il compagno apparecchiava conferenze stampa per il premier, faceva trading online su titoli borsistici incassando plusvalenze? Sì.

Dunque, di che si lamentano? Che nel nostro Paese per scovare evasori e corruttori si facciano segnalazioni all’autorità giudiziaria? Beh, le leggi le hanno fatte loro. Le incursioni sui conti correnti le hanno sollecitate loro. Sempre loro hanno derogato alla privacy di ciascun cittadino. Loro che, nutrendosi di campagne contro la Casta, hanno guadagnato le poltrone che occupano. E ora di che si dolgono? Che qualcuno li controlli? O che i giornali diano conto dei controlli a loro carico? È la stampa, bellezze. Fatevene una ragione: i giornali servono a questo. Certo, in Arabia Saudita - Paese per cui Renzi lavora - tutto ciò non sarebbe permesso. Lì i giornalisti che si azzardano a pubblicare qualche cosa che non piace al monarca, li fanno a pezzi. Jamal Khashoggi, strangolato e segato in due nell’ambasciata, insegna.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” domenica 6 agosto 2023.

«Se qualcuno vuole parlare di nuovo Sifar, l’antico servizio segreto deviato, non deve andare a bussare alla porta di Pasquale Striano, ma in via Giulia, presso la sede della Direzione nazionale antimafia». Le labbra dell’investigatore, dopo essersi staccate dal bicchiere con il succo di frutta, disegnano un sorriso sardonico. 

In passato l’uomo ha lavorato con Striano, il tenente della Guardia di finanza sotto inchiesta per i presunti accessi abusivi alle banche dati delle forze di polizia e sa bene quale sia il metodo di lavoro che impera alla Dna. 

Striano è accusato di aver spiato i redditi del ministro della Difesa Guido Crosetto e lui, con i suoi collaboratori, ha rivendicato di averli esaminati nell’ambito di un’indagine sui flussi finanziari della criminalità organizzata radicata a Roma che aveva portato ad accendere un faro anche su due soci del politico. Un’investigazione che sarebbe stata allargata, come accade nelle indagini per riciclaggio, anche alla moglie del fondatore di Fdi.

[…] In realtà più che di dossier bisognerebbe parlare di notizie pubblicate sul quotidiano Domani. Infatti Striano aveva rapporti di amicizia con i giornalisti del cosiddetto caso Metropol, Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Il rapporto tra i tre era certamente stretto, ma non appare diverso da quello che altri cronisti creano con le loro fonti. 

Certo negli ultimi mesi gli autori degli scoop anti destra sono stati molto sfortunati visto che due diverse inchieste, una della Procura di Milano e una della Procura di Perugia hanno messo nel mirino le loro gole profonde.

Mentre parla la nostra fonte, che ovviamente non vuole fare la fine dei colleghi, ci rivela quella che potrebbe essere una vera bomba. Una notizia che nelle ore successive ha trovato qualche conferma. 

Striano negli ultimi due-tre anni avrebbe tenuto una sorta di diario elettronico in cui ha inserito tutte le ricerche fatte per lavoro. Un documento digitale che potrebbe essere molto utile alle indagini portate avanti dal procuratore umbro Raffaele Cantone. «Quando mi chiameranno lo consegnerò e dirò: “Io ho fatto tutte queste attività, ecco il file”» ha annunciato al collega. 

È stato aggiornato sino al novembre 2022 e contiene tutto quello che Striano ha fatto a partire dal 2015, quando ha iniziato a lavorare presso la Dna. L’ufficiale ha realizzato una specie di griglia in cui sono stati inseriti i soggetti che erano finiti sotto osservazione e le segnalazioni di operazioni sospette utilizzate per gli approfondimenti. In alcuni casi sono stati copiati anche estratti degli appunti e delle informative che l’uomo aveva preparato.

L’idea dell’archivio di Striano nasce perché alla Dna i magistrati gli facevano improvvise richieste su temi da lui affrontati nei mesi precedenti e allora il finanziere ha deciso di realizzare un promemoria lungo centinaia di pagine con tutti i lavori eseguiti con all’interno migliaia di nomi. 

Per i personaggi più importanti coinvolti nelle sue analisi Striano avrebbe indicato anche a chi e quando era stato consegnato il report: «Dottor X», «Dottor Y».

[...] stiamo parlando di decine e decine di densissime annotazioni con relativi allegati che l’ufficiale avrebbe dovuto mettere a punto quando gli era già stato sequestrato il pc e non aveva più accesso alle banche dati. E invece in questo file sono contenute anche Sos molto datate. Un lavoro certosino che non poteva essere improvvisato. 

«Per fortuna esiste. Diversamente non avrei mai potuto ricordarmi se avessi compilato un appunto su tizio o su caio. Anche perché negli anni ho fatto un’incredibile attività di ricerca su migliaia di nomi. Per questo avevo bisogno di un promemoria sempre a portata di mano». 

A chi gli fa notare che in molti lo ritengono una specie di ghost writer di Domani, replica: «Io lavoravo per il mio ufficio non per i giornali». 

Per Striano le richieste dei magistrati spesso avevano finalità conoscitive, informative, ma nella maggior parte dei casi servivano a verificare la presenza o meno di alcune specifiche Sos nel database della Dna. Infatti i magistrati più volte avrebbero cercato di capire se in via Giulia affluissero tutte le segnalazioni o solo una parte. 

Il dubbio sorgeva soprattutto quando alert dell’Antiriciclaggio particolarmente sensibili e sconosciuti ai magistrati della Dna finivano sui giornali o venivano inviati a qualche Procura periferica anziché all’Antimafia. In quei casi veniva chiesto un check per controllare se la Sos fosse presente anche negli archivi della Dna.

È emblematico come sia nato l’appunto preparato circa un anno fa sui rapporti economici tra Silvio Berlusconi, uno dei principali clienti di queste preinvestigazioni, e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Sembra che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, il titolare dell’inchiesta sulla cosiddetta ‘ndrangheta stragista, si fosse lamentato del fatto che alcune Sos sull’argomento gli fossero arrivate da altri uffici giudiziari anziché dalla Dna. Per questo Striano preparò un corposo report, in cui riversò il patrimonio di conoscenza che aveva accumulato durante l’inchiesta sulla latitanza di Dell’Utri in Libano. Il tenente non sa se l’annotazione […]sia mai stata inviata a qualche Procura. 

Vale lo stesso discorso per il dossier preparato sugli affari di famiglia di Giuseppe Conte e Olivia Paladino, ispirato dagli articoli usciti sui giornali a proposito delle disavventure con l’Erario del suocero dell’ex premier, Cesare Paladino.

Le ricerche su Francesco Totti, avviate tra il 2018-2019, sarebbero, invece, state innescate da alcune Sos su un certo L. P. e altri manager «che spostavano soldi a destra e sinistra» e che avevano rapporti con tesserati della As Roma. 

Durante le indagini sarebbero stati individuati strani movimenti di denaro che coinvolgevano anche le mogli di alcuni calciatori. L’informativa in questo caso sarebbe stata trasmessa alla Dda di Roma. 

Medesimo destino per l’annotazione sugli affari dell’imprenditore Vito Nicastri, considerato il re dell’eolico in Sicilia. In questo filone finirono i presunti rapporti economici dell’uomo con l’ex sottosegretario leghista Armando Siri. «Per la storia di Nicastri sono stato in Sicilia due anni e abbiamo toccato gli interessi di tutte queste persone in tutte le salse. Sono stato a Trapani, a Castelvetrano» ha detto Striano.

[…] La nostra fonte ci ripete quello che gli avrebbe riferito l’indagato: «Lì dentro erano richiamate anche altre vicende, come le verifiche su Matteo Salvini e sui celebri 49 milioni di finanziamenti elettorali. Io questa storia, che risale al 2015-2016, l’ho vissuta in prima persona perché stavo a Reggio Calabria e abbiamo intercettato la segretaria di Roberto Maroni. Scoprimmo che dei soldi erano stati spostati a Bolzano e questa informativa è rimasta in un cassetto per molto tempo. Poi la tirò fuori un giornalista, Marco Lillo, che aveva preso questo file e lo aveva pubblicato. Ricordo ancora che lo fermammo in via del Corso, a Roma, e che lui con noi si giustificò dicendo: “Il dovere di un giornalista non è quello di tenere i documenti nei cassetti, ma di pubblicarli”».

Invece l’appunto su Matteo Renzi sarebbe partito da un articolo della Verità. La vicenda era legata a una segnalazione dell’Antiriciclaggio, su cui ha indagato la Procura di Firenze, che ha archiviato il fascicolo. In ballo c’erano 75.000 euro che una società di comunicazione statunitense, la Salt, avrebbe trasferito a una ditta di Portici, la quale, a sua volta, aveva girato a Renzi due bonifici, per complessivi 33.140 euro. Quel denaro era il corrispettivo spettante all’ex premier per la sua partecipazione a una conferenza ad Abu Dhabi, il 10 dicembre 2019. Anche in questo caso non sappiamo se il report sia stato inviato a Firenze o se sia rimasto nel cassetto di un magistrato della Dna.

«Io non ero uno che eseguiva gli ordini passivamente. Domandavo sempre le motivazioni alla base delle richieste che mi venivano fatte. Lo facevo con il mio referente». Che era quasi sempre il sostituto procuratore Antonio Laudati. «Per questo se mi chiedete: “Perché hai fatto questa ricerca?”, io so rispondere quasi sempre» 

[...] «Di certo quelle informazioni rappresentavano un patrimonio di conoscenza per il magistrato. Non erano cose da prendere sotto gamba». Ma che uso ne hanno fatto alla Dna? Striano non lo sa. «Può anche essere che la persona a cui li ho dati se li sia tenuti nel cassetto». Quindi il problema per il procuratore Cantone non sarà tanto individuare mandanti ed esecutori di una fantomatica centrale di dossieraggio, probabilmente inesistente, ma capire come alcuni suoi colleghi (non indagati) abbiano utilizzato gli appunti di Striano.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” domenica 13 agosto 2023.

Dalla vicenda del medico Francesco Narducci, sospettato senza prove definitive di essere il mostro di Firenze, all’omicidio di Meredith Kercher. La Procura di Perugia da anni affronta casi di cronaca ammantati di mistero. Più di recente, sul tavolo del procuratore Raffaele Cantone, oltre a quello celeberrimo su Luca Palamara, sono finiti i fascicoli riguardanti due presunte «talpe» e una fantomatica associazione massonica piena di giudici, la loggia Ungheria. Partiamo da quest’ultima. Dopo lunghe indagini i pm sono arrivati alla conclusione che il sodalizio fosse il frutto della fantasia del faccendiere Piero Amara, sedicente affiliato.

Da circa un anno l’istanza di archiviazione giace sulla scrivania della gip Angela Avila.

Forse la toga ha deciso di esaminare nel dettaglio tutta la documentazione delle investigazioni svolte dagli inquirenti. In gran parte trasmessa in giro per l’Italia per ulteriori approfondimenti e per perseguire alcune evidenti calunnie. 

Gli interrogatori perugini di Amara, al pari di quelli resi a Milano dall’avvocato, sono scoppiettanti e ci sono passaggi ancora inediti che riguardano anche la politica. In particolare l’ex segretario dem Nicola Zingaretti che sarebbe stato legato a un coimputato di Amara, il lobbista Fabrizio Centofanti. Il 26 ottobre 2020 a Perugia il faccendiere siciliano ha parlato a lungo con i magistrati di tale questione.

Nel verbale riassuntivo si legge: «So anche che c’è un rapporto molto stretto tra Nicola Zingaretti e Fabrizio Centofanti per avermelo detto quest’ultimo. Giuseppe Calafiore mi ha detto che Centofanti avrebbe finanziato la campagna elettorale di Zingaretti, ma non so nulla di preciso. Ricordo che in occasione della prima candidatura di Zingaretti venne organizzata una cena a casa di un avvocato amministrativista […]; il servizio di ristorazione venne organizzato e gestito da Centofanti».

Tra i presenti ci sarebbe stato anche un ex presidente della Corte dei conti. Non sappiamo se queste affermazioni siano giunte alle orecchie dei diretti interessati e se questi abbiano presentato querela come molti degli altri soggetti chiamati in causa da Amara.

Tra gli atti che abbiamo visionato, ci ha colpito anche la denuncia dell’ex pm Maurizio Musco. In essa è riportata la storia dell’Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata, presunto paravento dell’Ungheria, voluto dal defunto procuratore Giovanni Tinebra.

Carte alla mano Musco ricostruisce il circuito che ruotava intorno all’Opco e spiega le sue dimissioni dal Consiglio di presidenza: «Le ragioni del disaccordo erano dovute alla circostanza che i fondi (la Regione stanziava circa 500.000,00 euro l’anno) venivano impiegati, a mio giudizio, in modo insufficiente per lo studio della criminalità organizzata essendo destinati, in modo cospicuo, a cene e pranzi ai quali partecipavano tutti i componenti del Comitato scientifico.

Era prassi, infatti, che in tutte le occasioni in cui si riuniva, al termine dei lavori si andava a pranzo o a cena in ristoranti di lusso oppure negli stessi locali dell’Osservatorio nei quali venivano allestiti sontuosi catering. Inoltre, in relazione ai vari convegni che venivano organizzati annualmente (molti dei quali avevano scarsa attinenza con la criminalità organizzata), non solo i relatori ma anche i convegnisti invitati che risiedevano fuori dalla Sicilia venivano ospitati, per due tre giorni, in alberghi a quattro/cinque stelle a spese dell’Opco. La mia impressione era che Tinebra utilizzasse i fondi dell’Osservatorio per costruire una sua rete di rapporti personali con colleghi di tutt’Italia, avvocati, docenti universitari e rappresentanti apicali delle istituzioni».

I magistrati perugini hanno per le mani anche due fascicoli che affrontano il tema dei rapporti borderline tra fonti e cronisti. Gli indagati sono due presunte talpe. Uno è l’ex cancelliere della Procura, Raffaele Guadagno, che in agenda aveva i nomi di moltissimi giornalisti e che, prima di andare in pensione, aveva tentato una carriera di scrittore potendo contare su prefazioni e presentazioni di firme di primo piano del panorama giornalistico.

Il secondo è Pasquale Striano, il tenente della Guardia di finanza già distaccato all’ufficio segnalazioni operazioni sospette della Direzione nazionale antimafia. Entrambi rifornivano importanti giornali di notizie. Del primo non ha scritto praticamente nessuno se non noi, del secondo tutti i principali media e anche noi. Anzi noi per primi in entrambi i casi. 

[…] Un investigatore ci sconsiglia di trarre conclusioni affrettate visto che i media conoscerebbero solo «un millesimo» del materiale confluito in Procura. In sostanza della storia di Striano noi giornalisti avremmo una conoscenza minima. Ma anche di quella di Guadagno per la verità. In attesa che, entro settembre, i pm inviino al cancelliere in pensione l’avviso di chiusura delle indagini, gli atti preliminari del fascicolo, sorprendentemente, non sono ancora di pubblico dominio. L’ex cancelliere è indagato per accesso abusivo e rivelazione di segreto e anche il contenuto del suo cellulare ha riservato qualche sorpresa.

In particolare i magistrati stanno esaminando alcuni messaggi in cui si parlerebbe di favori a livello giudiziario e «paragiudiziario». Adesso queste comunicazioni, tutte da verificare (si tratta di millanterie o di reati?), potrebbero essere stralciate e inserite in un nuovo fascicolo. Ma i magistrati sono convinti che le violazioni siano ampiamente assodate, dal momento che sarebbero state trovate le prove del passaggio della richiesta di archiviazione per Ungheria a un giornalista, Antonio Massari del Fatto quotidiano.

La Procura ha sentito il cronista come testimone e questi si è avvalso del segreto professionale. La linea degli inquirenti è quella di salvaguardare il lavoro giornalistico evitando di contestare la ricettazione o il concorso nel reato di accesso abusivo a chi ha chiesto a Guadagno documenti coperti da segreto (anche perché bisognerebbe dimostrare l’effettiva consapevolezza del giornalista dell’illiceità della condotta). Una guerra alla libertà di informazione che la Procura non avrebbe nessuna intenzione di iniziare. E così sulla graticola rischiano di rimanere solo le fonti. 

Guadagno, dopo essere stato compulsato dal cronista amico e messo a rischio di perquisizione, ha denunciato un secondo ictus nelle ore in cui stava cercando di cancellare le prove contenute sul proprio cellulare. A livello mediatico, la sua vicenda ha incuriosito i media molto meno di quanto non abbia fatto quella di Striano che avrebbe effettuato investigazioni su molti uomini potenti. I suoi target venivano selezionati insieme con i magistrati o anche con i giornalisti? Ma soprattutto quei report con che finalità venivano compilati? […]

Striano ha raccontato di aver un file in cui ha ricostruito la storia di tutte le sue indagini: oggetto, committente, contenuto. Adesso toccherà alla Procura di Perugia recuperarlo e analizzarlo. Il tenente si incontrava e confrontava pure con i giornalisti del quotidiano Domani e in particolare con Giovanni Tizian e Stefano Vergine, gli stessi del caso Metropol.

Anche nella stesura del report sulle relazioni pericolose con frange della malavita dei fratelli Giovanni e Gaetano Mangione, soci di Crosetto, i cronisti hanno avuto un ruolo. Consulenti interessati? Committenti? Le indagini su Striano potrebbero anche svelare le singolari motivazioni alla base di alcune indagini. Infatti, a quanto ci risulta, alcune inchieste antimafia nascevano per risolvere questioni private di questo o quel magistrato. 

Nei giorni scorsi abbiamo raccontato che una toga avrebbe chiesto a Striano di passare ai raggi x una società che stava realizzando una speculazione edilizia su un terreno posto di fronte all’abitazione del giudice, a cui i villini rischiavano di oscurare la vista mare.

Prima era una proprietà della Curia generalizia dei frati minori conventuali, «poi acquisita da società accostate a più soggetti portatori da più che probabili interessi criminali» scrive Striano in un suo appunto. L’approfondimento, svolto a cavallo tra il 2021 e il 2022 è stato indirizzato alla Dda di Roma. Insomma in via Giulia interessi personali e piste investigative trovavano felici sintesi. 

Persino un filone una truffa legata all’ecobonus sarebbe nato per questioni di famiglia. Un sostituto procuratore nazionale avrebbe raccolto le lamentele dell’anziana madre sui dipendenti di un’impresa edile che stava effettuando lavori nel palazzo di residenza: brutte facce che circolavano su auto di grossa cilindrata. Allora la toga avrebbe sguinzagliato Striano […] Striano avrebbe scoperto «interessanti collegamenti con noti sodalizi riconducibili alla ‘ndrangheta». […]

Riportato da Il Fatto Quotidiano.

Estratto dell’articolo di Antonio Massari per “il Fatto quotidiano” domenica 6 agosto 2023.

[…] Finalmente però interviene La Verità, con Giacomo Amadori che ieri ci regala una perla: “Vedere i cronisti che alzano i calici insieme con i politici di fronte all’indagine su una fonte giornalistica un po’ ci preoccupa”. E su questo siamo perfettamente d’accordo. 

Il punto è che si tratta dello stesso Amadori che l’estate scorsa ha pubblicato una dozzina di articoli su un ex cancelliere della Procura di Perugia (accusato di essere la presunta fonte di chi scrive).

Uno “scoop” che, con suo rammarico, non fu ripreso da alcun giornale nazionale. Corredato dalle foto della presunta “talpa” (colpita da un ictus anni prima e da un ulteriore ictus durante le indagini della procura). Il vero “scoop” è scoprire che Amadori si preoccupa adesso e dà lezioni ai colleghi. È la “lesione” di giornalismo numero 4. Quella che riassume tutte le altre: quanto può essere ipocrita il giornalismo italiano con i propri lettori? La misura va da 1 ad Amadori.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” domenica 6 agosto 2023.

“Anch’io!”, “Io pure!”, “Ma io di più!”. Un esercito di finti martiri si accalca sui giornali per strappare qualche minuto di celebrità e centimetro quadro di carta stampata accanto ai titoloni sulla formidabile “centrale di dossieraggio”, anzi “fabbrica” o “mercato dei ricatti” che dalla Dna voleva distruggere Crosetto, ma anche il governo Meloni, ma pure l’intera politica italiana e probabilmente l’establishment mondiale. 

La notizia si riproduce per partenogenesi, senza uno straccio di fatto che giustifichi il clamore, visto che al momento risulta solo un maresciallo già trasferito e indagato per aver passato notizie (vere, e questo è il problema) a un giornale che le ha pubblicate (impedendo qualsiasi ricatto). Se ci siano reati, nessuno lo sa. Il sottufficiale nega di aver dato notizie e assicura di aver consultato banche dati fiscali perché era il suo lavoro di indagine anti-riciclaggio.

[…]  Eppure orde di postulanti sgomitano per infilarsi nel presunto scandalo. E – grazie a un’informazione ridotta a telefono senza fili, dove aggiungi qua e là e alla fine non capisci più da dove sei partito – ci riescono. […]

Il Riformatorio parla di “Killeropoli” con un pizzico d’invidia, visto che lo staff renziano progettava una “character assassination” per “distruggere la reputazione e l’immagine di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Casaleggio, Travaglio e Scanzi”. 

Ballusti già sa che sono “bombe a orologeria per conto terzi” (ma non indica né le bombe né i terzi), dall’alto del suo pedigree di spacciatore di falsi rapporti di polizia sull’omosessualità di Dino Boffo. Non poteva mancare il ghostbuster renziano Borghi, che lancia un’ideona: “Si abolisca la spazzacorrotti” (che non c’entra una minchia). Nessuno ha ancora tirato in ballo gli hacker russi o la Wagner, ma siamo solo al terzo giorno. Quindi bruciamo tutti sul tempo: ha stato Putin.

Dossieraggio su politici e manager”, l’avvocato del finanziere indagato: “Non ha mai divulgato notizie a terzi”. Estratto da ilfattoquotidiano.it sabato 5 agosto 2023.

“Il mio assistito non ha mai fatto alcun dossier, ha sempre fatto il suo lavoro nel rispetto delle regole”. A tre giorni dallo svelamento di una inchiesta della procura di Perugia su un ipotizzato dossieraggio ai danni di diverse personalità da parte di un finanziere, è il legale dell’indagato a parlare. 

L’avvocato Massimo Clemente, difensore di Pasquale Striano, l’ufficiale della Guardia di Finanza indagato per accesso abusivo a sistema informatico nell’inchiesta trasferita da Roma a Perugia all’Adnkronos dichiara: “Siamo colpiti dal clamore che ha assunto questa vicenda. Abbiamo appreso dalla stampa che l’indagine dalla procura di Roma è stata trasferita a quella di Perugia.

Davanti ai magistrati di piazzale Clodio – spiega il penalista – il mio assistito ha reso un interrogatorio dove ha fornito la sua versione dei fatti e non ha difficoltà a farlo nuovamente davanti ai pm di Perugia. Ora confidiamo che il lavoro della magistratura sia rapido per poter dimostrare che non ha commesso alcun reato: ha sempre svolto il suo compito con rigore, senso del dovere e non ha mai divulgato notizie a terzi”. “Il suo lavoro era investigare, lo fa da quasi trent’anni. Faceva parte di un gruppo che si occupava di indagini sulla criminalità organizzata. E se nel corso delle attività si è imbattuto in nomi di politici il suo lavoro è sempre stato sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria. Non ha mai usato le indagini – ribadisce il difensore del finanziere – per attività di dossieraggio”.

Riportato da Il Riformista.

Il Fatto Quotidiano, La Verità e Il Domani oggi pubblicano il dossier pieno di fango contro Guido Crosetto. Killeropoli: tre quotidiani oggi ci offrono un perfetto esempio di cosa è un dossier | Gli articoli contro Guido Crosetto. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Cos’è il dossieraggio? Oggi, sulle pagine di alcuni quotidiani nazionali (i soliti noti, peraltro), potete trovare un esempio perfetto.

Guido Crosetto, attuale Ministro della Difesa, tra i fondatori di Fratelli d’Italia insieme a Giorgia Meloni, fa una denuncia. Si scopre che un ufficiale della Guardia di Finanza sarebbe andato a cercare, illegalmente, ogni dato possibile su di lui per vedere se e in che modo era possibile attaccarlo. Quei dati poi finivano su alcuni giornali.

Oggi tre quotidiani, Il Fatto Quotidiano, La Verità e Il Domani, pubblicano uno dei dossier che sarebbe stato costruito dall’ufficiale delle Fiamme Gialle per attaccare Guido Crosetto.

La vicenda è nota. Guido Crosetto infatti 12 anni fa apre un b&b, uno dei tanti b&b sparsi per l’Italia: un piccolo investimento, che non supera i 20mila euro di capitale. Di questo investimento lui ci mette un quarto ed il resto è diviso tra più soci, tra cui anche Giuseppe Favalli, ex giocatore di calcio, ora dirigente sportivo ed allenatore. Due dei soci sono due fratelli che a Roma da anni gestiscono ristoranti di moda e sono tra i pr più conosciuti della capitale: sono incensurati e totalmente puliti. Il padre di questi ragazzi era finito in un’inchiesta con gravi accuse. Assolto totalmente. Quindi? Come si fa un dossier? Si accostano al papà i brutti nomi che erano accostati a lui nell’inchiesta, nonostante sia poi stato assolto. Quei brutti nomi si accostano (è paradossale: per eredità?) ai figli e quindi per magia vengono usati per accostarli nello stesso articolo a chi vogliamo infangare.

Ecco cosa avrebbe fatto il finanziere, ecco cosa è “killeropoli”. Ed ecco cos’è un dossier: un insieme di cose costruite per gettare fango anche quando non c’è fango da gettare. Di penalmente rilevante non c’è nulla, di “inopportuno” (parola molto in voga in queste settimane) ancora meno, di incompatibile con l’incarico attuale di Crosetto nulla, di conflitto d’interessi neanche l’ombra. Nulla: è solo fango, fango allo stato puro.

Quel dossier, quell’insieme di infami diffamazioni, oggi immancabilmente è finito su tre quotidiani. Due dei tre erano quelli che Crosetto ha denunciato alla procura di Roma. Quindi oggi gli atti illegittimi per cui questa inchiesta è partita, sono usati dai tre giornali più vicini all’indagato (tutti e tre lo presentano come un santo) per cercare di attaccare Crosetto.

È accettabile in un Paese civile? Noi crediamo di no.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Cosa sono le SOS, le segnalazioni di operazioni sospette? Le segnalazioni di operazioni sospette sono uno strumento di tutela contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo da parte di vari operatori e professionisti. Ecco come. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2023 

Una segnalazione di operazione sospetta, nota anche con l’acronimo SOS, è una segnalazione, fatta da un professionista relativamente a qualsiasi attività, compiuta o tentata dal cliente, che appare finalizzata al compimento di operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.

Alla base della segnalazione, vi è una anomalia, ovvero un comportamento che si giudica anomalo rispetto al profilo economico e finanziario del cliente. Se l’anomalia, al riscontro, non è giustificata da ragioni (supportate da documenti), si procede alla segnalazione all’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia. Attenzione: le SOS non violano gli obblighi di segretezza e, nel rispetto degli obblighi di legge, non comporta responsabilità di alcun tipo.

L’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF) è stata istituita presso la Banca d’Italia. La UIF, nel sistema di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, è l’autorità incaricata di acquisire i flussi finanziari e le informazioni riguardanti ipotesi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo principalmente attraverso le segnalazioni di operazioni sospette trasmesse da intermediari finanziari, professionisti e altri operatori.

La UIF si occupa di effettuare l’analisi finanziaria delle suddette informazioni, utilizzando l’insieme delle fonti e dei poteri di cui dispone, e valuta la rilevanza ai fini della trasmissione agli organi investigativi e della collaborazione con l’autorità giudiziaria, per l’eventuale sviluppo dell’azione di repressione.

L’Unità opera anche a livello internazionale. Infatti, partecipa alla rete mondiale delle FIU per scambi informativi essenziali a fronteggiare la dimensione transnazionale del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.

La base normativa sulla quale poggiano le SOS  è la sezione II, capo III del decreto legislativo 231/2007, articoli da 35 a 48.

Le SOS, lo strumento alla base dell'inchiesta nata da una denuncia del Ministro Guido Crosetto. Killeropoli, l’inchiesta sul dossieraggio dei politici. Ecco le segnalazioni di operazioni sospette trasformatesi in casi mediatici negli ultimi anni. Killeropoli è l’inchiesta relativa a una indebita visione e consultazione di dati finanziari di noti volti della politica, ad opera di un ufficiale di Guardia di Finanza. L’inchiesta è ora in corso a Perugia, presa in carico direttamente da Raffaele Cantone. Alla base c’è l’abuso nella consultazione dei dati provenienti da uno strumento, le SOS, segnalazioni di operazioni sospette, del quale si occupa l’Uif, l’Unità di Informazione finanziaria che fa capo a Bankitalia. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2023

Le comunicazioni di “operazione sospetta”, negli ultimi anni, hanno riguardato più volte noti esponenti del mondo politico o persone a loro vicine: mai nulla di penalmente rilevante, sia chiaro, solo fango sparso sui giornali per la polemica politica.

Non è la prima volta, dunque, che un caso simile coinvolge un nome della politica, come sta avvenendo in queste ore, relativamente al Ministro Guido Crosetto, per il quale proprio una segnalazione di operazione sospetta è alla base della denuncia che poi ha dato il via all’inchiesta in corso a Perugia, dalla quale emerge un abuso di consultazione di dati finanziari, da parte di un membro delle Fiamme Gialle.

A finire sotto la lente dell’Antiriciclaggio fu Matteo Renzi. Si era nel 2019: “Passaggio anomalo di soldi sui conti di Renzi”, fu questa la segnalazione della Uif alla magistratura. I Pm della Procura di Firenze disposero accertamenti anche sulla villa acquistata nell’estate del 2018 da Matteo Renzi. Le verifiche riguardavano la caparra da versare per la villa, una somma che Renzi aveva prontamente restituito alla persona che l’aveva anticipata, in nome di un rapporto d’amicizia. Tuttavia, l’operazione venne segnalata dall’Uif, l’Unità antiriciclaggio, come “sospetta”. Non seguì nessuna inchiesta giudiziaria, anche perché Renzi aveva chiarito tutto, ma la polemica politica divampò per qualche settimana.

Una nuova segnalazione su Renzi scatta nel 2022. Renzi, per le sue consulenze, aveva ricevuto una somma importante, versata in più tranche. Un fatto che divenne noto a causa proprio di una segnalazione di operazione sospetta inviata alla Guardia di finanza dall’Unità antiriciclaggio di Bankitalia. La procura di Firenze all’epoca stava già indagando su Renzi per i soldi ricevuti per una conferenza a Abu Dhabi: l’ipotesi di false fatture era stata però considerata infondata ed era stata richiesta l’archiviazione dell’indagine. Fu allora che il caso divenne di rilievo anche mediatico, per l’esposizione pubblica di dati personali, relativi al conto corrente di Renzi. Di nuovo fango gratuito quindi, di fronte ad attività assolutamente lecite.

Non solo Renzi finì nel mirino. Nel 2020, è la volta di Olivia Palladino, fidanzata dell’ex Presidente del Consiglio, allora in carica, Giuseppe Conte. Palladino, comproprietaria dell’ Hotel Plaza di Roma, venne stata segnalata dall’Ufficio Antiriciclaggio della Banca d’Italia per una comunicazione di “operazione sospetta” insieme alla sorella Cristiana Paladino e al fratellastro, John Rolf Shawn Shadow.  All’epoca finirono sotto osservazione le operazioni finanziarie della società Agricola Andromeda srl, la cui finalità era l’”utilizzo di aree forestali”, società collegata appunto alla famiglia della Paladino. La segnalazione fu relativa ad un finanziamento ricevuto dalla società di famiglia nel lontano 1994 dall’ex Banca popolare della Marsica. La cifra di cui si parlava era un miliardo delle vecchie lire.

Rimanendo nell’orbita M5S, sempre nel 2020, l’Antiriciclaggio si occupò del fidanzato di Rocco Casalino, allora potente spin doctor di Giuseppe Conte. José Carlos Alvarez Aguila, trentenne cubano legato all portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino, venne segnalato all’Ufficio antiriciclaggio di Palazzo Koch dall’istituto presso il quale aveva un conto corrente. La segnalazione era relativa ad alcuni pagamenti verso siti di trading online. Quei pagamenti erano “rilevanti rispetto al bilancio economico del cliente”. All’epoca, a dare chiarimenti sul caso fu lo stesso Casalino, che parlò di una truffa ai danni del suo compagno: “Durante il periodo del lockdown, Alvarez è stato attirato da un sito di trading online”, dichiarò Casalino. “La situazione è degenerata fino a sconfinare in un meccanismo simile a quello del gioco d’azzardo e della ludopatia“, tanto che “è arrivato a perdere in solo 2 mesi 18mila euro dei suoi risparmi”, disse il portavoce di Conte.

Chi ha usato l'antiriciclaggio per fare killeraggio politico? Da Perugia l’inchiesta sulle attività di dossieraggio politico partita da una denuncia di Guido Crosetto | Chi ha usato l’antiriciclaggio per fare killeraggio politico? Alessio De Giorgi su Il Riformista il 3 Agosto 2023

La chiameremo “killeropoli“. Chi ha usato in questi anni i sacrosanti ma delicatissimi strumenti dell’antiriciclaggio per fare dossieraggio politico? Chi e cosa ci stava dietro quella mole incredibile di accessi alla banca dati delle “Sos” (acronimo di segnalazione di operazione sospetta) da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza che si muoveva dietro lo scudo della Direzione Nazionale Antimafia? A quale titolo questo ufficiale accedeva alla banca dati per controllare i movimenti bancari di un centinaio di esponenti delle Istituzioni, personaggi più o meno famosi? E che fine faceva l’esito di tali accertamenti? Con che finalità in alcuni casi venivano passate alla stampa? Di quanti casi stiamo parlando? L’ufficiale si muoveva davvero in solitario? A rispondere a queste domande ci sta pensando la Procura della Repubblica di Perugia, con un’indagine condotta in prima persona dal Procuratore Capo, Raffaele Cantone.

Ma facciamo un passo indietro. Tutto nasce quando in autunno il quotidiano Il Domani svela in un articolo che l’attuale Ministro della Difesa, Guido Crosetto, aveva percepito da Leonardo, la società  italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, compensi per 2 milioni di euro per le sue attività di consulente e intermediario, attraverso le società di cui faceva parte prima di essere nominato ministro. L’informazione che aveva dato origine all’articolo del Domani non era fatta in un momento a caso: erano i giorni di scelta della nuova squadra di governo e l’obiettivo era quello di mettere in difficoltà il più papabile tra gli esponenti della maggioranza come Ministro della Difesa, prefigurando un conflitto di interessi.

Dopo la denuncia di Guido Crosetto, è venuto fuori che ad aver fatto accesso alla banca dati delle Sos per scoprire eventuali anomalie sul conto del politico di Fratelli d’Italia era stato per l’appunto un ufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso la Direzione Nazionale Antimafia che, insieme al Comando Generale della stessa Guardia di Finanza, è l’unica autorità che può vagliarle, dopo che sono state elaborate dall’Uif, l’Unità di Informazioni Finanziaria costituita presso la Banca d’Italia. E si è scoperto che quello stesso ufficiale delle Fiamme Gialle aveva fatto almeno un altro centinaio di accessi, su nominativi in molti casi considerati “sensibili” per i nomi delle persone coinvolte: politici, uomini delle istituzioni, capitani d’industria e chissà chi altro.

L’ufficiale è stato perquisito ed interrogato e in tale occasione ha dichiarato che era una pratica abituale da parte della sezione in cui era inquadrato, che al tempo era coordinata dal sostituto procuratore Antonio Laudati, attualmente sostituito – una volta scoperto il tutto – da un collegio di altri tre magistrati. L’inchiesta è quindi stata spostata a Perugia, per il possibile coinvolgimento (anche come parte lesa) di magistrati in servizio a Roma, e per la sua estrema delicatezza presa in carico direttamente dal Procuratore Capo Raffaele Cantone. Il reato contestato è l’accesso abusivo ai sistemi informatici, dal momento che gli accessi alla banca dati delle Sos non venivano fatte in seguito a richieste specifiche delle Procure distrettuali né sfociavano in richieste di istruttoria da parte della Dna alle procure locali, come normalmente accade.

Le segnalazioni di operazione sospette, elaborate dall’Uif, sono per loro natura “neutre“. Si tratta infatti di anomalie nella vita finanziaria di una persona, di operazioni apparentemente sospette, di somme ricevute o inviate che sono anomale rispetto allo storico di un conto corrente: potrebbe ovviamente trattarsi di attività illecite ma più spesso sono frutto del lavoro di una persona e quindi assolutamente legittime e lecite. Contengono sempre e comunque dati sensibilissimi per la privacy delle persone, che non dovrebbero certamente essere visualizzate dalle autorità senza averne motivo e che tanto meno devono finire nelle mani di giornalisti.

La domanda quindi è quella di partenza: quali ricerche sulla banca dati sono state fatte? A che titolo? Chi c’era dietro l’ufficiale della Guardia di Finanza e la sua attività di dossieraggio? In alcuni casi più che di dossieraggio si deve parlare di killeraggio? Perché in questi anni nessuno se ne è accorto e si è posto il problema, quando dati sensibilissimi di politici sono finite sulle prime pagine dei giornali? Due sono le vicende che vengono subito alla mente e che riguardano la stessa persona: Matteo Renzi. Nella prima vicenda, risalente al dicembre 2019, venne fuori un prestito “ponte”, della durata di qualche mese, fatto al Senatore di Italia Viva da un suo amico imprenditore per l’acquisto della sua ultima casa, mentre della precedente doveva ancora essere finalizzato l’acquisto. Nella seconda, il tristemente “famoso” conto corrente del Senatore, che fu pubblicato sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. In entrambe le vicende Renzi presentò formali querele che sfociarono in un nulla di fatto e ne parlo a lungo nel libro “Il Mostro. 

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

L'inchiesta partita da una denuncia del Ministro Guido Crosetto. Killeropoli, l’inchiesta relativa al dossieraggio sui politici. Emergono i primi dettagli. Cantone: “Già sentite numerose persone”. Killeropoli è l’inchiesta relativa a una indebita visione e consultazione di dati finanziari di noti volti della politica, ad opera di un ufficiale di Guardia di Finanza. L’inchiesta è ora in corso a Perugia, presa in carico direttamente da Raffaele Cantone. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2023

Si sono “estese rispetto all’ipotesi originaria di violazioni di notizie riservate in danno del ministro Guido Crosetto” le indagini della procura di Perugia su “alcuni” accessi a banche dati pubbliche “da ritenersi presumibilmente non leciti” da parte di un appartenente alla Guardia di Finanza distaccato presso un gruppo di lavoro che si occupava dello sviluppo di segnalazioni di operazioni sospette presso la procura nazionale antimafia.

Lo scrive il procuratore Raffaele Cantone in un comunicato. Cantone, che sta curando l’inchiesta in prima persona, data la delicatezza della materia, sottolinea che sono state già sentite “numerose” persone ed esaminata una “rilevante” quantità di documenti.

Il finanziere, inizialmente in forza al nucleo di polizia tributaria di Roma, era stato individuato nell’ambito degli accertamenti condotti inizialmente dai magistrati della capitale in seguito a una denuncia presentata dal ministro Crosetto nell’ottobre del 2022 in seguito alla pubblicazione su alcuni giornali di notizie riservate relative alla sua precedente attività professionale.

L’appartenente alle Fiamme Gialle era stato quindi “doverosamente iscritto nel registro delle notizie di reato – si legge nella nota – per accesso abusivo a un sistema informatico. Dopo l’interrogatorio, nel quale aveva rivendicato la piena correttezza del suo operato ed essendo emersi anche altri possibili accessi non leciti, la procura di Roma ha trasmesso, ad aprile, il fascicolo a quella di Perugia per “le valutazioni di competenza”.

I magistrati umbri sono infatti chiamati a occuparsi di tutti i casi che interessano i loro colleghi romani come persone offese dal reato o indagati.

L'inchiesta. Killeropoli, il ‘mercato’ delle informazioni riservate: il dossieraggio ai danni di politici, atleti e vip, spiati anche dati fiscali. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2023 

Provare a capire se oltre al militare della guardia di finanza ci sia un vero e proprio sistema dietro l’indagine sul presunto dossieraggio negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia aperta dalla Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ai danni di politici, manager e personaggi dello spettacolo. Una indagine nata dalla denuncia dell’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto sulla diffusione prima, e, in alcuni casi, pubblicazione sui media poi, di informazioni riservate. Capire chi chiedeva ricerche dettagliate e perché, alimentando di fatto un vero e proprio mercato di informazioni riservate.

Indagini che hanno visto l’attuale procuratore capo, Giovanni Melillo, consegnare alla procura di Roma (i fascicoli sono poi passati all’ufficio inquirente di Perugia per approfondire eventuali responsabilità dei pm capitolini) tutti gli accessi ritenuti anomali effettuati dal finanziere indagato. Il maresciallo delle fiamme gialle era assegnato a un gruppo di lavoro che si occupava delle segnalazioni di transazioni finanziarie sospette con gli accessi finiti sotto i riflettori dei magistrati del capoluogo umbro che sarebbero stati effettuati non solo dagli uffici della Dna a Roma ma anche da quelli della Guardia di Finanza.

Così come sottolinea Repubblica, le Sos (Segnalazioni di operazioni sospette) inviate, in base al profilo del soggetto in questione, da Banca d’Italia alla Dna, alla Finanza, alla Dia (Direzione Investigativa Antimafia) e ai Servizi segreti, potevano essere visionate solo dagli uffici in questione. Quelli della Direzione Nazionale Antimafia riguardavano solo profili  già presenti nell’archivio dell’Antimafia. Ecco perché il finanziere indagato talvolta ha consultato i fascicoli fuori dagli uffici di via Giulia.

Il militare al momento ha negato qualsiasi attività di dossieraggio motivando le ‘operazioni’, che avvenivano senza alcuna richiesta scritta, come attività “di impulso”, ovvero  in coordinamento con il magistrato competente (in Dna Antonio Laudati). In quest’ottica il procuratore capo Giovanni Melillo, poco dopo il suo insediamento avvenuto oltre un anno fa, ha voluto cambiare l’organizzazione dell’ufficio: tutto adesso viene tracciato e dietro ogni interrogazione alla banca dati ci deve essere una richiesta motivata per iscritto, anche per quanto riguarda le richieste fatte a voce per questioni di velocità.

Nel mirino della procura di Perugia non solo le Sos ma anche banche date fiscali da cui si estraggono dati sensibili. Negli ultimi anni fughe di notizie simili hanno riguardato oltre Crosetto anche gli ex premier Matteo Renzi e Giuseppe Conte oltre al portavoce di quest’ultimo Rocco Casalino. Ma anche atleti, personaggi dello spettacolo e manager.

Crosetto getta un’ombra su redazioni, Istituzioni e procure. Dopo un esposto del Ministro della Difesa emergono ripetuti accessi abusivi a dettagliate banche dati. E le fughe di notizie degli anni passati diventano improvvisamente meno sospette, Alessio De Giorgi su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

Per qualcuno è solo la punta dell’iceberg, per altri finirà tutto in una bolla di sapone. Certo è che l’inizio di questo agosto, più fresco delle ultime settimane di luglio, si è assai surriscaldato negli ambienti politici e giudiziari romani per questa nuova inchiesta – prima romana ed ora perugina – che chiameremo “killeropoli”.

Di che si tratta? Al momento, a causa (o sarebbe meglio dire grazie) di una denuncia dell’attuale Ministro della Difesa Guido Crosetto, sta emergendo che ci sarebbero state ripetuti accessi abusivi a banche dati molto importanti e delicate da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia e – da quanto si apprende – anche in quelli delle Fiamme Gialle.

Le banche dati “rovistate” sarebbero quelle relative alle “SOS” (le segnalazioni di operazione sospette) registrate dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia: si tratta di segnalazioni spesso automatiche, che riguardano anomalie nelle movimentazioni finanziarie di ogni cittadino italiano, che sia una “PEP” (persona politicamente esposta) o no e che – se correttamente utilizzate – sono uno strumento straordinario per combattere l’evasione fiscale, il riciclaggio di denaro, la corruzione politica e non solo.

A tali anomalie raramente corrisponde un illecito, più spesso sono operazioni assolutamente giustificate, ma è evidente che avere libero accesso alla banca dati che le raccoglie è un elemento che condiziona tutti: chi ne ha accesso, chi riceve le informazioni raccolte ed infine chi di queste informazioni è oggetto e in qualche modo le subisce (o ne potrebbe venire ricattato). Gli accessi abusivi riguarderebbero in realtà anche altre banche dati, altrettanto delicate: parliamo di informazioni sensibilissime che raccolgono la movimentazione bancaria o lo storico assicurativo di ciascuno di noi e che dovrebbero essere utilizzate solo in caso di una inchiesta giudiziaria, con un mandato di un giudice.

Al momento ad essere indagato ci sarebbe unicamente questo sottufficiale della Guardia di Finanza. Ad indagare invece è la procura di Perugia, in capo direttamente al Procuratore Capo Raffaele Cantone, persona ritenuta da molti di grande esperienza e grande autonomia, dopo che un mese fa improvvisamente l’inchiesta era stata spostata dove era nata e cioè a Roma: al momento non è dato sapere se il trasferimento è dovuto al fatto che magistrati della Procura della Capitale siano coinvolti in quanto vittime o in quanto possibili oggetto di ulteriori indagini. Ciò che è certo che sarebbero già “numerose” le persone ascoltate nell’ambito dell’inchiesta e che i documenti esaminati sarebbero “di rilevante quantità”.

Certo, tornano chiaramente alla mente alcune importanti prime pagine di questi anni, che rendevano pubbliche informazioni finanziarie sensibili che dovrebbero rimanere riservate. Per fare un veloce excursus delle più significative: nel novembre 2019 il settimanale l’Espresso rivela un prestito temporaneo che a Matteo Renzi fa un suo amico imprenditore; nel febbraio 2020 è La Verità a segnalare operazioni ritenute “sospette” e risalenti a tre anni prima della fidanzata di Giuseppe Conte; nel luglio 2020 sempre La Verità rende noto un cospicuo trasferimento di denaro tra Rocco Casalino ed il suo fidanzato, costringendo il primo a rivelare la ludopatia del secondo; nel novembre 2021 Il Fatto Quotidiano pubblica in prima pagina il conto corrente di Matteo Renzi; nell’ottobre 2022 il quotidiano Il Domani – gridando al conflitto di interessi – rivela l’ammontare delle consulenze con la società Leonardo di Guido Crosetto, qualche giorno dopo esser stato nominato Ministro della Difesa; nel gennaio 2023 è La Verità a svelare i sospetti dell’antiriciclaggio su alcuni bonifici del calciatore Francesco Totti verso case da gioco estere; in ultimo poche settimane fa sempre il quotidiano il Domani ricostruisce con dovizia di particolari i movimenti di denaro di Daniela Santanché nell’affaire che riguarda lei e le sue società. Nulla fa supporre che tutti questi accessi – a parte quello noto di Crosetto – sarebbero legati a questa inchiesta ma negli ambienti politici si fa notare come ad essere coinvolti siano sempre due o tre quotidiani e pochissimi giornalisti.

Da quanto emerge, ci sarebbero stati accessi alle banche dati su un centinaio di nominativi. Quali sarebbero le altre persone la cui vita patrimoniale e finanziaria è stata messa al setaccio? Politici, magistrati, giornalisti, imprenditori? E visto che in nessun altro caso si è proceduto alla pubblicazione, quale è stato il motivo? Non c’era interesse giornalistico o ci sono state trattative per evitare la pubblicazione?

Ed ancora: si è trattato di un caso isolato, magari in commistione con agenzie investigative border line e qualche giornalista, o esiste una ragnatela ben più vasta, una “killeropoli” che include anche pezzi della magistratura e dei servizi segreti e che forse ha avuto pure una regia politica, oltreché giornalistica? Ed a proposito di servizi, perché il Copasir – come è emerso nella giornata di ieri – se ne sta occupando? Domande assai inquietanti.

L’indagine poi pone questioni decisamente importanti anche al governo ed al mondo politico, che ieri ha commentato la vicenda solo in piccola parte: lo stesso Crosetto che ha parlato di un vero e proprio “dossieraggio” per condizionare la formazione del nuovo governo, i capigruppo di Fratelli d’Italia in sua solidarietà, Matteo Renzi, Raffaella Paita, Enrico Borghi, il ministro Adolfo Urso, che ha ricordato come la sua casella di posta elettronica fu violata nella scorsa legislatura quando era Presidente del Copasir.

Le procedure per l’accesso a queste delicatissime banche dati sono blindate? Esistono ulteriori falle, che si tratti dell’agenzia di recupero crediti che cerca informazioni finanziarie su una persona o di qualcosa di ben più grave? E perché nessuno ha indagato in questi anni sulle numerose fughe di notizie che ci sono state?

L’obbligatorietà dell’azione penale riguarda tutti come stabilisce la Costituzione, o viene esercitata in modo intermittente di fronte a fughe di notizie? Perché, per citare un caso recente ed eclatante, nel caso del sottosegretario alla Giustizia Del Mastro è partita l’inchiesta per la fuga di notizie sul caso Cospito mentre in altri casi è caduto tutto nel limbo?

Insomma, le domande cui l’inchiesta guidata da Cantone deve tentare di rispondere e le azioni che la politica deve mettere in atto per evitare che riaccada nuovamente, sono moltissime. Non resta che aspettarne gli esiti e vedere se, per l’appunto, si tratta di una “killeropoli” o di una passeggera bolla di sapone agostana.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

E' necessaria la scienza e la coscienza del farmacista. Killeropoli, tre riflessioni per non finire all’inferno cadendo dal pero. Alessandro Butticé su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

All’inizio del mese notoriamente con meno notizie, la stampa italiana, il 4 agosto, titola le prime pagine col solito clamore: “Macchina del Fango. La Repubblica dei dossieraggi” (Il Giornale), “La fabbrica dei ricatti” (La Repubblica), “Dossier riservati. Spiati oltre cento tra politici e VIP” (Corriere della Sera).

Non è mia abitudine commentare, da titoli e articoli stampa, indagini giudiziarie in corso. O che forse sono soltanto all’inizio. Se non per manifestare il mio rammarico per il continuo sbattere “il mostro” in prima pagina.

In questi giorni, “il mostro” sarebbe il luogotenente della Guardia di Finanza che avrebbe fatto diversi accessi alla banca dati delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos), il cui nome è stato già dato in pasto all’opinione pubblica. Contestualmente alla notizia della nuova sede ove è stato trasferito. Che io mi guardo bene dl ripetere. Perché è un “mostro” per il quale, assieme alla propria famiglia, vale la dovuta presunzione di non colpevolezza, che dovrebbe valere sempre per tutti. Anche nell’Italia giustizialista e del processo mediatico, che inizia sempre ben prima che un eventuale, e ipotetico, processo venga persino iniziato. In tale quadro, voglio quindi presumere, sino a prova contraria da dimostrare, che il sottufficiale non abbia fatto altro che il proprio dovere d’ufficio, quale ufficiale di Polizia giudiziaria a disposizione della DNA, la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, organo giudiziario con giurisdizione nazionale.

Poiché non faccio parte, non solo degli sciacalli mediatici, ma neppure dei numerosi caduti dal pero, dopo ogni colpo di venticello mediatico, sento il dovere di ripetere alcune considerazioni che i miei lettori sanno aver fatto in diverse occasioni su Il Riformista (vedasi ad esempio: Carabinieri Piacenza: è davvero un bene che il comandante generale provenga solo dall’interno dell’Arma?, 31luglio 2020 e Carabinieri Piacenza: troppi censori cadono dal pero, 2 agosto 2020).

La prima, è che non c’è dubbio che l’Italia disponga di uno dei migliori sistemi investigativi contro la criminalità organizzata, ed in particolare economico-finanziaria, sia in Europa che nel mondo. Perché dotata di strumenti legali ed operativi, quali le nostre forze di polizia (Guardia di Finanza in testa), e giudiziari (come la DNA), di assoluto rilievo, e che sono invidiati dagli altri Paesi europei. I quali dovrebbero prendere molti dei nostri esempi positivi. Perché, come noto, la criminalità organizzata ed economico-finanziaria non conosce frontiere. Ed è sempre più pericolosa dove ci sono meno strumenti per combatterla, perché le permettono di agire discretamente e sottotraccia.

La seconda, è che le nostre forze di polizia, da anni, hanno vertici composti tutti da generazioni di generali e dirigenti cresciuti e educati alla cultura della legalità e della lealtà costituzionale. E questa è una garanzia importantissima per il nostro Paese. Perché, quando si dispone di armi nucleari (come i poteri di cui dispongono le nostre forze di polizia, in confronto alle fionde utilizzate in altri Paesi europei), per difendere libertà e democrazia del Paese bisogna avere la certezza assoluta che tali strumenti siano sempre nelle mani giuste. Cioè di generali e dirigenti la cui fedeltà e lealtà democratica ed istituzionale, oltre che la professionalità e l’equilibrio, siano sempre assoluti, ed al di fuori di ogni minimo dubbio.

La terza, è che, nell’assuefazione generale, dopo 30 anni di giustizialismo manettaro e guardone della privacy altrui, in Italia non ci si rende conto che, col pretesto della lotta alla corruzione, all’evasione fiscale, alle mafie ed al terrorismo, la china verso uno stato di polizia può diventare, improvvisamente, molto ripida. Dimenticando che le strade che portano all’inferno sono spesso lastricate di buone intenzioni. Comprese quelle della tolleranza zero verso corruzione, evasione fiscale e mafie varie. Se si dimentica che l’invasività dei nostri sistemi investigativi, utilissima per combattere fenomeni criminosi odiosi, non può mai essere al di fuori di ogni autentico, serio e costante controllo democratico, oltre che di legalità. Che non può cioè limitarsi a quello di una magistratura che, per quanto riguarda quella inquirente, svolge in Italia quello che in altri Paesi è svoltao dalla polizia, e dall’esecutivo.

E per evitare questa china, è necessaria la scienza e la coscienza del farmacista. Capace di usare quel bilancino che, universalmente, è anche simbolo della giustizia. Che deve potere e saper dosare, non solo le pene alle responsabilità, ma anche tenere nel giusto equilibrio due gruppi di interessi egualmente fondamentali per i cittadini, a volte contrapposti. Quelli della sicurezza e della legalità, da un lato. E quelli del rispetto dei loro diritti fondamentali e inviolabili, dall’altro. Compresi il rispetto della privacy, incluse la riservatezza della corrispondenza e delle conversazioni private.

Come è vero che una Tac total body, dopo un semplice starnuto, potrebbe fare diagnosticare un insospettato tumore all’alluce, è anche vero che intercettazioni telefoniche e accessi ai dati riservati a strascico qualche reato, sicuramente, potrebbero permettere di accertarlo.

Ma è pure vero che, così come il medico, prima di prescriverla, valuta sempre l’utilità ed il costo-beneficio della Tac, tenendo conto anche del costo e dei rischi da raggi assorbiti dal paziente, sarebbe anche ora che la Politica (quella con la P maiuscola, ovviamente, non quella di tangentopoli o delle battaglie giustizialiste) e la Giustizia (quella con la G maiuscola, non quella del ”sistema” raccontato da Luca Palamara) facciano le stesse valutazioni, in scienza e coscienza, prima di consentire, la prima, ed autorizzare, la seconda, accertamenti così altamente invasivi per le libertà individuali dei cittadini. Come l’accesso alle banche dati che custodiscono ogni dettaglio della loro vita.

Alessandro Butticé. Da sempre Patriota italiano ed europeo. Padre di quattro giovani e nonno di quattro giovanissimi europei. Continuo a battermi perché possano vivere nell’Europa unita dei padri fondatori. Giornalista in età giovanile, poi Ufficiale della Guardia di Finanza e dirigente della Commissione Europea, alternando periodicamente la comunicazione istituzionale all’attività operativa, mi trovo ora nel terzo tempo della mia vita. E voglio viverlo facendo tesoro del pensiero di Mário De Andrade in “Il tempo prezioso delle persone mature”. Soprattutto facendo, dicendo e scrivendo quello che mi piace e quando mi piace. In tutta indipendenza. Giornalismo, attività associative e volontariato sono le mie uniche attività. Almeno per il momento.

Il Domani tace, la Verità sposta il garantismo ultras. Killeropoli, la serie distopica italiana: la pesca a strascico e l’ombra di ricatti e trattative. Alessio De Giorgi su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Sembra una serie televisiva distopica, ma è l’Italia.

Ci sono una serie di banche dati delicatissime: i conti corrente, i bonifici in entrata e in uscita, le proprietà, la storia fiscale, tutto il passato con la giustizia, civile e penale. Tutto, o quasi tutto. Sono i tanto agognati dati che in una società digitale raccontano quasi tutto di ciascuno di noi e, se usati correttamente, permettono con efficacia di combattere una miriade di reati.

C’è un maresciallo della Guardia di Finanza che ne ha accesso in quella Direzione Nazionale Antimafia – la quale forse qualche domanda sulle sue procedure dovrebbe farsela – e che su quelle banche dati avrebbe fatto una pesca a strascico.

C’è una procura, quella romana, che indaga e che è costretta a passare la mano perché incappa in un suo magistrato sotto la cui responsabilità avrebbe operato il finanziere.

C’è un’altra procura, quella perugina, con un procuratore bravo e autonomo, che avoca l’inchiesta ma dalla quale esce tutto sui giornali, con il paradosso di una fuga di notizie su fughe di notizie.

C’è anche il principale partito di opposizione i cui esponenti – anche di minoranza – non sono riusciti in due giorni a proferire mezza parola su questa vicenda.

Ci sono due quotidiani nazionali che si sono distinti per pubblicare più volte questo genere di segnalazioni e che come il Domani in questi giorni con una punta d’imbarazzo parla d’altro o che come la Verità arriva al paradosso di sposare il garantismo ultras, difendendo il finanziere. Ci sono alcuni politici vittime tra cui il buon Crosetto che senza peli sulla lingua ieri si è domandato se esistano “pubblici ufficiali, pagati dai contribuenti, che diffondono indagini costruite ad arte, per infangare o procurare effetti e danni politici”.

E ci sono alcuni giornali, tra cui il nostro, che parlano anche di possibili ricatti o trattative. Perché è evidente che se le ricerche hanno riguardato oltre 100 nominativi, è anche possibile che in questi anni queste informazioni siano state utilizzate non solo come “killeropoli”, ma anche come motivo per avanzamenti o stop alle carriere fuori e dentro la magistratura. O come, per l’appunto, ricatti.

Insomma, l’Italia sta andando in ferie, ma questa serie tv distopica non ce la dimenticheremo nelle vacanze: aspetteremo con ansia la prossima puntata con l’assoluta certezza che sulle procedure per l’accesso ai dati serva far ordine. Da subito.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

L'inchiesta sul dossieraggio all'Antimafia. Killeropoli, Renzi: “Battaglia impopolare che conduco da anni. Autogrill, Open e Belloni, pagato prezzo personale altissimo”” Redazione su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

“Spero che sia chiaro perché sto facendo da anni una battaglia su alcuni temi impopolari, rimettendoci tempo e denaro e pagando un prezzo personale altissimo”. Così Matteo Renzi, leader di Italia Viva e direttore editoriale del Riformista nella sua Enws in merito all’inchiesta, da noi denominata “Killeropoli“, della procura di Perugia sul presunto dossieraggio negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia ai danni di politici, manager e personaggi noti.

“Chi ha letto “Il Mostro” non si stupisce più di nulla” osserva Renzi in riferimento al suo libro pubblicato nel 2022. “Non possiamo accettare che una valle delle nebbie condizioni la vita politica di questo Paese. E spero che sia chiaro perché in alcuni passaggi ho fatto scelte molto difficili” aggiunge.

Passaggi come “scrivere Il Mostro, in primis; denunciare alcune storture come sull’Autogrill e su Open; mettermi di traverso sull’elezione a Presidente della Repubblica della Direttrice dei servizi segreti”, ovvero Elisabetta Belloni, proposta nel gennaio del 2022 da Matteo Salvini e Giuseppe Conte.

“Quel gran genio di Leo Longanesi diceva: “Quando finalmente potremo dire la verità, non ce la ricorderemo”: vorrei evitare che ciò accada” osserva Renzi. Su Crosetto, la cui denuncia ha dato il là alle indagini, il leader di Italia Viva commenta: “La sua vicenda fa capire che ci sono strani intrecci tra mondi diversi: qualche redazione, qualche investigatore, qualche magistrato, qualche pezzo delle istituzioni pubbliche hanno lavorato insieme alla costruzione di dossier e soprattutto alla distruzione dell’immagine di qualche politico”.

L'ira di Cantone. Killeropoli, spy story all’Italiana: tutte le fughe di notizie finite sui giornali. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Ormai quando una persona pensa alla Procura di Perugia la prima cosa che gli viene in mente sono le fughe di notizie.

Per non smentirsi, infatti, anche il fascicolo nei confronti del finanziere della Dna che ha effettuato gli accertamenti sul conto del ministro della Difesa Guido Crosetto, attualmente indagato per “accesso abusivo”, è finito sui giornali prima del tempo, costringendo l’altro giorno il procuratore Raffaele Cantone ad intervenire in tutta fretta “per alcune precisazioni e puntualizzazioni” con un comunicato stampa pur “nel doveroso rispetto del principio di segretezza delle indagini”.

Prima di questo episodio, l’estate scorsa, anche la richiesta di archiviazione del procedimento sulla Loggia Ungheria ed il contestuale stralcio, con conseguente iscrizione nel registro degli indagati di alcuni soggetti tirati in ballo dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, era finito integralmente sui giornali che avevano poi riportato il nuovo capo di imputazione, basato su dichiarazioni testimoniali non ancora contestate, all’epoca predisposto per Luca Palamara. Le accuse nei confronti dell’ex numero uno dell’Anm, invece di rimanere segrete, potevano essere lette sul Corriere e su Repubblica con due articoli fotocopia.

All’epoca Cantone, dopo aver letto i due quotidiani, fece sapere di essere molto indignato, essendo la “vicenda di una gravità inaudita”. In pochi, infatti, avevano avuto la disponibilità del fascicolo: Cantone, i suoi due sostituti coassegnatari, i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, e il gip del tribunale di Perugia.

La polizia giudiziaria, ad iniziare dal Gico della guardia di finanza che aveva curato le indagini, non aveva ricevuto ufficialmente alcun atto. Gli accertamenti per capire chi fosse stato a passare gli atti al Corriere e a Repubblica andarono comunque a buon fine e la talpa venne individuata nel cancelliere Raffaele Guadagno di cui da allora si sono però perse le tracce.

Ma come dimenticare, poi, la clamorosa fuga di notizie sul Palamaragate avvenuta a maggio del 2019? Anche all’epoca Corriere e Repubblica, in compagnia del Messaggero, pubblicarono ad indagini in corso stralci dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. I responsabili non furono mai individuati.

Palamara, a tal proposito, fece anche denuncia a Firenze, ufficio giudiziario competente per i reati eventualmente commessi dai colleghi umbri.

La giudice per le indagini preliminari di Firenze Sara Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, aveva scritto sul punto che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza – non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela – della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo”.

“Appare dunque configurabile – aveva poi aggiunto – la fattispecie di cui all’art. 326 c.p.: vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”.

Sulle indagini poste in essere per scoprire gli autori della fuga di notizie, sempre la giudice Farini aveva però precisato che “ad oggi non risultano compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”.

Dulcis in fundo, l’inchiesta sull’esame farsa del calciatore della Juve Luis Suàrez per ottenere la cittadinanza italiana. Anche quella finita sui giornali prima del tempo. A causa di ciò Cantone decise lo stop a tempo indeterminato dell’indagine coordinata dai pubblici ministeri Paolo Abritti e Giampaolo Mocetti. Si trattò di una decisione senza precedenti nel panorama giudiziario italiano che, secondo il capo della Procura di Perugia, era necessaria proprio a causa delle ripetute violazioni del segreto istruttorio.

Anche all’epoca Cantone si disse “indignato per quanto successo finora”. Paolo Pandolfini

Perché nessuno si indigna per l’sms di Minniti? Perché bisognava salvare “il soldato Cafiero” de Raho, l’interrogativo è senza risposta da anni. Paolo Pandolfini su Il riformista il 9 Agosto 2023 

Perché bisognava salvare “il soldato Cafiero”? Se lo chiese nella scorsa consiliatura del Csm il Pm antimafia Sebastiano Ardita, all’epoca esponente della corrente Autonomia&indipendenza, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo. Il magistrato, ora procuratore aggiunto a Messina, ad aprile dello scorso anno era intervenuto in Plenum chiedendo lumi su una chat fra Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia da novembre del 2017 al febbraio 2022, e Luca Palamara.

Il Csm, in particolare, aveva aperto una pratica per capire come mai l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, all’indomani della mancata nomina di Cafiero De Raho a procuratore a Napoli a luglio del 2017, avesse chiamato Palamara dicendogli “Salviamo il soldato Cafiero”.

“É una chat che andrebbe approfondita chiedendo magari agli interessati a cosa si riferissero, quale battaglia era stata combattuta, poi chiarita e magari inserita nel provvedimento, cosi tutto rimane vago”, disse Ardita. “Ci sarebbe anche da comprendere per quale ragione il ministro dell’Interno si rivolge a Palamara, a che titolo lo investe delle sue preoccupazioni, questo rimane a oggi un tema inesplorato, neanche riportato in delibera”, aggiunse l’ex togato del Csm senza però ottenere risposta.

Cafiero De Raho era uscito sconfitto dalla corsa alla Procura di Napoli dove, prima di essere trasferito a Reggio Calabria nel 2013, aveva trascorso quasi tutta la sua carriera. Il Csm gli aveva preferito Giovanni Melillo, ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando.

Passa qualche mese e a ottobre Cafiero De Raho diventa però il capo di tutti i Pm in quanto la Procura antimafia si occupa di coordinare le attività di tutti gli uffici inquirenti.

Per Cafiero De Raho fu un vero plebiscito. Prenderà anche i voti delle toghe di sinistra che avevano come candidato il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Per Cafiero De Raho voteranno compatti tutti i laici. Ironia della sorte, Scarpinato e Cafiero De Raho, entrambi andati in pensione lo scorso anno, si sono ora ritrovati in Parlamento, il primo al Senato, il secondo alla Camera, eletti nelle liste del Movimento 5stelle. Una ricostruzione parziale dell’accaduto si trova nel racconto di Palamara con il direttore Alessandro Sallusti. Minniti, calabrese, sarebbe stato interessato al destino professionale di Cafiero De Raho in quanto procuratore di Reggio Calabria. Sallusti chiese allora “se l’intervento di un politico di peso come Minniti sia stato decisivo per la nomina” ma Palamara rispose facendo spallucce.

Le chat meritano di essere rilette.

Il 27 luglio 2017, Minniti scrive: “Cerchiamo adesso di salvare il soldato De Raho. Il risultato in qualche modo lo consente”.

Palamara: “Sì, il mio intervento in plenum è stato in questo senso”.

“Perfetto. Lavoriamoci”, risponde Minniti.

Ad ottobre, come detto, la Commissione incarichi direttivi del Csm propone Cafiero De Raho procuratore nazionale antimafia.

Palamara aggiorna subito Minniti sull’esito del voto: “Votato, De Raho 5 voti Scarpinato 1”.

“Eccellente. Grazie”, la risposta di Minniti.

Prima della nomina del procuratore di Napoli, De Raho, a Roma verosimilmente per attività di servizio, aveva comunque contattato Palamara, sollecitandolo (“scusa, Luca, a che punto siete?”) ed esternando imbarazzo per la “immagine che due autovetture blindate possono dare in questa piazza (Esedra)”, in quanto ferme lì da due ore. Dopo la sconfitta su Napoli, immediata era arrivata la solidarietà di Palamara: “Ho lottato insieme a te fino all’ultimo. Persa una battaglia non la guerra”. E De Raho, dopo averlo ringraziato, gli chiedeva ancora aiuto per “lottare insieme”.

Il 23 ottobre 2017 ecco un nuovo messaggio di De Raho a Palamara, chiamato “Grande Capitano”. L’allora procuratore di Reggio Calabria si lamentava con il “carissimo Luca” per i ritardi nel concerto del ministro rispetto a quanto accaduto con la nomina del procuratore di Napoli.

Il 26 ottobre 2017, rassicurandolo sul concerto ormai ottenuto, Palamara rimetteva alla “saggezza” che lo contraddistingue la scelta sulla data per la delibera del plenum, facendo valutazioni di convenienza sulle presenze ed assenze di consiglieri durante la “settimana bianca”.

Incassata le nomina, De Raho chiedeva quindi a Palamara le modalità di incontro dei vertici della magistratura e del Csm (“con te o da solo?”).

Fine della storia. Paolo Pandolfini

Riportato da L’Unità.

Scandalo dossier-superprocura. Cosa è il trojan e perché siamo prigionieri dello spionaggio. Alberto Cisterna su L'Unità l'8 Agosto 2023

L’affaire Crosetto comincia ad assumere contorni meno imprecisi. Un dato, seppure in filigrana e mai esplicitato con chiarezza, appare evidente: le notizie pubblicate sulla stampa nelle fasi cruciali della formazione del governo Meloni provengono da una consultazione della banca dati a disposizione della Procura nazionale antimafia. Altro, al momento, non si può dire. L’asserito responsabile della consultazione offre elementi per sostenere di avere agito del tutto legittimamente, ossia in presenza di un complesso di informazioni finanziarie che meritavano una verifica su l’esponente politico. Cosa diversa sarà, poi, stabilire chi avesse i canali di comunicazione e abbia potuto, così, transitare a qualche giornalista i dati che poi sono stati pubblicati con ampio risalto e hanno suscitato la giusta reazione di Crosetto.

La vicenda, per l’importanza delle istituzioni coinvolte e per l’ampiezza dei fatti oggetto di indagine a Perugia, non può essere certo archiviata come una delle tante trasgressioni consumate in Italia in pieno accordo tra pubblici ministeri infedeli, polizia giudiziaria compiacente e giornalisti addetti alle salmerie. Di questo ha detto molto (e non tutto) “Il Sistema” e altro certamente verrà fuori su quel capitolo buio della vita della magistratura italiana. Questa volta la dimensione qualitativa della violazione contestata e quella, per così dire, quantitativa si coniugano squadernando un profilo che finora era rimasto in ombra. Sono passati due decenni da quando David Lyon («La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana», Feltrinelli, 2002) prefigurava con straordinaria lucidità la costruzione di una gabbia elettronica che avrebbe imprigionato dalla culla alla tomba la vita dei cittadini e questo paradossalmente si è verificato non in paesi soggetti a regimi autoritari o di polizia, ma presso le più importanti democrazie del mondo. La leadership mondiale dell’Occidente nel settore delle comunicazioni e dell’informatica ha, come noto, costruito giganti industriali che possiedono quantità inimmaginabili di informazioni e dati personali di cui le pubbliche autorità possono disporre praticamente in modo illimitato. Se dovessimo misurare la libertà di ciascuno secondo il coefficiente di sorveglianza elettronica e il suo impatto concreto ci si dovrebbe rendere conto di quanto più alto sia il rischio del controllo in qualunque paese occidentale piuttosto che in un regime illiberale asiatico o africano.

È chiaro che istituzioni come il Garante per la privacy rischiano di essere travolte dall’ampiezza della “manovra digitale” che è in corso e dalle prospettive dell’IA, con l’orizzonte futuro di un capillare, microscopico controllo della vita dei cittadini. Per comprendere quanto inevitabile sia la tentazione degli apparati investigativi e di intelligence di approvvigionarsi di queste informazioni e di questi dati per alimentare le proprie attività di repressione e di prevenzione, sarebbe sufficiente considerare quanto è avvenuto negli ultimi due decenni con le comunicazioni via cellulare, con i tabulati e, infine, con i trojan e altro di ben più penetrante sembra prossimo a venire. La società della comunicazione è, per definizione, anche la società dell’intercettazione; il binomio è inscindibile. A ogni atto comunicativo (anche interpersonale, si pensi ai microfoni direzionali) corrisponde la possibilità di una captazione.

Ecco, probabilmente, il nocciolo duro delle questioni che si agitano intorno al presunto dossieraggio che avrebbe visto coinvolto personale della Procura nazionale. Le informazioni, i dati, i report, le segnalazioni sono indispensabili e irrinunciabili in una strategia moderna di contrasto alle mafie e al riciclaggio. Così come è indispensabile che l’attività di monitoraggio e di prevenzione si svolga senza trame e tracce prefissate. Il buon investigatore segue il proprio istinto, collega, verifica, ipotizza, controlla di nuovo, immagina, sospetta se del caso. È vero quanto è stato sostenuto in questi giorni ossia che così si è creata

Prigionieri dello spionaggio peggio che nelle dittature asiatiche: così si è creata una categoria di cripto-indagati

ovvero di cittadini la cui vita è scrutinata a fondo senza una notizia di reato, senza una garanzia processuale, senza una regola precisa. Una gigantesca rete a strascico informatica e telematica che affonda nelle acque, più o meno torbide, della società e setaccia alla ricerca di elementi da approfondire e, se del caso, affidare alle vere e proprie indagini. È un prezzo enorme, ma che poco o nulla ha a che vedere con una arcigna bulimia indagatoria o, peggio, con propositi ricattatori. È la deriva incontrollata della modernità tecnologica che ha accresciuto a dismisura la gabbia elettronica in cui ciascuno è stato incasellato ed è inevitabile che le inquisizioni vogliano attingervi a piene mani. Molti anni or sono, in un’altra era ormai, Michel Foucault scriveva il suo celeberrimo «Sorvegliare e punire. Nascita della prigione» (1975); oggi – il circuito malato delle deviazioni tra apparati di investigazione e stampa – imporrebbe forse una minuscola correzione in quel titolo di così straordinaria efficacia e potenza evocativa: «sorvegliare è punire» grazie al linciaggio mediatico praticato dalle nuove dittature del terzo millennio. Alberto Cisterna 8 Agosto 2023

Il dossier. Spionaggio antimafia: perché chiunque può cadere nella rete. Politici spiati, quei dati provenienti dal sistema bancario che ha l’obbligo di segnalare le “operazioni sospette” aggravano le responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier. Iuri Maria Prado su L'Unità il 4 Agosto 2023

Ci sarebbe nuovamente il sigillo antimafia, la patacca buona a giustificare ogni sorta di abuso, sulle operazioni di dossieraggio con cui alcuni pubblici ufficiali avrebbero raccolto dati relativi alle attività di politici e imprenditori, puntualmente finiti sui giornali. Ieri le prime cronache riferivano che gli episodi di divulgazione di quei dati sui mezzi di informazione erano “pochi”: come se dovesse tranquillizzare il fatto che la bava velenosa di un’attività di spionaggio in seno all’amministrazione pubblica, e prodotta da appartenenti alla stessa amministrazione pubblica (non da banditi intrufolati), ha contaminato dopotutto solo in qualche occasione (mica tutti i giorni!) il circuito dell’informazione italiana.

Il fatto che questi dati provenissero dal sistema bancario – che ha l’obbligo di segnalare alle autorità competenti, tra cui quelle “antimafia”, la presenza di “operazioni sospette” – aggrava anziché attenuare la responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier giunti inopinatamente (si fa per dire) nelle redazioni del glorioso giornalismo d’inchiesta: così come, appunto, peggio semmai ci si sente quando si apprende che la cosa avveniva a spizzichi e bocconi, secondo il tipico protocollo mafioso della delazione anonima a puntate. Ma diciamo immediatamente che le indagini della Procura perugina, che per ora sarebbero a carico di un unico funzionario (il quale respinge gli addebiti), non potranno rendere ragione di un sistema che se non è preordinato alla commissione di simili abusi certamente li rende possibili.

Varrà la pena di ricordare che è eseguito in nome della trasparenza antimafia il rastrellamento giudiziario di trecentocinquanta persone che coinvolge il responsabile dell’estorsione di un cabarè di pasticcini. Sarà bene tenere a mente che è disposto in nome della trasparenza antimafia il sequestro dell’azienda perché il cugino del titolare è stato visto a un party col pregiudicato. Sarà il caso di non dimenticare che è ordinato in nome della trasparenza antimafia l’arresto del medico settantenne che ha prescritto un farmaco per la cura del cancro di un boss.

E bisogna ficcarsi in testa che è tessuta in nome dell’antimafia la rete di leggi e adempimenti e filtri e dispositivi che un qualsiasi funzionario disinvolto è in grado di dispiegare quando vuole, come vuole, dove vuole per farci cadere dentro pressoché chiunque: perché c’è posto per la responsabilità di chiunque nel sistema antimafia che pretende di scovare il crimine nell’incarto delle pasterelle e nelle frequentazioni del prozio del pizzicagnolo dell’intercettato.

Ma qui – per il soprammercato di una tigna liberale indiscutibilmente deplorevole, perché rivolta alla tutela dei potenti di cui notoriamente si fa ventriloquo il garantismo peloso – qui c’è da denunciare la piega particolarmente allarmante di quest’ultima ipotesi (chiamiamola ipotesi, per ora) di interferenza dello spionaggio antimafia: e cioè che la faccenda riguarda esponenti politici.

Che saranno anche tutti mascalzoni, secondo il criterio cingolato dell’onestà giudiziaria, ma ancora costituiscono un residuo dell’organizzazione democratico-rappresentativa formalizzata in quest’altro residuato, la Costituzione della Repubblica, secondo cui la sovranità non appartiene né ai militari della Guardia di Finanza né e pubblici ministeri. E quelli, gli orrendi politici, rappresentano un presidio in ogni caso più affidabile (anche perché revocabile) rispetto al potere in divisa o in toga (è uguale) che assembla e distribuisce veline. Iuri Maria Prado 4 Agosto 2023

Chi c’è dietro i dossieraggi abusivi e illegali dell’antimafia, si muove il Copasir. Il finanziere distaccato alla Dna ha agito da solo? Su mandato di chi? Sono molti i punti da chiarire sull’indagine di Perugia. Ma anche sulla fuga di notizie finite dritte dritte su Corriere e Repubblica, proprio come accadde con il Palamaragate. Angela Stella su L'Unità il 5 Agosto 2023

Fare piena luce: è quello che chiedono tutti i partiti in merito all’inchiesta di Perugia su possibili dossieraggi abusivi a carico di politici, esponenti istituzionali e personaggi noti. Già una richiesta di un’informativa del governo è arrivata da Pd, M5s, Italia Viva. Le domande a cui l’indagine condotta dal Procuratore capo Raffaele Cantone deve dare risposte sono molte. Parallelamente, a chiarire i molti punti oscuri di questa vicenda, ci penserà anche il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, organismo presieduto da Lorenzo Guerini del Partito democratico.

Innanzitutto, come ha scritto colui che ha fatto partire l’inchiesta con una sua denuncia, il Ministro della Difesa Guido Crosetto, in una lettera al Corriere della Sera, bisogna chiedersi: “Possiamo convivere con il sospetto che persone, dentro lo Stato, lavorino per minarne le istituzioni? È giusto continuare a far finta di nulla quando si vedono pubblicati atti di indagini in corso che, tra l’altro, gettano schizzi di fango inaccettabili su istituzioni serie come la Dna?”. Eh già, bisognerà prima capire se il finanziere che fu distaccato alla Procura nazionale Antimafia ha agito contra legem, e poi se eventualmente ha operato da solo o insieme ad altri, su mandato di chi, se esiste o meno una struttura eversiva all’interno delle nostre istituzioni.

E chi sono stati gli altri bersagli. Anche il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha riferito di essere stato vittima di dossieraggio: “Anche io ho subito la violazione della mail durante la presidenza del Copasir e ne ho fatto oggetto di una denuncia alla procura di Roma”. “Quello che la vicenda Crosetto fa capire – scrive il leader di Italia Viva Matteo Renzi nella sua Enews di ieri – è che ci sono strani intrecci tra mondi diversi: qualche redazione, qualche investigatore, qualche magistrato, qualche pezzo delle istituzioni pubbliche hanno lavorato insieme alla costruzione di dossier e soprattutto alla distruzione dell’immagine di qualche politico”.

Questo è tutto da accertare ma resta il fatto che stranamente, come avvenne già nel 2019 con l’indagine a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, anche questa volta gli stessi due giornali di allora, con l’aggiunta di un terzo, hanno ricevuto la soffiata da qualcuno nello stesso momento. Chi è il regista di questa manovra? Sta di fatto che potrebbe essere stato violato il segreto istruttorio, come ci aveva confidato ieri una nostra fonte di alto livello all’interno della magistratura, tanto è vero che lo stesso Crosetto ha annunciato “di sporgere una nuova denuncia per violazione del segreto istruttorio, al fine di aiutare il lavoro dei magistrati e di ottenere la verità su una vicenda inquietante, ma anche a tutela dell’indagato stesso, l’ufficiale della Guardia di finanza”.

Sappiamo che Cantone è molto critico sulle fughe che potrebbero partire dagli inquirenti o dagli organi di polizia giudiziaria: quando ci fu la palese violazione della segretezza della richiesta di archiviazione predisposta dalla procura di Perugia sull’indagine Ungheria, l’ex vertice dell’Anac parlo di “un fatto gravissimo”, in cui “la procura di Perugia è parte offesa”. Vi era stato già un precedente nella stessa Procura durante l’indagine sull’esame farsa svolto dal calciatore della Juventus Luis Suarez. In quella circostanza Cantone decise incredibilmente di sospendere per un periodo di tempo tutte le attività di indagine. Questa volta però sembrerebbe che la fuga di notizie sia partita da Roma.

Altra questione: dai primi accertamenti sembrerebbe che gli accessi abusivi da parte del finanziere – che ha ammesso gli accessi dicendo però che si trattava di una pratica abituale – siano iniziati a luglio 2022, poco prima delle elezioni politiche: qualcuno voleva controllarle attraverso specifici dossier? Se è vero che Cantone ha sottolineato in una nota che l’attuale procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo “aveva, già prima dell’avvio delle indagini, provveduto a riorganizzare radicalmente” il servizio delle ‘Segnalazioni di operazioni sospette’ (Sos) ci si chiede se altre falle ci siano state anche negli anni precedenti.

“Gli ultimi tre Capi della Dna si sono candidati alle elezioni. Due nel Pd uno, l’ultimo, nell’M5S. Informazione utile per contribuire al dibattito in corso sull’ufficio ‘colabrodo’ della SuperProcura”: ha scritto su Twitter Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione. Il parlamentare si riferisce a Federico Cafiero De Raho, eletto alla Camera con i pentastellati in questa legislatura, a Franco Roberti eletto nel 2019 all’europarlamento per il Partito Democratico, e a Pietro Grasso, eletto senatore sempre tra i dem nel 2013. Il tema sollevato da Costa porta a domandarci se la Procura Nazionale Antimafia abbia avuto gli anticorpi in questi anni per evitare possibili dossieraggi e fughe di notizie mirate e se i vertici, quindi, siano stati in grado di governare correttamente la struttura.

Possibile che nessuno nella super Procura sapesse dell’attività di dossieraggio, se realmente vi è stata? Ultima questione, per il momento: ai tempi dell’inchiesta Palamara, che scosse il Csm, l’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede attivò gli ispettori, il cui compito era di svolgere «accertamenti, valutazioni e proposte». Considerato che l’indagine è stata trasmessa a Perugia, appunto perché potrebbero essere coinvolti magistrati romani in qualsiasi veste, e che coinvolge la DNA il Ministro Nordio che farà?

Angela Stella 5 Agosto 2023

Coincidenze: i dossier della Dna e i Procuratori in Parlamento. Esiste un meccanismo di causa effetto tra la direzione della Procura nazionale antimafia e la candidatura, e poi l’elezione (garantita dai partiti), in Parlamento?Redazione Web su L'Unità il 5 Agosto 2023

In un tweet, stringato e tagliente come sono spesso i tweet, il deputato di Italia Viva Enrico Costa ha scritto: “Gli ultimi 3 capi della Dna si sono candidati alle elezioni. Due nel Pd e uno, l’ultimo, nel M5S. Informazione utile per contribuire al dibattito in corso sull’ufficio colabrodo della SuperProcura”.

Le allusioni sono piuttosto evidenti. Però chiariamole ben bene. La Dna è la direzione nazionale antimafia, cioè, appunto, la cosiddetta SuperProcura. È dalla SuperProcura che sono volati via molti dossier – preparati approfittando dei poteri della Procura – nei quali erano state raccolte informazioni “sensibili” (come si dice in gergo) sulla vita anche privata di personaggi illustri e soprattutto di politici. Questi dossier – a lume di logica – erano stati concepiti per ricattare. Si ricatta in genere per ottenere dei vantaggi e delle cessioni di denaro o di potere dai ricattati. E poi…

E poi l’on. Costa fa notare che spesso i Capi della SuperProcura incriminata, in qualche modo, finiscono in Parlamento anche se privi di carriera politica. Effettivamente tutti gli ex Procuratori antimafia attualmente viventi sono riusciti ad entrare in Parlamento. È stato così con Piero Grasso, eletto senatore nel 2013 con il partito democratico e poi addirittura Presidente del Senato (e in seguito alle dimissioni di Giorgio Napolitano ha rivestito persino l’incarico di Presidente della Repubblica ad interim). È stato così anche per il suo successore Franco Roberti, eletto parlamentare europeo con il Pd. Ed è stato così per Federico Cafiero de Raho, che è un deputato in carica del Movimento Cinque Stelle.

Esiste un meccanismo di causa effetto tra la direzione della Procura nazionale antimafia e la candidatura, e poi l’elezione (garantita dai partiti), in Parlamento? E questo meccanismo è legato alle notizie di queste ore sui dossieraggi? Non possiamo saperlo. Potremmo, forse, saperlo, se qualcuno indagasse a fondo sulla vicenda. Ma è molto improbabile che ciò avvenga...Redazione Web 5 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Paolo Comi per “L’Unità” l'8 agosto 2023.

Da "giornalismo d'inchiesta" a “dossieraggio” il passo è breve. Il procedimento della Procura di Perugia, che vede indagato per "accesso abusivo a sistema telematico o banca dati" l'ex maresciallo della guardia di finanza Pasquale Striano, in servizio presso la Direzione nazionale antimafia, ha messo ancora una volta in evidenza il rapporto quanto mai opaco che esiste fra alcuni giornalisti e uomini delle Istituzioni per veicolare all'esterno informazioni riservate che hanno il solo scopo di screditare l'avversario di turno. I fatti sono noti.

Lo scorso ottobre, dopo la formazione del governo Meloni, il Domani ed il Fatto Quotidiano avevano messo nel mirino il ministro della Difesa Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d'Italia, ipotizzando dei conflitti di interessi fra il suo nuovo incarico e la precedente attività professionale. Vennero pubblicate per giorni le sue dichiarazioni dei redditi e i compensi percepiti come presidente dell'AIAD, l'Associazione che riunisce le aziende produttrici di armi, e da Leonardo.

Il Domani non si limitò però ai redditi, pubblicando anche dati contenuti in alcune segnalazioni di operazioni sospette (Sos) a suo nome in quel momento riservate e nella disponibilità esclusivamente dell'Antiriciclaggio della Banca d'Italia, delle procure distrettuali, e dei reparti speciali della guardia di finanza. 

Crosetto presentò allora denuncia alla Procura di Roma che inizio ad indagare 'a ritroso', andando a vedere chi aveva effettuato alla banca dati, dove resta traccia, l'interrogazione con il suo nome. Gli accertamenti permisero di scoprire che era stato Striano il quale nell'ultimo periodo, oltre a Crosetto, aveva effettuato centinaia di altri accessi alla banca dati con la scusa di una non meglio precisata attività "info-investigativa" […]

Ulteriori accertamenti avevano poi permesso di scoprire che Striano si era incontrato con Giovanni Tizian, il giornalista autore dello scoop sul Domani, proprio nei giorni in cui avveniva la pubblicazione dei pezzi incriminati. Il fascicolo da Roma veniva quindi trasmesso a Perugia per verificare le eventuali responsabilità di magistrati in servizio alla Dna. 

Nel frattempo, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo avviava una stretta su questo tipo di accertamenti e il comandante della guardia di finanza Andrea De Gennaro una ricognizione sul personale dipendente che abitualmente accede alle banche dati riservate. 

Striano, che non ha potuto quindi negare di aver fatto tali accertamenti, aveva provato a giustificarsi, in modo poco credibile, sostenendo di essersi 'insospettito' su Crosetto perché in rapporti con soggetti sensibili. Tesi smentita totalmente in quanto si trattava di persone incensurate.

Per quale motivo, dunque, un ex sottufficiale delle fiamme gialle poi promosso per meriti ufficiale […] avrebbe dovuto mettere a repentaglio la propria carriera passando notizie riservate ad un giornalista con il rischio, in caso fosse scoperto, di finire sotto processo per un reato che prevede una pena fino a nove anni di prigione? 

La risposta è arrivata direttamente dai giornalisti che hanno fatto lo scoop. Domenica scorsa Il Domani ha aperto con un articolo dal titolo "Intimidire giornalisti e investigatori, tutti i rischi del caso Crosetto". Lo stop al dossieraggio di Striano è stato fatto passare per intimidazione della libera stampa ed un freno al giornalismo d'inchiesta.

Nessuna parola invece sul fatto che il finanziere, la fonte ormai bruciata, abbia commesso dei reati gravissimi divulgano atti coperti dal segreto istruttorio con il solo scopo di screditare un avversario di Carlo De Benedetti. L'inchiesta di Perugia, purtroppo caratterizzata l'altro giorno da una fuga di notizie, rischia di lasciare nell'ombra questa opaca filiera fra apparati dello Stato deviati' e giornalisti. 

Quanti Striano sono oggi in servizio nelle caserme italiane? A chi rispondono? E, soprattutto, come vengono "agganciati' dai giornalisti che sono sempre gli stessi, noti per pubblicare atti riservati o veline dei Servizi? In altre parole, chi manovra questi personaggi che dietro la divisa fanno il doppio gioco?

Scandalo dossier-superprocura. Il dossieraggio di Fatto Quotidiano e Domani contro Crosetto: se questo è “giornalismo d’inchiesta”. Paolo Comi su L'Unità l'8 Agosto 2023 

Da “giornalismo d’inchiesta” a “dossieraggio” il passo è breve. Il procedimento della Procura di Perugia, che vede indagato per “accesso abusivo a sistema telematico o banca dati” l’ex maresciallo della guardia di finanza Pasquale Striano, in servizio presso la Direzione nazionale antimafia, ha messo ancora una volta in evidenza il rapporto quanto mai opaco che esiste fra alcuni giornalisti e uomini delle Istituzioni per veicolare all’esterno informazioni riservate che hanno il solo scopo di screditare l’avversario di turno.

I fatti sono noti. Lo scorso ottobre, dopo la formazione del governo Meloni, Il Domani ed Il Fatto Quotidiano avevano messo nel mirino il ministro della Difesa Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d’Italia, ipotizzando dei conflitti di interessi fra il suo nuovo incarico e la precedente attività professionale. Vennero pubblicate per giorni le sue dichiarazioni dei redditi e i compensi percepiti come presidente dell’AIAD, l’Associazione che riunisce le aziende produttrici di armi, e da Leonardo.

Il Domani non si limitò però ai redditi, pubblicando anche dati contenuti in alcune segnalazioni di operazioni sospette (Sos) a suo nome in quel momento riservate e nella disponibilità esclusivamente dell’Antiriciclaggio della Banca d’Italia, delle procure distrettuali, e dei reparti speciali della guardia di finanza.

Crosetto presentò allora denuncia alla Procura di Roma che iniziò ad indagare ‘a ritroso’, andando a vedere chi aveva effettuato alla banca dati, dove resta traccia, l’interrogazione con il suo nome. Gli accertamenti permisero di scoprire che era stato Striano il quale nell’ultimo periodo, oltre a Crosetto, aveva effettuato centinaia di altri accessi alla banca dati con la scusa di una non meglio precisata attività “info-investigativa” pur essendo la Dna un ufficio di coordinamento che non svolge indagini in prima battuta.

Ulteriori accertamenti avevano poi permesso di scoprire che Striano si era incontrato con Giovanni Tizian, il giornalista autore dello scoop su Il Domani, proprio nei giorni in cui avveniva la pubblicazione dei pezzi incriminati. Il fascicolo da Roma veniva quindi trasmesso a Perugia per verificare le eventuali responsabilità di magistrati in servizio alla Dna. Nel frattempo, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo avviava una stretta su questo tipo di accertamenti e il comandante della guardia di finanza Andrea De Gennaro una ricognizione sul personale dipendente che abitualmente accede alle banche dati riservate.

Striano, che non ha potuto quindi negare di aver fatto tali accertamenti, aveva provato a giustificarsi, in modo poco credibile, sostenendo di essersi ‘insospettito’ su Crosetto perché in rapporti con soggetti sensibili. Tesi smentita totalmente in quanto si trattava di persone incensurate.

Per quale motivo, dunque, un ex sottufficiale delle fiamme gialle poi promosso per meriti ufficiale, a meno che non si tratti di un esaltato, avrebbe dovuto mettere a repentaglio la propria carriera passando notizie riservate ad un giornalista con il rischio, in caso fosse scoperto, di finire sotto processo per un reato che prevede una pena fino a nove anni di prigione?

La risposta è arrivata direttamente dai giornalisti che hanno fatto lo scoop. Domenica scorsa Il Domani ha aperto con un articolo dal titolo “Intimidire giornalisti e investigatori, tutti i rischi del caso Crosetto”. Lo stop al dossieraggio di Striano è stato fatto passare per intimidazione della libera stampa ed un freno al giornalismo d’inchiesta.

Nessuna parola invece sul fatto che il finanziere, la fonte ormai bruciata, abbia commesso dei reati gravissimi divulgano atti coperti dal segreto istruttorio con il solo scopo di screditare un avversario di Carlo De Benedetti. L’inchiesta di Perugia, purtroppo caratterizzata l’altro giorno da una fuga di notizie, rischia di lasciare nell’ombra questa opaca filiera fra apparati dello Stato ‘deviati’ e giornalisti. Quanti Striano sono oggi in servizio nelle caserme italiane? A chi rispondono? E, soprattutto, come vengono ‘agganciati’ dai giornalisti che sono sempre gli stessi, noti per pubblicare atti riservati o veline dei Servizi? In altre parole, chi manovra questi personaggi che dietro la divisa fanno il doppio gioco? Paolo Comi 8 Agosto 2023

Il dossier dello scandalo. Dossier, la solita storia di sbirri e giornali tra gossip e presunti scoop. Le vicende politiche finiscono in mano alla magistratura che è sempre stata a caccia di scorciatoie per facilitarsi il lavoro. Frank Cimini su L'Unità e su Dagospia il 12 Agosto 2023

Era stata presentata come la notizia dell’estate soprattutto da parte di quell’informazione abituata a vestire di giornalismo d’inchiesta il semplice mettere in italiano degli atti giudiziari che vengono fatti emergere per dare forza all’indagine e celebrare il processo prima che si arrivi, ammesso e non concesso che ciò accada, in aula di tribunale.

Poi, purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, è spuntata la storia delle corna nell’alta borghesia piemontese e praticamente non c’è stata più partita, il caso del dossieraggio sui politici ha perso posizioni nella classifica delle notizie. Una guerra tra investigatori fedeli a diversi schieramenti politici, collegati ai soliti giornali che agiscono, diciamo, in concorso esterno se vogliamo ricorrere a un reato che nel codice è inesistente ma fu creato dalla giurisprudenza. Cioè da una magistratura che nella storia di questo paese è sempre stata a caccia di scorciatoie per facilitarsi il lavoro, dai “pentiti”, alle intercettazioni fino al mitico trojan, mezzo in grado di sconvolgere la vita delle persone e pure di manipolare le parole audite.

Per ora sotto i riflettori c’è un tenente della Guardia di finanza distaccato alla Direzione nazionale antimafia in un gruppo di lavoro che si occupava di visionare e analizzare lo sviluppo delle “Sos” le Segnalazioni di operazioni bancarie sospette. Il diretto interessato sostiene di aver operato con correttezza e di non aver violato alcuna regola. Sui giornali era già finita la notizia dell’attuale ministro della Difesa, Guido Crosetto, che aveva incassato legittimamente un paio di milioni per la sua consulenza nel ramo delle fabbriche di armi.

Crosetto presentava una denuncia ipotizzando la fuga di notizie relative a informazioni destinate a restare riservate, con dossieraggi utili a influenzare la composizione del governo che stava nascendo. L’indagine nata a Roma è stata spostata a Perugia perché potrebbero esserci di mezzo magistrato in servizio nella capitale. Se ne occupa il procuratore Cantone, che dice di aver già sentito diverse persone. A Perugia dove la loggia Ungheria evaporò nonostante lo stesso capo dei pm avesse dichiarato che non tutte le parole dell’accusatore Piero Amara erano sembrate inattendibili. In realtà c’è molta nebbia. Di rilievo penale per ora poco.

Politicamente si può senz’altro parlare di conflitto di interessi da parte di chi si occupa di armi e poi fa il ministro proprio alla Difesa. Come Daniela Santanchè al Turismo con le quote del Twiga appena passate al suo compagno di vita. Si tratta di vicende politiche che finiscono in mano alla magistratura, una storia infinita da molto tempo in qua. Il regolamento di conti per via giudiziaria. Tutto finisce in Tribunale. Dove minaccia di voler andare pure la signora di Torino accusata in un party di aver cornificato il suo uomo.

Frank Cimini 12 Agosto 2023

Riportato da Il Dubbio.

Possibile che nessuno in procura antimafia spesse dell’attività di dossieraggio di quel maresciallo? La sensazione è che vi sia un pezzo di istituzioni che si sono poste fuori dal controllo democratico. Davide Varì su Il Dubbio il 3 agosto 2023

Una centrale operativa autonoma, una sorta di “ufficio affari riservati” che operava nel cuore della Direzione nazionale antimafia per fabbricare dossier da inviare direttamente ai giornali. Messa così potrebbe quasi sembrare la trama di un inedito di Ian Fleming; ma spesso, è noto, la realtà supera la fantasia, e quel che sta emergendo in queste ore, grazie alla denuncia del ministro Crosetto, assume sempre più la forma di un realissimo ed efficientissimo sistema di “sputtanamento” che aveva un unico scopo: condizionare la vita politica del paese.

Certo, qualcuno penserà, e scriverà, ne siamo certi, che in fondo non c’è nulla di male nel dossierare le “malefatte” dei politici. E che scavare nei conti correnti di parlamentari, giornalisti e imprenditori, senza alcun mandato da parte di una procura, sia tutto sommato accettabile nel paese della corruzione, del “magna, magna” e della mafia. E sì perché la scusa per fare a pezzi lo Stato di diritto è sempre quella: “siamo la patria della mafie e le garanzie sono trovate da azzeccagarbugli”. E chi osasse alzare il ditino e provare ad abbozzare una protesta, ecco bello e pronto il “santino di Falcone e Borsellino”, usati entrambi senza alcuno scrupolo dai carnefici di diritti e libertà per perseverare nella propria attività di demolizione del nostro stato di diritto. Come se Falcone non avesse saputo che la prima regola di un magistrato è quella di proteggere le nostre garanzie costituzionali.

Insomma, sarebbe un vero scempio far passare in cavalleria una notizia tanto grave. Per quel che ci riguarda, visto che non abbiamo risposte ma molti “dubbi”, non possiamo far altro che porre un paio di domande. La prima: possibile che negli uffici di via Giulia - sede della Dna - popolati da abilissimi magistrati, nessuno si fosse mai accorto del lavoro di quel Maresciallo? Eppure ogni sua “ricerca” ha lasciato tracce evidentissime nel sistema informatico di quegli uffici. E d’altra parte il maresciallo pizzicato a preparare quei dossier ha dichiarato, con assoluto candore, di aver solo svolto il proprio dovere. Come dire: “Ero lì per quello…”. Ecco, possibile, ci chiediamo, che nessuno si senta in dovere di replicare, di spiegare?

E poi: da quanto tempo quell’ufficio preparava polpette avvelenate da inviare ai giornali? E quali altri politici e giornalisti sono finiti nel mirino di quell’ufficio?

Domande che pongono questioni assai inquietanti, perché quel che è accaduto colpisce il cuore stesso della nostra democrazia. E il sostanziale silenzio di politica e giornali non fa altro che alimentare il sospetto che nei gangli vitali del Paese vi sia qualcosa di profondamente marcio, corrotto e fuori dal controllo democratico.

Riportato da Il Tempo.

Il mistero dei 400 intercettati senza autorizzazione: il Copasir vuole fare luce. Luigi Bisignani su Il Tempo il 02 luglio 2023

Caro direttore, ora è ufficiale: sulle intercettazioni anche in Italia va in onda «Le vite degli altri», il film tedesco che ripercorreva i tempi sinistri della «Stasi», la famigerata polizia segreta di Berlino Est. Ma un reality analogo sembrerebbe si giri ora nel cuore di Roma, nel palazzo di San Macuto, sede del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza presieduto dall’ex ministro della difesa Lorenzo Guerini. Attore protagonista: Eugenio Santagata. Ex ufficiale dell’esercito, cresciuto tra la Nunziatella e l’Accademia di Modena, formatosi professionalmente in Elettronica spa, azienda controllata dalla famiglia Benigni, Leonardo e Thales, leader mondiale nei sistemi di difesa. Adesso è in Tim, dove ricopre ruoli molto delicati e che potrebbero apparire in antitesi, se non in conflitto tra loro: Chief Public Affairs ma anche Security Officer, AD di Telsy SpA - eccellenza nella Cybersecurity- oltre ad essere «national champion» per la Quantum Key Distribution, azienda attiva nel settore delle comunicazioni quantistiche. E come se non bastasse, dirigente delegato per la «golden power» di Sparkle. In tutto questo dedalo di incarichi, tra i suoi collaboratori di fiducia può contare anche sulla neo promossa Alma Fazzolari, sorella del più celebre Giovanbattista, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e considerato ormai «il Giavazzi» della Meloni.

Santagata è oramai diventato un’autorità in materia, vanta un rapporto personale con il capo dell’Aise Gianni Caravelli e con il capo di gabinetto della premier, Gaetano Caputi. Quest’ultimo, da sempre vicino ad ambienti «sensibili» d'oltreoceano, è stato uno tra i maggiori sostenitori del fondo americano Kkr, che recentemente ha ottenuto l’esclusiva dal Cda di Tim con un’offerta - non vincolante per 21 miliardi di euro - relativa all'acquisto di Netco, la newco che raggrupperà gli asset e le attività relative alla rete fissa di Tim FiberCop e Sparkle comprese. Il tutto nell’indifferenza totale dei Ministeri competenti, il Mef di Giancarlo Giorgetti, il Mimit (ex Mise) di Adolfo Urso, e pure della Cdp di Dario Scannapieco.

Ebbene, l’integerrimo ex ufficiale dell’esercito, che sfreccia per Roma con tanto di lampeggiante, si è presentato nelle ultime settimane al Copasir per ben tre volte nelle sue varie vesti. Ad accendere l’interesse del Copasir sono state le rivelazioni di Paolo Madron che nel libro scritto assieme «I potenti al tempo di Giorgia», denuncia che circa 400 nominativi potrebbero essere stati spiati con annessa attività di dossieraggio. Argomento ripreso da Matteo Renzi e che anche Guerini ha raccolto avviando un’indagine conoscitiva con i principali operatori interessati alle attività di «ascolto».

La prima e più clamorosa audizione di Santagata si è svolta il 20 giugno alle ore 12, (le altre il 27 e il 28). Secondo quanto ha potuto accertare Madron da alcuni Commissari che hanno preteso l’anonimato, il manager non solo ha riferito che tra le attività istituzionali del suo Gruppo c’è la possibilità di ascolto delle utenze voce ed etere di nominativi internazionali utili per la sicurezza nazionale, ma anche di ignari cittadini italiani. «Ascolti» tecnicamente possibili anche utilizzando WhatsApp, Signal e altre applicazioni di telecomunicazione e messaggistica. Come se non bastasse, a seconda dell’interesse delle conversazioni captate, con possibilità di allargare gli ascolti anche ad altre utenze, il cosiddetto sistema «a strascico» attraverso il metodo che gli operatori preposti chiamano, «la doppietta», pare perché sono due cavi che si sovrappongono.

Ma di cosa si è trattato? Di un avvertimento per dire che tutti possono essere intercettati e monitorati? Di una smargiassata? Alle autorità competenti, in primis il Copasir, il compito ora di accertarlo. Tra i vari commissari - tra i quali Donzelli, Ronzulli, i due Borghi, Rosato, Rossi - il più stizzito è apparso, incredibilmente, Roberto Scarpinato, oggi grillino ma per anni implacabile magistrato della procura di Palermo protagonista della famosa «Trattativa Stato-mafia». Finora nulla di più ha potuto accertare Madron e neppure cosa hanno detto in proposito Pietro Labriola, brillante e scaltro Ad di Tim, e la fascinosa e competente Elisabetta Belloni, direttore del Dis, entrambi auditi successivamente.

Santagata ha aperto un mondo ai commissari che ora si pongono molteplici domande. Il Governo e soprattutto la magistratura sono state messe al corrente di questa attività palesata dal capo della sicurezza di Tim? Dopo l’uscita del nostro libro, rompendo l’usuale silenzio, attraverso una dichiarazione ufficiale il sottosegretario Mantovano, con delega alla sicurezza, ha detto testualmente: «Dal momento dell’insediamento di questo Governo non ho mai autorizzato, quale Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, alcuna forma di intercettazione a carico di esponenti politici o di giornalisti». Ma l’altro sottosegretario alla presidenza, Fazzolari e il capo di gabinetto Caputi, ne sanno invece di più? E soprattutto un uomo delle Istituzioni come il Presidente di Tim Salvatore Rossi e il suo Cda erano al corrente di questa delicata attività o ne chiederanno conto? Ai posteri l’ardua sentenza, possibilmente senza essere prima intercettata!

Il racket internazionale dell'immigrazione clandestina incassa milioni di euro e prova a corrompere i politici italiani. Il parlamentare di Fratelli d'Italia, Andrea Di Giuseppe, ha presentato una denuncia alla Guardia di finanza che scoperchia il business degli ingressi clandestini da Pakistan, Bangladesh, Filippine e altri Paesi asiatici. A parlarne è Libero che racconta la vicenda che parte dal marzo scorso, quando Di Giuseppe, eletto nella circoscrizione del Centro-Nord America con FdI, sporge una denuncia al Nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Roma. Un ristoratore di origini bangladesi, che conosceva, gli ha chiesto "di fare da tramite con un fantomatico «Console italiano in Bangladesh» al fine di facilitare il rilascio di visti in entrata per l’Italia. L’uomo, racconta il parlamentare ai finanzieri, parla apertamente di «compravendita di visti d’ingresso»". 

Di Giuseppe a quel punto inizia a registrare di nascosto con il suo iPhone la conversazione da cui emerge la proposta di corruzione e le tariffe del racket: 15mila euro per un visto di lavoro e 7mila per quello turistico. Il parlamentare incasserebbe 300mila euro subito e poi 120mila euro al mese, ma il bangladese afferma che si può arrivare a tre milioni d’incassi in un solo giorno. Dopo la conversazione, Di Giuseppe dà i file ai finanzieri e successivamente viene contattato di nuovo da membri del gruppo criminale mentre è a Miami dove ha la residenza. Ne consegue un'altra cena con analoghe proposte di corruzione, tutto nuovamente registrato e denunciato. Da questa seconda occasione, si capisce che il racket per far entrare clandestinamente in Italia e in Europa gli asiatici disposti a pagare coinvolge non solo il Bangladesh ma numerosi altri Paesi come Sri Lanka e Filippine. La Guardia di finanza indaga per metter fine al traffico grazie alla denuncia di un servitore dello Stato. 

Riportato da L’Inkiesta.

Doppio binario. Il governo che si indigna per lo «spionaggio» a Crosetto allargherà ai comuni mortali l’uso dei trojan. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 7 Agosto 2023

Non c’è nessun «dossieraggio» se non nelle paranoie di qualcuno. Il problema semmai è l’esternalizzazione dei servizi informatici. La politica scopre l’acqua calda: in Italia esistono centrali di dati riservati, previste dalla legge, e sulla conservazione degli stessi non c’è alcuna tutela

L’ultimo scandalo agostano su una presunta «centrale di dossieraggio istituzionale» è l’ennesima conferma, semmai ce ne fosse bisogno, del «doppio binario» su cui la classe dirigente di governo fa viaggiare i propri diritti: separati rigorosamente da quelli di tutti gli altri.

Come è noto, il ministro della Difesa Guido Crosetto nei mesi scorsi ha presentato una denuncia per un articolo pubblicato su Domani in cui l’autore, Nello Trocchia, forniva dati riservati sulla sua passata attività di titolare di una apprezzata società di consulenza in materia di forniture di armamenti. Per la cronaca, prima di divenire ministro, il politico piemontese era presidente di Aiad, l’associazione che rappresenta le  aziende italiane aerospaziali, la Difesa e la Sicurezza.

A seguito di ciò, con apprezzabile sollecitudine, la procura di Roma aveva avviato degli accertamenti ricevendo un prezioso supporto dalla Direzione nazionale antimafia che segnalava una nutrita serie di accessi al proprio sistema informativo da parte di un sottufficiale delegato alle verifiche sulle segnalazioni di operazioni sospette (Sos) che quotidianamente l’Ufficio di Informazione Finanziaria di Banca d’Italia invia a una serie di agenzie nell’ambito della prevenzione del riciclaggio.

Il sottufficiale è indagato a Perugia per il reato di accesso abusivo a sistema informatico e ha protestato la propria innocenza, rivendicando la legittimità del suo operato, e ha negato ogni rapporto con la stampa.

L’Uif di Banca d’Italia, va detto, non è un’agenzia di spioni ma è stata istituita dal decreto legislativo numero 231 del 2007, in esecuzione di convenzioni internazionali che prevedono la presenza in ciascuno Stato di una Financial Intelligence Unit (Fiu) dotata di piena autonomia operativa e gestionale, con funzioni di contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.

Magari non tutti lo sanno, ma nelle segnalazioni confluisce materiale diverso, da ingentissime transazioni milionarie sino alla donazione effettuata da un genitore al figlio magari per acquistare casa.

La legge, come solo le normative italiane sanno essere, è del tutto vaga e fa genericamente obbligo a intermediari finanziari e ai professionisti (notai, commercialisti e avvocati) di segnalare all’Uif «quanto sanno, sospettano o hanno buoni motivi di sospettare che siano in corso o siano state  compiute o tentate operazioni di riciclaggio… desunte dalle caratteristiche, entità e natura dell’operazione o da qualsiasi altra circostanza conosciuta». Voi capite che con tale premesse la messe di segnalazione è di vasta entità: per l’esattezza, nel 2021, le Sos sono state 139 mila e 155 mila nel 2022, con un incremento del diciassette per cento. Il 2023 promette altrettanto bene.

Questa massa informativa viene inviata a una serie di agenzie e di autorità che incrociano tali segnalazioni con i dati in loro possesso.

In particolare, per ciò che concerne la Dna, un apposito ufficio (cui apparteneva il sottufficiale  indagato) verifica se gli autori delle operazioni segnalate siano persone sottoposte a procedimenti penali o con precedenti, o per l’appunto che siano soggetti «politicamente esposti» (Pep: deputati, senatori, parlamentari europei, membri degli organi direttivi centrali di partiti politici, ambasciatori, incaricati d’affari e ufficiali di grado apicale delle forze armate) come nel caso di Crosetto o dei loro congiunti.

Qualcuno come il neo renziano Enrico Borghi ha citato a sproposito la famigerata legge «spazzacorrotti» dell’ex ministro grillino Alfonso Bonafede per sostenere balzanamente che vada cancellato l’obbligo di segnalazione per i politici.

Un’idea bislacca di suo (visto che Bonafede non c’entra nulla), ma in ogni caso irrealizzabile in quanto la norma è stata introdotta nel 2017 in esecuzione di due direttive della Commissione europea e di un regolamento Ue, sicché solo ipotizzare la sua rimozione susciterebbe frizioni con l’Europa.

Dunque, non facciamoci ridere appresso, non c’è nessuna «centrale di dossieraggio» se non nelle paranoiche idee di qualcuno.

Il problema semmai, come ha bene evidenziato un osservatore attento ed esperto come l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, è l’esternalizzazione dei servizi informatici a operatori privati che possono accedere ai dati riservati.

Un vecchio problema posto qualche anno fa dalle più importanti procure italiane che denunciarono i «buchi» nella loro rete di dati delle intercettazioni, scoprendo che essi rimanevano registrati e permeabili nei server dei fornitori delle attrezzature (tutti privati) con cui vengono captate oltre centomila utenze annue (secondo dati ufficiali delle autorità giudiziaria, mentre nulla si sa di quelle riservate di cui si è parlato qui) su cui il governo ha pensato bene di stringere il proprio controllo.

Mentre la politica insorge sdegnata dopo aver scoperto l’acqua calda, che cioè in Italia esistono centrali di dati riservati, regolarmente previste dalla legge, e che sulla conservazione degli stessi non esiste alcuna tutela e certezza, il governo che si indigna per il «Crosetto spiato» varerà al prossimo Consiglio dei ministri un decreto legge con la massima urgenza che allargherà per noi comuni mortali le più invasive tra le intercettazioni, quelle dei trojan operativi ventiquattro ore su ventiquattro in ogni anfratto della nostra vita.

Come questo giornale ha segnalato, il governo su stimolo della premier Giorgia Meloni si è mosso  – sollecitato ancora dal procuratore antimafia e da altri uffici giudiziari – per sterilizzare gli effetti di una sentenza di un anno fa della Cassazione che ha ribadito un principio più volte affermato anche dalle Sezioni Unite secondo cui si può ricorrere alle intercettazioni più invasive e devastanti solo in caso di concreti elementi di prova su reati di criminalità organizzata e terrorismo, mentre negli altri casi occorre che vi siano motivazioni adeguate e stringenti.

La Cassazione aveva negato che potesse bastare la sola contestazione del ricorso a modalità mafiose (l’uso di intimidazioni basato sulla fama delinquenziale) che non vuol dire, si badi bene, che non possano farsi intercettazioni ma che debbano essere sottoposte a precise condizioni (ad esempio per intercettare dentro un domicilio occorre dimostrare che ivi si svolge un’attività criminosa).

Ciò in perfetta aderenza a una radicata giurisprudenza anche della Consulta che ha sempre ribadito che di fronte ad esigenze di rango costituzionale contrapposte (tutela sociale e difesa del principio di riservatezza ai sensi dell’articolo 15 della Carta) si debba procedere a un bilanciamento.

Il punto è che quest’opera di minuziosa “pesatura” dei diritti è compito istituzionale dei giudici e della Corte Costituzionale e che un decreto legge del governo che si sostituisca, addirittura con procedura d’urgenza, alle Corti superiori è qualcosa di devastante in un’architettura costituzionale che autorizza futuri sciagurati e ben più gravi interventi.

Un’ultima cosa: sia nella vicenda Crosetto sia in quella della Cassazione si è potuta constatare una evidente “sinergia” tra la procura nazionale antimafia e l’attuale governo. La «leale collaborazione» tra le istituzioni è elemento portante di uno Stato democratico, ma sia consentito esprimere una doverosa riserva sul fatto che esso legittimi di per sé solo un’interferenza dell’esecutivo sulla funzione giudiziaria.

Le Intercettazioni.

Da “la Verità” il 20 giugno 2023.  

Ieri si è svolto nella sede centrale del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ovvero l’ufficio di coordinamento della nostra intelligence, un incontro in vista dei lavori di modifica della legge 124 del 2007 sugli apparati di sicurezza.

All’appuntamento, voluto da Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi, hanno partecipato diversi esperti, tra cui gli ex direttori dell’Aisi Mario Mori e Franco Gabrielli, oltre a diversi membri del Copasir. Quando furono riuniti i magistrati, moderò il vicedirettore della Repubblica Carlo Bonini.

A «dirigere» l’ultimo dibattito, invece, è stata chiamata Fiorenza Sarzanini, vicedirettore del Corriere della sera. Suscita qualche perplessità che il direttore del Dis Elisabetta Belloni abbia scelto proprio la Sarzanini, finita nella bufera un anno fa per aver pubblicato i report realizzati dai servizi segreti su «influencer e opinionisti» accusati di essere «i putiniani d’Italia». Una lista di proscrizione che la cronista aveva giustificato così: «È una relazione mandata al Copasir dall’intelligence […]. Noi ne abbiamo dato conto». La relazione usciva dal Copasir o dai servizi? Ieri la giornalista, con la sua presenza, sembra aver dato la risposta.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 3 giugno 2023.

Giovanni Salvi, prima di chiudere la carriera come procuratore generale della Cassazione, è stato procuratore generale della Corte di Appello di Roma dal 2015 al 2019. Il suo ufficio ha quindi gestito le intercettazioni preventive per un lungo periodo di tempo. Nel mondo del diritto è considerato un riferimento del settore tanto che è appena stato pubblicato per l’Enciclopedia del Diritto, “Intelligence e potere”. 

Procuratore Salvi, il senatore Renzi lancia un allarme specifico: l’intelligence può fare intercettazioni a strascico, dribblando il controllo dell’autorità giudiziaria. È così?

«No, questo non è possibile. E se mai è stato fatto, si è commesso un reato.

A differenza di quanto accade in altri paesi, da noi sono consentite soltanto intercettazioni con bersagli mirati. E sempre con l’autorizzazione da parte dell’Autorità giudiziaria». 

Non può, quindi, un premier, la sua autorità delegata, o il direttore di un’agenzia di intelligence, decidere di intercettare in autonomia una persona?

«Possono proporlo ma l’avallo lo deve dare il procuratore generale, sempre. Il controllo è esercitato dall’Autorità giudiziaria molto seriamente, con provvedimenti accurati e ben motivati e la cui proroga è valutata ogni venti giorni».

Ritiene quindi che il nostro sistema garantisca oggi i diritti dei cittadini? Renzi era preoccupato dalla possibilità che si potesserointercettare con questo sistema, per esempio, politici e giornalisti.

«Le leggi esistono e offrono garanzie. È possibile, però, ci sia bisogno di una rideterminazione. Mi spiego: la normativa del 2012 ha ampliato l’area delle autorizzazioni, che prima erano limitate al terrorismo e alla criminalità organizzata, al concetto di sicurezza nazionale.

Quando ero procuratore, nel 2016, con una direttiva interna, cercammo di dare dei confini molto chiari per circoscrivere i casi. […] Dalle decisioni della Corte costituzionale e da quelle delle Corti del Lussemburgo e di Strasburgo risultano poi principi chiari, di stretta necessità, proporzionalità, progressività. I sistemi di intercettazione, telefonica, telematica, oppure tramite i trojan, sono diversi. E l’intervento autorizzato, vista l’invasività del mezzo sulla vita del personale, deve essere sempre graduale e proporzionato alla minaccia ipotizzata alla sicurezza nazionale. Insomma, le norme ci sono». 

Sicurezza nazionale non significa, però, sicurezza della maggioranza di governo.

«Assolutamente. Le garanzie dei parlamentari restano identiche anche in caso di intercettazioni preventive; monitorare un partito di opposizione, poi, per interessi di parte sarebbe una grave violazione dei principi costituzionali, a mio parere perseguibile anche oltre la responsabilità politica». 

[… ] Renzi ha lanciato un allarme anche su possibili intercettazioni ai giornalisti.

«A oggi la norma del 2007 che ha riformato i servizi segreti in Italia impedisce attività dei servizi nei riguardi dei giornalisti solo nel campo delle cosiddette “garanzie funzionali”, cioè le operazioni occulte autorizzate dal Presidente del Consiglio; non vi è una analoga norma per le intercettazioni. E questo penso sia giusto: in casi eccezionali, non certo a strascico, potrebbero essere anche disposte, anche se in punto di fatto non so se sia mai avvenuto.

È possibile circoscrivere questi casi con una legge in modo tale da evitare abusi.

La questione però è più ampia. Io credo che dobbiamo avere fiducia nel nostro comparto di intelligence. 

Non è più il tempo del caso Abu Omar, per fortuna […]. Certo, non dobbiamo avere paura di discutere possibili miglioramenti. Anzi. Ecco perché credo che gli interventi su questi temi debbano avvenire, a differenza di quanto accaduto recentemente, con il pieno coinvolgimento del Parlamento e del Copasir. […]».

Luca Fazzo per “il Giornale” l'1 giugno 2023.

Intercettano? Certo che intercettano. Anche illegalmente? Certo, anche illegalmente. Per scoperchiare il vaso sulle attività occulte dei nostri servizi segreti, rendendo noto al grande pubblico quello che da tempo si raccontava nel mondo dell’intelligence e della sicurezza, è servito il libro di due giornalisti che di «barbe finte» se ne intendono, Gigi Bisignani e Paolo Madron, platealmente rilanciato da una intervista di Matteo Renzi a Repubblica. Tema, quella che il leader di Italia Viva definisce una «emergenza democratica»: le intercettazioni preventive dei servizi segreti a carico di parlamentari e giornalisti. 

«Se è vero sono state minate le basi della democrazia», dice Renzi. Tutto nasce, scrivono Bisignani e Madron nel loro libro I potenti al tempo di Giorgia, da un avviso giunto a Giorgia Meloni poco prima dell’arrivo a Palazzo Chigi: la vincitrice delle elezioni era stata informata di «forme di controllo telematico di vari personaggi che ruotavano attorno al suo mondo. Si parlava di oltre 400 utente captate». 

Roba da saltare sulla sedia. Vero o falso? «Abbiamo fonte plurime - dice Madron - ed esiste anche una indagine della Procura di Roma, generata da una denuncia contro ignoti presentata dal ministro Guido Crosetto per accessi abusivi a caselle whatsapp. In questa inchiesta sono stati già sentiti diversi testimoni. Ed è emerso che ci sono giornalisti vittime del sistema ma anche giornalisti complici, che ricevono dai servizi segreti soldi o altra utilità». 

Il problema è che per legge le intercettazioni preventive degli 007, che non possono essere usate nei processi, devono passare per una «doppia chiave»: prima il via libera da Palazzo Chigi, attraverso l’Autorità delegata alla sicurezza, poi dalla Procura generale di Roma. Attualmente l’Autorità è Alfredo Mantovano, che ieri si precipita a garantire di «non avere mai autorizzato alcuna intercettazione a carico di politici o di giornalisti». Renzi dichiara di apprezzare l’«attesa smentita».

INTERCETTAZIONI 

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Perché il problema non sono le intercettazioni ufficiali condotte dai servizi segreti, soggette al rigido controllo del sistema a doppia chiave. Il vero buco nero sono le intercettazioni abusive e illegali condotte dalla nostra intelligence, spesso col sistema «a strascico», in cui si parte alla ricerca di qualcosa ma poi si raccoglie tutto ciò che resta impigliato nella rete. Un sistema avviato all’epoca del terrorismo, ma che oggi viene utilizzato anche su altri versanti. Finendo a lambire anche politica e informazione.  

È a questa realtà illegale che si riferiscono sia Renzi quando parla di emergenza democratica, sia Mantovano quando parla di «scenario gravissimo» sul quale «l’autorità giudiziaria valuterà ogni accertamento»: il che, stando a Madron, sta già avvenendo. Al centro ci sarebbero soprattutto le attività dell’Aisi, l’agenzia interna.  

Renzi indica un periodo preciso in cui il sistema sarebbe degenerato: «Non so cosa sia successo ai tempi di Conte premier e Vecchione capo dell’intelligence». La stessa epoca in cui lo «strascico» è iniziato a sfuggire di mano.

Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” - ESTRATTO l'1 giugno 2023.

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Il punto è che le intercettazioni preventive dei servizi sono aumentate nell’ultimo decennio e parallelamente è aumentato il potere informativo del Governo. Questo è il tema.

Se i servizi fanno molte più intercettazioni oggi non è colpa di Meloni o Conte ma è ‘merito’ della legge 133 del 2012 (epoca Monti) che ha ampliato moltissimo i poteri in materia.

Prima si poteva intercettare solo per prevenzione contro il terrorismo e la criminalità organizzata. Ora su tutta la materia della sicurezza nazionale.

Più che Bisignani o Renzi bisognerebbe leggere il saggio appena uscito sull'Enciclopedia del Diritto dal titolo “Intelligence e Potere”, firmato da Giovanni Salvi, ex procuratore generale della Corte di Appello che autorizzava, come unico magistrato competente per tutta l’Italia, le intercettazioni dal 2015 al 2019. 

Scrive Salvi: “La svolta più significativa si ha nel 2012, quando le finalità legittimanti le operazioni di captazione vengono estese all’intero perimetro di attività delle Agenzie (...) Questa trasformazione dello strumento di acquisizione informativa determina la rottura del rapporto tra le attività dell’Intelligence e il contesto penale, fino a quel momento suo unico reale riferimento”. Il sospetto del reato non è più un argine. Si possono intercettare anche i fatti leciti ma pericolosi per la sicurezza nazionale.

Concetto vago che ogni premier, direttore AISI o procuratore generale può declinare a suo modo. Per fortuna chi ha occupato le poltrone decisive all’AISI, al Governo e in Procura ha mostrato sensibilità istituzionale. Per primo Salvi si pose il problema della norma troppo ‘lasca’.  

“Per tale ragione la Procura generale di Roma”, scrive Salvi, “all’epoca diretta da chi scrive, emise nell’aprile del 2016 una determinazione interna, riservata, comunicata ai diversi interlocutori istituzionali, con la quale indicò presupposti e parametri cui essa si sarebbe attenuta nell’autorizzare le captazioni”. Salvi indica il faro per orientarsi: “Il criterio della stretta necessità e quello, da questo discendente, di proporzionalità”.  

Mantovano sarà sentito al Copasir nei prossimi giorni. Sarà l’occasione per affrontare un tema delicato: quello della concentrazione dei poteri sia dal lato di chi autorizza sia dal lato di chi chiede le intercettazioni. 

Prima i servizi dovevano chiedere l’autorizzazione al procuratore generale competente per territorio. Dal 2012 l’unico soggetto legittimato è il procuratore generale della Corte di Roma. Anche dall’altro lato c’è stata una concentrazione. Negli anni scorsi l’AISE ha cercato di entrare nella partita più importante, quella della minaccia estera sul fronte economico. La legge del 2007 sembrava lasciare spazio a questa tesi. Poi però una direttiva riservata del 2021 di Mario Draghi ha di fatto legittimato il monopolio dell’Aisi. Ora si parla addirittura di introdurre un servizio segreto unico per recidere il nodo all’origine.

Il libro scomodo sulla premier. Intercettazioni, Bisignani: “Meloni innamorata dei Servizi, noticine su amici e nemici”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 31 Maggio 2023

Un’infatuazione scattata da quando è entrata a Palazzo Chigi. Nella cerchia della premier pare si vociferi da tempo di questa liaison tra la Meloni e i servizi segreti. Secondo molti, la premier tenderebbe a vedere intrighi, complotti dietro ogni angolo e le noticine che le arrivano giornalmente su amici e nemici pare la esaltino non poco stuzzicando alcuni tratti della sua personalità.

Meloni non si fida di nessuno. E forse fa pure bene, perché non fidarsi di solito è meglio ma la sua è una diffidenza nei confronti degli altri dicono patologica, fatta eccezione per la madre e la sorella. Forse è proprio da questa mancanza di fiducia che è nato quell’amore folle e bizzarro per le intercettazioni.

Prima di entrare a Palazzo, pare che la premier fosse stata informata dell’esistenza di forme di controllo telematico di vari personaggi che ruotavano attorno al suo mondo. Si parlava di oltre 400 utenze captate. In sostanza giornalisti o politici intercettati senza le garanzie costituzionali di una indagine ma dai servizi segreti. Boom, colpo di fulmine.

E adesso con il libro scomodo di Madron e Bisignani, problemi in arrivo (forse), perché in realtà per ora tutto tace. Renzi a parte. Allusioni, anche vaghe, non certezze quelle riportate ne I potenti al tempo di Giorgia ma che scuotono un po’ gli animi e indignano qualcuno.

Ma la Meloni non è stata di certo l’unica. L’amore tossico con i Servizi l’abbiamo visto anche nel 2021. Per Giuseppe Conte sono stati come una droga. “Degli ultimi presidenti del Consiglio, Giuseppi è stato il più ossessionato dall’intelligence. Coscienti del potere che esercitavano sul premier, le barbe finte lo riempivano di notizie confidenziali su vicende personali o qualche gossip relativo a suoi amici o avversari” – commenta Bisignani su La Stampa. 

Oggi al Dis c’è Elisabetta Belloni, nominata da Mario Draghi: “la chiamavano Betty, era molto amata, ma a settembre del 2023 potrebbe andare in pensione e, a meno di sorprese, uscire definitamente dai radar istituzionali. Fintanto che c’è Meloni, però, non la tocca nessuno, e chi ha provato a metterla ai vertici di qualche partecipata, come per esempio Leonardo o Eni, è stato incenerito”.

Adesso a Belloni la premier chiede, come è prassi istituzionale, schede dettagliate su tutto e tutti, specie prima degli incontri con gli interlocutori internazionali. Ma non solo loro. Si è messa anche in testa di ridisegnare l’intelligence. Intanto Mantovano sta lavorando per modificare la legge 124 del 2007 che regola i compiti delle barbe finte. Una riforma a cui aveva cominciato a pensare anche lo stesso Conte.

Nel progetto di riordino, Mantovano gestisce i rapporti con tutti i direttori delle agenzie, coni comandanti generali del-le forze armate e di polizia. “Per sentire il loro parere su un’ipotesi di riforma, poche settimane dopo il suo insediamento, un sabato, Mantovano ha organizzato, prima volta nella storia, una sorta di “festival delle spie” con un panel condotto da Mario Sechi, ancora all’Agi, in versione Amadeus. Un appuntamento che si è poi ripetuto all’auditorium di piazza Dante, sede dei Servizi, con tutte le autorità che in passato se n’erano istituzionalmente occupate. Da Gianni Letta a Marco Minniti a Gianni De Gennaro, che si sono confrontati con i grandi manager pubblici, da Claudio Descalzi a Francesco Starace a Matteo Del Fante, e a ministri e magistrati.” conclude Bisignani.

Giulio Pinco Caracciolo

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 31 maggio 2023.

Dice: «In gioco c’è la tenuta democratica di un Paese, il nostro». E non ha il tono di chi sta utilizzando un’iperbole. «In quel libro c’è scritta una cosa molto chiara che mette il Governo e l’Autorità delegata, Alfredo Mantovano, davanti a due sole strade possibili: dire che è stata scritta una bugia, smentendo ufficialmente. Oppure venendo immediatamente a spiegare al Copasir cosa è accaduto, da quanto tempo e cosa sta accadendo ora». 

Il senatore Matteo Renzi ha appena finito di leggere I potenti al tempo di Giorgia , il volume (edito da Chiarelettere) da poche ore in libreria scritto dal giornalista Paolo Madron e da Luigi Bisignani, condannato definitivamente durante Tangentopoli e poi ancora nel 2012 nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 e ciò nonostante grande navigatore di governi o, meglio ancora, sottogoverni.

Madron e Bisignani scrivono, facendo riferimento anche a un’inchiesta della procura di Roma: “Prima di arrivare a Palazzo Chigi, pare avessero detto a Giorgia Meloni che esistevano forme di controllo telematico di vari personaggi che ruotavano attorno al suo mondo. Si parlava di oltre 400 utenze captate”.

«Parlano di intercettazioni preventive. Quel lavoro, cioè, che l’intelligence può fare in assenza di un’inchiesta giudiziaria, ma quando si ritiene che sia in qualche modo in pericolo la sicurezza nazionale», afferma Renzi. È uno strumento previsto dal nostro Codice che però le consente soltanto in presenza di un’autorizzazione preventiva da parte del procuratore generale della Corte di Appello.

Perché è così preoccupato, senatore Renzi?

«Quello che scrive Bisignani è molto chiaro. Ed è l’esito di quello che da mesi gira in certi ambienti. E cioè che vi siano giornalisti o politici intercettati senza le garanzie costituzionali di una indagine ma dai servizi segreti. Mi spiego meglio: data l’autorizzazione iniziale della Corte si procede a strascico, senza ulteriori autorizzazioni, e si arriva a intercettare giornalisti e politici. In questa maniera ogni settimana si potrebbe capire quello che accade nelle redazioni o quello che avviene nei palazzi della politica. Se questo fosse vero, ci troveremmo di fronte a una cosa di una gravità inaudita. Sarebbe minato alle basi il nostro equilibrio dei poteri che fonda il sistema democratico».

Le norme prevedono però sistemi di controllo molto chiari. Si commetterebbero dei reati gravi qualora quei controlli venissero elusi.

«Io parlo di qualcosa che conosco, essendo stato a Palazzo Chigi. Non posso evidentemente svelare particolari coperti da segreto, di ufficio e di Stato, ma posso dire qual era stata sempre la mia linea: ero stato irremovibile nel dire che esiste un confine di etica della democrazia che impedisce ai Servizi di intercettare giornalisti e parlamentari in questo sistema di intercettazioni preventive a strascico. Di più: non ho mai visto una sola riga che riportava intercettazioni preventive. Di quelle si occupava l’Autorità delegata. Ora chiedo: la premier Meloni e il sottosegretario Mantovano la pensano come me o diversamente? A Palazzo Chigi in questi anni è successo altro?».

Che vuole dire?

«Io non so cosa è accaduto ai tempi di Conte premier e Vecchione capo dell’intelligence. Non so come sono state utilizzate le intercettazioni preventive. Non so cosa sta accadendo ora, con il governo Meloni. Ma suggerisco che Mantovano smentisca in modo chiaro che queste vengono effettuate su parlamentari e giornalisti. […] Non ci possono essere opacità su questo tema: vi sembra possibile che l’ufficio del premier possa avere report sui lavori di direttori di giornale, cronisti? O sugli avversari politici? Ma in che Paese siamo?».

«[…] se però davvero sono stati intercettati preventivamente giornalisti e politici, sono state minate le basi della democrazia. Il Governo ha il dovere della verità. Non vedo l’ora che arrivi una smentita ufficiale»  

Diteci che non è vero. Giornalisti e parlamentari “intercettati dai servizi segreti del governo Meloni”: la premier chiarisca. Matteo Renzi su Il Riformista il 31 Maggio 2023 

Deriva autoritaria, rischio fascista, emergenza democratica. Non c’è giorno che passi senza che qualcuno evochi il rischio di tenuta del sistema istituzionale del Paese. Poi esce una notizia bomba e stanno tutti zitti. Luigi Bisignani scrive nel suo nuovo libro con Paolo Madron, (“I potenti al tempo di Giorgia“), che l’intelligence italiana effettuerebbe centinaia di intercettazioni preventive. E fin qui passi. Si può discutere del numero, ma le intercettazioni preventive sono legittime per i servizi segreti: occorre l’autorizzazione ex ante di un magistrato, il procuratore generale di Roma, ma si possono fare.

Non sono intercettazioni come quelle che subiscono gli indagati: qui non rimangono degli atti, vengono effettuate dai servizi, non dai magistrati. Servono a capire se ci sono dei potenziali rischi per la tenuta del sistema istituzionale ed economico del Paese. Si sussurra però che negli ultimi anni ci sia stata la tendenza a allargare le maglie di queste intercettazioni, attraverso una sorta di pesca a strascico giuridicamente possibile, eticamente molto discutibile. E che dentro la rete – così fanno capire Bisignani e Madron – sarebbero finiti anche direttori di giornali, parlamentari e avversari politici del Governo in carica.

Se così fosse, sarebbe uno scandalo senza precedenti. Parlo per cognizione di causa: con me Premier non si sono mai effettuate intercettazioni preventive a giornalisti o politici. Non metto la mano sul fuoco su chi è venuto dopo di me: ad esempio ho sempre avuto riserve sulla gestione dell’intelligence da parte di Conte e del suo fedelissimo Vecchione. Ma quello di cui sono certo è che la solidità istituzionale del Paese ha bisogno di una smentita secca del libro di Bisignani da parte del sottosegretario Mantovano.

E c’è bisogno che il Copasir chiarisca la vicenda in seduta segreta ribadendo in modo netto e chiaro che le preventive non possono mai e poi mai toccare i giornalisti, specie se direttori, commentatori o direttori di inchiesta, e i parlamentari. Noi non gridiamo allo scandalo perché la Meloni sceglie i suoi uomini per la Polizia o la Finanza. Rispettiamo le decisioni di chi ha vinto le elezioni. Ma chiediamo alla premier di smentire con forza il libro di Bisignani dissipando ogni dubbio sulle intercettazioni preventive. Perché ne va della credibilità delle Istituzioni.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Il Caso Cappato.

Cappato: “Mi dicono che sono intercettato dai servizi”. Mantovano: “Escludo nel modo più assoluto”, la replica: “Fonte attendibile”.  Il Fatto Quotidiano il 29 agosto 2023. 

Una denuncia da brividi. Essere intercettato dai servizi segreti per associazione sovversiva. A farlo con un video e con una nota è Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e candidato alle elezioni suppletive del Senato a Monza del 22 e 23 ottobre, da anni impegnato in prima persona perché in Italia il fine vita sia normato e accessibile alle persone che – con patologie irreversibili – vogliono fare richiesta. Ebbene oggi Cappato racconta di “aver saputo da una fonte anonima” di essere sotto intercettazione. “Chiedo formalmente alla presidente del Consiglio di verificare se corrisponda al vero l’informazione a me giunta anonimamente che dal febbraio 2023 sarei sottoposto a ‘captazione informatica’ del telefono (intercettazione permanente e totale) con Trojan di Stato e che siano in corso intercettazioni con microcimici nelle miei sedi abituali di lavoro e di vita dal marzo di quest’anno.

Il monitoraggio sarebbe ad opera dell’Agenzia di Informazione e sicurezza – Aisi – su richiesta del Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza della Repubblica – Dis – Autorità delegata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per eventuali ipotesi di contestazione del reato di ‘associazione sovversiva‘ ed eventuali reati riscontrati in fase di indagine. Nel caso tale informazione, che potrebbe anche riguardare le persone con cui collaboro da anni, dovesse essere in tutto o in parte corrispondente al vero, chiedo alla presidente del Consiglio di interrompere immediatamente tale attività perché in palese contrasto con il libero esercizio di diritti civili e politici fondamentali previsto dalla nostra Costituzione che la Repubblica italiana ha l’obbligo di rispettare in virtù dell’aver ratificato tutti gli strumenti internazionali dei diritti umani”. A rispondere a Cappato è il Sottosegretario Alfredo Mantovano, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica: “Escludo nel modo più assoluto che vi sia o vi sia stata attività di intercettazione nei confronti dell’on. Marco Cappato”.

Cappato però replica: “Ho ricevuto una segnalazione anonima cartacea che ho verificato, si tratta di una fonte che ritengo credibile e affidabile, ma che vuole rimanere tutelata quindi anonima, non ho ancora prove altrimenti non avrei fatto una domanda al Presidente del consiglio. Io ho chiesto un impegno al governo, la presa di posizione è arrivata da parte del sottosegretario Alfredo Mantovano”. “Per ora è semplicemente la mia convinzione che si contrappone a una dichiarazione tassativa emessa a nome del governo e rispetto a questo non posso che prendere atto della risposta, poi vedremo“. 

A febbraio scorso era emerso che all’Associazione Coscioni 10 persone – tra cui un medico – avevano dato la loro disponibilità all’organizzazione di azioni di disobbedienza civile sul fine vita. Persone a rischiare anche il carcere, come aveva fattolo stesso Cappato che accompagnò in Svizzera Dj Fabo, permettendogli di ottenere il suicidio assistito. Il processo, finito alla Consulta, ha permesso di delineare un perimetro in cui i malati possono accedere al fine vita e a Cappato di ottenere una sentenza di non luogo a procedere per un reato che prevede una pena altissima.

Cappato però non si è fermato anche perché è cresciuto a dismisura l’elenco di persone che si rivolgono all’Associazione (sono aumentate del 111% le persone che hanno chiesto aiuto) ed è esiguo il numero di coloro che attendono anche molti mesi, in alcuni casi due anni per accedere al suicidio assistito. Recentemente solo il Veneto del leghista Zaia si è distinto per aver fornito all’ammalato strumentazione e farmaci. A inizio febbraio due attiviste avevano accompagnato in Svizzera una signora di 89 anni in Svizzera e si erano successivamente si erano presentate in casera dai carabinieri per autodenunciarsi: erano state accompagnate dall’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e proprio da Marco Cappato.

Il Fatto Quotidiano

Russiagate

Estratto dell'articolo di Paolo Mastrolilli per repubblica.it il 12 giugno 2023.

"Avevo allertato il presidente che avrei preso questi contatti, e gli chiesi di menzionare l'inchiesta di Durham ai primi ministri dei tre Paesi, sottolineando l'importanza del loro aiuto". Così scrive l'ex segretario alla Giustizia William Barr a pagina 301 del suo libro One Damn Thing After Another, rilanciando l'interrogativo se l'ex premier Giuseppe Conte abbia detto tutta la verità al Copasir e al Paese, riguardo il suo intervento nell'inchiesta sul "Russiagate". 

Perché il presidente a cui si riferisce Barr è Donald Trump, e i primi ministri a cui gli chiede di parlare dell'indagine condotta dal procuratore Durham sono quelli di Italia, Gran Bretagna e Australia. Un tassello importante di questa misteriosa vicenda, che diventa ancora più significativo alla luce del fatto che l'ex capo della Casa Bianca è stato incriminato proprio per la gestione inappropriata delle informazioni segrete di intelligence, tra cui potrebbero figurare anche quelle ricevute dai servizi italiani.

Nel 2019 il presidente Donald Trump si convince che il "Russiagate" è stato confezionato in Italia, dai servizi di Roma sotto la guida del premier Renzi alleato di Hillary, e dagli agenti dell'Fbi a lui ostili come il capo a via Veneto Michael Gaeta. 

Tutto nasce dalle accuse dell'ex consigliere George Papadopoulos, secondo cui a passargli la polpetta avvelenata sulle mail di Clinton rubate dai russi era stato il professore della Link Campus University Joseph Mifsud, durante un incontro nella nostra capitale. Perciò il capo della Casa Bianca chiede all'Attorney General di andare a indagare. 

Il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, per poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti. Si rivolge all'ambasciata italiana a Washington e ottiene un incontro con il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gennaro Vecchione, leader dei servizi di intelligence italiani, autorizzato direttamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

La mattina del 15 agosto 2019, secondo i documenti del dipartimento alla Giustizia sulla missione, che La Repubblica ha ottenuto nel rispetto delle leggi americane, l'Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall'ambasciata americana di via Veneto. Alle 17 va in piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. Secondo lo schedule di Barr, però, alle 18,45 l'intero gruppo si dirige verso piazza delle Coppelle per una cena di due ore al ristorante Casa Coppelle, mai rivelata ufficialmente. 

Un paio di settimane dopo Conte va al G7 di Biarritz, mentre a Roma si decide il futuro del suo governo. Il 27 agosto 2019 Trump lo appoggia, con questo messaggio su Twitter: "Comincia a mettersi bene per l'altamente rispettato primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti primo Ministro".

Il 27 settembre Barr torna a Roma per rivedere Vecchione, presumibilmente allo scopo di ricevere le informazioni raccolte dai nostri servizi dopo il primo appuntamento del 15 agosto. Quando la missione segreta di Barr viene scoperta, il Copasir chiede spiegazioni al presidente del Consiglio. Conte difende la legalità delle visite e sottolinea due punti: "Non ho mai parlato con Barr", e "i nostri servizi sono estranei alla vicenda". 

Poi ai giornalisti dice: "Qualcuno ha collegato il tweet di Trump a questa inchiesta. Non me ne ha mai parlato. La richiesta risale a giugno 2019 ed è pervenuta da Barr. Ha domandato di verificare l'operato degli agenti americani, col presupposto di non voler mettere in discussione l'operato delle autorità italiane dell'intelligence".

 Se così fosse stato, il premier avrebbe autorizzato il segretario alla Giustizia ad incontrare i vertici dei servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo Gaeta, con cui poi i nostri agenti lavoravano ogni giorno per garantire la sicurezza del paese. 

Quindi sul 15 agosto Conte aggiunge: "Si è trattato di una riunione tecnica con il direttore del Dis Vecchione, che non si è svolta all'ambasciata americana, né in un bar, né in un albergo, come riportato da alcuni organi di informazione, ma nella sede di piazza Dante del Dis". Nello schedule ufficiale di Barr però c'è anche la cena a Casa Coppelle, che poi Vecchione ha confermato, descrivendola come un incontro conviviale. 

[…] 

L'ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un'ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente dal procuratore Durham, che ha effettivamente richiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, come si fa appunto nei casi di cooperazione giudiziaria, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva sul piano tecnico.

Conte infine sottolinea che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani, ma così apre un altro caso. Il premier infatti avrebbe autorizzato il segretario ad incontrare i nostri servizi per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo il capo a Roma Michael Gaeta, con cui poi i nostri agenti dovevano lavorare ogni giorno per garantire la sicurezza del Paese, mettendola così a rischio a causa dei potenziali attriti con gli agenti Usa in Italia. 

Conte infine dice che la sua decisione ha contribuito alle buone relazioni tra Roma e Washington, ma ora sappiamo che era un'iniziativa presa da Trump per il proprio interesse personale ed eventualmente elettorale, non per la sicurezza nazionale dei due Paesi.

Nel suo libro, Barr chiarisce così l'episodio: "Nella primavera e l'inizio dell'estate del 2019, quando John (Durham) e io discutemmo la dimensione internazionale del suo lavoro, ci accordammo per coinvolgere tre paesi che sentivamo sarebbero stati più utili all'investigazione: Regno Unito, Australia e Italia. Io cominciai contattando gli ambasciatori di questi paesi, e in seguito ebbi discussioni con alti funzionari in ciascuno di essi. Andai tanto in Italia, quanto nel Regno Unito, per spiegare l'inchiesta di Durham e chiedere qualsiasi assistenza o informazione che potessero fornire". Quindi arriva la frase chiave su Conte: "Avevo allertato il presidente che avrei preso questi contatti, e gli chiesi di menzionare l'inchiesta di Durham ai primi ministri dei tre Paesi, sottolineando l'importanza del loro aiuto".

Ora l'ex presidente del Consiglio potrebbe sostenere che la conversazione con Trump sollecitata da Barr non è mai avvenuta, ma ciò sarebbe molto sorprendente. L'inchiesta sul "Russiagate" era l'iniziativa politica più importante per il capo della Casa Bianca. 

Aveva chiesto personalmente al segretario alla Giustizia di lanciarla, spingendolo ad agire. Barr aveva obbedito, prendendo contatto con le autorità italiane e visitando il nostro paese. Quindi aveva chiesto a Trump di parlare dell'inchiesta con Conte, per sensibilizzarlo sulla sua importanza e chiedergli "qualsiasi assistenza o informazione" che potesse fornire.

Quanto è probabile che poi Donald non abbia dato seguito alla sollecitazione di Barr, evitando di parlare dell'indagine col presidente del Consiglio? In questi casi non serve una lunga conversazione, basta un accenno per capirsi. Non farlo sarebbe stato un comportamento contrario agli interessi di Trump, e certamente fuori carattere per un capo della Casa Bianca che, come abbiamo visto dall'incriminazione del procuratore Jack Smith, non si faceva certo troppi scrupoli sull'uso personale dell'intelligence.          

Il ruolo dell'Italia è confermato e chiarito dal rapporto appena pubblicato da Durham. La giornata chiave è il 3 ottobre del 2016, in piena campagna presidenziale fra Trump e Hillary Clinton, quando a Roma si incontrano cinque personaggi molto importanti.

Di due conosciamo l'identità, sono l'analista supervisore dell'Fbi Brian Auten e l'ex capo del Desk Russia all'MI6 Chris Steele. Gli altri vengono identificati solo come Special Agent-2, Acting Section Chief-1 e Handling Agent-1, ma sono pezzi grossi del Federal Bureau of Investigation. Sono nella capitale italiana per vedere l'ex agente segreto britannico, autore del famoso dossier sulle relazioni pericolose fra Trump e Mosca, all'origine del "Russiagate". Vogliono offrirgli un milione di dollari, se riuscirà a provare le sue accuse contro il candidato repubblicano alla Casa Bianca. […] 

Ora però ci sono nuovi sviluppi che rilanciano gli interrogativi, e l'incriminazione di Trump forse rende ancora più urgenti i chiarimenti. Almeno quattro sono le domande che il Copasir, guidato adesso da Lorenzo Guerini, dovrebbe essere interessato a chiedere a Conte.

Primo: la conversazione tra l'ex capo della Casa Bianca e l'ex premier, caldeggiata da Barr, era avvenuta? Se sì, cosa si erano detti? Se no, era stata ricevuta una richiesta e rifiutata? Conte era a conoscenza delle potenziali notizie di reato rivelate dai servizi italiani al segretario alla Giustizia americano, e di cosa si trattava? Ne va della sicurezza nazionale italiana, e potenzialmente dei futuri equilibri globali. Perciò sarebbe essenziale ricevere le risposte. 

Il Battello affondato.

Battello ribaltato sul lago Maggiore per maltempo: quattro morti. Dubbi sul ritardo nel rientro al porto. Andrea Camurani e Andrea Galli corriere.it il 28 maggio 2023.

L'incidente domenica a Lisanza. A bordo 25 persone: italiani e stranieri che festeggiavano un compleanno. Travolta da una tromba d'aria, la barca si è inabissata. Molti in salvo a nuoto

Quattro corpi senza vita recuperati dai sommozzatori (gli ultimi due lunedì mattina), una causa che risulta oggettiva — il maltempo e una tempesta che ha provocato il rovesciamento di una barca turistica nel lago Maggiore — ma anche un dubbio, punto di partenza dell’inchiesta della Procura di Busto Arsizio: forse chi manovrava il mezzo, proprio in considerazione dell’evidente peggioramento del cielo, sarebbe dovuto rientrare a riva prima. 

A nuoto per 150 metri

I velisti ad esempio lo hanno fatto in anticipo per le violente raffiche di vento, a differenza appunto di questa imbarcazione che ospitava 23 italiani e stranieri (pare israeliani e inglesi), più due membri dell’equipaggio. I passeggeri appartengono a un gruppo di amici che ha affittato il mezzo per una festa di compleanno. L’incidente è avvenuto poco dopo le 19 non lontano dalle sponde del cantiere nautico «Fratelli Piccaluga» a Lisanza, una frazione di Sesto Calende. La relativa vicinanza a riva ha permesso ad alcuni, i primi a cadere in acqua, di raggiungere la salvezza a nuoto nonostante i 150 metri da percorrere, e agli altri di essere soccorsi. 

Passeggeri tra i 20 e i 50 anni

In una prima fase erano 6 le persone che mancavano; il numero si è poi ridotto a due prima della notte. Calato il buio, l’elicottero dei vigili del fuoco non ha più potuto sorvolare il lago, mentre sono proseguiti, con crescente difficoltà anche per il ritorno di una pioggia battente, i tentativi di scandagliare il bacino. Un contributo decisivo lo hanno dato proprio i velisti recuperando la maggioranza delle persone, di età compresa tra i 20 e i 50 anni. Le ultime due vittime sono state trovate lunedì mattina. Rispetto all’area del previsto approdo, la barca si è fermata a 600 metri di distanza forse a conferma di quanto fosse diventata ingovernabile. Dai riscontri negli ospedali le condizioni dei 21 passeggeri salvati non sono gravi. 

Il maltempo dalle 17

Era almeno dalle 17 che il maltempo aveva iniziato a colpire la provincia di Varese provocando ritardi all’aeroporto di Malpensa e ulteriori problemi a imbarcazioni, specie di canottaggio e questa volta senza esito drammatico, nel lago di Varese. Le indagini sono condotte dal Comando provinciale dei carabinieri. In relazione al complessivo buono stato di salute dei feriti, gli investigatori hanno subito cominciato a raccogliere testimonianze. Voci concordi hanno narrato il rapido e impetuoso processo di rovesciamento della barca (qualcuno ha parlato di «una tromba d’aria») ma, come anticipato, la versione dirimente sarà quella dell’equipaggio.

Il viaggio nonostante il maltempo

 I due che conducevano il mezzo dovranno resocontare se avevano ricevuto allarmi sul mutamento delle condizioni meteo oppure se, magari dietro insistenza dei passeggeri affinché la festa non si interrompesse di colpo, hanno allora rischiato proseguendo il viaggio. Il relitto si è presto inabissato. 

Il naufragio. Tragedia sul Lago Maggiore, tra i morti del naufragio due 007 italiani: la barca inabissata per 15 metri. Redazione Web su L'Unità il 29 Maggio 2023

La tromba d’aria si è abbattuta sul Lago Maggiore nella serata di domenica 28 maggio. Già dalle 17 i temporali e le pesanti grandinate avevano iniziato a colpire la provincia di Varese e che il maltempo potesse peggiorare era ipotizzabile. Eppure la house boat con a bordo 23 passeggeri e due membri dell’equipaggio era in mezzo al lago per poi ribaltarsi e provocare 4 morti. Tra questi due dipendenti appartenenti al comparto dell’Intelligence italiana che insieme agli altri ospiti stavano festeggiando un compleanno a bordo della barca inabissatasi poi a 15 mt di profondità.

Si tratta di Claudio Alonzi, 62 anni, sposato e padre di due figli, e Tiziana Barnobi, 53 anni, sposata, un figlio ancora minorenne. I due si trovavano in zona per partecipare a una festa di compleanno. In una nota del Comparto intelligence il cordoglio dei colleghi: “L’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e i Vertici del Comparto esprimono la loro vicinanza e il dolore per il tragico evento ai familiari delle vittime”.

L’incidente è avvenuto all’altezza della località Lisanza, una frazione di Sesto Calende, a una distanza tra i 100 e i 150 metri dalla costa, e 600 metri più lontano rispetto al previsto punto di approdo. All’improvviso a bordo è scattato il panico: qualcuno si è gettato in acqua e ha nuotato fino a riva, qualcun altro ci è caduto, altri sono stati tratti in salvo da alcuni velisti. I quattro che sono deceduti potrebbero essere rimasti incastrati mentre la nave affondava. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo contro ignoti per nubifragio colposo. L’inchiesta punta a fare luce sul perché visto il maltempo i due manovratori non hanno velocizzato le manovre di rientro all’approdo come hanno fatto altre imbarcazioni. La barca si è inabissata e dovrà essere trascinata nel porto per consentire altre verifiche tecniche e capire se ci fossero guasti o malfunzionamenti.

Estratto dell’articolo di Massimo Pisa per “la Repubblica” il 30 maggio 2023.

L'ultimo corpo riaffiora che sta albeggiando. Lo riporta in superficie un sommozzatore dei carabinieri, che ha perlustrato il fondale a una ventina di metri dal relitto. Le due donne le hanno recuperate i vigili del fuoco dalla cabina della "Good... uria", la house-boat rovesciata dal vento e dalla grandine in mezzo al braccio sud del Lago Maggiore. 

E la prima vittima era stata recuperata dalle lance alla luce del tramonto della sera prima. Ma è quando i soccorritori raccolgono documenti e tesserini che le proporzioni della tragedia diventano qualcos'altro: non solo un naufragio e una strage, perché tre delle quattro vittime e diciotto dei diciannove superstiti non sono semplici gitanti della domenica, ma agenti di intelligence, o in servizio o in congedo.

Apparteneva all'Aise Claudio Alonzi, 62enne di Alatri, e così Tiziana Barnobi, 53enne colta da una crisi di panico - lo ricostruiscono le testimonianze raccolte dal pm Massimo De Filippo e dal procuratore capo di Busto Arsizio, Carlo Nocerino - all'abbattersi del fortunale. Si era rifugiata in cabina e il proprietario e skipper della "Good... uria", Claudio Carminati, aveva mandato a farle compagnia la moglie Anya Bozhkova, 50enne russa di Rostov dove aveva lasciato una figlia e due nipoti: è lei la terza vittima, intrappolata sott'acqua.

Il primo a cadere nel lago, il 54enne Shimoni Erez, era un agente in pensione dei servizi israeliani e con una decina di colleghi aveva deciso di concedersi un weekend in Italia per festeggiare il compleanno di uno di loro. Occasione di una rimpatriata - così sostengono più fonti di intelligence - con altrettanti 007 italiani, una gita per le isolette lungo il Maggiore con fermata al ristorante Il Verbano, sulla sponda piemontese del lago, e luculliano pranzo. E di certo, tra un tagliolino Castelmagno e tartufo e un bicchiere di barbaresco, qualche chiacchiera sui vecchi e i nuovi tempi.

I superstiti, dopo aver nuotato per qualche decina di metri (ma dal punto del naufragio alla sponda di Marina di Livenza se ne contano non meno di trecento) sono stati salvati da altri natanti, motoscafi, perfino moto d'acqua. Ascoltati nella notte dai magistrati e dai carabinieri del Comando provinciale di Varese, sono spariti in fretta: gli israeliani, già ieri mattina, erano su un volo militare verso Tel Aviv, tanto che uno dei due furgoncini Ford presi a nolo per la gita è rimasto incustodito sulla banchina del porticciolo da dove era salpata la "Good... uria", accanto alla Clio bianca di Anya Bozhkova e alla Mercedes station wagon di Claudio Carminati. 

Gli italiani sono stati evacuati in tutta fretta dai pronto soccorso e dagli hotel tra Sesto Calende e la Malpensa, dove non risulta traccia del loro pernottamento. E non ha fatto ritorno a casa nemmeno il proprietario della house-boat: anche perché, su quel cabinato ormeggiato ai cantieri Piccaluga, Carminati ci viveva, conservando sulla terraferma l'appartamento di Anya, che due mesi fa aveva sposato in seconde nozze.

Quelle mura, un pezzo della grande villetta dove dal 2006 la donna aveva lavorato come badante, la coppia conservava un po' di mobilio e la sede della "Love Lake", il nome commerciale della loro attività di guide galleggianti a noleggio. Quanto esperti e quanto avveduti, lo dirà l'inchiesta. […]

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 30 maggio 2023.

Domenica mattina, Claudio Carminati aveva qualche dubbio. Con quel tempo un po'incerto non era convinto di uscire in barca con la compagnia italo-israeliana – quasi tutti legati all'intelligence dei due Paesi – che aveva prenotato una gita sul lago Maggiore con la sua amata «Love lake», quell'imbarcazione turistica che era la sua vita. Alla fine, però, si è deciso a salpare dalle sponde di Lisanza a Sesto Calende, in provincia di Varese. 

Non poteva immaginare le dimensioni della tempesta che per pochi minuti si è abbattuta sul battello, rovesciandolo nelle acque gelide del lago e uccidendo sua moglie Anya e tre degli ospiti: due membri dell'Aise e un pensionato delle forze di sicurezza israeliane.

Avevano prenotato in ventitré, ma all'ultimo due di loro si sono sfilati, così sulla barca di Carminati sono saliti in ventuno.

Dal poco che è trapelato, il motivo dell'appuntamento era «conviviale», ma anche un'occasione per scambiare delle informazioni tra gli 007 dei due Paesi. La gita era programmata, con pranzo prenotato alle 12, 30 al ristorante Il Verbano, sull'isola dei Pescatori. «Il maltempo li ha sorpresi mentre erano di ritorno al cantiere navale Piccaluga» racconta un testimone. 

«Ma la barca tardava a tornare. Era stata avvistata a dieci minuti dalla riva da un'altra imbarcazione, i tempi non tornavano, così è stato lanciato l'allarme». Chi era appena rientrato al cantiere racconta dell'arrivo di due temporali, uno da Arona, l'altro da est» di «grandine e vento forte», di un «cielo che si è oscurato nel giro di pochi minuti al punto che non si vedeva nulla a venti metri di distanza». Il vento a 130 chilometri orari ha alzato le onde, la prua della Love lake, che qui è nota anche come «Goduria», ne ha presa una in pieno, si è sollevata. Un primo ospite è finito nel lago: ai carabinieri diretti dal comandante Gianluca Piasentin lo hanno raccontato i testimoni a bordo. Forse proprio Shimoni Erez, 53enne pensionato delle forze di sicurezza israeliane. A lui apparteneva il primo corpo senza vita recuperato dai soccorsi. […]

Carminati ha detto agli ospiti di «scendere dal piano alto per stabilizzare la barca». Tra le urla e nel tentativo disperato di salvarsi, tutti sono finiti in acqua. Tutti, tranne sua moglie Anya Bozhkova, 50 anni, di origine russa, che una ventina d'anni fa si era trasferita a Sesto Calende a fare la badante e la 007 dell'Aise Tiziana Barnobi, triestina di 53 anni, sposata con un figlio piccolo, che qualche istante prima erano andate sotto coperta per ripararsi dalla pioggia. Tutte e due sono rimaste incastrate nel battello che affondava. I loro corpi sono stati recuperati nella tarda serata di domenica […] 

L'ultimo corpo senza vita è stato recuperato dai sommozzatori dei carabinieri a venti metri dal relitto intorno alle 7 di ieri mattina. Era quello di Claudio Alonzi, originario di Alatri nel Frusinate, 62 anni, anche lui alle dipendenze dell'Aise, come confermato da una nota ufficiale dell'«Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, Alfredo Mantovano, e i vertici del comparto» che hanno espresso «vicinanza e dolore per il tragico evento ai familiari delle vittime».

Nel frattempo il procuratore di Busto Arsizio, Carlo Nocerino, e il pm di turno Massimo De Filippo hanno aperto un fascicolo d'inchiesta per naufragio colposo, senza indagati, in attesa degli accertamenti anche sulla documentazione conservata in quel che resta della Love lake. Gli aspetti da chiarire sono tanti. Per prima cosa il numero degli ospiti: l'attività della barca veniva pubblicizzata per un massimo di quindici persone, e non ventuno come domenica. Poi l'equipaggio: a bordo c'erano solo lo skipper e la moglie, un numero inadeguato forse a quello degli ospiti. E ancora la questione maltempo: in quelle condizioni meteo la barca poteva uscire?

Peraltro c'è chi, in altri cantieri navali della zona, parla di «errori tecnici»: «Con quelle condizioni la barca avrebbe dovuto navigare sottocosta e non in mezzo al lago». E ancora, c'è da capire se l'imbarcazione fosse dotata dei dispositivi di sicurezza: se è vero che i giubbotti gonfiabili erano a bordo, saranno ritrovati nel relitto che, nella serata di ieri, con l'ausilio di speciali palloni ad aria compressa, i sommozzatori stavano recuperando. Di certo, nessuno dei dispersi ne aveva uno addosso. […]

Erano quasi tutti 007 i deceduti sulla barca affondata nel Lago Maggiore. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Maggio 2023

Eccetto il comandante della barca e sua moglie, morta nel naufragio insieme ad altre tre persone, a bordo c'erano 19 funzionari dell'intelligence israeliana e italiana. Gli inquirenti indagano solo sulla dinamica dell'incidente: "Il resto non è affar nostro". Rimangono insoluti i misteri e gli interrogativi

L’interesse dei magistrati della Procura di Busto Arsizio e dei Carabinieri  del Comando provinciale di Varese guidati dal colonnello Gianluca Piasentin, però sembra essere focalizzato solo a capire come e perché sia affondata la barca “Goduria“‘ dopo che due giorni fa all’ora dell’aperitivo le acque del lago Maggiore sono imbizzarrite a causa di un’improvvisa di una tromba d’aria che ha provocato la morte di quattro persone. Quando si è scatenata la tempesta alcuni dei 23 passeggeri si sono tuffati salvandosi a nuoto, altri sono stati soccorsi e poi c’è chi non ce l’ha fatta, per ragioni da chiarire. Cinque persone sono state ricoverate in condizioni non gravi. A bordo dell’imbarcazione c’erano otto agenti segreti italiani dell’ AISE e 13 agenti israeliani del Mossad, e tutti alloggiavano in un hotel vicino all’aeroporto di Milano Malpensa

“Il resto non è affar nostro” fanno sapere gli investigatori sottolineando che nel loro orizzonte ci sono solo accertamenti su quelli che possono essere eventuali reati. Anche se qualcuno ammette che lo scenario però è “peculiare”. A bordo erano presenti da 13 esponenti del Mossad il servizio di intelligence israeliana,  e 8 di quella italiana, oltre al comandante della barca Claudio Carminati e la moglie Anja Bozhkova, cittadina russa che è deceduta .  L’occasione di questa presenza non indifferente di 007 sarebbe stato il compleanno di uno degli uomini del Mossad sopravvissuti. 

Una delle versioni, non ufficiali, sarebbe la seguente: alla vigilia non era in programma nessuna gita sul lago, poi invece avvenuta in quanto, dopo incontri in Lombardia per lo scambio di informazioni e di documenti, gli israeliani avevano perso l’aereo del ritorno e deciso di prolungare la sosta sino all’intero fine settimana, con partenza per Israele in programma nella giornata di lunedì 29 maggio. 10 agenti del Mossad tratti in salvo sono stati immediatamente riportati in Israele con l’utilizzo di un aereo militare. 

Sulla possibile contiguità di Carminati ad ambienti dei servizi segreti non vi sono riscontri e conferme. In paese ricordano che in passato aprì una lavanderia a gettoni e poi si inventò costruendola con le sue mani la barca per i turisti “forse senza le certificazioni per poterlo fare in sicurezza” un tal numero di 007 riuniti su una barca di 15 metri potrebbe avere scelto come accompagnatore almeno una persona di maggiore fiducia e sicurezza. 

La moglie del comandante dell’imbarcazione è deceduta rimanendo incastrata all’interno della barca durante la tempesta, dove l’hanno trovata i vigili del fuoco, lui è sopravvissuto ed è stato indagato anche a garanzia sua perché adesso saranno svolti accertamenti tecnici come le autopsie e le analisi sulla barca ai quali potrà partecipare col suo legale. I temi sono quelli della sicurezza della barca, della capienza più o meno regolare ( erano in 21a bordo), del cielo che si era incupito e forse avrebbe potuto e dovuto consigliare altre manovre e altra prudenza a Carminati.

I naufraghi in un primo momento sono stati scambiati da chi li ha avvistati da altre imbarcazioni per “anatre o cigni” racconta il vicesindaco Edoardo Favaron: “Alcuni naufraghi sono stati recuperati da persone che erano su altre imbarcazioni nel lago che poi, una volta a terra, mi hanno riferito di avere pensato che le teste di chi era caduto in acqua fossero di anatre o cigni”. Favaron spiega di essere arrivato quando il naufragio era già avvenuto e di avere presenziato ai soccorsi portati da elicotteri, carabinieri e altri natanti.  I vigili del fuoco hanno svolto le operazioni per portare a galla i resti della ‘Goduria‘ che saranno analizzati per capire se fosse in grado di navigare garantendo la sicurezza a chi era a bordo. 

Ireati ipotizzati dal sostituto procuratore Massimo De Filippo sono naufragio e omicidio, entrambi a titolo colposo. Oltre alla donna russa, non sono riemersi dalle acque del Lago Maggiore, Claudio Alonzi 62 anni, coniugato e padre di due figli , e Tiziana Barnobi, originaria di Trieste, dove si era laureata in Economia, per poi frequentare l’Isda, l’Istituto superiore di direzione aziendale e trasferirsi a Roma, coniugata e madre di un figlio ancora minorenne, entrambi in servizio nell’ Aise (il servizio segreto italiano per l’estero), alle cui famiglie sono arrivate le condoglianze dei vertici e del sottosegretario Alfredo Mantovano, l’autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.

Deceduto anche Shimoni Erez, agente del Mossad in pensione.  A riferirlo è il ministero degli Esteri a Gerusalemme, specificando che la famiglia della vittima è stata avvertita e il “console israeliano a Roma, assieme con il Dipartimento degli israeliani all’estero del ministero, sta operando per portare la salma in Israele” . Gli agenti del Mossad provenienti da Israele sopravvissuti al naufragio hanno lasciato questa mattina gli alberghi dove alloggiavano per fare ritorno in patria . Sull’ identiità delle persone presenti sulla ‘Goduria’ negli ambienti investigativi chiaramente c’e’ il massimo riserbo riserbo.  

“Nella nostra zona ci sono siti industriali come quello di Leonardo ma non tali da far pensare che il nostro Comune possa portare qui per un summit esponenti di un servizio segreto così importante come quello israeliano” riflette il vicesindaco Favaron che non nasconde la “perplessità” degli amministratori di un paese di 11 mila abitanti su quanto accaduto anche perché si sentono esclusi dalle informazioni sulle ragioni della presenza proprio a Sesto Calende di un numero di 007 che lascia pensare a trame e cause importanti. Redazione CdG 1947

Il jet segreto per rimpatriare gli 007 israeliani. Documenti e piani, il giallo del summit a bordo. Relitto riemerso, verifiche sulle dotazioni. Skipper indagato: naufragio e omicidio. Tiziana Paolocci il 31 Maggio 2023 su Il Giornale.

Scomparsi, proprio come ombre. Un jet privato utilizzato per voli sensibili ufficiali, decollato da Israele e atterrato a Milano, ha recuperato gli 007 israeliani sopravvissuti al naufragio della «Goduria», l'imbarcazione che si è inabissata nel tardo pomeriggio di domenica sul Lago Maggiore, a Lisanza (Varese).

Si è saputo che alloggiavano tutti in un hotel vicino all'aeroporto di Malpensa, sia gli 8 agenti segreti italiani che i 13 israeliani del Mossad, che erano a bordo della barca affondata. Riuniti per un'occasione conviviale, un compleanno di uno degli israeliani, o almeno questo è quello che arriva dalle fonti ufficiali. Ci sono poche certezze. Una è che Shimoni Erez è morto insieme ai due colleghi italiani Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, stessa sorte della moglie dello skipper, Anya Bozhkova, di origine russa.

Ci sono ancora troppi punti da chiarire in quella gita sul Lago Maggiore. La barca era di proprietà di Claudio Carminati, 53 enne della provincia di Varese, che ora è ufficialmente indagato per naufragio e omicidio colposi. La Goduria, sulla via del rientro da un pranzo sulle isole Borromeo, è naufragata a causa di una tempesta di pioggia, grandine e vento, che l'ha fatta prima capovolgere e poi affondare. I sopravvissuti, arrivati a riva grazie all'aiuto di un gruppo di ragazzi a bordo di una barca, e di un secondo skipper arrivato in loro ausilio con un secondo natante, dopo un breve passaggio in vari ospedali della provincia sono rientrati immediatamente a casa. «Se sulla barca l'occasione fosse un momento di festa è possibile, non si può escludere che prima vi siano stati altri tipi di incontri», riferisce una fonte che vuole restare anonima.

A dare risposte alle tante domande in sospeso potrebbe essere la stessa imbarcazione, per la quale le operazioni di recupero erano fallite per due giorni di fila. Nelle indagini sulle circostanze che hanno portato al capovolgimento della Goduria, la Procura di Busto Arsizio sta acquisendo tutta la documentazione utile, partendo dai documenti di immatricolazione della barca. Sono al vaglio anche i bollettini meteo. Sarà poi indagata la condotta dello skipper, per comprendere se abbia rispettato le norme di navigazione.

Ma ci si domanda se realmente domenica sulla Goduria si stesse svolgendo un party o se quella riunione nascondesse qualcosa di più, magari uno scambio di segreti o informazioni o una pianificazione di qualche obiettivo da perseguire insieme, 007 italiani e israeliani. Se poi erano lì è evidente che si fidavano ciecamente di Carminati. Era solo il loro skipper? E aveva dotato la barca di tutti i sistemi di sicurezza necessari? L'uomo ora è sotto choc per l'accaduto e per aver perso la compagna di vita. Ma verrà ascoltato prossimamente dagli inquirenti e chissà se qualcuno degli agenti segreti a bordo verrà mai chiamato a testimoniare.

Estratto dell’articolo di Simona Griggio per ilfattoquotidiano.it il 31 maggio 2023.

[…] Tiziana Barnobi, una delle vittime dell’incredibile incidente della barca affondata sul Lago Maggiore, agente dei servizi segreti, aveva fatto parte del mondo di Miss Italia.   

Così arrivano le condoglianze di Patrizia Mirigliani, la figlia di Enzo, lo storico organizzatore del concorso di bellezza […]: “Apprendo solo ora la notizia della morte di Tiziana Barnobi coinvolta nel tragico incidente sul Lago maggiore. Tiziana era stata una Miss del Concorso ai tempi di mio padre, nel 1985. Grata per il suo impegno al servizio del Paese. Rivolgo un pensiero di vicinanza alla sua famiglia”. 

Aveva vinto una tappa preliminare, quella di “Ragazza in gambissima” che si era svolta a Grado 38 anni fa. Era giovanissima: aveva 15 anni. Da lì si era trovata proiettata alla finalissima di Salsomaggiore: il suo nome ancora oggi spicca nell’elenco delle partecipanti.

Tiziana era nata a Trieste 53 anni fa. Dopo l’esperienza sulla passerella […] si era dedicata […] allo studio. Si era laureata in Economia, si era trasferita a Roma. Come tutti i componenti del sistema di Sicurezza Nazionale viveva un’esistenza comune, ben attenta a non dar nell’occhio. 

“Nessuno sapeva che lavorasse nell’intelligence – raccontano oggi i suoi vicini di casa sulla Cassia, a Roma, dove si era trasferita – a tutti diceva di essere una funzionaria della presidenza del Consiglio”. 

Prima del trasferimento aveva frequentato nella città natale l’Isda, Istituto superiore di direzione aziendale. Si era laureata in Economia nel 1994, come conferma la sua pagina sul portale di Radaris […] dove la sua professione ufficiale risulta quella di responsabile delle vendite di un’importante azienda di telefonia ed elettronica.

Il figlio e il marito […] sono andati a Lisanza per il riconoscimento del corpo. Si sono trovati di fronte alla tragica realtà di questa sciagura assurda. Sembra la trama di un romanzo di le Carrè, invece è brutale realtà. La barca di 15 metri chiamata “Good…uria” si è capovolta, travolta dall’uro dell’improvvisa tempesta. A bordo c’erano 24 persone, tutte appartenenti ai servizi segreti italiani e del Mossad di Israele. Cosa ci facevano lì? La versione ufficiale è che stessero festeggiando il compleanno di una di loro. Ma ora dopo ora trapela che non fossero lì per una normale rimpatriata. Quella era una missione di lavoro. 

Il corpo di Tiziana è stato recuperato dai sommozzatori non lontano dal relitto, a circa 16 metri di profondità. “Erano una famiglia molto unita – i pochi ricordi degli amici, sconvolti – e il figlio era la luce dei suoi occhi”. 

[…] “Dietro la bellezza c’è anche la sostanza. Dal concorso, da Sofia Loren in poi, sono passate le donne non solo più belle ma anche piene di risorse in settori non propriamente artistici. Però finora mai una 007”, racconta a FqMagazine la figlia del patron della kermesse, Patrizia Mirigliani.

[…] “E’ noioso e ormai superato il cliché che vede la donna bella stupida e oca. Anna Kanakis per esempio è stata Miss Italia ed è una scrittrice. Ma una agente segreta non c’era mai stata. Ma magari ne abbiamo avute e non lo abbiamo saputo”, conclude Mirigliani.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per “Il Messaggero” il 31 maggio 2023.

Non era una comune gita in barca della domenica, non era nemmeno una rimpatriata tra colleghi, ma una vera e propria riunione di lavoro - ovviamente segreta - tra 007 italiani e israeliani. E come nei film di spionaggio, sono immediatamente spariti tutti i superstiti del naufragio sul lago Maggiore e le tracce a loro riconducibili, che potevano svelarne l'identità o i movimenti. 

Sono tanti i misteri che aleggiano sulla tragedia della «Good...uria», la barca turistica affondata intorno alle 19,20 di domenica scorsa al largo di Sesto Calende (in provincia di Varese), causando la morte di quattro persone: due appartenenti all'agenzia italiana Aise, Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, un agente del Mossad ufficialmente in pensione, Shimoni Erez, e la russa Anya Bozhkova, moglie dello skipper e proprietario della house-boat Carlo Carminati. Proprio quest'ultimo è stato ufficialmente iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Busto Arsizio con l'accusa di naufragio colposo e plurimo omicidio colposo.

[…] una tromba d'aria potentissima - con raffiche di vento da 70 chilometri orari - ha rovesciato lo scafo, che si è subito inabissato. Le due donne affogate, probabilmente, sono rimaste intrappolate nella cabina all'interno della quale si erano rifugiate. 

[…]  Quel che è certo è che l'imbarcazione poteva ospitare un massimo di 15 persone, invece ce n'erano 23 (più i due membri dell'equipaggio: lo skipper e la moglie). 

[…]  relitto, inabissatosi a 16 metri di profondità e a 150 metri dalla costa, non è stato ancora trascinato a riva. Due giorni di operazioni di recupero sono andate fallite, nonostante l'ausilio di particolari palloni ad aria compressa, che avrebbero dovuto permettere la risalita della house-boat in superficie. Lunedì, dopo essersi incagliata, è rimasta bloccata, mentre ieri, dopo un nuovo tentativo, è risprofondata di qualche metro.

Se all'interno del relitto dovesse essere trovata qualche valigetta contenente dei documenti degli 007, in caso fossero ancora leggibili nonostante l'acqua, la presidenza del Consiglio dei ministri potrebbe invocare il segreto di Stato. 

Così come non si conoscono i nomi dei venti sopravvissuti, la stragrande maggioranza appartenenti all'Agenzia informazioni e sicurezza esterna. Gli agenti del Mossad sono stati rimpatriati con un jet privato usato per voli sensibili ufficiali, arrivato a Milano il giorno dopo l'incidente. Nelle abitazioni che avevano preso in affitto non ci sono più tracce del loro passaggio, così come non ci sono documenti di chi - tra gli agenti segreti italiani e israeliani - è stato medicato e subito dimesso dagli ospedali della provincia di Varese.

Il proprietario della barca e della società "Love Lake" di guide galleggianti a noleggio (ora indagato) era sicuramente un uomo fidato per gli 007, una loro vecchia conoscenza. Stupisce che sappia parlare il bulgaro e, sarà solo una coincidenza, il fatto che si sia sposato con una cittadina russa. 

Quando sarà sentito dai pm, dovrà spiegare - tra le altre cose - cosa stessero facendo i suoi passeggeri. Prima della tragedia, si erano fermati a pranzare al ristorante "Il Verbano", sulla sponda piemontese del lago. La gita in barca era solo la parte conclusiva di un meeting che andava avanti da alcuni giorni, e sicuramente, la location in mezzo alle acque del Maggiore era stata scelta per avere il massimo delle riservatezza. Erano pronti a tutto, tranne che a una improvvisa tromba d'aria.

Estrato dell'articolo di Andrea Camurani per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2023.

Trenta secondi. «Trenta secondi, è scesa l’apocalisse e siamo precipitati in acqua». Lo skipper 60enne Claudio Carminati, da ieri indagato per omicidio e naufragio colposo (un atto dovuto anche a sua difesa), è ospitato da amici. Fatica a dormire nonostante i tranquillanti. 

Su di lui pesa la strage di domenica nel lago Maggiore: appunto guidava l’imbarcazione, una «casa galleggiante» di 15 metri che poi, investita da una tempesta e forse una tromba marina con raffiche non lontane dai cento chilometri orari, si è inabissata. 

[…]

Sulla barca c’erano soltanto donne e uomini dell’intelligence italiana e israeliana: in apparenza una normale divagazione, un’umana tregua dopo intensi giorni di missioni, forse di infiltrazioni, approfittando della figura di Carminati, nel circuito delle conoscenze dei Servizi e buon contatto. Nella deposizione successiva al disastro, avvenuto alle 19.20 a non meno di 100 metri dalla costa, lo skipper aveva parlato sia dell’assenza di previsioni meteo che annunciassero bufere, sia dell’improvviso cambiamento del tempo. 

[…]

Lui, Carminati, negli sfoghi con gli amici raccolti dal Corriere, insiste però nel sostenere d’essere estraneo a ogni responsabilità. Piange la perdita di Anna: «Era china a pregare mentre il cielo diventava nero». A ieri pomeriggio, non risultava la prova documentale della patente nautica dello skipper, forse rimasta nell’imbarcazione, fabbricata nel 1982 e con immatricolazione nell’area balcanica. 

Dopodiché, insieme all’inchiesta del sostituto Massimo De Filippo e dei carabinieri, abbiamo lo scenario dei Servizi. E se appare difficile immaginare un’attività d’intelligence su una lenta, vecchia, fragile barca da turismo, ammassati in un contesto pubblico con curiosi intorno e in spiaggia muniti di cellulare, è scontato un dato.

Ovvero che la disgrazia avrà ripercussioni sul lavoro dei Servizi nella zona tra Varese e la Svizzera, sui contatti acquisiti, sulla logistica (appartamenti e ville governative) anche del Mossad: inevitabile, da subito, la ricerca da parte dei vertici delle responsabilità di chi ha avallato la gita e non si è opposto. La successiva azione militare di sparizione nella notte per ridurre le fughe di notizie e non «bruciare» i covi, era ormai tardiva a fronte della strage (e dei misteri irrisolti).

«L'apocalisse in 30 secondi, il cielo era nero e mia moglie pregava»: lo skipper della barca affondata sul Lago Maggiore. Andrea Camurani e Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

La barca si è ribaltata domenica sera sul Lago Maggiore. Claudio Carminati nega di avere saputo di tempeste in arrivo. A bordo personale dei servizi segreti: il Mossad chiede chiarimenti all'Italia

Trenta secondi. «Trenta secondi, poi è scesa l’apocalisse, la barca si è subito rovesciata e siamo precipitati in acqua». Lo skipper Claudio Carminati, 60 anni, indagato per omicidio e naufragio colposo (un atto dovuto e atteso, anche a sua difesa) dalla Procura di Busto Arsizio retta da Carlo Nocerino, è ospitato da amici. Fatica a dormire nonostante i tranquillanti. Su di lui pesa la strage di domenica 28 maggio nel lago Maggiore in coincidenza del litorale di Sesto Calende: Carminati guidava appunto l’imbarcazione, una casa galleggiante di 15 metri, una cosiddetta «house boat» che poi, investita da una tempesta e forse una tromba marina con raffiche non lontane dai cento chilometri orari, si è inabissata. A bordo la capienza superava i limiti consentiti: anziché 15 i passeggeri erano 23 compresa la moglie dello stesso skipper, Anna Bozhkova, 50 anni, russa della città Bryansk, in Italia con un permesso di soggiorno a tempo illimitato, che non sapeva nuotare. 

Bloccata nella cuccetta

Anna è morta affogata, come due membri dei Servizi segreti italiani (Tiziana Barnobi e Claudio Alonzi, di 53 e 62 anni, uno e due figli), nonché l’ex loro collega del Mossad, Shimoni Erez, anch’egli 53enne. Tiziana era un’atleta ma è rimasta imprigionata nella cuccetta: al buio, con l’acqua che saliva, ha invano cercato di spostare un mobiletto che ostruiva l’ingresso fino a perdere le forze. A bordo dell’imbarcazione c’erano soltanto donne e uomini dell’intelligence: si erano concessi una normale divagazione, un’umana tregua dopo giorni di missioni, di incontri, forse di operazioni sotto copertura con infiltrazioni, approfittando della figura di Carminati, uno nel circuito delle conoscenze dei Servizi e utile come contatto. Non a caso la neonata società dello skipper, aperta lo scorso aprile in uno studio notarile di Alessandria insieme alla stessa moglie, offriva un’ampia casistica di servizi: «Il noleggio, l’armamento e la locazione di unità da riporto, in Italia e all’estero, e in generale delle attività marittime. L’attività di escursioni, le visite in città con ogni mezzo di trasporto, la gestione di strutture ricettive…». Insomma un solido aggancio sul territorio.

«Nessuna bufera annunciata»

 Un territorio da sempre geografia del Mossad, che qui dispone di basi logistiche. Nel fornire agli inquirenti la sua versione sull’incidente, avvenuto alle 19.20 a non meno di 100 metri dalla costa, lo skipper aveva parlato a ripetizione sia dell’assenza di previsioni meteo che annunciassero bufere, sia dell’improvviso cambiamento del tempo. La Procura, sul tema, sta esaminando i bollettini meteo per confrontare la versione di Carminati. Domenica mattina il bollettino del Centro prealpino diceva questo: «Caldo quasi estivo ma con sviluppo di molte nuvole sui rilievi dove potrebbero verificarsi rovesci o temporali pomeridiani». Dalle 17, aveva cominciato a grandinare nella parte della provincia di Varese verso il Milanese; nell’aeroporto di Malpensa, numerosi gli aerei fermi in pista nell’attesa di decollare. Sul lago Maggiore, i velisti avevano anticipato il rientro preoccupati dalle prime folate, descritte come «anomale». Lui, Carminati, negli sfoghi con gli amici raccolti dal Corriere, insiste nel sostenere d’essere estraneo a ogni responsabilità. Una drammatica coincidenza, nessun errore. Ripete un’immagine. Di Anna. «Stava china a pregare e invocare Dio mentre il cielo diventava nero». A martedì pomeriggio ancora non risultava la prova documentale della patente nautica dello skipper, che però dovrebbe esistere o forse è rimasta nell’imbarcazione, fabbricata nel 1982 e con immatricolazione nell’area balcanica (proseguono i tentativi dei vigili del fuoco di far riemergere lo scafo). 

Attività d'intelligence

Dopodiché, fuori dall’inchiesta giudiziaria, coordinata dal sostituto Massimo De Filippo e svolta dai carabinieri del Comando provinciale guidato dal colonnello Gianluca Piasentin, certo rimane lo scenario della presenza dei Servizi. E allora, se appare onestamente difficile immaginare un’attività d’intelligence in quelle condizioni – su una lenta, vecchia e fragile barca da turismo, ammassati, in un contesto pubblico, nel mezzo del lago Maggiore, con intorno altre barchette, motoscafi e curiosi muniti di cellulare –, appare scontata una sequenza di dati. Ovvero che la disgrazia avrà inevitabili ripercussioni sul lavoro dei Servizi nell’intera area, sui contatti acquisiti negli anni, sulla medesima logistica – appartamenti e signorili ville governative – e anche, nell’immediato, sulla ricerca da parte dei vertici delle responsabilità di chi ha avallato la gita o comunque non si è opposto a essa. Più d’uno rischia anzi terminerà la carriera; oltre allo strazio per le povere vittime s’è configurata una pessima figura internazionale (il Mossad ha chiesto all’Italia chiarimenti su cosa sia esattamente avvenuto). E la successiva attività iper-militare di sparizione delle donne e degli uomini dell’intelligence nella notte tra domenica e lunedì, per ridurre le identificazioni e le fughe di notizie, per non bruciare i covi, per tentare di salvare il salvabile, era ormai tardiva, a fronte della strage e dei suoi misteri. I misteri riguardano l’attività stessa dei Servizi segreti nei giorni precedenti il naufragio. Fisiologico che vi siano coperture su quanto davvero avvenuto.

Nessuna autopsia

 Ma ci sono elementi da non trascurare. Intanto è prassi che di frequente si viaggi e ci si confronti con colleghi di altre nazioni. Non dobbiamo poi dimenticare che con ritmo periodico l’Italia ospita corsi di addestramento per forze armate estere quali, nelle ultime e nelle prossime settimane, quelle ucraine, libiche e tunisine, situazioni che giocoforza convogliano le attenzioni di differenti Paesi. Inutile parlare della centralità della provincia di Varese, collocata tra Milano e la Svizzera, densa di soluzioni per i mezzi di trasporto, con un aeroporto internazionale quale Malpensa, e con la ricchezza sul territorio di medie e grandi aziende, e le ovvie trame dello spionaggio e del controspionaggio industriale. Martedì le salme sono state consegnate ai familiari. I l medico legale non ha ritenuto utile eseguire le autopsie, essendo chiare, secondo il suo referto, le cause dei decessi: annegamento per tutti e quattro.

Claudio Carminati, lo skipper con un passato «fantasma» e la cortina di silenzio sulla barca affondata sul lago Maggiore. Andrea Camurani e Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2023

Claudio Carminati non risulta in alcun modo nella rete dei dati catastali: appoggio prezioso dei servizi, era capace di non lasciare tracce. Ora è indagato per la strage dopo il ribaltamento del battello, in cui è morta anche la moglie Anna 

In questa assai complicata storia di spionaggio e disgrazie, le domande anziché diminuire aumentano. Per esempio: l’imbarcazione affondata domenica sera nel lago Maggiore ospitava, insieme agli agenti segreti israeliani del Mossad, quelli italiani dell’Aise, l’Agenzia governativa che per modalità operative, a differenza dell’Aisi, ricerca informazioni e svolge attività per la sicurezza nazionale al di fuori dei confini. Invece gli agenti erano appunto qui. In Lombardia e Piemonte. Perché? Quella navigazione su una «house-boat», una casa galleggiante guidata dallo skipper Claudio Carminati, era approdata in mattinata sull’isola dei Pescatori, una delle Borromee, di fronte al litorale da Stresa a Verbania mai come in questi ultimi mesi popolato da russi — magnati, riciclatori, putiniani, anti-putiniani, doppiogiochisti, spie — che investono con capitali sospetti in alberghi di extra-lusso e storiche ville. 

Il ristorante stellato

Gli agenti avevano pranzato nel ristorante stellato «Il Verbano». Con abbigliamento casual formato da sneakers, jeans, polo oppure magliette, le donne e gli uomini dei Servizi, 21 in totale, non erano i soli: nel locale si erano sedute altre persone di non ovvia identificazione a meno che non fossero «attenzionate» già da prima, in quanto la maggioranza dei clienti non aveva prenotato, e se lo avesse fatto poteva benissimo aver usato un nome fasullo, tanto nessuno avrebbe verificato. Anche l’isola dei Pescatori era affollata e pertanto passibile di osservazioni da parte dei Servizi, ma rimane un elemento forse oggettivo: difficile un così alto numero di unità se davvero era in corso una missione. Che però, quantomeno nei giorni antecedenti la strage (quattro i morti, tutti annegati), c’è stata. Anzi potrebbero essercene state più d’una, all’interno di una spedizione orchestrata dal Mossad con il naturale appoggio degli italiani padroni di casa, o forse commissionata da altri Servizi segreti stranieri (tipo quelli americani?), però di certo vincolata alla presenza della coppia rappresentata da Claudio Carminati, skipper, indagato dalla Procura di Busto Arsizio quale responsabile del disastro, e dalla moglie Anna Bozhkova, deceduta con Tiziana Barnobi e Claudio Alonzi, di 53 e 62 anni, e l’israeliano Shimoni Erez, anch’egli 53enne. 

Agente in pensione

Al proposito, ammesso che abbiano detto il vero, i vertici del Mossad hanno comunicato da subito che Erez era in pensione. Ma siccome era stato aggregato ai colleghi operativi, esiste per forza un motivo, legato forse alla sua esperienza, forse all’ottima conoscenza della lingua italiana, forse a dei precedenti viaggi da queste parti. Dicevamo però di Carminati e della povera Anna, che non sapeva nuotare: quest’ultima godeva di un permesso di soggiorno a tempo illimitato e la sua conoscenza del russo poteva essere funzionale a ipotetiche traduzioni e conversazioni con connazionali, mentre lo skipper è uno di quei preziosi contatti locali dell’intelligence. Una particolarità: una nostra ricerca non ha sortito risultato inserendo il nominativo di Carminati nella rete dei dati catastali. Nulla lo vincola a un territorio, né in Italia né all’estero, dove avrebbe vissuto a lungo avendo appreso bene il francese e il bulgaro. 

La capienza della barca

Un uomo di 60 anni (la moglie ne aveva 10 in meno) abituato a non lasciare tracce eppure capace di risolvere ogni problema pratico se attivato, specie nella logistica per proseguire con i mezzi di trasporto. Dopodiché, chiaro, le indagini del sostituto Massimo De Filippo tenderanno a rimanere circoscritte alla strage, non al suo contorno di agenti segreti; questo però non toglie l’obbligo investigativo di ispezionare lo scafo una volta che verrà trasferito sulle sponde di Sesto Calende (serviranno una gru e ancora dei giorni). La barca era omologata per 15 persone ma ce n’erano 23; nessuno ipotizza altro rispetto alla dinamica causata da una tempesta, però serviranno le adeguate perizie. A bordo gli inquirenti scopriranno elementi di massimo interesse? Un interrogativo questo forse distante dalla realtà, ma la cortina di silenzi che si espande da domenica sera obbliga a coltivare, più che mai, qualunque dubbio, peraltro legittimo.

Estratto dell’articolo di Michele Giorgio per “il manifesto” l'1 giugno 2023.

C’era anche il capo del Mossad David Barnea ieri ai funerali ad Ashkelon di Erez Shimoni, ammesso che si chiamasse così l’alto ufficiale del servizio segreto israeliano morto domenica al Lago Maggiore nel ribaltamento dell’imbarcazione turistica in cui hanno trovato la morte anche due agenti dell’intelligence italiana e una cittadina russa. 

Tanti gli elogi ieri per Shimoni. […] Per un capo divisione del Mossad, Shimoni era «un uomo che tutti amavano e apprezzavano, che stupiva per la sua gentilezza e modestia».

[…] Oltre le frasi scontate di queste occasioni, si cerca di mettere assieme le tessere di un mosaico confuso per ricostruire non tanto le cause della sciagura che ha coinvolto l’imbarcazione - con un carico di persone superiore a quello consentito - quanto piuttosto per comprendere i motivi della riunione di 19 tra agenti del Mossad, ex e in servizio, e dell’intelligence italiana. 

La storiella della festa di compleanno non se la beve nessuno. Il fatto che Israele abbia inviato immediatamente il Bombardier executive, l’aereo delle missioni più segrete del Mossad, per riportare a Tel Aviv i superstiti al naufragio, rivela l’importanza delle persone e della loro missione in Italia.

D’altronde lo stesso Shimoni, a 50 anni di età non poteva essere il pensionato di cui si è letto. Il quotidiano Haaretz ha scritto che «non è un segreto che pensionati esperti e qualificati dell’establishment della sicurezza, incluso il Mossad, vengano periodicamente richiamati per una sorta di servizio di riserva in base a contratti speciali». In poche parole, Shimoni sarà stato pure un pensionato ma era ancora dentro il Mossad. 

Per questo l’ipotesi avanzata da più parti di un incontro ad alto livello tra spie italiane e israeliane […] è la più concreta, suffragata dal fatto che lo skipper Carminati è conosciuto per i suoi contatti con l’ambiente dei servizi segreti. […]

Lo strano naufragio di 007 italiani e israeliani nel lago Maggiore. Stefano Baudino su L'Indipendente l'1 giugno 2023.

Domenica scorsa, attorno alle 19.20, nelle acque del Lago Maggiore è affondata la “Goduria”, un’imbarcazione turistica su cui viaggiavano 21 persone, quattro delle quali sono morte annegate. Per ore si è parlato di una semplice gita in barca finita male, fino a che la relazione sull’incidente redatta dai carabinieri non ha svelato l’identità delle persone a bordo. I 19 passeggeri erano tutti operativi dei servizi segreti: 8 funzionari dell’intelligence italiana, 13 agenti del Mossad, il famigerato servizio segreto israeliano. Oltre a loro, lo skipper, Claudio Carminati, 53enne varesino secondo le ricostruzioni anch’esso legato ai servizi italiani, e la sua compagna – una donna russa di nome  Anya Bozhkova – deceduta nel disastro. Ma cosa ci facevano su una barca nel Lago Maggiore 19 agenti segreti di due diverse nazioni vestiti da improbabili turisti? Le domande senza risposte sono molte.

I carabinieri hanno interrogato i 17 superstiti mentre si trovavano al pronto soccorso per le medicazioni, ottenendo risposte fotocopia. “Sono un funzionario della presidenza del Consiglio”, hanno messo a verbale i sei italiani. “Faccio parte di una delegazione governativa israeliana” è stata invece la versione dei 12 cittadini israeliani. Ma non hanno avuto modo di fare molte altre domande. Tutti gli 007, italiani e israeliani, sono rapidamente scomparsi: gli israeliani sono stati riportati nel loro Paese e anche gli italiani hanno subito lasciato l’ospedale. Sottoposti a quella che nel gergo militare si chiama “esfiltrazione”, un’operazione propria dei contesti di guerra e di quelli di intelligence che consiste – secondo dizionario – “nel processo di rimozione di elementi da un sito preso di mira quando è considerato indispensabile che essi siano immediatamente evacuati dall’ambiente ostile e condotti al sicuro in un’area sotto controllo di forze amiche”.

Non si conoscono i nomi dei sopravvissuti. I tredici dipendenti del Mossad sarebbero rientrati nel proprio Paese con un jet privato messo a disposizione dal governo israeliano nelle prime ore della mattinata successiva al giorno dell’incidente. Sono scomparse sia le tracce dei documenti di chi è stato curato all’interno delle strutture ospedaliere, sia del passaggio degli agenti israeliani negli appartamenti che avevano affittato, abbandonati in tutta fretta dopo la tragedia.

Ad essere conosciuti sono solo i nomi dei deceduti. La prima salma a essere recuperata, nella tarda serata, è stata quella di un ex 007 israeliano, Shimoni Erez, il cui corpo senza vita è stato avvistato dall’elicottero dei vigili del fuoco. La seconda è stata quella di Claudio Alonzi, 62enne di Alatri, appartenente all’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna), mentre il cadavere di sua moglie Tiziana Barnobi – anche lei membro dell’intelligence – e di Bozhkova sono stati rinvenuti dai sommozzatori a circa 16 metri di profondità, non lontani dalla barca inabissata. Sui fatti indagano, a tutto tondo, il procuratore capo di Busto Arsizio Carlo Nocerino e il pubblico ministero Massimo De Filippo. Lo skipper, invece, era appunto Claudio Carminati, che ora risulta indagato per naufragio e omicidio colposo. Carminati, titolare con la moglie della società di recente nascita “Love Lake srl”, proprietaria della barca, era probabilmente – secondo quanto riportato dal Corriere della Sera – un “prezioso e fidato contatto dei Servizi segreti per la logistica”.

Sul tavolo rimangono ora parecchie domande. Innanzitutto: perché la barca non è rientrata seppur era nota l’allerta per il peggioramento delle condizioni meteo? L’imbarcazione, nell’orario in cui si è verificato l’incidente, non avrebbe dovuto trovarsi al largo del bacino del litorale di Sesto Calende, dove è affondata, bensì vicino alla costa. Alle 17.30, infatti, i gestori dei cantieri-porto avevano diffuso una comunicazione di allerta meteo, invitando a navigare sotto costa e ad attraccare in tempi brevi. A provocare il naufragio sarebbe stato un downburst, ossia una corrente fredda discendente interna alla nube temporalesca. La tromba d’aria avrebbe prodotto potentissime raffiche di vento, fino a 70 km all’ora, che hanno fatto rovesciare e inabissare lo scafo. Fondamentali sarebbero l’autopsia sui cadaveri delle vittime e la perizia sullo scafo, che verrà effettuata quando si riuscirà a recuperare il relitto. Due giorni di operazioni sono infatti andate a vuoto: la barca si è incagliata ed è nuovamente sprofondata dopo essere riemersa parzialmente. Ma l’autopsia non ci sarà: la Procura ha stabilito che non serve farla, sostenendo che non vi siano dubbi circa l’annegamento fortuito delle vittime. Una decisione che, in verità, i dubbi non fa che amplificarli.

Ancor più rilevanti le domande su cosa ci facessero nel mezzo del Lago Maggiore 19 agenti dei servizi segreti di due diversi Paesi vestiti come improbabili turisti in scarpe da ginnastica, jeans e maglietta. Erano in fase di “riposo” dopo una missione, o l’abbigliamento stesso serviva a confondersi tra i turisti come copertura di una missione che proprio sulla barca era in svolgimento? Una ricostruzione pubblicata sul Corriere della Sera fa notare come il numero non certo esiguo di effettivi presenti sulla barca si sposa “a fatica” con semplici operazioni di intelligence o scambio di documenti. Possibile quindi che si trattasse di una operazione vera e propria. Il lusso di ville, alberghi e ristoranti attorno al Lago Maggiore è infatti un epicentro di politici e imprenditori “che contano”. Sempre il Corriere fa notare come la zona del Lago sia conosciuta per essere il centro di investimenti di magnati russi, con diversi hotel 7 stelle in costruzione, che riescono ad aggirare le sanzioni imposte a Mosca tramite l’utilizzo di prestanome e conti corrente con sede in Svizzera. Una delle ipotesi è quindi che i 21 agenti dei servizi stessero monitorando le azioni di qualche personalità russa evidentemente ritenuta parecchio importante. Un’altra ipotesi è che gli 007 israeliani avessero interesse a controllare i movimenti di imprenditori italiani e iraniani presenti attorno al Lago e sospettati di intrattenere rapporti commerciali in ambito militare.

Sono solo ipotesi, ma la verità difficilmente verrà a galla, visto che le indagini di carabinieri e magistratura si scontreranno verosimilmente con il segreto di Stato che con ogni probabilità verrà posto sulla vicenda. [di Stefano Baudino]

Lago Maggiore, una zona ad alto tasso di attività di intelligence. Stefano Piazza su Panorama l'1 Giugno 2023

Il mistero della barca affondata pochi giorni fa con a bordo diversi agenti dei servizi segreti è l'ultimo episodio che racconta la presenza e l'attività degli agenti di tutto il mondo in quell'area, strategica

 Ci sono molte località in Italia che nel corso degli anni hanno visto nascere meravigliose leggende, storie drammatiche e misteri mai risolti. Per rimanere al Nord Italia, la zona del Lago di Como è uno di quei luoghi che custodisce tanti misteri della Seconda Guerra Mondiale, della lotta partigiana e della morte di Mussolini, della presenza della Cia in Italia e delle tante vendette partigiane (come in Emilia Romagna) iniziate dopo l’armistizio durate almeno fino al 1949. Ma non solo, qui per decenni il contrabbando di sigarette con la Svizzera ha reso ricchi molti «spalloni», alcuni dei quali portavano nei forzieri delle banche svizzere decine di miliardi di lire sfuggiti all’oppressivo fisco italiano. Oggi non passano più soldi e sigarette ma esseri umani, droga e armi. Anche il Lago Maggiore custodisce misteri e storie della Seconda Guerra mondiale come le drammatiche stragi degli ebrei ad Arona, Baveno, Bée, Meina, Mergozzo, Novara, Orta, Stresa e Verbania che avvennero tra il 10 settembre e il 10 ottobre 1943 dove morirono 57 ebrei. Quella avvenuta sulle sponde del Lago Maggiore fu la seconda strage di ebrei per numero di morti in Italia, dopo quella delle Fosse Ardeatine, che ebbe luogo nel marzo del 1944. Da qualche giorno il Lago Maggiore è di nuovo sotto i riflettori a causa del naufragio avvenuto lo scorso 28 maggio probabilmente a causa di una tromba d’aria davanti a Lisanza, nel comune di Sesto Calende, di una barca chiamata «Good…uria» che era stata affittata da un gruppo di agenti segreti (donne e uomini) sia dell’Aise che del Mossad. A bordo c’èrano 22 persone più due membri dell’equipaggio tra i quali lo skipper Claudio Carminati, che è indagato per la strage. Nel naufragio hanno perso la vita la moglie dello skipper Anna Bozhkova, 50 anni, Tiziana Barnobi e Claudio Alonzi, 53 e 62 anni, e il cittadino israeliano Shimoni Erez di 53 anni. Vista le circostanze nelle quali si è svolto il naufragio, il numero delle persone presenti sulla barca ma soprattutto l’identità delle persone coinvolte ha fatto si che sulla vicenda si scatenassero una serie di ipotesi avanzate anche da qualche faccendiere interessato a screditare i nostri servizi segreti ma anche un serie di domande legittime. L’agenzia di stampa Agi ha scritto che il medico legale «ha accertato che le vittime che sono morte per annegamento e che non presentano segni di lesioni e la Procura ha ritenuto di non effettuare ulteriori accertamenti». Di certo il numero di agenti segreti presenti sulla barca è anomalo e lascia spazio a molti interrogativi che difficilmente però troveranno delle risposte. Oggi alcuni quotidiani rilanciano le ipotesi più disparate. Ad esempio che gli agenti italiani e israeliani si trovavano nell’area per effettuare dei sopralluoghi, dei pedinamenti per installare sistemi di monitoraggio oppure erano nell’area per scambiarsi documenti o delle persone. E chi sarebbe stato il destinatario delle loro attenzioni? Cittadini russi che da molto tempo (e non certo da quando è iniziata la guerra in Ucraina), vivono per lunghi periodi dell’anno sul Lago Maggiore (come sul lago di Como) e che hanno investito in vari settori uno tra tutti il turismo. C’è chi ipotizza che gli 007 stessero seguendo la pista dei possibili contatti tra aziende italiane e iraniane coinvolte in affari e triangolazioni poco chiare con la Russia. Ma davvero 21 agenti segreti italiani e israeliani si muovono tutti insieme fingendosi dei turisti sul Lago Maggiore? Solo a scriverlo viene da ridere. Quello che sappiamo è che lo scorso 28 maggio 2023 un evento atmosferico raro quanto improvviso e tragico ha travolto una barca che si è rovesciata e quattro persone sono morte. Il resto rimarrà un mistero nascosto tra le acque del Lago Maggiore.

Estratto dell’articolo di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 2 giugno 2023.

Il summit tra uomini dei Servizi segreti italiani e israeliani sarebbe avvenuto prima del giorno nero della tragedia di domenica 28 maggio sul lago Maggiore. Oggetto e luogo dell’incontro: segreti, come è normale in questo tipo d’attività. Probabilmente non era la prima volta che i 21 agenti si incontravano. 

Ciò che poi è successo domenica sarebbe avvenuto quando tutti gli agenti erano in congedo, ad attività istituzionale conclusa. Una gita di fine missione, una visita alle isole Borromee, una giornata a bordo della barca “Good...uria” condotta da Claudio Carminati, che ci viveva con la sua compagna, la russa Anya Bozhkova. Carminati era un uomo di fiducia dei servizi di intelligence.

Sulla sua house boat […]  gli agenti si sono riuniti per festeggiare il compleanno di uno degli agenti israeliani. Non ci sono dubbi che la causa della tragedia sia stata una violenta tromba d’aria non prevista […] costata la vita ad Anya Bozhkova, ai due agenti dell’Aise (il servizio d’informazione italiano per l’estero) Tiziana Barnobi e Claudio Alonzi e all’israeliano Erez Shimoni, già appartenente al Mossad. 

È una vicenda che ha tutti gli ingredienti della spy-story internazionale: gli 007 italiani, gli uomini del Mossad, una donna russa, una tragedia sul lago che ospita hotel di oligarchi russi e ville di ricchi israeliani. Di certo però c’è solo l’epilogo tragico. Ciò che è avvenuto nei giorni precedenti è attività d’intelligence che viene tenuta accuratamente segreta. Ma proviamo a ricomporre i pezzi di questa storia.

[…]  Quei legami Russia-Israele.

La versione secondo cui gli agenti avrebbero scelto la barca di Carminati per passare inosservati e restare al sicuro da intercettazioni viene smentita da fonti qualificate, che spiegano al Fatto che l’amministrazione ha mezzi e posti sicuri e mai avrebbe puntato su un’imbarcazione che poteva rivelarsi non adeguata. E ripetono: gli agenti hanno scelto autonomamente di festeggiare su quella barca, ad attività conclusa, il compleanno di uno di uno degli israeliani. 

Resta comunque probabile che il luogo sicuro dove il summit è avvenuto sia non troppo lontano. Dove? Su quali temi? Su questo le bocche restano cucite. Ma sembrerebbe esclusa la pista dei pedinamenti di cittadini russi che possiedono case e hotel in questa zona. I rapporti tra intelligence russa e israeliana sono comunque restati buoni anche dopo l’invasione dell’Ucraina. 

L’area dell’incidente è strategica: a Sesto Calende, per fare un esempio, c’è lo stabilimento di Leonardo Elicotteri, dove sabato 27 maggio è stata celebrata la festa dei 100 anni dell’Aeronautica militare, alla presenza di politici, esperti e militari.

Il rientro in Israele.

La Procura di Busto Arsizio indaga sulle quattro morti per individuare se vi sono concause colpose che possano aver aggravato la situazione provocata dal maltempo. Non ha alcun titolo per entrare nel merito del lavoro che stavano svolgendo gli agenti coinvolti.

Claudio Carminati, già interrogato una volta, potrebbe essere eventualmente riconvocato in Procura, come pure potrebbero essere sentiti di nuovo gli agenti. Per gli israeliani servirà, nel caso, una rogatoria internazionale: sono stati infatti tutti rimpatriati con un’operazione di esfiltrazione, dopo aver cancellato le tracce dei loro movimenti, come è d’uso in questi casi, per mantenere segrete le identità degli agenti. 

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 2 giugno 2023.

Erez Shimoni, che nessuno crede si chiamasse così, è stato sepolto con i massimi onori e la massima segretezza. 

Circondato da funzionari con le mascherine sul volto, il numero uno del Mossad David Barnea ha reso omaggio all'agente annegato nel Lago Maggiore [...] 

Un tributo solenne che marca il rilievo delle missioni svolte per la sicurezza di Israele. Inclusa l'ultima, condotta tra Piemonte e Lombardia in stretta collaborazione con l'intelligence italiana.

Un'operazione dal nome burocratico e dal significato oscuro ai più: "Anti-proliferazione". 

Ma che corrisponde a grandi linee con l'attività mostrata più spesso nei film d'azione: fermare i cavalieri dell'Apocalisse, quelli che permettono di costruire le armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche o batteriologiche o che comunque contribuiscono a realizzare ordigni ad altissimi tecnologia, dai droni ai cyberweapon, dai missili balistici ai sottomarini in miniatura.

Ovviamente, questi marchingegni infernali sono il risultato conclusivo di una elaborata catena di montaggio che si nutre di componenti dual use, [...] macchinari e software con una doppia vita, come ogni protagonista di questo mondo obliquo e tenebroso. 

Molti anni fa, ad esempio, in una storica "attività anti-proliferazione" tra Italia e Svizzera furono intercettate apparecchiature farmaceutiche prossime a passare attraverso aziende di diversi Paesi: la destinazione finale sarebbe stata un centro di ricerca di sui vaccini, impegnato nel programma di sviluppo di tossine batteriologiche di uno "Stato canaglia".

Non ci sono mai arrivate. E anche questa volta molti sono pronti a scommettere che l'avversario comune di 007 israeliani e italiani fossero gli emissari di un Paese medioerientale, estremamente abili nel procacciarsi materiali strategici. 

[…] 

[...] 

I nomi delle due vittime italiane e il numero complessivo di ventuno spie coinvolte sono elementi sufficienti perché gli esperti riescano a ipotizzare un'operazione lunga e complessa, con pedinamenti dinamici portati avanti per giorni fino a raggiungere l'obiettivo desiderato. Un successo che doveva restare nell'ombra.

Tutto perfetto, tranne la festa conclusiva. Un rito molto più diffuso di quanto si possa immaginare […]. Lo si vede persino nelle serie tv come "Fauda", con il gruppo di Doron che si ritrova per una grigliata: in genere sono eventi discreti, convocati in case di proprietà o in ville affittate per l'occasione, dove il barbecue permette anche alle alte gerarchie di cucinare […] 

Gli uomini e le donne dell'ultima operazione hanno probabilmente ritenuto che l'imbarcazione, nonostante il nome infelice "Good... uria", offrisse la stessa privacy e che la sala appartata del ristorante stellato sull'isola dei Pescatori permettesse di tenere a distanza gli altri ospiti, variando la monotonia della carne alla brace. 

Li ha traditi il clima impazzito […]. Una bufera che ora rischia di innescare altre ondate, invisibili ma potenti, tra amici e nemici. Tra i bersagli della missione, che adesso sanno chi li ha colpiti. E tra gli alleati, tagliati fuori dalla condivisione delle notizie sulla minaccia più grande.

Estratto dell’articolo di Manuela D’Alessandro per l’AGI il 3 giugno 2023.

Claudio Carminati, pantaloni scuri, camicia bianca, rimane abbracciato alla bara di Anna Bozhkova col capo chino sul legno, baciandola più volte, per molti minuti. Si ridesta, i lineamenti mutati dal dolore, quando arrivano gli amici suoi e di lei, tanti da far riempire l’Abbazia di San Donato, quassù, nella parte più antica di Sesto Calende, dove sembra lontano il fruscio del lago oggi di un serafico azzurro come lo era domenica 28 maggio prima dell'arrivo della tempesta che ha travolto la ‘Good...uria’ uccidendo la moglie dello skipper, cittadina russa, due agenti dell’Aise e un pensionato del Mossad. 

Carminati si aggrappa a tutti e da tutti viene stretto con affetto. “Cos’è successo alla mia barca? Sono un uomo distrutto, come faccio adesso? Voi non potete immaginare quello che è accaduto…E’ stata una catastrofe”. “Terribile” ripete a ciascuno il comandante, ora indagato per naufragio ed epidemia colposi, lui che si era costruito da solo la barca per far godere ai turisti le meraviglie del lago. La chiesa straripa, qualcuno in fondo resta in piedi. 

Claudio “è uno simpatico, allegro, suona la chitarra. Una persona perbene, non certo una spia”. Racconta un coltivatore di mirtilli che da anni gli vendeva i suoi frutti che Carminati trasformava in marmellate da spalmare nelle crostate da offrire ai passeggeri in gita. 

[…] Anna e Claudio si era sposati due anni fa. Lei, da quindici anni in Italia di cui dieci lavorando come badante, aveva una figlia da una relazione passata in Russia che non è riuscita a venire al funerale. C’è invece la sorella, vestita di nero, con scarpe e fascia nera nei capelli, sostenuta da altre donne della comunità russa che risiedono da queste parti e tengono tra le mani una candelina gialla il cui affievolirsi accompagna il lungo rito dei tre pope.

“Avete visto quanta gente è venuta per la mia Anna? Che donna era...” dice il comandante stringendo le mani sul sagrato. […] Carminati non è residente a Sesto Calende, spiega il vicesindaco Edoardo Favaron, presente col primo citadino Giovanni Buzzi e un'assessora, ma a Monvalle, non molto lontano da qui, sempre sul lago. 

“Resta un alone di mistero su questa vicenda”: a Favaron ancora molto non torna della trama dell'incidente e del resto i nomi dei sopravvissuti, tutti agenti dell’Aise e del Mossad, non si sanno e nemmeno si sa, caso quantomai strano per chi segue le cronache giudiziarie, il nome del suo avvocato.  Gli inquirenti definiscono “delicata” anche questa informazione.

Qualcuno del posto si guarda attorno e osserva stupito: “Ma chi sono tutte queste persone?”. E c’è chi indica volti da potenziale ‘spia’ . […] Una signora russa coi capelli biondi a spazzola si avvicina a una donna che ha fotografato Carminati e le intima di cancellare le immagini. Intimorita, la destinataria del diktat esegue. Alla fine delle esequie spunta un’auto dei carabinieri. […]

Estratto dell’articolo di Andrea Camurani e Andrea Galli per corriere.it il 3 giugno 2023.  

In questa assai complicata storia di spionaggio e disgrazie, le domande anziché diminuire aumentano. Per esempio: l’imbarcazione affondata domenica sera nel lago Maggiore ospitava, insieme agli agenti segreti israeliani del Mossad, quelli italiani dell’Aise, l’Agenzia governativa che per modalità operative, a differenza dell’Aisi, ricerca informazioni e svolge attività per la sicurezza nazionale al di fuori dei confini.

Invece gli agenti erano appunto qui. In Lombardia e Piemonte. Perché? Quella navigazione su una «house-boat», una casa galleggiante guidata dallo skipper Claudio Carminati, era approdata in mattinata sull’isola dei Pescatori, una delle Borromee, di fronte al litorale da Stresa a Verbania mai come in questi ultimi mesi popolato da russi — magnati, riciclatori, putiniani, anti-putiniani, doppiogiochisti, spie — che investono con capitali sospetti in alberghi di extra-lusso e storiche ville. 

[…] Dicevamo […] di Carminati e della povera Anna, che non sapeva nuotare: quest’ultima godeva di un permesso di soggiorno a tempo illimitato e la sua conoscenza del russo poteva essere funzionale a ipotetiche traduzioni e conversazioni con connazionali, mentre lo skipper è uno di quei preziosi contatti locali dell’intelligence. Una particolarità: una nostra ricerca non ha sortito risultato inserendo il nominativo di Carminati nella rete dei dati catastali. Nulla lo vincola a un territorio, né in Italia né all’estero, dove avrebbe vissuto a lungo avendo appreso bene il francese e il bulgaro.

Un uomo di 60 anni (la moglie ne aveva 10 in meno) abituato a non lasciare tracce eppure capace di risolvere ogni problema pratico se attivato, specie nella logistica per proseguire con i mezzi di trasporto. […]  La barca era omologata per 15 persone ma ce n’erano 23; nessuno ipotizza altro rispetto alla dinamica causata da una tempesta, però serviranno le adeguate perizie. A bordo gli inquirenti scopriranno elementi di massimo interesse? Un interrogativo questo forse distante dalla realtà, ma la cortina di silenzi che si espande da domenica sera obbliga a coltivare, più che mai, qualunque dubbio, peraltro legittimo.

DAGOREPORT il 28 giugno 2023.

A un mese dall’incidente che ha coinvolto la barca “Good…uria”, sul Lago Maggiore, ci sono ancora molti, troppi misteri da chiarire. 

All’epoca, le ricostruzioni si concentrarono soprattutto sul maltempo: l’imbarcazione sarebbe affondata per “le condizioni avverse”, una “tromba d’aria” che fece “scuffiare” il natante. 

Quel che sorprende, però, è che nella sconfinata grandezza del Lago Maggiore, il meteo sfavorevole fosse concentrato soltanto nella zona in cui si trovavano una ventina di spie italiane e israeliane, e sia riuscito ad affondare solo quella barca.

Il sospetto, insomma, è che ci sia qualcosa che ancora non sappiamo e che non si tratti di una tragica fatalità. Tra le molte domande rimaste senza risposta, quella cruciale è: cosa è successo mentre gli agenti dei servizi si godevano il pranzo al ristorante stellato “il Verbano”, prima di partire per la gitarella in barca? 

Non è che qualcuno, approfittando della loro assenza, abbia manomesso o sabotato in qualche modo la “Good…uria”?

Nell’incidente sono morte 4 persone: Anya Bozkhova, moglie dello skipper Claudio Carminati, Shimoni Erez, un agente del Mossad, ufficialmente “in pensione” (il cui cadavere è stato in fretta e furia riportato a Tel Aviv con un aereo di stato e a cui è stato tributato un funerale secondo le regole della cerimonia militare), e due 007 italiani, Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, in forza all’Aise.

La Barnobi si sarebbe occupata di “contro-proliferazione”: nel gergo dei servizi, la sua attività era quella di “prevenire, rilevare e contrastare la realizzazioni di armi di distruzione di massa”. 

E in effetti, come rivelato da “Oggi” il 7 giugno, “gli agenti si erano dati appuntamento all’interno dei laboratori di Euratom, a Ispra, a 10 km dal luogo dell’incidente. In quel centro si sperimentano tecnologie per lo sfruttamento delle scorie radioattive”. 

Di più, non è dato sapere: né perché i servizi avessero “attenzionato” quell’area, e quel centro, né se ci fosse di mezzo qualche stato canaglia, anche se il quotidiano israeliano “Haaretz” parlò di “operazione contro le attività iraniane”. C’entrano i russi? La manina dietro all’incidente è forse di Teheran? E cosa cercavano eventuali emissari di Khamenei sul Lago Maggiore?

Sulla sponda varesotta. Altro mistero nel Lago Maggiore, cadavere trovato da due sub dopo il caso 007. Antonio Lamorte su L'Unità il 3 Giugno 2023

Altro mistero nelle acque del Lago Maggiore. Due sub, nel primo pomeriggio di oggi, hanno trovato un cadavere durante un’escursione ad alcuni metri di profondità sulla sponda Varesotta. Scattato l’allarme, sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco del distaccamento di Luino con gli specialisti del soccorso acquatico. Proprio nel Lago Maggiore una barca domenica scorsa, 28 maggio, era naufragata. Quattro vittime e una spy story tutta da ricostruire: a bordo c’erano agenti segreti dell’Aise, dell’Aisi e del Mossad israeliano.

Sul posto oltre ai vigili del fuoco e agli specialisti del soccorso acquatico, arrivati a bordo di un battello pneumatico, sono intervenuti anche gli aerosoccorritori del reparto volo Lombardia. Gli operatori si sono occupati di recuperare il cadavere. Al momento non sono state diffuse altre informazioni. Le indagini sull’incidente dello scorso fine settimana sono affidate al sostituto procuratore Massimo De Filippo, resteranno circoscritte alla strage della barca ribaltata a cento metri dal litorale varesino ma il pm dovrà comunque ispezionare lo scafo.

Il lago delle spie, i misteri sul naufragio degli 007: dall’esfiltrazione degli agenti del Mossad allo skipper “persona di fiducia” dei Servizi

È stato spiegato che la barca travolta dalla tromba d’aria si trovava nel Lago Maggiore per una festa di compleanno. Si chiamava “Good…uria”. A bordo c’erano 23 persone ma era omologata per 15. Era approdata in mattina sull’Isola dei Pescatori. Gli agenti avrebbero mangiato in un ristorante. Le vittime erano la russa Anna Bozhkova, 50enne moglie dello skipper Claudio Carminati, gli agenti Tiziana Barnobi e Claudio Alonzi, 53 e 62 anni, e l’ex agente del Mossad Shimoni Erez, 53 anni. L’Aise si occupa delle operazioni all’estero. Il Corriere della Sera ha scritto di una missione per la sicurezza di Israele condotta tra Piemonte e Lombardia, cosiddetta di “anti-proliferazione”, per fermare agenti di altri Paesi che dall’appropriazione di macchinari, tecnologia e armi.

Al momento non c’è alcun collegamento tra i due casi, se non il luogo della strage e del ritrovamento.

Antonio Lamorte 3 Giugno 2023

Un "downburst": cos'è il fenomeno meteo della tragedia sul Lago Maggiore. Non è una tromba d'aria ma un fenomeno potenzialmente più violento e distruttivo: ecco cos'è il downburst che ha colpito l'imbarcazione sul Lago Maggiore. Alessandro Ferro il 29 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il naufragio alla base della tragedia del Lago Maggiore dove sono morte quattro persone è stato causato da un violento temporale: le condizioni meteo erano pessime con forte pioggia ma soprattutto quella che si pensava fosse una tromba d'aria. In realtà, invece, il fenomeno che ha colpito l'imbarcazione sarebbe un downburst, molto temuto dai piloti degli aerei, e non solo, per la sua violenza e imprevedibilità.

Di cosa si tratta

Il vocabolo downburst significa letteralmente "abbattimento" e rende l'idea del fenomeno meteorologico: si tratta di venti molto potenti che si propagano verso il basso dalla nube di un temporale e si diffondono rapidamente una volta che toccano il suolo o, in questo caso, la superficie del lago. "Accade quando l'aria molto fredda che si trova nella parte alta di un cumulonembo precipita verso il basso. Appena tocca la superficie dell'aria o dell'acqua, con tutto il suo peso e la sua densità, inizia a irradiarsi in ogni direzione con raffiche anche di 100 km l'ora", ha spiegato a Repubblica il prof. Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Cnr che fa parte del consorzio Lamma di Firenze e dell'associazione Ampro (Associazione Meteorologi Professionisti).

Perché è molto pericoloso

A volte, però, i suoi venti possono facilmente causare danni simili a quelli di un tornado F1 e, perciò, talvolta vengono interpretati erroneamente come un tornado. Invece, i downburst sono un fenomeno completamente diverso e sono tutt'ora in fase di studio da parte dei meteorologi. "Sappiamo prevedere i forti temporali. Ma non possiamo dire con esattezza se ci sarà anche un downburst particolarmente violento", ha aggiunto Betti. Come ha detto l'esperto, è dalla base dei cumulonembi, imponenti nubi a sviluppo verticale, che si può generare questo fenomeno che avviene "proprio al centro della nube ed è diverso dal vento che percepiamo quando il temporale sta avanzando".

La differenza con le trombe d'aria è che il vento si muove in maniera circolare ma sono anche meno estese nello spazio e nel tempo. "I venti furiosi che invece scendono da una nube durante un downburst possono arrivare a chilometri di distanza e durare anche ore. Alberi e pali della luce divelti cadono tutti in un'unica direzione. Nel caso di una tromba d'aria invece i venti seguono una traiettoria circolare", spiega il climatologo.

Quando si verifica

Nel nostro clima si tratta di eventi, purtroppo, abbastanza frequenti: anche se dai non addetti ai lavori possono essere scambiati con le trombe d'aria, l'unico comune denominatore è la violenza della forza del vento. È più facile che i downburst possano verificarsi dopo lunghi periodi caldi e siccitosi quando l'atmosfera è carica di umidità e contrasta con l'aria molto fredda in quota, in pratica ciò che sta avvenendo da giorni sul nostro Paese con l'assenza dell'alta pressione e aria fresca e instabile che, con l'aumento delle temperature nei bassi strati, favorisce i forti temporali e grandinate che ormai sono all'ordine del giorno.

Anticipazione da “Oggi” il 7 giugno 2023.

I ventuno agenti dei servizi segreti italiani e israeliani coinvolti domenica 28 maggio in un drammatico naufragio, non si erano dati appuntamento sul lago Maggiore per una gita di piacere, ma per riunirsi all’interno dei laboratori di Euratom, che si trovano a Ispra, circa dieci chilometri a nord del punto in cui è avvenuto l’incidente costato la vita a quattro persone. 

A sostenerlo è un servizio pubblicato, nel numero da domani in edicola, dal settimanale «Oggi», che ha raccolto le dichiarazioni di alcuni diportisti, conoscenti di Claudio Carminati, skipper della barca affondata e della moglie Anna Boskhova, morta nel disastro.

Secondo i proprietari di un’imbarcazione ormeggiata nel cantiere Piccaluga di Lisanza (Varese), lo stesso dove veniva tenuto il 15 metri colato a picco, il sabato prima del naufragio Carminati e la moglie avrebbero fatto espressamente cenno a un impegno preso per il giorno successivo, per portare in gita sul lago un gruppo di Euratom.

Nato sotto le insegne del Cnrn (Comitato nazionale per le ricerche nucleari), diventato poi Cnen, Enea e oggi Euratom CCR (centro comune di ricerca), dalla metà degli anni 50 il centro di Ispra è uno dei poli più importanti in Europa e nel mondo per la ricerca e la sperimentazione di tecnologie per lo sfruttamento dell’energia nucleare e il trattamento delle scorie radioattive.

Per la delicatezza delle ricerche e la qualità strategica delle informazioni custodite, i laboratori di Ispra costituiscono da sempre uno snodo della massima importanza per il nostro spionaggio. Il centro viene tenuto sotto costante osservazione per la messa in sicurezza dei laboratori e dei segreti in essi custoditi, ed è anche un riferimento per preparare sul piano tecnico-scientifico le più delicate missioni di intelligence in campo nucleare.

Il settimanale accosta le informazioni raccolte sul lago con le notizie diffuse dalla rete televisiva israeliana Channel 12 che citando fonti dei servizi ha di fatto confermato «l’incontro tra agenti segreti israeliani e italiani in una località sul Lago Maggiore per la chiusura di una lunga operazione coronata da successo legata alle tecnologie di armamento non convenzionale iraniane».

Estratto dell’articolo di Guido Olimpio per il “Corriere della Sera - ed. Milano” martedì 4 luglio 2023.

Un giorno d’autunno del 2001. In una pagina del Corriere della Sera compare una notizia di una ventina di righe. Descrive il caso di un ingegnere straniero, con doppia nazionalità, sparito a Milano.  Ha lasciato gli effetti personali […] nella stanza di un hotel vicino alla stazione, non ha saldato il conto, non ha avvisato la famiglia. Poi via. Gli inquirenti, pur considerando ogni pista, ritengono che l’ipotesi più probabile sia l’allontanamento volontario. 

Senza passaporto? Strano. Su un quotidiano all’estero si soffermano sui viaggi dell’uomo in paesi del Medio Oriente e sui rischi di rapimento per ragioni politiche. Non è indicazione netta, piuttosto uno scenario come altri. Si vede che le fonti non danno appigli. 

Sono passati molti anni, non conosciamo l’epilogo. In apparenza non si trova traccia negli archivi della polizia. Magari il nome non esce per qualche errore burocratico, forse non c’è stata una denuncia formale oppure tutto si è risolto.  Oppure no, caso finito nel limbo. 

La vicenda […] ci riporta sui sentieri che hanno attraversato Milano, la Lombardia e le zone vicine dagli anni 70-80 ad oggi. Terrorismo internazionale, estremisti giapponesi, cinesi in fuga, il sequestro dell’imam egiziano Abu Omar e molto altro.

Appena qualche settimana fa c’è stato l’affondamento della barca sul Lago Maggiore con a bordo una ventina di agenti segreti italiani e del Mossad. Tre le vittime nel naufragio causato da una tempesta inattesa. Due dei «nostri», uno dei «loro». […] Da queste parti l’attenzione è alta, per un’infinita serie di ragioni. 

Si muovono personaggi amici di Mosca, esistono industrie strategiche da tutelare, è un corridoio geografico interessante. Nella vicina Svizzera i servizi russi hanno una base importante, come ha rivelato un recente rapporto. Ed è ancora aperta la polemica per la fuga in Russia dell’imprenditore Artem Uss. Si è tolto il braccialetto elettronico ed ha lasciato la residenza di Basiglio grazie a buone complicità.

L’altro fronte riguarda Stati a cui è proibito cedere materiale. Diversi. Tra questi l’Iran […]. […] I rappresentanti dei mullah hanno spesso usato la tattica detta del« patchwork»: comprano pezzi da venditori diversi, si rivolgono a piccole ditte note per la loro specializzazione, contano su «mediatori» residenti da lungo tempo in Nord Italia. Sono bravi nella trattativa, pazienti quanto i giocatori di scacchi, capaci di mimetizzarsi dietro imprese apparentemente innocue, dai trasporti all’import-export.

Ricordo ancora uno che di lavoro faceva tutt’altro, però cercava di infilarsi ovunque. O l’uomo d’affari che comprava cose e vendeva informazioni al miglior offerente. Non aveva paura di lasciare il suo biglietto da visita. 

Se c’era un varco si buttavano a pesce, come fecero nel 2009 con l’acquisizione di veloci motoscafi realizzati vicino a Lecco, tra i migliori sul mercato. Contratto all’epoca legittimo per battelli che i pasdaran hanno trasformato in mezzi d’attacco.

La collaborazione è stata successivamente chiusa da un intervento delle nostre autorità ma intanto le vedette filavano sulle rotte del greggio. Le intelligence  […] si sono mosse con vigore guardando a 360 gradi. 

Gli iraniani — non solo loro — sono a caccia anche di componenti occidentali per droni, velivoli impiegati nei bombardamenti in Ucraina. Gli emissari di Mosca — e non è detto che siano russi — vanno a caccia di high tech. 

Probabile che il team di agenti del Lago Maggiore fosse reduce da una missione preventiva, certo doveva essere qualcosa di importante visto l’alto numero di funzionari. Spesso però si tratta di azioni con nuclei ridotti ed agili. Gli 007 provano a interrompere il flusso e in qualche caso ricorrono alla stangata . Creano società fittizie, sfruttano i maestri del doppio gioco, arrivano a fornire tecnologia fallata agli ayatollah, la infettano in partenza con cyber-virus.

Materiale che una volta inserito nella «catena» industriale non funziona, provoca intoppi o persino peggio. Anche gli israeliani, nel 2005, avevano aperto a un ufficio elegante a Milano, gestito da un «australiano» che viveva in un residence in Centrale e trattava — raccontano — con gli iraniani. 

In seguito la sua carriera ha preso una brutta svolta. Richiamato in patria, è stato accusato di aver rivelato informazioni riservate agli avversari: rinchiuso in gran segreto in carcere, si sarebbe tolto la vita in cella il 15 dicembre 2010. Sarà ribattezzato il «prigoniero X».

AGI il 19 luglio 2023. - Per la prima volta Claudio Carminati, il comandante della barca con a bordo 23 agenti segreti affondata nel lago Maggiore, parla ai magistrati. 

Stando a quanto apprende l'AGI, alla domanda su come gli 007 siano finiti sulla `Gooduria´, spiega di essere stato avvicinato da «un uomo che si qualificò come un carabiniere» che gli chiese se fosse stato disponibile ad accompagnare «una delegazione con stranieri provenienti dal Canada» a una gita in acqua dolce. 

Solo dopo la tragedia avrebbe capito che quell' uomo, che già aveva incontrato nel 2022, era un rappresentante dell'intelligence italiana. Carminati, accusato di omicidio e naufragio colposi, ha negato in modo deciso di sapere che avesse a che fare con una comitiva così `particolare´ e di averlo scoperto solo dopo che la tromba d'aria provocò 4 morti. Durante la gita, ha aggiunto Carminati, solo una persona dell'equipaggio gli rivolse la parola una volta.

Queste affermazioni sono state rese durante l'interrogatorio davanti alla gip Piera Bossi seguito al provvedimento della Procura di Busto d'Arsizio che, venerdì scorso, aveva disposto nei suoi confronti il diovieto di espatrio e l'obbligo di firma davanti alla polizia giudiziaria. Una decisione motivata dal fatto che l'indagato aveva chiesto il passaporto in Questura per andare in Russia. Nel timore che scappasse a indagini in corso, la Procura lo aveva bloccato. 

A suo dire, questo ha riferito agli investigatori, voleva andare a Rostov per visitare la figlia della moglie Anna Bozhkova, morta nel naufragio, con la quale viveva in barca. Ai magistrati ha assicurato che avrebbe rinunciato a chiedere il passaporto e la sua misura è stata ridotta: confermato il divieto di espatrio ma obbligo di firma `solo´ due volte alla settimana. Sempre durante l'interrogatorio seguito alla misura cautelare, Carminati ha fatto presente che «in 15 anni di navigazione sulla mia barca nessuno mi ha mai fermato per controllare che fossi in regola».

Tra le contestazioni a suo carico, ci sono quelle di avere fatto salire a bordo 23 persone su un'imbarcazione omologata per 15 e di non avere a bordo abbastanza giubbotti di salvataggio per tutti. I consulenti nominati dalla Procura e dai familiari di una delle vittime, Tiziana Barnabi, avranno anche il compito di stabilire se tutto si sia svolto in un lasso di tempo così veloce, pochi secondi, come ha riferito Carminati ai pm, che anche l'eventuale presenza di eventuali dispositivi di salvataggio sarebbe stata inutile. 

Il comandante non ha nominato un suo consulente anche perché, senza casa, senza lavoro e senza moglie, non ha disponibilità economiche. Al momento viene aiutato dagli amici che lo ospitano e hanno anche organizzato delle collette per lui.

Estratto dell’articolo di Andrea Gianni per “il Giorno” giovedì 20 luglio 2023. 

Claudio Carminati ha negato legami e contatti con i servizi segreti, italiani o esteri. Ha spiegato ai magistrati di essere stato avvicinato a Sesto Calende, prima della gita sul lago Maggiore finita in tragedia, da un uomo già incontrato l’anno scorso che «si è qualificato come carabiniere» e ha chiesto la sua disponibilità ad accompagnare un gruppo di persone con la sua barca “Good...uria“ per una mini-crociera domenicale, con pranzo sull’Isola dei Pescatori.

Quell’uomo, che in realtà faceva parte dell’intelligence, salito a bordo con altri 20 007 italiani e israeliani, «aveva parlato di una delegazione di stranieri provenienti dal Canada». Una circostanza che non ha destato lo stupore di Carminati: quella zona del Varesotto è frequentata, per turismo o per lavoro, per la presenza di colossi come Leonardo o Whirlpool e del Centro di ricerca europeo di Ispra, da persone provenienti da tutto il mondo. 

«Durante la gita parlavano in inglese, mi hanno rivolto la parola solo in poche occasioni», ha spiegato Carminati […] Lo skipper 60enne (indagato per omicidio e naufragio colposi) ha parlato per la prima volta ai magistrati dopo la tragedia del 28 maggio, quando la “Good...uria“, sorpresa dalla tempesta, si è rovesciata e nel naufragio sono morti Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, il pensionato del Mossad Erez Shimoni e la moglie di Carminati, la russa Anya Bozhkova.

Affermazioni rese durante l’interrogatorio davanti alla gip Piera Bossi seguito al provvedimento della Procura di Busto Arsizio che aveva disposto nei suoi confronti divieto di espatrio e obbligo di firma. Una misura motivata da un “passo falso“: la richiesta del passaporto, a suo dire per andare in Russia a fare visita alla figlia della moglie, che vive a Rostov sul Don, non lontano dal confine con l’Ucraina. 

Una richiesta in Questura che ha fatto scattare l’alert su quel «pericolo di fuga» alla base della misura, poi resa più lieve […] dopo la rinuncia di Carminati al passaporto. Lui ripete di aver «perso tutto», di essere rimasto senza soldi e senza casa, visto che viveva con la moglie, ex badante, sulla barca affondata. […] 

Tra le contestazioni a carico del comandante quella di aver viaggiato in condizioni di sovraccarico, con 23 persone a bordo di una barca omologata per 15. I giubbotti di salvataggio, quindi, non erano sufficienti. […] Gli incontri di lavoro e le attività congiunte fra 007 italiani e colleghi del Mossad si sarebbero tenute nei giorni che hanno preceduto la gita, un momento di relax per festeggiare il compleanno di uno di loro e il buon esito della missione. Il motivo della loro presenza nel Varesotto resta un mistero. […]

I Fallimenti.

007 e il favore dello zar. Rita Cavallaro su L'Identità il 4 Maggio 2023.

Il boomerang dei servizi segreti italiani, che non si accorgono della fuga di Artem Uss e regalano l’Africa ai russi. È una parabola discendente quella dei nostri 007, considerati in passato un fiore all’occhiello negli scenari internazionali e oggi raggirati dalle spie del Gru, il servizio segreto militare russo artefice dell’esfiltrazione di Uss, il trafficante d’armi al soldo di Vladimir Putin, fatto evadere dalla sua villa di Basiglio con un’operazione degna dei migliori film di Hollywood, senza che la nostra sicurezza nazionale si accorgesse di nulla. Un duro colpo per il controspionaggio italiano, che ha minato i rapporti soprattutto con gli Stati Uniti, i quali attendevano l’estradizione del prigioniero e, consci dei rischi, avevano ampiamente avvisato l’Italia sia della caratura criminale del soggetto sia dell’alto rischio di fuga. E che si sono oltremodo indispettiti quando dal nostro Paese la scusa per giustificare il fallimento della missione è stata che i servizi segreti non erano stati avvisati da nessuno, quando il compito del controspionaggio è operare in autonomia per stringere il cerchio di osservazione attorno a spie estere e personaggi ritenuti pericolosi per la nostra democrazia. La verità è che dietro le scusanti e le fake news sull’esfiltrazione di Uss c’è l’imbarazzo della nostra intelligence per non aver in alcun modo, nonostante gli alert interni ed esterni, adottato contromisure in grado di fermare il piano del Gru, che ha portato via Uss dai domiciliari senza alcuna resistenza. E che oggi sta mettendo in atto una strategia da “asso pigliatutto” in Africa, il continente in grado di destabilizzare gli equilibri mondiali. D’altronde il Gru, l’apparato politico militare del Cremlino che ha preso il sopravvento dopo l’estromissione dell’Svr, il servizio di intelligence nazionale russo con competenze estere, e dell’Fsb, il servizio federale per la sicurezza interna della Federazione Russa, si è distinto per aver organizzato con dovizia l’invasione in Ucraina e, da allora, ha piazzato le sue spie non solo nei Paesi chiave del Patto Atlantico, ma negli Stati più instabili dell’Africa, dove la nostra intelligence aveva gettato le basi per la costituzione di ordini democratici e si è vista sfilare tutto il lavoro fatto, con il conseguente spreco di risorse finanziarie, proprio dagli agenti del Gru, con l’ausilio sui territori degli uomini della Brigata paramilitare Wagner e degli 007 turchi di Erdogan. È sullo scacchiere africano che ora si gioca la partita per la conquista della supremazia globale, con un’alleanza più o meno occulta guidata da Russia, Cina e Turchia, unite per minare le basi dell’Occidente. Un patto segreto che si sviluppa sul risiko dei territori e i cui inquietanti retroscena raccontano dell’azione pressante dei servizi russi, che stanno occupando “manu militari” Paesi e pezzi di regioni attraverso presunti o veri e propri colpi di stato, saccheggiando e uccidendo i poveri cittadini africani. Finora la Wagner, su ordine di Mosca, ha disarticolato completamente qualsiasi struttura che la nostra intelligence aveva costruito nel tempo in Mali. In Sudan come in Libia il servizio segreto italiano estero Aise ha sbagliato le attività, fidandosi del supporto di tagliatore che, una volta formati, si sono alleati con i russi. Da Tripoli, infatti, sono in aumento le partenze di barconi carichi di clandestini e, per questa estate, è prevista un’invasione epocale di migranti sulle coste italiane, in barba a qualsiasi accordo bilaterale condiviso tra il nostro governo e gli omologhi africani. Il Sudan ha avuto un effetto farfalla del tutto negativo per i nostri 007, che avevano offerto aiuto al generale sudanese Mohamed Dagalo, leader del Rapid Support Forces, allo scopo di arginare l’arrivo dei clandestini sulle nostre coste. Il gruppo paramilitare di Dagalo, formato da terroristi e tagliagole, è stato equipaggiato con armi e addestrato da funzionari dello Stato e agenti segreti italiani. E solo ora si scopre che l’addestramento ai generali golpisti altro non era che un regalo ai russi. Perché mentre gli 007 nostrani formavano militarmente gli uomini di Dagalo, il generale sudanese faceva il doppio gioco, alleandosi con la Brigata Wagner, ovvero con i russi al soldo di Putin, senza che la nostra intelligence se ne accorgesse. Risulta così tardivo l’appello lanciato un paio di giorni fa dall’ex autorità delegata Marco Minniti circa la presenza in Africa dei russi, quando queste nuove leve agli ordini del Cremlino sono state addestrate negli anni proprio dagli italiani. E a nulla servono le giustificazioni dei servizi segreti “non avvisati” dell’infiltrazione capillare delle spie russe sia in casa nostra e che nei punti chiave del pianeta. L’attività di egemonizzazione di Mosca a scapito dell’Italia, d’altronde, è nota almeno da sei mesi prima dell’invasione dell’Ucraina, quando le spie russe gettavano le basi per mettere in atto il progetto di Putin, nel quale era previsto l’utilizzo di agenti italiani prezzolati, di cui aveva fatto riferimento perfino l’ex premier Mario Draghi nel caso del dossier Usa sulle ombre russe. Dei presunti collegamenti tra pezzi della nostra intelligence e spie del Cremlino ne aveva parlato anche la sedicente agente segreta Cecilia Marogna, l’ex manager sarda che lavorava per l’allora capo dell’Aise, Luciano Carta, e per l’attuale direttore, Giovanni Caravelli. Le dichiarazioni della Marogna sono agli atti del processo in Vaticano al cardinale Angelo Becciu, nel quale era imputata, e raccontano la storia di due emissari di Putin che volevano portare a Mosca le reliquie di San Nicola di Bari. In una relazione finita al Copasir, Marogna conferma “di aver presentato ed accreditato, presso la Segreteria dello Stato Vaticano, i generali Carta e Caravelli nell’ottobre 2017. Particolare la conoscenza del generale Caravelli, che mi fu presentato dall’imprenditore romano Piergiorgio Bassi”. Lo stesso imprenditore che, nell’occasione, accreditò i due emissari russi.

Un Cremlino a Roma. Rita Cavallaro su L'Identità il 18 Aprile 2023 

Ormai è evidente: il Cremlino ha la sua base in Italia per le operazioni speciali e una rete di spie alla ricerca di agenti dei servizi italiani prezzolati. Perché se il caso di Walter Biot è passato alquanto sotto traccia, come se non fosse già di per sé grave che un ufficiale della nostra Marina sia al soldo dei russi e passi segreti strategici creando un vulnus alla Nato, la vicenda di Artem Uss non poteva non creare un caso internazionale. Con gli Stati Uniti che, ovviamente, hanno bacchettato l’Italia perché, dopo ben tre avvisi scritti sulla pericolosità dell’imprenditore-spia, sono ormai sul piede di guerra per la sua esfiltrazione degna di un film holliwoodiano di 007. E hanno chiesto spiegazioni all’Italia sulle eventuali misure di sicurezza adottate a seguito dei vari avvertimenti, scoprendo tragicamente che nessuna misura di sicurezza era stata adottata. Perfino il segnale del braccialetto elettronico, il dispositivo che una volta tagliato avvisa dell’evasione, è stato ignorato, supponendo che potesse trattarsi di un suo malfunzionamento. E Giorgia Meloni, di fronte all’imbarazzante situazione che mina i rapporti con gli Usa, ha chiesto informazioni ai servizi segreti italiani, per poi dichiarare che “noi non eravamo informati a livello di intelligence dalle altre intelligence sulla natura della figura. Noi sapevamo che c’era una richiesta del Dipartimento di giustizia americano legata a una questione di frode fiscale, un’altra materia”. Peccato però che subito dopo il suo arresto, eseguito dalla Polaria a Malpensa il 17 ottobre 2022, sulla stampa nazionale e internazionale era stato delineato il calibro criminale di Uss e anche ampiamente spiegato quanto la sua figura fosse strategicamente delicata, in quanto figlio del governatore della regione russa di Krasnoyarsk, Aleksandr Uss, particolarmente vicino a Putin. Il che, nel momento in cui imperversa la guerra in Ucraina con la contrapposizione tra l’asse atlantico e la Russia, non era certo un dettaglio da poco. Senza contare che, nei giorni successivi, sono emerse perfino le attività illecite dell’arrestato, tra cui contrabbando di tecnologie militari e riciclaggio per milioni di dollari. Washington ha scoperto che Uss acquistava dagli Stati Uniti componenti elettronici destinati ad equipaggiare aerei, radar o missili per venderli a compagnie russe eludendo le sanzioni in vigore. Che Uss fosse dunque un uomo di Putin in missione speciale per operazioni strategiche, volte a influire positivamente sulla guerra di Mosca, lo avrebbe capito anche un bambino. Eppure per i servizi segreti italiani l’imprenditore russo, che per evitare il carcere aveva addirittura comprato una casa in Italia dove poter scontare i domiciliari, non era degno di interesse. La sua presenza non è stata neppure rilevata. Il che rappresenta un gravissimo buco nella sicurezza nazionale, se consideriamo il fatto che il compito di segnalare spie sul territorio è di competenza del controspionaggio italiano. A stabilirlo è proprio una legge dello Stato, la 124 del 2007, che disciplina l’attività dei servizi segreti e, all’articolo 6 comma 2, dispone che “spettano all’Aise le attività in materia di controproliferazione concernenti i materiali strategici, nonché le attività di informazione per la sicurezza che si svolgono al di fuori del territorio nazionale, a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia”. Il comma successivo indica che “è altresì compito dell’Aise individuare e contrastare al di fuori del territorio nazionale le attività di spionaggio dirette contro l’Italia e le attività volte a danneggiare gli interessi nazionali”. Ciò vuol dire che i servizi segreti italiani avrebbero dovuto sapere che Uss aveva preso un volo per l’Italia ancor prima che salisse sull’aereo e che, dopo averlo pedinato e aver certificato la sua rete di contatti e di interessi, quantomeno avrebbero dovuto bloccarlo a Malpensa, cosa che invece ha fatto la Polaria. Anche perché la stessa legge di cui sopra, all’articolo 7 comma 3, dice che “è compito dell’Aisi individuare e contrastare all’interno del territorio nazionale le attività di spionaggio dirette contro l’Italia e le attività volte a danneggiare gli interessi nazionali”. Appare evidente, allora, che né l’Aise né l’Aisi abbiano svolto il compito a servizio dello Stato. E di conseguenza neppure il direttore del Dis, Elisabetta Belloni, che, come recita l’articolo 4 comma 3 lettera A, “coordina l’intera attività di informazione per la sicurezza, verificando altresì i risultati delle attività svolte dall’Aise e dall’Aisi, ferma restando la competenza dei predetti servizi relativamente alla attività di ricerca informativa e di collaborazione con i servizi di sicurezza degli Stati esteri”. Insomma, al Dis non è mai arrivata alcuna segnalazione dalle spie italiane. Eppure, su Uss era stato scritto tutto in rete già dall’arresto e, per ben 7 mesi, è stato di pubblico dominio il calibro del personaggio. Nonostante i mancati avvisi interni, resta il fatto che l’attività di controspionaggio prevede l’iniziativa del singolo servizio, per cui la Belloni avrebbe potuto in autonomia chiedere report sul soggetto. Tanto più che, nero su bianco, erano arrivate ben tre lettere dal Dipartimento di Giustizia americano ad istituzioni italiane circa il pericolo di fuga, elevato al massimo livello dopo la richiesta di estradizione degli Usa. Appare alquanto imbarazzante la circostanza che i servizi segreti italiani non fossero stati informati, sia per l’esistenza degli alert americani, sia perché questi non devono essere informati ma sono loro a dover informare. Soprattutto il governo. Che ora si trova tra le mani la patata bollente e che da questo cortocircuito ha già subito un enorme danno politico internazionale. Il ministro Carlo Nordio ha inviato gli ispettori alla procura di Milano, che dopo 40 giorni di carcere aveva spedito Uss ai domiciliari, per “accertamenti ispettivi” sui giudici milanesi, visto che il ministero aveva rassicurato Washington sul fatto che “la misura cautelare degli arresti domiciliari, che nel caso di Artem Uss è resa più sicura dalla applicazione del braccialetto elettronico, è in tutto equiparata alla misura della custodia in carcere”. Peccato che organizzare un’evasione dal penitenziario di Busto Arsizio sarebbe stato più complicato di una fuga da una villa di Basiglio, non controllata né monitorata. E pensare che proprio a Milano c’è un centro Aisi, che se non è una cellula dormiente avrebbe dovuto battere un colpo ed avvisare il presidente del Consiglio. È questo il vero giallo del caso, che denota la mancata propensione dei servizi segreti italiani ad una reale ed efficace attività di contrasto all’intelligence russa sul territorio nazionale, una realtà che si protrae ormai da anni. Non dimentichiamo che i vertici dell’intelligence sono stati in gran parte nominati da Giuseppe Conte con una forte influenza del Pd. E che gli stessi sono stati per ora confermati da questo governo. Ma non rispecchiano il filo atlantismo dell’esecutivo, perché i russi hanno agenti sotto copertura infiltrati nel nostro Paese, scelto proprio da Vladimir Putin in persona per portare a segno delle operazioni strategiche fondamentali per le sorti di Mosca. Fondamentale era l’esfiltrazione di Artem Uss. E rilevante era la vicenda di Walter Biot, il cui arresto da parte del Ros resta un’ottima operazione di polizia giudiziaria, ma anche quella segna al tempo stesso il fallimento del controspionaggio italiano, che avrebbe dovuto anticipare le mosse delle spie russe in Italia e non permettere la dazione di notizie, atti e documenti classificati all’intelligence russa da parte di Biot. La sentenza di primo grado del Tribunale militare, che ha inflitto 30 anni di carcere all’ufficiale di Marina, conferma che c’è stata la penetrazione della sicurezza italiana, e di conseguenza della Nato, da parte dell’intelligence del Cremlino. E l’operazione di esfiltrazione di Artem Uss, messa a segno dalle spie russe in Italia, rispetto alle missioni con il polonio per uccidere dissidenti di Mosca, potrebbe sembrare un gioco da ragazzi. Eppure è diventata il biglietto da visita del modus operandi del Cremlino sul nostro territorio. Rispetto a quello che hanno scritto i giornali, la pianificazione per far rientrare in patria l’uomo di Putin è stata molto più semplice. I russi hanno studiato nei minimi dettagli il progetto di evasione con il consenso e la partecipazione dello stesso Uss, anche perché sarebbe inimmaginabile pensare che una mattina degli sconosciuti si fossero presentati senza preavviso alla porta e che lui si fosse fidato a seguirli, se non avesse saputo prima chi fossero e dove lo avrebbero condotto. È elementare che da diverse settimane le persone che hanno agevolato l’evasione di Uss abbiano effettuato, direttamente o indirettamente, una serie di incontri con lo stesso trafficante di armi, al fine di organizzare i tempi e i modi dell’evasione. Uss, dunque, era a tutti gli effetti consapevole del giorno e dell’ora in cui sarebbero andati a prenderlo per riportarlo a Mosca. In tutto questo arco di tempo, nessuno si è accorto di chi entrava e usciva da quella casa. Tuttavia è proprio questa l’attività tecnica dell’intelligence, quella del pedinamento, dell’osservazione e dell’intercettazione. Una centrale di ascolto, purtroppo mai avviata, con la quale prendere due piccioni con una fava: tenere monitorato il personaggio di interesse degli Stati Uniti e individuare la rete delle spie russe che lo andavano a trovare.

La storia di Cutro e degli 007. Rita Cavallaro su L’Identità il 23 Marzo 2023

L’intelligence italiana è alla frutta. Ma anche al dolce e alle ricette gourmet, preparate con dovizia dallo chef personale che Elisabetta Belloni ha portato al Dis, per soddisfare tutti i suoi desideri culinari. Una figura che non poteva certo mancare tra gli 007 nostrani, sempre più isolati e politicizzati, tanto da lanciare falsi allarmi per mostrare, in tempo di nomine, di essere ancora protagonisti tra i servizi di sicurezza in Africa, diventata la polveriera d’Europa per il fiume umano che tenta di raggiungere l’Italia, e in Russia, lo scacchiere della guerra ucraina. Così tra un piatto di spaghetti e una millefoglie elaborata dal cuoco-spia, i servizi italiani brancolano nel buio nello scenario internazionale. Mentre il capo del Dis, sulla scia dell’ex sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli, è intenta a mandare via sempre più professionisti dai reparti, il nodo dell’immigrazione clandestina diventa un macigno, che ricade immeritatamente sul governo di Giorgia Meloni, sotto scacco dalla tragedia di Cutro. L’esecutivo, infatti, è finito alla mercé degli attacchi dell’opposizione, che insiste sul fatto che il ministro Matteo Piantedosi e la stessa Giorgia Meloni non abbiano chiarito le circostanze sul mancato invio dei soccorsi. La verità è che, in questo caso, paga il giusto per il peccatore: la maggioranza si è fatta incudine perché il martello sarebbe stato più dannoso, portando alla luce le gravissime lacune dei servizi di sicurezza italiani. Messi all’angolo e isolati da tutte le intelligence del mondo, sfiduciate verso i nostri 007, che hanno perso il controllo delle aree più critiche del pianeta. La “missione Africa” è finita in mare, insieme ai corpi dei naufraghi a Cutro. È ovvio che è impossibile fermare l’immigrazione clandestina, ma le rotte che i migranti percorrono per invadere l’Europa sono note da dieci anni. Libia, Tunisia, Balcani e ora Turchia. Chi si dovrebbe porre il problema di prevenire queste ondate ed evitare i morti? Politicamente il governo, che nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri sulla questione ha deciso di arrestare gli scafisti, inseguendo i trafficanti di esseri umani in tutto il “globo terraqueo”. Ma materialmente, quale sarebbe l’entità preposta a farlo? Non certo lo chef della Belloni e neppure il suo storico amico, l’ex Asl Angelo Tanese, vicino a Nicola Zingaretti e diventato capo del personale al Dis.

Generalmente sono le milizie libiche che si interfacciano con i nostri agenti, ma la situazione di instabilità, con la Tunisia a rischio fallimento e i Balcani con il presidente turco Erdogan alla prese con la costruzione del muro, ha creato un cortocircuito nello scambio delle informazioni. Il controspionaggio italiano, infatti, è del tutto assente dalla Libia, mentre la presenza in Turchia e sul territorio balcanico è quasi irrilevante, in una situazione che stona con il gran numero di agenti segreti “parcheggiati” da Gabrielli nelle stanze del ministero degli Esteri. E allora, chi aiuterà la premier Meloni a portare avanti la sua sacrosanta caccia agli scafisti e a presidiare il territorio? In questa situazione di caos e burocratizzazione, con le spie sempre più in ufficio e poco sul campo, l’obiettivo appare arduo, a meno di una riforma dell’intelligence che possa ristrutturare i servizi e riposizionare gli agenti negli snodi chiave del mondo.

Alla stregua della brigata Wagner, che funziona perché è ramificata da oltre dieci anni in Africa, tanto da risultare fondamentale nel colpo di stato in Mali. La brigata ha inoltre ottimi rapporti con l’intelligence turca. Non dimentichiamo che la liberazione della nostra connazionale Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e rimasta ostaggio degli islamici per 18 mesi, non è stata opera dei servizi segreti nostrani, che si sono limitati ad accompagnarla a casa, ma degli 007 turchi. Una storia che nessuno racconta: un violento conflitto a fuoco, nel quale gli italiani erano assenti, ha portato al successo dell’operazione e, alla fine, i turchi hanno consegnato la Romano agli italiani. Servizi turchi che, per liberare la ragazza, hanno combattuto contro l’organizzazione terroristica somala sunnita Al-Shabaab. Di fronte a un livello elevato di attività e alla mancanza di terminali sul territorio in grado di filtrare le fake news, non potevano che essere una boutade sia la notizia che Wagner riempirebbe i barconi di migranti e perfino la taglia sul ministro della Difesa, Guido Crosetto.

E anche il solo pensare che i vertici del Cremlino possano aver dato ordine alla Wagner di invadere con migliaia di migranti l’Italia o di minacciare il ministro vuol dire non conoscere il mondo delle spie. O, peggio, si tratta di disperati tentativi di nascondere una verità altamente imbarazzante nel momento attuale: l’Italia è fortemente infiltrata da spie russe, storicamente formate per eseguire missioni sofisticate, come il polonio nel tè per uccidere una persona sgradita a Vladimir Putin, e non operazioni grossolane come riempire barchini. Un’infiltrazione causata dal fatto che il controspionaggio svolto dall’Aisi, l’agenzia che deve impedire ad agenti stranieri di portare via dal nostro Paese documenti di sicurezza Nato, ormai è un miraggio, come dimostra la recente condanna per spionaggio di Walter Biot e la mancata scoperta dell’identità delle “manine”, cercate a lungo da Gabrielli, che consegnarono la lista dei putiniani al Corriere della Sera. Lo stesso quotidiano che ha lanciato in prima pagina l’allarme degli 007 sui 665mila migranti dalla Libia per invadere l’Italia. Un annuncio che ha creato allarme sociale e che, invece, è solo propaganda per destabilizzare il governo Meloni, visto che lo stesso dato è riportato già nelle vecchie relazioni annuali dei servizi segreti, che sono pubbliche. In quella del 2017, a pagina 73, e in quella del 2019, a pagina 90, l’intelligence annunciava che erano in arrivo dalla Libia verso l’Italia 600mila migranti. Nel 2023, ben sei anni dopo, gli 007 riciclano lo stesso dato, copiandolo dalla Unhcr. Se si volesse fare davvero informazione, allora bisognerebbe informare sui 5 milioni di migranti che dalla Turchia vorrebbero entrare in Europa. Perché il tema non è lanciare l’allarme, ma è come risolvere il problema. Nessuna soluzione dai vertici della sicurezza, più interessati alla “pulizia etnica” interna ai servizi, nel corso della quale a pagarne il prezzo è la professionalità. Sono lontani i tempi in cui, dopo il crollo delle Torri Gemelle, per i posti apicali dell’intelligence venivano selezionati agenti segreti, impiegati anche in teatri di guerra, con un curriculum operativo che non aveva nulla da invidiare ai dirigenti delle altre agenzie del mondo. Ma la riforma dei servizi, con il passaggio dalla legge 801 alla 124 che prevedeva la trasformazione del Cesis in Dis, di Sismi in Aise e di Sisde in Aisi, è stata deleteria perché ha dato vita a un apparato burocratico non più operativo e, dunque, incapace di contare nelle varie cancellerie europee. Se ci fosse una seria politica dell’intelligence, in Italia non saremmo vittime del caso e degli eventi, come accaduto a Cutro. E se in quel natante, anziché i migranti, ci fossero stati dei terroristi? Possibile che non ci sia alcun alert preciso delle spie, che possa fare da prevenzione agli scandali che ricadono su questo Paese? Come quello del fermo di Imad al-Trabelsi, beccato, dopo aver incontrato alcuni politici italiani, con una valigia contenente 500mila euro, di cui non ha saputo giustificare la provenienza. Insomma, un caos. Ed è questo caos nei servizi ad aver provocato il casino alla premier Meloni.

Il Caso dei fratelli Occhionero.

L'occhio della piramide: la versione dei fratelli Occhionero. In una memoria inviata al magistrati di Perugia e nel corso di cinque interviste rilasciate ad un'emittente privata, Giulio e Francesca Maria Occhionero tracciano i contorni di quello che - secondo loro - è stato il vero scopo dell'inchiesta Eye Pyramid. Gianluca Zanella e Manuele Avilloni l'8 Agosto 2023 su Il Giornale.

Vicende come quella che ha visto protagonisti Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati il 9 gennaio 2017 perché accusati di essere gli ideatori – o quanto meno i terminali finali – di una gigantesca operazione di cyberspionaggio ai danni di infrastrutture critiche per il sistema Paese e di personaggi più o meno noti, e oggi in attesa del processo di Appello, si prestano inevitabilmente a possibili strumentalizzazioni.

Nel corso di questa inchiesta, IlGiornale.it ha cercato di fornire ai lettori il succo di una storia complicata, sia scavando nel passato, sia cercando di interpretare il presente. Se ci siamo riusciti saranno lettori e lettrici a giudicarlo, nel frattempo una cosa possiamo anticiparla: nuovi filoni si sono aperti. E dunque non ci fermeremo qui. Per ora, a conclusione di questo primo ciclo di approfondimento, abbiamo deciso di dedicare spazio a loro: Giulio e Francesca Maria Occhionero, cercando di sintetizzare il loro articolato punto di vista riguardo una storia che ha inevitabilmente stravolto le loro esistenze.

Avremmo voluto farlo intervistando Giulio Occhionero, ma i nostri tentativi di contattarlo sono – per ora – caduti nel vuoto. Per dare spazio alla sua versione e a quella di sua sorella, allora, ci siamo affidati a due fonti: una memoria del 10 aprile 2018 scritta e inviata da Giulio Occhionero alla pm di Perugia Gemma Miliani e il ciclo di interviste rilasciate ad Aracne.tv.

Ne emerge un quadro complesso, che impone una serie di approfondimenti già in cantiere. Per ora, cercheremo di fornirvi la versione dei fratelli Occhionero nei suoi punti che, a nostro avviso, sono di maggior interesse.

La memoria sulla vicenda Eye Pyramid

Già dal carcere di Regina Coeli, Giulio Occhionero aveva cominciato a battersi per dimostrare la propria innocenza e svelare un presunto complotto ai suoi danni e a quelli della sorella. Il frutto di lunghi mesi di lavoro e di confronto con i propri legali lo porta – dopo la scarcerazione – a scrivere una lunga e dettagliata memoria dove l’ingegnere nucleare racconta la storia che l’ha visto protagonista. Come già detto, è una memoria rivolta ai magistrati di Perugia, dove un fascicolo era stato aperto a carico del magistrato romano Eugenio Albamonte e degli investigatori che avevano condotto le indagini sul malware Eye Pyramid.

Merita di essere letta attentamente. Gli spunti sono tanti. Ma bisogna fare attenzione e tenere sempre a mente una cosa: questa è la versione di Giulio Occhionero. Perché sottolinearlo? Perché questa memoria delinea uno scenario che, se fosse vero, sconvolgerebbe l’impianto della democrazia italiana. Dobbiamo dunque andarci con i piedi di piombo. Cominciamo.

Un complotto internazionale

Che quella degli Occhionero sia una vicenda degna di un romanzo di John Le Carré lo dice la stessa Francesca Maria, ma a spiegare il perché ci pensa Giulio. Sin dalle prima pagine della sua memoria, senza mezze misure parla di “una chiara fabbricazione della notizia di reato”, ovvero quella mail con un allegato malevolo arrivata ad Enav – e più precisamente a Francesco Di Maio, addetto alla sicurezza dell’Ente nazionale per il volo – che ha innescato la vicenda culminata con l’arresto dei fratelli Occhionero.

Secondo Giulio Occhionero, l’inchiesta a carico suo e di sua sorella sarebbe “prefabbricata”. Il tutto nella piena consapevolezza degli investigatori e di “esponenti di primo piano della magistratura”. La domanda viene spontanea: per quale motivo sarebbe stata prefabbricata un’inchiesta a danno di due all’epoca perfetti signor nessuno? La risposta lascia perplessi: i fratelli Occhionero sarebbero finiti al centro di un complotto teso a incastrare nientemeno che l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump. In pratica, Giulio e Francesca Maria sarebbero finiti al centro del filone italiano del Russiagate. E su questo, l’ingegnere non ha dubbi.

I motivi sarebbero da ricercare nella vicinanza degli Occhionero [ricordiamo che Francesca Maria è anche cittadina americana, ndr] ad ambienti repubblicani d’oltreoceano. “Le date del nostro procedimento, incluse le date di accesso ai server su territorio americano” afferma Giulio Occhionero in un’intervista ad Aracne.tv, “combaciano perfettamente con la sequenza degli eventi dell’inchiesta Russia Gate negli Stati Uniti”.

“L’attacco era a Trump” aggiunge nella stessa sede Francesca Maria, “e in Italia c’era qualcuno che faceva da sponda in ambasciata”.

Giulio rincara la dose: “C’è un chiarissimo coinvolgimento dell’intelligence italiana in questa vicenda... e [...] la cosa [...] più grave, [...] è il fatto che Giulio e Francesca Occhionero sono chiaramente stati scelti anche in funzione delle loro amicizie negli Stati Uniti, delle loro amicizie nel partito repubblicano, basta andare su internet per vedere le foto con il precedente ambasciatore repubblicano a Roma, e quindi era certamente un’indagine che aveva una connotazione politica. Ci ha lasciato molto perplessi il fatto che il Gip non abbia notato questo sin dall’inizio. [...]”.

A causa di questi rapporti, i due sarebbero finiti nel mirino della macchina del fango democratica e a questo gioco perverso si sarebbero prestati membri dell’ambasciata americana a Roma, un agente dell’Fbi, due giornalisti americani di area democratica e, ovviamente, gli inquirenti italiani. La ragione di tutto? Non solo incastrare Trump, ma anche – se non soprattutto - creare una situazione di emergenza e gettare le basi per una seria discussione, in Italia, sull’opportunità di creare un’agenzia nazionale sulla cybersecurity e, conseguentemente, spartirsi ricche poltrone. Oggi, in effetti, abbiamo l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Chissà che Giulio Occhionero non rivendichi da Abu Dhabi il merito per questa nuova creatura istituzionale.

Le prove della pre-fabbricazione

Quali sarebbero le prove che Giulio Occhionero ha raccolto per dimostrare quello che sostiene? Per spiegarlo bisognerebbe entrare nel tecnico, con il rischio di non permettere una corretta comprensione. Cerchiamo allora di sintetizzare, rimandando ad altra sede una trattazione più approfondita: secondo l’ingegner Occhionero, il tecnico della Mentat Solutions S.r.l, quel Federico Ramondino che collaborava con Enav ed Eni e che ha individuato per primo il malware Eye Pyramid, avrebbe costruito preventivamente le prove che poi avrebbero portato i fratelli Occhionero in carcere. A dimostrarlo, non solo una precedente memoria dello stesso Giulio Occhionero, ma anche la consulenza tecnica del dott. Mattia Epifani.

IlGiornale.it ha letto la consulenza. L’analisi è stata svolta sulla relazione tecnica svolta dalla Mentat e su due DVD consegnati alla Procura di Roma, dove sono presenti dei file le cui date di creazione certificherebbero la contraffazione della notizia di reato. Peccato che, nelle conclusioni della relazione tecnica di Epifani, sia riportato – con grande onestà intellettuale – che “senza un’analisi del computer utilizzato per masterizzare i Dvd non è possibile determinare con certezza l’origine della data di modifica”. Quelle di Giulio Occhionero, in sostanza, restano delle ipotesi. E in effetti, Federico Ramondino, oggi a processo a Perugia, tra i diversi capi d’imputazione da cui deve difendersi non ha quello di aver falsificato proprio un bel nulla.

Federico Ramondino: metà dilettante, metà fenomeno

Con il tecnico della Mentat tanto Giulio quanto Francesca Maria Occhionero hanno il cosiddetto dente avvelenato. Ed è comprensibile. I sospetti che entrambi nutrono nei suoi confronti li esprimono chiaramente: da un lato, Ramondino viene dileggiato nel corso di due interviste ad Aracne.tv tanto dai due fratelli, quanto dal conduttore del programma, in quanto in possesso di un diploma di maturità classica. Davvero assurdo che un diplomato al liceo classico possa essere uno dei migliori hacker in circolazione. Certamente se si fosse limitato a tradurre Tacito o Senofonte non solo non avrebbe ingenerato sospetti, ma si sarebbe evitato enormi grane.

D’altro canto, stando a quanto espresso da Giulio Occhionero nella sua memoria, nonostante sia un incompetente, Ramondino deve avere enormi doti affabulatorie, altrimenti come spiegare i prestigiosi incarichi da parte di enti e strutture altamente sensibili per il sistema Paese come Eni ed Enav? Cosa nasconde il tecnico della Mentat? Come mai viene “addirittura” nominato ausiliario di Polizia Giudiziaria? La risposta che dà Giulio Occhionero è chiara: “L’individuo [Ramondino, ndr] che ancora oggi viene celebrato sui molti articoli apologetici da una stampa perfettamente orientata rivela [...] quale sia il termometro della cybersecurity Italiana”.

Una giudice incompetente

Tanto nella memoria rivolta ai magistrati perugini, quanto nel corso delle interviste rilasciate ad Aracne.tv, Giulio Occhionero – che lamenta di essere stato diffamato dai media che si sono prestati al complotto – riserva alla giudice che ha mandato in carcere lui e sua sorella parole che, a ben guardare, sono al limite della diffamazione o quanto meno, come per Ramondino, del dileggio. Parliamo della dott.ssa Antonella Bencivinni. Giudicata troppo giovane per gestire un caso del genere, la giudice viene sospettata di essere, nella migliore delle ipotesi, un’incompetente.

Di più: “La totale assenza di domande sulla fabbricazione e sugli illeciti degli inquirenti da parte della Dott.ssa Bencivinni farà poi scuola nei manuali di giurisprudenza quale contro-esempio di buona attività istruttoria”. Di nuovo viene dato dell’incompetente alla giudice che ha anche il demerito di aver ricevuto questo caso – per lei troppo complicato – subito dopo il trasferimento dal Tribunale di Pisa.

Sembra quasi che Giulio Occhionero adombri il sospetto che la scelta sia ricaduta sulla dott.ssa Bencivinni proprio perché giovane, inesperta e dunque manipolabile. Lo si evince quando, di fronte ai microfoni di Aracne.tv, dice che - nell’udienza finale – “il dott. Albamonte, per meglio esercitare una pressione d’immagine sulla giudice, si è portato un membro del Csm il giorno della sentenza, cioè il dottor [Giuseppe] Cascini”, per poi aggiungere, “il dottor Cascini veniva a dare manforte al dott. Albamonte in quella circostanza. E la giudice... [...] secondo me aveva capito benissimo che la notizia di reato era fabbricata, è molto anomalo il caso della dottoressa Bencivinni, venuta apposta a Roma per fare questo procedimento, estremamente giovane, non lo so...”.

La carriera di Albamonte

Anche per il dott. Eugenio Albamonte non ci sono sconti. Anzi, Albamonte dovrebbe ringraziare di essere incappato in questa vicenda. Il perché lo spiega Giulio Occhionero nella sua memoria: “Assolutamente palesi, poi, sono i chiari benefici di carriera che tale inchiesta ha portato allo stesso Dott. Albamonte, la cui elezione a Presidente dell’ANM, avvenuta per un solo voto di differenza, è certamente da collegarsi alla spinta emotiva nel mondo giudiziario causata dalla diffusione di notizie riguardanti una eclatante inchiesta sulla sicurezza dello Stato”.

Cnaipic: centrale di spionaggio

Il Cnaipic? Una banda di incompetenti e di veri e propri pirati informatici che, al soldo dello Stato, agiscono in maniera sconsiderata, rischiando di creare incidenti diplomatici e facendo perdere al Paese importanti occasioni d’investimento con le proprie attività al limite del criminale. Parola di Giulio Occhionero. L’ingegnere sostiene infatti che “in diversi casi del passato era già stato mostrato come questa entità dello Stato avesse sviluppato profondi [sic] interessi industriali che l’avevano addirittura condotta ad essere indicata come fonte di attacchi informatici”. Praticamente la struttura che dovrebbe tutelare le nostre infrastrutture critiche sarebbe in realtà la centrale da cui partono attacchi informatici. Dove abbia tratto queste informazioni Giulio Occhionero – così sicuro nelle sue affermazioni – è un mistero. E ci chiediamo se abbia le prove di ciò che dice. Se così fosse, saremmo i primi a dargli manforte per far valere le sue ragioni.

Ma l’ingegnere ce l’ha con il Cnaipic anche per l’interessamento mostrato verso la tentata operazione con il Porto di Taranto quando, supportato da partner americani di alto livello diplomatico, dal 2004, fino al 2007, aveva cercato di ottenere un appalto molto importante per il rinnovamento delle infrastrutture del porto. Un’operazione, questa, che ha giustamente destato l’interesse dei nostri investigatori informatici. Giulio Occhionero lamenta che l’operazione di Taranto nulla ha a che vedere con l’inchiesta che l’ha portato in carcere. Non del tutto vero: tra le vittime di Eye Pyramid, infatti, ci sono anche alcuni dipendenti del Porto di Taranto.

Dulcis in fundo: secondo Giulio Occhionero – sempre ben informato – le attività del Cnaipic sarebbero anche dietro il deterioramento dei rapporti – e della mancata sottoscrizione di importanti commesse industriali – tra Eni e Finmeccanica con, rispettivamente, la società russa Gazprom e il governo indiano. Insomma, saremmo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio e in mala fede.

I vertici dello Stato complici del complotto

E i vertici dello Stato? Come si sono comportati di fronte a una vicenda così abnorme? Zitti e conniventi. Neanche a dirlo. L’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, sebbene incalzato da un’interpellanza parlamentare dell’allora vice presidente della Camera Roberto Giachetti [“sulla durata della custodia cautelare del sottoscritto”, Giulio Occhionero dixit], non ha mai risposto. IlGiornale.it, nonostante approfondite ricerche, non ha trovato alcuna traccia di questa interpellanza.

L’allora capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, non solo non ha fatto nulla per porre un freno ai “diversi comportamenti illeciti e le anomalie investigative [...] emerse all’epoca”, ma dopo l’iscrizione a Perugia sul registro degli indagati di Eugenio Albamonte, ha confermato quest’ultimo alla guida dell’accusa nel processo agli Occhionero.

Gli allora ministri dell’Interno, Marco Minniti, e della Difesa, Roberta Pinotti [stiamo parlando del governo Renzi, ndr], nonostante abbiano ricevuto due informative da parte dell’avvocato degli Occhionero e nonostante avessero “l’obbligo” di una “contro-azione, e di informazione parlamentare su ciò che era accaduto” non hanno fatto nulla. Anzi, Minniti in effetti qualcosa ha fatto. Insieme al capo della Polizia Franco Gabrielli ha defenestrato l’allora capo della Polizia postale Roberto Di Legami.

Sette in condotta, invece, per la Pinotti, che – visti i tentativi degli agenti del Cnaipic di accedere ai server degli Occhionero allocati negli Stati Uniti – avrebbe avuto “un obbligo di segnalazione di tale incidente al Segretario Generale della Nato”, dando così origine a un’inchiesta che “si sarebbe dovuta svolgere sotto la vigilanza di una commissione della stessa Alleanza Atlantica; fatta prevalentemente di membri non italiani”.

Il ruolo di Renzi

Che ruolo ha avuto l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi? A chiederlo è Antonello Nicosia nel corso di una delle interviste fatte ai due fratelli. La risposta di Giulio Occhionero è interessante: “[...] [...] Renzi [...] aveva appena ceduto la presidenza del Consiglio a Gentiloni, nonostante le sue dichiarazioni di quei giorni, che lui non era a conoscenza di nulla, io non le ritengo credibili perché il Dis riferisce al primo ministro, quindi a meno che il Dis abbia lavorato in totale assenza di conoscenza da parte del presidente del Consiglio, sarebbe un fatto gravissimo, non è ipotizzabile. Il direttore della polizia postale [Roberto Di Legami, ndr] venne rimosso proprio in quei giorni e questo testimonia che succedeva qualcosa tra forze di polizia e di intelligence che non andava in quella direzione. [...] La stessa intervista dell’amico di Renzi, Marco Carrai, che aspirava alla direzione della cybersecurity, la mattina dopo il nostro arresto non può essere stata fatta in una notte... erano tutti pronti all’uscita di questa notizia, qualcuno stava costruendo un caso che doveva deflagare, secondo noi, fino a Whashington, ma gli è andata male". Come già detto, questa è la versione di Giulio Occhionero. IlGiornale.it al momento non ha elementi per smentire, nè per confermare.

L’Fbi infedele e l’anomalo comportamento dell’Ambasciata americana

Alla lista dei cattivi Giulio Occhionero aggiunge l’agente speciale Kieran Ramsey, Legal Attaché presso l’Ambasciata americana a Roma. Ramsey, già a capo dell’FBI di Boston quando avvenne l’attentato alla maratona [evento su cui l’ingegnere si concentra per addensare su Ramsey la nube di atroci sospetti, ndr], notoriamente vicino ad ambienti democratici, non solo ha attivamente supportato le autorità italiane nelle indagini, ma addirittura è stato lui, dopo il tentato attacco ad Enav, a certificare al Cnaipic che la licenza di una componente del malware Eye Pyramid era stata acquistata da Giulio Occhionero. Dopotutto, “il suo arrivo a Roma si pone all’incirca in linea con l’avvio dell’inchiesta Eye Pyramid”. Tutto torna.

C’è poi l’inspiegabile, anomalo, inqualificabile comportamento dei funzionari dell’ambasciata americana che non solo hanno minimizzato la situazione, senza fornire alcun supporto concreto a una propria concittadina – Francesca Maria Occhionero - in carcere, ma che difficilmente potevano non essere a conoscenza di quanto il Cnaipic stava cercando di fare con il supporto di Ramsey [ovvero violare lo spazio cybernetico americano, ndr]. E se pur sapendolo non hanno fatto niente, per questi funzionari si prospetterebbe un accusa per “alto tradimento”. Nientemeno.

“io credo – afferma Giulio Occhionero ai microfoni di Aracne.tv - che qualcuno nell’ambasciata americana a Roma abbia agito in maniera molto sbagliata e purtroppo sono gli stessi nomi di quelli che figurano nell’inchiesta sul presidente Trump”.

Le interviste di Antonello Nicosia

Veniamo ora al sodalizio con Aracne.tv. Per il programma “Mezz’ora d’aria”, i fratelli Occhionero rilasciano tra luglio e settembre 2019 ben cinque interviste. I contenuti spaziano dalle teorie del complotto – tutte ben argomentate e già presenti nella memoria inviata a Perugia da Giulio – alle rispettive esperienze in carcere. Dopotutto, il focus del programma è proprio quello di denunciare gli abusi che avvengono dietro le sbarre. A condurlo è Antonello Nicosia, che nel 2022 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a 15 anni di carcere per associazione mafiosa. Come assistente parlamentare dell’ex deputata di LeU e poi Italia Viva Giuseppina Occhionero [si tratta di un caso di omonimia, non c’è parentela tra lei e i due fratelli, ndr], Nicosia avrebbe fatto da “messaggero” tra alcuni mafiosi carcerati e l’esterno. Ma al di là delle vicende giudiziarie del conduttore del programma, quello che è interessante è ascoltare Giulio Occhionero che argomenta ed espone in modo lucido e implacabile quanto già scritto un anno prima nella memoria inviata a Perugia. Sorvolando sugli aspetti già presi in esame, restano due dettagli che hanno attirato la nostra attenzione.

Le interrogazioni parlamentari

Di fronte a un conduttore eccessivamente sbilanciato a favore di chi sta intervistando, Giulio Occhionero parla di come i media italiani – asserviti a uno Stato che in realtà è, secondo una sua interpretazione, un Deep State – tacciano sull’epopea sua e di sua sorella, mentre i media internazionali prestino grande attenzione alla vicenda, mostrando grande vicinanza ai due fratelli, che hanno avuto il merito – dice Francesca Maria – di aver “sventato un complotto”. Il confronto tra l’Italia e l’estero è sempre impietoso. In una delle interviste, Francesca Maria Occhionero lamenta che “[...] una serie di interrogazioni [parlamentari] sono state fatte e non c’è mai stata risposta”.

Tolto il fatto che di fronte alla telecamera non venga detto chi abbia fatto questa “serie” di interrogazioni, come per l’interrogazione di Giachetti all’allora ministro della Giustizia, ci siamo messi alla ricerca di questa “serie” di interrogazioni. Risultato? Nulla. L’unica interrogazione cui forse Francesca Occhionero può aver fatto riferimento – ma dove la vicenda Eye Pyramid non viene menzionata – è quella presentata dai parlamentari PD Andrea Romano, Alessia Morani e Anna Ascani il 2 maggio 2019 e riguarda il Russiagate, precisamente la scomparsa del professore Joseph Mifsud e il ruolo dell’Università Link Campus di Roma in questa storia.

Se qualcosa dovesse esserci sfuggito, siamo pronti a dare conto del nostro errore.

La resa dei conti

Arriviamo infine all’ultimo aspetto. Che già emergeva nella memoria, ma che viene ribadito con più forza nel corso delle interviste rilasciate a Nicosia. Secondo i due fratelli, c’è qualcuno – non meglio specificato – che per loro conto si sta attivando per cercare la verità. Immaginiamo siano gli avvocati difensori, ma forse non solo: “[...] nessun governo ha ancora fatto niente”, lamenta Giulio Occhionero, “[...] io ho informato le commissioni d’intelligence della camera e del senato degli Stati Uniti, ho scritto in copia all’FBI, ho scritto all’agenzia della difesa informatica del Pentagono e lì loro sono partiti con queste indagini”.

Sarà vero? Al momento non abbiamo riscontri. Certo, sono passati quattro anni da questa intervista. Se effettivamente gli organi d’intelligence del Pentagono stavano lavorando, qualcosa dev’essere andato storto. O forse, tutto era frutto della fantasia dell’ingegner Occhionero.

Questa – in estrema sintesi – è la versione dei fratelli Occhionero. Come detto, gli spunti da approfondire sono molti. Ci stiamo lavorando. Ma soprattutto, siamo pronti – a distanza di diversi anni dalla loro ultima esposizione mediatica – a dare ancora spazio, qualora volessero rettificare o aggiungere qualcosa, a Giulio e Francesca Maria Occhionero. Stessa cosa per tutte le altre persone da loro tirate in ballo in quello che, se confermato, sarebbe il più grande complotto della storia occidentale. O il più grande specchietto per le allodole. Vedremo.

Quell'ombra della massoneria dietro la rete di spionaggio più grande d'Italia. Roberto Di Legami, fino al 2017 ai vertici della Polizia postale, dice la sua sulle indagini che hanno portato all'arresto dei fratelli Occhionero e dice: "Ci siamo fermati troppo presto". Manuele Avilloni e Gianluca Zanella l'1 Agosto 2023 su Il Giornale.

Accade spesso che nei grandi casi di cronaca avvengano ai margini del palcoscenico principale degli scontri, delle lotte intestine più o meno manifeste tra gli organi inquirenti o, in generale, tra gli appartenenti alle istituzioni. La vicenda che coinvolge i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero non fa eccezione.

Se è vero che si tratta ad oggi di una storia pressoché dimenticata, è altrettanto vero che scavando tra le sue pieghe si trovano cose interessanti. E ora che a Perugia si sta svolgendo il processo contro l’uomo che ha disinnescato la minaccia cyber che per un decennio ha spiato le infrastrutture critiche del nostro Paese, esfiltrando una mole di dati difficilmente quantificabile – quell’Eye Pyramid che rimanda a una simbologia ben specifica -, queste cose interessanti tornano ad essere attuali e, nel silenzio assordante, reclamano attenzione.

Il 15 settembre 2022, presso il Tribunale di Perugia, si è tenuta la deposizione di Roberto Di Legami, che nel 2016 – anno in cui i fratelli Occhionero da perfetti signor nessuno diventano soggetti degni dell’attenzione dei nostri inquirenti – era direttore del servizio di Polizia postale e telecomunicazioni di Roma.

La sua è una deposizione importante sia per il ruolo ricoperto all’epoca e svolto nella vicenda, sia per quanto riferito e ricostruito a distanza di cinque anni dai fatti. E appare singolare che nessuno, fin ora, se ne sia accorto.

Una regìa dietro i cyber attacchi

Era il 2016 quando Di Legami – con alle spalle una lunga esperienza di lotta alla mafia in Sicilia e, in generale, alla grande criminalità organizzata - venne informato da Ivano Gabrielli, allora direttore del Cnaipic, del caso Occhionero: un malware aveva colpito un’infrastruttura critica italiana, l’Enav. È infatti proprio l’Enav ad aver informato il centro anticrimine per la tutela delle infrastrutture vicine allo Stato in virtù di una convenzione in atto. Ad accompagnare la denuncia sporta da Enav c’è una prima relazione di malware analysis dove si inizia a comporre un piccolo puzzle: l’attacco subito dall’Ente nazionale per l’assistenza al volo è molto simile a quello subito da Eni solamente due anni prima. Insomma, dietro questi attacchi potrebbe esserci una regìa comune.

Di Legami, al vertice di una struttura complessa e in quel periodo in fase di profonda rinnovazione, viene interpellato e tenuto al corrente delle fasi più delicate delle indagini, che procedono senza il suo diretto coinvolgimento. C’è però un momento in cui – per usare le sue stesse parole – entra “a gambe tese nella vicenda”: “È nel momento in cui fui informato che l’Occhionero [Giulio, ndr] aveva fatto parte anche con cariche importanti della massoneria”.

Il livello superiore

Il perché Di Legami fosse tanto sensibile al tema lo spiega subito dopo di fronte alla giudice Sonia Grassi e alla pm Gemma Miliani e nelle sue parole emerge uno spaccato che caratterizza la storia d’Italia almeno da sessant’anni: “Io purtroppo nel corso della mia attività lavorativa ho avuto la sfortuna di imbattermi in indagini di questo tipo, che ho portato a casa anche con discreto successo, ma ricordo che non è una cosa piacevole per l’investigatore, perché lei può immaginare in questo Paese [...] quale vespaio si solleva”.

Roberto Di Legami ricorda in aula quello che disse a Ivano Gabrielli una volta venuto a conoscenza del possibile coinvolgimento della massoneria: “[...] Glielo ribadii davanti a testimoni decine di volte [...] a me non interessa se sono solo i fratelli Occhionero, quanti dati hanno esfiltrato [...]. Una cosa io tengo, che essendo questo soggetto massone mi raccomando che l’indagine finirà quando noi abbiamo raggiunto il più alto livello, non parlo della massoneria, parlo in generale dei soggetti che stanno sopra questi due fratelli, perché senza nulla volere togliere alla competenza tecnica, giuridica anche e anche, devo dire, un certo livello di cultura dei soggetti, non credo che questa attività sia fatta in proprio”.

Frasi che – dette da un investigatore esperto – suonano inquietanti. E sempre riferendo le sue parole all’epoca, Di Legami condivide con il collega i suoi timori che, come vedremo, si riveleranno fondati: “Dobbiamo raggiungere il tetto, perché una cosa non sopporterei, che mi si venisse a dire, essendoci massoni nel mezzo, che ci siamo fermati [...] o che siamo stati così idioti da non riuscire a capire per chi lavorano [...]”.

Servizi segreti e massoneria

Quel per chi lavorano era – ed è – in effetti uno dei leit-motive di questa storia. Ancora oggi sono in molti a non credere che l’attività messa in piedi - secondo l'accusa - da Giulio e Francesca Maria Occhionero fosse inserita in un contesto a conduzione familiare. Troppe tracce portano fuori dall’Italia, negli Stati Uniti, troppi rapporti trasversali di altissimo livello, insomma, un contesto troppo ampio per due singole persone. Negli anni si è parlato di un coinvolgimento dietro le loro attività della Cia – anche se una nostra fonte sostiene con forza che sia palese lo zampino nell’Nsa -, adesso, con le parole di Roberto Di Legami, lo spettro si allarga ulteriormente e lambisce la massoneria.

Un'accelerazione improvvisa

Ad ogni modo, come appunto temuto dall’investigatore, le cose non vanno come previsto e il tutto – almeno fin ora [i fratelli Occhionero sono in attesa del processo d’Appello, ndr] - viene limitato alla loro attività. Nonostante Di Legami si sia messo personalmente in contatto con l’Fbi, attraverso l’agente di stanza a Roma Kieran Ramsey (i server degli Occhionero erano infatti dislocati in territorio americano, ndr), accade qualcosa di inaspettato: nonostante i suoi consigli di non fermarsi all’individuazione dei fratelli Occhionero, ma di risalire a chi fosse nascosto dietro la loro attività massiva di dossieraggio, tra il 2 e il 4 gennaio 2017 “c’è un’accelerazione improvvisa, proprio nei due giorni in cui vado in ferie [...]. Il 4 [gennaio, ndr] vengo informato che il magistrato [Eugenio Albamonte, ndr] ha emesso l’ordinanza di custodia [...] sono rimasto un po’ spiazzato, perché non mi aspettavo questa cosa”.

Dopodiché, con velocità record dettata dall’esigenza di fermare Giulio Occhionero che, nel frattempo e con un tempismo incredibile, aveva iniziato a cancellare materiale compromettente dai propri computer, quasi fosse a conoscenza di quanto stava per avvenire, il 9 mattina scattano gli arresti. Il 10 gennaio la storia diventa pubblica. Ma Di Legami non ha tempo di rammaricarsi per un’operazione andata diversamente da come immaginava:

“Il 9 mattina eseguiamo queste due ordinanze, il 10 il fatto viene pubblicizzato, il 10 sera il all’epoca capo della polizia Gabrielli [Franco, ndr], senza ritenere di dovermelo dire a quattr’occhi, mi rimuove dall’incarico perché ufficialmente non avrei avvisato la scala gerarchica che questo fatto [l’arresto dei fratelli Occhionero, ndr] andava a compimento [...]. Forse non ero l’uomo giusto in quel particolare momento, in quella determinata struttura”.

Scontro tra inquirenti

Una ferita ancora aperta per Roberto Di Legami, una situazione che, sempre per usare le sue parole, “ha diversi tratti di opacità”. Una storia che può essere interpretata sotto un duplice aspetto: uno scontro tutto interno alle istituzioni, in questo caso alla Polizia, o una storia determinata dalla natura delle indagini, dalla pervicacia dell’investigatore nel voler andare a fondo, nel voler arrivare “al tetto”.

Ancora oggi l’ex direttore della Polizia postale non ha dubbi: “Nessuno riuscirà a convincermi che dietro di loro (gli Occhionero, ndr) non c’è nessuno. E siccome in Italia le cose sono [...] così oscenamente semplici [...] nel 2022 è offensivo pensare che non si riesca a capire”.

Sulla defenestrazione di Di Legami ci sarebbe molto da dire. Lui stesso, nel corso dell’udienza, rispondendo alle domande dell’avvocato dei fratelli Occhionero, Stefano Parretta, ha sottolineato l’incoerenza delle ragioni che hanno portato al suo trasferimento “[...] è strano – ha affermato – [...] che la magistratura non si sia accorta che lì si chiedeva apertamente di violare il segreto istruttorio. Purtroppo in base a chi dice le cose in questo Paese si reagisce oppure no”.

Ipotesi da brivido

In conclusione, una cosa sola è certa: il bandolo della matassa di questa storia è ben lungi dall’essere sbrogliato. È vero, i tasselli ci sono. Sono tanti, ma non tutti. L’ombra degli Usa è ingombrante, ma rischia di distogliere l’attenzione. Quella della massoneria anche. E come una nostra fonte ci ha fatto notare: “Credete davvero che i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di un’operazione di così vasta portata?”.

Giusta osservazione, che impone due riflessioni: se i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di quanto da circa dieci anni avveniva dietro gli schermi di migliaia di computer infettati dal malware Eye Pyramid, allora ci dovremmo preoccupare. Se i nostri servizi segreti ne fossero a conoscenza, allora ci dovremmo preoccupare.

Lo strano caso della mente della Piramide: perché non si presenta al processo? Mentre a Perugia si svolge un singolare processo a carico del tecnico Federico Ramondino, che per primo ha messo gli inquirenti sulle tracce dei fratelli Occhionero, il protagonista di questa vicenda, Giulio Occhionero, parte civile e motore dell'inchiesta perugina, non si presenta in aula per tre volte e resta ad Abu Dhabi. Manuele Avilloni e Gianluca Zanella il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ci sono storie che si prestano a diversi piani di lettura. Storie che alimentano teorie complottistiche a causa dei soggetti coinvolti. Storie che per un certo lasso di tempo sembrano imporsi all’attenzione pubblica per poi scomparire dai radar, quasi non fossero mai esistite. La vicenda che ha visto protagonisti Giulio e Francesca Maria Occhionero è una di queste.

Quando nel 2017 il loro nome venne alla ribalta, sembrò aprirsi uno scenario degno di un romanzo noir. Lui ingegnere nucleare, lei laureata in chimica e con doppia cittadinanza, italiana e statunitense. Improvvisamente finirono al centro di un intrigo internazionale. Un’inchiesta condotta dalla magistratura romana, infatti, ricondusse a Giulio Occhionero la paternità di un malware denominato Eye Pyramid che, nell’arco di un decennio, aveva infettato un numero gigantesco di computer esfiltrando una mole di dati difficilmente quantificabile. Tra i soggetti hackerati, molti professionisti di diversi settori – dall’imprenditoria edile, all’avvocatura, passando per alti prelati e docenti universitari – ma, soprattutto, uomini e donne inseriti in contesti altamente a rischio per il Sistema Paese: dipendenti ministeriali, dipendenti di Eni, Enav, del Porto di Taranto, di Allianz Bank, di Finmeccanica.

Ma se l’inchiesta – sfociata in due condanne di primo grado da cinque anni per Giulio e quattro anni per Francesca Maria – ha certificato la paternità del virus informatico e la portata dell’operazione di hacking, lambendo il vasto panorama di aziende riconducibili ai due fratelli, una domanda, la principale, è rimasta inevasa: che fine hanno fatto tutti i dati esfiltrati?

Giova ricordare che i server degli Occhionero si trovavano negli Stati Uniti e furono sequestrati dall’Fbi, che per un certo periodo ha collaborato all’inchiesta della Procura di Roma. Ma da quel momento, di questo enorme patrimonio informativo non si è più saputo nulla. Allo stesso modo, quella che possiamo indicare come la più grande e longeva operazione di cyberspionaggio conosciuta in Italia, è scivolata ai margini delle cronache, fino a scomparire del tutto. Almeno fino ad oggi.

Un processo in sordina

ilGiornale.it torna ad occuparsi della vicenda e lo fa affidandosi alle carte e alle testimonianze dei protagonisti, con uno sguardo inevitabilmente più allargato di quanto non potessero avere i colleghi nel 2017, anno in cui la vicenda ha avuto ampia ma brevissima eco.

Nello specifico, quello che stiamo facendo è seguire il processo iniziato nel 2022 che si sta svolgendo a Perugia nella sostanziale indifferenza mediatica. Un processo che presenta alcune peculiarità che meritano di essere analizzate. Intanto, perché Perugia? E chi siede sul banco degli imputati se i fratelli Occhionero stanno aspettando il processo di Appello a Roma? Lo spin-off di questa storia comincia nel 2018.

Giulio e Francesca Maria Occhionero, una volta usciti dal carcere, iniziano a professare la propria innocenza ovunque venga loro dato spazio. Interviste su giornali, alcune televisioni, post sui social network. Passa il messaggio – accolto a volte tiepidamente, altre volte con più entusiasmo a seconda del giornalista di turno – che i due siano rimasti incastrati in un ingranaggio diabolico, un complotto internazionale che si lega al cosiddetto Russiagate, lo scandalo che proprio in quel periodo investiva il neo-presidente degli Usa Donald Trump, sospettato di essere legato all’intelligence russa.

Vicini ad ambienti repubblicani d’oltreoceano, i fratelli Occhionero lamentarono una presunta persecuzione ai loro danni e denunciarono di alcuni abusi il magistrato che stava indagando su di loro – Eugenio Albamonte -, l’allora direttore del Cnaipic Ivano Gabrielli, e il tecnico di una società di cybersecurity cui la procura e il Cnaipic si erano rivolti per fare luce sulla natura del malware Eye Pyramid, Federico Ramondino, direttore della Mentat Solutions Srl.

Essendo dunque coinvolto un magistrato della Procura di Roma, per competenza la palla è passata ai magistrati della Procura di Perugia. A partire dal settembre 2022, di fronte al giudice Sonia Grassi e all’accusa, rappresentata dalla pm Gemma Miliani (nome divenuto poi noto a seguito della vicenda che ha visto coinvolto Luca Palamara, ndr), con i fratelli Occhionero in veste di parte civile, sono sfilati coloro che hanno avuto il merito di neutralizzare il malware Eye Pyramid.

La solitudine dell'hacker

Peccato che sin da subito – e qui sta la prima peculiarità di questo processo – l’unico a doversi difendere sia rimasto il soggetto più “debole” di questa vicenda: Federico Ramondino. Il tecnico Mentat è rimasto a sua volta incastrato in un ingranaggio più grande di lui. Nonostante gli incarichi ufficiali e riscontrabili conferiti negli anni da enti come Eni ed Enav, nonché da parte della Procura di Roma e del Cnaipic, Ramondino deve oggi difendersi da una serie di accuse molto pesanti, che passano da accesso abusivo a sistema informatico, alla detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici. Insomma, nonostante le molte – e illustri – testimonianze in suo favore, l’impressione che abbiamo tratto dal seguire questo processo è che Ramondino sia stato sostanzialmente scaricato e, tra le altre cose, non si capisce bene il motivo per cui – nonostante le richieste del suo legale di spostare il processo a Roma, visto che il dottor Albamonte è stato prosciolto in udienza preliminare perché il fatto non sussiste – tutto stia ancora avvenendo a Perugia.

A destare ancora più confusione è anche il dietrofront dell’agente dell’Fbi Kieran Ramsey, agente speciale di stanza a Roma che ha collaborato alle indagini del Cnaipic. Scartando una possibile testimonianza in aula, l’Fbi ha infatti lasciato che il caso venisse discusso senza il loro contributo.

Il grande assente

Ma le peculiarità di questo processo non terminano certo qui. L’aspetto senz’altro più curioso il comportamento di Giulio Occhionero. A differenza di sua sorella, che l’11 novembre 2022 si è presentata a testimoniare e ha risposto alle domande del giudice e della pm, Giulio Occhionero non si è mai presentato in aula, nonostante sia, insieme alla sorella, parte civile e nonostante tutta la vicenda abbia preso avvio da una sua denuncia.

Le occasioni perse – con l’udienza del 19 luglio 2023 – sono ormai tre. E con buona probabilità diventeranno quattro con l’udienza fissata il 22 novembre 2023.

Ma per quale motivo Giulio Occhionero non si presenta a Perugia? Secondo un’istanza presentata dai suoi legali – Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari – l’ingegner Occhionero sarebbe impedito da questioni lavorative. Per questo, hanno chiesto per il loro assistito la possibilità di essere audito da remoto, come consente la riforma Cartabia.

Dopo la scarcerazione, infatti, Giulio Occhionero ha deciso di rifarsi una vita nella calda Abu Dhabi, dove ricopre il ruolo di analista per una banca araba. Scopriremo nella prossima puntata di questa inchiesta che il suo attuale luogo di residenza rientra in una curiosa coincidenza che riteniamo degna di approfondimento. Ma torniamo all’udienza del 19 luglio scorso.

In questa occasione, il giudice Sonia Grassi ha cassato l’istanza degli avvocati di parte civile sostenendo che i motivi di lavoro non legittimano l’assenza dell’ingegner Occhionero, aggiungendo che esistono mezzi di trasporto adeguati per rientrare in Italia e presentarsi in aula a Perugia. A questo, il giudice ha anche evidenziato la difficoltà oggettiva dell’audire in un contesto adeguato – che garantisca la genuinità della testimonianza – Giulio Occhionero, in quanto si tratta di una questione che lei stessa ha definito “delicata”.

Il regalo di Natale

Non dello stesso avviso sembra essere la pm Miliani, la quale si è definita “in astratto favorevole” all’audizione a distanza della parte civile. Ad ogni modo, l’audizione – stando alla decisione del giudice Grassi, che ha condiviso in pieno le osservazioni della difesa di Ramondino – deve avvenire in presenza e questo dovrebbe accadere non il 22 novembre, quando sarà ascoltato il consulente tecnico d’ufficio, ingegner Giovanni Nazzaro, ma il 20 dicembre quando – come auspicato dal giudice – Giulio Occhionero rientrerà in Italia per le feste comandante.

“Ci fanno il regalo di Natale”, ha commentato con una punta di ironia il legale di Federico Ramondino, l'avvocato Mario Bernardo. Ma ironia a parte, ci ricolleghiamo alle considerazioni del giudice Grassi e, a nostra volta, ci domandiamo per quale motivo Giulio Occhionero sia così apparentemente poco interessato a un processo che ha contribuito in modo determinante a far iniziare.

Non è lui, infatti, quello che più di tutti vuole fare luce su questa vicenda, come fortemente sostenuto di fronte ai microfoni di Antonello Nicosia, conduttore del programma Mezz’ora d’aria in onda su Aracne tv, oggi condannato in primo grado a 15 anni di carcere per associazione mafiosa?

Cercheremo di chiederlo direttamente a lui, altrimenti attenderemo il 20 dicembre, sperando che stavolta Giulio Occhionero si presenti.

Il Caso Artem Uss.

Estratto dell’articolo di Massimo Pisa per repubblica.it martedì 5 dicembre 2023.

Erano in cinque, su quattro auto diverse. E si muovevano in colonna, come un convoglio militare o di intelligence. Rapidi, precisi, coordinati, dai sopralluoghi intorno a Borgo Vione al passaggio tra il confine di Gorizia e la Slovenia. E da lì Serbia, Ungheria, a nord verso la Bielorussia e infine direzione Mosca. 

È stato completamente identificato il commando che il 22 marzo scorso esfiltrò Artem Aleksandrovich Uss, il 41enne imprenditore russo accusato dagli Stati Uniti di contrabbando di petrolio dal Venezuela e di spionaggio industriale e militare verso la Russia, dai suoi arresti domiciliari in una cascina ristrutturata di Basiglio.

Sono tutti ormai da tempo all’estero. Soprattutto il figlio dell’oligarca siberiano Alexander: proprio il giorno prima della beffa il Tribunale di Milano aveva dato il via libera all’estradizione verso New York, da dove erano partite diverse segnalazioni sul pericolo di fuga. Ed è il dipartimento di Stato Usa che ora ha messo una taglia sino a 7 milioni di dollari per chi fornirà informazioni utili all'arresto e/o alla condanna di Uss. 

Il gip Anna Magelli ha firmato sei ordinanze di custodia cautelare: oltre a Uss, accusato di evasione, il provvedimento colpisce Vladimir e Boris Jovancic – il padre bosniaco 52enne, il figlio 25enne nato a Negrar nel veronese, e ancora lo sloveno 39enne Matej Janezic e i serbi Srdjan Lolic (52 anni) e Nebojsa Ilic (47) – tutti accusati di procurata evasione. Rigettata la richiesta del pm Giovanni Tarzia per una sesta presunta complice, una 35enne albanese custode e titolare del contratto di assicurazione di una delle auto del convoglio. […]

Uno dei ricercati, come riferisce il Washington Post, sarebbe già stato arrestato in Croazia. Si tratta di Vladimir Jovancic, come confermato a Repubblica da fonti qualificate. 

Per identificare il quintetto, i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano – guidati dai colonnelli Antonio Coppola e Fabio Rufino – hanno setacciato contatarghe e telecamere comunali per mesi. Fino a isolare le sequenze utili. 

Quelle dei cinque sopralluoghi eseguiti, tra il 16 febbraio e il 12 marzo e sempre in compagnia, da Vladimir Jovancic, il responsabile dell’operazione di sottrazione di Uss alla giustizia. E quella del pranzo del 22 marzo 2023 ai tavolini all’esterno della Trattoria Peppone di Lacchiarella, l’ultimo briefing prima del prelievo del fuggitivo, liberato con un jammer dalla cavigliera elettronica che ne doveva segnalare la posizione [...]

L’allarme scattò qualche minuto dopo le 14 quando il convoglio era già in fuga verso l’autostrada A4. In testa la Fiat Bravo con a bordo gli Jovancic ed era stato papà Vladimir a prelevare Uss e a portarlo via sotto braccio alle 13.43, lasciando però una traccia fondamentale: una busta della Conad di Lacchiarella, lì dove aveva fatto la spesa (ripreso dagli occhi elettronici) per i viveri necessari dopo aver completato il pranzo alla Trattoria Peppone. Dietro la Bravo, a fare da staffette, una Volvo V60, una Volvo S80 con targa slovena e un’Audi A8 concessa in leasing da un hotel belgradese del quale Lolic è direttore commerciale. 

La carovana si era divisa alle 17.30 a Desenzano del Garda, dove si sganciava proprio la Bravo guidata da Boris Jovancic, così come ricostruito dai carabinieri da una certosina analisi dei passaggi delle auto sotto le telecamere pubbliche e dei loro tabulati telefonici. Uss, già trasbordato, proseguirà la sua corsa fino a valico dell’A34 verso San Pietro.

(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023) - Nell'evasione e nella fuga di Artem Uss, l'imprenditore russo sparito il 22 marzo scorso da Basiglio (Milano) quando era ai domiciliari e dopo che i giudici milanesi avevano dato il via libera all'estradizione negli Usa, c'è il "potenziale coinvolgimento di altre persone", oltre alle cinque destinatarie ieri di ordinanza cautelare, "alcune delle quali individuate, altre no", ma "non abbiamo evidenza allo stato" del coinvolgimento di servizi segreti russi. Lo ha spiegato il procuratore di Milano Marcello Viola in conferenza stampa in relazione all'operazione che ha portato per ora a due arresti eseguiti tra Brescia e la Croazia. 

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 dicembre 2023.

Il direttore commerciale dell’Hotel Putnik di Belgrado, Srdan Lolic, e il suo autista Nebojsa Ilic, poi lo sloveno Matej Janezic, e — come loro appoggio in Italia — padre e figlio bosniaci ma radicati a Desenzano del Garda, dove il figlio Boris Jovancic lavora in una ditta di patatine e il padre Vladimir commercia vestiti, affittando una Fiat Bravo dalla titolare albanese di una piadineria di Soiano del Lago (Brescia), Emirada Ibo: è questa la mezza dozzina di manovalanza spicciola che ha aiutato a scappare in Russia (via Gorizia, Slovenia e Serbia) Artem Uss, l’uomo d’affari evaso il 2 marzo 2023 dagli arresti domiciliari con braccialetto elettronico a Basiglio (Milano) mentre era in attesa dell’estradizione chiesta dagli Usa (che ora hanno messo una taglia da 7 milioni) dopo l’arresto il 17 ottobre 2022 a Malpensa per frodi finanziarie nel commercio di materiale a uso duale civile-bellico.

Evasione che ha poco di cinematografico nella faticosa ricostruzione della Procura: perché la pur scenografica scena delle ore di vigilia (e cioè il convergere sul piazzale del centro commerciale Conad a Lacchiarella di un corteo di 4 vetture all’appuntamento con la Fiat dei due bosniaci «italiani»), scivola subito in commedia, con il commando che, un paio d’ore prima di dare il fuggitivo passaggio a Uss, carbura con una mangiata alla trattoria «Peppone» a pochi minuti da casa sua a Basiglio. 

Il puzzle del pm Giovanni Tarzia è pressoché completo dopo che con i carabinieri — nonostante le bizze di 38 falsi allarmi del braccialetto — ha incrociato i volti (ripresi dalle telecamere a Lacchiarella e Basiglio) e le utenze telefoniche che si coagulavano in quei momenti così come in precedenti 5 sopralluoghi a Basiglio.

[…] ieri erano stati fermati solo 2 dei 5 ricercati: a Desenzano il figlio Jovanovic, alla frontiera con la Croazia il padre che risulterebbe avere avuto (prima della fuga) un incontro con la moglie di Uss in un hotel milanese, e (dopo la fuga) 40.000 euro da Uss. 

In serata mancavano all’appello i tre slavi per i quali la gip Anna Magelli aveva pure firmato l’arresto per «procurata evasione» aggravata dalla transnazionalità: misura cautelare estesa anche al fuggitivo Uss, e non invece all’albanese di cui per il gip non era certa la consapevolezza dell’uso della Fiat che stava affittando. [...] 

Dagospia mercoledì 6 dicembre 2023. MA QUANTO CI VUOLE AI MAGISTRATI ITALIANI PER DIRE CHE SONO STATI I RUSSI A FAR SCAPPARE ARTEM USS DA MILANO? – IL PM CHE PORTA AVANTI L'INCHIESTA SUI CINQUE SLAVI RESPONSABILI DELL'EVASIONE DELL'IMPRENDITORE RUSSO, FA SAPERE DI NON AVERE “EVIDENZA” DELL'INTERVENTO DEI SERVIZI SEGRETI DI MOSCA – ALLO STESSO TEMPO, SCRIVE CHE È "PRESSOCHÉ CERTO CHE VI SIA STATO L'INTERVENTO DI ALTRI SOGGETTI CHE HANNO MEDIATO. E' DEL TUTTO PLAUSIBILE CHE IL GRUPPO SIA STATO BEN REMUNERATO PER LA COMMISSIONE DEL REATO” – E CHI LI AVREBBE PAGATI PER TIRARE FUORI UN CITTADINO RUSSO DESTINATO A ESSERE ESTRADATO NEGLI STATI UNITI?

(ANSA mercoledì 6 dicembre 2023) - E' "pressoché certo che vi sia stato, nell'organizzazione dell'evasione, l'intervento di altri soggetti che hanno mediato, ovvero hanno identificato, incaricato e messo in contatto il gruppo 'esecutivo' con l'evaso". Al momento, però, "non sono ancora stati identificati i soggetti che hanno messo in contatto Uss Artem con gli Jovancic e i loro sodali, ovvero i soggetti che hanno organizzato l'evasione". 

Lo scrive il pm di Milano Giovanni Tarzia nella richiesta di custodia cautelare in carcere che, nelle indagini coordinate anche dal procuratore Marcello Viola e condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo milanese, ha portato all'ordinanza a carico, oltre che dell'imprenditore russo evaso dai domiciliari il 22 marzo, di cinque presunti complici (due arrestati finora) che l'avrebbero aiutato materialmente nel piano di fuga.

E' del tutto "plausibile", scrive la Procura, "che il gruppo sia stato ben remunerato per la commissione del reato, non risultando alcun pregresso rapporto con l'evaso", ossia con Uss, "che possa far ritenere sussistente una ragione, diversa da quella economica, che possa aver indotto gli indagati a commettere ili reato". 

Uss e i presunti complici, inoltre, stando alle indagini, godono di "appoggi in Stati esteri quali la Croazia, la Slovenia, la Germania, la Bosnia Erzegovina, la Serbia e la Repubblica federale Russa". Dall'analisi dei tabulati del telefono di Uss "durante la detenzione" non è emerso "alcun contatto con nessuna delle utenze in uso a coloro che hanno materialmente effettuato l'esfiltrazione" e, dunque, l'operazione sarebbe stata organizzata da altri che hanno, poi, ingaggiato i cinque, alcuni con precedenti penali.

Artem Uss, ecco come è evaso prima dell'estradizione negli Usa. Individuati i complici: due arresti, tre sono ricercati. Luigi Ferrarella martedì 5 dicembre 2023.

L'uomo d'affari russo fuggito da Basiglio (Milano) dove era agli arresti domiciliari. Fermati due dei cinque uomini del commando: sono Vladimir e Boris Jovancic, padre e figlio bosniaci ma radicati a Desenzano del Garda

Il direttore commerciale dell’Hotel Putnik di Belgrado, Srdan Lolic, e il suo autista Nebojsa Ilic, poi lo sloveno Matej Janezic, e — come loro appoggio in Italia — padre e figlio bosniaci ma radicati a Desenzano del Garda, dove il figlio Boris Jovancic lavora in una ditta di patatine e il padre Vladimir commercia vestiti, affittando una Fiat Bravo dalla titolare albanese di una piadineria di Soiano del Lago (Brescia), Emirada Ibo: è questa la mezza dozzina di manovalanza spicciola che ha aiutato a scappare in Russia (via Gorizia, Slovenia e Serbia) Artem Uss, l’uomo d’affari evaso il 2 marzo 2023 dagli arresti domiciliari con braccialetto elettronico a Basiglio (Milano) mentre era in attesa dell’estradizione chiesta dagli Usa (che ora hanno messo una taglia da 7 milioni) dopo l’arresto il 17 ottobre 2022 a Malpensa per frodi finanziarie nel commercio di materiale a uso duale civile-bellico. 

Evasione che ha poco di cinematografico nella faticosa ricostruzione della Procura: perché la pur scenografica scena delle ore di vigilia (e cioè il convergere sul piazzale del centro commerciale Conad a Lacchiarella di un corteo di 4 vetture all’appuntamento con la Fiat dei due bosniaci «italiani»), scivola subito in commedia, con il commando che, un paio d’ore prima di dare il fuggitivo passaggio a Uss, carbura con una mangiata alla trattoria «Peppone» a pochi minuti da casa sua a Basiglio. Il puzzle del pm Giovanni Tarzia è pressoché completo dopo che con i carabinieri — nonostante le bizze di 38 falsi allarmi del braccialetto — ha incrociato i volti (ripresi dalle telecamere a Lacchiarella e Basiglio) e le utenze telefoniche che si coagulavano in quei momenti così come in precedenti 5 sopralluoghi a Basiglio.

Peccato solo che, a causa della difficile convivenza e forse anche dei non perfettamente coincidenti interessi delle varie agenzie investigative coinvolte in Italia e all’estero, un disallineamento nella tempistica del programmato giubilo comunicativo abbia messo in circolazione la notizia quando ieri erano stati fermati solo 2 dei 5 ricercati: a Desenzano il figlio Jovancic, alla frontiera con la Croazia il padre che risulterebbe avere avuto (prima della fuga) un incontro con la moglie di Uss in un hotel milanese, e (dopo la fuga) 40.000 euro da Uss. In serata mancavano all’appello i tre slavi per i quali la gip Anna Magelli aveva pure firmato l’arresto per «procurata evasione» aggravata dalla transnazionalità: misura cautelare estesa anche al fuggitivo Uss, e non invece all’albanese di cui per il gip non era certa la consapevolezza dell’uso della Fiat che stava affittando. Su chi fornì l’altra principale fra le auto usate, una Volvo, c’è invece certezza perché proprio Janezic, intercettato il 24 aprile scorso, l’ha buffamente «confessato» nel vantarsi di conoscere bene le regole antinquinamento in città: «Io sono stato a Milano con la Volvo!».

Artem Uss, identificati i complici nell’evasione dell’imprenditore russo: gli Stati Uniti mettono una taglia da 7 milioni. Lo scorso marzo l’imprenditore russo Artem Uss era evaso dai domiciliari nel Milanese ed era sparito dalla circolazione per poi spuntare fuori in Russia. Luca Sebastiani su Il Riformista il 5 Dicembre 2023

Artem Uss è stato aiutato da cinque complici a uscire dall’Italia lo scorso marzo. Sono stati infatti identificati i responsabili materiale dell’evasione dell’imprenditore russo, finito ai domiciliari nel Milanese per l’accusa di contrabbando di petrolio e di spionaggio industriale.

Il commando dei complici identificati

I carabinieri di Milano con Eurojust e le autorità americane hanno eseguito in provincia di Brescia e all’estero (tra Slovenia e Croazia) un’ordinanza di custodia cautelare in carcere proprio per il 41enne Artem Uss e per altre cinque persone. I reati contestati dalla procura di Milano sono evasione e procurata evasione. Uno dei complici è già stato arrestato in Croazia, secondo quanto riportato dal Washington Post.

Il suo nome è Vladimir Jovancic, 52enne bosniaco, mentre gli altri sono il figlio 25enne di Jovancic Boris, che è nato in Italia, Matteo Janezic, 39enne sloveno, i serbi Srdjan Lolic, 52 anni, e Nebojsa Ilic, di 47 anni.

Secondo il Washington Post, che cita autorità americane, Jovancic ha iniziato a fingere di consegnare la spesa a Uss nella sua casa di Basiglio, nel Milanese. In quei frangenti hanno cominciato a progettare la fuga.

Il giorno dell’evasione, il bosniaco “ha scortato Uss in macchina e gli ha fornito delle tronchesi, con cui Uss ha rimosso il suo monitor elettronico dalla caviglia, gettandolo fuori dal finestrino” riporta il giornale statunitense. Repubblica parla di “quattro auto diverse” che “si muovevano in colonna, come un convoglio militare o di intelligence”.

Da Basiglio, Artem Uss è stato poi portato in Slovenia, poi il passaggio in Croazia, Bosnia-Erzegovina prima di entrare in Serbia. Da lì poi Uss ha raggiunto Bielorussia e poi Russia. Secondo la ricostruzione, per tutto il lavoro il solo Jovancic ha ricevuto una somma di circa 50mila euro.

Chi è Artem Uss, l’imprenditore russo scappato dai domiciliari

Artem Aleksandrovich Uss è un imprenditore russo, figlio del governatore di Krasmojarsk, Alexander Uss. Il padre è infatti uno stretto alleato del presidente Vladimir Putin. Non a caso, dopo la fuga di Artem, l’ex governatore ha ringraziato pubblicamente il capo del Cremlino.

Artem Uss è stato accusato di aver gestito un’organizzazione per violare le sanzioni alla Russia. È stato incriminato dalle autorità giudiziarie statunitensi per l’export illegale dagli Usa alla Federazione russa di tecnologie sensibili e apparecchiature informatiche per scopi militari. Tanto che alcune di queste attrezzature sono state ritrovate sui sistemi d’arma russi nel fronte in Ucraina. Inoltre, il 41enne avrebbe anche gestito un traffico illegale e un contrabbando di milioni di barili di petrolio dal Venezuela.

Dopo il mandato di cattura internazionale, Artem Uss era stato arrestato a Milano il 17 ottobre del 2022, prima di riuscire a tornare in Russia. Dopo cinque mesi ai domiciliari era arrivato il via libera per la sua estradizione dall’Italia, ma il giorno successivo l’imprenditore è sparito, scappando dalla sua abitazione.

Dopo qualche giorno, il 4 aprile era comparso in un video in cui ha annunciato il suo ritorno in patria. “Sono in Russia! In questi pochi giorni particolarmente drammatici, persone forti e affidabili mi sono state accanto. Le ringrazio” aveva affermato, accusando poi la magistratura italiana di “parzialità politica” e di essersi piegata “alle pressioni delle autorità statunitensi”.

La taglia annunciata dagli Stati Uniti

Intanto, il dipartimento di Stato Usa ha annunciato una taglia da 7 milioni di dollari per chiunque possa fornire informazioni riguardo Artem Uss che portino al suo arresto o alla cattura.

Nel comunicato, infatti, si sottolinea come la somma offerta sia legata a “informazioni che possano portare all’arresto e alla condanna per aver partecipato ad attività criminali organizzate transnazionali”. Luca Sebastiani

Estratto da La Verità domenica 9 luglio 2023.

Accogliendo il ricorso della difesa, rappresentata dagli avvocati Vinicio Nardo e Fabio De Matteis, i giudici della sesta sezione della Cassazione chiudono in modo quasi pilatesco il caso di Artem Uss, il figlio dell’ex governatore di una regione della Siberia che era evaso dalla sua abitazione di Basiglio, in provincia di Milano, il 22 marzo scorso dopo che la Corte d’Appello meneghina aveva dato il via libera alla sua estradizione negli Usa. 

Uss era stato bloccato il 17 ottobre 2022 a Malpensa su richiesta degli Stati Uniti, con l’accusa di presunti traffici illeciti di materiale civile e militare «dual use», ovvero un’attività in violazione delle sanzioni statunitensi, inclusa l’esportazione di tecnologie militari e sensibili (tecnologie trovate, secondo gli Usa, in armamenti russi usati sul fronte di guerra in Ucraina), ma anche di contrabbando di petrolio dal Venezuela verso Cina e Russia, riciclaggio e frode bancaria.

Nell’immediatezza dell’arresto i giudici avevano convalidato la custodia in carcere. La Procura generale di Milano aveva raccolto, tra fine ottobre e inizio novembre, elementi di preoccupazione sufficienti per chiedere che Uss rimanesse in carcere in attesa della decisione sulla sua estradizione Oltreoceano. Il pg Francesca Nanni e il sostituto Giulio Benedetti avevano infatti espresso parere negativo alla richiesta di concessione dei domiciliari presentata dalla difesa del cittadino russo. Invano. 

L’imprenditore è rimasto in cella a Busto Arsizio fino al 2 dicembre quando, in seguito a un provvedimento depositato il 25 novembre ma eseguito una settimana dopo, gli sono stati concessi i domiciliari con braccialetto elettronico in una casa presa in affitto a Basiglio, in attesa che terminassero i lavori di ristrutturazione dell’appartamento di lusso acquistato dalla moglie nello stesso comprensorio. Il 21 marzo è arrivato il via libera all’estradizione oltreoceano, ma il giorno dopo l’imprenditore è sparito per riapparire circa due settimane dopo in Russia, con tanto di intervista e ringraziamenti a tutte quelle persone «forti e affidabili» che gli erano «state vicine».

Una delle conseguenze di questa decisione è che se, in un’ipotesi improbabile, Uss dovesse tornare in Italia non verrebbe più arrestato. I giudici della Suprema corte avevano chiesto al ministero degli Esteri di indicargli se l’evaso era ancora sul territorio italiano e la risposta, dopo gli accertamenti dell’Interpol, è che risiede in Russia. 

A questo punto, la procedura per l’estradizione è caduta perché, recita il dispositivo, «perché la persona richiesta in estradizione non è più presente nel territorio dello Stato». 

La fuga di Uss aveva innescato una baruffa diplomatica con gli Usa e non poche frizioni tra la magistratura italiana e il Guardasigilli Carlo Nordio che aveva subito avviato un’azione disciplinare nei confronti dei giudici che avevano concesso i domiciliari. La Procura di Milano intanto sembra ancora non essere riuscita a venire a capo del meccanismo che ha permesso la fuga indisturbata di Uss.

Gli indagati per l’ipotesi di procurata evasione sono quattro. Come aveva svelato La Verità ad aprile, a «esfiltrare» Uss dalla Lombardia attraverso la Slovenia sarebbe stato un commando di malavitosi di origine balcanica, tre serbi e un serbo-bosniaco, da anni residente in Italia. La Procura di Milano ha anche inviato diverse rogatorie in Slovenia, Serbia, Croazia e Germania. 

Alle autorità tedesche, in particolare, i pm milanesi hanno chiesto informazioni su tale Yuri Orekhov, amico e socio di Uss, arrestato in Germania per traffico di materiale militare e civile, sempre su mandato degli Usa. E hanno richiesto documenti e informazioni anche sulla sua società. Ma le anomalie in questo caso non sono finite.

(…)

Artem Uss, disgelo tra Usa e Roma: «Nessuna prova sul ruolo dei servizi segreti russi». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023

In un’intervista al «Corriere» pubblicata il 30 aprile, una funzionaria del Dipartimento di Stato americano aveva parlato di «violazione della sovranità italiana» da parte di Mosca. Oggi la nuova dichiarazione

Da Washington giungono segnali distensivi sul caso di Artem Uss. L’intelligence statunitense sottolinea di aver fiducia nel lavoro dei servizi italiani.

Un alto funzionario dell’intelligence Usa dice al Corriere della Sera: «Anche se non possiamo escludere con completa certezza un qualche genere di coinvolgimento del governo russo, fino ad ora, non abbiamo visto alcuna indicazione che i servizi di intelligence russa abbiano esfiltrato Artem Uss dall’Italia». L’alto funzionario aggiunge: «Abbiamo piena fiducia nelle capacità dei nostri partner italiani contro i servizi di intelligence russi».

Questo messaggio all’Italia arriva dopo che un passaggio dell’intervista concessa da una funzionaria del dipartimento di Stato al Corriere del 28 aprile aveva destato sorpresa e irritazione a Roma. Si trattava delle prime dichiarazioni dopo la fuga del russo di cui gli Stati Uniti avevano chiesto l’estradizone con l’accusa di traffico di tecnologia e di petrolio in Russia e in Cina, ma che invece il 22 marzo, all’indomani del primo via libera della Corte d’appello di Milano, è evaso dai domiciliari e scappato dall’Italia.

La funzionaria del dipartimento di Stato aveva affermato che gli Stati Uniti, «molto delusi» per «l’incidente molto spiacevole», erano stati «rincuorati perché l’Italia ha fatto qualcosa: congelando i suoi beni, nominandolo per sanzioni Ue», ma — alla domanda se ciò fosse abbastanza — aveva aggiunto che «è una delle risposte e delle mosse da fare, ma alla fine dobbiamo fare un passo indietro e guardare alla situazione più ampia: questa è la Russia che viola palesemente la sovranità di un Paese». Parole in linea con i primi accertamenti italiani sulla fuga di Artem Uss, che sembravano indicare una operazione di «esfiltrazione» dei russi.

Le indagini in corso

Le indagini su come Artem Uss, figlio del governatore di una regione siberiana caro a Putin, sia fuggito dall’Italia, sono ancora in corso. La procura di Milano ha fatto richiesta di rogatoria a Germania, Serbia e Slovenia per sapere la riconducibilità di una serie di targhe di automobili e ricostruire il possibile coinvolgimento di 4-5 persone di origine slava nell’accompagnarlo.

Ma nel rapporto Usa-Italia ci sono priorità più significative, anche in attesa dell’incontro tra Giorgia Meloni e Joe Biden al G7 in Giappone e poi della visita della premier ipotizzata a Washington nella seconda metà di giugno. La priorità di Biden è di rinsaldare il rapporto con gli alleati — soprattutto europei — rispetto alla sfida strategica con la Cina, oltre a tenere compatto il fronte sull’Ucraina. La priorità di Meloni è di confermarsi come un alleato privilegiato degli Stati Uniti nella Ue.

La Cina e la Russia

L’Italia sembra intenzionata a non rinnovare l’accordo del 2019 di partecipazione al programma «Via della Seta» che è l’unico membro del G7 ad aver firmato e che i critici temono consenta alla Cina l’accesso a tecnologie sensibili e infrastrutture cruciali. Ora per Roma il punto non è solo «che cosa» fare, ma «come». Nonostante le indiscrezioni di Bloomberg, secondo cui la premier avrebbe rassicurato lo speaker repubblicano della Camera Usa Kevin McCarthy, in visita a Roma la scorsa settimana, sull’uscita dalla Via della Seta, il governo italiano sembra voler prendere tempo per discuterne con Pechino prima di una decisione formale che secondo diverse fonti non arriverà prima del G7. In quest’ottica, Artem Uss e altre cose rilevanti passano in secondo piano.

Ad una domanda sulla possibile preoccupazione americana per la nomina di Paolo Scaroni alla presidenza dell’Enel (ancora da ratificare) e gli atteggiamenti pro-russi di alcuni alleati di Meloni, la stessa funzionaria del dipartimento di Stato, a fine aprile, ribadiva che alla luce dell’appoggio «sia a parole che nei fatti» a Kiev, «l’Italia va vista come una delle “ancore” all’interno dell’Europa che cercano di fare la cosa giusta per l’Ucraina» e rifiutava di commentare su «dinamiche politiche interne che accadono in tutti i Paesi, che sia in Italia, in Germania, in Francia o anche nei nostri Stati Uniti».

Estratto dell’articolo di Viviana Mazza per “il Corriere della Sera” il 30 aprile 2023.

Sono le prime dichiarazioni alla stampa da parte statunitense sulla fuga di Artem Uss, il russo di cui gli Stati Uniti avevano chiesto l’estradizione, che invece è scappato dall’Italia all’indomani del primo via libera della Corte d’appello di Milano, con quella che dai primi accertamenti sembra essere una operazione di «esfiltrazione» dei russi. 

«Noi apprezziamo l’Italia come stretta alleata della Nato, del Quint (gruppo di dialogo tra Usa, Francia, Germania, Italia e Regno Unito. ndr ) e del G7. Anche se questo è stato un incidente molto spiacevole e siamo stati molto delusi per come si è svolto, siamo rincuorati dal fatto che l’Italia è andata avanti e c’è una indagine in corso», dice al Corriere della Sera una funzionaria del dipartimento di Stato.

«I nostri team dell’Fbi, della Giustizia e dell’IC (intelligence community, ndr ) sono in stretto contatto con le autorità italiane e siamo rincuorati perché l’Italia ha fatto qualcosa: congelando i suoi beni, nominandolo per sanzioni Ue». 

La funzionaria aggiunge però che il congelamento dei beni «è una delle risposte e delle mosse da fare, ma alla fine dobbiamo fare un passo indietro e guardare alla situazione più ampia: questa è la Russia che viola palesemente la sovranità di un Paese. Non voglio commentare troppo, visto che gli italiani stanno ancora indagando e, speriamo, valutando ogni strumento a disposizione in risposta a quanto accaduto».

Da parte del dipartimento di Stato «non appena è arrivata la notizia della fuga, c’è stato un coinvolgimento ad ogni livello con gli italiani. E questo coinvolgimento continua», sottolinea la funzionaria.  […] 

In Italia sono state diffuse voci secondo cui la frustrazione per il caso di Artem Uss potrebbe far rimandare o saltare la visita a Washington di Giorgia Meloni che era stata prevista «prima dell’estate» dal ministro Antonio Tajani. La funzionaria afferma che non c’è connessione tra il caso e il fatto che una data non sia stata ancora fissata nell’agenda del presidente Biden. 

«Non c’è ragione per pensare che la visita non ci sarà mai. Onestamente, è una cosa su cui sta lavorando la Casa Bianca e infatti abbiamo appena avuto un incontro con l’ambasciatrice Zappia un’ora e mezza fa, stiamo spingendo per un incontro». Il dipartimento di Stato sta lavorando anche per la visita di Tajani a Washington.

Fonti diplomatiche italiane dicono che dovrebbe vedere il segretario di Stato Antony Blinken «tra fine maggio e inizio giugno». Secondo fonti diplomatiche italiane la Casa Bianca è vicina all’ufficializzazione della nomina dell’ambasciatore in Italia, che sarebbe stato già individuato ed è una persona vicina a Biden. 

La funzionaria conferma la fiducia nella premier italiana per la sua posizione atlantista. «L’Italia è stata una forte sostenitrice dell’Ucraina. Ciò è dimostrato non solo dalla retorica di Meloni e del suo governo ma dalle loro azioni: il sostegno militare e umanitario, l’aiuto per tenere il punto a livello Ue sulla ricostruzione e le sanzioni, incluso il loro aggiramento. 

E l’Italia sta assorbendo un gran numero di rifugiati. Collettivamente l’Italia va vista come una delle “ancore” all’interno dell’Europa che cercano di fare la cosa giusta in Ucraina». E se emergono posizioni pro-russe tra alcuni alleati della premier, queste vengono lette come dinamiche interne «che sono presenti in ogni Paese, che sia l’Italia, la Germania, la Francia o gli stessi Stati Uniti».

Dalla conversazione emerge anche l’apprezzamento degli Stati Uniti per la «retorica della premier Meloni sul Partito comunista cinese». Sul «Memorandum d’intesa» con la Cina che l’Italia dovrà scegliere se rinnovare o meno, la funzionaria non commenta su una decisione «sovrana», ma cita un importante discorso fatto giovedì dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan sulla dottrina economica globale del governo Biden […]

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 21 aprile 2023.

Alla fine qualcuno ha pagato per l’evasione di Artom Uss: Vladimir Putin ha rimosso il padre Aleksander dalla carica di governatore di Krasnoyarsk, la regione della Siberia ricchissima di materie prime. Lo ha comunicato lui stesso sul suo canale Telegram: «Ho avuto un incontro con il presidente e ho ricevuto un’offerta per continuare a lavorare a livello federale».

Probabilmente Aleksander Uss paga i pubblici ringraziamenti rivolti al Cremlino per il ritorno in patria del figlio, interpretati come il riconoscimento del ruolo di Putin nella fuga dall’Italia: diversi esponenti nazionalisti lo hanno subito criticato per quell’omaggio maldestro. Ma non solo. Da tempo il governatore viene accusato di avere accumulato un tesoro grazie alla sua attività politica, che aveva reso il giovane Artem milionario attraverso allo sfruttamento di miniere di carbone e di foreste.

Inoltre gli elementi usati nella difesa legale davanti ai magistrati milanesi si sono trasformati in un boomerang: l’erede del governatore si stava trasferendo stabilmente in Italia, acquistando una casa di lusso e ammettendo di essere il titolare delle società cipriote impiegate per spostare i fondi. 

Un “tradimento” della causa russa proprio mentre tanti altri ragazzi vengono mobilitati e mandati a morire al fronte: davanti a questo argomento neppure il suo sponsor principale, il concittadino ministro della Difesa Sergej Shoigu, ha potuto fare nulla.

L’altro padrino politico della carriera di Uss senior, il boss della società petrolifera Rosneft ed ex colonnello del Kgb Igor Sechin, oggi ha visto ridursi l’influenza su Putin che manteneva da trent’anni. E il grande alleato economico, l’oligarca dell’alluminio Oleg Deripaska — citato negli atti d’accusa statunitense come il referente del contrabbando di petrolio gestito dal figliolo — da mesi è in rotta di collisione con il Cremlino. 

Alexander Uss cadrà comunque in piedi, con un incarico federale e forse la posizione di senatore: il suo silenzio è troppo prezioso. Come lo era quello del figlio […] La famiglia Uss […] da anni è protagonista delle relazioni commerciali con la Cina da cui adesso dipende la sopravvivenza del regime. Ma dietro la rimozione del governatore c’è anche il segnale di una manovra a vasto raggio che Putin sta architettando per insediare ai vertici del potere figure più giovani, meno corrotte e ancora più fedeli […] L’ennesima testimonianza di come il nuovo Zar si stia preparando a una campagna prolungata nel tempo, destinata a proseguire anche nel 2024.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2023. 

[…] nell’informativa del ministro della Giustizia alla Camera sul caso Artem Uss […] zero parole sul (non) ruolo dei servizi segreti, nemmeno nel controspionaggio di un russo al centro dei tanti allarmi americani che per Nordio «inondavano» gli atti.

Zero parole sul (non) sequestro — al momento dell’arresto a Malpensa — dei telefonini e pc del russo, benché nelle date dia asettico conto che il ministero dell’Interno avesse ricevuto dagli Usa, e comunicato alle polizie, l’interesse americano al sequestro: un sorvolo che esime così dal dire se sia vero o no che, quando gli Usa richiesero il sequestro con una rogatoria al ministero della Giustizia il 12 gennaio 2023, riflessi non proprio da ghepardo fecero sì che il ministero la inoltrasse alla Procura di Milano il 17 febbraio, e che la Procura la eseguisse il 13 marzo.

Tipografica è poi la cancellatura che il ministro fa di parte della controversa ordinanza della Corte d’Appello il 25 novembre 2022 di arresti domiciliari a Uss con braccialetto elettronico dopo 40 giorni di carcere, in modo da giustificare con quest’asserita totale assenza di motivazione la «grave e inescusabile negligenza» dei tre giudici, incolpati disciplinarmente per la prima volta per il contenuto di una sentenza, per di più collegiale.

Nordio infatti paragona il «motivatissimo, articolatissimo, fittissimo parere contrario della Procura generale» alle invece «cinque righe in cui la Corte diceva che questo signore ha una casa e una moglie, può usare il braccialetto ed essere scarcerato»: non legge però anche le venti righe soprastanti, nelle quali la certo scheletrica ordinanza della Corte elencava (giusto o errato che si ritenga il bilanciamento) i fatti che in base alle produzioni difensive risultavano discordanti rispetto alla prospettazione americana. 

E non è forse un caso che Nordio sull’azione disciplinare dica il poco e l’ovvio, e cioè che l’ha avviata ma che istruirla «spetta al procuratore generale della Cassazione», nel quale «solennemente» afferma di «riporre piena fiducia».

Su un altro tema (l’estradizione chiesta anche dai russi ma prima degli americani, e con il consenso di Uss), nuovo è il dettaglio di Nordio sulla nota del 22 novembre 2022 in cui «il Dag del ministero evidenziava al consigliere diplomatico del ministero che “sembrano esistere solide ragioni giuridiche, e non giuridiche, a sostegno dell’estradizione verso gli Usa”» anziché verso Mosca: scelta però o non adottata o non comunicata dal governo, se poi la Corte d’Appello ancora il 21 marzo 2023, nell’occuparsi dell’estradizione agli Usa per 2 accuse su 4 (ma non sul traffico d’armi), richiamerà la pendenza della richiesta russa per ricordare che su essa toccava al ministero esprimersi.

E se proprio Nordio ieri ironizza sulla beffarda rinuncia il 5 aprile di Mosca all’estradizione di Uss ormai evaso il 22 marzo e già in patria, ciò comporta che a quella data il governo non avesse comunicato a Mosca il rigetto, o anche magari il congelamento della richiesta a causa dello stop alla cooperazione giudiziaria dopo l’invasione dell’Ucraina.

 Estratto dell’articolo di Tommaso Ciriaco e Fabio Tonacci per repubblica.it il 21 aprile 2023.

Il Viminale sapeva che il russo Artem Uss era a rischio fuga, eppure non ha predisposto alcuna misura di vigilanza particolare per impedire che scappasse dai domiciliari. A rivelarlo, nella lingua formale e burocratica della informativa al Parlamento e senza mai nominare il collega di governo che di quel dicastero è titolare, è proprio il ministro Carlo Nordio. 

Che ieri, davanti a una Camera desolatamente semivuota, ha spiegato che tutte le informazioni arrivate dal Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti sulla pericolosità del detenuto e sull’alta possibilità che evadesse dall’appartamento di Basiglio sono state condivise, passo dopo passo, con la divisione Interpol del Viminale. […]

[…] Il punto che sta più a cuore al Guardasigilli è quello relativo al potere che ha di chiedere una misura coercitiva superiore ai domiciliari per i soggetti sottoposti a estradizione. Secondo i magistrati di Milano, ne ha facoltà, ma ha deciso di non fare niente. 

"Non è così", replica Nordio. "Il principio fondamentale è che il ministro della Giustizia non ha alcuna competenza, e men che mai oneri di controllo, sulla esecuzione di un provvedimento adottato da una Corte. Ho rispettato i dettami dell’articolo 716 del codice di procedura penale con la nota del 20 ottobre con la quale ho comunicato alla Corte d’Appello, al ministero dell’Interno divisione Interpol e al Maeci (Farnesina, ndr) la mia volontà di richiedere il mantenimento della misura cautelare in carcere di Uss".

Il convitato di pietra della sua narrazione è, di nuovo, il Viminale. E il suo titolare Matteo Piantedosi. Che al Copasir, alcuni giorni fa, ha riferito con una lettera che nessuno lo aveva allertato del pericolo di evasione di Uss. Interpellate da Repubblica, fonti ministeriali ribadiscono che "per quanto riguarda la competenza del Viminale, nessun alert è arrivato alle articolazioni centrali, né a quelle periferiche", dunque a prefettura e questura di Milano. 

Insomma, le note sono state ricevute dalla divisione Interpol, ma lì si sono fermate. E questo perché — è la tesi — è normale che rimangano a livello della divisione cooperazione-Interpol in quanto attinenti solo al procedimento di estradizione. Resta il fatto che Artem Uss non era sorvegliato. E quando ha saputo che sarebbe stato consegnato agli Usa, è scappato.

 Estratto dell’articolo di Davide Milosa per "il Fatto quotidiano” il 21 aprile 2023.

Il caso del braccialetto elettronico malfunzionante o meno apre ora un secondo filone d’indagine rispetto alla fuga dell’imprenditore russo Artem Uss. Sì, perché è di importanza rilevantissima capire il motivo delle decine di alert (ben più di 20) partiti durante gli oltre tre mesi di domiciliari che l’uomo d’affari di Mosca ha passato nella sua villa di lusso a Basiglio. All’orizzonte c’è una ipotesi di favoreggiamento che, va detto, al momento non è stata messa su carta e resta solamente teorica. […] 

Sul tavolo, dunque, il braccialetto elettronico il cui tracciamento è gestito dalla società Fastweb. Pochi giorni fa sono circolate notizie sulle decine di allarmi partiti dal dispositivo e arrivati alla centrale operativa dei carabinieri. Inizialmente […] gli investigatori hanno attribuito questi alert a una sorta di malfunzionamento del dispositivo privo del sistema Gps.

Ben diversa la versione di Fastweb, secondo la quale tutti quegli alert hanno rappresentato o un tentativo di manomissione o di tentata evasione. La società telefonica […] ha infatti spiegato che “non risulta alcun malfunzionamento […]. Gli allarmi […] indicherebbero, al contrario, la piena funzionalità del dispositivo  […]. Fastweb sottolinea che i propri tecnici al momento non hanno fornito alcuna informazione agli inquirenti in merito al funzionamento del braccialetto”. 

E se così fosse sarebbe un dato di rilevanza enorme. La Procura generale, infatti, dopo la concessione dei domiciliari del 25 novembre, non ha fatto ricorso in Cassazione per chiedere gli arresti proprio perché Uss non avrebbe violato la legge durante i domiciliari.

Versione motivata dal fatto che sul tavolo della Procura generale presso la Corte d’appello annotazioni sugli alert, casomai ci fossero, non sono mai arrivate. […] 

Ieri, lo stesso ministro Carlo Nordio […] ha fatto riferimento anche al braccialetto, spiegando che questi presunti alert arrivati prima di quello definitivo del 22 marzo (erano le 13,52), sono ora sotto indagine da parte del Viminale e del ministro Matteo Piantedosi. Dal 2 dicembre, data in cui Uss e stato scarcerato, i carabinieri sono passati nella sua villa due volte al giorno. E non – così pare di comprendere da versioni non ufficiali – per gli alert emessi dal braccialetto. Che […] potrebbero essere legati all’allontanamento dalla centralina all’interno del domicilio, un allontanamento, che pur se non “necessariamente un’evasione” può essere definito “un allontanamento superiore a quello programmato”. […] 

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 aprile 2023.

La Serbia è l’unico Paese europeo insieme alla Bielorussia a non aver aderito al programma di sanzioni contro la Russia. E proprio in Serbia il gruppo armato mercenario Wagner tenta di fare proselitismo. Di certo alcuni cittadini originari del Paese slavo hanno fatto parte del commando che il 22 marzo ha organizzato l’evasione della presunta spia russa Artem Uss, il quarantenne figlio di un governatore vicinissimo a Vladimir Putin. 

I nostri servizi segreti non avrebbero preso in carico il faccendiere russo, accusato a New York di contrabbando di petrolio (dal Venezuela a Cina e Russia) e di tecnologie militari (dagli Usa alla Russia) perché la Cia non ha inviato segnalazioni specifiche. A muoversi è stato l’Ufficio affari internazionali della divisione criminale del Dipartimento della giustizia americano che ha chiesto l’estradizione del cittadino russo direttamente al nostro ministero della Giustizia. 

Ma se il misterioso Uss, nonostante il mandato di arresto e la richiesta di estradizione da parte degli Usa, è stato colpevolmente ignorato dai nostri 007, occorre ricordare che l’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, è abitualmente molto attenta nel controllo sul territorio nazionale, anche attraverso l’uso delle intercettazioni preventive degli spostamenti e delle attività di diplomatici, oligarchi e businessman russi in generale.

In questo caso, però, non è scattato nessun alert e, probabilmente, da Mosca hanno potuto agire indisturbati.

[…] gli investigatori hanno individuato, grazie alla rete di telecamere pubbliche, a partire da quella di Autostrade, identità e spostamenti dei membri del commando che ha utilizzato almeno tre auto prima di arrivare al confine sloveno, passare in Serbia e far raggiungere all’evaso, forse in aereo, Mosca. […] una delle macchine è stata abbandonata a Soiano del lago (paesino di 2.000 abitanti sul Garda), in provincia di Brescia. Probabilmente si trattava di una vettura di «comodo», non intestata agli uomini della banda. 

[…] sono finiti nella rete dei militari quattro uomini, tre serbi e un quarto sloveno o slovacco, tutti trapiantati da anni in Lombardia. Due dei serbi sono imparentati tra di loro. Le loro fedine sono macchiate da numerosi reati contro il patrimonio. […] qualcuno, forse dalla Russia, è riuscito a ingaggiare in Italia malviventi slavi noti alle forze dell’ordine. Almeno due di questi, dopo le prime verifiche, risultano essere in questo momento all’estero […] La prima cosa da capire sarà se questi signori fossero una cellula dormiente di spie al soldo di Serbia e Russia o dei semplici malviventi ingaggiati in modo estemporaneo per l’«esfiltrazione» di Uss.

Nei giorni scorsi, con un videomessaggio, Alexander Uss, […] ha pubblicamente lodato il Cremlino per il rientro in patria del figlio: […] «Il nostro Paese ha molti amici e persone oneste che lo sostengono e che al momento giusto sono pronte ad aiutare. So di cosa parlo…». […]

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 20 aprile 2023.  

[…] A Mosca gli esperti della nomenklatura sanno chi è il nume tutelare al Cremlino di Aleksander Uss, il padre del fuggitivo di Basiglio: Sergej Shoigu, il potente ministro della Difesa. Un legame che nasce alla fine degli anni Settanta nell’università a Krasnoyarsk — Sergej al Politecnico, Aleksander a Legge — quando hanno iniziato a fare politica nel Pcus.

Poi entrambi hanno lavorato nell’industria dell’alluminio, la grande risorsa di quelle terre che ha poi creato la ricchezza di oligarchi come Oleg Deripaska. Il vento della Perestrojka scatenato da Gorbaciov ha spinto la carriera di Shoigu, che nel 1990 si è trasferito nella capitale e poi ha scalato le posizioni di governo. Ma i due sono rimasti vicini, tanto che nel 2017 sarebbe stato proprio il ministro della Difesa a suggerire a Putin la promozione di Uss al vertice della regione siberiana, scrigno delle materie prime più preziose.

Aleksander Uss non manca di omaggiare il suo sponsor. […] Chissà se nel ringraziamento formulato al ritorno in patria dall’evaso Artem Uss non ci fosse anche un riferimento al vecchio amico di famiglia. Il giovane ha parlato di «persone forti e affidabili» che gli erano state al fianco «nei giorni drammatici» della detenzione italiana. Non bisogna dimenticare che agli ordini diretti di Shoigu c’è il Gru, il servizio segreto militare protagonista delle azioni più temerarie in Europa: gli agenti che hanno avvelenato i dissidenti, corrotto a Roma un ufficiale della Marina e infiltrato una donna sotto falso nome nel comando Nato di Napoli. Insomma, i professionisti migliori per organizzare l’esfiltrazione del giovanotto dagli arresti domiciliari milanesi. 

[…] L’ultima trasferta nota di Shoigu a Krasnoyarsk risale allo scorso agosto: si è recato nella fabbrica Kramash per ispezionare la produzione dei nuovi missili intercontinentali Sarmat. Si tratta dell’ultima “arma dell’Apocalisse”, che può scagliare dieci testate atomiche — come ha dichiarato Putin due mesi fa — «in qualunque angolo della Terra, senza venire intercettata ». Guarda caso, secondo il mandato di cattura statunitense, tra le strumentazioni che Artem Uss avrebbe contrabbandato in Russia ci sarebbero stati anche sistemi destinati a questo mostruoso ordigno hi-tech, così micidiale da venire ribattezzato “Satan” dalla Nato.

Estratto dell'articolo di Davide Milosa e Valeria Pacelli per "il Fatto quotidiano” il 20 aprile 2023.

Esistono a volte dei paradossi. Nella politica soprattutto. E così può succedere che un ministro metta nel mirino alcuni magistrati per non aver chiesto il carcere di un soggetto poi evaso, quando in realtà quello stesso ministro avrebbe potuto chiedere uguale misura, ma non lo ha fatto. 

[…] Per Nordio, […] i giudici “tenevano un comportamento connotato da grave e inescusabile negligenza”. Ma in questa storia come si è comportato il ministro che oggi punta il dito contro i magistrati?

Partiamo proprio da uno dei poteri di Nordio: in base all’articolo 714 del codice di procedura penale avrebbe potuto chiedere una misura coercitiva (anche il carcere) per l’imprenditore. Cita il codice: “In ogni tempo la persona della quale è domandata l’estradizione può essere sottoposta, a richiesta del ministro della Giustizia, a misure coercitive”. 

Certo l’ultima parola sarebbe sempre stata dei giudici, ma questa richiesta, dopo la concessione dei domiciliari, non è mai arrivata. Nell’atto dell’azione disciplinare, Nordio, tra i punti che i giudici non avrebbero presero in considerazione, cita anche una sua richiesta del 19 ottobre per “il mantenimento della misura cautelare della custodia in carcere”: richiesta che però è arrivata quando Uss era già in cella a Busto Arsizio.

[…] Il 29 novembre 2022, quattro giorni dopo l’ordinanza dei giudici sui domiciliari, negli uffici di Via Arenula arriva una nota degli Stati Uniti in cui si esortano le autorità italiane a disporre la custodia cautelare in carcere proprio per il pericolo di fuga. L’alert arriva alla V sezione della Corte d’appello di Milano il 19 dicembre 2022, ossia 20 giorni dopo l’invio al ministero. 

Alla nota americana aveva già risposto, il 6 dicembre 2022, il Dipartimento per gli Affari di giustizia: “Questo ministero rappresenta come sia di esclusiva spettanza della competente Corte d’appello italiana (...) stabilire quale sia la misura cautelare più idonea anche nell’ambito della procedura di estradizione”: quindi a decidere sono i giudici.

Via Arenula assicura anche che “la misura cautelare degli arresti domiciliari – che nel caso di Uss è resa più sicura dall’applicazione del braccialetto elettronico – è in tutto equiparata alla misura cautelare della custodia in carcere”. Questa nota di risposta viene ricevuta dalla Corte d’appello il 9 dicembre. 

[…] C’è poi la questione dei telefonini di Uss. Già nella richiesta degli Stati Uniti per l’arresto provvisorio del 21 ottobre, le autorità Usa chiedevano “il sequestro dei dispositivi elettronici e altri oggetti pertinenti in possesso del latitante”. Uss è stato fermato il 17 ottobre a Malpensa e condotto in carcere.

Quando va ai domiciliari (il 2 novembre) quei cellulari gli vengono restituiti. E se da una parte la polizia non ha effettuato il sequestro subito dopo il fermo, dall’altra il ministero della Giustizia non si è affrettato a inoltrare il sollecito americano proprio su questo aspetto. La rogatoria infatti arriva a dicembre e resta ferma in Via Arenula fino al 17 febbraio, quando viene ricevuta dalla Procura di Milano. I cellulari alla fine saranno sequestrati dalla procura solo il 13 marzo scorso, nove giorni prima dell’evasione di Uss e dopo tre mesi che ne disponeva tranquillamente.

(ANSA il 20 aprile 2023) E' "stravagante" che il ministero avrebbe potuto impugnare la decisione della magistratura. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel corso dell'informativa alla Camera sulla fuga di Artem Uss, l'uomo di affari russo evaso dagli arresti domiciliari in provincia di Milano prima della sua estradizione negli Stati Uniti

"Il ministero non ha competenza" nè oneri di "controllo" su provvedimenti giurisdizionali adottati da una corte" ed è "singolare" che da taluni "si affermi" che proprio il Ministero della giustizia "sarebbe dovuto intervenire" per limitare la decisione della Corte di Appello di Milano sul caso di Artem Uss. Lo ha detto il Guardasigilli Carlo N ordio nella informativa urgente del governo alla Camera sul caso della fuga dell'imprenditore russo dai domiciliari.

 "Non è mai accaduto che un ministro si sia intromesso nelle decisioni della magistratura". Lo ha detto il Guardasigilli Nordio nell'informativa alla Camera sul caso Uss.

"Non vi è alcuna disposizione normativa che attribuisce al ministro il potere di sostituire una misura" cautelare "con un'altra". Il Guardasigilli ha solo il potere di avanzare "richiesta di revoca" di una misura limitativa della libertà personale. Tale diritto appartiene "solo alle parti processuali". Lo ha detto il ministro della giustizia Carlo Nordio nella informativa urgente sul caso di Artem Uss, il cittadino russo evaso dai domiciliari.

E' un "eresia" dire che il ministero della Giustizia aveva competenza sulla concessione degli arresti domiciliari a Uss. Lo ha sottolineato Nordio nell'informativa alla Camera.

"Questo ministro ha pienamente rispettato i dettami di legge esercitando il proprio potere di iniziativa con una nota attraverso cui comunicava alla Corte di Milano la propria volontà di richiedere il mantenimento della custodia cautelare in carcere nei confronti di Uss per assicurare la consegna di costui alle autorità statunitensi". Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nell'informativa alla Camera sul caso Uss.

La Corte d'appello di Milano che ha concesso i domiciliari a Artem Uss era stata "inondata di osservazioni sul pericolo di fuga". Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nell'informativa alla Camera sul caso.

Gli americani si sono dimostrati "esterrefatti" dalla concessione degli arresti domiciliari al cittadino russo Artem Uss, a seguito della decisione presa dalla Corte di Appello di Milano lo scorso 22 novembre, nonostante le tante note di allarme inviate dall'amministrazione statunitense sulla 'caratura' di Uss e delle sue relazioni internazionali che lo connotavano ad alto rischio di fuga. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio parlando alla Camera durante l'informativa urgente del governo sul caso Uss, dopo la sua evasione dai domiciliari.

"Nessuno può permettersi di imputare al ministro interferenza quando esercita le sue preorgative per verificare la conformità del comportamento dai magistrati ai doveri di diligenza". Lo ha detto il ministro Nordio alla Camera parlando dell'azione disciplinare nei confronti die magistrati di Milano.

Artem Uss, l'imprenditore russo figlio di un oligarca vicinissimo a Putin ed evaso dai domiciliari mentre c' era la richiesta di estradizione avanzata dagli Usa, "è stato messo ai domiciliari con un provvedimento di 5 righe" solo perchè aveva "una moglie e una casa" a fronte del provvedimento di 4 pagine "documentatissimo" e "ampiamente motivato" con il quale la Procura della Corte di Appello di Milano si era opposta alla richiesta dei domiciliari facendo presente che Uss aveva "conti bancari in tutto il mondo" e "appoggi internazionali" che lo mettevano ad alto rischio di fuga. Lo ha detto il ministro della giustizia Carlo Nordio parlando alla Camera nel corso della informativa urgente del governo sul caso Uss.

"E' dovere del ministero procedere con gli stessi criteri con cui i pm inviano l'informazione di garanzia ai cittadini nei cui confronti svolgono le indagini". Lo ha detto il ministro Nordio riferendosi all'avvio dell'azione disciplinare nei confronti dei giudici di Milano, sottolineando che se non fosse così non sarebbe rispettato il principio di uguaglianza.

 "Così come nessuno può addebitare al procuratore della Repubblica un intento intimidatorio nei confronti degli indagati -ha aggiunto Nordio- nessuno può permettersi di imputare al ministro interferenza quando esercita le sue prerogative per verificare la conformità del comportamento dei magistrati ai doveri di diligenza, tra i quali campeggia il dovere di motivazioni dei provvedimenti. Perchè in democrazia vige il principio di uguaglianza.

In caso contrario dovremmo domandarci se le migliaia di cittadini sottoposti a procedimenti penali con accuse rivelatesi poi infondate siano meno uguali rispetto a chi indossando la toga dovrebbe essere il principale garante di questa uguaglianza".

"Sono in corso ulteriori accertamenti da parte del ministero degli Interni sul braccialetto elettronico" di Artem Uss il cittadino russo evaso dai domiciliari - mentre pendeva richiesta di estradizione negli Usa - nonostante il braccialetto elettronico. 

Lo ha detto il ministro della giustizia Carlo Nordio parlando alla Camera nell'informativa urgente del governo sul caso Uss. (ANSA)

Un nuovo documento inguaia la nostra magistratura sul caso di Artem Uss.  Stefano Piazza su Panorama il 20 Aprile 2023

Ecco la lettera in cui il Dipartimento di Stato avvisava la nostra magistratura dei reale pericolo di fuga. Lettera rimasta inascoltata

«Solo in Italia poteva accadere una cosa del genere», così commenta a Panorama un funzionario del Pentagono che protetto dall’anonimato rincara la dose: «I magistrati italiani che hanno gestito la vicenda di Artem Uss hanno fatto un danno irreparabile. Speriamo che si tratti solo di negligenza ma su questo è lecito avere più di un dubbio». È questa l’atmosfera che regna a Washington D.C. in merito alla vicenda dell’imprenditore russo Artem Uss, fuggito lo scorso 22 marzo dalla casa di Bosco Vione di Basiglio (Milano). L’uomo figlio di Aleksandr Uss governatore della regione di Krasnoyarsk, fedelissimo di Vladimir Putin, era stato arrestato all’aeroporto di Malpensa il 17 ottobre 2022 perché inseguito da un mandato di cattura emesso dalle autorità americane per una serie di reati: contrabbando di petrolio dal Venezuela verso Cina e Russia con elusione delle sanzioni e di frode bancaria, contrabbando di tecnologie militari dagli Usa verso la Russia e riciclaggio di denaro. Il 22 novembre 2022 nonostante i pareri negativi del Ministero della Giustizia, e le pressanti richieste del Dipartimento della Giustizia americana che volevano che USS rimanesse in carcere, al 40enne russo vennero incredibilmente concessi gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico poi facilmente manomesso. Gli americani preoccupati che i servizi segreti di Mosca, con hanno solidi agganci in Italia ad ogni livello, potessero organizzare la fuga prima dell’estradizione, scrissero una lettera il 19 ottobre 2022 (due giorni dopo l’arresto) nella quale si fa riferimento «all’altissimo rischio di fuga» di Uss. Poi il dipartimento di Giustizia americano il 29 novembre 2022 (lettera protocollata il 19 dicembre 2022) scrisse di nuovo al nostro ministero della Giustizia chiedendalle autorità di Romdi assumere «tutte le misure possibili» per la custodia cautelare nei confronti di Artem Uss.

Nella lettera si legge «Le autorità statunitensi hanno recentemente appreso che nei confronti di Artem Uss, ricercato per l'estradizione negli Stati Uniti, è stato o sarà presto disposta la misura degli arresti domiciliari in seguito ad un provvedimento della Corte d'Appello di Milano. Dato l'altissimo rischio di fuga che Uss presenta- come indicato nella lettera del sostituto procuratore statunitense del 19 ottobre 2022- esortiamo le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l'intera durata del procedimento di estradizione, compreso un ricorso alla Corte di Cassazione contro il provvedimento degli arresti domiciliari della Corte d'Appello di Milano». Ma non è tutto perché il Dipartimento USA ricorda nella sua missiva che i domiciliari «non garantiscono efficacemente la disponibilità del latitante per un’eventuale consegna» e per rafforzare il concetto gli americani avevano anche allegato i nomi di altri sei fuggitivi negli ultimi tre anni. Si tratta di Laura Virginia Fernandez Ibarra, cittadina spagnola fuggita da Firenze, il nigeriano Efeturi Simeon, sospettato di gravi truffe informatiche, il cittadino americano Christopher Charles Garner, ricercato per reati sessuali che venne arrestato e mandato agli arresti domiciliari a Genova, il greco Christos Panagiotakoupolos scomparso in Veneto, la svizzera Daisy Teresa Rafoi-Bleuler, originaria delle Isole Fiji e residente in Svizzera, colpita da un mandato di cattura internazionale emesso dal Tribunale degli Stati Uniti per corruzione e riciclaggio e fuggita da Milano, infine il tedesco Uwe Bangert, mandato ai domiciliari dai giudici di Trento nel 2019 che poi scomparve nel nulla. Insomma gli americani avevano i loro buoni motivi per dubitare del sistema giudiziario italiano ma nonostante tutti i rilievi Artem Uss uscì dal carcere per andare agli arresti domiciliari. Ovvio che da quel momento l’imprenditore russo iniziò a organizzare la sua fuga ( aveva i suoi telefoni almeno fino al 13 marzo 2023) scoperta il 22 marzo 2023 e che secondo fonti investigative sarebbe stata organizzata nei minimi dettagli, tanto che USS «è riuscito a lasciare l’Italia cambiando la macchina più volte». Altro aspetto incredibile è che la moglie di Artem Uss aveva lasciato l’Italia il 13 marzo (autorizzata dalle autorità italiane), ma nemmeno in questo caso a nessuno (forse) è venuto in mente. Altro aspetto che doveva far scattare l’allarme era il fatto che se Maria Yagodina Uss che si occupava del marito durante gli arresti domiciliari stava partendo qualcosa di grosso era in preparazione e qui non occorre essere degli 007 peraltro non pervenuti in questa storia, per capirlo. Bastava solo un po’ di buonsenso.

Evidente che la fuga sia stata possibile grazie una vasta rete di complici (probabilmente anche italiani) che hanno coperto la fuga dell’imprenditore russo che non ha certo problemi economici. Come è fuggito? Secondo le ricostruzioni della Procura Uss sarebbe fuggito in auto con un complice (i ROS hanno le immagini), poi avrebbe cambiato più volte veicolo fino alla frontiera slovena «raggiunta in poche ore, da qui in Serbia e infine in Russia dove è riapparso agli inizi di aprile. Ma chi ha organizzato l’interazione operazione? A Washington non hanno dubbi in proposito: «L’FSB russo ha solidi legami in Italia da decenni e grazie alla capacità di corrompere ad ogni livello fare un’operazione come questa è fin troppo facile magari aiutata dalla mafia serba (molto presente a Milano, n.d.a) con la quale l’FSB ha importanti e consolidati rapporti». A proposito di complici: 4-5 persone risulterebbero al momento indagate per aver favorito l'evasione. Sul fronte politico-giudiziario c’è da registrare che il ministero della Giustizia ha avviato un procedimento disciplinare contro i giudici della Corte d'Appello di Milano, incolpandoli di «grave e inescusabile negligenza» per aver concesso il 25 novembre 2022 gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico al 40enne imprenditore russo. Come scrivono il Corriere della Sera e La Repubblica, il Ministro Carlo Nordio addebita ai tre giudici Monica Fagnoni, Micaela Curami e Stefano Caramellino di aver deciso i domiciliari «senza prendere in considerazione», quelle circostanze che, indicate nel parere della Procura generale di Milano, contraria ai domiciliari, avrebbero potuto portare a disporre il carcere. In sintesi Nordio accusa i giudici di «non aver valutato elementi dai quali emergeva l'elevato e concreto pericolo di fuga». Immediate le reazioni della magistratura che attacca a palle incatenate il Ministro della Giustizia. All'ANSA il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia ha affermato che «Una regola fondamentale della materia disciplinare, immediata traduzione del principio della separazione dei poteri è che il Ministro e il Consiglio superiore della magistratura non possono sindacare l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella valutazione del fatto e delle prove. Sarebbe assai grave se questo limite, argine a tutela della autonomia e della indipendenza della giurisdizione, fosse stato superato. Da quanto leggo da un informato articolo di stampa - prosegue - l'addebito disciplinare muove censure al merito della decisione, contesta gli apprezzamenti dei fatti operati dal Collegio giudicante e non pare focalizzare l'attenzione sui profili di potenziale responsabilità disciplinare che, secondo la legge, sono costituiti esclusivamente dalla negligenza inescusabile». A lui ha fatto eco il leader delle toghe progressiste di Area, Eugenio Albamonte: «È un esercizio dell'azione disciplinare a furor di popolo, anzi di governo, che crea un precedente molto grave in termini di invadenza del potere esecutivo sull'autonomia e indipendenza della giurisdizione ed un modo per scaricare sugli altri le proprie responsabilità». Per Magistratura democratica quella di Nordio «è una inedita, non consentita e pericolosa interferenza nel lavoro dei giudici. Per Magistratura Democratica (MD) «è gravissima l'iniziativa del ministro Nordio nei confronti dei giudici del caso Uss.Usare la leva del disciplinare per operare pericolosi condizionamenti dei giudici rende i cittadini più esposti ed indifesi, costituendo, una sostanziale aggressione alle libertà costituzionali fondamentali». Infine MD auspica «tutta la comunità giuridica riconosca la gravità del momento e reagisca compatta. Sotto attacco non ci sono solo i giudici di Milano, ma la libertà e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla giustizia». Il premier Giorgia Meloni sul caso ha affermato lo scorso 15 aprile mentre trovava in visita istituzionale in Etiopia: «La fuga di Artem Uss del 22 marzo è un fatto abbastanza grave, quando tornerò in Italia ne parlerò con il Ministro Carlo Nordio per capire bene come sono andate le cose. Sicuramente ci sono delle anomalie, e l'anomalia principale credo sia la decisione della Corte di Appello di offrire arresti domiciliari con motivazioni discutibili e di mantenere quella decisione anche quando c'era un'iniziativa sull'estradizione, perché ovviamente in quel caso il rischio di fuga diventa più evidente». Fin qui la cronaca di un brutto cortocircuito tra gli apparati italiani che rischia di compromettere i rapporti fin qui ottimi tra il governo di Roma inizialmente guardato con sospetto, e l’amministrazione americana ma non solo; il rischio è che anche tra i rispettivi apparati (i Governi passano mentre i Funzionari governativi restano) si sia creata una crepa pericolosa anche perché negli Stati Uniti (e non solo) c’è chi è convinto che Artem Uss «sia stato messo nelle condizioni ideali per poter fuggire per fare un favore a Vladimir Putin». Ora per sgombrare il campo da sospetti e pericolose insinuazioni c’è solo un modo: scoprire e rimuovere i colpevoli grazie ai quali Artem Uss è fuggito dall’Italia.

Quei buchi nella fuga di Uss. Rita Cavallaro su L'Identità il 20 Aprile 2023 

Se Roma non batte un colpo, il caso di Artem Uss è destinato a cambiare gli assetti geopolitici e i rapporti di forza alla base del patto atlantico. Perché alla premier Giorgia Meloni non basterà assicurare a Washington che i servizi segreti italiani non erano stati informati sulla caratura criminale del trafficante d’armi vicino a Vladimir Putin. Non solo non sarà sufficiente fornire tali giustificazioni, ma aggraverà ancor più la credibilità dell’Italia, la cui intelligence, ormai da diversi mesi, è isolata dalle altre agenzie straniere e vive in un momento critico per l’interruzione dello scambio di informazioni con le spie internazionali. Una situazione di caos della quale noi de L’Identità vi raccontiamo da diverso tempo, senza che i vertici dell’intelligence si scompongano. E che oggi è confermata proprio da coloro che avrebbero dovuto correre ai ripari, per ripristinare una questione di sicurezza nazionale che non può essere ignorata. Soprattutto quella del rafforzamento del controspionaggio italiano, ormai fuori dai territori che contano. Fuori dall’Africa, la polveriera del mondo dalla quale si imbarcano verso le nostre coste migliaia di clandestini al giorno. Fuori dal Medio Oriente, il cui flusso di informazioni è del tutto gestito dagli agenti segreti turchi di Erdogan. E soprattutto fuori dalla Russia, la nazione che con il conflitto in Ucraina ha spaccato il mondo come ai tempi della guerra fredda. Sul fronte Occidentale, l’Italia di Giorgia Meloni ha saputo finora fornire alla causa di Joe Biden rassicurazioni fattuali, nonostante sull’esecutivo si siano addensate fin da subito le ombre russe, con i dossier dei Paesi al soldo di Putin e l’incidente diplomatico con Washington, scoppiato a settembre scorso proprio durante un visita dell’allora presidente del Copasir, Adolfo Urso. Una situazione che l’ex premier Mario Draghi aveva saputo gestire, parlando della pressione di Mosca, del dossier Usa sui fondi russi ad alcuni Stati in cui l’Italia non c’era e facendo riferimento addirittura a “pupazzi prezzolati”. Da allora sono passati sette mesi e, alla luce dei nuovi accadimenti, quelle allusioni che facevano presagire strane movimentazioni di agenti segreti deviati al soldo dei russi sembrano diventare quasi una realtà.

DISTRAZIONE DI MASSA

Perché la fuga di Artem Uss, esfiltrato senza che la nostra sicurezza nazionale se ne accorgesse, apre a scenari inquietanti che, più che incompetenza, delineano condotte che meritano certamente nuovi profili investigativi. Senza contare che l’errore madornale fa il paio con la nomina di Paolo Scaroni all’Enel, sulla quale gli Stati Uniti avevano messo in assoluto il veto, in quanto l’immagine del manager è ormai marchiata dalle sue aperture a Vladimir Putin e dai favori concessi a Gazprom. Due macigni crollati inesorabilmente sulle relazioni tra Italia e Usa, di fronte alle quali sono emerse le difficoltà dell’esecutivo di Giorgia Meloni, la quale, forte del suo atlantismo, era riuscita fino ad ora a contenere le perplessità da oltreoceano sulle pulsioni filo russe della Lega e di Silvio Berlusconi. Gli Stati Uniti, infatti, sono inviperiti, tanto da rinviare la visita a Washington della premier, annunciata da tempo. A poco serve, dunque, una difesa a spada tratta dei vertici dell’intelligence, di fronte agli alert degli americani sulla pericolosità di Uss e perfino alla sfilza di articoli sui giornali riguardo alle gesta del trafficante d’armi. Non basta l’incredibile giustificazione sul fatto che i servizi segreti non erano stati informati. A nulla, inoltre, servirà la macchinosa distrazione di massa sulle eventuali responsabilità nella vicenda del ministro della Giustizia Carlo Nordio e sui magistrati che avevano disposto la misura degli arresti domiciliari per il russo, arrestato a Malpensa dalla Polaria il 17 ottobre scorso, dopo aver girato in lungo e in largo il nostro Paese, senza che nessuno se ne accorgesse. Eppure era colui il quale, dai report di Washington, era a tutti gli effetti un uomo di Putin in missione speciale in Italia per operazioni strategiche volte a influire positivamente sulla guerra dello Zar, visto che acquistava dagli Stati Uniti componenti elettronici destinati ad equipaggiare aerei, radar e missili per poi rivenderli a compagnie russe ed eludere così le sanzioni in vigore. I nostri servizi di intelligence non se n’erano neanche accorti, o almeno così dicono, della presenza di quell’imprenditore russo sul suolo italiano. Il che rappresenta un gravissimo buco nella sicurezza nazionale, considerando il fatto che il compito di segnalare spie sul territorio è di competenza del controspionaggio italiano, come prevede la legge 124 del 2007. Dunque, se la giustificazione è che l’intelligence non era a conoscenza dell’esistenza di Uss è già di per sé un fallimento, ormai così evidente agli occhi degli americani, i quali volevano a tutti i costi che il russo fosse estradato per scambiarlo con il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich, arrestato per spionaggio da Putin. Tanto più che avevano ampiamente segnalato all’Italia l’elevato pericolo di fuga. Le indagini sull’esfiltrazione del trafficante di armi, però, stanno portando alla luce uno scenario ancor più grave, in grado di minare la credibilità italiana non solo sotto il profilo della competenza, ma sotto quello della lealtà agli ideali alla base dell’alleanza atlantica.

SEGNALI IGNORATI

Sotto la lente c’è la questione del braccialetto elettronico che Uss indossava durante la reclusione domiciliare nella villa di Basiglio e che, nel giorno della fuga, ha tagliato per poi darsela a gambe senza alcuna difficoltà, a bordo di suv neri in processione, degni dei migliori Men in black di Hollywood. Quel dispositivo, privo di Gps e non ancora trovato dagli inquirenti, suonò decine di volte prima dell’evasione del 22 marzo scorso. Almeno venti i segnali di allarme che, in quasi tre mesi, avevano costretto le forze dell’ordine a intervenire. E così, il giorno della fuga, l’allarme di manomissione del braccialetto elettronico era stato ignorato, con la convinzione che si trattasse di un malfunzionamento, circostanza ora esclusa dall’azienda che ha fornito il dispositivo. Che gli alert di un criminale russo a elevato rischio di fuga siano stati sottovalutati per indolenza o se dietro ci siano agenti deviati in concorso con gli 007 di Mosca, che hanno architettato l’esfiltrazione di Uss nei minimi dettagli, lo accerterà l’inchiesta in corso. Ma quei segnali ignorati, di fumo ne addensano molto sul nostro Paese e, suo malgrado, su Giorgia Meloni, che avrebbe dovuto essere informata dai servizi segreti dell’esistenza a casa nostra di una spia russa di nome Artem Uss.

DAGOREPORT il 19 aprile 2023.

La rocambolesca fuga di Artem Uss, imprenditore russo evaso il 22 marzo da Milano, dove era ai domiciliari, si inserisce in un contesto complesso e frastagliato di affari, soldi e relazioni. 

A partire dal 24 febbraio del 2022, scoppio della guerra in Ucraina, gli imprenditori russi, tra cui lo stesso Uss e suo padre, Alexander, erano coccolati e omaggiati dalle grandi aziende italiane. Le possibilità di business offerte dagli oligarchi vicini al Cremlino erano allettanti e non c’era ragione per non approfittarne. 

In questo contesto Artem Uss ha costruito un’ampia rete di relazioni in Italia, dove sosteneva di risiedere (ed ecco perché gli hanno concesso i domiciliari a Basiglio) con uomini d’affari, capitani d’impresa e furbacchioni di vecchio conio.

Le vagonate di rubli piovute sul nostro paese erano indirizzate a progetti molto diversi: prima della guerra i russi hanno investito in ville, aziende vinicole, villaggi vacanze come il Forte Village (rilevato nell’ottobre 2014 dai fratelli Bazhaev per 180 milioni di euro). 

Ma il boccone grosso era un altro: il mega progetto ''Vostok Oil'', una “cornucopia da mille miliardi di dollari. Un eldorado di giacimenti da sfruttare e di impianti da costruire, superiore alla megalomania di qualunque sceicco: 115 milioni di tonnellate di idrocarburi, decine di raffinerie, ottomila chilometri di condotte”, come ha scritto su “Repubblica” Gianluca Di Feo.

Un visionario piano di conquista energetica dell’Artico, dietro cui c’era proprio il padre del fuggitivo Artem Uss, insieme a Igor Sechin, ex colonnello del Kgb e boss di Rosneft, ritenuto da molti la persona più vicina a Vladimir Putin. 

''Vostok Oil'' era un’occasione troppo ghiotta per molte imprese italiane, che infatti si sono lanciate a capofitto per accaparrarsi un posticino al tavolo delle trattative.

Scrive Di Feo: “Un mese prima dell'attacco contro Kiev, Putin in persona ne ha parlato agli imprenditori della Camera di commercio italo-russa: ‘I produttori italiani di attrezzature ad alta tecnologia stanno anche contribuendo attivamente al progetto Vostok Oil, che Rosneft sta realizzando nel territorio di Krasnoyarsk’. […] Tutti questi affari dovevano passare dagli uffici di Alexander Uss, che avrebbe personalmente incontrato gli emissari di aziende come Eni, Danieli e Saipem oltre a promuovere attraverso l'Istituto per il Commercio Estero altri piani di sviluppo nella sua regione.

Aggiunge un po' di pepe "Il FattoQuotidiano.it": "Fu il direttore generale per la promozione del Sistema Paese del ministero degli Esteri, l’ambasciatore Enzo Angeloni, che nel 2020 prospettava “importanti ricadute per numerose imprese del nostro Paese. Vostok Oil prevede la costruzione di 15 città industriali, due aeroporti, un porto, 5.500 chilometri di strade e ponti”. Putin in persona ne parlò con gli imprenditori della Camera di commercio italo-russa, con la milanese Maire Tecnimont che veniva indicata come vincitrice della commessa da 1,1 miliardi per la costruzione di una raffineria".

Continua il sito diretto da Peter Gomez: "... il principale artefice della presenza italiana in Vostok Oil è sempre stato Antonio Fallico, compagno di classe di Marcello Dell’Utri, uomo di Fininvest in Russia dalla fine degli anni Ottanta e il banchiere che può essere considerato il punto di collegamento tra le aziende italiane e la Federazione. 

Fallico è soprattutto l’uomo delle fortune di Banca Intesa a Mosca. I rapporti tra l’istituto italiano e Rosneft sono radicati: “Nel 2016 – scrive Repubblica – ha partecipato alla privatizzazione del colosso energetico russo e l’anno dopo ha guidato un pool di banche che ha finanziato con 5,2 miliardi di euro l’acquisto del 19,5% delle quote. Un’operazione così importante per il Cremlino da avere convinto Putin a consegnare onorificenze di Stato ai vertici dell’istituto”.

Tant'è che Fallico, dal 2008 è console onorario della Federazione Russa, nonché   presidente dell'associazione "Conoscere Euroasia". Fino al punto che, lo scorso ottobre, a guerra iniziata, il potentissimo boss di Rosneft Sechin ha parlato - in teleconferenza perché bersaglio delle sanzioni internazionali - subito dopo Fallico al Verona Eurasian Economic Forum, davanti alla platea degli irriducibili putiniani d'Italia: "Lo sviluppo procede secondo i piani stabiliti. Saremo lieti di vedere tutti i nostri amici tra i partecipanti a Vostok Oil".

La centralità della famiglia Uss all’interno del grande e appetibile piano “Vostok Oil” deve aver creato non poche difficoltà a molti uomini d’affari del nostro Paese, preoccupati che la detenzione di Artem potesse compromettere future buone occasioni di business. Chi è abituato a fatturare vive la guerra in Ucraina come una fastidiosa zavorra ai bilanci e lancia già lo sguardo alla fine del conflitto. 

Ecco perché l’incredibile fuga di Artem Uss deve aver rallegrato chi nella Russia in questi anni, e in quelli a venire, vede solo un partner preziosissimo. Ha masticato amaro, invece, chi immaginava che Uss, usato da Putin per acquistare componenti tecnologiche militari da usare nella guerra in Ucraina, venisse giudicato per i suoi crimini. 

A rendere più indigesta l’evasione sono i dettagli emersi in questi ultimi giorni, elementi talmente surreali da suscitare più di un interrogativo sulla reale efficacia dei controlli e delle misure adottate. 

Come scrivono Davide Milosa e Valeria Pacelli sul “Fatto quotidiano” di oggi, “prima dell’evasione del 22 marzo il braccialetto elettronico di Uss ha inviato segnali per decine di volte. […] Tradotto: Uss, a partire dal 2 dicembre, ha tentato di manomettere il braccialetto o è uscito di casa”.

Tra i più incazzati per la fuga di Uss ci sono ovviamente gli americani. Da Washington, ben prima che i buoi scappassero, avevano tentato in ogni modo di alzare la soglia dell’attenzione italiana sull’ingombrante detenuto. 

Dalla richiesta di estradizione alla segnalazione sull’inopportunità di concedere a Uss i domiciliari, fino ai due caccia F-16 fatti alzare in volo da Aviano dopo la fuga del russo, gli americani hanno fatto capire quanto ci tenessero ad avere nelle loro mani l’imprenditore. 

Dagospia è in grado di rivelare il motivo: Uss poteva essere una pedina di scambio di alto livello per riportare in patria il giornalista del “Wall Street Journal”, Evan Gershkovich, arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio. 

Il reporter, che stava indagando sul complesso industriale e militare russo, viene indicato dal Cremlino, ma non solo, come molto vicino alle agenzie di intelligence statunitensi, alis Cia. Artem Uss poteva essere sfruttato come il “mercante di morte”, Viktor Bout, consegnato a Putin in cambio della cestista Brittney Griner. E invece, nisba! Sarà difficile convincere la Casa Bianca che la colpa non è né del governo né dei magistrati, né delle agenzie di sicurezza, ma di un combinato disposto di sfortuna e imperizia.

Come notava ieri, su “Repubblica”, Stefano Folli, “forse è solo un caso o un problema di calendario, ma la visita a Washington (di Giorgia Meloni, ndR) di cui si parla da tempo non si è ancora realizzata”. Come a dire, la ritorsione diplomatica di Washington è già in corso. E non si sa a cosa potrà portare… È questo che preoccupa maggiormente il governo della turbo-atlantista Giorgia Meloni che gia sognava di atterrare alla Casa Bianca a fine maggio, primi di giugno.

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 19 aprile 2023. 

Un mistero dentro a un mistero. È la storia dell’evasione dell’imprenditore russo Artem Uss dalla sua villa di Basiglio, nel Milanese. A partire dal braccialetto elettronico (privo di Gps e allo stato non trovato) disposto in aggiunta ai domiciliari. Strumento che se manomesso o portato fuori dal perimetro della casa, manda un alert alla centrale operativa dei carabinieri.

Per quel che risulta agli inquirenti, prima dell’evasione del 22 marzo il dispositivo ha inviato segnali per decine di volte. Uss, su disposizione della Corte d’appello, lascerà il carcere il 2 dicembre dopo essere stato arrestato il 17 ottobre. Ora, secondo quanto spiegato dalla Procura, gli allarmi derivano da un malfunzionamento del tracciamento gestito in appalto da Fastweb. I carabinieri avrebbero avuto questa spiegazione, non si comprende se informale o ufficiale, dai tecnici della società telefonica.

Ma l’ultimo alert quello partito alle 13,52 del 22 marzo poteva essere l’ennesimo malfunzionamento? Pochi minuti dopo Uss era già fuggiasco. In realtà in una nota nella serata di ieri Fastweb ha fatto sapere che “non risulta alcun malfunzionamento né del braccialetto elettronico né di altri dispositivi in uso […]”.

Tradotto: Uss, a partire dal 2 dicembre, ha tentato di manomettere il braccialetto o è uscito di casa. […] Intanto ieri la Procura ha risposto alle domande della Procura generale sul tardivo sequestro dei cellulari. Sequestro chiesto dagli Usa già nella loro richiesta d’arresto eseguita il 17 ottobre a Malpensa. Domani il ministro Nordio terrà un’informativa alla Camera.

Uss, l’affare da mille miliardi e gli amici italiani di Vostok Oil

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 19 aprile 2023. 

Se si vuole comprendere pienamente l'affaire Uss allora bisogna spiegare che il padre del fuggitivo non è solo il governatore di una ricca regione siberiana ma è soprattutto l'artefice del più grande progetto di sviluppo petrolifero del mondo: il programma Vostok Oil, una cornucopia da mille miliardi di dollari.

Un eldorado di giacimenti da sfruttare e di impianti da costruire, superiore alla megalomania di qualunque sceicco: 115 milioni di tonnellate di idrocarburi, decine di raffinerie, ottomila chilometri di condotte. In pratica, la testa di ponte per colonizzare l'Artico, presentando però tutto come green […]. 

Vostok Oil è stato inventato da Alexander Uss e dal numero uno della compagnia energetica Rosneft: Igor Sechin, l'ex colonnello del Kgb ritenuto la persona in assoluto più vicina a Vladimir Putin, così temuto in patria e all'estero da venire chiamato Darth Vader, come il principe delle tenebre di Guerre Stellari. 

Possibile che i nostri apparati di sicurezza ignorassero tutto questo? Artem Uss anche negli atti giudiziari è stato trattato come un normale imprenditore che voleva investire nel nostro Paese mentre decine di siti investigativi russi […] lo considerano il prestanome a cui il padre ha affidato i forzieri accumulati nella sua carriera politica.

E il fatto che nessuno controlli chi sono gli oligarchi che acquistano beni e trasferiscono fondi attraverso società cipriote - come ha fatto Artem Uss per comprare alberghi e terreni in Sardegna - è forse ancora più preoccupante della mancata vigilanza sugli arresti domiciliari nella cascina di Basiglio. A meno che non sia stata proprio "Vostok Oil" la parola magica che ha fatto chiudere gli occhi sul giovane recluso. 

[…] Prima dell'invasione dell'Ucraina, tutte le grandi aziende italiane hanno cercato di ritagliare una fetta di questa torta.  "Ci saranno importanti ricadute per numerose imprese del nostro Paese - magnificava nel dicembre 2020 l'ambasciatore Lorenzo Angeloni, uno dei direttori generali del ministero degli Esteri […]".

Un mese prima dell'attacco contro Kiev, Putin in persona ne ha parlato agli imprenditori della Camera di commercio italo-russa: "I produttori italiani di attrezzature ad alta tecnologia stanno anche contribuendo attivamente al progetto Vostok Oil, che Rosneft sta realizzando nel territorio di Krasnoyarsk". […] 

Tutti questi affari dovevano passare dagli uffici di Alexander Uss, che avrebbe personalmente incontrato gli emissari di aziende come Eni, Danieli e Saipem oltre a promuovere attraverso l'Istituto per il Commercio Estero altri piani di sviluppo nella sua regione.

Ma il principale alfiere dello sbarco tricolore nel futuro di Vostok Oil è sempre stato Antonio Fallico, l'arbitro delle fortune di Banca Intesa a Mosca. Ha continuato a farlo anche dopo l'inizio della guerra. Lo scorso ottobre il boss di Rosneft Sechin ha parlato - in teleconferenza perché bersaglio delle sanzioni internazionali - subito dopo di lui al Verona Eurasian Economic Forum, davanti alla platea degli irriducibili putiniani d'Italia: "Lo sviluppo procede secondo i piani stabiliti. Saremo lieti di vedere tutti i nostri amici tra i partecipanti a Vostok Oil".

I rapporti tra Banca Intesa e Rosneft sono stati molto profondi: nel 2016 ha partecipato alla privatizzazione del colosso energetico russo e l'anno dopo ha guidato un pool di banche che ha finanziato con 5,2 miliardi di euro l'acquisto del 19,5 per cento delle quote.

[…] Affari così importanti non possono limitarsi ad accordi tra banche o aziende: sono questioni di Stato. Come probabilmente - a sentire le parole spese dal vertice della Farnesina - è accaduto pure per il programma petrolifero siberiano. E così diventa più facile comprendere quanti amici influenti potevano interessarsi alla sorte del rampollo di Alexander Uss, a cui il padre - secondo denunce dell'opposizione russa - ha donato anche una piccola quota della stessa Vostok Oil: il passaporto per attraversare qualsiasi frontiera.

Estratto dell'articolo di Sandro De Riccardis per repubblica.it il 19 aprile 2023.

Artem Uss ha cercato di fuggire altre volte prima della mattina del 22 marzo, un giorno dopo il via libera alla richiesta di estradizione, quando è scomparso dalla sua abitazione di Basiglio? E' certo che nei tre mesi e venti giorni in cui è stato ristretto nella casa affittata dalla moglie a Basiglio, dov'era ai domiciliari dal 2 dicembre scorso, il dispositivo ha suonato più volte. 

Decine di volte, hanno ricostruito i carabinieri di Milano che stanno indagando coordinati dal procuratore capo Marcello Viola e dal pm Giovanni Tarzia. Per la procura, che ha affidato delle verifiche a un proprio esperto, non sarebbero stati tentativi di fuga ma casi di malfunzionamento del braccialetto. 

[…] 

Proprio grazie a un alert dello scorso 22 marzo, i carabinieri avevano scoperto la fuga di Uss. L'allarme scatta il 13.52 del 22 marzo. I carabinieri arrivano nell'abitazione dopo la comunicazione della centrale operativa di Milano alla compagnia di Corsico, fissato alle 14.07. Ma l'imprenditore russo è già lontano. 

Fastweb, che gestisce i dispositivi per conto del ministero della Giustizia, esclude con una nota malfunzionamenti. E parla di una possibilità teorica di allontanamenti dal perimetro in cui il detenuto deve restare o tentativi di manomissione.

"In relazione ai numerosi allarmi che sarebbero stati riscontrati nel periodo in cui Uss è stato sottoposto ai domiciliari - scrive l'azienda - Fastweb precisa che non è corretto parlare di malfunzionamento in caso di allarme che non si traduce in evasione. Il dispositivo è congegnato per segnalare l'allontanamento del soggetto sottoposto a misura restrittiva dalla centralina che è posizionata nel domicilio. […]". 

[…]

Il procuratore Viola ha inoltrato alla procura generale, guidata da Francesca Nanni, una relazione per rispondere alla richiesta di chiarimenti sul sequestro dei due telefoni di Artem Uss, richiesto dagli Usa e che è stato effettuato, sulla base di una rogatoria arrivata ai pm il 17 febbraio, il 13 marzo scorso. Resta un mistero il motivo per cui al momento dell'arresto a Malpensa, il 17 ottobre, i cellulari (insieme alle carte di credito) non siano stati sequestrati, anche se li Usa lo avevano chiesto sulla base di una norma prevista nel trattato bilaterale Italia-Usa sulle estradizioni.

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 18 aprile 2023.

Sul caso di Artem Uss si apre l’ennesimo scontro sotterraneo tra magistrati e ministero della Giustizia. Dopo l’alert degli Usa, ora la questione si sposta sui due cellulari dell’imprenditore russo, figlio di un governatore della Siberia molto vicino a Putin. Telefonini, che stando al mandato di cattura internazionale eseguito il 17 ottobre dovevano essere sequestrati in quella data. Ma così non è stato. 

I cellulari saranno sequestrati dalla Procura di Milano solo il 13 marzo scorso, nove giorni prima della sua fuga dalla villa di Basiglio avvenuta dopo il via libera della Corte d’appello alla sua estradizione negli Stati Uniti dove è accusato di traffico di materiale bellico, di petrolio, frode e riciclaggio. Il sequestro tardivo avviene in base a una rogatoria americana, inviata parallelamente a quella più complessa sull’estradizione. 

Secondo quanto risulta al Fatto […] il documento Usa redatto dal Dipartimento di giustizia presso l’Ambasciata di Roma atterra sul tavolo del ministero in dicembre. Rispetto a questo, gli uffici di via Arenula non spiegano che la rogatoria americana fu solo un sollecito rispetto al mancato sequestro di ottobre. Allora il fermo, era il 17 ottobre, fu eseguito dalla Polaria. Come per l’alert americano rispetto al pericolo di fuga, quindi siamo di nuovo nel rimbalzo delle responsabilità. 

In ogni modo, la rogatoria di dicembre resta ferma al ministero fino al 17 febbraio, quando viene ricevuta dalla Procura di Milano e dall’aggiunto Fabio De Pasquale, che il 20 iscrive il procedimento chiedendo gli atti alla Corte d’appello. La Guardia di finanza dà esecuzione il 27 febbraio, studiando le carte.

Il 13 marzo vi sarà il sequestro. I cellulari al momento sono a Milano, ma gli americani, in un incontro in Procura hanno fatto richiesta di averne una copia. Ma perchè il ministero, consapevole che il sequestro doveva avvenire già a ottobre (cosa che la polizia non fa), invia la rogatoria a Milano solo a febbraio? 

Il risultato è che dal 2 dicembre, quando va ai domiciliari, Uss ha di nuovo in mano i due cellulari che gli erano stati tolti il 17 ottobre. Per oltre tre mesi potrà disporne (al momento non risultano intercettazioni), così come per oltre tre mesi riceverà le visite autorizzate dalla Corte, come quella dei legali o del console russo a Milano, Alexander Nurizade, visita quest’ultima definita in Procura di routine.

E che gli americani, dopo il mancato sequestro di ottobre, abbiano agito velocemente nelle comunicazioni con il nostro governo, lo dimostra il fatto che già il 29 novembre, quattro giorni dopo l’ok ai domiciliari, inviano una nota a Nordio in cui si legge: “Dato l’altissimo rischio di fuga che Uss presenta esortiamo le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare”. 

[…]Questa nota arriva alla V sezione della Corte d’Appello di Milano il 19 dicembre (lo dimostra il timbro), 20 giorni dopo l’invio dagli Usa al Dipartimento per gli affari di giustizia. Che risponde il 6 dicembre 2022 spiegando che è l’autorità giudiziaria a decidere sulle misure cautelari e che “nell’ordinamento giuridico italiano la misura cautelare degli arresti domiciliari (...) è in tutto equiparata alla misura cautelare della custodia in carcere”.

Dal timbro si vede che la Corte d’Appello di Milano riceve questa nota di risposta il 9 dicembre scorso. Ora Giorgia Meloni parla di “anomalie” e punta il dito contro i giudici che hanno deciso per gli arresti domiciliari. Eppure il suo ministro Nordio, tramite gli uffici, nella risposta agli americani non critica questa misura e successivamente non ne chiede una differente, come pure era in suo potere.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis, Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 18 aprile 2023.

Più si va avanti e più la storia della fuga di Artem Uss […] assomiglia […] a un campionario di “italianità”: scaricabarili, ritardi, mezze verità, errori e sottovalutazioni. L’ultima questione ha riguardato la trasmissione della nota americana con la quale gli Stati Uniti chiedevano all’Italia di non mandare ai domiciliari Uss perché sarebbe potuto fuggire, come effettivamente poi è accaduto. Washington l’ha mandata al ministero della Giustizia il 29 novembre, quando la Corte d’Appello di Milano aveva già deciso, ma non depositato, per gli arresti domiciliari. 

Il ministro Carlo Nordio aveva detto a Palazzo Chigi di averla trasmessa immediatamente in tribunale a Milano. La Corte di Appello di non averla ricevuta. […] la nota del Dipartimento di giustizia americana è stata infatti inviata alla Corte come dice Nordio. Ma soltanto il 19 e il 23 dicembre: venti giorni dopo la ricezione da Washington, quando i giochi erano chiusi. Ma c’è di più: la trasmissione avviene non autonomamente, ma in seguito a una richiesta degli avvocati di Uss, Vinicio Nardo e Fabio de Matteis.

La rogatoria in ritardo a Milano

L’invio differito a Milano della nota americana non è il solo ritardo in questa storia. Un caso è il mancato sequestro dei due cellulari (e delle carte di credito) di Uss. Il perché è da leggersi, secondo i magistrati, nella non tempestiva trasmissione della rogatoria arrivata da Washington da parte del ministero.

Nel mirino era finita la Procura, accusata di aver agito in ritardo. Ma, leggendo le date, le cose sarebbero andate diversamente. Una prima richiesta di sequestrare i telefoni arriva, infatti, il 19 ottobre dopo l’arresto […] La questione cambia il 2 dicembre quando va ai domiciliari. Gli Usa chiedono nuovamente all’Italia il sequestro delle carte e del telefono. Che non avviene. Perché nessuno informa la procura della nuova rogatoria. La lettera finisce infatti sul tavolo della procura di Milano due mesi dopo, il 17 febbraio. A quel punto i pm chiedono gli atti alla Corte d’Appello e delegano la Finanza a eseguire il provvedimento. Siamo arrivati al 13 marzo. Troppo tardi.

Cellulari liberi

Uss ha così potuto utilizzare liberamente i suoi cellulari per oltre tre mesi senza che mai sia stata estratta quella che tecnicamente si chiama “una copia forense”, cioè un backup da mettere a disposizione degli investigatori. Dopo l’arresto a Malpensa del 17 ottobre, i suoi dispositivi sono stati presi in custodia al momento dell’ingresso in carcere. Sarebbero stati fotografati senza estrarre i numeri Imei che identificano l’apparecchio.

Poi gli vengono restituiti e Uss nella casa di Basiglio ha potuto non solo usarli, ma teoricamente anche formattare cancellandone dati, contatti e conversazioni via mail e chat. Nelle settimane ai domiciliari, Uss è stato autorizzato a incontrare […] una dozzina di persone, tra cui il padre e la moglie a Mosca. 

La procura generale, che […] aveva depositato parere negativo ai domiciliari per le disponibilità economiche e la rete di relazioni di Uss, aveva dato parere contrario anche a un paio di contatti, poi invece autorizzati dalla Corte. E anche il ritardo nell’inoltrare a Milano la rogatoria ha così dato ampio spazio a Uss di organizzare quella che si è rivelata finora una fuga perfetta. Grazie anche al fatto che la sua abitazione non fosse sorvegliata con presidi speciali: da via Arenula c’è che dice che il Viminale fosse a conoscenza degli alert americani su una possibile evasione, ma dagli Interni smentiscono.

Certo è che il 22 marzo, il giorno dopo la concessione dell’estradizione, Uss spacca il braccialetto elettronico e scompare in un’auto che lo conduce in Slovenia. Alla guida c’è un croato […] Il segnale gps del braccialetto smette di dare segnali alle 13.52 del 22 marzo. Scatta subito l’allarme, con il comandante in servizio della centrale operativa di Milano comunica alla compagnia di Corsico la necessità di un intervento immediato […] I carabinieri corrono sul posto, dove erano stati già due ore prima la fuga per uno dei controlli quotidiani intorno all’abitazione del russo. Ma Uss è già lontano.

Artem Uss, azione disciplinare del ministro Nordio sui giudici di Milano. Storia di Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 18 aprile 2023.

Giudici messi per la prima volta sotto processo disciplinare dal ministro della Giustizia non per una intervista o un asserito affronto istituzionale (come nei già rari casi all’epoca dei più accesi scontri tra i governi Berlusconi e i magistrati dei suoi processi), ma per il contenuto di una loro sentenza «non opportunamente ponderato». Il ministro della Giustizia del governo Meloni, l’ex pm Carlo Nordio, ha avviato un’azione disciplinare contro i giudici della Corte d’Appello milanese Monica Fagnoni, Micaela Curami e Stefano Caramellino, incolpandoli di «grave e inescusabile negligenza» per aver concesso il 25 novembre 2022 gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico al 40enne imprenditore russo Artem Uss. Cioè al figlio del governatore di una regione siberiana caro a Putin, che dall’arresto provvisorio a Malpensa il 17 ottobre 2022 era in carcere in attesa di decisione sulla sua estradizione chiesta dagli Stati Uniti per esportazione illegale di tecnologie militari e contrabbando di petrolio in Venezuela; e che il 22 marzo 2023, all’indomani del primo e non operativo via libera di altri tre giudici della Corte d’Appello all’estradizione solo per il contrabbando di petrolio e non per il traffico di componenti d’armi, è poi evaso dai domiciliari, semplicemente portandosi via la cavigliera.

Nell’atto veicolato dal procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, il ministro della Giustizia addebita ai tre giudici di aver deciso i domiciliari «senza prendere in considerazione» sette circostanze che, indicate nel parere del xx novembre della procuratrice generale milanese Francesca Nanni e del suo pg Giulio Benedetti contrari ai domiciliari, «se opportunamente ponderate avrebbero potuto portare a una diversa decisione».

Video correlato: Evasione Artem Uss, il ministro Nordio dispone un'ispezione (Mediaset)

L’elenco, però, non è altro che la trasposizione, a tratti tautologica, degli elementi d’accusa per i quali gli Stati Uniti avevano chiesto all’Italia l’arresto e l’estradizione di Uss. Vi figura il fatto che fosse stato fermato a Malpensa in partenza per Istanbul. Che godesse di appoggi internazionali che per gli americani «gli avevano consentito di allontanarsi dal luogo di commissione dei reati», il distretto di New York. Che fosse «figlio di un politico russo» con «rilevanti interessi economici» in società in Germania e Russia. Che controllasse due società in Russia e due negli Emirati Arabi Uniti. Che disponesse di «rilevanti consistenze economiche». Che all’inizio della procedura estradizionale il Ministero della Giustizia avesse chiesto il mantenimento della custodia cautelare in carcere il 19 ottobre (giorno successivo a quando la Corte d’Appello aveva convalidato l’arresto provvisorio e deciso già la custodia cautelare in carcere, poi protrattasi quasi 40 giorni sino appunto al 25 novembre). E che altrettanto avesse chiesto il 25 ottobre il Dipartimento di Giustizia americano.

L’accusa del ministro ai tre giudici è «non aver valutato questi elementi dai quali emergeva l’elevato e concreto pericolo di fuga». Se si legge l’ordinanza che concesse i domiciliari, tuttavia, è facile constatare come i tre giudici non avessero ignorato gli elementi che dagli atti potevano far propendere per la custodia in carcere, ma li avessero soppesati e bilanciati con altre circostanze prodotte dalla difesa, concludendo che il pericolo di fuga continuasse a essere concreto, ma anche che potesse essere contenuto aggiungendo agli arresti domiciliari la (ritenuta) sicurezza del braccialetto elettronico. Tra queste altre circostanze (che compaiono nel testo del ministro) c’erano ad esempio l’osservazione della difesa circa il fatto che «dalla documentazione americana non si arguisce risponda al vero la circostanza, anch’essa riportata a sostegno del pericolo di fuga, che Uss si sia allontanato dal luogo di commissione del reato, non risultando infatti si sia mai recato a New York». O che «la moglie, in regime patrimoniale di comunione dei beni con il marito, ha acquistato nel giugno 2022 un immobile a Basiglio, peraltro in regime di cosiddetta “prima casa”».

A posteriori si può naturalmente criticare e ritenere non adeguati, o proprio sbagliati, questo bilanciamento e la relativa decisione, ma il sistema giudiziario funziona con decisione e motivazione impugnabile nel grado successivo, e qui la motivazione (condivisibile o meno) c’era: tanto che neppure la procuratrice generale milanese Nanni (pur contraria ai domiciliari) impugnò poi in Cassazione la concessione dei domiciliari, evidentemente ritenendo anch’ella che nell’ordinanza dei tre giudici non vi fossero quei «vizi di legge» che soli potevano legittimare il ricorso in Cassazione, ma che vi fosse invece una diversa (e da lei certo non condivisa) valutazione del merito degli atti.

Artem Uss, il Garda come «via di fuga» e quell'auto trovata a Soiano. Valerio Morabito su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023 

Il condizionale è d’obbligo, ma la fuga del 40enne ricercato negli Usa avrebbe riguardato anche il bresciano 

Una fuga tra le strade della Valtenesi e poi un’auto abbandonata a Soiano. Quello accaduto nelle ultime settimane potrebbe sembrare un episodio come tanti, ma a quanto pare a bordo della macchina intercettata dalle telecamere della videosorveglianza ci sarebbe stato Artem Uss, l’imprenditore russo evaso dai domiciliari nella sua casa a Milano dove era sorvegliato con il braccialetto elettronico. Il condizionale è d’obbligo, ma la fuga del 40enne ricercato negli Usa (accusato di contrabbando di tecnologie militari dagli Stati Uniti alla Russia e di petrolio dal Venezuela a Cina e Russia) avrebbe riguardato anche il bresciano, diventato una «tappa» per guadagnarsi la fuga. 

Dopo il rinvenimento dell’automobile a Soiano, con grande probabilità una vettura di «comodo», dell’uomo a bordo si sono perse le tracce nonostante le ricerche da parte delle forze dell’ordine e della Squadra Catturandi di Milano. Forse Artem Uss è stato aiutato da qualcuno che vive in zona. Poi, come ormai è noto, Uss è tornato in Russia su un jet privato. Resta il mistero per un ricercato internazionale e per una fuga che avrebbe riguardato anche le zone del Garda bresciano.

Artem Uss, ecco come si è arrivati alla fuga: date, pasticci e troppi imbarazzi. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023. 

L'imprenditore russo arrestato a Malpensa per accuse degli americani. La richiesta di estradizione di Mosca, prima di quella Usa, creò il dilemma per il governo italiano. L'evasione il 22 marzo mentre era ai domiciliari 

Quarantotto ore di differenza il 9 novembre 2022, a vantaggio dei russi sugli americani, e la combinazione fra queste 48 ore e una norma di legge in tema di estradizioni, disvelano quale sia stato, fino all’evasione il 22 marzo 2023 dell’uomo d’affari russo Artem Uss dagli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, il vero imbarazzo politico da gestire per il governo Meloni-Nordio: superiore persino a quello ora per la beffarda fuga del magnate russo, perché impossibile da tentare di spartire con i giudici milanesi.

Uss viene arrestato il 17 ottobre a Malpensa per accuse americane di associazione per delinquere, truffa e riciclaggio, e il giorno successivo (in attesa che dagli Stati Uniti arrivi la richiesta di estradizione) i giudici convalidano la custodia cautelare in carcere, sposando la tesi americana di Uss in fuga da New York, solo di passaggio a Malpensa, e senza dimora in Italia.

Il blitz di Mosca

L’11 novembre arriva dagli Stati Uniti la richiesta di estradizione, alla quale Uss non presta consenso, sicché si avvia il normale iter giudiziario che prevede che siano la Corte d’Appello (che lo farà il 21 marzo 2023) e poi la Cassazione (che nelle prossime settimane dovrà valutare il ricorso della difesa di Uss) a verificare se esistano le basi giuridiche per concedere l’estradizione: la quale poi però, per diventare esecutiva, deve per legge passare dalla scelta di responsabilità squisitamente politica solo del governo, che può negarla anche se i giudici l’abbiano ritenuta ammissibile. 

Sinora era già noto che dopo l’arresto di Uss anche la Russia paradossalmente ne aveva domandato l’estradizione per una propria inchiesta per malversazione, parsa a molti un pretesto per provare a mettere in salvo il figlio di un governatore di una regione siberiana caro a Putin. Ma quello che non si è sinora considerato è che i russi bruciarono sul tempo gli americani e chiesero l’estradizione 48 ore prima, il 9 novembre. Uss ovviamente prestò subito consenso: e quando c’è consenso, i giudici non hanno alcun ruolo nell’estradizione, ma è solo il governo a quel punto a dover decidere il sì o no. Questo vuol dire che dal 9 novembre, e poi per oltre quattro mesi, il governo Meloni-Nordio ha preferito non prendere questa decisione. 

Nel frattempo, dopo quasi 40 giorni di carcere a Busto Arsizio, i difensori di Uss, in una istanza ai giudici mostrano che era stato arrestato a Malpensa non di passaggio, ma in quanto dopo un soggiorno di qualche giorno a Milano stava rientrando via Turchia in Russia; che nel giugno 2022 sua moglie aveva comprato una villa a Basiglio in regime di «prima casa»; e che dagli atti americani non risulta si fosse mai recato a New York.

Il braccialetto

E il 25 novembre 2022 ottengono dai giudici Fagnani-Curami-Caramellino gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico operativo dal 2 dicembre, nonostante il parere contrario del procuratore generale Francesca Nanni e del pg Giulio Benedetti, i quali avevano evidenziato come già l’anno precedente il braccialetto non avesse evitato la fuga di un arrestato richiesto dagli Stati Uniti. Il 29 novembre gli americani scrivono al ministero per ribadire «l’elevatissimo pericolo di fuga» di Uss, additando negli ultimi tre anni già sei scappati dagli arresti domiciliari ottenuti nelle Corti di Firenze, Genova e Milano in attesa di estradizione.

La lettera del ministero

Il ministero risponde il 6 dicembre tranquillizzando gli americani sul fatto che «gli arresti domiciliari, resi più sicuri dal braccialetto, sono in tutto equiparati al carcere». E il 9 dicembre trasmette alla Corte d’Appello questa propria risposta, senza allegare la lettera degli americani ma comunque indicandola alla prima riga: sia i giudici sia gli avvocati di Uss apprendono così dell’esistenza della lettera degli americani del 29 novembre, e la richiedono al ministero, che gliela trasmette il 19 dicembre 2022, senza ritenere di esercitare la facoltà di chiedere il ripristino del carcere riconosciutagli in ogni momento del procedimento dall’articolo 714 del codice di procedura.

​Un ok e un dilemma

Il 22 marzo l’altro collegio di Corte d’Appello formato dai giudici Nova-Barbara-Arnaldi concede l’estradizione di Uss agli Stati Uniti ma per il contrabbando di petrolio dal Venezuela in violazione dell’embargo, non per le esportazioni illegali di tecnologie militari sensibili: «Nonostante l’indicazione del nome di Uss nel capo di imputazione», negli atti americani per i giudici «non si fa cenno al contributo che egli avrebbe fornito». Se Uss non fosse evaso, e una volta che la Cassazione avesse confermato l’ok della Corte d’Appello all’estradizione, il governo avrebbe dovuto decidere a chi darlo: agli Stati Uniti o alla Russia, che lo aveva chiesto prima, e per giunta in forza della convenzione europea sull’estradizione. Un imbarazzo che, dopo l’evasione di Uss, non avrà più.

Artem Uss e la fuga, cosa non ha funzionato. Dagli Usa dati ambigui e «decisivi» per la concessione dei domiciliary. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023

 Dal Dipartimento di giustizia americano l’indicazione «senza fissa dimora in Italia» e la scarsa chiarezza sui reati contestati. L'imprenditore russo evaso con il braccialetto elettronico dalla sua casa di Basiglio lo scorso marzo

Tra sbavature, sottovalutazioni e autogol che hanno punteggiato le scelte dei vari soggetti istituzionali intorno alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti dell’uomo d’affari russo Artem Uss fermato a Malpensa il 17 ottobre 2022 (magistrati milanesi, ministero della Giustizia, servizi segreti, forze dell’ordine, gestori di braccialetti elettronici), gli atti mostrano che a dare il proprio contributo sono stati paradossalmente anche gli americani: proprio all’inizio di tutto, e proprio su quelle circostanze che, una volta risultate o non vere o non documentate, per converso hanno costituito il presupposto sul quale poi il 25 novembre 2022 il primo collegio della Corte d’Appello (Fagnoni-Curami-Caramellino) ha fondato la decisione di accogliere dal 2 dicembre l’istanza difensiva di arresti domiciliari con braccialetto elettronico nella villa di Basiglio. Quella da cui Uss il 22 marzo scorso, all’indomani del primo parziale via libera all’estradizione comunque non operativa perché sottoposta a ricorso pendente in Cassazione, è fuggito con grande facilità, per beffa portandosi via il braccialetto elettronico.

Quando infatti il 18 ottobre la Corte d’Appello (in attesa che dagli Stati Uniti tramite Ministero arrivino solo l’11 novembre la richiesta di estradizione e gli atti allegati) convalida l’arresto provvisorio di Uss emesso «il 26 settembre dal Dipartimento di giustizia americano per associazione per delinquere, truffa e riciclaggio», lo fa per il (prospettato dagli americani) «concreto pericolo di fuga evidente nel fatto che Uss era in partenza per Istanbul insieme alla propria compagna», «per l’assenza di una fissa dimora in Italia», «per gli appoggi internazionali che gli hanno consentito di allontanarsi dal luogo di commissione del reato» indicato in New York. Tre circostanze però non esatte o quantomeno non documentate dagli americani.

Dopo quasi 40 giorni di carcere a Busto Arsizio, infatti, i difensori Vinicio Nardo (allora presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano) e Fabio De Matteis in una istanza di arresti domiciliari hanno buon gioco a rappresentare ai giudici che, «contrariamente a quanto indicato nella convalida dell’arresto, Uss è stato arrestato a Malpensa non perché di passaggio nel nostro Paese, ma in quanto, dopo aver soggiornato qualche giorno a Milano, stava rientrando via Turchia in Russia»; e che «dalla documentazione americana non si arguisce risponda al vero la circostanza, anch’essa riportata a sostegno del pericolo di fuga, che Uss si sia allontanato dal luogo di commissione del reato, non risultando infatti si sia mai recato a New York». 

E quanto all’assenza di dimora in Italia, «la moglie, in regime patrimoniale di comunione dei beni con il marito, ha acquistato nel giugno 2022 un immobile a Basiglio, peraltro in regime di cosiddetta “prima casa”», segno per la difesa che Uss avrebbe «intrapreso un percorso di progressivo spostamento del centro dei propri interessi economici e familiari in Italia». Produzioni difensive recepite dai giudici per concludere in tre scheletriche righe che «in questa situazione familiare non è più necessario il mantenimento della misura più afflittiva, e si ritengono concedibili i domiciliari con braccialetto elettronico».

Peraltro quell’iniziale punto debole americano verrà additato persino dal differente collegio d’Appello Nova-Barbara-Arnaldi che il 21 marzo pur concederà agli Usa l’estradizione del figlio del governatore di una regione siberiana, sebbene per solo 2 accuse su 4: «Giova evidenziare che, aldilà della generica attribuzione a Uss delle stesse condotte ascritte al suo socio in Germania Yuri Orekhov, fra cui le esportazioni illegali di tecnologie militari sensibili a duplice uso dagli Stati Uniti alla Russia, quando l’“agente speciale Fbi” Ryan Boron passa a illustrare nel dettaglio le diverse condotte attribuite a Uss, si comprende che Uss sarebbe coinvolto solo nel contrabbando di petrolio venezuelano in violazione dell’embargo, ma non nella compravendita di tecnologie militari: nonostante l’indicazione del suo nome nel capo di imputazione, nella “relazione sommaria dei fatti“ non si fa cenno al contributo che avrebbe fornito nel reato».

(Agenzia Nova il 15 aprile 2023) - Sul caso Artem Uss “ci sono delle anomalie, e la principale credo sia la decisione della Corte di appello di offrire gli arresti domiciliari con motivazioni discutibili e di mantenerla anche quando c’era un’iniziativa sull’estradizione”.

 Lo ha detto il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel corso di un punto stampa ad Addis Abeba. “Credo abbia fatto bene il ministro Nordio ad avviare un’azione disciplinare”, ha aggiunto. “Quando torno – ha concluso Meloni – un approfondimento su questa vicenda va fatto”.

Estratto dell'articolo di Liana Milella per repubblica.it il 17 aprile 2023.

"L'anomalia è una sola: che una presidente del Consiglio, un ministro o vari parlamentari ritengano di poter sindacare il merito e le motivazioni delle decisioni di una Corte d'Appello". L'ex procuratore di Torino Armando Spataro "rivede" il film del caso Uss e su quelle parole di Giorgia Meloni - "le anomalie" della vicenda - parte l'intervista con Repubblica perché "un conto è il legittimo diritto di critica, altro è ipotizzare colpe dei giudici, a rischio di scatenare il furor di popolo". 

Nessun dubbio sui suoi colleghi?

"L'episodio, piuttosto, dovrebbe far riflettere tutti sull'infondatezza della tesi secondo cui i giudici si conformerebbero sempre alla linea dei pm, sicché sarebbe necessario separarne le carriere. In questo caso, il Procuratore generale aveva chiesto il carcere, ma la Corte ha scelto gli arresti domiciliari con sorveglianza elettronica" 

Meloni li accusa proprio di questo, "domiciliari con motivazioni discutibili" con l'estradizione in corso e "il rischio di fuga".

"[…] Dopo l'arresto del 17 ottobre e il primo periodo di detenzione in carcere, la Corte d'Appello, il 25 novembre, ha sostituito la misura con gli arresti domiciliari, smentendo alcuni fatti dati per certi: Artem Uss non stava affatto fuggendo quando è stato fermato a Malpensa, ma si apprestava a raggiungere il figlio minore a Mosca. Inoltre, aveva ormai stabile dimora a Basiglio con la famiglia, dopo aver concentrato nel nostro Paese i suoi interessi economici tra cui investimenti immobiliari".

Quindi il braccialetto era una misura sufficiente?

"La Corte ha deliberato che gli fosse applicato, che non avesse contatti personali, telefonici o elettronici con altre persone e che della sorveglianza su tutti gli obblighi imposti fosse incaricata la stazione dei carabinieri di Basiglio. Provvedimento ineccepibile, tanto che il ministro Nordio, al pari del Pg, non lo ha impugnato come avrebbe potuto, ma anzi ha tranquillizzato gli americani sul fatto che la misura applicata garantiva la sicurezza detentiva. 

E sia ben chiaro che, al di là del fatto che Uss si era comportato in modo ineccepibile per oltre tre mesi, la Corte d'Appello, che ha concesso l'estradizione solo per due dei quattro reati contestatigli, non avrebbe potuto ordinare d'ufficio il ritorno in carcere senza una richiesta del ministro o della Procura Generale. Quanto ai controlli, se Uss era una spia, avrebbero potuto in parte occuparsene anche le Agenzie d'informazione. Ma ho letto che non sarebbero mai state al corrente della situazione, il che non depone per l'efficienza del nostro sistema di sicurezza". 

Nordio ha promosso un'ispezione. Ma le scelte dei giudici possono essere contestate disciplinarmente e provocare una "punizione"?

"Assolutamente no, se sono scelte che, pur discrezionali, rispettano la legge. Per essere più chiari, il codice disciplinare in vigore, nel prevedere i doveri dei magistrati e  oltre 25 ipotesi di illeciti commessi nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, come la grave violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile, afferma in modo insuperabile che "l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare". Una scelta diversa sarebbe folle e darebbe luogo a violazioni costituzionali". 

[…] 

Il presidente della Corte d'Appello Ondei sostiene che a Milano non è mai giunta la lettera degli Usa. Nordio dice di averla mandata. Un simile disguido è possibile?

"È accertato che il ministro ha inizialmente inviato all'autorità giudiziaria solo la sua rassicurante risposta agli Usa e che solo su istanza del difensore di Uss, accolta dalla Corte, è stata inviata la lettera degli americani, mai accompagnata, però, da una richiesta di custodia in carcere da parte del ministro. Ma ciò non integra un disguido significativo, perché certo le mere aspettative americane, come di qualsiasi Paese, non potevano avere rilevanza ai fini della decisione". 

[…]

Nordio, sollecitato dagli Usa, sarebbe potuto intervenire con una sorta di diktat, tecnico o politico che fosse, per imporre la detenzione in cella?

"Per quanto negli Usa il rapporto tra giustizia e politica non è certo uguale al nostro che esalta l'indipendenza della magistratura, nessun diktat del genere sarebbe possibile, anche se ad alcuni cultori di abnormi riforme del nostro sistema piacerebbe una tale possibilità". 

Una richiesta di Nordio avrebbe potuto riportare Uss in carcere solo grazie alla sua sola firma?

"Assolutamente no. Il ministro non avrebbe potuto disporre lui il carcere, ma solo chiedere ai giudici di disporlo. Anche quando arresti in flagranza e fermi vengono effettuati dalla forze di polizia giudiziaria occorre sempre la convalida di un giudice che può anche disattendere le richieste dei pm".

Ammetterà però che dopo anni di ossessiva propaganda a favore del braccialetto questo caso ne rivela tutta l'effimera debolezza come misura coercitiva.

"Quello che ho letto o sentito in questi giorni è frutto di equivoci e disinformazione. Gli Usa avrebbero lamentato che, prima del caso Uss, in altri sei casi vi sarebbero state in Italia simili fughe di estradandi. Sembra che il problema riguardi solo costoro. Gli arresti domiciliari, in realtà, costituiscono - braccialetto elettronico o meno - una misura detentiva meno sicura del carcere, ma è prevista dal nostro ordinamento in presenza di minori esigenze cautelari e di minore gravità dei reati per cui è disposta. […]"

Per il caso Abu Omar lei è espertissimo di rapporti con gli Usa. I suoi sono stati difficili. Loro possono pretendere, dalla nostra giurisdizione, che un detenuto stia chiuso in carcere?

"Le due vicende sembrano unite, quanto alla reazione politica italiana, da una comune caratteristica, quella di non deludere gli americani, i quali sono evidentemente ancora convinti del fondamento della teoria dell'Esecutivo unificato che tutto decide e dispone: era il pensiero di Dick Cheney, vice presidente Usa durante l'amministrazione di George W. Bush. Ma, purtroppo per chi la pensa diversamente, la nostra magistratura è un potere costituzionale e non riceve ordini dagli altri due". [..]

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis e Fabio Tonacci per repubblica.it il 17 aprile 2023. 

A giudicare dalla libertà di cui Artem Uss ha potuto godere durante i domiciliari, la domanda da porsi non è tanto come abbia fatto a scappare, piuttosto perché ha aspettato tanto a farlo. 

Al russo ricercato dagli Stati Uniti sono stati lasciati i telefoni, l'accesso a Internet, la possibilità di incontrare persone, di movimentare denaro, di ospitare per un mese la sorella nella casa di lusso di Basiglio affittata dalla moglie e individuata dalla Corte d'Appello di Milano come luogo di detenzione.

Tre mesi e venti giorni di arresto dorato fino al 22 marzo scorso quando, saputo che l'avrebbero estradato, Uss ha spaccato il braccialetto elettronico, si è fatto venire a prendere in macchina e portare in Slovenia. 

Dunque, a conti fatti e con Uss a Mosca, suona imbarazzante la risposta che il ministro Carlo Nordio a dicembre ha dato al dipartimento di Giustizia americano che aveva scritto al governo italiano segnalando "l'altissimo pericolo di fuga" ed esprimendo perplessità sulla decisione della Corte. "Nell'ordinamento italiano la misura cautelare degli arresti domiciliari - che nel caso di Artem è resa più sicura dal braccialetto elettronico - è in tutto equiparata al carcere", sostenne Nordio. 

Non risulta però che in carcere i reclusi possano utilizzare il servizio di videochiamata Teams come faceva Uss […]. Il 40enne parlava non solo con gli avvocati, russi e americani, […] ma anche con il padre Alexander, governatore della regione siberiana di Krasnojarsk ed esponente di Russia Unita, il partito di Putin. […] 

Uss ha inoltre avuto a disposizione i suoi telefoni e le sue carte di credito per oltre tre mesi. Nonostante una prima richiesta di sequestro da parte Usa, al momento del fermo a Malpensa a Uss non vengono sequestrati né i due cellulari, né le carte che aveva con sé.

Il 2 dicembre, quando viene scarcerato e trasferito nell'appartamento di Basiglio, tutto gli viene restituito. Sarà solo dopo una rogatoria degli americani che gli verranno tolti, il 13 marzo. Su questa strana tempistica la procura generale ha chiesto lumi ai colleghi della procura, anche perché dopo il 13 marzo, pare che Uss abbia continuato a usare un cellulare. 

Dall'indagine sulla fuga condotta dai carabinieri emerge poi che quel "radicamento in Italia" alla base del provvedimento della Corte d'Appello sia più di forma che di sostanza. Artem Uss non ha mai vissuto nel nostro Paese. Nel giugno 2022 la moglie Maria Yagodina ha acquistato in regime di comunione dei beni l'appartamento di Basiglio come prima casa, dichiarando di trasferire entro 18 mesi la residenza nello stesso Comune. Al momento della richiesta di domiciliari, la casa era ancora in ristrutturazione e gli avvocati Vinicio Nardo e Fabio De Matteis hanno informato i giudici che Yagodina aveva affittato un'altra casa nello stesso complesso immobiliare, in via Cascina Vione. In realtà la presenza dell'imprenditore russo in Italia sarebbe stata limitata negli ultimi anni a pochi viaggi di una settimana o poco più. La moglie, ancora meno di lui.

Francesco Grignetti e Ilario Lombardo per “La Stampa” il 17 aprile 2023.

Chi è davvero Artem Uss, l'imprenditore fuggito dai domiciliari italiani mentre era in attesa di estradizione negli Usa? Una spia dei russi […] oppure è semplicemente un criminale di alto bordo […]? 

È uno dei nodi di fondo. E la risposta è che Artem Uss – almeno a quanto risulta finora – non è un agente segreto. Due diverse fonti di intelligence confermano quanto detto dalla premier due giorni fa in Etiopia: l'intelligence americana non ha mai interessato gli 007 italiani perché, banalmente, Uss ai loro occhi non era «un target».

Certo, nel pieno di una guerra, ogni aiuto sottobanco può essere considerato degno di attenzione dai servizi segreti occidentali. Tanto più se la persona da tenere sotto osservazione è un russo incriminato negli Usa, durante i mesi in cui il Cremlino scatena l'inferno in Ucraina. 

[…] Qui va chiarito un punto. Se il governo italiano era stato informato presso il ministero della Giustizia, com'è possibile che le notizie giunte da oltreoceano riguardassero solo un reato limitato, e per giunta minore rispetto agli altri, come la frode fiscale?

Ripercorrendo le ricostruzioni di questi giorni, infatti, non è così. Il ministero e dunque i magistrati conoscevano i reati per i quali gli americani volevano giudicare in patria Uss. In realtà, quello di Meloni è il tentativo di difendere gli apparati di intelligence che riferiscono direttamente a Palazzo Chigi, a due persone che considera di estrema fiducia, come la direttrice del Dis – dipartimento che coordina gli 007 – Elisabetta Belloni, e il sottosegretario che è anche Autorità delegata sui servizi, Alfredo Mantovano. 

Giovedì scorso siedono entrambi accanto a Meloni, quando la premier parla al Copasir, il comitato di controllo parlamentare sull'intelligence. È lì che matura la linea difensiva del governo, sintetizzata in una frase che però non sarebbe mai stata pronunciata in quella sede – «La colpa è di un altro organo dello Stato» –, e riportata dall'Agi, agenzia il cui ex direttore è l'attuale capo ufficio stampa della premier Mario Sechi.

Sta di fatto che 48 ore dopo, in Etiopia, Meloni ribadisce il concetto, con parole diverse. A suo avviso «l'anomalia principale» va ricercata nella decisione della Corte d'Appello di Milano che ha mantenuto il faccendiere ai domiciliari. Nella giornata di sabato, però, […] ormai anche Meloni sa che era nei poteri del ministro della Giustizia […] imporre il carcere dopo la segnalazione dagli Usa. Per questo, aggiunge, presto vedrà Carlo Nordio, per «approfondire la vicenda e capire meglio». 

Nel rimpallo di responsabilità c'è così un terzo attore di cui va tenuto conto, ed è l'intelligence. Gli 007 non ci stanno a finire sul banco dei sospetti. L'Fbi – è la spiegazione offerta dalle nostre fonti – nel momento in cui si è rapportato agli italiani, per il tramite del loro ministero della Giustizia, operava come forza di polizia. […] Fuori dagli Usa a fare intelligence è la Cia che nel caso Uss non c'entra.

In verità tutti gli atti portano ad altro. C'era il rinvio a giudizio a opera del Gran Giurì Federale degli Stati Uniti. C'era un mandato di cattura internazionale che la polizia italiana ha eseguito a ottobre, mentre Uss tentava di raggiungere Istanbul. Il percorso, insomma, era quello classico della cooperazione giudiziaria. Ed è qui che qualcosa s'è inceppato. 

L'attaché legale dell'ambasciata americana s'è dannato per avvertire il ministero della Giustizia che Uss sarebbe scappato se lo mandavano ai domiciliari. C'è una sua nota inviata a Via Arenula del 29 novembre esplicita, e ultimativa nei toni. «Ai sensi del codice di procedura penale italiano – scriveva – le misure coercitive devono tenere conto delle esigenze di garantire che la persona della quale è domandata l'estradizione non si sottragga all'eventuale consegna». La nota è arrivata ai magistrati tre settimane dopo, e il ministro non ha disposto alcunché.

 Da “la Stampa” il 17 aprile 2023. 

Dagli Stati Uniti sono arrivati due avvertimenti a non concedere gli arresti domiciliari a Artem Uss. La prima nota è del 19 ottobre e non viene tenuta in alcuna considerazione. Dagli Stati Uniti, quindi, decidono di inviare una seconda lettera, questa volta firmata da un funzionario dell'ambasciata americana e indirizzata a Gianfranco Criscione, direttore della Cooperazione giudiziaria del ministero della Giustizia. Non solo si ripete la richiesta, ma si ricordano a via Arenula i sei precedenti negli ultimi tre anni di detenuti arrestati in Italia e scappati dai domiciliari in attesa dell'estradizione negli Stati Uniti. Nonostante gli appelli, Uss diventerà il settimo.

Estratto dell’articolo di Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 17 aprile 2023.

Secondo le carte dell’inchiesta americana riassunte nell’«atto d’accusa» contro Artem Uss e il suo socio russo, Yuri Orekhov, Uss e il socio (proprietari al 50% ciascuno della società NDA GmbH, con sede in Germania, ad Amburgo), utilizzavano la società – tra le tante attività illegali, tra le quali c’era anche far arrivare in Russia tecnologia militare sotto sanzioni, come semiconduttori, radar, satelliti – per spedire milioni di barili di petrolio dal Venezuela ad acquirenti in Russia e Cina, collaborando con altri due imputati, Juan Fernando Serrano e Juan Carlos Soto, due trader assai spregiudicati che mediavano gli accordi con la compagnia petrolifera statale venezuelana PDVSA, su cui gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni già nel 2019.

Tuttavia nelle intercettazioni contenute nell’inchiesta americana, emerge che la società di Uss era a sua volta collegata a un gigante dell’alluminio di stato della Russia, una società che non viene nominata ma sembra corrispondere […] a quella dell’oligarca Oleg Deripaska, uno dei più grandi oligarchi a cavallo tra affari, Cremlino e, secondo diverse accuse americane, malavita russa e servizi. 

In uno degli scambi di messaggi intercettati, il 4 dicembre 2021, Orekhov (il socio di Uss, che tiene Uss informato passo passo) scriva a “Juanfe” Serrano (il trader) «questa è la nostra società madre», e gli posta il link al sito della società di alluminio russa e un link alla pagina Wikipedia di quello che nelle carte viene chiamato “l’Oligarca”.

Orekhov dice: «Anche lui (“l’Oligarca”) è sotto sanzioni. Ecco perché noi stiamo agendo attraverso questa società [NDA GmbH]. Come front». E Serrano risponde: «Anche il mio partner, ah ah ah… È molto vicino al governo. È una delle persone più influenti in Venezuela. Vicinissimo al vicepresidente». 

E gira a sua volta il link di un avvocato e uomo d’affari venezuelano ricercato dagli americani per corruzione internazionale e riciclaggio. Più tardi, Orekhov e Serrano trattano un contratto da un milione di barili di petrolio al mese, e chiariscono che «con la società di alluminio è un contratto annuale, ogni mese, ogni mese… Stabile, di sicuro». 

Nelle carte ufficiali, gli Usa non scrivono chi sia “l’Oligarca”. ma sanno chi è, e ne scrivono l’identikit davvero molto preciso: le carte dicono testualmente che la società dell’alluminio «è stata sottoposta a sanzioni statunitensi il 6 aprile 2018 e il 27 gennaio 2019. Cosa che coincide perfettamente con le due date in cui è stata sanzionata la società russa di alluminio Rusal. I commerci illegali, secondo gli americani, sono continuati anche dopo l’aggressione russa all’Ucraina. 

[…] Uss e Orekhov parlano apertamente dell’Oligarca. Orekhov ha dei dubbi se continuare apertamente a trattare affari con la Russia dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina. Il 30 marzo del 2022, discutendo apertamente dei loro affari illegali con la società di alluminio della Russia, Uss scrive a Orekhov: «Se dici seriamente… Incontrerò [e Uss scrive le iniziali dell’Oligarca] quando torno a Mosca… e gli comunicherò personalmente il tuo desiderio di saldare tutti i debiti… se non vuoi lavorare con la Russia ora e è davvero tossico, allora non ci lavorare. Seguirò da vicino questa vicenda». 

È come se, nella piramide, Orekhov riferisca a Uss, che a sua volta riferisce all’Oligarca. E non è chiaro se le parole di Uss abbiano sapore rassicurante o minaccioso per Orekhov – se parliamo di Deripaska, gli americani sono convinti sia uno snodo tra affari, servizi russi e criminalità organizzata – fatto sta che i traffici del tandem Uss-Orekhov continuano, e Orekhov alla fine non si tira indietro affatto. Anzi.

Trasferiscono petrolio venezuelano illegale non solo alla Russia, ma anche alla Cina, dalla società venezuelana (PDVSA) a una società cinese a Hong Kong, non nominata nelle carte, ma che gli americani conoscono. Ai cinesi mandano petrolio Boscan (un particolare tipo di greggio). 

[…]  Vengono a volte usate criptomonete per nascondere i soldi. O altre volte banche opache (viene citata la “Melissa Bank”, degli Emirati), o altre a Panama. Pronte a riversare contati anche il giorno dopo un trasferimento milionario. Uss faceva tutto questo dall’Italia, viaggiando spesso a Istanbul. Orekhov dalla Germania.

Ma anche da altre parti si arriva all’Italia, Dettagli interessanti riguardano il trader spagnolo Serrano. Si occupa, secondo i documenti americani che abbiamo letto, oltre che di mediare servizi coi venezuelano, o col Medio Oriente, anche di fornire i «portafogli» in criptomonete (con pagamenti, ripetiamo, a botte di milioni). 

Serrano ha una società, che nelle carte americane non è nominata ma si dice che è una società con sedi in Emirati Arabi, Spagna e indovinate dove? In Italia, ovviamente. Secondo quanto risulta a La Stampa, al nome Juan Fernando serrano Ponce, risulta in Italia solo una srl che fornisce servizi, si trova a Bergamo, e è stata messa in liquidazione (al telefono listato nei documenti della società non risponde nessuno).

Abbastanza difficile pensare che di tutte queste ricorrenze “italiane”, i poteri dello stato italiano – che adesso fanno a scaricabarile sulla fuga di Artem Uss - non sapessero niente.

«Uss è un faccendiere, non una spia». La Cia non allertò i servizi italiani. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 18 aprile 2023

L’uomo d’affari trafficava in tecnologie militari destinate all’esercito di Putin anche per la guerra in Ucraina. Ma per Langley non c’erano rischi di sicurezza nazionale. Gli Usa critici per la concessione dei domiciliari.

Lo scontro è tra il ministro Carlo Nordio e i giudici che hanno autorizzato gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico per Uss, il quale due giorni dopo la sentenza sul via libera all’estrazione negli Stati Uniti per essere processato, è fuggito dall’abitazione di Basiglio, nel Milanese, manomettendo il dispositivo di controllo.

Nell’indagine condotta dall’Fbi su Uss un capitolo è dedicato all’esportazione di tecnologia militare in Russia e il suo utilizzo nella guerra in Ucraina.

In teoria lo scenario in cui si muove il cittadino russo Artem Uss è di estrema pericolosità per la sicurezza nazionale non solo americana. Soprattutto perché al di là delle frodi e del contrabbando di petrolio con il Venezuela, nell’atto di incriminazione del dipartimento di giustizia americano è ricostruito nei dettagli il traffico di tecnologia militare destinato alla Russia e usato nella guerra in Ucraina.

Materia che avrebbe dovuto allertare le intelligence europee, incluso quella italiana. Eppure i nostri 007 nulla sapevano. Il motivo è semplice: per la Cia Uss, spiegano fonti autorevoli dell’intelligence, «non è mai stato una spia», ma “solo” «un faccendiere incriminato dall’Fbi»: dunque trattato non come un problema di sicurezza nazionale ma un semplice delinquente, e perciò mai segnalato ai servizi segreti italiani.

Chi ha commesso l’errore fatale sul caso di Uss? Chi ha sottovalutato il ruolo e la caratura del cittadino russo, figlio del potente governatore di Krasnoyarsk in Siberia, legatissimo alla cerchia più stretta di Vladimir Putin? Il rimpallo di responsabilità per ora è tra ministero della giustizia e corte d’Appello di Milano, con la procura generale nel mezzo, l’unica ad aver sostenuto con forza la necessità di mantenere la custodia in carcere fino all’estradizione negli Stati Uniti proprio per le relazioni estese ai massimi livelli di Uss.

Lo scontro è tra il ministro Carlo Nordio e i giudici che hanno autorizzato gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico per Uss, il quale due giorni dopo la sentenza sul via libera all’estrazione negli Stati Uniti per essere processato, è fuggito dall’abitazione di Basiglio, nel Milanese, manomettendo il dispositivo di controllo.

Sullo sfondo di questo scaricabarile istituzionale, che imbarazzo il governo di Giorgia Meloni, sempre molto attenta a non deludere gli alleati di Washington, sta emergendo però un clamoroso cortocircuito sulla gestione da parte americana del caso Uss. Gli Stati Uniti (e in particolare l’Fbi) sono molto adirati per la fuga del cittadino russo. Avevano scritto al ministro Nordio, che aveva risposto spiegando che il braccialetto elettronico configura comunque una detenzione.

L’esito ha dato ragione agli Usa, che non hanno digerito quello che loro vedono come una gestione dilettantesca della nostra burocrazia e del nostro sistema. In questo caso però la competenza è passata attraverso più poteri dello stato, giudiziario e esecutivo, autonomi e indipendenti l’uno dall’altro. 

UN BUCO NELL’INTELLIGENCE

È un fatto però che l’intelligence italiana, in tutte le sue articolazioni, nulla sapeva del potenziale pericolo rappresentato da Uss per la sicurezza nazionale. Non per colpa loro. Ma perché non erano stati messi al corrente dagli omologhi della Cia della caratura criminale del cittadino russo incriminato a New York, arrestato a Malpensa il 20 ottobre ed evaso dai domiciliari per rientrare in Russia il 22 marzo, due giorni dopo la decisione con cui i giudici di Milano accordavano al dipartimento di giustizia statunitense l’estradizione.

La Cia non ha, dunque, segnalato Uss come target agli apparati italiani, questo è certo, confermano più fonti qualificate. Né l’Fbi poteva farlo, perché è una struttura che ha poteri di controspionaggio solo in patria, ma non fuori dai confini nazionali, competenza esclusiva della Cia. Di fronte a obiettivo di interesse sul territorio italiano, l’agenzia americana è sempre molto solerte nel coinvolgere l’intelligence alleata. Nel caso Uss non è mai arrivata alcuna comunicazione, nessun alert, neppure dopo l’evasione di Uss, riferiscono più fonti dell’intelligence.

Possibile che sia sfuggito un bersaglio così grosso alla Cia? Dell’assenza di comunicazioni da parte dell’intelligence americana è certo anche il Copasir, il comitato che vigila sull’attività dei servizi segreti. Nessuna evidenza, nessuna segnalazione.

Anche perché se fosse esistito uno scambio informativo chi di dovere, in questo caso l’Aisi (Agenzia per la sicurezza interna, ndr), avrebbe predisposto un’operazione di monitoraggio sul target e per il russo sarebbe stato impossibile lasciare il paese. Invece né prima né dopo l’evasione gli 007 italiani hanno avuto informazioni privilegiati dalla Cia.

Anche sulla fuga sono state dette e scritte molte cose sul ruolo di spie russe che avrebbero agevolato Uss nella fuga. Tuttavia, da quanto risulta a Domani, ai nostri servizi non hanno alcuna evidenza su un commando di spioni di Putin nell’esfiltrazione del figlio del governatore siberiano.

LA GUERRA IN UCRAINA

Nell’indagine condotta dall’Fbi su Uss un capitolo è dedicato all’esportazione di tecnologia militare in Russia e il suo utilizzo nella guerra in Ucraina. Tra i capi di imputazione contestati dalla corte del distretto est di New York uno in particolare riguarda l’esportazione illegale di tecnologia militare per milioni di dollari verso la Russia.

«Questi articoli includevano semiconduttori avanzati e microprocessori utilizzati negli aerei da combattimento, sistemi missilistici, munizioni intelligenti, radar, satelliti e altre applicazioni militari spaziali. Componenti fabbricati da diverse società statunitensi sono stati trovati in sequestri di piattaforme di armi russe in Ucraina», è scritto nell’atto di incriminazione.

Può sembrare incredibile che business di questa portata, peraltro con la guerra in corso e le minacce di Putin contro l’Occidente, sia stato trattato solo come materia giudiziaria e non di intelligence dalla Cia. Ma così è andata, da quanto risulta dalle conferme ottenute da Domani. La profezia dell’uomo d’affari Uss si è, dunque, realizzata, quando intercettato scherzava con il socio russo: «Vuoi essere un fuggitivo internazionale?», diceva ironico il figlio del potente governatore, «Vorresti? Posso organizzarmi molto facilmente», rispondeva il compagno di traffici.

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per “la Repubblica” il 15 aprile 2023

"Prima chiediamo ai giudici di considerare il carcere come estrema possibilità. Poi accade l’evasione, che purtroppo è accaduta, e siamo pronti a dire che è colpa loro, che hanno sbagliato i giudici. Ma così non va". In più, ragiona con Repubblica Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, emerge un paradosso dal caso Uss. "Da quella parte politica non si accusano spesso i magistrati di ricorrere troppo alle catture, e alle celle dei penitenziari?". Un velo di ironia. "Stavolta ci si accusa del contrario. Ma mi pare che, in ogni caso, il ministro della Giustizia conoscesse il caso, in tutti i suoi vari passaggi".

Presidente Santalucia, stiamo dicendo che sul caso di Artem Uss c’è uno scaricabarile da parte del ministro Nordio o della struttura di via Arenula?

"Metto i fatti in fila. Vedo un po’ una caccia al colpevole. E noto una sottile contraddizione, ecco, mettiamola così".

[...] Facile scaricare ora sui magistrati?

"Si dice: il potere e la discrezionalità sono dei giudici. Vero. Ma quel potere viene esercitato osservando le regole, applicando le norme". [...]

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 15 aprile 2023

 Quella di Artem Uss è la storia di una fuga. Di una lunga catena di errori e di sottovalutazioni. Ma anche di una indiavolata ricerca […] di un capro espiatorio. Il più possibile lontano dal Governo. [...]

 Il cerchio ristretto di Meloni capisce che la situazione è politicamente sfuggita di mano all’inizio di aprile, un paio di settimane dopo la fuga del russo. Nei giorni precedenti gli Stati Uniti, utilizzando i tradizionali canali diplomatici, hanno segnalato al governo italiano l’irritazione per quanto accaduto, ricevendo però, come riscontro, solo il silenzio.

 Fino a quel momento infatti nessuno ha veramente aperto “il dossier Uss”, né con la presidente del consiglio né tantomeno con l’Autorità delegata, Alfredo Mantovano. [...]

L’oligarca, per i nostri apparati, era [...] poco più di un detenuto qualsiasi. «L’Italia, nonostante gli sforzi della premier, è comunque un’osservata speciale visto il rapporto di alcuni partiti della maggioranza con la Russia», ragiona una fonte di intelligence. «La vicenda ha spinto qualcuno a farsi qualche domanda: c’è stato davvero un errore o invece qualcuno ha voluto fare un favore alla Russia di Putin?».

 È a questo punto che a Palazzo Chigi è scattato l’allarme: non si può dare nemmeno la percezione [...] che l’Italia possa subire l’influenza di Mosca, soprattutto in un momento in cui la premier fa del rapporto con gli Stati Uniti il principale asset della sua politica internazionale.

[…] Il Governo, comunque, ha la possibilità di esplicitare la propria posizione il 4 aprile, quando il Copasir, allertato dall’eco internazionale del caso, chiede spiegazioni all’esecutivo. All’ufficio di presidenza del Comitato parlamentare arrivano tre lettere. La prima porta la firma di Mantovano. Il sottosegretario riferisce che l’intelligence non ha avuto alcun ruolo nella partita: Uss non è una spia, dice, non c’era nessun fascicolo su di lui e nessuno da Washington ha chiesto l’intervento dei nostri agenti. Dunque: servizi segreti incolpevoli.

 Dall’Interno scrive anche il ministro Matteo Piantedosi. Il Viminale ricostruisce i controlli effettuati dai carabinieri presso il domicilio di Uss, sottolineando che nessun sistema di sorveglianza speciale è stato organizzata perché nessuna richiesta in questo senso era arrivata dal Tribunale. Dunque: forze di polizia incolpevoli.

 La terza lettera è firmata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Riporta correttamente la corrispondenza avuta con gli Usa, informa il Copasir di averla trasmessa alla Corte di Appello di Milano per sensibilizzarla delle preoccupazioni del Paese che ha chiesto l’estradizione, ma, spiega, quell’invito non è stato raccolto. Perciò è stato costretto a predisporre un’indagine interna. Dunque: ministero assolto e magistrati sotto accusa.

Una posizione che, secondo alcune fonti, davanti al Copasir avrebbe dovuto sostenere anche la premier nell’audizione successiva. Cosa che invece non fa. [...] Al termine dell’audizione, l’Agi (il cui ex direttore è il portavoce della Meloni, Mario Sechi) batte però questa dichiarazione, attribuita alla premier: «L’evasione di Uss non è stata colpa del Governo, ma di un altro organo dello Stato». Il riferimento, chiaramente, è alla magistratura. [...]

Corte Milano,Nordio non ci inviò nota Usa su Uss ma risposta. (ANSA il 15 aprile 2023) - Il ministro Carlo Nordio non inviò alla Corte d'appello di Milano la nota del Dipartimento Usa della Giustizia che chiedeva di far tornare in carcere Artem Uss, a cui erano stati concessi i domiciliari. Ai giudici il Guardasigilli si limitò a girare il 9 dicembre la risposta che lui stesso aveva dato a quella nota 3 giorni prima con cui spiegava che la competenza a decidere sul carcere è dell'autorità giudiziaria e che la misura degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, è equiparabile alla custodia in carcere. E' quanto emerge dalla relazione inviata dalla Corte al ministero.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 15 aprile 2023

«Questo ministero rappresenta che nell’ordinamento giuridico italiano la misura cautelare degli arresti domiciliari, che nel caso di Artem Uss è resa più sicura dall’applicazione del braccialetto elettronico, è in tutto equiparata alla misura della custodia in carcere».

 La risposta, che attraverso «accertamenti ispettivi» sui giudici milanesi il ministero della Giustizia va cercando sul perché il 40enne uomo d’affari russo (accusato dagli americani di contrabbandare petrolio e tecnologie) fosse rimasto nella sua villa di Basiglio agli arresti domiciliari concessigli dalla Corte d’Appello di Milano il 25 novembre 2022, dopo quasi 40 giorni nel carcere di Busto Arsizio dal 17 ottobre, sta in un documento che il ministero della Giustizia è immaginabile conosca bene perché ne fu l’autore: la lettera di risposta il 6 dicembre 2022 alle doglianze con le quali il 29 novembre il dipartimento di Giustizia statunitense aveva «esortato le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili» per evitare «l’altissimo rischio di fuga di Uss»: poi davvero evaso dai domiciliari il 22 marzo all’indomani del primo via libera in Appello all’estradizione, banalmente staccando dalla piattaforma wi-fi il braccialetto elettronico e portandoselo via nella fuga organizzatagli dai favoreggiatori in auto verso Slovenia e Serbia, e da qui in Russia.

 La rassicurazione fu data dal ministero anche se gli americani nella loro lettera avevano elencato «negli ultimi tre anni sei casi di latitanti fuggiti dall’Italia mentre era in corso una richiesta di estradizione negli Stati Uniti» […].

[…] Del resto, mentre per legge la Corte d’Appello avrebbe potuto autonomamente ripristinare il carcere solo in caso di violazioni da parte di Uss, a chiederle di rimetterlo in carcere avrebbero potuto essere sia la Procura generale, sia il ministero, che aveva chiesto il carcere all’inizio il 19 ottobre quando Uss già vi si trovava, e al quale l’articolo 714 del codice di procedura conferisce questa facoltà «in ogni tempo» del procedimento: ma neanche il ministero ritenne di chiedere ai giudici di far tornare Uss dai domiciliari al carcere.

E se è intanto evidente che in generale andrà meglio tarato l’utilizzo dei braccialetti elettronici […], da capire resta anche la ragione per cui cellulari e computer di Uss, di cui gli americani sin da ottobre 2022 chiedevano all’Italia il sequestro insieme al suo arresto a Malpensa, non siano stati sequestrati dalla polizia operante all’aeroporto, ma solo il 13 marzo 2023 dalla Procura della Repubblica di Milano, alla quale ora chiede lumi la Procura generale.  […]

Evasione di Artem Uss, il ministero disse agli Usa: «Il braccialetto sicuro come il carcere». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

La lettera al dipartimento di Giustizia è del 6 dicembre. Il cellulare sequestrato solo il 13 marzo

«Questo ministero rappresenta che nell’ordinamento giuridico italiano la misura cautelare degli arresti domiciliari, che nel caso di Artem Uss è resa più sicura dall’applicazione del braccialetto elettronico, è in tutto equiparata alla misura della custodia in carcere». La risposta, che attraverso «accertamenti ispettivi» sui giudici milanesi il ministero della Giustizia va cercando sul perché il 40enne uomo d’affari russo (accusato dagli americani di contrabbandare petrolio e tecnologie) fosse rimasto nella sua villa di Basiglio agli arresti domiciliari concessigli dalla Corte d’Appello di Milano il 25 novembre 2022, dopo quasi 40 giorni nel carcere di Busto Arsizio dal 17 ottobre, sta in un documento che il ministero della Giustizia è immaginabile conosca bene perché ne fu l’autore: la lettera di risposta il 6 dicembre 2022 alle doglianze con le quali il 29 novembre il dipartimento di Giustizia statunitense aveva «esortato le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili» per evitare «l’altissimo rischio di fuga di Uss»: poi davvero evaso dai domiciliari il 22 marzo all’indomani del primo via libera in Appello all’estradizione, banalmente staccando dalla piattaforma wi-fi il braccialetto elettronico e portandoselo via nella fuga organizzatagli dai favoreggiatori in auto verso Slovenia e Serbia, e da qui in Russia. 

La rassicurazione fu data dal ministero anche se gli americani nella loro lettera avevano elencato «negli ultimi tre anni sei casi di latitanti fuggiti dall’Italia mentre era in corso una richiesta di estradizione negli Stati Uniti»: una spagnola giudicata dalla Corte d’Appello di Firenze, un greco da magistrati di Venezia, un tedesco da giudici di Trento, un americano da toghe di Genova, un nigeriano e una svizzera a Milano. E già in udienza il 9 novembre 2022 il sostituto procuratore generale milanese Giulio Benedetti nel parere contrario agli arresti domiciliari aveva evocato come «l’anno passato», allorché una persona richiesta dagli Usa era appunto evasa dai domiciliari, «la sottoposizione al braccialetto elettronico non ha costituito un impedimento per l’illegittimo allontanamento». 

Peraltro le procedure estradizionali sono sempre molto lunghe, sicché non di rado pesa la prospettiva di tenere in carcere molti mesi una persona in vista di decisioni che infine potrebbero magari negare l’estradizione e così determinare una ingiusta detenzione da risarcire. Del resto, mentre per legge la Corte d’Appello avrebbe potuto autonomamente ripristinare il carcere solo in caso di violazioni da parte di Uss, a chiederle di rimetterlo in carcere avrebbero potuto essere sia la Procura generale, sia il ministero, che aveva chiesto il carcere all’inizio il 19 ottobre quando Uss già vi si trovava, e al quale l’articolo 714 del codice di procedura conferisce questa facoltà «in ogni tempo» del procedimento: ma neanche il ministero ritenne di chiedere ai giudici di far tornare Uss dai domiciliari al carcere. 

E se è intanto evidente che in generale andrà meglio tarato l’utilizzo dei braccialetti elettronici (da cui di recente a Milano era scappato anche un killer di ‘ndrangheta), da capire resta anche la ragione per cui cellulari e computer di Uss, di cui gli americani sin da ottobre 2022 chiedevano all’Italia il sequestro insieme al suo arresto a Malpensa, non siano stati sequestrati dalla polizia operante all’aeroporto, ma solo il 13 marzo 2023 dalla Procura della Repubblica di Milano, alla quale ora chiede lumi la Procura generale. Gli americani risollecitarono la questione intorno al 20 febbraio, l’ufficio affari internazionali del procuratore Fabio De Pasquale chiese a fine mese gli atti per capire se e dove fosse stato eseguito il sequestro, ai primi di marzo ebbe gli atti e quindi la certezza che non c’era mai stato sequestro, e il 13 marzo mandò la GdF a eseguirlo a casa di Uss.

(askanews il 14 aprile 2023) - La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha lasciato palazzo San Macuto al termine dell'audizione al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), durata oltre due ore.

 All' audizione hanno partecipato anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi Alfredo Mantovano e la Direttrice generale del Dis Elisabetta Belloni. Meloni sta rientrando a Palazzo Chigi per incontrare per un saluto il presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani.Poi, alle 19, la premier incontrerà il commissario Ue al mercato interno Thierry Breton.

(AGI il 14 aprile 2023) - "Non e' stata colpa del Governo, ma di un altro organo dello Stato". Lo avrebbe affermato la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Copasir sull'evasione di Artem Uss, l'uomo di affari russo che era ai domiciliari a Basiglio. La linea di Meloni e' stata riferita da diversi esponenti del Copasir.

 Secondo quanto ricostruito dalla procura di Milano, Uss e' riuscito a lasciare l'Italia in poche ore in macchina il 22 marzo, cambiando piu' auto e con documenti falsi, attraverso il confine triestino ed e' entrato in Slovenia. Da li' e' arrivato in Serbia, da dove avrebbe preso un volo per la Russia.

 Investigatori e inquirenti hanno appurato che il 40enne, figlio del governatore di una regione siberiana molto vicino a Putin, sarebbe stato aiutato nell'evasione da un gruppo operativo composto da meno di dieci persone, pare 6 o 7 in tutto, dell'Est Europa, alcune gia' indagate e altre da identificare. La procura sta indagando pure su un "secondo livello", probabilmente uomini dei servizi segreti russi, che avrebbero organizzato il blitz.

 Primi indagati nell'inchiesta sull'evasione di Artem Uss, l'uomo d'affari russo evaso dai domiciliari a Basiglio, il 22 marzo, il giorno dopo che la Corte d'Appello aveva dato il via libera alla sua estradizione negli Usa. Secondo quanto ricostruito dalla procura di Milano, Uss e' riuscito a lasciare l'Italia in poche ore in macchina, cambiando piu' auto e con documenti falsi, attraverso il confine triestino ed e' entrato in Slovenia.

 Da li' e' arrivato in Serbia, da dove avrebbe preso un volo per la Russia. Investigatori e inquirenti hanno appurato che il 40enne, figlio del governatore di una regione siberiana molto vicino a Putin, sarebbe stato aiutato nell'evasione da un gruppo operativo composto da meno di dieci persone, pare 6 o 7 in tutto, dell'Est Europa, alcune gia' indagate e altre da identificare. La procura sta indagando pure su un "secondo livello", probabilmente uomini dei servizi segreti russi, che avrebbero organizzato il blitz.

"Sono in Russia! In questi ultimi giorni specialmente difficili persone forti e affidabili mi sono state vicine. Grazie a loro!", aveva fatto sapere lo stesso Uss il 4 aprile scorso dalla Russia. E suo padre, Alexander Uss, in un video non piu' disponibile a causa delle polemiche suscitate in Russia, ha espresso la sua riconoscenza nei confronti di Vladimir Putin. "Ci sono molte versioni su come sia andata, ma non faro' commenti. Sono solo contento che mio figlio Artem sia tornato a casa. E per questo ringrazio Vladimir Putin: non e' solo il nostro presidente, e' soprattutto un uomo con un cuore grande e generoso"

 Il Pd ha attaccato duramente il Governo sull'evasione di Uss. Il responsabile Esteri del Pd, Giuseppe Provenzano, aveva affermato nei giorni scorsi: "Sul caso Artem Uss il silenzio del Governo era inquietante, ora e' intollerabile.

Oggi il padre ringrazia Putin e 'amici' stranieri per l'evasione milanese. Il Pd depositera' un'interrogazione. Spieghino cosa e' successo. Ne va della credibilita' internazionale dell'Italia".

 Lia Quartapelle aveva aggiunto: "Il governo deve chiarire: come e' possibile che una persona su cui pendevano 12 capi di accusa gravi (da riciclaggio a traffici internazionali) in attesa di estradizione evada senza che ci sia impegno a fare piena luce su cosa e' accaduto?". Enrico Borghi, uno dei rappresentanti del Pd al Copasir, tiene la bocca cucita con i cronisti all'uscita da palazzo San Macuto: "Io non parlo sul Copasir. Potete seguirmi anche per un chilometro".

Giovanni Donzelli (Fdi) e' categorico: "Non parlo". Ettore Rosato (Italia viva) si limita ad affermare: "La relazione di Giorgia Meloni e' stata soddisfacente e ha riguardato tutto l'universo mondo". Licia Ronzulli, rappresentante di Forza Italia al Copasir, afferma: "Io non parlo. La notte voglio dormire tranquilla". Claudio Borghi (Lega), uscito insieme a Donzelli, sceglie la linea di non fare alcuna dichiarazione.

Estratto dell’articolo di Francesco Olivo e Andrea Siravo per “La Stampa” il 14 aprile 2023.

Di chi è la responsabilità della fuga di Artem Uss? Davanti al Copasir Giorgia Meloni avrebbe respinto ogni responsabilità del governo sull'evasione dell'uomo di affari russo, fuggito il 22 marzo dagli arresti domiciliari per approdare in Russia.

 Sulle parole della premier si è generato un giallo ieri: i lavori della commissione parlamentare di controllo sui servizi sono secretati, ma secondo un'indiscrezione pubblicata dall'agenzia Agi, Meloni avrebbe detto «non è colpa del governo, ma di un altro organo dello Stato».

 Parole interpretate come un attacco alla magistratura, che aveva il compito di vigilare il presunto trafficante di armi e petrolio, sollevando dalle responsabilità i servizi e quindi di fatto Palazzo Chigi. La premier era accompagata dalla responsabile del Dis Elisabetta Belloni e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

Il presidente del Copasir, Lorenzo Guerini, ha smentito: «Tali frasi non sono mai state pronunciate in seduta e pertanto sono prive di fondamento». Claudio Borghi, membro leghista del Copasir, si meraviglia: «È l'unico argomento di cui non si è parlato».

 C'è però un altro elemento che è emerso: poco prima di Pasqua, il Guardasigilli ha avviato un'azione ispettiva nei confronti del palazzaccio di Milano chiedendo che il presidente della Corte d'Appello e il procuratore generale scrivano delle relazioni su quanto accaduto.

[…] L'attenzione è puntata in particolare sulla Corte d'Appello di Milano, che nell'attesa di decidere sull'estradizione richiesta dagli Usa […] aveva concesso al sospettato trafficante di armi e petrolio […] gli arresti domiciliari e il braccialetto elettronico. Misure che evidentemente a poco sono servite per impedire una fuga che i dettagli successivi hanno rivelato essere stata studiata minuziosamente e aiutata dall'intelligence russa.

 Il governo italiano era però perfettamente informato della situazione, tanto che il 29 novembre scorso l'ambasciata americana aveva inoltrato una lettera al Ministero di Grazia e Giustizia chiedendo che la sorveglianza di Uss fosse aumentata, anzi che all'uomo non venissero concessi gli arresti domiciliari.  […]

Estratto dell’articolo di Luca Roberto per “il Foglio” il 14 aprile 2023.

Secondo la deputata del Pd Lia Quartapelle l’esfiltrazione illegale dall’Italia alla Russia di Artem Uss è un danno grave alla reputazione internazionale del nostro paese. “E’ incredibile che il governo sia rimasto zitto per tre settimane. Viene da pensare che più che imbarazzati siano conniventi. Se fosse capitato a noi quando eravamo al governo ci sarebbe stata una rivolta generalizzata. Questa è l’idea di sicurezza che hanno?”.

 Il caso riempie da giorni le pagine dei giornali italiani. Artem Uss, figlio di Alexander, governatore della regione siberiana di Krasnoyarks e uomo vicino al presidente russo Vladimir Putin, era stato arrestato a Malpensa lo scorso ottobre dietro mandato di cattura spiccato dagli Stati Uniti.

[…] Era stato messo in custodia cautelare in una struttura a Bosco Vione di Basiglio, periferia di Milano. Il 22 marzo è sparito dall’Italia, il giorno dopo che la Corte d’Appello di Milano aveva dato l’ok alla sua estradizione negli Usa.

 “Già dalla scelta del luogo in cui scontava la detenzione preventiva, c’è qualcosa di molto strano”, dice Quartapelle al Foglio. “Si sapeva che era un residence che aveva già ospitato personale dell’ambasciata russa”.

 Per questo uno dei nodi da capire è per quale ragione non sia stata predisposta una sorveglianza nei confronti dell’uomo, sospettato di essere una spia nel nostro paese.

 “Che ci sia stata una sottovalutazione è sotto gli occhi di tutti, e coinvolge diversi livelli di responsabilità. In primis chi non ha rispettato le indicazione della magistratura”, dice la parlamentare del Pd. “E poi chi non ha predisposto una vigilanza adeguata, concedendo anzi una custodia cautelare molto lasca. Forse per questo governo fanno notizia solo le evasioni dei poveracci, dei tossicodipendenti, da San Vittore, per cui sono intervenuti ministri, sottosegretari. Adesso tutti silenti”.

 Nelle prossime ore i dem presenteranno un’interrogazione nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Pronta a trasformarsi in un’interpellanza urgente qualora non arrivassero risposte rapide. Perché l’altro dettaglio che inquieta di questa vicenda è il ringraziamento che Alexander Uss ha rivolto, oltre al presidente Putin, anche “agli amici della Russia, che al momento giusto sono pronti a sostenerla”.

Così come l’emersione del presunto coinvolgimento, nell’esfiltrazione, di un ex militare italiano in congedo ora residente sul suolo russo, attenzionato dalla nostra intelligence: “Dicono che faranno le dovute verifiche, bene. Ma forse ci arrivano un po’ tardi”, è il commento della vicepresidente della commissione Esteri alla Camera.  “[…] dobbiamo capire se c’è stato disinteresse o dolo. Perché il sospetto è che oltre all’imbarazzo per la vicenda ci sia dell’altro”. […]

Estratto dell’articolo di Floriana Bulfon per repubblica.it il 13 aprile 2023.

Ci sono molte versioni su come sia andata, ma non farò commenti. Sono solo contento che mio figlio Artem sia tornato a casa. E per questo ringrazio Vladimir Putin: non è solo il nostro presidente, ma è soprattutto un uomo con un cuore grande e generoso”.

 Con un videomessaggio Alexander Uss, ricchissimo governatore della regione siberiana di Krasnoyarsk ed esponente politico di Russia Unita, ha pubblicamente lodato il Cremlino per il rientro in patria del figlio, evaso a fine marzo dagli arresti domiciliari a Basiglio in provincia di Milano.

Il giovane Artem Uss era stato fermato a Malpensa lo scorso ottobre per un mandato di cattura statunitense: gli Usa lo accusano di essere il regista del traffico di componenti elettroniche che permettono alle industrie russe di proseguire la produzione di missili, droni e bombardieri usati in Ucraina oltre che di un colossale contrabbando di petrolio.

 Poche ore dopo la sentenza della Corte d’Appello di Milano che accoglieva la richiesta di estradizione negli Usa, Artem ha lasciato la residenza extralusso dove si trovava ai domiciliari con il braccialetto elettronico ed è sparito. Nonostante le segnalazioni formali e ufficiose delle autorità statunitensi, non c’erano misure di vigilanza: una figura chiave per la macchina bellica russa è stata trattata come un ladruncolo.

Le indagini fanno ipotizzare che la sua fuga sia stata gestita come un’operazione militare di esfiltrazione, pianificata dai servizi segreti russi con l’aiuto di esperti di sicurezza europei. Quattro auto scure di grande cilindrata, identiche, lo attendevano e sono partite in direzioni diverse, impedendo così di seguirlo con droni o satelliti. Poi Artem Uss è ricomparso a Mosca il 4 aprile e ha lodato l’aiuto di “persone forti e affidabili”.

 Ora il padre ha pubblicamente ringraziato Putin, con cui ha rapporti personali da anni, per il ritorno a casa del figlio. Una mossa che ha irritato alcuni organi nazionalisti, tra cui il sito Zapad24, secondo i quali le sue dichiarazioni espongono inutilmente il Cremlino alle accuse occidentali.

Ma il governatore Uss ha pronunciato un’altra frase sibillina: “Il nostro Paese ha molti amici e persone oneste che lo sostengono e che al momento giusto sono pronte ad aiutare. So di cosa parlo…”. La lettura di alcuni siti russi è che si riferisse al ruolo di italiani per la condotta della fuga: un altro media nei giorni scorsi ha parlato di contractor italiani - ex militari - coinvolti nell’operazione. Ma non si può escludere che invece Uss parlasse di figure di altre nazioni che hanno dato supporto al fuggitivo, ad esempio nei Balcani.

 Uss dal 2018 è il governatore della regione di Krasnoyarsk, una zona della Siberia ricca di materie prime: carbone, petrolio, alluminio, metalli pregiati e legname. Professore di diritto - è anche presidente dell’università locale - sin dalla stagione di Eltsin è stato una sorta di rappresentante politico dei potenti oligarchi locali, tra cui Oleg Deripaska - citato pure nell’indagine Usa sul figlio - e poi ha aderito al partito di Putin.

Numerose inchieste giornalistiche nel 2021 hanno accusato Alexander Uss di corruzione, con una rete di società in patria e all’estero gestite pure dai familiari, indicandolo come titolare di beni per centinaia di milioni di euro. Anche per questo, la vicenda del figlio ha reso scomoda la sua posizione per il Cremlino e potrebbe essere presto sostituito. Su un sito nazionalista è stato inserito un commento al video di ringraziamento al Cremlino che pare accennare alla guerra in Ucraina: “Il suo ragazzo è stato salvato, gli altri no…”.

 DAGOREPORT il 13 aprile 2023.

L’estratto dell’articolo di ‘’Repubblica’’ sulla incredibile fuga della spia russa Artem Uss mira ad addossare le responsabilità alla magistratura milanese smarcando l’intelligence italiana. Tant’è che il ministro della Giustizia Nordio, in seguito a una lettera del presidente del Copasir Lorenzo Guerini, ha spedito gli ispettori alla procura di Milano.

 Vabbé, la magistratura potrebbe essere stata, come dire, negligente sulla vigilanza, concedendo ‘’i domiciliari a Uss nelle more del verdetto della Cassazione sull’estradizione chiesta dagli Stati Uniti’’. Ma Elisabetta Belloni, capo del Dis che coordina Aisi e Aise, rispetto a una spia russa, con una guerra in corso in Ucraina e una richiesta di estradizione dell’intelligence americana, non può non occuparsene.

Scrive ‘’Repubblica’’: “non è stato organizzato alcun servizio speciale di controllo nei confronti di un detenuto che, non fosse altro per la capacità economica di cui disponeva, non era “comune”. La vigilanza era affidata ai carabinieri di Basiglio, piccolo centro nella provincia di Milano, che lo controllavano a casa ogni 72 ore”. Bene, qualche anima pia avvisi la Belloni e company che i servizi segreti non sono all’ordine della magistratura.

  (AGI il 13 aprile 2023) "Non e' stata colpa del Governo, ma di un altro organo dello Stato". Lo avrebbe affermato la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al Copasir sull'evasione di Artem Uss, l'uomo di affari russo che era ai domiciliari a Basiglio. La linea di Meloni e' stata riferita da diversi esponenti del Copasir.

Fabio Tonacci e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 13 aprile 2023.– ESTRATTO 

Per come è stata ricostruita fino a oggi, la fuga di Artem Uss è una lunga catena di errori e di sottovalutazioni che ha regalato all’Italia, per usare le parole di Enrico Borghi, il senatore del Partito democratico membro del Copasir, «una figuraccia internazionale». 

 La Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati i nomi di almeno quattro slavi che hanno contribuito alla fuga ma dalle indagini che stanno svolgendo i carabinieri — coordinati dal procuratore Marcello Viola e dal pm Giovanni Tarzia — emerge chiaramente che le responsabilità sono anche di chi avrebbe dovuto vigilare sul detenuto e invece non lo fatto.

Primo punto: dopo la decisione del tribunale di Milano di concedere i domiciliari a Uss nelle more del verdetto della Cassazione sull’estradizione chiesta dagli Stati Uniti, non è stato organizzato alcun servizio speciale di controllo nei confronti di un detenuto che, non fosse altro per la capacità economica di cui disponeva, non era “comune”.

 La vigilanza era affidata ai carabinieri di Basiglio, piccolo centro nella provincia di Milano, che lo controllavano a casa ogni 72 ore. Nessun uomo dei nostri Servizi era stato interessato della vicenda e questo perché, spiegano a Repubblica fonti di intelligence, «nessuno, né tantomeno il governo americano, ci aveva informato che Uss rappresentasse un problema per la sicurezza nazionale».

Per l’imprenditore russo la Corte d’Appello milanese aveva concesso l’estradizione chiesta dagli Stati Uniti per reati di tipo finanziario: è contestata la violazione dell’embargo sul petrolio del Venezuela, venduto in Cina e in Russia, e la frode bancaria, per alcune transazioni avvenute negli Stati Uniti. Non era stata però riconosciuta l’accusa cruciale per delinearne il profilo criminale: un presunto traffico di materiale “dual use”, uso civile ma anche militare, anche all’inizio della guerra in Ucraina. 

Gli avvocati di Uss hanno fatto ricorso in Cassazione e la procedura per la consegna agli Stati Uniti si è bloccata. Ecco perché fuori dalla casa di Basiglio — in un complesso già utilizzato dall’ambasciata russa per ospitare dei funzionari — a vigilare non c’erano nostri agenti.

Caso Artem Uss, Nordio dispone accertamenti sui giudici di Milano. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

Il cittadino russo accusato di spionaggio era riuscito a evadere dai domiciliari e raggiungere Mosca

Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha disposto accertamenti nei confronti dei magistrati di Milano in relazione alla fuga di Artem Uss, il cittadino russo accusato di spionaggio e che è evaso dagli arresti domiciliari.

Fonti di via Arenula indicano che il guardasigilli ha ordinato le verifiche di natura ispettiva nei giorni scorsi. In particolare sotto la lente di ingrandimento ci sarebbe la decisione di sostituire la misura della detenzione in carcere con gli arresti domiciliari (con il braccialetto elettronico) per il cittadino russo per il quale era stata disposta l’estradizione negli Stati Uniti.

Si profila dunque un duro scontro tra governo e magistratura, in particolare la Corte d’Appello di Milano che da un lato aveva concesso l’estradizione di Artem Uss ma dall’altro aveva attenuato le restrizioni nei suoi confronti.

Proprio oggi al Copasir il caso è stato oggetto di un dibattito. Secondo quanto ricostruito dalla procura di Milano, Uss è riuscito a lasciare la sua abitazione di Basiglio, alle porte del capoluogo lombardo il 22 marzo scorso; cambiando più auto e con documenti falsi, ha attraverso il confine triestino ed è entrato in Slovenia. Da lì è arrivato in Serbia, da dove avrebbe preso un volo per la Russia.

Investigatori e inquirenti hanno appurato che il 40enne, figlio del governatore di una regione siberiana e molto vicino a Putin, sarebbe stato aiutato nell’evasione da un gruppo operativo composto da meno di dieci persone, pare 6 o 7 in tutto, dell’Est Europa, alcune già indagate e altre da identificare. La procura sta indagando pure su un «secondo livello», probabilmente uomini dei servizi segreti russi, che avrebbero organizzato il blitz. Per eludere i controlli, affidati ai carabinieri della stazione di Basiglio, Uss era riuscito a «oscurare» il segnale Gps del suo braccialetto elettronico facendo scattare in ritardo l’allarme.

Poche ore dopo l’evasione il padre del fuggiasco aveva ringraziato tutti coloro che avevano collaborato alla clamorosa evasione con un video pubblicato su Telegram.Lo stesso Artem si era felicitato poi per la buona riuscita del blitz con una dichiarazione all’agenzia Novosti: «Sono in Russia. In questi giorni particolarmente drammatici, persone forti e affidabili sono state con me. Grazie a loro».

Il ministro Nordio vorrebbe ora appurare come mai, nonostante i pericoli di fuga di Uss fossero concreti, gli fosse stato concesso il beneficio dei domiciliari e non fossero stati disposti adeguati controlli attorno alla sua abitazione.

Artem Uss era stato arrestato il 17 marzo all’aeroporto di Malpensa su mandato delle autorità giudiziarie Usa; era accusato di frode bancaria e e di contrabbando di petrolio in violazione ad alcune misure di embargo. L’estradizione era stata concessa pochi giorni dopo; nel frattempo gli Usa avevano avvertito l’Italia del possibile tentativo di fuga.

Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per repubblica.it il 10 aprile 2023.

Cosa era disposto a fare il governo americano per fermare la fuga di Artem Uss, il giovane oligarca russo scappato dagli arresti domiciliari a Basiglio lo scorso 22 marzo? Per la magistratura statunitense Uss è il regista del traffico di componenti elettronici che ha permesso al Cremlino di proseguire la produzione di caccia, missili e droni persino dopo l'invasione dell'Ucraina. […]

Così quando nel pomeriggio del 22 marzo il consolato americano di Milano ha appreso della scomparsa di Uss, la notizia è stata accolta con ira e ha provocato la massima allerta per tentare di impedire il rientro in Russia del fuggitivo. Una mobilitazione a tutti i livelli. Dall'esame di Flightradar24 - il sito che monitora il traffico aereo - risulta che due caccia F-16 statunitensi sono decollati dalla base di Aviano (Pordenone).

I due jet - contrariamente a quanto avviene in genere per le esercitazioni Nato - hanno tenuto il trasmettitore di posizione acceso: il loro volo infatti si è mosso per oltre due ore attraverso i cieli più frequentati del Nord, spingendosi fino al lago di Garda. Uno dei caccia del 31mo Stormo ha compiuto diversi pattugliamenti lungo la frontiera austriaca e slovena, incrociando le rotte che puntano verso Oriente. L'altro è rimasto a "orbitare" sul Veneto.

 Stavano cercando di intercettare un velivolo con a bordo l'evaso? E se lo avessero identificato, lo avrebbero obbligato all'atterraggio? Impossibile stabilirlo: ufficialmente i due caccia erano impegnati in un'esercitazione. […]

Proprio per evitare sorprese da parte dei caccia americani, ora si ritiene che il fuggitivo possa avere preso la strada dei Balcani, in auto o con un velivolo diretto in cieli meno sorvegliati dalla Nato: da lì esiste la possibilità di arrivare in Serbia o Turchia per concludere il viaggio verso Mosca con un volo di linea.

DAGONOTA l’8 aprile 2023.

C'è alta tensione tra l'intelligence americana e quella italiana per l’assurda fuga del russo Artem Uss da Milano, dove era ai domiciliari.

 Gli americani avevano chiesto che l’oligarca, accusato di crimini finanziari e considerato dagli States il regista della rete che procurava componenti hi-tech per gli armamenti più moderni usati dai russi in Ucraina, venisse spedito dietro le sbarre e invece era domiciliari, da cui è riuscito a fuggire facilmente, in barba al braccialetto elettronico.

 La Cia sospetta che gli 007 russi, per portare a termine un’operazione delicata come l’esfiltrazione di Uss, si siano avvalsi della collaborazione di pezzi di apparati italiani…

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” l’8 aprile 2023.

Enrico Borghi, senatore del Partito democratico e membro del Copasir, dice di essere sorpreso dal silenzio. «Perché nessuno parla di una vicenda importante e inquietante come quella di Artem Uss?

 Perché il governo non sente il dovere di spiegare? Non parliamo di un’evasione di un detenuto qualsiasi. Ma di una figuraccia internazionale sulla quale ci devono essere delle parole della politica. E invece tutti fanno gli indifferenti. Io lo trovo incredibile».

 […] nessun esponente del governo Meloni ha sentito il bisogno di spiegare cosa è accaduto a Basiglio, provincia di Milano, quando all’indomani dell’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Milano autorizzava la sua estradizione negli States, sospesa in attesa della Cassazione, Uss – il giovane oligarca accusato di crimini finanziari e considerato dagli States il regista della rete che procurava componenti hi-tech per gli armamenti più moderni usati dai russi in Ucraina riusciva a scappare grazie a un’esfiltrazione probabilmente organizzata da Servizi russi e ancora avvolta nel mistero.

Una vicenda grave e forse senza precedenti sui quali è in corso un’inchiesta giudiziaria. […]

 Borghi, perché ritiene così grave questa vicenda?

«[…] qualcosa non ha funzionato e ritengo che vada ricostruita la catena delle responsabilità, la trafila da quando sono stati disposti i domiciliari alla fuga. […] voglio capire, per esempio se c’è un baco nel sistema in modo da poter intervenire. Dopodiché esiste une secondo piano, politico».

 Che c’entra scusi la politica?

«È una questione di postura. Sono tutti zitti come se non ci riguardasse, sembra essere tornati agli anni ’70 quando il nostro era un Paese a sovranità limitata e ci rassegniamo all’idea che possano accadere cose come questa, che possiamo non essere in grado di ottemperare a un processo di estradizione. […]». […] «[…]la premier Meloni che ha spinto l’Italia in una posizione come quella della Polonia: un atlantismo assertivo e non dialettico che fa rima con uno scetticismo europeo».

Che significa “atlantismo assertivo”?

«Che essere alleati non significa dire sempre di sì. Perché non facciamo bene ai nostri amici se non offriamo anche un altro punto di vista. […]

 Temo che Meloni stia commettendo questo errore gravissimo, spostando in questa maniera l’Italia dall’asse con Germania e Francia che, per esempio, nella vicenda ucraina potrebbero davvero essere i costruttori della pace. Mentre però Meloni commette questo errore i suoi alleati di Governo, Lega e Forza Italia, non perdono occasione per ricordare la loro amicizia con la Russia». […]

(ANSA il 7 aprile 2023 ) – “I ministri dell'Interno e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, spieghino come è stata possibile la fuga dall'Italia di Artem Uss, cittadino russo che stava scontando gli arresti domiciliari in provincia di Milano e arrestato all'aeroporto di Malpensa nell'ottobre del 2022, in esecuzione di un mandato di arresto internazionale dell'autorità giudiziaria di New York".

 Lo chiedono in un'interrogazione parlamentare Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi, deputati di +Europa. "Il 21 marzo - spiegano i deputati di +Europa - la Corte di Appello di Milano ha autorizzato l'estradizione di Artem Uss negli USA; il giorno successivo, Artem Uss, aiutato da persone provenienti dall'estero secondo le ricostruzioni della stampa, è sparito dal suo domicilio e, indisturbato, ha lasciato l'Italia per trasferirsi in Russia grazie a documenti falsi".

In particolare, Della Vedova e Magi chiedono a Piantedosi se "siano state adottate tutte le misure di sicurezza adeguate nei confronti di un soggetto accusato di gravi reati internazionali, per i quali era stata autorizzata l'estradizione negli USA; se risponde al vero che il braccialetto elettronico era sprovvisto di trasmettitore GPS e se non ritenga, in ogni caso, che la fuga di Artem Uss, a fronte di una omessa adeguata sorveglianza, costituisca un grave vulnus per i nostri sistemi di sicurezza".

Per Della Vedova e Magi, il ministro della Giustizia Nordio, invece, dovrebbe chiarire se "fosse giustificata l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, in sostituzione della custodia in carcere, alla luce degli elementi giudiziari all'esame della magistratura, e in relazione alle specifiche esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto".

Estratto dell'articolo di Monica Serra per lastampa.it il 29 Marzo 2023

Artem Uss non è il primo ricercato per l’estradizione dagli Stati Uniti che riesce a evadere dai domiciliari in Italia. Era già successo in passato, almeno altre sei volte. Ma nel caso del ricchissimo imprenditore russo 40enne la consegna per gli Usa era di vitale importanza.

 Per questo, il 29 novembre scorso, tre giorni prima dell’uscita di Uss dal carcere su decisione della corte d’Appello, il Department of Justice americano ha scritto una lettera ufficiale al ministero della Giustizia per esortare una misura più rigida nei confronti dell’indagato, accusato di associazione criminale, frode in danno dello Stato, commercio illegale del petrolio venezuelano sotto embargo, frode bancaria e riciclaggio, e considerato molto vicino al Cremlino.

Le autorità statunitensi - si legge nel testo della missiva - hanno recentemente appreso che nei confronti di Artem Uss, ricercato per l'estradizione negli Stati Uniti, è stato o sarà presto disposta la misura degli arresti domiciliari in seguito a un provvedimento della Corte d'Appello di Milano”.

 La preoccupazione manifestata dalle autorità americane già all’epoca era molta: “Dato l'altissimo rischio di fuga che Uss presenta, come indicato nella lettera del sostituto procuratore statunitense del 19 ottobre 2022 esortiamo le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l'intera durata del procedimento di estradizione, compreso un ricorso alla Corte di Cassazione contro il provvedimento degli arresti domiciliari della Corte d'Appello di Milano”.

E in effetti la possibilità era stata vagliata dalla procura generale, che si era opposta agli arresti domiciliari richiesti dalla difesa e che alla fine però ha rinunciato, calcolando che i tempi dell’eventuale decisione della Cassazione sarebbero stati probabilmente più lunghi di quelli del procedimento per l’estradizione.

 […]  perché gli americani sottolineano l’esistenza di “uno schema consolidato di latitanti che sono fuggiti dall'Italia mentre era in corso una richiesta di estradizione dagli Stati Uniti” che “rafforza il fatto che gli arresti domiciliari non garantiscono efficacemente al disponibilità del latitante per un'eventuale consegna”.

 A dimostrazione della tesi, nella mail vengono elencati nomi e cognomi di sei ricercati che negli ultimi anni sono riusciti a evadere in attesa di estradizione: una spagnola, un tedesco, una svizzera, un nigeriano e uno statunitense. […]

Gli americani mettono nero su bianco i loro timori che di fatto si sono poi verificati. “Pertanto richiediamo rispettosamente che le autorità italiane si assicurino che Uss sia rimesso in custodia cautelare per l'intera durata del procedimento di estradizione - concludono -, in modo che possa affrontare la giustizia negli Stati Uniti se l'estradizione dovesse essere concessa”.

 Tutte queste cautele però, di fatto, sono servite a poco. Uss è riuscito a fuggire grazie a una rete di persone su cui oggi i carabinieri del Nucleo investigativo e della compagnia di Corsico stanno indagando. Dietro queste persone c’è l’ombra dei servizi segreti russi.

 Del resto già a ottobre il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, lo aveva annunciato: “Le missioni diplomatiche russe faranno del loro meglio per proteggere gli interessi di Uss”.

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2023.

E adesso che il 40enne uomo d’affari russo Aleksandrovich Artem Uss è fuggito dagli arresti domiciliari, rompendo il braccialetto elettronico ed evaporando nel nulla all’indomani del primo via libera dato dalla V Corte d’Appello milanese alla sua estradizione negli Stati Uniti per due dei quattro capi d’accusa contestatigli al momento dell’arresto il 17 ottobre 2022 a Malpensa, viene fin troppo facile elucubrare ironicamente su quanto davvero «del loro meglio» siano magari riuscite a fare quelle «missioni diplomatiche russe» evocate il 21 ottobre dal portavoce di Putin, Dmitri Peskov, per assicurare appunto che avrebbero «fatto del loro meglio per proteggere gli interessi di Uss».

Cioè del facoltoso imprenditore delle miniere di carbone […] che gli Stati Uniti accusano non solo di aver contrabbandato in violazione dell’embargo milioni di barili di petrolio dal Venezuela a beneficio di utenti finali russi e cinesi paganti in criptovalute; ma anche di essersi procurato illecitamente presso industrie di New York, e inviato a società russe, proprio quei microprocessori e semiconduttori americani utilizzati poi paradossalmente per rendere «intelligenti» alcuni sistemi missilistici e radar trovati su piattaforme di armamenti russi sequestrate in Ucraina.

[…] Ma in una storia che ha tutti i connotati del giallo spionistico — a cominciare dal fatto che Uss si opponesse all’estradizione chiesta dagli Stati Uniti, e invece prestasse consenso alla parallela estradizione pure chiesta all’Italia […] dalla Russia, apparentemente intenzionata a processarlo (o a metterlo in salvo?) per un indefinito riciclaggio perseguito dalla Corte moscovita di Meshehanskij – sembrano solo suggestioni destinate a restare tali.

 Perché l’unica traccia concreta […] sono le telecamere che inquadrano l’auto venuta a portarlo via: un’auto non rubata, una targa non clonata, eppure intestata a un teorico proprietario (non di Milano) la cui identificazione nulla propizierà.

Più istruttivo, a posteriori, il fatto che fosse rientrata da giorni in Russia […] la moglie Maria Ivanovna Yagodina: ossia colei che i giudici Fagnoni-Curami-Caramellino, concedendo a Uss il 25 novembre scorso i domiciliari dopo 40 giorni di carcere, indicava «moglie resasi disponibile ad assicurare tutte le esigenze di vita» pratiche del marito.

 L’allarme del braccialetto spezzato è suonato alle 14.07 di mercoledì, e i carabinieri […] sono arrivati a casa in una decina di minuti, trovando chiusa la porta blindata d’ingresso e alto il volume della tv. L’ultima beffa di una evasione che ora tocca al pm di turno Giovanni Tarzia indagare, coi paradossi a volte buffi delle norme italiane: come il fatto che l’evasione, essendo punita fino a 3 anni, non consenta intercettazioni, possibili solo per reati con pena da almeno 5 anni.

Estratto dell’articolo di Floriana Bulfon per “la Repubblica” il 27 marzo 2023.

Jurij Orekhov si sentiva tranquillo. Guardava le immagini del conflitto in Ucraina con soddisfazione: nei missili che piovevano sulle città c’era il frutto del suo lavoro. Dopo l’invasione stava più attento: aveva aperto una nuova società negli Emirati Arabi e spostato la residenza lì […]. Al suo amico e socio Artem Uss aveva spiegato di essere pronto alla latitanza. Senza escludere un’altra opzione: fingersi un dissidente anti-Putin e chiedere asilo.

 A Jurij è andata male e da fine ottobre è in un carcere tedesco in attesa dell’estradizione negli Usa, mentre Artem mercoledì scorso ha scassinato il braccialetto elettronico ed è scappato dagli arresti domiciliari a Milano.

 Le autorità italiane hanno sottovalutato l’importanza di questo quarantenne muscoloso, figlio di un governatore siberiano vicinissimo al Cremlino. Perché è su questa coppia che si stanno concentrando le indagini dell’intelligence americana per ricostruire la rete che ha permesso alla Russia di ottenere componenti elettroniche fondamentali per incrementare la produzione di armi hi-tech pure dopo l’inizio della guerra.

Se Orekhov era più esperto negli aspetti manageriali, Uss era al centro dei rapporti più importanti per il futuro: quelli con la Cina. […] Quanto sia stato incisivo il ruolo dei due lo dimostrano gli atti. Attraverso ditte tedesche e norvegesi Orekhov ha acquistato legalmente di tutto: nel 2019 ha cercato persino di ottenere parti del caccia F-22 Raptor, il più moderno intercettore stealth statunitense.

 Le sue aziende esibivano credenziali ottime, incluse quelle di Roscosmos, l’agenzia spaziale russa che poteva importare tecnologia satellitare per proseguire le missioni orbitali assieme alla Nasa. Per anni […] ha portato legalmente in Russia elicotteri Usa ed è riuscito a ottenere dalla francese 3D Plus microprocessori molto speciali: li ha pagati 3,6 milioni di dollari e potrebbero servire per lo stadio finale del super-missile nucleare Sarmat.

[…] La coppia unisce affari privati e missioni statali, tutti però protetti dai servizi di sicurezza russi. Il contrabbando di petrolio e materie prime triangolate tra Venezuela e Cina con il coinvolgimento del magnate Oleg Deripaska — che non risulta indagato — pare servisse soprattutto a creare riserve finanziarie. Il socio di Uss non aveva problemi a muovere soldi: usava corrieri che consegnavano pacchi di contanti, transazioni in criptovalute e bonifici da istituti pronti a chiudere un occhio: «Non c’è da preoccuparsi — diceva al telefono — Questa è la banca più sporca degli Emirati, mandano denaro a chiunque».

[…] Questo network con l’inasprimento delle sanzioni ha solo cambiato pelle. Uno dei terminali dello shopping di Uss e Orekhov — la Radioavtomatika — sta continuando a reperire microprocessori attraverso società in Uzbekistan, Armenia e Cina. La Repubblica Popolare è l’ultima terra promessa dove i russi possono comprare chip e lì Artem Uss ha ereditato i rapporti del padre, governatore della regione di Krasnojarsk che traffica oltre la frontiera siberiana da decenni. Storie su cui adesso nessun giudice statunitense potrà interrogarlo.

Estratto dell’articolo di Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 27 marzo 2023.

Artem Uss  – il manager russo che era agli arresti domiciliari vicino a Milano con l’accusa di acquisto illegale di tecnologie militari violando le sanzioni alla Russia, rivendita illegale di petrolio al mercato nero e riciclaggio di milioni di dollari – non sarà facile da trovare per la polizia, la guardia frontiera, i servizi segreti italiani.

 Non solo perché con ogni probabilità avrebbe lasciato già l’Italia, diretto a Mosca, forse con un volo privato da Linate, ma anche perché la foto che di Uss sta girando non corrisponde all’identità di Uss, ma a quella di Anton Natarov, ex consigliere del padre di Artem Uss, il governatore di Krasnoyarsk Alexandr Uss. Natarov in questa storia non c’entra, ma cosa può sognare di più un evaso (Artem Uss) di una sua foto su tutti i media che non corrispondente alla sua vera identità?

La storia merita di essere raccontata meglio. Nella foto che pubblichiamo, Artem Uss è quello a sinistra, quello a destra è appunto Anton Natarov – che nel 2017 fu nominato consigliere del governatore Alexandr (il padre di Artem, l’evaso).

 Natarov ha preso di buon grado queste confusioni, e non ha fatto nulla per chiedere che venissero corrette, nemmeno con i media internazionali più visibili. Qualcosa che evidentemente non deve aver dato fastidio ad Artem. Ma le cose strane di questa storia non finiscono qui.

 Due giorni prima della fuga, la Corte d’appello aveva dato il via libera all’estradizione di Uss negli Stati Uniti (il russo era stato arrestato su mandato del Fbi), sia pure solo per due dei quattro capi d’imputazione (la «violazione dell'embargo" nei confronti del Venezuela in una vicenda di contrabbando di petrolio verso Cina e Russia, e per «frode bancaria»).

 La difesa italiana di Uss ha inserito un altro elemento inquietante, se fosse vero: aveva sostenuto che l’arresto di Uss sarebbe stato mirato, dissero i legali, a uno «scambio di prigionieri», dato che gli Stati Uniti vorrebbero ottenere il rilascio di Paul Whelan, un uomo d’affari americano condannato a Mosca a 16 anni nel 2020. Nulla di tutto ciò è stato indipendentemente verificabile per La Stampa, ma aiuta a capire la cortina di fumo che è stata generata attorno a questa vicenda già prima della fuga del russo. […]

Evasione di Artem Uss a Milano, l'auto che passa davanti alle telecamere e gli allarmi disinnescati: si indaga per depistaggio. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

L'ipotesi di un disturbatore di frequenze per il braccialetto elettronico e delle tracce seminate ad arte. Irritazione dagli Stati Uniti: «L'imprenditore russo doveva stare in cella»

È come un gioco di specchi. Una macchina che s’allontana in fretta da Borgo Vione stando ben attenta a passare sotto agli obiettivi delle telecamere. Disseminando tracce e indizi, per esser certa d’attirare su di sé le attenzioni degli investigatori. E poi un vuoto improvviso, con il passeggero che sparisce e quell’auto che riprende a muoversi senza un «percorso coerente» con l’azione di chi, infrangendo la legge, ha appena fatto evadere l’uomo che gli Usa reclamano dall’Italia. Un depistaggio, quasi certamente, studiato e pianificato per rallentare le indagini. 

Come l’allarme del braccialetto elettronico che scatta quando ormai Artem Uss è lontano da Basiglio, con cinque o sei minuti di vantaggio che nelle strade della provincia possono voler dire aver preso qualsiasi direzione. E a più di una settimana dalla clamorosa fuga dell’imprenditore russo c’è il «fondato sospetto» che sia stato utilizzato un jammer, un disturbatore di frequenze, per accecare il segnale d’allarme. Nell’inchiesta sulla caccia a Uss e ai suoi complici (almeno sei o sette) ogni dettaglio va visto e rivisto di continuo, come succede leggendo le pagine di una spy story. 

Lunedì c’è stato un vertice con il procuratore Marcello Viola e il pm Giovanni Tarzia e personale diplomatico, tra cui il console generale e magistrati di collegamento. Con gli americani che si sono detti disponibili a fornire ai carabinieri di Milano tutto l’aiuto necessario. Compreso quello della Cia. Perché nonostante il clamore mediatico finora modesto, quella ad Artem Uss non è solo la caccia a un ricercato ma la trama di un intrigo internazionale. Gli americani non hanno gradito la «mano morbida» della giustizia italiana che ha concesso i domiciliari all’imprenditore prima dell’esito dell’udienza di estradizione. Per loro Uss è un pericoloso criminale che acquistava tecnologie militari in America per conto del governo di Putin.

 L’accusa però è stata «ridimensionata» dai giudici milanesi che per questo specifico capo d’imputazione non hanno concesso l’estradizione. Quando il Dipartimento di giustizia Usa ha saputo dell’ipotesi dei domiciliari ha recapitato una lettera urgente al ministero della Giustizia italiano: «Dato l’altissimo rischio di fuga che Uss presenta, esortiamo le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l’intera durata del procedimento di estradizione». 

Era il 29 novembre e i giudici in realtà avevano già deciso due giorni prima. Ma Uss era ancora in carcere, in attesa che si completasse la procedura per installare nella sua casa di Basiglio il sistema di controllo del braccialetto elettronico. Nella loro comunicazione gli ricordano «uno schema consolidato di latitanti che sono fuggiti dall’Italia» prima della consegna agli Usa. A sostegno di queste parole un elenco con nomi e cognomi di «sei fuggitivi solo negli ultimi tre anni»: «Ognuno di questi latitanti ha compromesso il rispettivo procedimento di estradizione italiano, ha vanificato risorse giudiziarie e processuali sia dell’Italia che degli Stati Uniti e si è sottratto alla giustizia. Concedere la misura degli arresti domiciliari aumenta indebitamente il rischio sostanziale che egli faccia lo stesso».

Estratto dell’articolo di Floriana Bulfon, Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 5 aprile 2023.

Non una fuga, ma un’esfiltrazione. La ricostruzione delle ultime tracce italiane di Artem Uss, il giovane oligarca scappato dagli arresti domiciliari a fine marzo e ricomparso ieri a Mosca, fanno ipotizzare l’intervento diretto di apparati di intelligence: «In questi ultimi giorni particolarmente difficili persone forti e affidabili mi sono state vicine…», ha dichiarato all’agenzia statale Ria Novosti . E il riferimento alle “persone forti e affidabili” sembra confermare la pista investigativa che punta sul ruolo degli 007 russi.

 Non sarebbe una sorpresa: le autorità statunitensi ritengono che Uss sia il regista della rete che procurava componenti hi-tech per gli armamenti più moderni usati dai russi in Ucraina e il quarantunenne è figlio del governatore di Krasnojarsk, politico e magnate molto vicino al Cremlino.

Quello che stupisce – e che avrebbe irritato non poco l’ambasciata Usa – è la totale assenza di misure di vigilanza intorno a lui, sorvegliato come un ladruncolo e non come una figura strategica per l’impegno bellico russo.

 Così all’indomani dell’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Milano autorizzava la sua estradizione negli States, sospesa in attesa della Cassazione, Uss è uscito dalla cascina nei dintorni di Basiglio, ristrutturata in maniera lussuosa e affittata dalla moglie, dove più volte era stato visitato dai diplomatici russi.

Aveva l’obbligo di indossare un braccialetto elettronico, sprovvisto però di trasmettitore Gps: ha dato l’allarme quando si è allontanato, senza permettere di seguirlo. L’ultima immagine risale alle 14,07. Le telecamere lo hanno immortalato mentre sale su una Punto nera: l’utilitaria è intestata a un cittadino bielorusso che è stato interrogato e dice di non sapere nulla.

 Più inquietante quello che accade dopo soli tre chilometri: ad aspettare la Punto di Uss ci sono ben quattro Suv scuri, praticamente identici. Lui sale su una delle vetture, che partono subito. Ma stando all’ipotesi degli investigatori non procedono in corteo: come in un film di spionaggio, prendono strade diverse, in modo da depistare eventuali inseguitori. Nemmeno un drone avrebbe potuto stargli dietro. Due le possibili destinazioni: la vicinissima Svizzera o la più lontana Slovenia.

Adesso si stanno valutando i voli di jet privati nelle ore successive da piccoli aeroporti di entrambi i Paesi. Noleggiare un velivolo per Artem Uss non è un problema. Ha gestito a lungo la Swiss Avia di Cham sul lago di Zurigo, controllata tramite una sigla delle Cayman, e ha posseduto un’ azienda aeronautica tedesca con una filiale elvetica che per anni ha mosso Falcon ed elicotteri attraverso l’Europa. […]

Estratto dell’articolo di Angelo Allegri per “il Giornale” il 5 aprile 2023.

Tutto sommato era prevedibile: Artyom Uss, l’imprenditore-spia russo fuggito dagli arresti domiciliari in Italia, è ricomparso ufficialmente ieri a Mosca. «In questi ultimi giorni particolarmente difficili mi sono state vicine persone forti e affidabili. Le ringrazio», ha dichiarato all’agenzia di stampa semi-ufficiale Ria-Novosti. Un riferimento per nulla velato alla complessa operazione dei servizi di sicurezza che ha riportato in madrepatria Uss, pedina evidentemente non trascurabile, e figlio del governatore della Regione di Krasnoyarsk.

 Secondo il canale Telegram VChK-OGPU, considerato vicino alle forze di sicurezza russe e spesso attendibile, la liberazione di Uss è stata un’avventura in stile James Bond. Dopo che il 21 marzo la Corte d'Appello di Milano aveva approvato l'estradizione di Uss negli Stati Uniti, l’imprenditore ha rimosso il braccialetto elettronico ed è fuggito dal complesso residenziale di Basiglio dove aveva trascorso gli ultimi mesi.

A prenderlo in consegna un gruppo di 6 o 7 persone dell’Europa dell’Est che avrebbero utilizzato per la fuga macchine con targhe croate. Allo stesso Uss sarebbe stato fornito un passaporto russo con una falsa identità e il ritorno a casa sarebbe avvenuto attraverso la Turchia.

 La parte più clamorosa della ricostruzione riguarda la presunta partecipazione alla fuga di «un ex ufficiale delle forze speciali dell’esercito italiano che ha vissuto a Mosca per più di 6 anni», perché «dopo aver lasciato l'esercito, si è trasferito in Russia, dove ha sposato una donna del posto». Sarebbe stato proprio l’Italiano, secondo VChK-OGPU, uno degli organizzatori dell’intera operazione. […]

Nelle dichiarazioni all’agenzia Ria-Novosti Uss ha spiegato la sua fuga: «Il tribunale italiano, sulla cui imparzialità inizialmente contavo, ha dimostrato la sua chiara parzialità politica. Purtroppo è pronto a piegarsi alle pressioni delle autorità statunitensi», ha aggiunto. […]

 Nell’autunno scorso Uss era stato messo sotto accusa dalla Corte distrettuale di New York, insieme al suo socio Yuri Orekhov e ad altri tre cittadini russi. Secondo i magistrati americani, grazie allo schermo della loro società di trading con sede ad Amburgo e succursali in varie parti del mondo (da Dubai alla Malesia), Uss e Orekhov avevano messo in piedi un sistema per fornire la Russia di microprocessori e componenti tecnologici utilizzabili a scopi bellici per aerei, missili, radar e satelliti.  […]

All’apparenza nessuno sorvegliava l’uomo d’affari russo e anche l’allarme del braccialetto elettronico è scattato con sospetto ritardo.

Artem Uss è tornato in Russia: «Sono fuggito perché non mi fido del sistema giudiziario italiano». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2023

L’imprenditore era evaso il 22 marzo dai domiciliari a Basiglio. La notizia è stata rivelata dallo stesso Uss all'agenzia ufficiale Ria Novosti

È accaduto quello che tutti sospettavano. Artem Uss l’imprenditore evaso il 22 marzo dai domiciliari a Basiglio è tornato in Russia. Sarebbe stato lui stesso a comunicarlo spiegando di essere fuggito perché non aveva fiducia nel sistema giudiziario italiano dopo la concessione dell’estradizione negli Usa. Non ci sono ancora conferme ufficiali alla notizia, ma visto il contesto internazionale è difficile che ne arrivino. La notizia è stata rivelata dallo stesso Uss all'agenzia ufficiale Ria Novosti. Il manager, figlio del governatore di Krasnoyarsk Aleksander Uss, ha spiegato che non si fidava più dei giudici italiani che avevano dato il via libera all'estradizione: «Il tribunale italiano, sulla cui imparzialità inizialmente contavo - ha chiarito Uss -, ha dimostrato la sua chiara partigianeria politica e di essere pronto a piegarsi alle pressioni delle autorità statunitensi».

Sulla sua evasione è aperta un’inchiesta della procura di Milano coordinata dal procuratore Marcello Viola e dal pm Giovanni Tarsia. I carabinieri del nucleo investigativo di via della Moscova sono al lavoro per identificare tutti gli uomini del comando che intorno alle 14 del 22 marzo aiutarono il quarantenne a fuggire dalla abitazione di Borgo Vione e a raggiungere il confine italiano a Est. Dai Paesi dell’ex Jugoslavia, Uss avrebbe poi raggiunto probabilmente per via aerea la Russia.

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per “il Corriere della Sera – Edizione Milano” il 31 marzo 2023.

«Abbiamo ricevuto informazioni da whistleblowers nei Servizi di intelligence: Uss è stato fatto scappare con l'aiuto di agenti russi». Vladimir Osechkin, attivista per i diritti umani e dissidente anti-Putin, indica nell'Fsb, il servizio segreto russo, la mente del piano di «esfiltrazione» dell'imprenditore russo Artem Uss, evaso da Borgo Vione (Basiglio) mercoledì 22 marzo.

 La notizia, riportata da Bloomberg, non ha per ora trovato altri riscontri anche se le indagini dei carabinieri e della procura di Milano non escludono affatto quella direzione. Anzi, tra i filoni dell'indagine c'è anche la verifica della presenza di possibili 007 di Mosca a Milano in quei giorni. Del resto l'evasione del 40enne, figlio del governatore della regione di Krasnoyarsk nella Siberia centrale, ha ormai tutti i contorni di un intrigo internazionale.

Se così fosse, ossia se venisse confermato un ruolo dei Servizi segreti russi in terra italiana, il caso sarebbe non solo un notevole incidente diplomatico ma qualcosa di più. Anche perché Uss era in attesa di essere estradato - dopo il sì arrivato il giorno prima della scomparsa dai giudici della Corte d'Appello - negli Usa.

 Un'operazione di guerra a bassa intensità, verrebbe da pensare, vista la situazione geopolitica tra Putin e l'occidente nel pieno del conflitto ucraino. Per assurdo, proprio il fatto che la vicenda abbia avuto finora un clamore molto limitato, sembra una implicita conferma di scenari ben più complicati e delicati di una semplice evasione.

Finora solo il membro del Copasir Enrico Borghi (Pd) ha chiesto chiarimenti. Ma la sua richiesta sembra caduta nel vuoto. Il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha anzi rapidamente cercato di smorzare le polemiche caso: «Se la Corte d'Appello aveva deciso per i domiciliari, è giusto che i provvedimenti siano rispettati. La politica deve fare la politica, la giurisdizione la giurisdizione, senza interferenze».  […]

 C'è poi da chiarire quante persone - si parla di «numerose persone» - abbiano avuto in questi mesi il permesso di frequentare quella casa nonostante il divieto di comunicazione imposto dai giudici. Sicuramente i suoi legali (di diritto) e il traduttore (Uss non parla una parola di italiano), ma anche un fantomatico tuttofare bulgaro di Borgo Vione che si è occupato di lui nei periodi di assenza della moglie (che rientrava in Russia ad accudire il figlio), personale diplomatico del consolato russo di Milano e diverse altre figure.

Riletta oggi la circostanza appare molto suggestiva, visto che parliamo di una persona ristretta ai domiciliari e per la quale il Dipartimento di Giustizia americano aveva indicato «una elevata pericolosità» e «un elevato rischio di fuga». C'è poi da capire cosa Uss facesse in Italia prima di essere fermato a Malpensa il 17 ottobre dalla Polaria mentre si imbarcava per la Russia via Turchia. Pare fosse entrato in Italia solo pochi giorni prima, ma a fare cosa? E dove ha soggiornato?

 Gli americani avevano emesso nei suoi confronti un mandato di arresto il 29 settembre, ben prima quindi che arrivasse a Milano. Possibile che nessuno lo abbia bloccato al suo ingresso alla frontiera di Malpensa, né lo abbia «monitorato» durante il suo soggiorno in Italia per fermarlo solo mentre stava per imbarcarsi sul volo di ritorno?

Che ruolo hanno avuto i Servizi segreti italiani? Possibile che la Cia o le autorità americane non abbiano avvertito che Uss - accusato di vari reati tra i quali l'aver acquistato tecnologie per uso militare dagli Stati Uniti - poteva trovarsi in Italia, visto che qui ha due società ed è solito trascorrere periodi di vacanza e viaggi d'affari? Misteri e domande ancora senza risposta.  […]

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 28 marzo 2023.

Non un solo complice, quello che le immagini delle telecamere immortalano mentre accompagna Artem Uss nella sua fuga dai domiciliari a Borgo Vione. Ma una «rete», con ruoli e compiti ben precisi, che ha messo in atto un piano organizzato nei minimi dettagli.

 […] Un’azione «chirurgica» che fa sospettare agli inquirenti un ruolo decisivo dei servizi segreti di Mosca. […] Del resto già a ottobre il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, aveva affermato che «le missioni diplomatiche russe faranno del loro meglio per proteggere gli interessi di Uss». Una frase sibillina che riletta oggi fa pensare a una missione di «esfiltrazione» dall’Italia, quei blitz degli 007 in territorio straniero per recuperare un agente o un connazionale in pericolo.

[…] Artem Uss viene scarcerato a fine novembre dai giudici della quinta sezione della Corte d’Appello su richiesta dei legali italiani Vinicio Nardo e Fabio De Matteis. I giudici gli concedono i domiciliari con braccialetto elettronico in un appartamento che la moglie Maria Yagodina affitta per lui a Basiglio. […] La donna possiede una casa nell’ex cascina Vione trasformata in un compound di lusso, ma l’appartamento è in ristrutturazione. Così ne affitta uno solo per i domiciliari del marito. Poi il 13 marzo (la sentenza che dà l’ok alla consegna agli Usa è del 21) sparisce e torna in Russia. È da qui che Uss si allontana intorno alle 14 di mercoledì 22.

Un uomo con un’utilitaria si presenta a Basiglio e le telecamere lo inquadrano mentre aiuta Uss a salire nell’auto parcheggiata in un punto isolato. La macchina è «buona», anche se l’intestatario, un uomo dell’Est, non è il reale utilizzatore. Le immagini fissano il momento preciso: le 14.07. Ma l’allarme del braccialetto scatta con qualche minuto di ritardo. […]

 L’imprenditore, figlio del governatore di una regione siberiana, non parla una parola d’italiano. Ora gli inquirenti sono al lavoro sui tabulati di quel telefono e sul sospetto che fosse in contatto con la rete di complici. Di certo più d’uno visto che è possibile che il 40enne abbia usato diverse auto nella sua fuga. Il «cambio macchina» sarebbe stato effettuato pochi chilometri dopo, magari per raggiungere il confine svizzero o sloveno via terra.

 Le due società di Uss, la Luxury sardinia e la Hotel don Diego avevano sede fino al 2016 in piazza Cavour 3 a Milano. Gli inquirenti sono risaliti a numerosi conti in tutto il mondo: hanno disponibilità per milioni di euro. Le indagini ora seguono una pista precisa, anche se Uss sarebbe già all’estero. E ben protetto.

Estratto dell'articolo di Monica Serra per lastampa.it il 28 marzo 2023.

Artem Uss non è il primo ricercato per l’estradizione dagli Stati Uniti che riesce a evadere dai domiciliari in Italia. Era già successo in passato, almeno altre sei volte. Ma nel caso del ricchissimo imprenditore russo 40enne la consegna per gli Usa era di vitale importanza.

 Per questo, il 29 novembre scorso, tre giorni prima dell’uscita di Uss dal carcere su decisione della corte d’Appello, il Department of Justice americano ha scritto una lettera ufficiale al ministero della Giustizia per esortare una misura più rigida nei confronti dell’indagato, accusato di associazione criminale, frode in danno dello Stato, commercio illegale del petrolio venezuelano sotto embargo, frode bancaria e riciclaggio, e considerato molto vicino al Cremlino.

Le autorità statunitensi - si legge nel testo della missiva - hanno recentemente appreso che nei confronti di Artem Uss, ricercato per l'estradizione negli Stati Uniti, è stato o sarà presto disposta la misura degli arresti domiciliari in seguito a un provvedimento della Corte d'Appello di Milano”.

 La preoccupazione manifestata dalle autorità americane già all’epoca era molta: “Dato l'altissimo rischio di fuga che Uss presenta, come indicato nella lettera del sostituto procuratore statunitense del 19 ottobre 2022 esortiamo le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l'intera durata del procedimento di estradizione, compreso un ricorso alla Corte di Cassazione contro il provvedimento degli arresti domiciliari della Corte d'Appello di Milano”.

E in effetti la possibilità era stata vagliata dalla procura generale, che si era opposta agli arresti domiciliari richiesti dalla difesa e che alla fine però ha rinunciato, calcolando che i tempi dell’eventuale decisione della Cassazione sarebbero stati probabilmente più lunghi di quelli del procedimento per l’estradizione.

 […]  perché gli americani sottolineano l’esistenza di “uno schema consolidato di latitanti che sono fuggiti dall'Italia mentre era in corso una richiesta di estradizione dagli Stati Uniti” che “rafforza il fatto che gli arresti domiciliari non garantiscono efficacemente al disponibilità del latitante per un'eventuale consegna”.

 A dimostrazione della tesi, nella mail vengono elencati nomi e cognomi di sei ricercati che negli ultimi anni sono riusciti a evadere in attesa di estradizione: una spagnola, un tedesco, una svizzera, un nigeriano e uno statunitense. […]

Gli americani mettono nero su bianco i loro timori che di fatto si sono poi verificati. “Pertanto richiediamo rispettosamente che le autorità italiane si assicurino che Uss sia rimesso in custodia cautelare per l'intera durata del procedimento di estradizione - concludono -, in modo che possa affrontare la giustizia negli Stati Uniti se l'estradizione dovesse essere concessa”.

 Tutte queste cautele però, di fatto, sono servite a poco. Uss è riuscito a fuggire grazie a una rete di persone su cui oggi i carabinieri del Nucleo investigativo e della compagnia di Corsico stanno indagando. Dietro queste persone c’è l’ombra dei servizi segreti russi.

 Del resto già a ottobre il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, lo aveva annunciato: “Le missioni diplomatiche russe faranno del loro meglio per proteggere gli interessi di Uss”.

Nel Myanmar.

Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi per “Panorama” il 28 dicembre 2022.

Myanmar, 2021. La giunta militare che ha destituito la presidente e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha bisogno di armi e mezzi aerei per fronteggiare i ribelli nascosti nella giungla. Ma non sa come procurarseli senza incorrere nelle sanzioni dovute all'embargo. Perciò si rivolge a una nazione amica che di sanzioni se ne intende parecchio, la Bielorussia di Aljaksandr Lukashenko. Il cui governo ha fama di operare spesso attraverso una rete para diplomatica non ufficiale di faccendieri.

Come del resto fa anche la Russia. Il nome di uno di questi faccendieri scoperti a delinquere è Aung Moe Myint: è lui che in maniera rocambolesca riesce a procurare missili e aerei per la giunta al potere in poche settimane. Ma come è stato possibile per Myint ottenere i contatti giusti e soprattutto i permessi per viaggi di affari per aiutare il contrabbando di armi asiatico?

Semplice, era il console onorario della Bielorussia in Myanmar, abituato a muoversi in quella che si può definire zona grigia: quell'area del diritto internazionale dove operano appunto i consoli onorari. Non sono ambasciatori, né diplomatici, non percepiscono ufficialmente uno stipendio dallo Stato che rappresentano. 

Sono invece cittadini privati che esercitano la loro funzione come attività secondaria. Però reggono un consolato onorario, godono di immunità e, perciò, viaggiano con privilegi e valigette diplomatiche, sfuggendo ai controlli delle autorità, garantiti dalle lacune della legge che persistono su queste figure ibride.

Per tali ragioni, nella zona grigia i consoli onorari si muovono come meglio credono, potendo rappresentare - se onesti - le istanze dei cittadini e imprese, altrimenti favorendo relazioni economico -commerciali e consigliando aziende e soggetti privati ai quali rivolgersi per esigenze che non sono esattamente legali. Presso alcuni consolati si possono addirittura richiedere certificati notarili, e questo dà l'idea della larga discrezionalità dei quasi diplomatici. Dunque un consolato può anche essere il luogo perfetto per celare abusi di ruolo, affari dubbi e attività di copertura.

Come lo spionaggio e il traffico illegale. A sollevare il velo su questa realtà sommersa è stata un'indagine di The Shadow Diplomats Investigation, network che coinvolge circa 160 giornalisti investigativi da 46 diversi Paesi. Ma gli scandali sono ben noti anche a varie magistrature, che negli anni se ne sono dovute occupare districandosi, non senza difficoltà, nelle maglie delle (poche) leggi in materia. 

Come la magistratura turca, che ha censito sinora 328 consoli onorari in giro per il mondo (nonostante gli Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite siano ufficialmente solo 193). Tra questi personaggi, figurano una ventina di politici, 14 dei quali provenienti dal partito del presidente Recep Tayyip Erdogan. Ben 50 di loro sono stati coinvolti per i seguenti reati: traffico di droga, esportazioni fittizie, gioco d'azzardo illegale, gare d'appalto dubbie. Però nessuno è stato sinora condannato in via definitiva.

Ma nella rete consolare mondiale, con migliaia di operatori in tutto il globo, l'elenco dei reati è da capogiro. Tra loro figurano trafficanti di armi e droga, assassini, molestatori sessuali, truffatori seriali. L'indagine sui diplomatici ombra ha documentato almeno 500 episodi di illeciti comprovati. Come Ladislav Otakar Skakal: in qualità di ex console onorario italiano in Egitto, ha cercato di contrabbandare opere d'arte degli antichi Egizi in Europa. Nello specifico, ha fatto uscire dal Paese cinque mummie, una bara di legno e oltre 21 mila monete antiche. 

La merce era stata imballata in un contenitore diplomatico che riportava il suo nome e la qualifica diplomatica, e poi spedita a Salerno, dove le autorità italiane hanno scoperto la refurtiva (grazie a un banale errore di documentazione). 

Nel 2020 Skakal è stato condannato a 15 anni di carcere da un tribunale del Cairo, ovviamente in contumacia: si ritiene che oggi si nasconda ancora in Italia. 

Tuttavia, è dal Libano che arrivano le storie più inquietanti. In una di queste protagonista è Mohammad Ibrahim Bazzi: doppia cittadinanza libanese e belga, di mestiere fa affari per conto di Hezbollah, il partito di Dio il cui braccio armato è considerato gruppo terrorista da numerosi Paesi nel mondo, tra cui Ue, Israele e Stati Uniti. Quest'ultimi hanno messo su Bazzi una taglia da 10 milioni di dollari, considerandolo terrorista e trafficante internazionale.

Nominato console onorario per il Libano nello Stato africano del Gambia nel 2005 sotto il regime dell'allora presidente Yahya Jammeh, Bazzi ha finanziato Hezbollah convogliando milioni di dollari verso il gruppo armato attraverso sospette attività commerciali. 

Considerato uno stretto collaboratore di Jammeh - a sua volta accusato di corruzione e abusi dei diritti umani nel 2019 è stato riconosciuto - da una commissione governativa - colpevole di sottrazione di denaro pubblico in favore di Beirut e di aver girato tangenti all'ex presidente. Da allora, è persona non grata in Gambia, mentre in seguito a una vasta operazione di intelligence da parte della Cia è stato sanzionato anche dal governo statunitense, senza però che siano state rese pubbliche le prove documentali dei traffici scoperti.

Si sa solo che il console Bazzi possedeva o controllava un numero impressionante di società di copertura: Global Trading Group NV, Euro African Group LTD, Africa Middle East Investment Holding SAL, Premier Investment Group SAL Offshore e Car Escort Services S.A.L. Off Shore. Tutte società oggi sottoposte a sanzioni, ma attraverso le quali Bazzi ha fatto in tempo a fornire milioni di dollari a Hezbollah. Sia Bazzi sia l'ex presidente Jammeh hanno sempre negato di aver commesso illeciti.

La creatività dei libanesi legati alla rete terroristica di Hezbollah non ha limiti. A dimostrarlo, altre due vicende: quella del console onorario Ali Myree, di fatto operatore alberghiero e rinomato uomo d'affari, che dagli anni Novanta ha sviluppato grandi interessi nel Sud Sudan. Arrestato nel 2000 in Paraguay per reati connessi alla pirateria, Myree è stato accusato di aver venduto milioni di dollari in software contraffatti, i cui proventi erano destinati a finanziare il partito politico e gruppo militante libanese.

Ancora più sbalorditiva la storia di Faouzi Jaber, contrabbandiere di armi con la passione per la diplomazia: a ogni nuovo acquirente, infatti, prometteva di aiutarlo a diventare un console onorario. Ti farò diventare console nel tuo Paese. E lo saranno anche i tuoi amici perché quando viaggiamo questo aiuta. Se concludiamo l'affare avrai un pass diplomatico sono alcuni degli estratti di intercettazioni federali del governo americano. 

Ad Accra, capitale del Ghana, Ja ber si faceva chiamare eccellenza ed era solito ricevere i suoi acquirenti al Golden Tulip Hotel (oggi Lancaster Accra), proponendo neanche troppo segretamente la vendita di missili e granate da usare contro le forze americane, per un controvalore di milioni di dollari. Chi altro sa che sto con Hezbollah? era solito esordire in queste riunioni. Jaber sin dall'autunno 2012 era riuscito a diventare un agente di primo piano dell'organizzazione terroristica libanese sostenuta dall'Iran. E grazie alle sue entrature in qualità di console, avrebbe aiutato molti acquirenti di armi ad assicurarsi davvero le ambite posizioni di diplomatici speciali.

Sino a oggi sono oltre 30 i consoli onorari sanzionati dagli Stati Uniti e da altri governi, tra cui 17 arrestati mentre ricoprivano ancora la carica. Alcuni risultavano essere membri della cerchia ristretta del presidente Vladimir Putin, inseriti nella lista nera dopo l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.

Il caso CGIL.

L'uomo misterioso e il ruolo nell'assalto alla Cgil. Fu un carabiniere ad aprire la porta agli assalitori della Cgil, chi è? Paolo Comi su Il Riformista il 25 Marzo 2023

Chi ha aperto la porta della sede della Cgil è quasi certamente un appartenente all’Arma dei carabinieri. Manca solo l’ufficialità ma tutti gli indizi raccolti fino a questo momento sembrano convergere su tale ipotesi. Presso la Procura di Roma ci sarebbe anche una sua relazione di servizio redatta al termine della manifestazione no Green Pass del 9 ottobre 2021. Relazione che, però, non è negli atti depositati dal pm titolare del fascicolo, la dottoressa Gianfederica Dito.

Il fatto che chi ha aperto la porta possa essere un carabiniere apre scenari quanto mai inquietanti. Come mai, infatti, un militare dell’Arma ha deciso di aprire il portone della sede della Cgil, consentendo così ai manifestanti di entrarvi e di danneggiare la struttura? È stata una sua iniziativa o ha ricevuto ordini superiori? La manifestazione contro il Green Pass non aveva lo scopo di occupare e devastare la sede del sindacato. I manifestanti erano stati autorizzati ad effettuare un presidio fisso nella centralissima piazza del Popolo. Solo successivamente era arrivata una ‘autorizzazione’ verbale a dirigersi presso la sede nazionale della Cgil che, peraltro, quel giorno era chiusa. «Se non avesse aperto il portone il processo non ci sarebbe stato», aveva dichiarato a tal riguardo l’avvocato radicale Vincenzo Di Nanna, difensore di Salvatore Lubrano, accusato di devastazione e saccheggio unitamente al leader di Forza Nuova Roberto Fiore e altri esponenti di estrema destra.

L’avvocato Di Nanna ha prodotto un filmato, acquisito ieri dal tribunale, in cui è ben visibile questo soggetto, l’unico nel corteo dei no vax quel giorno ad indossare la mascherina. L’uomo, calvo, dopo aver segnalato ai presenti di entrare dalla finestra che era stata rotta e di non insistere nel voler sfondare a calci il portone d’ingresso, si è preoccupato di spostare con cura le transenne collocate alle spalle di quest’ultimo. Un comportamento quanto mai irrituale rispetto alle violenze che si stavano consumando all’esterno e che culmineranno con la distruzione di quadri e suppellettili all’interno della sede della Cgil. Il soggetto guadagna poi l’uscita in tutta tranquillità: le decine di carabinieri e poliziotti presenti sul portone d’ingresso, come si vede nel filmato montato dal consulente dell’avvocato Di Nanna, il giornalista Antonio D’Amore, non fecero nulla per bloccarlo ed identificarlo.

All’udienza del 14 ottobre scorso, il commissario di polizia Pietro Berti, in forza al Commissariato di Roma-Aurelio era stato sentito sull’accaduto. Berti era il commissario di servizio e con due squadre miste di polizia e carabinieri era arrivato sul posto ed aveva preso contatti con Fiore e Castellino. Poi era entrato nella sede della Cgil con il personale a disposizione e aveva ripreso possesso dell’edificio in precedenza occupato dai manifestati. Interrogato su quanto accaduto, Berti aveva ammesso che quel giorno vi erano dei carabinieri del Nucleo informativo del comando provinciale di Roma infiltrati fra i manifestanti. A tal proposito è al momento pendente una interrogazione parlamentare.

Mi auguro che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sia in grado di fare chiarezza quanto prima”, ha dichiarato al Riformista il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, dopo aver presentato questa sua interrogazione al capo del Viminale. “Nella mia attività parlamentare spesso utilizzo gli atti di sindacato ispettivo per mettere in luce aspetti che reputo interessanti o che possono essere inquadrati nell’attività politica riguardo il settore della giustizia, attraverso un’impostazione di garantismo giuridico, essendo avvocato”, ha aggiunto Zanettin. Il comando provinciale dei carabinieri di Roma, in attesa di indicazioni superiori, ha già preparato un rapporto sul fatto, indirizzato a tutta la scala gerarchica, che sarebbe stato portato a conoscenza anche del comandante generale, il generale Teo Luzi. Paolo Comi

L'attacco del 9 ottobre 2021 e il video pubblicato dal Riformista. Assalto alla Cgil, ad aprire la porta ai manifestanti fu un agente dei servizi? Paolo Comi su Il Riformista il 17 Marzo 2023

Chi è questa persona che ha fatto entrare i manifestanti all’interno della sede nazionale della Cgil a Roma il pomeriggio del 9 ottobre del 2021? Molto probabilmente un agente dei servizi o delle forze di polizia che quel giorno erano infiltrati nel corteo guidato da Roberto Fiore e Giuliano Castellino, i capi di Forza Nuova. Come mai? Si cercava l’incidente di piazza? Una risposta potrebbe darla il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che all’epoca era il prefetto di Roma e dunque l’autorità preposta alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

L’immagine è stata estrapolata da un filmato oggetto della consulenza effettuata dall’avvocato radicale Vincenzo Di Nanna, difensore di Salvatore Lubrano, un esponente di Forza Nuova poi arrestato insieme a Castellino, Fiore ed altre nove persone con l’accusa di saccheggio, istigazione a delinquere, violazione di domicilio e resistenza. Il processo è attualmente in corso davanti alla sezione penale del tribunale di Roma presieduta dalla giudice Claudia Lucilla Nicchi. Castellino è sotto processo dinanzi al tribunale di Roma in composizione collegiale.

Tutto ha inizio qualche giorno prima, il 16 settembre 2021, quando il governo Draghi decide di rendere obbligatorio il Green pass nei luoghi di lavoro per contrastare la diffusione del Covid. La decisione del governo scatena subito la reazione dei gruppi di estrema destra. Pamela Testa, un’altra militante di Forza Nuova, anch’ella poi arrestata dopo gli scontri del 9 ottobre, il 29 settembre si fa promotrice sui social di una manifestazione No Green Pass da tenersi nei successivi nella Capitale. La manifestazione, per la quale è prevista la partecipazione di 4mila persone, viene quindi autorizzata per il 9 ottobre con inizio a Piazza del Popolo.

La prefettura, di concerto con la questura, dispone l’impiego di un contigente di 800 uomini fra poliziotti e carabinieri. Alle ore 16 circa, un corteo non autorizzato inizia ad incamminarsi per le vie di Roma e, dopo essersi avvicinato a Palazzo Chigi, raggiunge Corso Italia dove ha sede la Cgil, quel giorno chiusa per le disposizioni anticovid. I manifestanti, come si vede nel filmato pubblicato in esclusiva sul sito del Riformista, cercano subito di sfondare il portone d’ingresso senza però riuscirci.

Nel filmato si vede un uomo calvo con una mascherina sul mento e con indosso un giubbotto di jeans (lo stesso che vedete nella foto a fianco) aggirarsi pressi del portone d’ingresso. La polizia scientifica lo chiama W1. Quando uno dei manifestanti riesce a rompere il vetro della finestra sul lato sinistro del portone d’ingresso, W1 entra nella sede della Cgil e cerca di aprire quest’ultimo. Cosa che gli riesce poco dopo. L’uomo, con passo deciso, sale anche le scale all’interno prima di tornare al portone d’ingresso. A quel punto, e siamo alle ore 17.32, incontra un altro uomo, per la polizia SOGGETTO 1. Dalla visione della sequenza dei filmati, grazie all’ingrandimento, si nota come W1, prima di uscire, venga fermato da SOGGETTO 1 con il quale ha un rapidissimo scambio di battute, nel corso del quale si vede chiaramente comparire nelle mani dei due qualcosa.

Nella scena di destra, ripresa dalla telecamera più vicina ai due, si intuisce possa essere un badge o un tesserino, con tanto di cordoncino chiaro. Lo stesso badge o tesserino, nella successiva immagine, ovvero nell’ingresso del SOGGETTO 1 nella sede, viene da egli tenuto nella mano sinistra. La sequenza rallentata consente una più approfondita lettura della scena. In particolare consente di apprezzare con maggior precisione i movimenti di W1. Costui, infatti, all’atto di infilare la porta, al momento dell’incontro con Fiore, sembra compiere il gesto di scostare con la mano sinistra il giubbotto di jeans, aprendolo, verosimilmente per mostrare qualcosa che recava ‘appeso’ all’interno dello stesso. Il gesto, per le modalità e l’uso (W1 lo svela quasi fosse un lasciapassare), si direbbe compatibile con quello di voler rivelare un distintivo o una placca di riconoscimento.

Lo stesso gesto, con l’identica apertura del giubbino in jeans, viene riproposto pochissimi secondi dopo, in seguito all’interesse del SOGGETTO 1 per W1. Ma non solo, perché a seguito di questa seconda apertura del giubbino, SOGGETTO 1 risponde offrendo il proprio badge o tesserino a W1 che lo analizza sui due lati e lo restituisce al primo. Al termine delle operazioni i due si salutano. Il successivo fermo immagine di W1 all’uscita della Cgil offre un’altra immagine importante. Il giubbotto di jeans, infatti, presenta sulla destra il risvolto della cerniera completamente aperto, mentre sulla sinistra si intuisce una piega verso l’interno, del tutto compatibile con il peso (un distintivo?) appeso all’interno. L’incontro, per modalità, ritualità, tempi e movimenti, si direbbe del tutto compatibile con una ‘presentazione’, ovvero il reciproco scambio di credenziali tra due colleghi.

Visto il luogo, il momento e l’occasione, verosimilmente si tratta dell’incontro tra due rappresentanti delle Forze dell’ordine, che si qualificano vicendevolmente per giustificare la loro presenza all’interno della sede della Cgil. All’udienza del 14 ottobre scorso, il commissario di polizia Pietro Berti, in forza al Commissariato di Roma-Aurelio è stato sentito sull’accaduto. Berti era il commissario di servizio ed era stato allertato alle ore 16.45 dalla centrale operativa. Con due squadre miste di polizia e carabinieri, in meno di 10 minuti era arrivato sul posto ed aveva preso contatti con Fiore e Castellino. Poi era entrato nella sede della Cgil con il personale a disposizione ed aveva ripreso possesso dell’edificio in precedenza occupato dai manifestati. Interrogato sul punto, Berti ha ammesso che c’erano quel giorno dei carabinieri del Nucleo Informativo infiltrati fra i manifestanti. Uno di questi era SOGGETTO 1. Paolo Comi

Il Caso Biot.

Walter Biot, i giudici militari lo condannano a 30 anni. “Commercio di atti segreti”. Il Tempo il 09 marzo 2023

La Procura militare aveva chiesto l'ergastolo, i giudici  hanno deciso per trent’anni di carcere. Questa la condanna del Tribunale militare di Roma per Walter Biot, il capitano di fregata arrestato dai carabinieri del Ros il 30 marzo 2021 con l’accusa di spionaggio per aver passato documenti segreti a un funzionario russo in cambio di cinquemila euro. "Biot ha fatto commercio di atti segreti ed è stato colto in flagranza" ha sottolineato il sostituto procuratore militare nel corso della requisitoria.

La procura militare, guidata da Antonio Sabino, contesta a Biot le accuse di rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio, procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio, esecuzione di fotografie a scopo di spionaggio, procacciamento e rivelazione di notizie di carattere riservato e comunicazioni all’estero di notizie non segrete né riservate. Nel procedimento sono parti civili la presidenza del Consiglio dei Ministri e il ministro della Difesa. Nei confronti del capitano di fregata procede anche la procura di Roma che, nell’inchiesta della pm Gianfederica Dito coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, contesta le accuse di spionaggio, rivelazione di segreto di Stato e corruzione. Biot per queste accuse è sotto processo davanti alla Corte di Assise di

L'uomo era stato arresto la sera del 30 marzo 2021 mentre incontrava il funzionario russo Dmitry Ostroukhov. in un parcheggio, nel quartiere di Spinaceto, per consegnargli i materiali raccolti e ricevere in cambio il denaro. 

Spionaggio con i “servizi” russi: Biot condannato a 30 anni dal Tribunale militare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Marzo 2023.

Le immagini di due telecamere nascoste nell’ufficio di Biot, dalle quali si vede l’ufficiale alla sua scrivania prendere una scatoletta da cui estrae un cellulare, inserire al suo interno una scheda Sd e fotografare lo schermo del pc e dei documenti cartacei riservati. L'ufficiale della Marina venne pedinato nei giorni successivi 24 ore su 24, ed il 30 marzo 2021 venne arrestato nel parcheggio di in un centro commerciale subito dopo aver incontrato un funzionario russo

Trent’anni di carcere. Questa la condanna del Tribunale militare di Roma nei confronti del capitano di fregata della Marina Militare Walter Biot , arrestato dai carabinieri del Ros il 30 marzo 2021 con l’accusa di spionaggio per aver passato documenti segreti a Dmitry Ostroukhov un funzionario dei “servizi” russi in cambio di cinquemila euro. Nei confronti del capitano di fregata procede anche la procura di Roma che, nell’inchiesta della pm Gianfederica Dito coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, contesta le accuse di spionaggio, rivelazione di segreto di Stato e corruzione. Biot è sotto processo per queste accuse davanti alla Corte di Assise di Roma.

Biot ha fatto commercio di atti segreti ed è stato colto in flagranza” ha sottolineato il sostituto procuratore militare nel corso della sua requisitoria. La procura militare, guidata da Antonio Sabino, contesta a Biot le accuse di rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio, procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio, esecuzione di fotografie a scopo di spionaggio, procacciamento e rivelazione di notizie di carattere riservato e comunicazioni all’estero di notizie non segrete né riservate.

Walter Biot maneggiava quotidianamente documentazione riservata “e questo è stato attestato e confermato da colleghi e funzionari. Ad esempio il colonnello Pasquale Tirone  lo ha dichiarato a ottobre 2022 durante il dibattimento: “La sezione analisi strategica dove lavorava Biot si occupava di operazioni delicatissime, operazioni Nato ad esempio”. La stanza 248 dove lavorava Biot prevede due postazioni hanno spiegano i testimoni in questo processo. Il capitano di fregata maneggiava indiscutibilmente materiale riservato, ed essendo addirittura un supervisore aveva “un controllo su questa documentazione” ha spiegato la pm che ha rappresentato l’accusa, che ha aggiunto “Biot curava il regolamento di sicurezza fra le altre cose ma era anche responsabile di chi aveva titolo a maneggiare i documenti riservati. Secondo l’ufficiale Mannino Biot era la sua longa manus“.

Durante l’udienza del Tribunale Militare, il rappresentante dell’accusa ha ricordato le testimonianze e le immagini di due telecamere nell’ufficio di Biot, dalle quali si vede l’ufficiale alla sua scrivania prendere una scatoletta da cui estrae un cellulare, inserire al suo interno una scheda Sd e fotografare lo schermo del pc e dei documenti cartacei riservati. Dopodichè Biot inserisce la Sd in una scatola di medicine, nascosta nel ‘bugiardino’ ed infila tutto nel suo zaino. L’ufficiale della Marina venne pedinato nei giorni successivi 24 ore su 24, ed il 30 marzo 2021 venne arrestato dagli uomini del ROS dei Carabinieri nel parcheggio di in un centro commerciale subito dopo aver incontrato un funzionario russo. “Biot ha fatto commercio di atti segreti ed è stato colto in flagranza” ha sottolineato il sostituto procuratore militare.

Biot non ha avuto possibilità di difendersi. In questo paradosso tra segreto istruttorio e segreto Nato viene calpestato l’imputato. – ha affermato l’avvocato difensore durante l’arringa – Chi è quell’imputato che senza poter vedere gli elementi di prova si sottopone a un esame? Biot non ha avuto la possibilità di confrontarsi concretamente con l’accusa mossa. Se il segreto e’ prevalente non si butta all’ergastolo il singolo. Adesso con uno slancio di coraggio dovremmo pensare che la decisione che verrà adottata ha una rilevanza che va oltre questo tribunale. C’è stata una competizione di severità – ha sottolineato il penalista – un crescendo di severità e di gravità di giudizio su fatti, non provati. Continueremo questa battaglia fino a quando Walter Biot non verrà reintegrato con onore nella Marina Militare”.

Secondo quanto riferito da testimoni nel corso del dibattimento, come ricordato dall’accusa in aula, i documenti in questione riguardavano alcuni la lotta all’Isis mentre altri mostravano debolezze e criticità dell’Alleanza Nato, specie dal punto di vista navale e marittimo. ‘Falle’ che sarebbero poi emerse proprio durante la crisi in Ucraina e l’invasione russa. “Tra i 19 documenti fotografati da Biot ce ne erano alcuni Nato secret, riservatissimi, e uno Top secret” ha spiegato in aula l’accusa.

La procura militare aveva chiesto la condanna all’ergastolo per Biot, che ha assistito in aula alla lettura della sentenza. Nel procedimento si sono costituite come parti civili la presidenza del Consiglio dei Ministri e il ministero della Difesa. “Trent’anni non sono l’ergastolo. Le questioni poste sono un monolite che porteremo in Appello. Questa è la prima tappa di un percorso che alla fine darà ragione a Walter Biot”. Così l’avvocato Roberto De Vita difensore del capitano di fregata condannato a trent’anni. “Il tema è la prevalenza dello stato di diritto sulla ragion di Stato e le condanne, come i processi, basate su prove segrete non trovano ospizio nell’ordinamento costituzionale italiano”, ha sostenuto il penalista dopo la sentenza. Ribaltarla non sarà facile, anche perchè Biot dovrà affrontare anche il secondo processo, prima di approdare in Corte di appello. Redazione CdG 1947

Lo strano caso di Biot, condannato senza conoscere le prove. Il capitano di fregata Walter Biot è stato condannato a 30 anni dal tribunale militare di Roma per aver consegnato atti coperti dal segreto ad un funzionario dell'ambasciata russa. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 15 marzo 2023

«È una sentenza in aperta violazione del diritto di difesa e dei principi costituzionali di formazione della prova nel processo. Perfino durante il dibattimento, l’imputato e la difesa non hanno potuto conoscere gli elementi a carico», affermano gli avvocati Roberto De Vita ed Antonio Laudisa, difensori del capitano di fregata Walter Biot, condannato la scorsa settimana dal tribunale militare di Roma a 30 anni di reclusione per aver consegnato atti coperti dal segreto ad un funzionario dell'ambasciata russa.

La precisazione dei difensori riguarda proprio questi documenti segreti e i dispositivi digitali dove erano stati salvati, una scheda di memoria ed uno smartphone. Leggendo il capo d'imputazione, a Biot era contestato di avere, a scopo di spionaggio, acquisito presso il ministero della Difesa dei documenti Nato top secret concernenti una non meglio specificata "preparazione e difesa militare dello Stato”, per poi cederli al predetto funzionario russo in cambio di 5000 euro.

Le difese di Biot nei mesi scorsi avevano presentato una istanza al tribunale militare e alla Corte d’assise di Roma, dove è incardinato un altro processo a carico dell’ufficiale, ai fini dell’ostensibilità di tali documenti che non era stato possibile visionare. Per la normativa sul segreto, infatti, è necessario avere preventivo nulla osta da parte della Nato per il tramite del presidente del Consiglio.

La Corte d’assise aveva dato seguito all’istanza dei legali dell'ufficiale, chiedendo quindi al presidente del Consiglio dei ministri «di verificare ed avere conferma circa l’esistenza del segreto Nato, per consentire le valutazioni in ordine al processo a carico di Biot, attualmente in stato detentivo». Di tutto altro genere, invece, era stata la risposta del tribunale militare il quale, «rilevato che dall’attività istruttoria sin qui compiuta sono emersi elementi in ordine alla non ostensibilità dei documenti di cui all’imputazione anche all’Autorità giudiziaria; che in ogni caso rientra nei poteri del Collegio, qualora venisse ritenuto necessario per la decisione, disporre in esito all’istruttoria dibattimentale qualunque ulteriore accertamento, ivi compreso quello sollecitato dalla difesa; ritenuto di dover assicurare in ogni caso l’osservanza del principio di ragionevole durata del processo», rigettava la richiesta avanzata, disponendo procedersi oltre nel dibattimento.

Alla difesa di Biot, comunque, non solo non venivano fatti visionare i documenti classificati Nato, ma anche quelli senza alcuna classificazione. In altri termini una contestazione al “buio”. «Dopo due anni Biot è ancora costretto a confrontarsi con la forma dell’accusa senza poter conoscere la sostanza della prova», hanno quindi aggiunto gli avvocati De Vita e Laudisa, annunciando di volere continuare «la battaglia di giustizia e di civiltà giuridica, affinché gli ineludibili principi della Costituzione vengano rispettati anche in una vicenda così complessa, in cui la straordinarietà del caso e del momento storico rendono ancor più difficile il bilanciamento tra Stato di diritto e ragion di Stato».

La sentenza del Tribunale militare di Roma. Walter Biot condannato a 30 anni: il militare accusato di aver venduto segreti ai russi. Redazione su Il Riformista il 9 Marzo 2023

Il tribunale militare di Roma ha condannato a 30 anni Walter Biot. L’ufficiale di Marina era accusato di accuse di rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio, procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio, esecuzione di fotografie a scopo di spionaggio, procacciamento e rivelazione di notizie di carattere riservato e comunicazioni all’estero di notizie non segrete né riservate. Biot era stato arrestato due anni fa in un parcheggio alla periferia sud di Roma, nel quartiere di Spinaceto, mentre cedeva secondo l’accusa documenti top secret al funzionario russo Dmitry Ostroukhov in cambio di una mazzetta di banconote. La Procura militare aveva chiesto l’ergastolo per il capitano di Fregata.

Fu infedele e astuto: condannatelo all’ergastolo”, aveva argomentato l’accusa. “Maneggiava quotidianamente documentazione riservata e questo è attestato da colleghi e funzionari”. I giudici hanno riconosciuto le attenuanti generiche. Biot ha risposto di “procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio”, “procacciamento e rivelazione di notizie di carattere riservato”, “esecuzione di fotografie a scopo di spionaggio” e “comunicazione all’estero di notizie non segrete nè riservate”. Secondo chi indaga, Biot si sarebbe procurato notizie che, nell’interesse della sicurezza dello Stato, dovevano rimanere segrete, per poi passarle al funzionario russo. Tra i 19 documenti fotografati ce ne erano alcuni, della Nato, “riservatissimi”, e uno “Top secret”, ha evidenziato l’accusa durante la requisitoria.

L’ufficiale era stato incastrato da alcuni video in cui sarebbe stato ripreso mentre fotografava documenti riservati ai quali aveva accesso grazie all’impiego presso lo Stato maggiore della difesa. L’accusa ha citato in udienza un video in cui l’ufficiale, seduto alla sua scrivania, avrebbe preso una scatoletta dalla quale estraeva il cellulare, inseriva la scheda sd e fotografava lo schermo del pc e alcuni fogli prima di nascondere la scheda in una scatola di medicine e di mettere tutto nello zaino.

Perché sono stati espulsi 30 diplomatici russi dall’Italia, erano spie?

Per il rappresentante dell’accusa “Biot ha fatto commercio di documenti segreti” e ha dimostrato “elevato grado infedeltà e la capacità criminale, ma anche il triste tornaconto venale. L’astuzia con la quale voleva dissimulare la sua azione. Quella del 30 marzo del 2021 è stata solo quella scoperta, ma possono essercene state altre”. Quei documenti avrebbero avuto un valore pari a una somma di cinquemila euro. Nei confronti del capitano di fregata procede anche la procura di Roma che, nell’inchiesta della pm Gianfederica Dito coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, contesta le accuse di spionaggio, rivelazione di segreto di Stato e corruzione. Biot per queste accuse è sotto processo davanti alla Corte di Assise di Roma. La difesa ha annunciato ricorso in Appello.

Il Caso Renzi.

"È successa una cosa strana". La verità dell'ex spia sull'incontro con Renzi. L'ex 007 Marco Mancini, ormai in pensione, parla a Quarta Repubblica di quell'incontro in autogrill con Renzi. Giuseppe De Lorenzo il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

È la versione dell’ex 007, Marco Mancini. L'uomo che ha passato 30 anni al controspionaggio, altri sette come funzionario del Dis a coordinare le attività dei servizi segreti, per poi essere “spintaneamente” costretto alla pensione a causa di una foto. Quella che lo ritraeva insieme a Matteo Renzi, ad un autogrill, nel pieno della crisi del governo Conte II.

Altri tempi, altre storie. In quelle immagini, scattate - pare - da una ignara insegnante, Mancini e l’ex premier indossano ancora la mascherina protettiva anti-Covid. Sono i giorni di Natale del 2020. Nell’area di sosta di Fiano Romano si vedono il dirigente del Dis e il leader di Italia Viva: il primo in lizza per una nomina di peso nell’intelligence, il secondo al centro delle manovre politiche per portare Mario Draghi a Palazzo Chigi.

La donna che ha registrato le immagini sostiene di averlo fatto perché incuriosita dalla presenza di un uomo scortato che incontra un senatore in “un luogo così anomalo”. Avrebbe sentito Mancini dire soltanto “sono a disposizione. Sai dove trovarmi” per poi veder ripartire i due in direzioni opposte. Il video finisce dapprima sulla scrivania del Fatto Quotidiano, che non risponde. Poi nell’aprile del 2021 su quelle di Report. Ed è allora, a diversi mesi di distanza dall'incontro, che scoppia il bubbone: il giorno dopo la puntata, il capo del Dis Vecchione finisce in audizione segreta al Copasir, Draghi gli dà il benservito, nomina Elisabetta Belloni e pure Mancini viene costretto alla pensione.

Di domande su quell’incontro ne sono state fatte tante. E tante sono rimaste inevase. Chi ha realizzato quel video aveva un qualche legame con i servizi? E cosa si sono detti Mancini e Renzi? Intervistato a Quarta Repubblica, l'ex agente ha fornito alcuni elementi.

Prima risposta: in quell’incontro 007-senatore non vi era nulla di strano o segreto. “Avevamo un appuntamento al Senato. Non posso andare a trovare un parlamentare?”. La proposta di vedersi in Autogrill, assicura Mancini, sarebbe arrivata dallo stesso ex premier.

Seconda risposta: “Quel giorno è successa una cosa strana: la scorta non ha visto nessuna persona che potesse attentare alla sicurezza mia e di Renzi”. Cioè l’autore del video. Come è possibile?

Terzo punto: le indagini hanno escluso il legame della insegnante con i servizi, ma per Mancini occorrerebbe fare un controllo anche sul compagno di lei. “Ho la certezza - spiega l’ex spia - che questo accertamento non è stato fatto”. Mancini, tramite il legale, avrebbe invitato le autorità a chiedere a tutti gli appartenenti ai servizi se conoscono o meno il nome della signora o quello del compagno. Una procedura standard, assicura, che “è sempre stata fatta” tranne in questo caso. “La prova sono io, perché a me nessuno me l'ha chiesto”, ma “per arrivare alla verità bisogna fare quell'accertamento. Vedere se il compagno e lei erano conosciuti dai servizi segreti”.

Infine, occorrerebbe chiarire anche un altro aspetto. Mancini oggi è un uomo facilmente riconoscibile, ma ai tempi dello scandalo no, come ovvio che sia per un appartenente all'intelligence. Ad indicarlo a Report fu un uomo coperto da anonimato, ex dirigente di polizia ed anche lui membro dei servizi. Cosa c’è di male? “Ha declinato le mie generalità - lamenta Mancini - benché fossi in servizio e sotto scorta”. Non si fa, è il ragionamento. “Se io e lei domani mattina andiamo di fronte alla sede dell'Aise, dell'Aisi e del Dis, e lei mi chiede chi è questo o quell'agente, secondo lei le dico chi è e che compito ha? Ma stiamo impazzendo?”. Non solo. “Risulta che questa persona abbia telefonato ai giornalisti di Report una settimana prima che andasse in onda la trasmissione”.

Misteri, insomma. Tanti dettagli ancora da chiarire. Ma la domanda che tutti si fanno è una sola: c’è stato un complotto per escluderlo dalla corsa ai vertici del Dis? Mancini non si sbilancia: “Io penso che se si fa questo accertamento (sul compagno della donna, ndr), verrà fuori la verità”.

Le telefonate dei servizi al conduttore di "Report". Il caso di Renzi spiato all'autogrill nell'incontro con lo 007 Mancini. E spuntano sospetti sul coniuge della testimone. Luca Fazzo il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

Sono stati gli uomini dei servizi segreti a cercare «Report», e non viceversa. Sul giallo dell'autogrill di Fiano Romano, l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente del Dis Marco Mancini (nel tondo) nel dicembre 2020, si apre una nuova finestra, che costringe a porsi nuovi interrogativi. Perché se a portare Sigfrido Ranucci sulle tracce dell'ex premier e dello 007 non è stata la prof di Viterbo che per caso (secondo la sua versione) ha immortalato lo strano incontro all'autogrill ma una gola profonda vicina agli apparati di intelligence la storia cambia assai: sia che il bersaglio fosse Mancini, sia che fosse Renzi. E forse si comincia a capire come mai, interrogata in Questura a Roma il 2 maggio 2022, il capo del Dis Elisabetta Belloni abbia coperto la vicenda dell'autogrill col segreto di Stato, confermato - tranne che su dettagli irrilevanti - dal governo Draghi.

A lanciare il tema dei contatti tra «servizi» e Report è Marco Mancini, che lunedì scorso, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, afferma testualmente che la prima chiamata non è partita da «Report». Gli accertamenti della Digos di Roma sembrano confermare la tesi. È il 27 aprile 2021, sull'utenza intestata alla Rai e in uso al direttore di «Report» Sigfrido Ranucci alle 11,28 arriva una telefonata. L'utenza è intestata a Carlo Parolisi, ex agente dei servizi segreti. È il primo contatto tra i due. Stando agli accertamenti della Digos di Roma, fino a quel momento Parolisi e Ranucci non si sono mai sentiti.

Chi è Parolisi? É la fonte che «Report» utilizzerà poi, con volto e voce cammuffati, per riconoscere Mancini nell'uomo che conversa con Renzi nell'area di servizio. Di certo, Parolisi conosce bene Mancini, avendo lavorato per lui al Sismi. Le loro strade si sono incrociate su una vicenda drammatica, il rapimento in Iraq della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena nel 2005: è Parolisi a pagare in Kuwait il riscatto per la giornalista, è Mancini a riportarla in Italia dopo che Nicola Calipari, capodivisione del Sismi, è stato ucciso dagli americani sulla strada per l'aeroporto di Baghdad. Parolisi oggi è ufficialmente in pensione. Il 27 aprile chiama Ranucci, mezz'ora dopo viene richiamato da un inviato di Report. Da quel momento i contatti tra l'inviato e l'ex 007 si fanno intensi: sedici telefonate in tre giorni, a volte a chiamare è Parolisi, a volte è il giornalista. Ma a prendere l'iniziativa per primo, dicono i tabulati, è lo 007. Da quel momento, quelli di «Report» fanno solo il loro lavoro di giornalisti. Le vere domande sono: perché Parolisi chiama la redazione? Perché, se il suo ruolo è solo riconoscere Mancini nel filmato dell'autogrill, sono necessarie sedici chiamate, che proseguono anche dopo la messa in onda del filmato, avvenuta il 3 maggio 2021?

Tra le sedici chiamate ce n'è una particolarmente significativa. L'inviato di «Report» aggancia la cella telefonica di Viterbo, dove si è fiondato da Roma. Viterbo è importante, perché lì abita, col suo compagno, Valentina Cuozzo, la professoressa che ha realizzato foto e video. Che bisogno ha il giornalista, mentre si trova nei pressi della docente, di chiamare nuovamente Parolisi?

Per fugare i dubbi su possibili mandanti dell'«Operazione Autogrill» dentro i «servizi» basterebbe verificare se il nome della donna sia presente negli archivi del Dis, o di Aisi e Aise. Questa verifica non è stata fatta, dice Mancini: né per lei, né per il compagno. L'uomo, secondo i tabulati, si chiama Mariano Vincenzi: il 23 dicembre 2020 parla a lungo con la Cuozzo, due minuti prima che la donna - passando per caso all'autogrill? - decida di fotografare di nascosto l'incontro tra Renzi e lo «sconosciuto elegante». Ovvero Marco Mancini.

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 7 giugno 2023. 

La telenovela “Matteo, la prof., la Procura e l’autogrill” continua. […] Dopo aver chiesto di indagare sulla professoressa (che lo aveva ripreso nella piazzola dell’Autogrill e aveva girato poi il video a Report, che individuò l’interlocutore: lo 007 Marco Mancini) ipotizzando fosse complice di un’operazione di spionaggio clandestino; dopo aver ottenuto dai pm di Roma di farla indagare non per quello ma per un altro reato che neanche lui aveva ipotizzato, la diffusione di riprese fraudolente; dopo aver ottenuto dalla Procura di accedere ai messaggi del telefonino della prof. nei quali si citavano le parole chiave (Renzi, Mancini, Fiano, Settebagni e Autogrill), Renzi ha proseguito l’escalation.

E i pm ci hanno messo del loro acquisendo già all’inizio dell’indagine i tabulati dei giornalisti di Report a caccia delle loro fonti. Esposto dopo esposto, richiesta dopo richiesta, Renzi […] ha aumentato la sua sete di dati. E, poiché ogni volta nelle prove raccolte dai pm c’erano smentite alle sue idee complottiste, (è stato accertato che la prof non ha nulla ha a che fare con gli 007) rialzava la posta spalleggiato dai media amici.

Ora l’ultimo atto vede come protagonista il suo consulente Alessio De Giorgi, già noto come capo della comunicazione di Renzi (che alcuni definivano la “Bestia renziana”) e ora direttore del sito de Il Riformista. Il 5 giugno, durante l’esame del telefonino della prof., alla presenza di De Giorgi come consulente di Renzi, è stato chiesto alla polizia di estrarre e copiare le chat integrali della prof. nelle quali incautamente fossero nominati Renzi, Mancini, Fiano, Autogrill o Settebagni. […] tutte le chat con uno solo dei termini suddetti per Renzi andrebbero copiate. Anche se contenessero centinaia di messaggi di anni addietro, magari con una persona cara, magari su cose intime. Senza sconti.

Tutte le chat “contaminate” andrebbero consegnate a Renzi.

Il difensore della professoressa si è opposto […] La professoressa ha sempre fornito il più ampio supporto alle indagini. L’avvocato Vasaturo quindi chiede al pm Luigi Fede e all’aggiunto Michele Prestipino di porre un freno a Renzi per una questione di principio, per tutelare i giornalisti che teoricamente hanno interloquito con una fonte, oltre che per salvaguardare come cittadina, la professoressa da un’indebita invasione della sfera privata. 

Vasaturo tra l’altro non arriva ad evocare un possibile uso dei dati a fini giornalistici ma ricorda il ruolo di Renzi e di uno dei consulenti, Alessio De Giorgi, come già detto direttore del sito del quotidiano Il Riformista. […] Vasaturo sottolinea che la Cassazione riserva “massima garanzia al segreto sui contenuti delle interlocuzioni dei giornalisti” e rammenta “il rispetto del criterio di proporzionalità”.

Alla fine la polizia ha rimesso la palla ai pm che decideranno sulla richiesta dei legali di Renzi […] La Procura di Roma si è già mostrata molto sensibile alle istanze dell’ex premier indagando la professoressa e sottoponendo lei e i giornalisti a un’invasione della sfera privata pesante. Da tempo avrebbe potuto chiudere questa telenovela con una richiesta di archiviazione. Ora vediamo cosa farà sulle chat.

Ci permettiamo di ricordare un precedente. Nel caso Consip, quando era indagato con Carlo Russo per traffico di influenze il padre di Matteo Renzi, i carabinieri e i pm acquisivano con grande parsimonia le chat trovate nel cellulare di Russo. Nelle loro informative “stitiche” i carabinieri non riportavano l’intera chat tra Tiziano e Russo ma solo i singoli messaggi in cui c’era una parola chiave tipo “Marroni” (Ad allora di Consip). Se la stessa Procura consegnasse ora alla difesa di Matteo Renzi le intere conversazioni della prof. perché lo cita in un solo messaggio di una lunga chat, si potrebbe pensare che la privacy della signora vale meno perché ha osato non solo riprendere, ma persino citare in un messaggio Matteo Renzi. […]

Il caso Open. “La Corte darà ragione a Renzi”, il ‘corvo’ fa infuriare il senatore di Iv. Ieri su Repubblica le indiscrezioni sulla decisione sul conflitto di attribuzione tra Senato e procura di Firenze. Angela Stella su L'Unità il 7 Giugno 2023 

Chi è il corvo che ha spifferato a Repubblica la probabile decisione in merito al “conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, per avere quest’ultima acquisito agli atti di un procedimento penale, pendente nei confronti di un senatore e di altri soggetti, corrispondenza scritta riguardante il medesimo parlamentare senza preventiva autorizzazione del Senato” su cui la Corte Costituzionale è chiamata a decidere oggi dopo una udienza pubblica (relatore Modugno)?

La risposta non l’avremo mai, ma intanto il pezzo firmato da Liana Milella ieri, che anticipava indiscrezioni sulla decisione Consulta pronta a dar ragione a Matteo Renzi, ha creato parecchio frastuono, dentro e fuori la Corte. Sintetizziamo la questione: il 22 febbraio 2022 l’Aula di palazzo Madama approvava, con 167 voti favorevoli, 76 contrari e nessun astenuto la relazione della Giunta delle immunità sul caso Open che vede coinvolto il leader di Italia Viva Matteo Renzi, indagato per finanziamento illecito. In sostanza veniva sollevato un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze che avrebbe inserito nel fascicolo dell’inchiesta chat e mail di quando Renzi era già senatore.

Infatti secondo l’articolo 68 della Costituzione è richiesta una autorizzazione per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. Nel caso di Renzi sono state inserite agli atti conversazioni via email e whatsapp avute con gli imprenditori Marco Carrai e Vincenzo Manes, nonché un estratto del conto corrente bancario personale dello stesso leader di Italia Viva, senza chiedere alcun permesso.

L’articolo parla anche del caso di Cosimo Maria Ferri: la “Camera, sempre l’anno scorso, aveva negato al Csm l’utilizzo delle intercettazioni tra l’ex pm Luca Palamara e il deputato di Iv Ferri, sotto inchiesta disciplinare proprio per via di quelle conversazioni del 2019 sulle trattative per chi dovesse diventare procuratore di Roma. E palazzo dei Marescialli aveva sollevato a sua volta un altro conflitto di attribuzione”, ricorda la Milella.

Ma questa questione non è prevista nel calendario dei lavori di oggi. Sta di fatto che l’articolo ha spinto la Corte a inviare una nota alla stampa: “In relazione ad alcune illazioni apparse oggi (ieri, ndr) su organi di stampa, l’Ufficio Comunicazione della Corte costituzionale precisa che esse sono totalmente destituite di fondamento. La Corte darà comunicazione delle proprie decisioni, rispettivamente sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura e sul conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato promosso dal Senato della Repubblica, non appena esse saranno state assunte. Si precisa inoltre che il secondo conflitto non è stato nemmeno discusso in pubblica udienza, che è fissata solo per domani (oggi, ndr)”.

Non ci si aspettavano parole diverse. Ma sta di fatto che qualche uccellino ha cantato. In passato è avvenuto che qualche giudice, qualche assistente, o qualcun altro alla Consulta passasse indiscrezioni ai cronisti. Il fatto è che non si arriva vergini in una Camera di Consiglio: se ne discute prima e pertanto qualcuno poteva e ha potuto far trapelare un possibile orientamento. Siamo sempre nel campo delle ipotesi ovviamente. E non è detto che quanto avvenuto in passato si sia ripetuto, a maggior ragione che domani si terrà una udienza pubblica.

Alla fine lo sa solo Liana Milella, il cui articolo ha suscitato anche la forte reazione di Renzi che ha scritto in una nota: “L’articolo di Repubblica di questa mattina (ieri, ndr) a proposito del conflitto di attribuzione fra il Senato e la Procura di Firenze è un maldestro tentativo di condizionare il dibattito della Corte Costituzionale. Esprimo sconcerto per questo stile che non condivido e auguro un buon lavoro ai giudici della Consulta, la cui decisione è destinata a regolare i rapporti tra il Senato e l’Autorità giudiziaria per i prossimi anni”. Persone che conoscono bene i meccanismi della Corte ci dicono che i giudici non si lasceranno influenzare da quanto accaduto, del tipo “diamo torto a Renzi per smentire la talpa”.

DI Angela Stella 7 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” l’1 marzo 2023.

Una testimonianza chiave di un ex 007 e approfonditi accertamenti sul cellulare della professoressa. Sono queste le ultime tappe nelle indagini su quello che è diventato quasi un genere giornalistico e televisivo: il complotto (inesistente) ai danni di Matteo Renzi e di Marco Mancini, ex dirigente dei servizi segreti. Il fascicolo giudiziario di cui stiamo parlando è stato aperto per la presunta diffusione di foto e video «fraudolenti» che avrebbero recato danno alla reputazione del fu Rottamatore e per cui è stata indagata la ormai celebre docente di Viterbo che immortalò con il cellulare (13 foto e due brevi filmati) Renzi e Mancini intenti a parlottare tra di loro tra le 16.21 e le 16.34 del 23 dicembre 2020 all’autogrill di Feronia Est, all’altezza di Fiano romano.

[…] Marco Mancini […] presenta querela presso la Procura di Ravenna. A questo punto i pm iscrivono un fascicolo per i reati di diffamazione e di rivelazione di segreto di Stato. Quest’ultima ipotesi viene contestata ai giornalisti di Report Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti, «perché in concorso con persona ignota», nel servizio del 3 maggio 2021, «rivelavano notizie che dovevano rimanere segrete nell’interesse dello Stato riguardanti la persona e l’immagine di Mancini, all’epoca dirigente della Presidenza del Consiglio». La «persona ignota» e ipotetico complice del reato, in quel momento non identificato, è un ex agente dei servizi, il settantenne Carlo Parolisi, il quale in tv aveva confermato che l’uomo ritratto nelle foto era proprio Mancini. Il procedimento è stato poi trasmesso per competenza territoriale a Roma.

Arriviamo così al penultimo atto: mercoledì 22 febbraio la Digos di Roma ha convocato e ascoltato Parolisi come persona informata sui fatti (e non come indagato). Sull’ex 007 ha puntato il dito l’avvocato di Renzi, Luigi Panella, il quale ha anche ricordato ai magistrati che per un libro ritenuto diffamatorio da Mancini, l’autore chiamò come testimone a proprio favore lo stesso Parolisi. Un modo per dire che tra i due ex agenti non correrebbe buon sangue.

 A quanto risulta alla Verità, i poliziotti, su delega della Procura, non avrebbero rivolto a Parolisi nessuna domanda sui suoi rapporti con la professoressa (che non ci sono mai stati) o sui suoi spostamenti il 23 dicembre 2020 o il 28 aprile 2021, il giorno successivo all’intervista con Report, e sui suoi eventuali contatti (ipotizzati dalla difesa di Renzi) con uomini degli apparati in quelle date.

La Digos, secondo le nostre fonti, avrebbe domandato al teste conferma della data dell’intervista, del luogo in cui si è svolta e gli avrebbe domandato se sia stato lui a riconoscere Mancini in video. Gli sarebbe stato pure chiesto se i giornalisti fossero già a conoscenza dell’identità di Mancini.

 Circostanza confermata dallo stesso Parolisi. La riconoscibilità del volto di Mancini è collegata all’uccisione del dirigente del Sismi (il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) Nicola Calipari durante le concitate fasi finali del sequestro della giornalista Giuliana Sgrena a Baghdad. All’epoca Mancini dirigeva la prima divisione dell’agenzia, quella che si occupava di controterrorismo, controspionaggio e controcriminalità organizzata e gestiva i centri italiani del Sismi.

L’allora direttore Nicolò Pollari lo aveva mandato a recuperare in Iraq la Sgrena e un agente ferito, mentre Parolisi, che si trovava ad Abu Dhabi, era stato richiamato a Roma. Parolisi, dopo la morte di Calipari, come da lui stesso dichiarato durante una seduta della commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte dell’onorevole Aldo Moro, prende il posto per tre mesi del collega ucciso alla guida del dipartimento Ricerca che coordinava i centri esteri e la divisione operazioni.

Il giorno dell’arrivo della Sgrena è lui a salire a bordo dell’aereo per gestire lo sbarco dei passeggeri e nell’occasione avrebbe riferito ai colleghi le disposizioni di Pollari che aveva ordinato ai suoi agenti di non scendere a fianco della cronista liberata, ma di rimanere in disparte. Mancini, però, avrebbe disatteso l’ordine venendo così immortalato nello scatto che lo ha reso noto al grande pubblico e ovviamente anche ai giornalisti. Mercoledì Parolisi ha risposto, dunque, a domande che sembrano riguardare solo il procedimento per diffamazione e violazione del segreto di Stato avviato su querela di Mancini.

Il fascicolo, separato da quello della professoressa, è ancora alle battute iniziali e i magistrati dovranno valutare se ci siano i presupposti per chiedere il rinvio a giudizio dei giornalisti di Report. La Procura della Capitale, come detto, ha avviato anche un procedimento sull’esposto presentato da Renzi con l’ipotesi di abuso di ufficio e l’installazione di apparecchiature atte a intercettare.

La docente, però, è stata iscritta per un altro reato, ha ricevuto l’avviso di chiusura delle indagini e ha reso un secondo interrogatorio da indagata. Venerdì su richiesta delle parti (rappresentate dall’avvocato Giulio Vasaturo, difensore della professoressa, e dal già citato Panella) la Polizia postale su delega della Procura farà una copia forense del cellulare della donna per verificare che le cose siano andate esattamente come già appurato dalla Digos e cioè che foto e video siano stati realizzati negli orari indicati dai metadati collegati alle immagini, consegnati dalla difesa e confermati dai riscontri sui tabulati.

L’avvocato di Renzi punterebbe a recuperare uno scatto della serie dell’autogrill che sarebbe stato cancellato, mentre di un’altra immagine, indicata come foto F, ha chiesto la verifica della «genuinità», in quanto, a giudizio di Panella, avrebbe subito un «intervento di fotomontaggio».

 Il legale ha contestato anche gli orari degli spostamenti citati dalla donna nelle sue prime dichiarazioni e la descrizione del posizionamento dell’auto al momento degli scatti. Aspetti ritenuti dagli inquirenti del tutto marginali e che non hanno scalfito in nessun modo l’architrave del racconto, che ha retto alle verifiche degli investigatori e alle domande dei magistrati. In Procura nessuno crede ai complotti né tanto meno che a fare le foto non sia stata la professoressa, della quale sono stati controllati i tabulati telefonici dall’1 dicembre 2020 al giugno del 2021 senza che sia emerso alcunché di sospetto. E allora perché fare questi ulteriori accertamenti?

Per spazzare dal campo ogni possibile dubbio, come espressamente sollecitato dallo stesso difensore della docente, ed evitare che Renzi e Mancini possano continuare a paventare, anche a livello mediatico, ipotesi di inesistenti complotti. Per questo, devono aver pensato a Piazzale Clodio, meglio una verifica in più che una in meno.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 10 febbraio 2023

E alla fine sulla vicenda dell’incontro all’autogrill tra Matteo Renzi e l’ex 007 Marco Mancini sono dovuti intervenire addirittura i Servizi segreti. Eh, sì. Nei giorni scorsi, infatti, il Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ha ricevuto le risposte di Aisi e Aise (i Servizi segreti per l’interno e per l’estero) che hanno chiarito come la professoressa che ha filmato quell’appuntamento non abbia avuto collegamenti con i servizi di intelligence. Una carta che potrebbe chiudere definitivamente le polemiche di questi mesi su complotti e simili.

 Le risposte del Dis sono arrivate nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma. Un fascicolo che è stato aperto a seguito della denuncia depositata l’8 maggio 2021 dal leader di Italia Viva, dopo che il 3 maggio era andato in onda il servizio di Report su quell’incontro. Ai pm l’ex premier aveva chiesto di indagare per intercettazione abusiva di un parlamentare.

La Procura però ha deciso di procedere per un altro reato, diffusione di riprese e registrazioni fraudolente, e ha iscritto l’insegnante. Nell’ambito di questa indagine, la donna è stata sentita due volte e ha ribadito davanti ai magistrati che non ci fu alcun complotto […]

 […] Renzi in diverse occasioni ha mostrato molti dubbi sulla ricostruzione della vicenda e più volte in passato ha appellato la professoressa come “sedicente” tale”. […] È stata anche depositata una memoria nella quale l’avvocato Luigi Panella, che segue l’ex premier come persona offesa, ha chiesto alla Procura di svolgere accertamenti addirittura sugli uomini dell’Aise.

Nella memoria infatti si chiede se ci siano stati, in determinati date e orari, contatti telefonici o se le celle del personale Aise (ma anche Dis e Aisi) fossero geolocalizzate nello stesso luogo dell’uomo che a Report, a volto coperto (identificato nel frattempo dalla Digos), ha riconosciuto Mancini quale interlocutore di Renzi all’autogrill. È questa una richiesta che non deve essere necessariamente eseguita dai magistrati.

 Intanto, però, i pm hanno chiesto al Dis di chiarire se siano mai emersi collegamenti tra la docente e gli 007. La procura ha avanzato questa richiesta su sollecitazione del legale della donna, l’avvocato Giulio Vasaturo […] Il Dis, il 29 novembre 2022, ha manifestato all’avvocato Vasaturo la propria disponibilità, ma solo su richiesta dell’autorità giudiziaria. Che è arrivata poco dopo. A quel punto, il Dis ha raccolto i pareri di Aisi e Aise, entrambi con esito negativo: non risulta alcun contatto tra le agenzie di intelligence e la professoressa, neanche come mera collaborazione. Ora agli appassionati del genere toccherà trovare qualche altro complotto.

Giacomo Amadori per “La Verità” – ESTRATTO il 28 gennaio 2023.

Provate a immaginare Matteo Renzi nei panni di Ernst Stavro Blofeld, il capo della Spectre di fleminghiana memoria, mentre accarezza il suo gattino. Qualcuno dentro ai nostri servizi inizierà davvero a vederlo così dopo che, conto terzi, si è trasformato in un ariete lanciato contro la nostra intelligence.

 La vicenda è quella dell’incontro all’autogrill tra il fu Rottamatore e l’ex dirigente dei servizi segreti Marco Mancini, rendez-vous filmato da una professoressa di Viterbo. Il legale del senatore di Rignano, Luigi Panella, sta provando con tutte le sue energie a imbastire un processo per i servizi segreti, «colpevoli» di aver prepensionato nel 2021 Mancini proprio a causa di quell’incontro probabilmente non sufficientemente motivato tra un leader di partito e un capo reparto del Dis.

Riassumiamo brevemente le puntate precedenti: la trasmissione Report ha dedicato a questa abile e controversa spia più puntate. Nella querela di parte che Mancini ha depositato presso la Procura di Ravenna (provincia in cui risiede) si parla di quattro servizi da cui il denunciante si sentirebbe offeso. Le tappe Il primo risale al 12 aprile 2021 e il giorno successivo la ormai celebre docente invia alla trasmissione foto e video che aveva realizzato quattro mesi prima nell’area di servizio di Fiano Romano.

Il 3 maggio va in onda la puntata intitolata «Babbi e spie» in cui viene svelato l’incontro tra Renzi e Mancini e quest’ultimo è chiaramente identificato, con il contributo in video di un ex agente segreto ormai in pensione, il settantenne Carlo Parolisi. Per questo la Procura di Ravenna, guidata da Daniele Barberini, iscrive un fascicolo per i reati di diffamazione e di rivelazione di segreto di Stato e quest’ultima ipotesi viene contestata ai giornalisti di Report Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti, «perché in concorso con persona ignota», con il servizio del 3 maggio, «rivelavano notizie che dovevano rimanere segrete nell’interesse dello Stato riguardanti la persona e l’immagine di Mancini, all’epoca dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri». Il fascicolo viene poi trasmesso a Roma, dove le carte iniziano a mischiarsi.

Infatti, quasi contemporaneamente, Renzi presenta un esposto per abuso d’ufficio e installazione di apparecchiature atte a intercettare. L’ex premier, infatti, ipotizza una fantomatica presenza di 007 che avrebbero ripreso l’incontro. E in questo fascicolo, come abbiamo rivelato il 15 gennaio scorso, dai tabulati richiesti dai pm, affiora il nome di Parolisi (non indagato), la «persona ignota» del fascicolo ravennate.

 La Procura, però, dopo le indagini della Digos, conclude che il 23 dicembre 2020 all’autogrill non ci siano stati complotti, ma chiude l’indagine contestando alla docente «solo» la diffusione di riprese compiute fraudolentemente con il fine di recare danno alla reputazione del senatore di Italia viva.

 Ma l’avvocato di Renzi inizia a studiare gli atti e si convince di aver trovato una nuova pista. La sera del 27 aprile 2021 Mottola, in base alle celle telefoniche acquisite dai poliziotti, si trova nella stessa località di Parolisi. In effetti, come risulta alla Verità, dopo aver intervistato l’insegnante a Viterbo il giornalista e il cameraman si recano in Toscana per registrare anche le dichiarazioni dell’ex agente.

 L’avvocato Panella, già difensore di Mancini sino al 2014 e sostituto processuale del suo attuale difensore Paolo De Miranda, presenta una memoria nell’interesse di Renzi che, però, sembra puntare principalmente ad approfondire le beghe interne ai servizi. Un argomento che sta a cuore più all’ex 007, accompagnato in pensione dallo Stato, che al suo gemello diverso.

Infatti il legale, dopo essere andato a caccia della professoressa senza grandi risultati, pare aver virato su Parolisi. E così, come ha rivelato ieri Il Fatto quotidiano, nella memoria evidenzia come «il 28 aprile 2021», ovvero il giorno successivo all’intervista, «l’utenza di Parolisi viene agganciata quattro volte da stazioni radio base situate in Roma via B. Cerretti (…) e via Cardinal Mistrangelo a circa 1.700 metri in linea d’area da Forte Braschi, sede dell’Aise».

In realtà la distanza, secondo i nostri calcoli, oscilla tra i 2,3 e i 2,6 chilometri, in una zona ricchissima di indirizzi significativi, a partire da quelli di ospedali e cliniche. Inoltre, altra imprecisione del legale di Renzi, Mottola (che si trova a Milano per intervistare l’ex procuratore aggiunto Armando Spataro) e Parolisi provano a entrare in contatto una decina di volte (e non quattro) tra le 16:17 e le 16:29, tentativi che hanno portato a una conversazione di 25 secondi e a una seconda di 114 (il chiamante in entrambe le telefonate è Mottola).

Anche se via Bonaventura Cerretti e via Cardinal Mistrangelo non si trovano negli immediati paraggi del quartier generale del nostro controspionaggio, l’avvocato ha chiesto di «accertare se personale appartenente all’Aise o ad altri apparati dell’intelligence (Aisi, Dis) sia uscito da Forte Braschi il 28 dicembre (aprile, ndr) 2021 (tra le 15:30 e le 17:00) e abbia avuto contatti telefonici con Parolisi ovvero se le celle agganciate dalle utenze di tale personale consentano di geolocalizzare il personale medesimo nei pressi di Parolisi». Ma l’arco di tempo in cui si chiede di effettuare gli accertamenti è quello di uscita di quasi tutto l’organico, tra l’altro all’interno di un quadrante della Capitale particolarmente trafficato.

Lo schema di gioco è chiaro: palla in tribuna. Infatti l’avvocato di Renzi (e Mancini) chiede di scoprire l’identità di decine di 007, mentre Mancini stesso ha denunciato per rivelazione di segreto di Stato chi ha svelato la sua.

Ma, come è già risultato chiaro nel procedimento di Ravenna, la nostra intelligence non potrà mai consegnare alla Procura di Roma dati sugli spostamenti degli agenti in servizio a Forte Braschi e nemmeno i loro tabulati.

 Alla difesa di Renzi interessa sapere se lo stesso Parolisi, il giorno dopo la registrazione della sua intervista, sia andato a parlarne con qualche 007 a Roma? Anche se fosse, questo che cosa dimostrerebbe? A nostro giudizio, niente.

 Ieri abbiamo provato a fare qualche domanda all’ex «persona ignota» sulla spinosa questione e lui ha accettato di rispondere. Oggi è «consulente di aziende operanti nel settore della sicurezza privata» e non si aspettava di finire in questa bufera. Dopo averci confermato di aver incontrato Mottola il 27 aprile, ha replicato così ai nostri quesiti: «Non ricordo il motivo per cui, il 28 aprile, il giorno successivo all’intervista, mi sarei recato in Roma.

 La zona di cui si parla è stata da me frequentata negli anni scorsi, anche nel 2021, per la vicinanza al policlinico Gemelli (che si trova poco distante rispetto a Forte Braschi, ndr) dove mi sono recato per motivi sanitari. Le visite si sono protratte nel tempo, in vista dell’intervento chirurgico cui si è sottoposta mia moglie nell’aprile del 2022». Parolisi puntualizza che, comunque, il 28 aprile la sua apparizione in video era già stata registrata.

«Preciso inoltre che gli incontri con gli ex colleghi avvengono sempre al di fuori dei loro uffici, dove è impossibile rientrare, una volta in quiescenza, se non convocati per specifici motivi». Insomma, mettendo nel mirino Forte Braschi, l’avvocato Panella sarebbe decisamente fuori strada. E con lui anche Renzi-Blofeld.

E quanto alla presunta violazione del segreto di Stato l’ex agente precisa: «Non ho svelato l’identità di Mancini, bensì ho solo confermato l’identificazione già operata dai giornalisti grazie alle riprese effettuate nel marzo 2005 all’aeroporto di Ciampino, quando Mancini scortò in Italia la giornalista Giuliana Sgrena appena liberata da un sequestro. Inoltre le ambizioni di Mancini, di cui ho parlato in tv, erano note (e oggetto di numerosi articoli), per cui escludo qualsiasi violazione del segreto di Stato.

L’intervista puntava a capire se fosse corretto o meno che un dirigente dei Servizi si incontrasse con un politico di spicco con quelle modalità. In merito alla vicenda, non sono mai stato contattato dall’autorità giudiziaria, né dalla polizia, nemmeno informalmente». Parolisi non è apparso in televisione solo durante Report: «Sono stato intervistato nel maggio del 2022 da Frontiere (Rai 3) sulle strane morti di oligarchi russi e da Dimartedì (La 7) nel giugno del 2022 su tematiche attinenti al conflitto russo/ucraino. Perché ai media interessa la mia opinione? Perché partecipo come docente a corsi di varie università e a seminari organizzati da istituti di studi (come ampiamente riscontrabile in Rete)».

Infine l’ex agente, in modo molto trasparente, non nega di avere ancora saltuari contatti con i nostri apparati di sicurezza: «Per chi opera come me per decenni nel campo della intelligence istituzionale, i rapporti con gli ex colleghi non si interrompono mai, sia a causa di situazioni pregresse che vanno chiarite, sia per realizzare quelle sinergie di sicurezza tra pubblico e privato (recentemente stimolate da indirizzi governativi) che tendono ad uniformare l’azione di difesa nazionale alle prassi già in uso da anni nei Paesi alleati. Ma tutto questo non c’entra nulla né con la storia dell’autogrill, né con la mia partecipazione a Report». Renzi-Blofeld può continuare ad accarezzare il suo gattino.

Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 27 gennaio 2023.

La Procura di Roma ha una sola via di uscita dall’imbarazzante situazione in cui si è cacciata: chiedere l’archiviazione della professoressa che ha fotografato Renzi e Mancini all’autogrill. L’avviso di chiusura indagine per 617 septies (diffusione di riprese fraudolente) è stato un errore rimediabile. Se esistesse una norma che vieta di fotografare Renzi in una piazzola e inviare una mail a Report, l’Italia sarebbe un paese delle banane. Per fortuna quella norma non esiste: il 617 septies prevede il carcere fino a 4 anni ma non per quel che la prof ha fatto. Se non lo scriveranno i pm lo scriverà prima o poi un giudice.

Non c’è fraudolenza né dolo di diffamare né diffusione. E il diritto di cronaca riguarda anche le fonti. L’archiviazione sarebbe una toppa su un’inchiesta dai modi discutibili. I pm hanno acquisito i tabulati della fonte e dei giornalisti e li hanno depositati. Ora Renzi e Mancini sanno i nomi delle fonti oscurate da Report. La giustificazione potrebbe essere quella di aver fatto tutto ciò per smontare le tesi complottiste di Renzi.

Però se una simile tesi complottistica fosse stata formulata da un giornalista del Fatto che si sentiva ripreso dai servizi per una foto pubblicata, i pm di Roma avrebbero lavorato così? O la tutela dai complotti ipotetici e dalle foto scomode vale solo per gli ex premier? Non solo. Dopo aver accertato che Renzi sbagliava (cioè che la prof è solo una prof e il complotto non c’è) i pm non hanno archiviato.

 Hanno escluso solo il reato denunciato da Renzi (lo spionaggio di pubblici ufficiali) ma poi hanno ipotizzato le riprese fraudolente che Renzi mai aveva denunciato. Così hanno rafforzato il senatore. Al punto che nell’ultima memoria Renzi arriva a chiedere ai pm di indagare pure sui tabulati telefonici della seconda fonte di Report per individuare i suoi rapporti con i servizi segreti.

Se dai un dito a Renzi ti ritrovi senza braccio. Anche per questo i pm con un sussulto di orgoglio dovrebbero scrivere una richiesta di archiviazione con un implicito messaggio a Renzi di questo tipo: “Caro senatore, per garbo istituzionale abbiamo verificato il complotto che non c’è. Ora, visto che invece di prendere atto della verità sulla prof presenti memorie che tengono alta la grancassa, ti diciamo basta. Le tue tesi sono sballate. La prof non ha fatto nessun reato e le fonti in un Paese serio si tutelano. Non si indagano e svelano su richiesta dei senatori. Specialmente se non hanno fatto reati, come in questo caso. Perché non sono patrimonio dei giornalisti ma dei cittadini”.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli e Vincenzo Bisbiglia per il “Fatto quotidiano” il 27 gennaio 2023.

 C’è un senatore della Repubblica italiana che ha chiesto a una Procura di acquisire le celle telefoniche degli uomini dell’Aise, i servizi segreti per l’estero, e di rintracciare la loro posizione. E lo ha fatto nel proprio interesse personale per chiarire i confini di una vicenda che lo vede protagonista. Quel senatore è Matteo Renzi, e la richiesta è arrivata tramite una memoria presentata dal suo avvocato ai pm di Roma che indagano sul video dell’incontro all’autogrill di Fiano Romano tra il politico e l’ex 007 Marco Mancini. Solo per aver ripreso questo appuntamento e aver inviato le immagini a Report, una professoressa è stata indagata per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. […]

Renzi […] ha definito l’insegnante come “sedicente” tale, come se dietro quel video ripreso da una cittadina qualunque potesse nascondersi chissà quale complotto. […] Nel corso degli accertamenti della Digos, delegata della Procura di Roma, non sono emersi collegamenti tra la donna e il mondo dell’intelligence. […] La Digos ha anche identificato l’uomo che a volto coperto in tv ha indicato l’interlocutore di Renzi in Mancini e che non citeremo perché crediamo nella sacralità delle fonti.

 […] il legale di Renzi ha voluto chiedere ai pm di “accertare […] se personale appartenente all’Aise o ad altri apparati dell’intelligence (Aisi, Dis) sia uscito da Forte Braschi il 28 dicembre 2021 (tra le 15:30 e le 17:00) e abbia avuto contatti telefonici con” l’uomo che ha identificato Mancini in tv, “ovvero se le celle agganciate dalle utenze di tale personale consentano di geolocalizzare il personale medesimo nei pressi” dell’uomo. Si chiede quindi di verificare le celle di chi, nelle date e orari indicati, sia uscito dall’Aise. […]

Estratto dell’articolo di Pietro De Leo per “Libero quotidiano” il 20 Gennaio 2023.

Il caso si intrecciò con la crisi del governo Conte 2: è quello delle immagini che ritraggono il leader di Matteo Renzi e l’allora dirigente del Dis Marco Mancini nella piazzola dell’autogrill di Fiano Romano a ridosso di Natale 2020.

 E che finirono mandate in onda dal programma di Rai3 Report, nel maggio 2021. Da allora, si scatenò un racconto politico-giudiziario attorno alla donna, una professoressa, che le aveva realizzate, e inviate alla trasmissione. Il leader di Italia Viva presentò esposto contro di lei e la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta (ora si è arrivati a chiusura delle indagini) a carico della donna per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente di incontro privato.

Ieri, Adnkronos ha diffuso il verbale dell’interrogatorio che ha rilasciato alla Digos di Roma, l’8 novembre scorso, in cui spiega le ragioni di quel filmato. Sintetizzabili così: si era imbattuta per puro caso in quell’incontro e, avendo sentore che potesse essere di pubblica rilevanza, si decise a filmare e fotografare.

 «Sono stata molto incuriosita dalla particolare situazione a cui assistevo e quindi dall’incontro in autogrill del senatore Renzi con un’altra personalità, presumibilmente pubblica in quanto apparentemente accompagnata da personale di scorta».

 Non sapeva, quindi, che l’interlocutore di Renzi fosse Mancini. Si trovava all’autogrill […] perché era in auto con la famiglia e suo padre aveva bisogno di una sosta. Dunque, descrive la dinamica dell’incontro tra Renzi e Mancini. Prima arriva l’auto dell’ex dirigente Dis, poi dell’ex premier.

 «I due si sono salutati», racconta «ed insieme si sono appartati a parlare passando anche in prossimità della mia auto, fermandosi a più di 10 metri, in posizione defilata, ancorché ben visibile» anche dal punto in cui stava lei.

Dunque «ho intuito il rapporto pubblico e non meramente privatistico che univa i due soggetti: di cui l’uno era uno dei massimi leader politici italiani, e l’altro un personaggio munito di scorta e auto di servizio. Proprio per questo, essendo rimasta colpita dalla singolarità di questa situazione, ho immaginato che il fatto fosse meritevole di essere raccontato nell’esercizio del diritto di cronaca».

 […] «[…] non ho utilizzato alcun mezzo fraudolento di video ripresa o fotografia. Le ho effettuate dal posto di guida della mia autovettura dove, peraltro, ero ben visibile dall’esterno e non nascosta». […] Dunque, con quei filmati, la donna decide di renderli noti. Prima contatta la redazione web del Fatto Quotidiano, senza ottenere risposta. Poi, dopo alcuni mesi, passa a Report. E il resto è storia nota.

(Adnkronos il 19 gennaio 2023) - ''Un personaggio è noto a tutti l'altro purtroppo io lo disconosco…''. E' quanto scriveva la prof che il 23 dicembre 2020 filmò l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente del Dis Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano nella mail inviata il 31 dicembre del 2020 alla redazione web del Fatto Quotidiano.

 Mail, visionata dall'Adnkronos e agli atti dell'inchiesta della procura di Roma insieme a quella inviata il 13 aprile del 2021 alla redazione di Report. Sulla vicenda i pm di piazzale Clodio hanno chiuso le indagini nei confronti della professoressa che col cellulare ha ripreso e scattato foto dell'incontro tra il leader di Italia Viva e l'allora dirigente del Dis, il cui video è stato poi mandato in onda da 'Report' nel maggio 2021, contestando il reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente di un "incontro privato".

''Vi vorrei inviare delle foto che ho fatto il giorno 23 dicembre intorno alle 15:30/16:00, mentre per una sosta caffè mi trovavo nell'ara di servizio della A1 di Fiano Romano... Un personaggio è noto a tutti l'altro purtroppo io lo disconosco - scriveva la prof che si presenta nella mail come una lettrice del quotidiano - Non so se possono interessarvi o se possono significare qualcosa...non ho potuto ascoltare cosa si dicessero ma si sono trattenuti per una mezz'ora abbondante''.

 In altre due mail inviate a quattro mesi di distanza alla redazione di Report, ad aprile 2021, sempre agli atti dell'inchiesta, la prof torna a riproporre, a distanza di pochi minuti, le foto scattate nell'area di servizio di Fiano Romano. La prima inviata alle 13.28 del 13 aprile.

 ''Dopo Il vostro servizio di ieri sera.. ho pensato che queste foto forse a voi possono dire quaiche cosa... risalgono al 23 dicembre 2020, ero andata a Roma a prendere i miei genitori per passare il Natale con loro. Mio padre - scrive la prof - ha dovuto fermarsi per una sosta 'tecnica' all'area di servizio di Fiano Romano, molto ridotta perché in ristrutturazione.

Mentre attendevo con mia madre in macchina arriva una Audi con vetri oscurati che si avvicina ad una Giulietta già precedentemente parcheggiata. Dall'Audi -riporta la prof nella mail - scende Renzi che saluta affettuosamente il signore nelle foto e si dirigono in disparte a parlare. Sono stati circa venti minuti a partare...dopo di che la Giulietta ha ripreso il viaggio per Roma e l'Audi ha imboccato a tutta velocità l'autostrada in direzione Firenze.

 Ho inviato queste foto ad altre redazioni che non mi hanno risposto… dopo pochi giorni dall'incontro di Renzi con questo tipo è caduto il governo... io non credo sia una coincidenza...'' scrive la prof che si congeda come ''vostra spettatrice e ammiratrice per il lavoro che svolgete''. E a pochi minuti di distanza, pensando di non essere riuscita a inviare la mail, alle 13.37 sempre del 13 aprile ne invia un'altra dello stesso tenore.

''Vi invio delle foto scattate da me il giorno 23 dicembre 2020 presso l'area di servizio di Fiano Romano. Non sono una giornalista - precisa la prof - né tantomeno una paparazzi...mi ha solo insospettito questo incontro fra Renzi arrivato su di una Audi con vetri oscurati e questo tipo che era nell'area di servizio su una Giulietta...anch'esso con al seguito una sorta di scorta. Entrambi si sono appartati e hanno parlato per circa venti minuti. Dopo il vostro servizio di eri sera ho ripensato subito a queste foto. Le ho mandate ad altre redazioni - lamentava la prof - ma senza risposta. Dopo pochi giorni da quest'incontro è caduto il governo...''.

(Adnkronos il 19 gennaio 2023) - ''Non ho difficoltà ad ammettere che sono stata molto incuriosita dalla particolare situazione a cui assistevo e quindi dall'incontro in autogrill del Senatore Renzi con un'altra personalità, presumibilmente pubblica in quanto apparentemente accompagnata da personale di scorta.

 Pur ignorando del tutto l'identità dell'interlocutore del Senatore Renzi, da semplice cittadina, innegabilmente curiosa, sono rimasta profondamente colpita da questo singolare episodio ed ho quindi ritenuto di effettuare qualche fotografia e video riprese dei due personaggi pubblici''.

 E' quanto ha spiegato, lo scorso 8 novembre sentita dalla Digos alla Questura di Roma, la 'prof' che il 23 dicembre 2020 filmò l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente del Dis Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano e il cui video è stato poi mandato in onda da 'Report' nel maggio 2021. Dichiarazioni contenute nel verbale di interrogatorio, agli atti dell'inchiesta, visionato dall'Adnkronos.

Sulla vicenda, la Procura di Roma ha chiuso le indagini nei confronti della 'prof' contestando il reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente di un "incontro privato". La donna nel dicembre 2020 si trovava in auto con i familiari e si fermò all'autogrill di Fiano Romano perché il padre aveva necessità di una sosta.

 ''Quando sono uscita dal bar, nel tragitto verso i servizi igienici, ho notato che era sopraggiunta un'auto che si era parcheggiata a pochissimi metri dalla mia - ha spiegato la docente - Accanto a questa auto, di grossa cilindrata, che pur non essendo munita di alcun contrassegno mi è sembrata una 'auto blu', di colore bordeaux metallizzato, notavo tre uomini vestiti in giacca e cravatta.

 Due più vicini al veicolo e uno più distaccato. Quest'ultima persona mi aveva colpito perché era vestita molto elegantemente, con i capelli bianchi, più anziano rispetto agli altri due e quindi ho ipotizzato, senza peraltro riconoscerlo, che quest'uomo fosse una figura istituzionale o comunque pubblica. E che gli altri due uomini potessero essere personale adibito alla sua scorta''.

E' a questo punto che arriva il leader di Italia Viva. ''Mentre ero poggiata al corrimano della scala d'accesso dei disabili, è arrivata un'altra auto e un'auto blu con il lampeggiante di colore blu in funzione. Mi pare di ricordare che fosse un'Audi di grossa cilindrata e di colore scuro, che si è fermata parallelamente all'auto di colore bordeaux.

 Da questa Audi è sceso, dalla porta posteriore destra, un uomo che ho riconosciuto con certezza per il Senatore Matteo Renzi, il quale ha indossato la mascherina anti-covid non appena sceso dalla vettura. In questo frangente l'uomo dai capelli bianchi, già presente nel parcheggio, si è avvicinato al Senatore Renzi - prosegue l'insegnante - ed i due si sono salutati ed insieme si sono appartati a parlare passando anche in prossimità della mia auto, fermandosi a più di 10 metri, in posizione defilata, ancorché ben visibile dalla mia posizione''.

A questo punto, ricostruendo quanto accaduto, l'insegnante sente ''l'esigenza di precisare che questa mia particolare attenzione ai dettagli e capacità di memorizzare taluni particolari deriva da una sorta di "deformazione professionale" conseguente ai miei studi specialistici nel ramo diagnostico della Storia dell'Arte e conservazione dei Beni Culturali. Grazie a questo mio percorso accademico riesco a memorizzare e a riconoscere da un piccolo particolare un'opera artistica o il materiale di cui è composto''.

 Quindi la donna spiega ai poliziotti il motivo per cui ha ''ritenuto di effettuare le riprese e le fotografie del Senatore Renzi mentre dialogava con il suo interlocutore''. ''Ho intuito il rapporto pubblico e non meramente privatistico che univa i due soggetti: di cui l'uno era uno dei massimi leader politici italiani e l'altro un personaggio munito di scorta ed auto di servizio.

Proprio per questo, essendo rimasta colpita dalla singolarità di questa situazione, ho immaginato che il fatto fosse meritevole di essere raccontato nell'esercizio del diritto di cronaca. In effetti mi interesso delle vicende pubbliche e politiche e leggo quotidianamente i giornali - spiega la docente - Sono rimasta, difatti, profondamente colpita che quell'incontro all'autogrill, con quelle particolari modalità, avvenisse in un momento di tensione e crisi politica.

 Ricordo infatti che, in quel contesto, si registravano forti tensioni politiche nel Governo, e il senatore Renzi era, in quel momento, il principale protagonista della politica nazionale. Ho, pertanto, documentato con due video e 13 fotografie l'incontro - sottolinea la donna nell'interrogatorio agli atti - utilizzando il mio cellulare dall'interno della mia autovettura, e nessun altro mezzo di video ripresa o di fotografia. Ci tengo a precisare che non ho utilizzato alcun mezzo fraudolento di video ripresa o fotografia, come si evince chiaramente dalle immagini da me fornite.

Le ho effettuate dal posto di guida della mia autovettura dove, peraltro, ero ben visibile dall'esterno e non nascosta. Dalla mia postazione, all'interno della mia auto, vedevo il personale di scorta di entrambi gli uomini, quattro persone che dialogavano tra di loro e anche loro erano certamente in grado di vedere me, senza alcuna difficoltà''. L'insegnante e suo padre sono rimasti fermi in auto ''una decina di minuti per consentire la ripresa di mio padre che era ancora molto provato dal malessere patito.

 Nel frattempo, i due interlocutori si sono riavvicinati verso la macchina dell'uomo con i capelli bianchi e la macchina di Renzi ha effettuato una manovra per posizionarsi lì vicino. A quel punto - continua la 'prof' - io ho dovuto eseguire una manovra perché l'Audi di Renzi mi aveva bloccato il passaggio. In questo momento i due uomini si trovano fuori dalle rispettive auto di servizio e si stavano salutando.

In questa occasione, mentre transitavo nelle loro prossimità, avendo il finestrino abbassato dal lato passeggero anteriore dove era seduto mio padre, ho avuto modo di udire il senatore Renzi dire al suo interlocutore: 'Tanto per qualsiasi cosa sai come (o dove) trovarmi'''. La donna è stata all'interno del parcheggio dell'area di servizio per ''circa 40 minuti, dopodiché mi sono diretta verso la barriera autostradale, lasciando l'aerea di servizio prima che le due vetture 'istituzionali' abbandonassero l'area di parcheggio''.

 Il giorno dopo, la vigilia di Natale 2020, l'insegnante riferisce di aver inviato tramite 'Messenger' foto e video a" al profilo personale di un mio amico giornalista, il quale però non riconobbe l'interlocutore di Renzi. ''Convinta comunque che l'episodio potesse avere rilievo giornalistico'' la donna inviò le foto tramite email, il 31 dicembre alla redazione web del "Il Fatto Quotidiano", ''da cui non ho peraltro ricevuto alcuna risposta''.

La donna però non molla ed è lei stessa a spiegare il motivo, da quanto emerge dal verbale di interrogatorio: ''E' comunque rimasta in me la sensazione che quell'episodio avesse rilievo giornalistico anche in ragione della particolare congiuntura politica, convinzione ulteriormente consolidatasi dopo le dimissioni del Governo in carica avvenute a gennaio 2021''.

 A questo punto passano alcuni mesi e il 13 aprile del 2021 l'attenzione della docente è attirata da una puntata della trasmissione Report: ''Ho visto un servizio dedicato alla figura di tale Gianmario Ferramonti, in cui si ipotizzava che lo stesso avesse mandato dei messaggi all'onorevole Maria Elena Boschi, figura di punta del partito di Matteo Renzi, per promuovere una sorta di 'complotto', almeno cosi mi era sembrato di capire dal tenore del servizio giornalistico, per favorire la caduta del Governo 'Conte-Bis'.

Dopo aver visto questo servizio giornalistico ho subito pensato che probabilmente quelle foto relative a quell'incontro tanto singolare nell'autogrill di Fiano Romano potessero risultare interessanti proprio per la redazione di Report - spiega - Ho dunque inviato una mail alla redazione di Report, all'indirizzo pubblicato sulla relativa pagina Facebook della stessa trasmissione, e preciso che ho inviato, contestualmente due mail di analogo contenuto.

 La prima alle ore 13.28 e la seconda alle 13.37 dello stesso giorno, in quanto in un momento di confusione con internet, non ero certa che avessi inviato la prima mail''. Circa un'ora dopo, alle 14.46, la donna riceve un'email dal direttore di 'Report', Sigfrido Ranucci, che le chiede un contatto telefonico. ''Da quel momento in poi si avviano i miei contatti con la redazione di Report che hanno portato all'inchiesta andata in onda, con la mia intervista'' trasmessa il 3 maggio.

 Durante l'interrogatorio in Questura, la donna precisa ''a scanso di equivoci, di non aver ovviamente mai chiesto né percepito alcun compenso economico o di altro genere, per il contributo che da semplice cittadina ho volontariamente dato a questa inchiesta giornalistica. Preciso, peraltro, che con estrema correttezza non mi è stato mai proposto alcun compenso da nessuno.

Ho ritenuto, per senso civico, di adoperarmi affinché fosse, garantito il diritto di cronaca su un episodio che, come in effetti ho intuito, aveva ed ha, a mio avviso, rilievo pubblico - ribadisce - Con questa consapevolezza ho ritenuto di assumere il ruolo di 'fonte giornalistica' al fine dell'esercizio del diritto di cronaca ponendo a disposizione della testata di Report e, dapprima, a "Il fatto Quotidiano" dei materiali che, come ho detto e ribadisco, ritengo di avere acquisto in maniera assolutamente lecita, senza alcuna macchinazione e senza in alcun modo nascondermi, fotografando e riprendendo un notissimo personaggio pubblico, già Presidente del Consiglio, mentre interloquiva in un'area pubblica, verosimilmente, di questioni di rilievo pubblico con un personaggio che ho intuito essere, come in effetti era, organico alle Istituzioni e alla Pubblica Amministrazione''.

La docente ha scoperto l'identità dell'interlocutore e ''quindi la sua corrispondenza al nome di Marco Mancini solo nel momento in cui ho visto in tv la puntata di Report del 3 maggio perché, prima di allora, anche quando fui intervistata da 'Report', nessuno della redazione ha inteso dirmi chi fosse l'interlocutore del senatore Renzi. Devo dire, comunque, che mai prima di allora avevo sentito parlare di Mancini e che ovviamente ignoravo del tutto il suo ruolo nei servizi segreti italiani''.

 Per questa vicenda la donna è finita indagata a Roma in seguito alle indagini partite da un esposto presentato dal leader di Italia Viva. Sentita dalla Digos, lo scorso novembre, la docente ha spiegato: ''Ho pensato più volte di presentarmi spontaneamente all'Autorità Giudiziaria per rivelare la mia identità ed ovviamente la mia estraneità ad apparati spionistici volendo smentire da subito e decisamente le illazioni che, all'indomani della diffusione della trasmissione di Report, mi sono trovata a dover leggere sul mio conto su diverse testate giornalistiche.

Ho esitato a farlo in quanto come mamma di due figli come docente ancora precaria in una scuola superiore, a fronte di insinuazioni tanto false ed offensive sul mio conto provenienti da persone ed ambienti ben più potenti di me, ho temuto di esporre la mia famiglia, i miei figli, mio padre già gravemente malato e mia madre già provata da devastanti vicissitudini familiari ad ulteriori tensioni e dolori difficilmente sostenibili da parte loro''.

 Quanto all'intervista rilasciata a Report, l'insegnate afferma di ''aver fedelmente ricostruito l'intera vicenda, omettendo però, in quell'intervista, la presenza in auto, al momento delle video-riprese e delle fotografie, di mia madre, proprio perché animata dal desiderio tutelare il più possibile la figura di mia madre, fortemente provata da un gravissimo lutto famigliare da cui non si è più ripresa. Ho colto dunque persino con sollievo l'opportunità di conferire con l'autorità giudiziaria - conclude la donna dopo oltre tre ore di interrogatorio in Questura a Roma - per tramite di questo organo, confermando sin d'ora la mia massima e completa disponibilità nei confronti della Giustizia avendo sempre ispirato la mia vita di cittadina, mamma ed insegnante al valore della legalità''.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 Gennaio 2023.

C'è chi in queste ore sta cercando di far credere che dietro al famoso video dell'incontro all'autogrill tra Matteo Renzi e l'ex agente dei servizi segreti Marco Mancini ci sia un complotto. Le carte dell'inchiesta aperta dalla Procura di Roma sulla questione in queste ore passano in modo un po' carbonaro di mano in mano, soprattutto in alcuni selezionati salotti, ma la storia della congiura non regge. Fa acqua da tutte le parti. Anche se qualcuno potrebbe abboccare.

La documentazione visionata dalla Verità non consente fraintendimenti: la professoressa che il 23 dicembre 2020 si trovava alla stazione di servizio Feronia di Fiano Romano e ha ripreso la scena dell'incontro (due video di 24 e 29 secondi e 13 foto) tra Renzi e Mancini quel giorno genera traffico telefonico solo con utenze riconducibili a famigliari e amici (i due genitori, il marito e una collega) e con alcuni call center come hanno confermato i tabulati richiesti dalla Procura capitolina, che, sollecitata dall'ex premier, non sembra proprio aver fatto sconti alla signora e ai giornalisti che si sono trovati le proprie fonti spiattellate su piazza.

 La donna, l'antivigilia di due anni fa, si sposta dall'Alto Lazio per raggiungere Roma, dove risiede il padre affetto da grave una malattia cronica. L'anziano si era sentito poco bene e la figlia, come confermato dalle celle telefoniche, andò a prelevare lui e la madre nella Capitale per condurli per le festività natalizie nella propria città.

I controlli fatti dalla polizia sembrano proprio confermare che non ci troviamo di fronte a una Mata Hari manovrata da chissà chi, ma a una docente che ha ritenuto di diventare una fonte giornalistica dopo aver osservato quello strano incontro in piena crisi di governo.

Il 24 dicembre la professoressa ha inviato due messaggi vocali e alcuni messaggi di testo con allegate le foto sul profilo di Messenger del titolare di un blog della sua città, nel Nord del Lazio, senza alcun esito, visto che il blogger «la informava che non ne avrebbe fatto uso, ma le avrebbe conservate in archivio non essendo in grado di riconoscere chi fosse l'interlocutore di Renzi». Forse perché il direttore editoriale del blog che si presenta come «giornale indipendente online» si occupa solo di cronaca locale. I messaggi vocali agli atti confermerebbero il genuino entusiasmo della donna, colpita dal singolare rendez-vous.

La docente non soddisfatta è tornata alla carica il 31 dicembre, il giorno di San Silvestro, quando anche i giornalisti sono impegnati nei preparativi del cenone, questa volta con il Fatto quotidiano: «Carissimi sono una vostra lettrice ancora legata al cartaceo però [] vi vorrei inviare delle foto che ho fatto il giorno 23 dicembre intorno alle ore 15:30/16 mentre per una sosta caffè mi trovavo all'area di servizio A1 di Fiano Romano un personaggio è noto a tutti l'altro purtroppo io lo disconosco non so se possano interessarvi o se possano significare qualcosa non ho potuto ascoltare che cosa si dicessero, ma si sono trattenuti per una mezz' ora abbondante un caro saluto e buon anno». Ma al Fatto la mail è sfuggita e nessuno ha risposto.

 A questo punto ogni persona di buon senso non può che porsi un quesito: ma se dietro a quelle foto e a quei filmati c'era un complotto oscuro di apparati deviati o comunque ostili a Renzi e Mancini come è possibile che questa Spectre non sia riuscita a trovare qualcuno disposto a pubblicare la notizia bomba nelle ore in cui erano in corso le ultime disperate trattative per non far cadere l'esecutivo. Insomma i complottardi non devono essere stati di gran livello. Oppure, come crediamo noi, non esistevano.

La verità è che in quella fase concitata a Palazzo Chigi qualcuno aveva scommesso sulle doti di negoziatore di Mancini, all'epoca dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) e ascoltato consigliere del direttore Gennaro Vecchione. Al punto che secondo alcuni addetti ai lavori Mancini quel giorno si sarebbe recato a Fiano Romano non per consegnare dei «babbi di cioccolato» a Renzi, ma in veste di ambasciatore di Conte & C. incaricato di trovare una quadra sul governo in caduta libera. Una mission impossible da cui Mancini sarebbe potuto uscire con le mostrine da vicedirettore. Ma il piano fallì, sebbene sia rimasta testimonianza del conciliabolo all'autogrill grazie al senso civico di una professoressa che riteneva di essere testimone di qualcosa di losco.

Ma dopo aver tentato inutilmente di piazzare il materiale, la donna lo dimentica nel suo computer per quasi quattro mesi, sino al 12 aprile successivo. Quel giorno Report trasmette un'inchiesta intitolata «Lo sterco del diavolo». «Nel corso della puntata ho visto un servizio dedicato alla figura di tale Gianmario Ferramonti, in cui si ipotizzava che lo stesso avesse mandato dei messaggi all'onorevole Maria Elena Boschi, figura di punta del partito di Matteo Renzi per promuovere una sorta di complotto, almeno così mi era sembrato di capire dal tenore del servizio per favorire la caduta del governo Conte bis» ha spiegato la professoressa a verbale l'8 novembre scorso.

Dopo aver visto la trasmissione ha subito pensato che «le foto relative a quell'incontro tanto singolare nell'autogrill di Fiano Romano potessero risultare interessanti per la redazione». E per questo ha scritto due messaggi all'indirizzo pubblicato sulla pagina Facebook del programma, uno delle 13 e 28 e uno delle 13 e 37. Nel primo ricorda di essersi fermata nell'area di servizio di Fiano Romano per una «sosta tecnica» del padre: «Mentre attendevo con mia madre in macchina arriva un'Audi con vetri oscurati che si avvicina a una Giulietta già precedentemente parcheggiata.

Dall'Audi scende Renzi che saluta affettuosamente il signore nelle foto e si dirigono in disparte a parlare. Sono stati circa venti minuti a parlare dopo di che la Giulietta ha ripreso il viaggio per Roma e l'Audi ha imboccato a tutta velocità l'autostrada in direzione Firenze». La docente, con grande onestà, rivela di aver inviato lo stesso materiale «ad altre redazioni, che non mi hanno risposto».

 Poi chiosa: «Dopo pochi giorni dall'incontro di Renzi con questo tipo è caduto il governo io non credo sia una coincidenza con affetto una vostra spettatrice e ammiratrice per il lavoro che svolgete». Alle 14 e 46, dopo poco più di un'ora, si fa vivo il conduttore in persona: «Gentile V., sono Sigfrido Ranucci, potrei avere un suo contatto».

L'indagata inizia ad avere rapporti telefonici sia con Ranucci che con l'inviato Giorgio Mottola, il quale il 27 aprile la raggiunge a casa per preparare l'intervista. Il 28 aprile il giornalista contatta un altro ospite che, seppur oscurato in volto, andrà in onda nella stessa puntata di Report del 3 maggio, intitolata «Babbi e spie». ovvero il settantenne ex dirigente dei servizi segreti Carlo Parolisi. L'uomo, pluridecorato e con una grande carriera alle spalle, è spesso ospitato in tv e sui giornali come esperto di geopolitica e situazioni di crisi.

 Nel sito dell'azienda di investigazioni di cui è senior advisor è così descritto: «Già funzionario di Polizia (sezioni antiterrorismo delle Digos di Genova e Roma), transita al Sisde (Nucleo intelligence dell'Alto commissario antimafia). Allo scioglimento della struttura, permane al Sisde con incarichi dirigenziali in centri operativi, per poi transitare al Sismi (successivamente Aise) con incarichi operativi in Italia e all'estero.

Posto in quiescenza, riveste per due anni l'incarico di Chief security officer presso Finmeccanica Uk. Docente in materia d'intelligence presso l'università Sapienza e la Lumsa di Roma e presso Scuola superiore Sant' Anna di Pisa». È lui che nella trasmissione del 3 maggio dice la sua su Mancini e lo riconosce ufficialmente da video e foto: «Direi proprio che è lui».

 E aggiunge: «Può ingenerare un sospetto un incontro di questo genere». Si capisce che Parolisi non deve avere in grande simpatia l'ex collega. Per esempio ha ricordato quando «spalleggiava» l'ex capo della security Telecom-Pirelli Giuliano Tavaroli, il quale, nel 2010, ha patteggiato 4 anni e 6 mesi per i dossier illegali sfornati dal suo team.

 Mancini per quella vicenda è stato indagato e poi prosciolto, mentre per il sequestro dell'imam Abu Omar è stato arrestato, condannato in primo grado a 9 anni e poi assolto grazie all'opposizione per due volte del segreto di Stato. Parolisi a proposito di Mancini ha ricordato che dopo le inchieste giudiziarie è salito di grado: «Già aveva un alto livello dirigenziale, è stato promosso a un livello equivalente a dirigente generale».

E a chi gli chiede dei rapporti di Mancini con il Palazzo e delle sue «grosse ambizioni di carriera» replica: «È fatto noto che frequenta molti politici dei più diversi schieramenti. Si è parlato di lui come vicedirettore dell'Aise e queste sembravano essere le sue aspirazioni. E poi a un certo punto sembrava di capire che ci potesse essere per lui una promozione a vicedirettore del Dis».

La Digos di Roma sottolinea che Parolisi è un pensionato, senza pregiudizi di polizia, che ha indagato sul sequestro dell'onorevole Aldo Moro e che la moglie negli anni '80 era stata a sua volta una professoressa. Dai tabulati risulta che tra il 27 e il 29 aprile Mottola e Parolisi si sentano più volte. E su questo punto ci preme sottolineare come nessun giornalista investigativo chiamerebbe una fonte riservata con la normale linea telefonica.

Ormai, magistrati, politici, investigatori e giornalisti per le conversazioni più delicate utilizzano chat criptate come Whatsapp o Signal. Anche Renzi e i renziani.

Il 27 aprile Mottola e Parolisi sono entrambi in Toscana, il 28 l'ex agente è a Roma e il giornalista a Milano, il 29 Mottola è nella Capitale e Parolisi di nuovo in Toscana. I due si sentono anche il 25 maggio e l'8 giugno, quando il leader di Italia viva ha già sporto denuncia. Ma il 23 dicembre e nei giorni immediatamente successivi Parolisi non ha contatti né con la professoressa, che non sentirà mai nell'arco di tempo monitorato (1 dicembre 2020-25 giugno 2021), né con il giornalisti.

 Il suo cellulare tace nella pace dell'antivigilia di Natale immerso nella campagna toscana. In sostanza non partecipa in nessun modo al presunto «complotto». Commenta la notizia a posteriori. Come ne chiosa molte altre in trasmissioni come Di Martedì di Giovanni Floris. E, per quanto riguarda la docente, le indagini hanno confermato in modo inequivocabile l'inesistenza di qualsivoglia rapporto con apparati di intelligence.

C'è poi la questione della lunga permanenza dell'indagata all'autogrill, 40 minuti circa. Ma la signora nel suo interrogatorio giustifica la pausa in modo credibile. Il padre si sarebbe sentito male già all'altezza dell'uscita Settebagni, dove avrebbe fatto una prima sosta, «dando di stomaco».

 A Fiano Romano avrebbe avuto un «altro malessere» e sarebbe ricorso altre due volte al bagno, cercando tra una ritirata e l'altra di riprendersi con una camomilla calda e con un bicchiere d'acqua. Dunque se la professoressa è rimasta così tanto nell'area di servizio il motivo era legato allo stato di salute del suo babbo.

E dal posto di guida è riuscita a riprendere Renzi e Mancini che parlavano a poco più di dieci metri da lei, mentre i quattro uomini delle due rispettive scorte non si accorgevano di nulla. Forse perché una donna alla guida di un'utilitaria con due anziani a bordo non desterebbe sospetto in nessuno.

 La docente venne colpita dall'arrivo di Mancini, perché era accompagnato da due uomini di scorta e perché «era vestito molto elegantemente». Successivamente vide arrivare anche l'auto di Renzi con il lampeggiante acceso. L'ex premier, appena sceso, avrebbe indossato la mascherina, «l'uomo dai capelli bianchi» si sarebbe avvicinato e i due sarebbero passati «in prossimità dell'auto» dell'indagata, per poi appartarsi «in posizione defilata».

L'Audi di Renzi aveva ostruito la strada alla 500 della professoressa e i due personaggi si sarebbero salutati praticamente davanti alla donna e per questo, essendo abbassato il finestrino dalla parte del padre, la docente ha avuto modo di sentire l'ex premier pronunciare questa frase: «Tanto per qualsiasi cosa sai come (o dove) trovarmi».

 La signora a quel punto sarebbe ripartita lentamente in direzione Viterbo. Questo il racconto di quello che è avvenuto subito dopo: «Poco prima delle gallerie sono stata superata dall'Audi di Renzi che ho riconosciuto perché aveva il lampeggiante acceso e viaggiava a velocità sostenuta».

La professoressa non avrebbe avvistato, invece, l'altra auto e per questo avrebbe «dedotto che la stessa avesse preso una diversa direzione». Ma poiché in tv e nelle mail ha sostenuto che si fosse diretta in direzione Roma i suoi detrattori hanno provato a inchiodarla a quella imprecisione. Ma la ricostruzione della donna è stata confermata oltre che dalle ricevute del Telepass anche da tabulati e celle telefoniche, documentazione che la docente ha potuto visionare solo alla fine delle investigazioni, una quindicina di giorni dopo il suo interrogatorio. Dunque la lunga sosta sembra spiegata in modo del tutto coerente e in quell'autogrill, davanti alla testimone, ferma per la nausea del genitore, iniziò a materializzarsi l'incontro dei misteri.

«Non ho difficoltà ad ammettere che sono stata molto incuriosita dalla particolare situazione a cui assistevo» ha detto V. a verbale. «Da semplice cittadina, innegabilmente curiosa sono rimasta profondamente colpita da questo singolare episodio [] ci tengo a precisare però che ho ritenuto di effettuare le riprese e le fotografie del senatore Renzi mentre dialogava con il suo interlocutore perché ho intuito il rapporto pubblico e non meramente privatistico che univa i due soggetti: di cui l'uno era uno dei massimi leader politici italiani e l'altro un personaggio munito di scorta e auto di servizio».

 Proprio per tale motivo la professoressa, a questo punto si potrebbe parlare di una giornalista ad honorem, avrebbe immaginato che «il fatto fosse meritevole di essere raccontato nell'esercizio del diritto di cronaca».

Il suo avvocato Giulio Vasaturo ha specificato che la sua assistita avrebbe assunto «consapevolmente il ruolo di "fonte giornalistica"» e che «non ha mai chiesto né percepito alcun compenso economico o di altro genere, per il contributo che da semplice cittadina ha volontariamente dato a questa inchiesta giornalistica». Renzi non ha voluto incontrare la donna, né ha accettato di essere sentito dalla difesa della docente come consente il codice. Meglio mantenere la vicenda nel limbo e sollevare sospetti.

 La Procura anziché chiedere l'archiviazione della professoressa dopo aver visionato i tabulati, ha preferito inviarle l'avviso di chiusura delle indagini dando la possibilità a Renzi e Mancini di accedere agli atti, tra l'altro con l'esplicito consenso della stessa indagata.

La contestazione è quella prevista dall'artico 617 septies che colpisce con pene sino a quattro anni «chiunque, al fine di recare danno all'altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati». La punibilità è esclusa se la diffusione avviene nell'esercizio del diritto di cronaca, caso che ci sembra essere quello di specie.

Eppure su alcuni giornali è stato paventato persino che dietro a quei video potessero esserci i servizi segreti cinesi oppure quelli russi, a cui Mancini avrebbe pestato i calli. Adesso i supporter dell'ex dirigente del Dis sono alla ricerca di altri mandanti. Se Parolisi è stato «mascherato» (anche se la voce resta perfettamente riconoscibile), Report ha mandato in onda un altro ex 007 ed ex compagno di avventure di Mancini e Tavaroli, Marco Bernardini, il quale è stato condannato in via definitiva a 5 anni e 8 mesi per aver prodotto migliaia di dossier illegali per conto della security di Telecom Pirelli.

Bernardini, senza peli sulla lingua, ha raccontato quella che già quindici anni fa sarebbe stata una specialità della ditta. «L'autogrill è un luogo abituale di incontri?» gli hanno domandato quelli di Report. E Bernardini ha risposto: «Un luogo abituale sì. Quando venivo giù da Milano a Roma e facevo i viaggi con Giuliano Tavaroli ogni tanto ci si fermava in qualche autogrill tra Bologna e Firenze e lui parlava con Marco Mancini». Quindi a nostro modesto avvisto sarebbe più interessante sapere non perché la professoressa fosse a Fiano Romano ma perché ci fossero Renzi e Mancini e che cosa si siano detti.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 16 gennaio 2023.

Per Matteo Renzi la nostra ricostruzione sul suo incontro con l'allora agente segreto Marco Mancini all'autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020 non terrebbe conto delle «contraddizioni del racconto» della professoressa di Viterbo indagata dalla Procura di Roma per diffusione illecita di riprese fraudolente, ovvero per aver filmato quel rendez-vous con il suo cellulare e aver inviato le immagini alla trasmissione Report. L'ex premier ieri ha scatenato la sua contraerea. Per esempio ha annunciato una causa civile contro il sito Dagospia, reo di aver ripreso il nostro articolo.

 Nel comunicato si leggeva: «Le contraddizioni che smentiscono il racconto sulla vicenda autogrill non sono di Renzi che attende la chiusura delle indagini (per altro già concluse, ndr) prima di procedere civilmente contro i responsabili delle diffamazioni».

Queste presunte contraddizioni ieri hanno trovato spazio in qualche talk show. Addirittura c'è chi ha parlato di «misteri». Per tale motivo riteniamo di dover dare un ulteriore contributo all'accertamento della verità, riferendo ancor più dettagliatamente di ieri quanto riportato nei tabulati raccolti dalla Digos di Roma, nelle foto allegate agli atti e nella ricevuta del Telepass.

 Gli investigatori della polizia hanno consegnato ai pm uno schema con la descrizione degli spostamenti della donna così come risultano dalle celle telefoniche agganciate dal suo smartphone. Un lavoro che viene così riassunto nell'informativa: «Nella tabella viene riportato lo stralcio del traffico telefonico generato in data 23 dicembre 2020 dall'utenza della [] unitamente alle Cgi (Centro per l'informazione geografica, acronimo delle celle, ndr) sollecitate, da cui si evince che alle ore 9:59:45 la stessa si sposta da Viterbo per raggiungere la Capitale alle ore 12:55:16 e rimanerci fino alle ore 15:24:51.

Successivamente, dopo aver sollecitato la Cgi di Fiano Romano, aggancia le stazioni radio base lungo la superstrada E45 per far ritorno a Viterbo alle ore 18:31:02 sollecitando la Cgi ubicata a Viterbo []». Analizziamoli nel dettaglio questi tabulati.

Alle 13.27 la professoressa, mentre sta arrivando a casa dei genitori, contatta il padre e il cellulare della docente viene localizzato in zona Anagnina, a Roma. Quello del genitore è collocato a 1,9 chilometri di distanza, ovvero all'altezza della sua abitazione a Morena, un quartiere della Capitale che si trova tra l'Anagnina e il Comune di Ciampino. Lo stesso posto in cui viene localizzato alle 14.15 il telefonino della professoressa.

Alle 15.24, quando riceve una chiamata, l'apparecchio non si è ancora spostato. Alle 16.29 l'indagata riceve un'altra chiamata e stavolta il suo telefono aggancia una cella di Fiano Romano. La prima e l'ultima delle foto scattate hanno come orario le 16.21 e le 16.34, quindi la conversazione, durata 124 secondi, avviene mentre l'insegnante osserva il colloquio tra Renzi e Mancini.

Gli scatti sono tutti effettuati dal posto di guida e il telefonino inquadra la scena dal finestrino del passeggero, quello occupato dal padre in quel momento al bagno. Nelle foto si vedono anche una giacca (sempre del babbo) e la sciarpa della madre che è seduta dietro al guidatore. Di fianco alla mamma c'è il seggiolino di uno dei figli della professoressa.

 Quindi non c'è niente di incoerente sino a questo punto rispetto a quanto riferito dall'indagata. La sua colpa è quella di aver scritto, a otto giorni di distanza dai fatti, al sito del Fatto quotidiano di aver fatto foto e video tra le 15.30 e le 16 del 23 dicembre? Non ci sembra possibile. Anche perché a coincidere non è solo la presenza della donna a Fiano Romano nel momento degli scatti. Sono i tempi di tutti gli spostamenti che tornano nel loro complesso. Come ha verificato la Digos.

La applicazione Google maps calcola che ci vogliono 31 minuti per coprire la distanza di 42,9 chilometri tra l'abitazione di Morena e Fiano Romano. Noi sappiamo che alle 15.24 la docente è ancora a Roma e alle 16.21 è all'autogrill Feronia Est. Quindi la durata del viaggio è stata sicuramente superiore alla mezz' ora.

 Ma tra Morena e l'area di servizio l'insegnante ha messo a verbale di aver fatto un'altra fermata: «Durante il tragitto all'altezza dell'uscita Settebagni mio padre mi chiedeva di accostare perché accusava un malessere e pertanto mi fermavo alla prima area di sosta e mio padre dava di stomaco».

La piazzola di sosta che si trova lungo la diramazione che collega il Gra al casello di Roma Nord, ubicata poco prima dell'uscita Settebagni, è a 11 minuti (e 16,7 chilometri) dall'autogrill di Fiano. Dunque la ricostruzione della professoressa ci sembra anche in questo caso molto lineare.

 L'ultima foto ha come orario le 16.34. Poi la signora si dirige all'uscita autostradale di Magliano Sabina per raggiungere dei parenti a Civita Castellana. Per andare dall'area di servizio di Feronia Est al casello sopracitato (34 chilometri di tragitto autostradale), sempre secondo Google maps, occorrono 21 minuti. E che orario segna la ricevuta del Telepass consegnata dalla donna agli inquirenti? Le 16.55. Insomma siamo di fronte a una corrispondenza perfetta tra i tempi stimati e quelli reali.

Facciamo la prova del nove: su Google maps la durata complessiva del viaggio (lungo 77 chilometri) dalla casa dei genitori della docente al casello di Magliano Sabina viene indicata in 49 minuti. In mezzo, però, bisogna inserire le due soste e quindi pare del tutto plausibile che, dall'ultimo rilevamento del cellulare dell'insegnante a Morena e la sua collocazione a Magliano Sabina, alle 17.02, passino 1 ora e 38 minuti.

Solo la tappa a Fiano Romano sarebbe durata una quarantina di minuti a cui bisogna aggiungere il pit stop di Settebagni. Ovviamente si tratta di tempi indicativi, che variano in base alla situazione del traffico. Che il 23 dicembre del 2020, nel pieno delle limitazioni degli spostamenti tra Regioni, non poteva essere particolarmente elevato. Nonostante questo ci sentiamo di affermare con certezza che sulle foto e l'identità dell'autrice non ci sia alcun mistero.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 gennaio 2023.

Da giorni continua la lapidazione mediatica della professoressa di Viterbo colpevole di aver avuto il coraggio di riprendere un potente politico, Matteo Renzi, mentre si appartava in un autogrill con un altro personaggio con la scorta, l’ex dirigente dei servizi segreti Marco Mancini, e di aver inviato quelle immagini ai giornalisti.

 La Procura di Roma l’ha indagata per il reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e lei è stata costretta a difendersi come una criminale. Di certo, dopo il suo caso, nessun cittadino oserà più provare a mettere in discussione il potere.

 Eppure la docente ha agito in modo genuino e senza immaginare i rischi che stava correndo, come dimostrano i tre audio inediti che pubblichiamo oggi sul sito della Verità. Risalgono al 24 dicembre 2020, data successiva agli scatti effettuati all’autogrill Feronia Est di Fiano Romano. La donna contatta un amico blogger per sapere se possa essere interessato allo «scoop» di cui non ha compreso l’importanza, non riconoscendo l’interlocutore dell’ex premier.

Nell’audio dice: «P. ti mando un vocale che faccio prima, allora ti invio delle foto di ieri che ho fatto all’area di servizio di Fiano Romano… mi ero fermata perché stavo portando su i miei genitori e mentre ero ferma lì e l’autogrill è chiuso c’è aperto un piccolo bar… e mentre stavo aspettando c’era già una macchina parcheggiata con autisti dopodiché è arrivata un Audi con vetri scuri, oscurati ho detto “Mmm, che sta succedendo?”».

 Qui la voce si fa particolarmente squillante, quasi infantile: «E dall’Audi blu è spuntato fuori… Matteo Renzi. I ragazzi della scorta sono rimasti vicino alle macchine mentre Matteo Renzi con quest’altro che lì per lì mi era sembrato Verdini se non fosse che stesse in galera pensavo lui… si son messi a chiacchierare in disparte, io sono salita in macchina e ho fatto un po’ di foto, però ti dovessi dire… non so se possono interessarti».

L’amico risponde mostrando inizialmente interesse, ma soprattutto sorpresa: «V. va bene, mandamele vediamo un po’ se alla fine troviamo il modo di metterle perché no».

L’insegnante invia gli scatti e il blogger ringrazia. La donna chiede all’interlocutore se conosca «il tipo con cui parla» Renzi e il conoscente risponde negativamente. Anche la donna dice di non saperlo: «Aveva mascherina nera con tricolore su un lato». Riprende il blogger: «Me le tengo in archivio. Grazie. Potrà servire».

La professoressa riparte con il racconto: «Dopo 5 minuti che siamo ripartiti sono ripartiti anche loro… Renzi nella sua Audi con tanto di luci accese e lampeggianti blu sull’autostrada a 180 km/h». L’uomo commenta: «Il potere arrogante. Poltronifici. Ma non da scrivere troppo vago». La prof concorda: «No, certo». Pare che il clamoroso complotto, ordito da chissà chi, si areni al primo intoppo. La docente prova a non mollare: «Ma secondo me passate le feste esce fuori qualcosa». I conti non le tornano. L’amico le dà un suggerimento: «Mostra le foto a qualcuno. Rimpasto di governo». L’interlocutore potrebbe essere qualche politico. I due non sanno minimamente di avere di fronte un agente dei servizi segreti del calibro di Marco Mancini. E non sanno neppure bene che cosa fare di quelle immagini.

 Tuttavia c’è chi in questi giorni insiste a proporre la vicenda dell’autogrill come una spy-story. Ma lo fa sbagliando i calcoli. Come ci ha confermato l’avvocato Luigi Panella, il difensore di Renzi e Mancini, le cui indagini difensive hanno in parte ispirato la trasmissione Non è l’Arena che domenica ha offerto ai suoi spettatori una ricostruzione suggestiva, ma fuorviante.

 Il risultato è stato quello di insinuare dubbi, di far immaginare chissà quale disegno dietro ad alcune apparenti incongruenze nel racconto dell’insegnante viterbese, improvvisatasi fonte giornalistica. Massimo Giletti ha calcolato nella sua trasmissione la durata del viaggio da Roma, dove abitano i genitori della donna, sino al casello di Magliano Sabina, dove la famiglia è uscita con l’auto. Il tempo è stato misurato sia utilizzando Google maps che attraverso la prova su strada dei cronisti del programma.

Alla fine gli spettatori si sono persi in mezzo ai numeri. Per Google per coprire le tre tappe del percorso ci sarebbero voluti in tutto 77 minuti, a cui sono stati aggiunti 47 minuti di soste, spostando l’orario di arrivo al casello alle 17.44, quasi 50 minuti dopo l’ora indicata sulla ricevuta del Telepass. Un’incongruenza bella grossa. Nella prova su strada il tempo necessario per l’intero itinerario è sceso a 61 minuti e quindi la situazione è migliorata di circa un quarto d’ora.

 Ma la presunta ricostruzione della professoressa era ancora sballata di almeno mezz’ora. Insomma o le soste non c’erano state o qualcosa non tornava. Ma Giletti non ha mai messo in dubbio che sia stata la docente a fotografare Renzi e Mancini. E allora? La verità è che né l’avvocato Panella, né il conduttore, probabilmente indotto in errore, hanno considerato che Google maps calcola la durata del percorso con il livello di traffico che c’è al momento dell’interrogazione.

L’avvocato Panella ci ha confermato di aver fatto fare le prove dai suoi consulenti nei giorni feriali e quindi con una circolazione normale. Ma quando l’insegnante si è messa in viaggio era in vigore la limitazione degli spostamenti da Regione a Regione e quindi la viabilità era sicuramente più scorrevole.

 Di fronte alle nostre obiezioni l’avvocato Panella ha ribattuto: «Io non so che informazioni le abbiano dato ma il decreto legge 172 del 2020, il famoso decreto sul lockdown parziale dei giorni natalizi prevedeva una limitazione al trasferimento da una regione all’altra a partire dal giorno 24 dicembre il 23 dicembre era un giorno libero anzi era l’ultimo giorno nel quale ci si poteva trasferire liberamente da una Regione all’altra».

 Ma il legale di Renzi e Mancini ha clamorosamente sbagliato decreto. Quello che interessa a noi è il 158 del 2 dicembre 2020 che recita: «Dal 21 dicembre 2020 al 6 gennaio 2021 è vietato, nell’ambito del territorio nazionale, ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse Regioni o Province autonome».

Avete letto bene: dal 21 dicembre, due giorni prima dell’incontro dell’autogrill. Per questo conviene rifare i conti con Google maps in orari serali o festivi e in questo modo si ottengono risultati equiparabili a quelli del 23 dicembre 2020. La prova? Ieri, poco prima delle nove del mattino, per l’app occorrevano 22 minuti (35 per il Google maps di Non è l’Arena, 28 nella prova su strada della stessa trasmissione) per andare dalla casa dei genitori della professoressa alla piazzola della prima sosta; da Settebagni all’autogrill ci volevano 11 minuti (14-12); da Feronia est al casello 21 (28-21).

 Risultato finale: 54 minuti complessivi. Infine, se si chiedeva all’applicazione di calcolare il tempo necessario per fare l’intero percorso, senza stop intermedi, la risposta era 50 minuti. Domenica scorsa 49. Noi sappiamo che la donna era certamente a casa dei genitori alle 15.24 e che ha parlato circa 2 minuti al telefono. Potrebbe essere partita tra le 15.26 e le 15.30, e il casello è stato attraversato alle 16.55, almeno 85 minuti dopo.

 Considerando i 54 minuti per compiere tutti gli spostamenti, le soste complessivamente possono essere durante ben oltre mezz’ora: solo qualche minuto in meno di quanto ricordasse la docente. Una discrepanza che non merita di diventare un caso nazionale. Purtroppo a partire da lunedì prima sul Corriere della sera e poi su Libero, hanno iniziato a circolare infografiche riferite solo ai dati di Google maps della trasmissione della 7 e non agli altri snocciolati in video.

Le tabelle con «il percorso dichiarato dalla donna» e «gli orari ricostruiti con Google maps» sono state lì messi l’una di fianco all’altra gettando ombre sul racconto. Ma la cosa buffa è che, nonostante i dati ingannevoli, l’avvocato Panella non mette in discussione i paletti posti da tabulati, celle telefoniche e dalla ricevuta del Telepass, ossia la partenza, l’arrivo, la presenza della donna nell’autogrill e l’orario delle foto registrato sul telefonino (tutte scattate tra le 16.21 e le 16.34), ma contesta solo la durata della sosta: «Noi cerchiamo di ragionare con i paletti che abbiamo e trovare una spiegazione plausibile. Se la professoressa avesse detto “io sono arrivata lì alle 16.21, ho fatto le foto perché ho riconosciuto Renzi e alle 16.34 ho preso e me ne sono andata” allora io non avrei detto né “a” né “ba” e avrei riferito a Renzi che le cose erano andate cosi».

Poi ha aggiunto: «I miei dati sono molto più simili ai suoi che non a quelli apparsi in tv. La cosa che con i miei numeri non riesco a spiegare è il narrato di una sosta di 40 minuti». Ma l’insegnante, non avendo timbrato cartellini, potrebbe essersi sbagliata di qualche minuto. Può essere crocifissa per questo? Intanto l’infografica ingannevole passa senza tener conto della situazione del traffico nell’emergenza pandemica, questione che sembra essere sfuggita sia ai legali che ai giornalisti che stanno portando avanti la tesi complottista.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 23 gennaio 2023.

La difesa di Matteo Renzi è ancora convinta di avere delle carte da giocarsi per dimostrare le incongruenze del racconto della professoressa di Viterbo che ha ripreso l’ex premier mentre parlottava con l’ex agente dei servizi segreti Marco Mancini.

 Da fonti investigative apprendiamo che la Procura di Roma riterrebbe che il racconto della docente sia stato già sufficientemente scandagliato e che non presenti falle. L’insegnante era dove diceva di essere il giorno che ha fatto le riprese e non sarebbero emersi mandanti, non avendo avuto l’indagata contatti con giornalisti, politici o uomini dei servizi, prima di realizzare quelle immagini.

E le nuove prove depositate con una consulenza? Non modificherebbero in nulla il risultato delle investigazioni. Ma i legali di Renzi e Mancini continuano a scavare tra le contraddizioni della professoressa.

 Cioè sulle irrilevanti incongruenze di un racconto fatto da una donna travolta da una vicenda più grande di lei e marcata a vista da agguerriti avvocati, politici di lungo corso, ex agenti dei servizi segreti rotti a ogni esperienza, cronisti eccitati dalla gazzarra.

 A proposito di particolari che non tornano, ieri Luigi Panella, legale di Renzi e Mancini, ha riconosciuto di potersi essere sbagliato sugli orari degli spostamenti della prof quel 23 dicembre 2020: «Mi conceda di non aver fatto verificare solo i tempi di percorrenza».

Ha detto niente, gentile avvocato.

Sulla durata di quei trasferimenti si sta giocando la battaglia sulla credibilità della signora. E allungare i tempi (a causa del traffico) mina la sua versione. Peccato che l’antivigilia di Natale di due anni fa sulle autostrade la circolazione fosse particolarmente scorrevole. «Ha ragione: i trasferimenti extra regionali non erano consentiti», ci concede ancora Panella. Ma poi rilancia: «Le assicuro che il traffico autostradale non è il tema sul quale abbiamo fondato le nostre perplessità. I dati completi li abbiamo forniti alla Procura, che farà le sue verifiche. Le storie vanno raccontate alla fine, avendo a disposizione tutti gli elementi. Magari ci scriverà un libro».

Nei prossimi giorni l’insegnante, su richiesta del suo avvocato, Giulio Vasaturo, sarà interrogata dalla Procura (è un diritto della donna dopo l’avviso di chiusura delle indagini) e verranno acquisiti alcuni documenti. Poi gli inquirenti dovranno decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione.

 Per i magistrati, che hanno iscritto la professoressa per l’articolo 617 septies del codice penale, la materialità del reato c’è (vale a dire la ripresa fraudolenta), ma bisognerà individuare il «danno di reputazione» eventualmente creato a un politico ripreso in pubblico non con l’amante, ma con un dirigente dei servizi segreti.

La norma è contestata a «chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati». La pena può arrivare sino a quattro anni. In realtà Renzi, l’8 maggio 2021, aveva presentato querela per abuso d’ufficio e per l’installazione di apparecchiature atte a intercettare.

L’ipotesi iniziale del senatore rignanese era, dunque, che a commettere il reato fosse stato un pubblico ufficiale, probabilmente uno 007. Questo aveva nella testa Renzi quando ha presentato querela. Ma la Procura di Roma non ha individuato nessuno spione infedele, né l’utilizzo di attrezzature vietate e così ha contestato alla povera professoressa la norma sulla realizzazione di video illeciti che, però, devono avere come oggetto «incontri privati» ed essere «compiuti fraudolentemente».

 Un colloquio in un’area pubblica (si tratta di bene demaniale) e en plein air non può certo ritenersi un «incontro privato», poiché chi vi partecipa rinuncia implicitamente alla tutela prevista dalla legge. È stato lo stesso Renzi a spazzare il terreno da questa possibile ipotesi. Nell’intervista con Report il giornalista gli parla di «incontro riservato» con Mancini e l’ex premier risponde stizzito: «Marco Mancini è uno dei dirigenti dei servizi segreti con cui ho avuto incontri… riservati… penso di averlo visto anche all’autogrill, quindi figuriamoci. […] A meno che lei non voglia dire che l’incontro all’autogrill fosse riservato… visto che c’erano persino le telecamere».

Probabilmente manca pure il requisito della «fraudolenza», dal momento che l’insegnante non risulta aver messo in atto «artifici e raggiri» per riprendere. Quel giorno non vi è stato alcun contatto tra la «regista» e gli «attori» e la stessa non si sarebbe nascosta per fare le riprese.

 Il leader di Italia viva, durante l’intervista, aggiunge: «Sarebbe interessante sapere chi vi ha dato il video. È molto strano che ci fosse all’autogrill casualmente qualcuno a riprenderci… chissà come mai». Insomma non è vero che l’ex capo del governo non immaginasse qualche complotto come qualcuno ha provato a dire.

 Ma adesso la docente è accusata del tipico reato che viene contestato a chi riprende due amanti clandestini e poi danneggia la loro reputazione. O anche a chi filma di nascosto un amplesso e poi diffonde le immagini. Renzi e Mancini nel video appaiono completamente vestiti e intenti, come rivendica il fu Rottamatore, a discutere di questioni istituzionali.

Ricordiamo che nel 617 septies «la punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni» avviene «per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca».

Cosa che mette al riparo la redazione di Report dalla querela di Renzi. Non da quella di Mancini che ha denunciato per diffamazione i giornalisti della trasmissione presso la Procura di Ravenna (città in cui risiede), un ufficio giudiziario presieduto sino a gennaio 2021 da suo fratello Alessandro, poi promosso alla Procura generale dell’Aquila e da qui trasferito dal Csm per incompatibilità. I pm hanno iniziato a indagare.

Alla fine gli inquirenti hanno iscritto pure il reato di rivelazione di segreto, palesemente compiuto a Roma, e, dopo aver svolto varie attività istruttorie che forse non avrebbero dovuto essere compiute in Romagna, hanno trasferito il fascicolo nella capitale. Nella mente di chi denuncia la rivelazione sarebbe stata compiuta da un ex appartenente del Sisde che durante Report avrebbe riconosciuto Mancini nel video della professoressa. Ma anche questo fascicolo rischia di non andare molto lontano.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 25 Gennaio 2023.

In queste ore Matteo Renzi sta conducendo una convinta battaglia per la tutela della privacy dei soliti noti e per mettere il bavaglio ai giornalisti sulle intercettazioni. Plaude al Guardasigilli, Carlo Nordio, e sostiene che i cronisti con «un minimo di dignità» certe conversazioni dei colletti bianchi di turno non dovrebbero pubblicarle. Ma intanto i suoi lanzichenecchi fanno carne da hamburger di una povera professoressa che ha osato fotografarlo in un luogo pubblico, scavando nella sua vita privata, nei suoi affetti e persino nelle sue idee politiche.

È il caso della docente messa nel mirino per aver ritratto all’autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020 un incontro un po’ carbonaro tra il leader di Italia viva e Marco Mancini, un ex capo reparto del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (dove si occupava di amministrazione). Di fronte a quel confabulare un po’ sospetto, la donna ha fatto tredici foto e due brevi video.

 Materiale che ha successivamente inviato alla trasmissione Report e per cui è attualmente indagata dalla Procura di Roma per la diffusione di riprese «fraudolente» che potrebbero aver recato danno alla reputazione di Renzi. Quest’ultimo, l’8 maggio 2021, ha presentato querela contro ignoti nella Capitale per abuso d’ufficio e utilizzo di attrezzature atte a intercettare. In pratica ha ipotizzato la presenza nell’area di sosta di pubblici ufficiali. Ma nella rete degli inquirenti è finita solo l’insegnante.

Il senatore e i suoi legali si sono incaponiti, appoggiati dal meglio del giornalismo investigativo su piazza. C’è chi si è gettato nella mischia «pur non avendo letto le carte» per citare dati a caso (Mancini, per esempio, è stato promosso sul campo «capo dei servizi segreti») e c’è chi ha sviscerato i servizi di Report per mettere in risalto piccole presunte contraddizioni, come la collocazione della 500 della professoressa al momento degli scatti.

 «Vediamo quante persone sono interessate al posizionamento dell’auto, alle angolature delle foto e quante persone sono invece interessate a ciò che si dicevano Renzi e Mancini» ha tagliato corto su Facebook uno spettatore televisivo. C’è chi vuole sapere che cosa facesse in quell’autogrill «il patriota di Rignano», ben remunerato da potenze straniere come l’Arabia saudita, e c’è chi stigmatizza il tentativo di «intimidire una normale cittadina che ha avuto l’ardire di creare problemi a un potente».

Il 23 gennaio l’insegnante si è sottoposta a un altro interrogatorio per difendersi anche dalle accuse mediatiche e per spiegare alcune asserite incongruenze negli orari degli spostamenti da lei riferiti a memoria. Ieri un comunicato della difesa riferiva che «la donna, fonte giornalistica della testata Report, ha integralmente confermato le dichiarazioni già rese in precedenza agli inquirenti» e che «il suo legale, l’avvocato Giulio Vasaturo, ha chiesto al pubblico ministero di acquisire al più presto il cellulare della sua assistita al fine di ricostruire in maniera inoppugnabile, anche attraverso i rilievi tecnico informatici, tutti gli spostamenti della donna in quella giornata, in modo da smentire definitivamente ogni ricorrente e mistificante insinuazione “complottista”».

Alla signora è stato chiesto persino, con garbo per fortuna, se sia iscritta a qualche partito politico, quasi potesse essere il movente del reato. L’obiettivo degli inquirenti è evidentemente quello di accertare se la docente avesse interesse a danneggiare Renzi e la domanda potrebbe anche aver sgomberato definitivamente il campo da questa ipotesi. Infatti l’indagata ha spiegato di essere sì interessata alla politica, ma di non far parte di nessun partito o movimento e di non avere alcuna ostilità nei riguardi del senatore Renzi che, anzi, ha chiesto persino di incontrare con la massima serenità.

Ma il fu Rottamatore, che aveva assicurato di essere pronto a ritirare la querela nel momento in cui avesse capito di trovarsi davanti a una vera professoressa, non ha ancora accettato di vederla. Forse è meglio lasciar circolare la fake news dei servizi segreti deviati.

 Da parte sua Mancini, sempre nel 2021, ha denunciato per diffamazione quattro giornalisti della trasmissione Report presso la Procura di Ravenna (l’ex 007 risiede in quella provincia) con riferimento a quattro puntate che lo chiamavano in causa a partire da quella sull’incontro all’autogrill.

Nel decreto di sequestro inviato agli indagati dai pm romagnoli emerge che la «rivelazione di segreti di Stato» (articolo 261 del codice penale) è stata contestata inizialmente a due cronisti di Report perché in concorso con «persona ignota» (poi rivelatasi un ex appartenente ai nostri apparati di intelligence) «rivelavano notizie che dovevano rimanere segrete nell’interesse dello Stato riguardanti la persona e l’immagine di Marco Mancini, all’epoca dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri».

Dunque l’illecito sarebbe collegato al disvelamento dell’identità di Mancini, di cui la professoressa, come dimostrano anche dei vocali inviati subito dopo le riprese, non conosceva l’esistenza. Eppure c’è chi sta tentando di confondere le acque collegando la vicenda dell’autogrill all’opposizione del segreto di Stato da parte di Elisabetta Belloni, direttore del Dis (organo dipendente dalla Presidenza del Consiglio).

La capa dei nostri servizi è stata convocata a Ravenna su richiesta della difesa di Mancini.

Ma, come ci ha spiegato un autorevole fonte, i pm avrebbero posto «domande sull’oganizzazione interna del Dis, sui rapporti del Dis con gli altri Stati» e sulla posizione del denunciante all’interno del dipartimento. Tutti quesiti a cui, ovviamente, la Belloni non poteva rispondere, trattandosi di informazioni sensibili che non possono essere divulgate.

Ma, come detto, tali domande nulla c’entrano con la docente e con la sua presenza nell’area di servizio il 23 dicembre 2020.

 Il vero problema è quanto è stato riferito, durante la puntata Report, da C.P., ex agente di Sisde e Sismi in pensione, sulla carriera di Mancini e sull’incontro con Renzi. Un faccia faccia che sarebbe costato all’ex 007 il prepensionamento. «Oggi Marco Mancini è un alto dirigente del Dis, il dipartimento dei servizi segreti che coordina e controlla le attività di Aisi e Aise» ha dichiarato in tv C.P..

I cronisti hanno anche citato il ruolo di Mancini nel sequestro dell’imam Abu Omar effettuato dalla Cia e a cui i nostri servizi diedero sostegno logistico. La fonte ha svelato che dopo quei fatti Mancini, che «già aveva un alto livello dirigenziale, è stato promosso a un livello equivalente a dirigente generale».

 Quindi ha raccontato che «si è parlato di lui come vicedirettore dell’Aise e queste sembravano essere le sue aspirazioni» e che «a un certo punto sembrava di capire che ci potesse essere per lui una promozione a vicedirettore del Dis». Un riferimento è stato fatto anche ai presunti intensi rapporti di Mancini con il mondo politico. Il programma tv avrebbe quindi affondato le aspirazioni del dirigente del Dis, ma non certo per colpa della professoressa che non sapeva neanche chi fosse.

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “la Verità” il 23 gennaio 2023.

Da quasi due anni Matteo Renzi insegue il fantasma di una professoressa. Lei è un’insegnante di storia dell’arte, ma per il capo di Italia viva è peggio del diavolo. Non si sa bene di che cosa l’ex presidente del Consiglio la accusi, sta di fatto che dalla metà del 2021, questa donna di 44 anni è sospettata di essere al centro di una spy-story politica. A dire il vero, le spie le ha messe di mezzo il senatore semplice di Rignano.

 È lui infatti che il 23 dicembre del 2020, in piena pandemia, si incontra all’autogrill  di Fiano romano con Marco Mancini, uno dei capi dei servizi segreti italiani […] Non si conosce perché, alla vigilia di Natale di due anni fa […] un ex premier abbia sentito l’esigenza di darsi appuntamento con uno 007.

 Ma si sa che quell’incontro venne ripreso con un telefonino da una sconosciuta docente in viaggio con i genitori, la quale pur non conoscendo l’identità dello spione, riconobbe la faccia di Renzi e per questo, incuriosita come solo lo possono essere le persone che vedono un personaggio famoso, invece di farsi un selfie con il senatore, gli fece un video.

[…] la professoressa si chiese perché un personaggio noto come Renzi sentisse l’obbligo di appartarsi in un’area di parcheggio autostradale per incontrare qualcuno […] Il colloquio […] dura almeno un quarto d’ora e anche la sosta dell’insegnante si prolunga. Infatti, il padre che è con lei non si sente bene e fa la spola tra i bagni dell’autogrill e l’auto della figlia, la quale dal posto di guida scatta le foto e gira due brevi filmati. Circa 15 minuti trascorsi a scrutare e filmare Renzi e il capo divisione dei servizi di sicurezza.

Ma il torto della prof non è aver ripreso a debita distanza l’incontro, bensì aver provato a trasmettere il video agli organi di informazione per scoprire chi fosse il misterioso e importante interlocutore di Renzi. Con una mail, la donna prova a contattare il Fatto quotidiano, ma in redazione dovevano essere distratti. Così, passate un po’ di settimane, il video finisce tra le mani dei giornalisti di Report che, una volta identificato Mancini, all’inizio di maggio del 2021 lo mandano in onda.

Pochi giorni di tempo e arriva la denuncia di Matteo Renzi, il quale accusa la professoressa […] di nascondere qualche cosa. Che cosa sospetti […] non si sa, perché a quasi due anni di distanza, la poveretta è stata rivoltata come un calzino e […] i pm hanno anche fatto i debiti riscontri sul suo racconto. […] tutto conferma il racconto della prof. Tuttavia, Renzi insiste, sospettando che la donna nasconda qualche cosa, magari un complotto oppure rapporti poco chiari con potenze estere, dispiaciute che lui dia una mano al Rinascimento arabo.

 Non so bene che cosa sospetti il senatore semplice di Rignano. Ma mi è chiara una cosa, ossia che atteggiandosi a vittima di oscure forze della reazione, Renzi da quasi due anni è riuscito a evitare di spiegarci perché, alla vigilia di Natale del 2020, abbia sentito l’esigenza di incontrarsi con una spia. Di certo l’appuntamento non era istituzionale, perché altrimenti si sarebbe dovuto svolgere nelle dovute sedi e non nel parcheggio di un autogrill.

Ed è altrettanto sicuro che in quei giorni si decideva il destino del Conte 2, il governo che il Rottamatore si preparava a sfasciare togliendogli la fiducia. Dunque, che ruolo hanno avuto, se lo hanno avuto, i servizi segreti italiano in una vicenda che riguarda solo il Parlamento e non gli 007? È possibile che qualcuno si sia dato da fare per evitare una crisi che rispedisse a casa il fu avvocato del popolo? C’è stata o no una trattativa Renzi-007 come si sussurra? Una cosa mi pare ovvia: se c’è qualcuno che deve spiegare che cosa è successo, questa non è la professoressa.

Renzi ancora contro "Report". Nuova memoria sul video all'autogrill. Il leader Iv torna alla carica: troppe contraddizioni nel racconto. Massimo Malpica il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La querelle sul caso Autogrill e sul video che riprese l'ex premier Matteo Renzi a colloquio con lo 007 Marco Mancini, ex Sismi e Dis, poi «pensionato» a luglio 2021 proprio per le polemiche seguite alla vicenda, non è ancora finita. Renzi, infatti, spiega una nota dell'ufficio stampa di Italia Viva, «depositerà alla procura di Roma quest'oggi (ieri, ndr) una ulteriore memoria sulla vicenda Autogrill che dimostra in modo inoppugnabile le clamorose contraddizioni del racconto di Report. Il senatore Renzi - che in queste settimane ha seguito personalmente gli sviluppi della vicenda - attende con curiosità e fiducia le risultanze della perizia e conferma la piena fiducia nell'azione degli inquirenti. E, ovviamente, il senatore Renzi si attiene rigorosamente e scrupolosamente ai vincoli del segreto istruttorio e del segreto di stato».

A girare il video, il 23 dicembre di due anni fa, nel pieno della crisi del Conte-bis, sarebbe stata una professoressa ferma ad attendere che l'anziano padre tornasse dalla toilette. La donna, che aveva riconosciuto solo Renzi, avrebbe poi spedito il video prima al Fatto Quotidiano, pochi giorni dopo, e poi a Report che, a maggio dello scorso anno, lo mandò in onda scatenando le polemiche. Per Renzi è difficile credere che una cittadina abbia casualmente assistito all'incontro e che lo abbia filmato senza che le due scorte presenti se ne accorgessero. E così, alla procura di Roma - che indaga l'autrice del video per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente - ora manda una nuova memoria, dopo aver chiesto in un esposto di controllare celle telefoniche e telecamere dell'Autogrill per accertare che la prof e suo padre fossero davvero lì quel giorno. Il senatore di Italia Viva è sicuro che la versione di Report e della professoressa manchi di coerenza. E, certo delle sue ragioni in questa storia, è partito all'attacco. Mancini, per sua stessa ammissione, ha dovuto lasciare il lavoro per la troppa esposizione mediatica seguita al caso. Renzi è finito coinvolto in speculazioni sui perché di quell'incontro tre settimane prima che Iv ritirasse i propri ministri dall'esecutivo di Conte. E adesso l'ex sindaco di Firenze vuole vederci chiaro su una vicenda i cui contorni non lo hanno mai convinto.

Massimo Malpica per il Giornale il 24 dicembre 2022. 

La querelle sul caso Autogrill e sul video che riprese l'ex premier Matteo Renzi a colloquio con lo 007 Marco Mancini, ex Sismi e Dis, poi «pensionato» a luglio 2021 proprio per le polemiche seguite alla vicenda, non è ancora finita.

 Renzi, infatti, spiega una nota dell'ufficio stampa di Italia Viva, «depositerà alla procura di Roma quest' oggi (ieri, ndr) una ulteriore memoria sulla vicenda Autogrill che dimostra in modo inoppugnabile le clamorose contraddizioni del racconto di Report. Il senatore Renzi - che in queste settimane ha seguito personalmente gli sviluppi della vicenda - attende con curiosità e fiducia le risultanze della perizia e conferma la piena fiducia nell'azione degli inquirenti. E, ovviamente, il senatore Renzi si attiene rigorosamente e scrupolosamente ai vincoli del segreto istruttorio e del segreto di stato». 

A girare il video, il 23 dicembre di due anni fa, nel pieno della crisi del Conte-bis, sarebbe stata una professoressa ferma ad attendere che l'anziano padre tornasse dalla toilette. La donna, che aveva riconosciuto solo Renzi, avrebbe poi spedito il video prima al Fatto Quotidiano, pochi giorni dopo, e poi a Report che, a maggio dello scorso anno, lo mandò in onda scatenando le polemiche.

Per Renzi è difficile credere che una cittadina abbia casualmente assistito all'incontro e che lo abbia filmato senza che le due scorte presenti se ne accorgessero. E così, alla procura di Roma - che indaga l'autrice del video per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente - ora manda una nuova memoria, dopo aver chiesto in un esposto di controllare celle telefoniche e telecamere dell'Autogrill per accertare che la prof e suo padre fossero davvero lì quel giorno.

Il senatore di Italia Viva è sicuro che la versione di Report e della professoressa manchi di coerenza. E, certo delle sue ragioni in questa storia, è partito all'attacco. Mancini, per sua stessa ammissione, ha dovuto lasciare il lavoro per la troppa esposizione mediatica seguita al caso. Renzi è finito coinvolto in speculazioni sui perché di quell'incontro tre settimane prima che Iv ritirasse i propri ministri dall'esecutivo di Conte. E adesso l'ex sindaco di Firenze vuole vederci chiaro su una vicenda i cui contorni non lo hanno mai convinto.

Luca Telese per “TPI - The Post Internazionale” il 23 Dicembre 2022.

L’autogrill del mistero. Impressioni ingannevoli, narrazioni fantastiche, scenari da film di spie, personaggi enigmatici: se non ci fossero i documenti tutto potrebbe sembrare possibile nella saga dell’incontro tra Renzi e lo 007 Mancini, e sul giallo che questo episodio proietta sui giorni tumultuosi della crisi che ha prodotto la caduta del governo di Giuseppe Conte (quelli in cui l’episodio si è verificato). 

Quel faccia a faccia é costato a Marco Mancini l’addio al servizio. E a Matteo Renzi l’epiteto    di “Mostro” (che, a onor del vero, si è autoassegnato - polemicamente - da solo).  

A tutte le ricostruzioni immaginifiche, cronachistiche e letterarie che sono seguite oggi TPI ha da opporre la forza di qualcosa di molto più concreto. I nudi documenti, e la loro asciutta analisi. Guardate con attenzione, dunque questi scatti che proponiamo oggi per la prima volta nella loro sequenza originaria: sono immagini che fino ad oggi erano rimaste inedite. Sono tredici foto scattate una dopo l’altra, più due brevissimi video di pochi secondi. É in questo reperti che si cela la chiave di tutto, la risposta del mistero, che - come vedremo - mistero non è.

Queste sono le foto originali che la “professoressa dell’autogrill”  scatta d’istinto, con il suo telefonino (un normalissimo Smartphone) nella piazzola della ormai celebre area di servizio in cui si ritrova testimone di un incontro circospetto tra Matteo Renzi e l’uomo con scorta che lei quel giorno non riconosce, e che poi si rivelerà essere Marco Mancini (un importante dirigente dei servizi segreti). Al contrario di quello che abbiamo visto, commentato e pubblicato fino ad oggi (per motivi che spiegheremo) queste immagini, depositate in Procura ma mai pubblicate, sono qui proposte senza nessun intervento.

Analizzando questo scatti del dicembre 2020 in versione integrale - con attenzione - si scoprono degli elementi di dettaglio, apparentemente piccoli, ma in realtà decisivi per rispondere ai tanti interrogativi che sono stati posti in questi mesi (dopo lo scoop di Report e le violente polemiche che seguirono la rivelazione di quell’incontro). 

Ci sono delle differenze rilevanti rispetto alle immagini note. E questi dettagli possono provare la veridicità delle affermazioni messe a verbale dalla professoressa (che per comodità, d’ora in poi, chiameremo “Valeria”).  

In particolare ci sono tre elementi che sono chiariti senza possibilità di dubbio, malgrado tutte le ricostruzioni di comodo: 1) Solo una persona (e non due diverse) scatta le foto dal suo telefonino. 2) C’è un unico punto di ripresa (e non due) da cui sono prese tutte le immagini, e questa ricostruzione é coerente con la posizione e la scena raccontata agli inquirenti dalla professoressa. 3) Quando scatta questi fotogrammi, dunque, Valeria è dentro la sua macchina.

La macchina della professoressa, una 500L, é identica a quella che appare nelle foto. Tra poco, leggendo l’articolo e compulsando    le immagini originali  capirete da cosa si desumono questi tre elementi e perché voi stessi potete verificarlo dagli scatti originali che mettiamo a vostra disposizione.

Come è noto, tuttavia, da due anni l’ex presidente del Consiglio dice e ripete che la ricostruzione della professoressa (lo ha fatto anche lunedì scorso) “Non sta in piedi nemmeno con gli stecchetti”. Dice e ripete che la versione di Valeria non può che essere falsa, che quelle immagini - a suo dire - dimostrano che le inquadrature sono state riprese da due diverse telecamere (prova indiretta che lui fosse sottoposto ad un pedinamento professionale). 

A detta dell’ex sindaco di Firenze queste sue deduzioni  sarebbero a loro volta  la prova che la “sedicente professoressa” (parole sue, per mettere in dubbio persino la vera professione di Valeria) non esiste, oppure si offre (tralasciamo per ora l’assoluta inverosimiglianza a di questa ipotesi) come semplice “copertura” di un lavoro fatto da altri. 

Il fatto che la professoressa secondo Renzi non dica la verità, sarebbe la prova di  una attività di pedinamento ai suoi danni, di una sorveglianza, cioè, svolta da poteri ignoti. Renzi è certo che la storia del padre malato sia una scusa, e il suo malore che porta la professoressa in autogrill non sia altro che una mascheratura (“il papà aveva il cagotto?” Dice scherzando sulla malattia del padre della professoressa). Per questo ironizza in più occasioni sui tempi di permanenza della famiglia in piazzola, che dilata ad oltre un’ora per spiegarne l’inverosimiglianza (ma quella malattia, come vedremo, risulta agli atti).

Renzi aggiunge (vedi l’articolo di Giuliano Guida Bardi) che non si capisce perché mai la donna sia stata ferma a filmarlo “per un’ora e mezza”, e come sia possibile che ben due scorte non se ne siano accorte. Raccontando  la versione che abbiamo riassunto, il leader di Italia Viva ha sviato, nel tempo tutto gli interrogativi su questo incredibile incontro. Come e perché lui fosse lì, come mai i due uomini, l’ufficiale dei servizi e l’ex premier, non si siano visti non in un luogo ufficiale, ma, addirittura, nella piazzola di un autogrill in via di ristrutturazione sulla autostrada A1. 

E che - per giunta - lo abbiano fatto in pieno lockdown con il traffico interregionale proibito ai privati. Renzi ha raccontato addirittura (nella sua prima versione) che il pretesto dell’incontro fosse uno scambio di “babbi”, di pastarelle natalizie Emiliano romagnole, un atto di cortesia in occasione delle feste. Poi, comprensibilmente, i “babbi” sono spariti dalle versioni successive di Renzi. Ma tutto ciò, in questa sede non ci interessa. Ci interessano invece queste immagini, e quello che ci raccontano.

Quando il magistrato che indaga arriva ad identificare con un nome e un cognome la professoressa (di cui Sigfrido Ranucci ha difeso fino all’ultimo l’identità, opponendo il segreto professionale), lei consegna  agli inquirenti tutti i suoi file, in una chiavetta dati, e spiega di non avere nulla da nascondere. Offre la sua testimonianza senza nessun omissis, come farebbe ogni cittadino. 

La donna, ha spontaneamente comunicato ai legali di Renzi la propria identità si è resa disponibile ad essere interrogata dagli stessi avvocati del senatore  di Rignano (che però, curiosamente, non hanno voluto approfittare dell’opportunità).  Nella chiavetta, dunque, ci sono video  e immagini: si tratta - per essere esatti - di due brevissime registrazioni  rispettivamente di 27 e di 29 secondi (altro che un’ora e mezza di attività spionistica!). E poi dei sedici scatti che trovate impaginati nella sequenza originaria e senza tagli in questo nostro racconto grafico.

Oggi questo foto sono depositate agli atti dell’inchiesta, accessibili alle parti (a cominciare dai legali di Renzi). La professoressa, interrogata dagli inquirenti ha racconta come e perché ha scattato quelle foto e registrato quelle sue sequenze (“mute”, perché l’unico audio che si sente durante i video é la sua voce nella macchina, mentre parla alla madre).  Valeria ha fornito le pezze di appoggio di queste due affermazioni (lo abbiamo raccontato su TPI, nel numero scorso) che spiegano perché lei si trovasse in quel luogo, e proprio in quel giorno. 

Si tratta del certificato medico del padre (che spiega perché lei si era fermata alla ricerca di un bagno), delle ricevute di estratto conto del telepass (che  provano la sua presenza in autostrada a quell’ora). Non ha inseguito lei Renzi o Mancini, fra l’altro, ma sono loro che sono arrivati sulla scena, dopo che lei aveva già posteggiato l’auto nella piazzola.

Il magistrato evidentemente ha creduto alla professoressa, se è vero che ha derubricato la denuncia contro ignoti in cui Renzi si spingeva fino ad ipotizzare addirittura una azione di indagine illecita. La professoressa invece esiste, ha una identità, non ha mai avuto nessun contatto con nessuna “barbafinta”, ha frequentato molto collegi dei docenti, per il suo lavoro, ma nessuna sede dei Servizi segreti. 

Quindi, a partire da questi scatti cade il teorema che Renzi ripete in ogni piazza d’Italia e si pone una domanda: se lui e i suoi avvocati hanno avuto avessi agli atti, perché entrambi continuano a mettere in dubbio l’identità della professoressa? Mistero. Oppure, più semplicemente: spettacolare manovra diversiva. 

Ma qui si arriva un paradosso: il pm, proprio mentre nega il teorema dello spionaggio, perché ha accertato l’identità di Valeria, pensa di doverla indagare per un’altro reato che nulla c’entra con le barbe finte e i pedinamenti. Si tratta l’articolo 617 septies del codice penale. Quello commesso, cioè, da chi realizza in modo fraudolento e divulga delle immagini di privati per far loro danno (acquisendo questi dati in maniera coperta). 

Ed ecco perché i documenti che TPI sono doppiamente decisivi: sia per provare che è stata veramente la professoressa a fare le riprese dei video e le foto. Sia per chiarire che non ha violato il 617 septies: non solo perché sia Renzi che Mancini sono personaggi pubblici (lo 007 fu per mesi sulle prime pagine di tutti i giornali ai tempi della liberazione di Giuliana Sgrena, la sua non era una identità segreta). Non solo perché il luogo era pubblico (uno spazio aperto e non protetto). Ma anche e soprattutto perché - come potete constatare - le immagini integrali dimostrano che chi ha scattato le foto era dentro la macchina, con i vetri non oscurati.

Dunque potenzialmente visibile dall’esterno, se solo i due interlocutori l’avessero degnato della loro attenzione. Non esiste dunque “fraudolenza”, o inganno, solo sottovalutazione da parte di chi si è messo a parlare di fronte a lei. Ma le immagini provano anche, e questo è ancora più interessante, che non ci sono due riprese, due punti di osservazione, ma una sola posizione visuale: quella che parte dal telefonino della professoressa.

Sono Renzi e Mancini che si spostano, semmai, camminando mentre parlano, come prova la sequenza completa degli scatti e la piantina con la nostra ricostruzione nella scena. Basta prendere i riferimenti  sul vialetto: i due partono da vicino al cancello di metallo, poi si avvicinano ai due alberi accoppiati (riprodotti dal nostro disegnatore Manolo Fuchecchi) e infine si fermano a parlottare avendo alle spalle - come potete vedere - della casina bassa di una ben visibile centralina elettrica. Valeria, che è seduta sul lato passeggero anteriore della sua auto, mentre aspetta il padre, sta parlando con la madre, che è seduta dietro (e si mette proprio lì, perché se fosse nel lato guida non potrebbe farlo, se non in  posizione innaturale).

Non solo: i finestrini della macchina, negli scatti che vi mostriamo si ritrovano a fare da “marcatori” di supporto della versione fornita dalla professoressa agli inquirenti. Nella prima serie di foto, quelle in cui i due interlocutori sono più distanti, Valeria inquadra dunque Mancini e Renzi nella “cornice” del suo finestrino, ovvero il vetro del lato passeggero anteriore della sua macchina (una delle più tipiche familiari la mitica Fiat 500L, non certo una vettura da 007).  

Così, quando passo dopo passo i due camminando arrivano davanti alla casina bassa, sono loro che si sono avvicinati a lei, e non il contrario. Per  realizzare questi ultimi scatti, dunque, la professoressa deve cambiare angolazione e - pur restando davanti - inquadra i due uomini in piedi davanti a lei, nella luce del suo finestrino posteriore. In quel momento sono a brevissima distanza. Nelle immagini che vi mostriamo è ben riconoscibile il montante centrale della 500 che separa i finestrini posteriori.

In uno dei primi scatti è ben visibile, anche se è ovviamente rovesciata (perché ripresa dall’interno) l’etichetta di un carglass marker che la macchina della professoressa ha ben visibile sui suoi due   Vetri delle portiere anteriori. Quindi non esiste più dubbio che quella sia la macchina della piazzola nell’autogrill, la stessa in cui sono state scattate le foto dei due che parlano, una vettura privata. E che sia proprio identico a quella della professoressa, la  stessa ripresa da Massimo Giletti nello scoop di “Non é l’arena” (il primo in cui é stato mostrato, sia pure oscurato, il volto della donna).

Di più: nel secondo dei due video, l’obiettivo della telecamerina si muove per inquadrare la scena. E proprio quando Valeria sta ultimando la registrazione, l’inquadratura scivola sullo schienale anteriore. Sono visibili e ben riconoscibili i rivestimenti particolari della tappezzeria disegnati dalla Fiat apposta per questo modello di macchina: in stoffa acrilica antimacchia, con doppia cucitura bianca sui bordi, e con un caratteristico inserto sullo schienale, che reca stampato in grande formato (più o meno della grandezza di una agenda) il logo tridimensionale di questo tipo di 500 (che è diverso da quello delle altre due versioni, la 500X e la normale 500). Domanda.

Come si può anche solo ipotizzare che  qualcun altro abbia fatto quelle riprese  in un’auto in tutto e per tutto identica a quella della professoressa? Sarebbe insensato. E per quale motivo - se per assurdo le riprese le avessero fatte altri - la professoressa dovrebbe autoaccusarsi di qualcosa che non ha fatto, raccontando di aver scattato delle foto che la portano a rischiare  (vedi intervista all’avvocato) una condanna fino a quattro anni di carcere? Infine: il modello della macchina ci aiuta a stabilire qualcosa anche su un altro aspetto decisivo per ipotizzare il reato per cui la professoressa é indagata: i vetri di quel tipo di auto (al contrario di altri, ad esempio nelle berline) non hanno una polarizzazione schermante. 

Quindi, se avessero guardato nella macchina, non solo gli uomini della scorta, ma ancora di più Macini e Renzi, avrebbero potuto vedere donna mentre li riprendeva. Impossibile dire che fosse nascosta dunque. Ma se dunque sulla 500L non c’era possibilità di  occultamento (e dunque di “fraudolenza”), è improbabile che si possano ravvisare gli estremi di un reato.  Dice Renzi: “É possibile che due scorte non abbiamo notato la professoressa?”.

La domanda, per avere una risposta, andrebbe rovesciata da un altro elemento della testimonianza: la professoressa - secondo quanto ha raccontato alla polizia - era già sul posto, arrivata per prima. Sono le scorte che hanno parcheggiato dopo, avvicinandosi alla Fiat. Ma cosa appariva ai loro occhi? Una figlia, con due genitori anziani, uno dei quali in palese difficoltà, che andavano su e giù per la toilette e per la stazione di servizio. Ci sarebbe voluta una grande immaginazione per ipotizzare quella presenza come una minaccia.

Ed infine c’è l’ultimo mistero, che, anche in questo caso, mistero non é. Le immagini del dialogo tra Renzi e Mancini che tutti abbiamo visto (e che innondano la rete) provengono tutte dai servizi di Report: tuttavia, per essere adattate al mezzo televisivo, da quelle inquadrature è stata tagliata, per ovvi motivi la cornice: il motivo era semplice. All’epoca nessuno ancora sollevava dubbi sull’identità del professoressa, e Report si preoccupava solo  di due elementi che per il programma erano vitali:

1) Accertare e rendere  visibile al pubblico la notizia, cioè  la notizia e l’identità dei due uomini (ritagliando l’inquadratura per ingrandirla), e 2) duplicare le foto, per non rendere riconoscibile la fonte, e dunque preservarla.  Un timore, come si capisce, più che fondato. È stata l’accusa di Renzi, dunque, a mettere in dubbio l’identità che i giornalisti del programma di inchiesta Rai sapevano essere vera e - in nome della deontologia professionale - preservavavano. 

Per questo motivo, di fronte all’accusa per ignoti il pm ha deciso di forzare (e questo è l’ultimo capitolo della storia) il segreto professionale opposto da Sigfrido Ranucci. Siccome il magistrato poteva contare solo su due labili due indizi rivelati dal conduttore durante la puntata di Report (il contatto certo era avvenuto un mese e mezzo prima, la donna insegnava alle superiori), il magistrato ha acquisito i tabulati telefonici di Ranucci, ha delimitato tutte le chiamate di quel mese, e (incrociando tutti i database previdenziali di tutti i contatti!) con un lavoro certosino ha individuato tre di queste persone perché risultavano tutte dipendenti del ministero della pubblica istruzione. 

Nel Lazio c’era solo Valeria. Così la professoressa ha smesso di essere un fantasma ed è diventata una persona in carne e ossa.  Ma  adesso rischia di vedersi accollare - più per la campagna mediatica di Renzi, che per dei dati di fatto oggettivi - una ipotesi di reato e un rinvio a giudizio. Se c’è un giudice a Berlino, tuttavia, anche l’analisi che Tpi vi offre dovrebbe rendere evidente che non ci sono complotti o misteri. C’è solo una professoressa in una piazzola, con un padre malato. 

E c’è un uomo potente che l’ha messa nel suo mirino, e parla di lei quasi tutti i giorni, sui giornali o in tv. Una guerra asimmetrica. L’ultima perla di Renzi, infatti, sono  le due frasi che ha detto da Giletti: “Non ho denunciato la donna” per spiegare che non aveva nulla contro la professoressa (peccato che quel resto sia procedibile solo per querela di parte). Ma anche: “Sono parte civile nel processo” (per dire che vuole arrivare alla verità). E infine: “Io rifiutare il confronto proposto dalla difesa? È una balla spaziale dell’avvocato, Giletti!”. Il giorno dopo, invece Renzi,  dice di voler accettare un interrogatorio con la professoressa davanti al Pm, se verrà chiamato. Un genio.

DAGOREPORT il 20 dicembre 2022.

C’è un nodo che nessuno ha mai sciolto e che ha un rilievo politico decisivo: perché Giuseppe Conte ha tentato, in tutti i modi, di dare una promozione all’agente dei servizi segreti Marco Mancini nel corso dei suoi due governi? 

Partiamo dai fatti.

Giuseppe Conte e il suo braccio destro Gennaro Vecchione, generale di Divisione della Guardia di Finanza nominato a novembre 2018 direttore del Dis, nutrono nei confronti di Mancini una particolare stima. Ne apprezzano la capacità di muoversi con disinvoltura in quelle faglie scomode e sotterranee dove spesso politica e intelligence si incontrano. 

Quella di Marco Mancini è una carriera costellata di successi e ombre, ma soprattutto di guai con la giustizia. Già a capo della Divisione controspionaggio del Sismi (Servizio Segreto Militare Predecessore dell’Aise), è stato braccio destro del generale Nicolò Pollari. Ha riportato nel 2005 in Italia la giornalista de “Il Manifesto” Giuliana Sgrena, sequestrata in Iraq -episodio che costò la vita all'agente del Sismi Nicola Calipari.

Fu condannato a nove anni nel 2013 per il sequestro dell’imam Abu Omar: una “extraordinary rendition” che consegnò nel 2003 il predicatore islamico agli agenti della Cia, nell’ambito della lotta internazionale al terrorismo. 

La condanna di Mancini fu poi rimpallata tra un primo annullamento della Cassazione, un appello-bis, l’intervento della Corte Costituzionale per allargare i confini del segreto di stato e un definitivo annullamento senza rinvio della Cassazione. Per il caso, nel 2006 l’agente operativo del Sismi passò un periodo a San Vittore. 

Come ricorda l’Ansa, fu persino “sfiorato da un aspetto marginale dell'inchiesta sulla 'Banda della Uno Bianca, composta per lo più da poliziotti e che tra la metà del 1987 e l'autunno del 1994 si lasciò dietro 24 morti e oltre cento feriti tra Bologna, la Romagna e le Marche. 

Mancini, che allora era direttore del Sismi di Bologna, venne indagato per false dichiarazioni a pubblico ministero dal Pm Valter Giovannini, che conduceva l'inchiesta sulla Uno Bianca. Alla fine, comunque, lo stesso magistrato chiese l'archiviazione per l'ufficiale”.

 Mancini fu poi nuovamente arrestato con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla violazione del segreto d'ufficio per il caso dei dossier illegali che coinvolse l’ex capo della Security di Telecom, Giuliano Tavaroli. 

L'ex capo del controspionaggio fu accusato di vendere informazioni, sfruttando il suo ruolo da 007, per permettere all’investigatore privato Emanuele Cipriani di creare dossier illegali. Anche quella vicenda, a maggio del 2010, si concluse in un nulla di fatto.

Come recitava l’Ansa: “Cosi', dopo oltre un anno di udienza preliminare con tanto di incidente probatorio e un supplemento istruttorio con la citazione di testimoni tra cui il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera, il giudice ha deciso di prosciogliere in gran parte nel merito, ma anche per l'esistenza del segreto di Stato e per prescrizione, l'ex numero due del Sismi Mancini, uno dei protagonisti della vicenda”.

Un passato burrascoso, certo, ma che non ha intaccato la stima verso Mancini da parte di Conte e Vecchione. L’agente, uscito indenne dalle varie inchieste, ha poi mostrato la sua abilità all’Economato del Dis, il centro di smistamento dei fondi riservati dei servizi. 

Un lavoro certosino che gli ha permesso di guadagnarsi la stima del magistrato anti-‘Ndrangheta Nicola Gratteri, lo stesso che Matteo Renzi avrebbe voluto ministro della Giustizia nel suo governo (il magistrato restò al palo per il “niet” dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che non lo volle).

Davanti a un tale cursus honorum, il tandem Conte-Vecchione valutò l’ipotesi di promuovere l’allora caporeparto del Dis Marco Mancini alla vicedirezione dell’Aise, il nostro servizio segreto estero. 

Una scelta che non incontrò né i favori del direttore dell’Aise, Giovanni Caravelli, né l’entusiasmò degli alleati di governo (la carica del vicedirettore dei Servizi è una nomina politica e va concordata con i partiti). L’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e Di Maio, in carica agli Esteri, si opposero alla promozione di Mancini. 

La “candidatura” di Mancini è stata sostenuta da una “campagna elettorale” serrata ma alla fine arrivò il “no” più pesante, quello del Quirinale. Il “non expedit” di Mattarella fu la pietra tombale sulle ambizioni dello 007, che a quel punto decise di “accontentarsi” di un’altra poltrona, quella di vicedirettore del Dis.

Iniziarono giorni frenetici di incontri, telefonate, passaparola. Si racconta anche di un incontro alla Farnesina chiesto a Di Maio da Nicola Gratteri e Marco Mancini (di cosa avranno mai parlato? Ah, saperlo...). 

Le settimane volarono via veloci e si arrivò a dicembre del 2020. Era il periodo in cui le ambizioni professionali di Mancini dovettero fare i conti con la crisi del suo principale sponsor, Giuseppe Conte. Il suo governo-bis, quello retto dall’alleanza tra M5s e Pd, stava traballando. Come avrebbe potuto Mancini fare un salto di carriera se Peppiniello Appulo fosse andato a casa? Bisognava “disinnescare” il principale pugnalatore di quel governo, Matteo Renzi.

Il 23 dicembre 2020, alla stazione di servizio di Fiano Romano, il senatore semplice di Rignano incontrò Marco Mancini. La consegna dei “babbi”, i tipici dolcetti natalizi al cioccolato, era un ottimo pretesto per scambiare due chiacchiere. 

L’agente segreto aveva l’occasione di tastare il terreno sulle intenzioni di Matteuccio nei confronti del Conte-bis e sulla sua indisponibilità a far nascere il Conte-ter. 

La carriera dello 007 dipendeva dalla sopravvivenza politica del duo Conte-Vecchione. Perché non provare a prendere due piccioni con una fava: salvare l’esecutivo, dialogando con il riottoso Renzi, e poi riscuotere un credito con una bella promozione?

Ma lo scenario politico era in pieno disfacimento, le alleanze stavano saltando, si stava andando al muro contro muro. Erano i giorni in cui Renzi andò a trovare Draghi a Città della Pieve chiedendogli la disponibilità a guidare il Paese. Mariopio non disse “no” ma aprì all’evenienza con una risposta da gesuita: “Non è nei miei pensieri”. Era il via libera alla campagna martellante che poi Renzi condusse per spingere Draghi a palazzo Chigi. 

A inizio gennaio 2021 l’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, inveì contro i renziani guastatori immolandosi a difesa di Peppiniello Appulo: “O Conte o voto” (pagherà il suo “oltranzismo contiano” con le dimissioni dalla segreteria del Pd dopo aver perso la fiducia di mezzo partito e dello stesso Mattarella). 

Il 13 gennaio Renzi fece dimettere dal governo le ministre Bellanova e Bonetti e il sottosegretario Scalfarotto. A sorpresa il 22 gennaio Giuseppe Conte mollò l'Autorità Delegata per la sicurezza della Repubblica (solo dopo un’infinita giaculatoria la "Pochette con le unghie" passò al diplomatico Pietro Benassi la delega ai servizi, su cui era stato a lungo incalzato proprio da Renzi). 

Erano giorni convulsi, iniziò la caccia ai “Responsabili”, i salvatori in extremis della poltrona di Conte e della promozione di Mancini. Partirono trattative febbrili, si rincorrevano i senatori del Maie, i fuoriusciti di Forza Italia, gli ex grillini. Che farà Sandra Mastella? E Lello Ciampolillo? 

Tutti aggrappati al pallottoliere fino a quando il Quirinale chiuse la partita, bloccando le alchimie dei capi dei “Responsabili”, Tabacci e Cesa, mandando al macero il governo Conte, che rassegnò le dimissioni il 26 gennaio 2021. Gli Europoteri, scettici sull’affidabilità del governo Conte nella gestione dei fondi del Pnrr, avevano “chiesto” maggiori garanzie e il Colle calò il suo asso, Draghi.

In tutto questo, Conte sapeva dell’incontro, che non ha poi prodotto alcun risultato, tra Renzi e Mancini a Fiano Romano? 

L'Avvocato del popolo era a conoscenza, come Autorità delegata ai Servizi, della “missione” dell’agente segreto? 

Ancora: Mancini ebbe l'autorizzazione da Vecchione per recarsi all'Autogrill di Fiano Romano per incontrare Renzi? 

Nella ricostruzione iniziale sembrava che Peppiniello fosse all’oscuro di tutto. Il famoso video girato dalla professoressa, in cui l’ex sindaco di Firenze e lo 007 stanno chiacchierando, fu mandato prima al “Fatto quotidiano” (dove non lo videro proprio) e successivamente a “Report” che lo mandò in onda a maggio 2021, quando Conte era ormai fuori da palazzo Chigi.

Ma un articolo di Rita Cavallaro per “L’Identità”, quotidiano diretto dal renziano Tommaso Cerno, del 6 dicembre 2022 ha offerto un’altra versione: “Il video dell'autogrill fu consegnato ai vertici dello Stato e sarebbe arrivato anche a Palazzo Chigi tre mesi prima che Report lo mandasse in onda. Più di una fonte conferma che l'allora premier Giuseppe Conte lo avrebbe visto, ma il capo dei pentastellati, interpellato da L'identità, smentisce di aver visionato il filmato che mostra l'incontro a Fiano Romano, il 23 dicembre 2020, tra Matteo Renzi e il capo reparto del Dis Marco Mancini". 

Continua "L'Identità": ''I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via'", dice Giuseppe Conte. E spunta così il giallo nel giallo. Perché quel filmato venne trasmesso dalla trasmissione di Rai Tre diretta da Sigfrido Ranucci solo il 3 maggio successivo, quando ormai al governo c'era Mario Draghi e a capo dell'intelligence Franco Gabrielli”.

La confusione di Conte sulle date ha offerto l’assist a Renzi per evocare sospetti: "Ha detto che quando gli arrivò la notizia dell'autogrill, quindi dell'incontro Mancini-Renzi, era alla fine dell'esperienza di governo, si trattava di una questione che riguardava il sottoscritto, c'era una polemica politica e ha ritenuto di starne fuori. C'è un piccolo particolare: quando è uscita la notizia dell'autogrill non era più presidente del Consiglio. Conte data questo momento tra dicembre e gennaio ma la domanda è,  chi gli ha detto a gennaio dell'autogrill? Come faceva Conte a sapere dell’incontro all’autogrill con Mancini verso la fine del suo governo quando la notizia diventa pubblica a maggio del 2021? A maggio 2021 il premier era già Draghi da tre mesi… Strano, no? O Conte si confonde, o Conte mente, e non voglio crederlo, oppure Conte nasconde qualcosa".

E' invece probabile che Vecchione abbia informato Conte all'indomani  dell'incontro Mancini-Renzi, riferendogli del fallimento dell'iniziativa salva-governo. 

Ma tornando alla domanda iniziale: perché Giuseppe Conte ha tentato, in tutti i modi, di dare una promozione all’agente dei servizi segreti Marco Mancini nel corso dei suoi due governi? Quali “argomenti” aveva lo 007 per convincere Conte e Vecchione a puntare su di lui?

Federica De Vincentis per formiche.net il 16 dicembre 2022.

I Servizi di intelligence in Italia nel XXI secolo” è stato il titolo della lezione tenuta dal prefetto Franco Gabrielli, Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica nel governo Draghi, al master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri. Si è trattato di un ritorno per Gabrielli, che aveva concluso nel febbraio del 2008 la prima edizione di questo percorso formativo dell’ateneo calabrese, promosso primo in Italia con il sostegno del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga.

Tema della lezione il rapporto tra l’intelligence e le altre istituzioni dello Stato, caratterizzato da incomprensioni spesso dovute a valutazioni errate, basate su “una scarsa conoscenza delle cose che attengono al mondo dell’intelligence, un mondo che rischia di vivere di falsi miti, di rappresentazioni interessate, di comode ricostruzioni”. 

Il prefetto ha evidenziato come l’organizzazione dell’intelligence sia stata strutturata nel corso della sua storia come “un sistema binario antagonista con una tendenziale inclinazione unitaria”, sottolineando la “straordinaria importanza delle garanzie funzionali previste nella Legge 124/2007.

Ricordando il recente volume su Enrico Mattei presentato in occasione dei sessant’anni della morte del presidente dell’Eni, Gabrielli ha ricordato la delicata fase della Guerra fredda, quando l’Italia di fatto era un Paese “in condizione di sovranità limitata”. La mancata consapevolezza di tale condizione ha contribuito a riversare ogni responsabilità sui Servizi, tanto da creare erroneamente la definizione di “servizi deviati”.

Gabrielli ha quindi sottolineato come la storia dell’intelligence sia stata caratterizzata dalla frammentazione e dalla competizione, tanto più che fino al 1977 non c’era mai stata una regolamentazione legislativa del sistema, basato sulle due competenze distinte facenti capo ai ministeri dell’Interno e della Difesa. Per decenni ciò ha causato “una mancanza di unitarietà e di una visione d’insieme, condizionando fortemente le prospettive di crescita”. 

Il prefetto lo definisce “un antagonismo che anche per le vicende successive relative allo scandalo dei fondi neri del Sisde, ha tenuto in piedi un sistema squilibrato dove il Sismi ha rappresentato, dal 1992 fino al 2007, l’organismo per eccellenza”. La legge 124 del 2007 ha indicato un nuovo equilibrio, precisando il segreto di Stato, introducendo le garanzie funzionali e assegnando la responsabilità politica esclusiva al presidente del Consiglio.

Gabrielli ha poi sottolineato come la 124 rappresenti “uno spartiacque importante”, definendo un bilanciamento di poteri tra gestione e controllo. Ci sono però ancora da affrontare “una serie di equivoci” dovuti alla frammentazione tra Dis, Aise e Aisi “che incide sull’unitarietà dell’azione, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la politica”. Ha quindi sottolineato come tale evidenza renda complessa la gestione della sicurezza, anche in considerazione del rapporto con la magistratura ed il patrimonio informativo degli apparati delle forze di polizia.

La gestione del flusso delle informazioni sulla sicurezza presenta criticità. Infatti, l’ufficiale di polizia giudiziaria è collocato tra due fuochi: la dipendenza gerarchica e l’obbligo della segretezza delle indagini. “È una sorta di perversione”. Inoltre “nel nostro sistema esiste una sperequazione di patrimonio informativo degli apparati, poiché, a differenza di altri Paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, dove si stabilisce a monte quali siano le priorità nazionali, nel caso italiano si lascia alla magistratura un ruolo decisivo, producendo uno squilibrio tra apparati dell’intelligence e delle forze di polizia”.

Sul tema della sicurezza Gabrielli ha sottolineato come sia necessaria una riflessione sul lessico utilizzato, dal momento che racchiude diversi ambiti di azione come la security, la safety e l’intelligence. La scarsa precisione lessicale “descrive una mancata comprensione delle attività realmente svolte, favorendo abusi e strumentalizzazioni”. 

Si tratta di un mutamento di prospettiva che dovrebbe caratterizzare anche la selezione del personale che accede ai Servizi, per evitare di considerare il passaggio all’intelligence come una sorta di “oscar alla carriera” per chi proviene dalle forze di polizia, specialmente per i dirigenti.

È infatti sbagliato considerare i due mondi come vasi comunicanti, rendendo evidente una cesura che permetta al settore dell’intelligence di raggiungere una sua identità specifica. 

Ha quindi sottolineato che “troppo spesso il mondo dell’intelligence viene vissuto come una zona franca, cioè non come un luogo che ha una sua dignità, che ha una sua ragione d’essere, che ha una sua individualità e una sua identità, ma un luogo che in qualche modo può essere utilizzato per scopi che non necessariamente sono quelli propri”.

La selezione e la formazione del personale diventano allora fondamentali poiché la vera sfida è un nuovo approccio di analisi “in un mondo in cui c’è un’overdose di dati, la differenza la fa l’informazione analizzata in profondità: il tema è fare sintesi ed avere la possibilità di capire dove va il mondo”. 

In definitiva, ha detto, occorre sempre tenere presente che uno degli scopi dell’intelligence è “mettere il politico nelle condizioni di decidere”, affinché le istituzioni svolgano efficacemente il proprio ruolo e mantengano la loro credibilità.

Gabrielli ha poi rilevato la necessità di un Servizio unico che, pur non perdendo di vista la complessità, operi con interdisciplinarietà e interconnessione. Per questo, “il tema della selezione del personale è fondamentale, poiché è necessaria un’adeguata scelta del capitale umano, in cui l’eccellenza dovrebbe essere la regola”.

Gabrielli ha infine descritto i tre lasciti che il governo Draghi ha concretizzato per la sicurezza della Repubblica. L’importante creazione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, la definizione delle misure di intelligence di contrasto cibernetico e lo strumento del “clandestine service”, ovvero l’impiego del personale dell’Aise per lo svolgimento di attività di ricerca informativa e operazioni all’estero. 

In relazione all’Agenzia per la cybersicurezza nNazionale, ha ricordato che è un’esperienza partita con grande ritardo rispetto ad altri paesi, come la Germania (1999) e la Francia (2009), sottolineando come sia stata resa autonoma dall’intelligence per darle maggiore libertà di azione, in modo da renderla svincolata dagli angusti limiti della riservatezza.

Il Caso Mattei.

ENRICO MATTEI. Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 17 dicembre 2022. 

Il capo della Cia a Roma non sembra avere dubbi: Enrico Mattei era un fascista, si era rifatto l'immagine comprando per cinque milioni di lire il titolo di partigiano dai democristiani, e forse per queste sue origini si oppone agli interessi americani in Italia.

Lo pensa e lo scrive, Lester Simpson, in un rapporto inviato l'11 agosto del 1955 alla "Company", intitolato "U.S. Embassy and Italian Petroleum Industry". 

Un documento che forse aiuta a chiarire, se non riaprire, il caso della misteriosa morte del leader dell'Eni. Giovedì sera i National Archives di Washington hanno pubblicato 13.173 documenti finora segreti sull'omicidio del presidente Kennedy, perché lo aveva ordinato nel nome della trasparenza il John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, approvato dal Congresso nel 1992.

[…] il rapporto segreto del 1955 su Mattei […] comincia così: «La grande maggioranza delle compagnie petrolifere italiane, che fino al IV World Petroleum Congress si opponevano all'Eni, ora presentano un fronte unito con Enrico Mattei, nella sua opposizione allo sfruttamento dei depositi italiani da parte degli interessi americani». 

Quindi Simpson spiega: «Questa nuova situazione è il risultato di informazioni confidenziali e consigli forniti ai gruppi petroliferi italiani e a Mattei stesso da Remigio Danilo Grillo. Grillo, vicedirettore generale per gli Affari politici al ministero degli Esteri italiano, è un ex "squadrista" e cagnolino di Galeazzo Ciano, grazie alla cui influenza ha fatto carriera».

[…] A questo punto Simpson spiega le probabili origini dell'ostilità del capo dell'Eni: «Mattei stesso era un fascista fino al 1945. Aveva iniziato a lavorare nella Resistenza dopo l'8 settembre, facendo però attenzione allo stesso tempo di conservare i rapporti con i tedeschi. Come parte di questo processo, sua moglie era diventata l'amante di un capitano austriaco che era un ufficiale molto importante nella SD tedesca», ossia il servizio di intelligence delle SS Sicherheitsdienst. 

«Quando era diventato chiaro che la vittoria degli Alleati era certa, Mattei aveva pagato cinque milioni di lire ad un leader partigiano della DC, per ottenere il titolo di capo partigiano della DC e il grado di generale della Resistenza nel CLN. La sua nomina era stata approvata dal generale Cadorna e dal colonnello Argenton, ora braccio destro di Mattei».

Sei anni dopo, il 13 giugno del 1961, la Cia torna ad occuparsi del capo dell'Eni nella National Intelligence Estimate, con 12 pagine intitolate "The Outlook for Italy". La bocciatura è netta: «L'Ente nazionale italiano degli idrocarburi, guidato da Enrico Mattei, è diventato uno Stato nello Stato». Quindi il rapporto aggiunge un giudizio definitivo: «Il monopolio che esercita nel settore petrolifero probabilmente continuerà a provocare frizioni fra Italia e Stati Uniti», a causa degli investimenti nel mondo arabo e i crescenti scambi con l'Unione Sovietica.

Poco più di un anno dopo, il 27 ottobre 1962, la torre di controllo dell'aeroporto di Linate perde i contatti con il piccolo bireattore "Morane Saulnier" di proprietà dell'Eni. A bordo ci sono Mattei, il giornalista inglese William McHale e il pilota Imerio Bertuzzi. L'aereo era decollato da Catania alle 16.57, dopo una breve visita del capo dell'Eni destinata ad essere seguita da un viaggio in Algeria, durante il quale era in programma la firma di un accordo per la produzione di greggio che sfidava gli interessi delle maggiori compagnie petrolifere occidentali. Alle 18.57 il "Morane Saulnier" non risponde più via radio. I resti vengono trovati in un campo della località di Bascapè, provincia di Pavia, a pochi minuti di volo in linea d'aria dallo scalo di Linate. Nessuno dei tre passeggeri sopravvive.

Nuovi documenti storici della CIA svelano l’ossessione americana per Enrico Mattei. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 18 Dicembre 2022.

Secondo il capo della CIA a Roma, Lester Simpson, il fondatore di ENI, Enrico Mattei – scomparso in un incidente aereo non ancora del tutto chiarito nel 1962 – era un «fascista» che «pagò cinque milioni di lire a un comandante partigiano della Democrazia Cristiana per acquisire il rango di capo partigiano della Dc e generale della Resistenza nel CNL» e per questa ragione si opponeva agli interessi americani in Italia. È quanto contenuto tra i 13.173 documenti desegretati sull’omicidio del presidente Kennedy, pubblicati giovedì sera dai National Archives di Washington e disponibili all’indirizzo archives.gov. Tra i documenti in questione sono citati diversi casi inerenti l’Italia, tra cui il più rilevante è senza dubbio quello che riguarda il celebre imprenditore che sfidò le multinazionali petrolifere e che stava avendo successo nell’obiettivo di rendere l’Italia autonoma dal punto di vista energetico. Fatto che – probabilmente – gli costò la vita. La pubblicazione dei documenti era stata anticipata da un messaggio del presidente Joe Biden: «La profonda tragedia nazionale dell’assassinio del presidente Kennedy continua a risuonare nella storia americana e nella memoria dei molti americani che vissero quel giorno terribile. Pubblicare tutte le informazioni è un passaggio chiave per garantire il massimo della trasparenza del governo degli Stati Uniti», aveva asserito venerdì, anche in conformità col John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, approvato dal Congresso nel 1992, che lo aveva ordinato nel nome della trasparenza.

Nel rapporto scritto da Simpson e inviato l’11 agosto del 1955 alla “Company” con il titolo «U.S. Embassy and Italian Petroleum Industry» emergono chiaramente le preoccupazioni degli ambienti di potere americani circa la politica indipendente che Mattei stava conducendo per affrancare l’Italia dal dominio energetico internazionale, e americano in particolare, e che avrebbe rilanciato il Paese come protagonista non solo delle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo, ma anche internazionali. Come si era già spiegato in un approfondimento su L’indipendente dedicato al caso Mattei, infatti, la politica energetica del fondatore di ENI aveva il potenziale per rendere l’Italia una potenza sul piano globale permettendole così anche di essere meno subalterna all’egemonia d’oltreoceano. Non stupisce, dunque, che gli americani fossero profondamente infastiditi dall’intraprendente e spregiudicato imprenditore italiano. Non a caso, il rapporto segreto firmato da Simpson su Mattei comincia così: «La grande maggioranza delle compagnie petrolifere italiane, che fino al IV World Petroleum Congress si opponevano all’Eni, ora presentano un fronte unito con Enrico Mattei, nella sua opposizione allo sfruttamento dei depositi italiani da parte degli interessi americani».

Nel documento si fa riferimento, inoltre, ad un «cambiamento della tattica adottata dalle compagnie petrolifere italiane verso gli americani», in quanto le aziende USA «sono determinate ad assorbire tutta la produzione italiana e hanno già mandato rappresentanti per sondare le personalità del settore con proposte di acquisto». Il rapporto prosegue sostenendo che «l’attitudine dei circoli del settore petrolifero italiano, informati di queste presunte manovre degli USA, è ostile. […] La diffidenza è arrivata al punto che pochi giorni fa, quando l’agente di una compagnia petrolifera americana ha chiesto un appuntamento a Mattei, lui ha detto che era fuori città, partendo immediatamente per la Costiera amalfitana». Da qui ad accusare Mattei di fascismo il passo è stato breve: le cause della sua ostilità alla potenza a stelle e strisce – che in realtà non era altro che attenzione agli interessi nazionali – infatti, sarebbero state da ricondurre proprio alla sua presunta militanza fascista. «Mattei stesso era un fascista fino al 1945. Aveva iniziato a lavorare nella Resistenza dopo l’8 settembre […]. Quando era diventato chiaro che la vittoria degli Alleati era certa, Mattei aveva pagato cinque milioni di lire ad un leader partigiano della DC, per ottenere il titolo di capo partigiano della DC e il grado di generale della Resistenza nel CLN. La sua nomina era stata approvata dal generale Cadorna e dal colonnello Argenton, ora braccio destro di Mattei», si legge nel rapporto.

In realtà, la sua adesione alla Resistenza risale almeno al 1943, come si apprende dalla biografia riportata sul sito di ENI: «Il 25 luglio 1943, si unisce insieme a Marcello Boldrini, economista dell’Università Cattolica, ai gruppi partigiani attivi sulle montagne circostanti Matelica». Da notare come gli stessi americani lo avessero definito anche, nel 1957, un «pericoloso comunista», in quanto aveva preso le parti della resistenza algerina contro il colonialismo francese. Comunista o fascista, dunque, ogni etichetta è risultata valida per demonizzare colui che ha tentato di rendere l’Italia sovrana dal punto di vista energetico, rischiando di frantumare l’imperialismo americano. Per questo, nel 1961, la CIA torna ad occuparsi del capo dell’ENI in un rapporto intitolato “The Outlook for Italy”, in cui scriveva che «L’Ente nazionale italiano degli idrocarburi, guidato da Enrico Mattei, è diventato uno Stato nello Stato», aggiungendo che «il monopolio che esercita nel settore petrolifero probabilmente continuerà a provocare frizioni fra Italia e Stati Uniti», a causa degli investimenti nel mondo arabo e i crescenti scambi con l’Unione Sovietica.

Poco più di un anno dopo, il 27 ottobre 1962, Enrico Mattei sarebbe morto in un incidente aereo insieme al pilota e al giornalista inglese William McHale. I resti del velivolo furono trovati in un campo a Bascapè, in provincia di Pavia. Sulla vicenda ci furono due inchieste: la prima fu archiviata adducendo come motivazione un guasto o un errore del pilota; la seconda, grazie al pm Vincenzo Calia, giunse alla conclusione che a bordo vi era un ordigno esplosivo, ma non furono fatte ulteriori indagini, archiviando comunque la vicenda. Il magistrato che da solo cercò di fare chiarezza sulla morte di Mattei, sfidando i poteri internazionali, intervistato alcuni anni fa affermò che «Mattei si poneva come obiettivo l’autonomia energetica dell’Italia, la sua scomparsa azzerò quel progetto industriale e il nostro Paese tornò a dipendere dai grandi produttori internazionali». Giorgia Audiello

Il caso PCI.

Cia Files, quando il giornale del Pci pensò di pubblicare il nudo dell’ambasciatrice Usa. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022.

Clare Boothe Luce, in Italia dal ‘53 al ‘56, era una decisa anticomunista

Talmente detestata a sinistra per il suo anticomunismo da spingere l’Unità , il quotidiano dell’allora Pci, a considerare la possibilità di pubblicare, per screditarla, una foto giovanile nella quale appariva nuda, coperta solo da un ventaglio. Talmente apprezzata dall’estrema destra italiana, nei primi anni del Dopoguerra, da spingere Junio Valerio Borghese, che qualche anno dopo diverrà celebre come protagonista del fallito «golpe Borghese», a organizzare riunioni, prima ancora del suo arrivo in Italia, per «reclutarla» nella destra extraparlamentare che aveva appena ripudiato l’Msi di Giorgio Almirante, giudicato debole e rinunciatario.

Bella, mondana, scaltra, anticomunista viscerale, Clare Boothe Luce, attrice, giornalista, scrittrice, deputata al Congresso e poi ambasciatrice in Italia dal 1953 al ’56, è stata una figura controversa e, a suo modo, leggendaria. Una leggenda ora arricchita da nuovi elementi contenuti in due cablogrammi segreti inviati dalla Cia e dall’ambasciata Usa in Italia al dipartimento di Stato di Washington nel 1954 e nel ’55 che danno conto dell’intenzione degli aspiranti golpisti di coinvolgerla nei loro disegni e dell’esistenza di una foto «compromettente» che, secondo la nota dei servizi americani, l’Unità avrebbe pensato di utilizzare per neutralizzare, con uno scandalo, l’ambasciatrice che definiva il comunismo «cancro mortale dello spirito».

Questi documenti fanno parte degli oltre 13 mila file legati in qualche modo alle inchieste sull’omicidio di Kennedy che gli Archivi di Stato di Washington hanno desecretato due giorni fa e pubblicato, seguendo le indicazioni della Casa Bianca di Joe Biden che promette trasparenza.

Il cablo del 5 febbraio 1954 riferisce che, secondo l’agente identificato col nome in codice Ouverture, un esponente del Partito comunista del Territorio Libero di Trieste (città che tornerà poco dopo ad essere pienamente italiana anche grazie al forte impegno della Luce) avrebbe trasmesso al Pci una copia del giugno 1926 della rivista Fiammetta contenente una foto di una donna nuda «che appare identica all’attuale ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia». Di certo quella foto non fu mai sfruttata dai comunisti italiani e potrebbe anche aver rappresentato una persona diversa: Clare Boothe Luce era sicuramente una persona curiosa di tutto, animatrice di salotti, descritta anche come una donna molto disinibita, anche una discreta consumatrice di Lsd. E quello con Henry Luce, potente editore di Time, Life e Fortune, i magazine più importanti dell’epoca, fu definito un matrimonio sessualmente aperto, nonostante Claire, oltre che arciconservatrice e anticomunista, fosse diventata, dopo la sua conversione del 1946 al cattolicesimo, un’integralista religiosa. Tanto che papa Pio XII, che la incontrava spesso, una volta interruppe una sua filippica dicendo: «Signora cara, si ricordi che anch’io sono cattolico e non ho bisogno di essere convertito».

Ma, se in privato le sono stati attribuiti vari amanti, compreso Joseph Kennedy, padre di Jfk, ma tra mille incertezze, anche perché negli stessi anni la vita mondana era animata anche da un’altra attrice con un nome quasi identico, Claire Luce, nella vita pubblica la sua retorica roboante ed estrema è stata la sua forza: quella che la portò ad essere eletta al Congresso e a ottenere, nel 1953, l’incarico di ambasciatrice in Italia. Nominata da Eisenhower, grato per i cento comizi coi quali, durante la campagna elettorale, le aveva portato il voto di molti cattolici.

Nonostante i meriti per Trieste, in Italia non lasciò un buon ricordo per il suo eccessivo interventismo e manicheismo. Indro Montanelli, che, pure, fu suo amico e ne ammirava la bellezza, le attribuì «la mentalità schematica di una maestra di scuola».

Letizia Tortello per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.

A Berlino, il caso della spia chiamata Carsten L. è stato considerato come «estremamente serio». Bisogna andare molto indietro nella storia, per trovare un livello così pericoloso e sofisticato di infiltrazione nei servizi segreti tedeschi (Bnd). Era il 1961 e si scoprì che Heinz Felfe, addirittura dirigente del dipartimento di controspionaggio sovietico, era in realtà un informatore del Kgb e aveva spiato la Germania per 17 anni. Aveva rivelato anche decine di operazioni della Cia.

Con l'aggressione dell'Ucraina, la minaccia rappresentata dallo spionaggio russo, dalle campagne di disinformazione agli attacchi informatici, hanno assunto un'altra dimensione. Dopo quasi un anno di indagini e in seguito a una soffiata da parte degli 007 occidentali, Berlino ha smascherato il presunto doppio agente, che ricopriva un ruolo delicatissimo nel Bundesnachrichtendienst: Carsten L. era capo del dipartimento di Technical Intelligence. Aveva accesso a documenti altamente classificati sulla guerra, condivisi con Washington, Londra e gli altri alleati. Informazioni coperte da segreto di Stato che la talpa avrebbe passato ai servizi russi. Se fosse così, rischierebbe l'ergastolo. 

Ma il lavoro sotterraneo del funzionario d'alto rango rappresenta un duro colpo per l'apparato di sicurezza tedesco. Berlino teme che altri agenti russi stiano spiando autorità, ministeri, aziende tedesche. E che Putin usi l'intero arsenale a disposizione per influenzare, infiltrarsi, sovvertire. Una guerra parallela alla guerra in Ucraina. Che riguarderebbe anche lo spionaggio industriale, nel tentativo di compensare il mancato accesso alla tecnologia occidentale a causa delle sanzioni. 

Soprattutto, nei settori dell'aerospazio, dell'elettronica, dei semiconduttori. La Germania era mal preparata a questo tipo di minacce, almeno quanto lo era a un conflitto militare. Dopo la caduta del Muro, l'Est è stato considerato amico per molti anni. Nel 2001, dopo l'11 settembre, il Bnd ha persino fermato per più di un decennio il controspionaggio, che indagava sui servizi segreti stranieri. La Russia era un partner nella lotta al terrorismo islamico e Putin al Bundestag dichiarava, applaudito: «La Guerra Fredda è finita».

Ad aprile scorso, dopo l'incontro dei capi delle intelligence europee a Parigi per cercare un fronte comune contro lo spionaggio del Cremlino, sono stati espulsi 600 funzionari in vari Stati, 40 da Berlino. I report di inizio 2022 ipotizzavano che più di 150 spie russe con accreditamento diplomatico stessero ancora lavorando nella sola Germania. Carsten L. pare sia riuscito a diventare il grande orecchio dei servizi tedeschi, superando severi controlli di sicurezza, in qualità di alto funzionario statale. Ha potuto filtrare, con buona probabilità, le comunicazioni top secret dell'Occidente su guerra, governi corrotti, terrorismo.

Il Caso dell’atomica.

Le spie che diedero l'atomica a Stalin. Spesso spinti da un vero fervore ideologico, alcuni scienziati - traditori o eroi a seconda del punto di vista - passarono i segreti delle "armi finali" all'Unione Sovietica rubadoli a Stati Uniti e Regno Unito. Andrea Muratore il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Grandi scienziati diventati spie ma che oggi possiamo vedere, al contempo, come traditori e eroi. Traditori, perché passarono, spesso per ideologia, i segreti atomici e delle "armi finali" decisive per chiudere la Seconda guerra mondiale dagli Stati Uniti e il Regno Unito all'Unione Sovietica di Stalin. Eroi, col senno di poi, perché la parità atomica e l'incubo della mutua distruzione assicurata furono, in fin dei conti, il vero potere frenante, il katehon, contro la degenerazione della Guerra Fredda in Terza guerra mondiale.

Innescarono il riarmo, consegnarono i segreti dell'arma finale alla superpotenza comunista ai tempi di Iosif Stalin, piegarono alla politica la scienza. Ma quasi mai lo fecero per venalità e, anzi, proprio col loro agire fecero capire la necessità di regolamentare la competizione sugli armamenti per evitare un Far West nucleare.

Stalin, dal 1943, iniziò a desiderare ardentemente la bomba atomica. Risolta la fase più drammatica dell'aggressione nazista, diede al fedelissimo Lavrentij Beria il compito di strutturare politicamente il programma atomico guidato dal fisico Igor Kurcatov. A questo piano, lo spionaggio diede una sponda fondamentale per chiudere rapidamente il divario con l'Occidente, ai tempi ancora alleato dell'Urss, e portare Mosca al suo primo test atomico, condotto a Semipalatinsk, in Kazakistan, nel 1949.

Parliamo di un processo che i Paesi anglosassoni impegnati nella ricerca dell'atomica, anche dopo gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki che ne svelarono al mondo l'impatto, avevano già iniziato a capire all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. La "Guerra Fredda", in un certo senso, iniziò a Ottawa, capitale del Canada, il 5 settembre 1945, tre giorni dopo la resa del Giappone agli Alleati. Quel giorno Igor Gouzenko, attaché all'ambasciata sovietica, chiese asilo in Canada portando decine di documenti compromettenti sullo spionaggio sovietico in Canada e negli Usa, comprendenti anche dossier sulle ricerche industriali volte all'ottenimento dell'arma atomica.

La rete di spie comprendeva l'economista Angela Chapman, il fisico Raymond Boyer e il deputato comunista Fred Rose, che passava ai sovietici i verbali delle sedute straordinarie e segrete dedicate alla discussione sui risultati americani del Progetto Manhattan.

Fondamentale, come ricorda Alfredo Mantici in Spie atomiche, anche l'operato di Klaus Fuchs, cittadino tedesco in fuga dal regime nazista riparato in Gran Bretagna. Fuchs fu allievo di Max Born ed è ritenuto uno dei più grandi teorici della storia del Novecento. Entrò a far parte dell'équipe di scienziati del laboratorio di Harwell per le ricerche atomiche, e fu messo a capo di un dipartimento nel 1942, per poi andare in America alla Columbia a lavorare al Progetto Manhattan l'anno successivo. Fuchs, nota Mantici, fu "l'inventore di un metodo per calcolare l'energia di un assemblaggio fissile estremamente critico" e controllare la trasformazione dell'uranio in plutonio, decisivo per costruire un'arma atomica. Prontamente consegnato all'Nkgb, l'onnipotente servizio segreto di Mosca, per tramite della spia Harry Gold, industriale chimico di Philadelphia figlio di cittadini russi. E negli ultimi anni, importante anche lo studio che ha portato al nome di un altro agente doppiogiochista, Oscar Seborer, cittadino americano che, come ricordato da Davide Bartoccini su Il Foglio, passò documenti particolarmente preziosi ai sovietici.

La storia di queste figure si incrocia con quella mitica dei Cambridge Five, i cinque agenti doppiogiochisti britannici al servizio dei sovietici che oltre a trasferire segreti a Mosca fecero opera di trasmissione di nomi e identità di doppiogiochisti attivi sul suolo sovietico al soldo dell'Occidente. Kim Philby (nome in codice: Stanley), Guy Burgess (nome in codice: Hicks), Donald Duart Maclean (nome in codice: Homer), Anthony Blunt (nome in codice: Johnson) e John Cairncross (nome in codice: Liszt). Tra questi Maclean, nota Gnosis, ebbe un ruolo decisivo tra le spie atomiche: "aveva accesso all’Atomic Energy Commission e non gli fu difficile sottrarre documenti che furono utilizzati dall’Unione Sovietica per mettere a punto la bomba atomica".

Ancor più profonda l'infiltrazione di Caincross: funzionario del Foreign Office britannico prima e del Tesoro poi che "trasmise quasi tutta la documentazione sulle strategie pianificate da Churchill nel War Cabinet, il Consiglio di Guerra, fornì notizie sui comitati creati per studiare l’applicazione delle scienze allo sforzo bellico e, probabilmente, fu il primo agente a informare i sovietici della decisione di inglesi e americani di costruire la bomba atomica.

Una storia complessa e decisamente oscura che ebbe più ramificazioni attorno al "cervellone" centrale di Mosca. Prescindendo dai giudizi morali sul regime stalinista, va detto che indubbiamente, però, l'atomica sovietica ebbe il duplice risultato di ottenere quel pareggio atomico tra superpotenze che fu alla base dell'equilibrio del terrore della Guerra Fredda e, dall'altro lato, di compattare il campo occidentale aiutando a riscoprire comunanze valoriali e identitarie oltre ogni differenza. Le spie atomiche, anche se non in contatto tra loro, accelerarono la storia. E sul fronte occidentale la loro avventura deve insegnare molto circa la necessità di mediare tra rivoluzioni scientifiche, applicazioni concrete e tutela della sicurezza quando si tratta di asset critici decisivi per la sicurezza nazionale. Perché, ieri come oggi, a far la differenza è il fattore umano.

Tonia Mastrobuoni per “il venerdì di Repubblica” il 26 Dicembre 2022.

"Lehrjahre", gli anni di apprendistato di Vladimir Putin, contrariamente a quelli del Wilhelm Meister creato da Goethe, non sono stati anni di svago o di passione per il teatro. Quando Putin arriva nel 1985 a Dresda per la sua prima missione all'estero come agente del Kgb, ha trentatré anni ed è sposato con Ljudmila Skrebneva da due: ha una figlia, un'altra in arrivo e da dieci anni è stato arruolato dai servizi segreti sovietici. 

In quella fase cruciale della sua vita verrà promosso a capo della sede, importante, delle spie sovietiche nella vecchia Germania Est. Da lì assisterà in prima fila alla "rivoluzione pacifica" che abbatterà il Muro di Berlino. Putin è infatti ancora in Germania quando finisce il "Secolo breve": in tutto ci passerà cinque anni, fino al ritorno precipitoso in un'Unione sovietica che si sta sciogliendo come neve al sole. Un periodo di intenso lavoro che ha contribuito a rendere il futuro presidente russo quello che è oggi.

Ottanta infiltrati

Il "metodo Putin", le sue tecniche di reclutamento degli agenti infiltrati in Occidente, la creazione del suo attuale "cerchio magico", la sua attività di contrabbando intorno alla Robotron, la grande azienda di Stato produttrice di elettronica: tutti questi segreti sono contenuti nei testi e nelle fotografie custoditi all'archivio federale di Dresda. L'archivio raccoglie i documenti della Stasi, i servizi segreti della vecchia Germania Est, ed è stato scandagliato dall'ex direttore degli archivi della Stasi di Berlino-Hohenschoenhausen, Hubertus Knabe, che negli ultimi mesi, e alla luce della guerra in Ucraina, ha riesaminato 500 pagine di documenti e foto su Putin.

In un intervento poche settimane fa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Knabe ha spiegato come da quelle carte emergano dettagli che lasciano intuire la traiettoria futura dell'autocrate che ha fatto ripiombare l'Europa nell'incubo della guerra. "I materiali non sono inediti, ma Knabe ha approfondito alcuni aspetti di Putin che ora sembrano più interessanti", argomenta Gianluca Falanga, storico italiano che ha lavorato a lungo negli archivi della Stasi ed è tra i maggiori esperti italiani di Germania Est, autore di Il ministero della paranoia. Storia della Stasi (Carocci), un viaggio dentro i famigerati servizi segreti della Germania Est.

 Falanga spiega che negli anni in cui Putin era a Dresda, tra i tedeschi dell'Est e il Kgb c'era l'accordo che dalla loro base in Germania i sovietici avrebbero evitato di condurre operazioni nella Ddr e che si sarebbero concentrati sull'Occidente. Non a caso a Dresda era stato rinvenuto un elenco di circa 90 pagine con i nomi di spie sovietiche in Occidente gestite da Putin. "Oggi quasi tutte quelle pagine sono andate perse. Ma si è scoperto che su ognuna figuravano un'ottantina di infiltrati. Li moltiplichi per novanta. Sarebbe stato un tesoro prezioso", osserva lo studioso. Un tesoro concentrato nelle mani dell'uomo che un giorno avrebbe guidato la Russia.

Quando cade il Muro

Una delle mansioni principali di Putin era quella "di individuare persone, di studiarne il profilo prima di avvicinarle e ottenerne la collaborazione", prosegue lo storico. Lo scopo era soprattutto spiare obiettivi militari Nato e americani. Ma le attività dell'ufficio di Dresda e dei suoi agenti potevano spaziare: dai documenti risulta che nel 1986, l'allora capo del Kgb di Dresda partecipò a un piano segreto del capo della Stasi, Erich Mielke, che avrebbe dovuto garantire sostegno finanziario e operativo a un nucleo di agenti, qualora la Germania Est fosse collassata. 

Tuttavia, Putin lavorava principalmente su altro: "Ingaggiare un agente non è una cosa che si fa in due mesi. Ci si lavora un periodo lunghissimo. Bisogna avere un'enorme pazienza e cura nell'osservare le persone in modo distanziato, nell'ombra. Bisogna diventare maestri nel tatticismo. Putin imparò a trovare il momento e il modo giusto per convincere, manipolare, raggirare. Una tecnica tipica di un cekista (uomo del Kgb, ndr) come lui era lanciare una provocazione e vedere come la persona reagiva. Un po' come fa adesso con la minaccia nucleare".

Il "metodo Putin", insomma, nasce anche a Dresda. Quando cadde il Muro di Berlino, novembre del 1989, anche nella sede periferica di Dresda la Stasi e il Kgb vissero momenti di panico. Gli agenti cominciarono a bruciare e ad annientare i loro archivi. Ma la risposta non si fece attendere: i cittadini dell'Est assaltarono le sedi della Stasi per scongiurare la distruzione dei documenti che attestavano quarant'anni di persecuzione. E la rabbia arrivò fino alle porte della sede del Kgb. Qui Putin affrontò la folla inferocita e la minacciò. "Se non vi fermate, darò l'ordine di sparare". Così, i manifestanti arretrarono.

 I documenti a Mosca

Knabe, rileggendo i documenti di Dresda, sostiene che Putin sia rimasto in realtà scioccato dalla caduta del Muro, e che neanche il Kgb fosse preparato alla fine della Ddr.  Falanga però non ne è convinto. "Putin e il Kgb reagirono molto rapidamente alla crisi di novembre del 1989. Credo che abbiano in qualche modo capito in tempo che la situazione era grave. E che abbiano riflettuto su come salvare dei pezzi della rete di infiltrati che avevano in Occidente. Ovviamente ciò non vuol dire che alcuni episodi drammatici non lo abbiano segnato". 

Ad esempio, suggerisce lo storico, il suicidio del capo della Stasi di Dresda, Horst Boehm. Qualcuno sostiene che il disprezzo per le piazze che Putin ostenta da anni con la repressione di ogni dissidenza interna, sia nato proprio in quelle settimane.

È legittimo chiedersi anche che fine abbiano fatto le spie reclutate da Putin in Occidente. Falanga ritiene "improbabile" che, anche dopo il crollo dell'Unione sovietica, quelle reti siano state del tutto smantellate. Perché se è vero che la Stasi e l'ufficio di Dresda del Kgb si misero " freneticamente" a bruciare e a distruggere documenti, lo storico è "abbastanza sicuro che una parte  siano stati portati via". Di più: "So per certo che una parte dei documenti della Stasi è stata portata a Mosca".

Cerchio magico

Quel che è certo è che alcuni attuali fedelissimi di Putin provengono dal periodo tedesco: il suo "cerchio magico" nasce a Dresda. Falanga ne elenca alcuni componenti. "Ci sono già Nikolaj Tokarev e Sergej Cemezov. Ma quello che emerge è soprattutto un metodo. Putin imparò come legarli a sé, a manovrarli. E più tardi divennero tutti capitani d'industria, top manager, uomini potenti. Oligarchi. Si scrive che Putin non controlli più una parte dei suoi oligarchi. Io non lo penso: credo che lui influenzi ancora notevolmente le persone che gli stanno intorno". 

Un altro compito importante svolto da Putin a Dresda era di natura industriale. La città era la sede di Robotron, una grande azienda di computer e informatica: "lui si occupava di recuperare tecnologie occidentali aggirando l'embargo".  

Guai in famiglia

Nei documenti ci sono anche i rapidi progressi nella carriera di agente segreto, registrati da Putin in quegli anni. Ma c'è anche  molta vita privata, il matrimonio con Ljudmila, le due figlie.  "Putin è ancora molto legato agli anni di Dresda" racconta Falanga "e vi è tornato spesso. Qui approfondì anche il suo tedesco insieme alla moglie. E ormai si sa, dall'interprete di Ljudmila, Lena S. che era in realtà spia dei servizi della Germania Ovest, che il loro matrimonio non era affatto idilliaco.

Lena era riuscita a diventare amica della moglie di Putin, e lei le confidò che la tradiva, che alzava anche le mani contro di lei, che lavorava come un ossesso". Infine, le fotografie. Quelle contenute nell'archivio mostrano un Putin "molto poco eccentrico, che si faceva notare poco, che aveva sempre un'aria concentrata e assorta". Nelle immagini lo si vede bere succhi di frutta mentre gli altri brindano a spumante, come a ostentare lucidità. E un assoluto controllo di sé.

La Guerra Fredda.

Una cortina... di spie. La Guerra fredda è un tunnel dal quale non siamo mai usciti. Domenico Vecchiarino racconta mezzo secolo di avventurose battaglie di intelligence. Matteo Sacchi il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quella che si sta combattendo in Ucraina è indubbiamente una guerra calda. Il conflitto però ha innescato anche meccanismi che sembrano aver fatto rialzare una sorta di cortina di ferro (posizionata molto più a Est) tra la Russia, i Paesi della Nato e i loro alleati. Insomma, pian piano attorno alla guerra calda, anzi ancora prima che il fronte si incendiasse, si è innescata, silenziosa e strisciante, una nuova Guerra fredda.

Ecco che, allora, compulsare i vecchi archivi e i libri di storia per capire come si è svolta quella lunghissima lotta sotterranea di spie, che ha caratterizzato quasi un cinquantennio della nostra Storia, non è solo una curiosità culturale, quanto un viatico per capire il nuovo tunnel (come quelli che si scavavano sotto il muro di Berlino) in cui potremmo infilarci. Da questo punto di vista il volume pubblicato, per i tipi di Rubbettino, da Domenico Vecchiarino è un vademecum perfetto: Le spie della guerra fredda (pagg. 254, euro 18).

Vecchiarino, che è un ricercatore nel campo dell'intelligence e della geopolitica, ripercorre, con attenzione e gusto dei colpi clamorosi, uno scontro sotterraneo che ha caratterizzato il nostro recente passato e, in qualche modo, gettato le basi del nostro presente. La sciarada di spie, come ricorda Vecchiarino, iniziò in pratica a conflitto mondiale ancora in corso, con la caccia alle Wunderwaffen di Hitler. Le famose armi segrete, a partire dalla V2, non erano state in grado di cambiare il destino della Germania, principalmente per l'incapacità dell'apparato produttivo tedesco, ormai strangolato e demolito dai bombardamenti, di rifornirne le truppe in maniera massiva. Ma erano, dal punto di vista tecnologico, veramente oggetti d'avanguardia. Gli Usa iniziarono l'operazione «Overcast» per dragare tutti gli scienziati nazisti, e nella loro rete finì - per dazione spontanea - Wernher von Braun, l'uomo che ha portato la Nasa sulla luna. I russi risposero con la cosiddetta «Operazione Osoaviakhim»: nelle mani dei sovietici finì, tra gli altri, Fritz Karl Preikschat, lo stesso che nel 1980 brevettò l'auto ibrida con recupero di energia dall'impianto frenante. Giusto per dare l'idea di quanto fosse alta la posta tecnologica.

Ma fu soltanto l'inizio di questo nuovo e feroce big game. La Germania e l'Austria occupate, e soprattutto Vienna e Berlino (divisa in due dal Muro), divennero rapidamente il centro di una feroce attività di spionaggio e controspionaggio sotterraneo. E sotterraneo va inteso in senso letterale.

Si partì a colpi di tunnel scavati dagli occidentali per violare le linee telefoniche russe. Sul finire degli anni '40 i sovietici avevano iniziato, infatti, a utilizzare telefoni e telescriventi per evitare le intercettazioni radio. Gli inglesi ebbero l'intuizione di scavare un cunicolo, a Vienna, per collegarsi ai cavi che partivano dal vicino comando russo. Per coprire i lavori comprarono un negozio che vendeva abiti di tweed, e poi scavarono per venti metri. Un successo: il negozio realizzava enormi guadagni essendo amato dai viennesi e le intercettazioni di comunicazioni continuarono sino al 1955, quando l'Austria smise di essere occupata. A Berlino si trattò di fare uno scavo molto più lungo. Si dovettero spostare 3mila tonnellate di terreno senza che se ne accorgesse nessuno. Un lavoro gigantesco e un capolavoro di ingegneria che servì, per certi versi, a poco. I sovietici avevano svariate talpe all'interno dei servizi britannici e furono subito informati.

Non bloccarono gli statunitensi, né il Kgb diede il minimo sentore di essersi accorto della situazione. Nella paradossale situazione di un tunnel a Berlino e di una «talpa» a Londra era più importante mantenere la talpa a Londra. I «cinque ragni rossi» di Cambridge, gli agenti che Mosca aveva infiltrato ai vertici dei servizi britannici, lavorando all'infiltrazione sin dagli anni '30, valevano ben più di qualunque cosa gli americani intercettassero a Berlino. Le loro soffiate portarono all'eliminazione di decine di agenti occidentali. Fallì così, giusto per fare un esempio, l'«Operazione Valuable» che avrebbe dovuto portare al ribaltamento della dittatura di Enver Hoxha in Albania.

La falla di informazione venne chiusa definitivamente soltanto quando, nel 1963, fuggì a Mosca il famoso Kim Philby (1912-1988) che ha ispirato il romanzo di John Le Carré, intitolato proprio La Talpa.

Ma le pagine più interessanti sono quelle dedicate ad azioni meno note, come quando nel 1959 gli agenti della Cia riuscirono a mettere le mani per un'intera notte su una sonda sovietica che era stata portata in Messico, per mostrarla a scopo propagandistico, sotto strettissima sorveglianza. Gli americani sfruttarono un buco nei controlli sugli spostamenti in camion dei materiali per mettere le mani nella sonda... Il tutto mentre il camionista messicano veniva intrattenuto e corrotto con fiumi di dollari e avvenenti signorine. E nelle vicende narrate non manca nemmeno l'Italia con Maria Antonietta Valente, che venne definita la Mata Hari di Torino.

Nel libro si fa apprezzare anche l'appendice finale con la cronologia e il glossario che aiuta il lettore meno esperto di intelligence ad orientarsi. Quando si chiude il libro si ha l'idea chiara di quanto la lunga pace apparente tra i due blocchi si sia mossa su un equilibrio sottile, che nulla ha da invidiare ai film di James Bond. Un rimpiattino che, in un certo senso, non è mai finito anche dopo la caduta del Muro e il dissolvimento dell'Urss. Ma che ora rischia di tornare all'intensità degli anni Cinquanta e per di più di essere una Guerra fredda non più bipolare ma multipolare.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 18 Dicembre 2022.  

«Sono stato rapito, torturato e tenuto in un carcere segreto dell'intelligence marocchina. A un certo punto mi hanno anche offerto dei soldi per lavorare con loro dall'Italia. Io ho rifiutato e allora mi hanno lasciato 7 mesi in una prigione sotto terra. […]». 

L'inchiesta della Procura federale belga, che sta smascherando la rete di corruzione diffusa all'interno e all'esterno del Parlamento europeo, non stupisce affatto Mohamed Dihani, soprattutto quando si parla della capacità di infiltrazione degli 007 di Rabat.  L'attivista sahrawi e difensore dei diritti umani, il 22 luglio scorso, […] è riuscito ad entrare sul territorio italiano per poter chiedere la protezione internazionale. 

«[…] Nel 2012 gli 007 marocchini giravano per le carceri dove c'erano i presunti terroristi e proponevano di liberarli subito a patto di andare in Siria. […]».

[…] Quanto sono potenti gli 007 di Rabat?

«Il Marocco è ovunque, noi Sarhawi lo chiamiamo il polpo serpente. Il direttore dei servizi segreti marocchini è venuto in Italia più di una volta per parlare di sospetti terroristi, ma so che in ballo c'era di più. Io l'ho denunciato anche dalla prigionia e avevo chiesto all'Italia di controllare tutti i viaggi sospetti fatte dal 2010 al 2016 in Marocco da parlamentari italiani, eurodeputati italiani, associazioni e istituti di ricerca che si rifiutavano di ascoltare le voci sarhawi, trasmettendo solo quelle filo-governative. Ufficialmente venivano per motivi di turismo, ma erano viaggi spesati.

Lo spyware Pegasus è stato usato come braccio armato degli 007 marocchini per ricattare l'Europa e il resto del mondo. Hanno spiato per tre anni giornalisti, politici algerini e francesi: uno dei cellulari del presidente Emmanuel Macron appare nell'elenco dei 50.000 numeri di telefono che sono stati presi di mira da questo software spia. Nel 2019 è stato pubblicato un primo documento dalla Commissione europea, e quest' anno un secondo, che invita tutti i politici a prestare attenzione, denunciando il fatto che ci sono più di 500 agenti segreti marocchini infiltrati nelle istituzioni dell'Ue. Gli eurodeputati vengono controllati a loro insaputa dagli 007».

Anche i migranti vengono usati come arma di ricatto?

«Sì, certo. Se per esempio il ministro degli Esteri spagnolo dice di voler sostenere la causa del popolo sahrawi, il Marocco apre le frontiere in massa e i migranti si riversano sulle coste spagnole. C'è un bosco vicino alla città di Nadur dove tengono recluse decine di migliaia di migranti in condizioni terribili, li utilizzano anche nel trasporto della droga in Europa». 

Come mai per Rabat è fondamentale avere il controllo del Sahara Occidentale?

«Quella terra è pienissima di risorse ed è la via più sicura tra l'Europa […] per questo è disposto a corrompere tutti. […]».

Estratto dell’articolo di Leonardo Coen per “il Fatto quotidiano” il 23 Dicembre 2022.

Mercoledì 14 dicembre. Si gioca Francia-Marocco, semifinale dei controversi Mondiali del Qatar. A Washington, Biden si concede una "pausa soccer" per seguire la partita, assieme all'ospite marocchino, il premier Aziz Akhennouch. Dall'altra parte dell'Atlantico, nello stadio Al-Bayt di Al-Khawr, in tribuna d'onore a tifare i Leoni dell'Atlante c'è Mohammed Yassine Mansouri, uno dei più alti responsabili dei Servizi marocchini, capo dell'agenzia di controspionaggio Dged (Direzione generale degli studi e della Documentazione) con sede a Rabat.

Il giorno dopo, il nome di Mansouri spunta fuori dalle pagine dell'inchiesta guidata dal giudice Michel Chaise. L'imbarazzo serpeggia tra le cancellerie di Francia, Belgio e Spagna, le più coinvolte per interessi geopolitici e commerciali con il Marocco. Parigi, per esempio, deve moltissimo alla collaborazione che l'intelligence marocchina ha offerto per debellare le cellule responsabili degli attentati del 2015 […]

Pure i belgi sono strettamente collegati ai Servizi di Rabat, considerati tra i più affidabili ed efficaci, una reputazione conquistata coi suoi agents de terrein, ossia le risorse umane civili che assicurano una fitta rete laddove le comunità della diaspora marocchina è più fiorente.  […] Insomma, il Moroccogate potrebbe mettere in crisi anni di proficui rapporti. Senza dimenticare le ottime relazioni con l'Fbi e Cia […] Agli occhi delle intelligence occidentali il Marocco rappresenta un'isola di sicurezza e stabilità in un'area di minacce terroristiche e criminalità transfrontaliera.

[…]  Molti eurodeputati ricordano che quando Panzeri presiedeva dal 2004 al 2019 la sottocommissione Droi (quella dei diritti umani), si spendesse molto a favore del Marocco, riguardo i contenziosi commerciali, o quelli per i diritti di pesca, la delicatissima questione del Sahara Occidentale di cui re Mohammed VI vorrebbe fosse riconosciuta da Bruxelles la marocanité. Mansouri, amico del sovrano (hanno studiato assieme al Collegio Reale), seguiva la partita a fianco di Nasser Bourita, ministro degli Esteri e di Abdellatif Hammouchi, capo della polizia e dei Servizi di sicurezza nazionale del Marocco, uno degli uomini più temuti nel mondo delle barbe finte. Non lontano da loro, Macron.

Scandalo Qatar.

Quale è il vero obiettivo dell’inchiesta sul Qatar, il ruolo dei servizi segreti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Dicembre 2022.

I giornali iniziano un po’ ad ansimare. Il Qatar-gate non dà più molto. Dovevano spuntare nomi, partiti, miliardi. Qui pare che un anno e mezzo di indagini abbia portato solo alla scoperta di un paio di valigette di banconote. Delle quali si ignora la provenienza, l’eventuale natura criminale, e soprattutto l’obiettivo. A quasi una settimana dall’esplodere di quello che è stato definito lo scandalo politico del secolo ancora nessuno è in grado di dirci qual è il reato che si contesta agli arrestati. Dal momento che nessuno crede che il Qatar possa essersi messo in moto per ingerirsi negli affari dell’Europa allo scopo unico di ottenere da una deputata greca un discorsetto, ascoltato da pochi intimi, di lievi lodi per il regime di Doha. E allora?

Non ho idea. Non ho informazioni, anche perché né io né i giornalisti del mio giornale hanno contatti coi servizi segreti. Noi siamo un giornale un po’ particolare. Niente veline, niente manine, niente 007. Diciamo solo quel che vediamo. E su cui – se ci è possibile – ragioniamo. Oggi io vedo due cose. Una chiara, certa. L’altra fumosa. Ma sono due cose che sin qui non hanno sollevato nessun interesse da parte della stampa e della politica. Quella chiara è che le autorità giudiziarie belghe, in violazione di qualunque principio giuridico e della dichiarazione universale dei diritti umani (1948) stanno usando una bambina di 22 mesi come ostaggio e strumento di pressione per far confessare e ottenere eventuali delazioni dai genitori che hanno catturato e messo in carcere. Peraltro è chiaro più o meno a tutti che l’arresto dell’onorevole Kaili, mamma della bambina, è stato del tutto illegale perché la deputata europea godeva, evidentemente, della immunità della quale godono tutti i parlamentari, almeno nella parte più avanzata del mondo.

Il sequestro della bambina e il suo uso come strumento di pressione verso genitori è una vera infamia. Possibile che la cosa lasci tutti indifferenti? Possibile che nessuno conosca i bisogni di una bambina di 22 mesi (a quell’età molti bambini ancora prendono il latte dal seno della mamma)? Possibile che non ci sia una sollevazione contro una azione così inumana, mentre monta lo sdegno verso l’on Cozzolino, che a me risulta non sia neppure indagato? Sarà una mia ossessione, ma io penso che per sollevare la questione morale bisogna almeno possedere un abbozzo di morale. Mi dite che morale c’è nell’indignarsi per Cozzolino e non per il sequestro di un bambino?

La seconda questione che vorrei sollevare è quella degli 007. Cosa sappiamo, fin qui, di questa inchiesta e delle sue origini? Sappiamo che tutto nasce da alcune inchieste delle procure americane, le quali avevano deciso di indagare sul Qatar che era riuscito a soffiare agli Stati Uniti l’assegnazione dei mondiali di calcio del 22. Dopodiché la faccenda è stata presa in mano dai servizi segreti belgi. Ma i servizi segreti spesso non sono segretissimi, e così pare che agli 007 belgi si siano affiancati 007 di svariati altri paesi. Forse anche italiani. Forse no. I quali hanno agito senza informare la magistratura, sottotraccia, utilizzando mezzi di indagine che difficilmente possono essere considerati regolari nei paesi europei a stato di diritto. Comprese delle perquisizioni. E naturalmente pedinamenti, intercettazioni, infiltrazioni.

Ora magari voi potete pensare che io sia legato a vecchi cliché politici. Può darsi. Io penso invece che sia solo esperienza: quando un’indagine è guidata dagli 007 c’è poco da fidarsi. Molto spesso è una operazione che ha fini che noi non possiamo conoscere, spesso ha dei mandanti, spesso i mandanti sono imprevedibili, spesso dietro ci sono interessi politici inconfessabili. Non saprei dire quali. A occhio mi sembra una operazione volta a colpire la credibilità e l’autorevolezza dell’Europa in un momento di grande scombussolamento delle relazioni e dei rapporti di forza internazionali. Ma immagino che tutto ciò non interessi a nessuno. Ora la cosa importante è capire quante randellate dare a Cozzolino. La questione morale è tutta qui.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.