Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2023
I PARTITI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
I PARTITI
INDICE PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ipocriti.
La Morte del Grillismo.
Beppe Grillo.
Giuseppe Conte.
Virginia Raggi.
Luigi Di Maio.
Rocco Casalino.
Danilo Toninelli.
Dino Giarrusso.
Donatella Bianchi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Secessionisti.
La Questione Morale.
Ipocriti.
Massimiliano Romeo.
Luca Zaia.
Giancarlo Gentilini.
Irene Pivetti.
Il Capitano.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Marx ed il Rinascimento comunista.
I Secessionisti.
L’Amichettismo.
La Questione Morale.
Ipocriti.
Politicamente Corretti.
Gli Antifascisti.
Le Primarie dem.
Antonio Gramsci.
Enrico Berlinguer.
Romano Prodi.
Pierluigi Bersani.
Stefano Bonaccini.
Francesco Boccia.
Dario Franceschini.
Achille Occhetto.
Elly Schlein.
Alessia Morani.
Bruno Astorre.
Il Potere dei Mignon.
Carlo Calenda.
Matteo Renzi.
Maria Elena Boschi.
Elettra Deiana.
David Sassoli.
Giovanni Pellegrino.
Fausto Bertinotti.
Giovanni Cuperlo.
Laura Boldrini.
Luciana Castellina.
Luigi de Magistris.
Massimo D’Alema.
Nichi Vendola.
Nicola Fratoianni.
Angelo Bonelli.
Piero Fassino.
Stefania Pezzopane.
Marco Rizzo.
Walter Veltroni.
I Radicali.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giovani e radicali: ecco i nuovi black bloc.
Gli estradandi.
Le Brigate Rosse.
Lotta Continua.
Prima Linea.
Ordine Nuovo.
Gli anarchici.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Farsa continua degli anni Settanta.
I PARTITI
SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Secessionisti.
Da video.corriere.it il 27 Novembre 2023
Succede tutto nel giro di un'ora e in pochi metri. Da una parte l'annuale evento Italia Direzione Nord, al Palazzo delle Stelline, a Milano. In fondo ad un altro corridoio Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, presenta il suo nuovo partito: il partito Popolare del Nord.
«Salvini ha fatto una svolta di 180 gradi, della Lega non ha più nessun ideale, ma resta in piedi. E' per questo che ho fondato il Partito Popolare del Nord che vuole affrontare tutti i temi irrisolti del settentrione, dal residuo fiscale, all'eccessivo costo delle tasse, infrastrutture, autonomia, problemi che non sono stati risolti».
A pochi metri di distanza c'è il segretario della Lega che consulta i fogli del suo intervento. Supera la porta della sala del Ppn e tira dritto. «Son in ritardo, non mi piace far aspettare la gente»,. E a chi lo provoca con una battuta sul perché non ha preso il treno di Lollobrigida risponde con un sorriso: «Sciocco».
Trafelato cerca di non farsi notare il ministro Calderoli, vede l'amico Castelli e far per andare. Ma i giornalisti cercano la "carrambata". Niente, Calderoli va. Successivamente dirà di averlo visto ma era in ritardo. Adesso lo aspetta un volo per Roma. «Chiedo una fermata per me? Avrei bisogno del paracadute». Poi è la volta di Renzi ed è ancora show: «Scusate ragazzi, oggi non mi sono fatto neanche la barba perché il treno era 50 minuti in ritardo, e questa è stata la prima sfortuna. La seconda è che a bordo non c'era il ministro Lollobrigida per poter fare una fermata a richiesta». (di Nino Luca)
Estratto dell’articolo di Matteo Macor per repubblica.it il 18 Settembre 2023
“Rimango al di qua delle transenne mica per caso, questa non è più la mia Pontida”, dice Roberto Castelli sul bordo della statale, caschetto in testa, polo verde e piedi sui pedali. Nel giorno dell’abbraccio tra Matteo Salvini e Marine Le Pen, al pratone del raduno di sempre l’ex ministro leghista è arrivato in bicicletta, dalla sua Cisano Bergamasco saranno si e no dieci minuti di strada.
“Come se fosse casa”, taglia corto l’ex Guardasigilli dell’era berlusconiana, una vita nel Carroccio e ormai da anni coscienza critica della Lega salviniana. Eppure l’intervento del governatore veneto Luca Zaia lo ascolta a distanza, scuote la testa quando un militante gli fa notare i (tanti) spazi rimasti vuoti sul prato, non si spinge oltre il marciapiede che costeggia la fila dei gazebo dell’organizzazione, lontanissimo dal palco. “La tessera di questa Lega ce l’ho ancora, - dice - ma ho deciso, è l’ultima che faccio, l’anno prossimo la restituisco”.
Lei era uno dei pochi ad avere ancora due tessere, quella della Lega Nord e quella della Lega Salvini premier. Cosa vuol dire, se non le rinnova neanche lei?
“Vuol dire che questa dirigenza ha definitivamente tradito il Nord, che questa è un’altra Lega, non è il nostro partito e non è più la Pontida che abbiamo vissuto negli anni.
(...)
“Mi sento lontanissimo da tutto. Mettiamola così, quantomeno non sarò complice del tradimento del Nord. La dirigenza del partito ha fatto un’inversione a 180 gradi, ha abbandonato il programma federalista e autonomista, è passato dal verde al blu, dal “Prima il Nord” a "Prima gli Italiani”. A Radio Padania, che ora si chiama Radio Libertà, è stata pure bandita la parola Padania. E io che dovrei fare?”.
Avrebbe mai pensato, un giorno, di ritrovare una figura come quella di Le Pen sul palco di Pontida? Una centralista, nazionalista, proprio dove nasce il mito dell’autonomia?
“Vederla lì sul palco mi fa effetto, certo, ma dovrebbe far pensare più che altro tutti quelli che stanno sotto il palco e sventolano ancora le bandiere della Lega Nord e dell’autonomia. Dalle mie parti si dice “Dopo tre fète èl gha capìt che l'era polenta”, “Dopo tre fette ha capito che era polenta”: ma come si fa a non capire che ormai in quella battaglia lì questa Lega può fare poco, che la Lega ormai è un partito centralista? L’unico coerente, alla fine, è Salvini”.
E detto da lei...
“Salvini ha scelto il proprio progetto personale e puntato nella direzione del centralismo, pure con una deriva vagamente meridionalista, a forza di promuovere il Ponte sullo Stretto di Messina, ed è ovvio che inviti la Le Pen a Pontida. Le Europee si vincono con le alleanze in Europa, giusto che cerchi la sua sponda contro un centralismo ancora più pericoloso, quello europeo. Però sì, vedere le bandiere con scritto autonomia, qui, sapendo in che direzione va il partito..”.
Ma scusi, e l’autonomia di Calderoli? Che fine fa, in tutto questo?
“A vedere come è stata scritta la legge, speriamo non vada troppo avanti perché finirebbe per diventare un’altra fregatura per il Nord. Porterà i miliardi al Sud, e al Nord un quarto delle risorse. Un affarone per i centralisti romani e il Sud. Diciamo che non ce n’era bisogno, ma serviva qualcosa da sbandierare in campagna elettorale”.
(…)
Oggi invece gli sbarchi si moltiplicano. Non si può più dare la colpa alla Lamorgese, però. Al governo c’è Giorgia Meloni e c’è la Lega. Sarà più difficile, urlare all’immigrato, dai banchi della maggioranza?
“Il problema è che all’Interno c’è il ministro Piantedosi, che si è rivelato totalmente incapace di gestire il fenomeno. Meloni è passata da voler affondare le navi a fare la politicamente corretta, si è democristianizzata, draghizzata, ma sbaglia. Però attenzione perché la preoccupazione sull’invasione è reale, non è strumentale. In questo Paese quando si denuncia qualcosa a destra, si racconta come demagogia, mentre quando lo si fa a sinistra è politica. Non è così. E lo dice uno di destra vera, e un leghista critico, ma vero. Anche se non scendo sul pratone di Pontida”.
Estratto da rainews.it il 18 Settembre 2023
A Pontida, in provincia di Bergamo, è il giorno del tradizionale raduno della Lega. Intorno a mezzogiorno è arrivato l'ospite d'onore, l'ex presidente del partito francese Rassemblement National Marine Le Pen, candidata alle ultime tre elezioni presidenziali d'oltralpe.
Accolta nel retropalco dal segretario Matteo Salvini, che le ha donato il libro "Fatti per unire" di Roberto Nicolucci che illustra alcuni dei ponti più famosi, in vista della realizzazione di quello sullo stretto di Messina. Circa un'ora più tardi è salita sul palco insieme allo stesso Salvini: "È un'alleata ma soprattutto un' amica nei momenti di vittoria e difficoltà, e non abbiamo mai cambiato opinione", ha detto Salvini.
Sul palco da 50 metri si legge lo slogan "A difesa delle libertà. Chi lotta vince in Italia e in Europa", affiancato dai simboli del partito e le foto di Salvini. Al lato del prato resta la storica scritta "Padroni a casa nostra". Centomila i presenti, secondo il partito
(Adnkronos il 17 Settembre 2023) - A pochi minuti dall'intervento di Matteo Salvini a Pontida, è confermata l'assenza di Umberto Bossi all'evento della Lega. Il leader della Lega resta a Gemonio in famiglia. Fonti vicine al Senatur, confermando il forfait del fondatore della Lega, non mancano di sottolineare come non sia arrivato alcun invito a partecipare al vecchio capo del Carroccio.
(Adnkronos il 17 Settembre 2023) - 'Nord chiama vera autonomia', questo lo striscione da poco apparso a Pontida, esposto a favore di telecamere nella collinetta non distante dal pratone di Pontida. Un 'messaggio' che arriva sul tema più sentito nelle regioni del settentrione, con l'invito a portare avanti con decisione la riforma bandiera per i militanti dei territori del nord.
Lo striscione non porta alcuna firma, ma il tema dell'autonomia è stato negli ultimi mesi invocato con forza dal Comitato Nord voluto da Umberto Bossi, dai movimenti autonomisti del Veneto e della Lombardia.
Estratto dell’articolo di F.Mos. per “La Stampa” il 18 Settembre 2023
Chi ci ha parlato giura che Umberto Bossi, ieri, fosse più amareggiato del solito. Per non essere stato invitato a Pontida (anche se difficilmente a causa dell'età e degli acciacchi ci sarebbe andato, è dal 2017 che manca), ma ancora di più perché sul palco dell'evento che lui stesso lanciò nel 1990 ispirandosi al format della Giornata Mondiale della Gioventù di papa Wojtyla, c'era Marine Le Pen.
Ovvero la leader di quel Rassemblement National, erede del Front, di cui il fondatore del Carroccio non ha mai condiviso le idee fin dai tempi in cui sui manifesti bollava come «fascista» Jean-Marie, il padre di Marine. L'antifascismo di Bossi è noto. Da giovane è stato iscritto al Pci (cinquant'anni fa era in piazza a manifestare contro il golpe di Pinochet), ma più di ogni altra cosa ha sempre citato la nonna Celeste, socialista e sindacalista, torturata dai fascisti perché in casa nascondeva una foto di Matteotti dietro un'immagine sacra. […]
A deludere il Senatur per il binomio Pontida-Le Pen c'è poi un'altra questione chiave. La capa della destra francese, infatti, è vista come l'incarnazione del «centralismo statalista». Un'arcinemica dell'autonomia. Con buona pace dei discorsi sull'identità con cui la «Lega per Salvini premier» e il Rassemblement cercano oggi una narrazione condivisa.
È anche per questo che ieri, vedendo apparire su una collina non distante dal sacro pratone lo striscione «Nord chiama vera autonomia», in molti hanno pensato al Comitato Nord ideato da Bossi l'estate scorsa. […]
Qualche imbarazzo, in ogni caso, la presenza della Le Pen deve averlo creato anche ad alcuni big attuali del partito.
«Vengo per frequentare il pratone perché da sempre sono venuto a Pontida per i militanti», prova a dribblare le polemiche il governatore del Veneto Luca Zaia, spostando lo sguardo da ciò che accade sul palco a ciò che accade intorno. «Questa è la festa del ringraziamento dei militanti». Salvini, invece, si limita a salutare Bossi facendogli gli auguri di compleanno con due giorni di anticipo. […]
Estratto dell’articolo di Nino Luca per il “Corriere della Sera” il 17 Settembre 2023
Si materializza sul pratone di Pontida abbracciato a un giovane imprenditore originario della Repubblica Domenicana, Stefano Felix. L’ex parlamentare della Lega, Mario Borghezio è un fiume in piena. «Questo ragazzo è di colore e allora? Mi piace: si comporta bene e lavora. È molto meglio di qualcuno dei nostri che è rimasto attaccato alle poltrone col Vinavil».
Lei qui rigorosamente in camicia verde.
«A Pontida senza qualcosa di verde è un’oscenità. È come entrare in chiesa e non farsi il segno della croce».
Cosa pensa di Marine Le Pen sul pratone?
«Lei a Pontida ci sta come il contrario del cacio sui maccheroni. È una grave contraddizione e anche un errore politico averla invitata. È nemica delle autonomie, nemica dei corsi, dei baschi, dei catalani... Amica solo di chi vorrebbe uccidere le autonomie in Europa. Il padre era orgoglioso delle diversità regionali. La figlia invece è cresciuta con lo champagne dei night di Parigi. Con la nostra cultura identitaria non c’entra un c... Con Le Pen e senza Umberto Bossi Salvini ha profanato il sacro prato di Pontida».
Tutti dicono che con Salvini al Viminale oggi non ci sarebbero sbarchi.
«Allora c’è da chiedersi perché non abbia fatto lui il ministro dell’Interno anziché occuparsi del ponte sullo Stretto di cui a noi padani non frega nulla».
Volevate la secessione, adesso il ponte.
«Per la gente del Nord la secessione ci vuole sempre. Per i nuovi leghisti basta difendere la nostra identità. Giorgia Meloni ha avuto questo coraggio, sottolineando l’identità etnica del popolo italiano». […]
Estratto dell'articolo di Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 20 giugno 2023.
Che Umberto Bossi prima di iscriversi alla facoltà di Medicina (che frequentò a Pavia pur non terminando il percorso di studi) avesse tentato la carriera del cantautore, con lo pseudonimo di “Donato”, è cosa nota: nel 1961, quando aveva vent’anni, partecipò al festival di Castrocaro e pubblicò un 45 giri con i brani “Ebbro” (un boogie woogie) e “Sconforto” (un pezzo rock lento) scritti insieme al maestro Mazzucchelli. Disco praticamente introvabile che alcuni anni fa era andato anche all’asta a una cifra spropositata: 250mila euro o giù di lì.
Da qualche giorno, però, è riemersa un’altra passione artistica giovanile del Senatur, quella per le parole. Su un blog (in un’apposita sezione intitolata «l’angolo della poesia») c’è una selezione di componimenti scritti da Bossi a cavallo fra gli anni ’70 e gli anni ’80, prima cioè di fondare la Lega Nord […]
Si tratta di testi in dialetto lumbard dedicati a temi come l’amore e le donne, ma anche l’impegno sociale e sindacale (a quei tempi Bossi militava nella sinistra varesina e per un paio d’anni fu anche iscritto alla sezione di Samarate del Pci) e l’ambiente, disponibili con accanto la traduzione in italiano.
[…] In Tera (Terra) parla ad esempio della distruzione della natura, che era l'essenza del mondo agricolo e del degrado della società moderna: «Verde una volta e piena di parole, Terra, che hai ascoltato squittire la talpa e bestemmiare le rose. Ho visto le sirene degli stabilimenti diventare siringhe...».
In Ul Lach Mort (Il Lago morto) Bossi si dimostra invece un ambientalista ante litteram: «Hanno ucciso il lago, la nostra acqua...». Nello Sciopero in dul Baset (Sciopero alla Bassetti), invece, il fondatore del Carroccio ricorda la nonna Celeste, socialista e sindacalista, che, scoperta dai fascisti, è stata torturata fino a fratturarle entrambe le ginocchia: «Han preso anche la Celeste, ed è già arrivato Angiolino...».
Non mancano nemmeno due poesie intitolate Canzone per la Malpensa. Nella prima si possono già leggere quelli che saranno i cavalli di battaglia del Bossi politico: «Sacri sono i boschi. E i prati. E la nostra acqua. E il vento. E la neve. Sacre sono le radici. E la nostra lingua. Neppure tutte le chiese del mondo, neppure il papa, valgono come un rametto di nocciolo, o un cinguettio d’uccello,. O un ruscello d’acqua fredda come una biscia». […]
Faida sgonfia. L’assalto dei dissidenti della Lega alla leadership di Salvini è stato una disfatta. Cristina Giudici su L’Inkiesta il 14 Gennaio 2023.
La lista elettorale autonoma per le regionali in Lombardia avrebbe dovuto mettere in difficoltà il Capitano. Invece i fuoriusciti del Carroccio sono soltanto i sei che sono entrati nella lista di Letizia Moratti
Doveva essere lo scacco matto a Matteo Salvini. Almeno in Lombardia. Con una lista di candidati traditi da un decennio di gestione padronale della Lega Salvini premier e pronti a sostenere Letizia Moratti. Doveva essere l’occasione per provare a riprendersi le redini del partito originario, ritrovare l’identità perduta, attrarre di nuovo i voti e militanti dispersi.
La lista era già pronta da depositare prima della scadenza, oggi, di tutte le liste elettorali per le elezioni regionali del 12-13 febbraio. E invece la faida interna – con la costituzione prima di una corrente interna del Comitato Nord nato con il beneplacito di Umberto Bossi, e non per sua diretta volontà come è stato raccontato, diventato poi un gruppo consiliare nel dicembre scorso e infine un gruppo spaccato fra chi voleva allearsi con la Moratti e chi invece con Attilio Fontana – si è trasformata in una caotica disfatta.
Con Bossi che un po’ ci fa e un po’ chissà, e che ha continuato a invocare l’unità della Lega, perduta come la sua identità, arrivando al punto di considerare la discesa in campo di Letizia Moratti un complotto di Salvini contro l’amico Attilio Fontana.
Doveva essere lo scacco matto, o quasi, al leader della Lega, grazie anche al lavoro di tessitura del Mal, il Movimento autonomista lombardo creato da Gianni Fava, ex deputato, maroniano e liberale, che ha sostenuto fin da subito la proposta civica di Letizia Moratti, attenta alla galassia autonomista, con cinque esponenti della vecchia guardia bossiana, fuoriusciti dalla Lega, nella lista Moratti. Con un doppio obiettivo: trovare uno spazio elettorale per poi rilanciare il movimento padano dopo le elezioni regionali.
E invece è andata così: ieri mattina è arrivato un comunicato del Comitato Nord per annunciare che i loro consiglieri regionali non si candideranno con la Moratti «data l’impossibilità per il comitato di presentarsi a sostegno del governatore uscente Attilio Fontana in quanto non coerente con la nostra storia politica».
Anche se Federico Lena aveva già annunciato di non volersi ricandidare, Max Bastoni era stato stoppato dal veto della Moratti per le sue posizioni più estreme e il legame in passato con il destrorso Mario Borghezio, mentre il capogruppo del Comitato Nord, Roberto Mura, avrebbe dovuto essere inserito nella lista della Moratti.
Cosa è successo? Da una parte ci sono state le riserve di Carlo Calenda, il quale temeva che una lista Lega Nord avrebbe respinto quegli elettori riformisti a sinistra insoddisfatti dalla candidatura identitaria di Pierfrancesco Majorino, alleato con il Movimento 5 Stelle.
Dall’altra, la faida all’interno del Comitato Nord ha creato una frattura scomposta. Angelo Ciocca – europarlamentare in cerca di un salvagente per le prossime elezioni europee, coordinatore con Paolo Grimoldi del Comitato Nord – è favorevole a un’alleanza con Letizia Moratti, e ha chiesto che fossero inseriti nella lista di Lombardia Migliore sia Roberto Mura sia Antonello Formenti e al contempo si è messo a trattare un apparentamento con Noi moderati di Maurizio Lupi.
E last but not the least, Paolo Grimoldi, ex segretario della Lega Nord poi emarginato, che rappresenta l’altra corrente nella corrente del Comitato Nord rimasta nell’alveo di Salvini, e deciso a sostenere Fontana anche nella speranza, pare, di riavere il ruolo perduto, ha sollecitato Bossi a chiamare Letizia Moratti per dirle «mi fai un torto». E così l’estenuante contesa per il Comitato Nord fra Fontana, Bossi e la Moratti che dura da settimane si è trasformata in un castello sulla sabbia travolto dalle onde del mare.
E così l’operazione di delicata cucitura avviata dal Mal di Gianni Fava e da Gianluca Pini per creare un progetto di più ampio respiro per rilanciare dopo le regionali la Lega Nord si è per ora fermata alla candidatura di pochi dissidenti all’interno della lista Moratti. «Ciocca ha voluto forzare la mano e la trattativa è saltata, alle spalle di Umberto Bossi», ci ha detto un dirigente leghista, avversario di Salvini. Tutto questo è accaduto nell’arco di ventiquattro ore.
Ieri chi accarezzava il sogno di dare scacco matto a Salvini e di godersi i fuochi di artificio con la presentazione di una lista che richiamasse la Lega Nord, era convinto di finire nella lista della Moratti per trovare uno spazio elettorale e poi ricreare davvero il sindacato del Nord. Perciò il comunicato stampa del Comitato Nord che giura fedeltà a Bossi e a Fontana sembra come la storia della volpe e dell’uva e in contraddizione con tutte le dichiarazioni fatte nei giorni scorsi dai protagonisti di questa caotica storia.
Morale: chi di faida ferisce, di faida perisce. E ora per riprovare a dare scacco matto a Salvini, non resta che aspettare l’esito delle elezioni e della probabile nuova emorragia di consensi della Lega alle elezioni regionali. What a mess.
Fabio Rubini per Libero Quotidiano l’8 gennaio 2023.
«Se volete andare con la Moratti fatelo, ma senza di me.
Io ho dato la parola ad Attilio Fontana e io la mia parola la mantengo». È questo il discorso che un irremovibile Umberto Bossi avrebbe rivolto alla parte del Comitato Nord più propensa al salto col Terzo Polo in occasione delle Regionali di febbraio in Lombardia. Una presa di posizione dura - che vi avevamo anticipato nei giorni scorsi - che ha costretto una parte del Comitato a fare i conti con la realtà e a dichiarare che «Comitato Nord appoggerà Fontana alle regionali».
Sulla decisione ha avuto un ruolo anche il mezzo sgambetto fatto dalla Moratti al Comitato. Mangiata la foglia sul possibile mancato sostegno di Bossi, la candidata del Terzo Polo ha ritirato la disponibilità a candidare alcuni componenti del correntino nella sua lista civica, imponendo la creazione di un soggetto civico autonomo. Una richiesta che ha spiazzato in maniera definitiva gli ex leghisti. E anche chi, da dentro il Carroccio, ne tirava le fila.
Il problema ora si sposta all'interno del correntino stesso dove, secondo quanto abbiamo potuto appurare, sarebbe in atto un vero e proprio scontro di visioni politiche. Così come testimonia il balletto di comunicati stampa e dichiarazioni al quale abbiamo assistito ieri.
Proviamo a riassumerlo. Sono le 15.13 quando le agenzie battono le dichiarazioni di Paolo Grimoldi, che insieme ad Angelo Ciocca è a capo del Comitato Nord. Dopo aver smentito categoricamente l'esistenza di trattative con la Moratti, l'ex deputato è categorico: «La questione politica è chiarita: sosterremo Fontana. Punto». E ancora: «Il modo in cui si concretizzerà questo sostegno, che sia con nostri candidati o con comunicati stampa, lo deciderà Bossi». Passano poco più di due ore e mezza e alle 17.44 spunta un comunicato ufficiale del Comitato Nord di tutt' altro tenore rispetto alle parole di Grimoldi: «Il Comitato prende atto che il presidente Fontana, dopo il divieto del segretario federale Matteo Salvini, non consentirà di entrare in supporto alla coalizione di centrodestra per le prossime elezioni regionali» e in una frase vagamente attribuita a Bossi si dice: «è un errore, un'occasione persa per far valere le istanze dell'Autonomia e le richieste della militanza nordista».
A questo punto però un dubbio sorge spontaneo - e non solo a noi -: ma se il Comitato è una corrente interna alla Lega, per quale motivo avrebbe bisogno del permesso di Salvini per appoggiare la candidatura voluta dalla Lega, partito del quale Comitato Nord è parte integrante?
Il dubbio deve aver colto anche qualcuno all'interno della fronda, visto che alle 18.20 arriva un altro comunicato nel quale si precisa che «il cammino del Comitato Nord proseguirà, dentro la Lega, lungo la strada intrapresa, forte del grande consenso raccolto in pochi mesi».
Telenovela finita? Nemmeno per sogno, perché è evidente che quelle velate minacce «sull'errore» commesso da Fontana non sono piaciute a una parte del Comitato. E allora ecco che alle 18.23 arriva un'ulteriore precisazione che riposta le lancette dell'orologio alle 15.13, ovvero al «Comitato Nord pronto ad appoggiare Fontana» in forme che, si ribadisce nell'agenzia riferendosi a fonti vicine al Senatùr «sarà lo stesso Bossi a definire».
Infine alle 19.18 altro giro di giostra col Comitato a far trapelare che martedì ci sarebbe un «incontro decisivo» tra Comitato Nord e la Lega con Fontana e forse Giancarlo Giorgetti. I diretti interessati, però, non ne sanno nulla. Da Bellerio confermano che le porte del Carroccio sono e resteranno chiuse per chi è stato espulso e che Salvini non ha nessuna intenzione di fare trattative.
Anche perché, al netto della comunicazione farraginosa che certo non ha aiutato, è chiaro che almeno una parte dei ribelli ha davvero accarezzato l'idea di trasferirsi nel Terzo Polo, come testimoniano le dichiarazioni della stessa donna Letizia, di Carlo Calenda e l'inspiegabile silenzio dei capi corrente nei giorni in cui impazzavano le notizie su questa trattativa. E ora? Come detto gli espulsi non verranno reintegrati, ma il vero problema, per il correntino, è che questa vicenda ha avuto come risultato quello di aver allontanato molti simpatizzanti, che a questo punto si chiedono: ma questa operazione serviva davvero per aiutare la Lega o piuttosto era stata orchestrata per garantire rendite?
(Adnkronos il 30 dicembre 2022) - I bossiani hanno registrato il marchio del 'Comitato Nord'. E' quanto si legge nella richiesta depositata presso l'Ufficio marchi e brevetti europeo, presentata dalla corrente nordista della Lega, fondata lo scorso primo ottobre da Umberto Bossi e divenuta di recente Associazione. L'operazione di 'blindatura' del simbolo dei ribelli nordisti è avvenuta il 23 dicembre, proprio mentre il vecchio leader inviava il suo tradizionale biglietto di auguri con il motto 'dalle macerie si può nascere se c'è amore', con tanto di 'stella del Nord' raffigurata.
Un logo, come si legge nella domanda visionata dall'Adnkronos, "consistente in due campi sovrapposti, rispettivamente verde e blu, su cui sono apposte le due parole 'Comitato' e 'Nord' rispettivamente". Due campi che vanno a formare una freCia. Simbolo che quello già presente da ottobre nella pagina internet del movimento coordinato da Angelo Ciocca, eurodeputato del partito e Paolo Grimoldi, ex segretario della Lega Lombarda.
Un simbolo che oggi i vecchi leghisti chiedono di poter utilizzare per "organizzazione di manifestazioni politiche, consulenza politica, servizi nell'ambito della politica, servizi d'informazione politica, servizi di comunicazione politica, servizi personali e sociali resi a terzi da un partito politico, organizzazione di riunioni politiche", ovvero tutte le attività di un partito politico, non escludendo poi l'inserimento del simbolo 'nordista' in gadget di vario tipo, come "portachiavi, fermasoldi, fermacravatta, gagliardetti e spille metallici, bandiere, striscioni in tessuto, gagliardetti in stoffa, foulard e fazzolettini in tela, ombrelli, borse, sacche e zaini".
E spendibile pure in "giornali, volantini e poster". Ma anche per "ricerche di mercato, reclutamento di lavoratori e volontari in ambito politico e sondaggi di opinione in ambito politico".
Stefano Bruno Galli, Assessore Autonomia e Cultura regione Lombardia, per “Libero quotidiano” il 23 Dicembre 2022.
Se ne è andato trent' anni fa e viveva a Milano, nome di origine celtica: «terra di mezzo». La città è sempre stata «virilissimo centro di vita».
Perciò Milano è «maschio». È città di benessere e ricchezza, lavoro e produttività. Offre opportunità. È nata «dal vigore e dall'intelligenza» del popolo lombardo.
Padano della Bassa, Brera ha descritto il pluralismo identitario e culturale della Lombardia.
Ogni territorio ha la sua storia. Bisogna studiarla e raccontarla. Brera la raccontava - ricorrendo a uno stile assai godibile - un po' a modo suo, con qualche svarione storico. Ma si faceva leggere, tra neologismi, latinismi e lombardismi. Per Brera la Lombardia esprimeva un vero e proprio modello di civiltà, caratterizzato da un pluralismo territoriale tuttavia riconducibile all'unità. Schierandosi dalla parte della cultura popolare, cercando di valorizzarne la lingua, ci ha raccontato una terra viva. Se la Lombardia ha un padre nobile, questo è Carlo Cattaneo.
Dopo il 1848, «el scior Carlo» auspicò che «si costituisse una Confederazione e non un regno. Parole vane!». E cade in errore a proposito dell'impegno parlamentare cattaneano, che non vi fu. Eletto più volte, non entrò mai nell'assemblea legislativa poiché si rifiutava di giurare fedeltà alla monarchia. Era una questione di coerenza.
Il suo modello di federalismo - non una confederazione, come scrive Brera - esigeva un ordine politico repubblicano e democratico, non già una monarchia costituzionale. Il giudizio conclusivo di Brera su Cattaneo è netto: «Era colto e intelligente, onesto e tutto di un pezzo». Proprio per questo «non poteva trovar posto in un'Italia così sciagurata e sconnessa».
LE SPECIFICITÀ Se osserviamo la storia lombarda, ci rendiamo conto che la Lombardia non è mai stata «regione» dal punto di vista istituzionale, politico e amministrativo, sino all'età rivoluzionaria e napoleonica. È dunque molto giovane, ha poco più di due secoli. E tuttavia ha una sua specifica identità, espressione del più autentico «spirito» lombardo. Di cui bisogna andare fieramente orgogliosi.
E che occorre rivendicare con forza, come faceva Gianni Brera.
La sua testimonianza si è tradotta in una vita spesa - al di là delle cronache sportive - a esplorare e a raccontare la Lombardia, con le sue specificità storiche, culturali e linguistiche, enogastronomiche e produttive. Il suo ricorso a un linguaggio che pesca a piene mani dall'idioma locale e dalle espressioni vernacolari tramandate ai posteri poggia su una consapevolezza: la lingua locale è la testimonianza diretta delle tradizioni civiche territoriali. Si tratta delle «fibre durevoli» della vita civile, come diceva Cattaneo.
Nei confronti dei lombardi Brera non era affatto tenero. Ci definiva - senza pietà - «una barca di cojoni».
La traduzione è superflua. Nei fatti i lombardi sono sempre stati esclusi o quasi dalla politica nazionale e dalle posizioni di potere. «La gran parte del Paese vive più o meno allegramente sudi noi, che esprimiamo circa il 30 per cento dell'economia nazionale». Ma non possiamo lamentarci, perché «metteremmo in ancor più vivo risalto la nostra qualità di imbecilli». Un manipolo di coglioni, appunto.
«SCIOR CARLO» I principi del «scior Carlo» sono ancora validi. $ però impensabile che «noi si riesca ad applicarli in modo soddisfacente». Quattro anni prima delle Cinque giornate, di cui sarebbe stato ineguagliato protagonista, Carlo Cattaneo diede alle stampe le sue Notizie naturali e civili su la Lombardia. Con travolgente passione, il razionale teorico del primato della cultura universale della scienza e della tecnica, fondatore - nel 1839 - del "Politecnico", dipinse un vivace affresco di quella «regione d'Italia, naturalmente e civilmente dalle altre distinta, a cui per singolari circostanze rimase circoscritto il nome già sì vasto e variabile di Lombardia». Una regione di cui cerca di cogliere «una certa unità di concetto».
Non è corretto attribuire le ragioni del primato lombardo alla natura.
«Se il nostro paese è ubertoso e bello, e nella regione dei laghi forse il più bello di tutti, possiamo dire eziandìo che nessun popolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura». A suo giudizio la terra lombarda «per nove decimi è opera delle nostre mani». È frutto delle fatiche della gente lombarda e deriva dall'impegno e dalla vocazione al saper fare. Era stato chiaro: «Noi, senza dirci migliori degli altri popoli, possiamo reggere al paragone di qual altro sìasi più illustre per intelligenza o più ammirato per virtù; e aspettiamo che un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche».
L'evoluzione della prosperità materiale e morale - cioè l'incivilimento di una comunità territoriale - non piove mai dal cielo. Non è un dono della natura, per quanto possa essere generosa.
È piuttosto il risultato della dedizione al lavoro, dello spirito di sacrificio e del primato dell'intelligenza produttiva che alberga nella mentalità e nello spirito della gente lombarda. La vocazione economica e produttiva è un elemento di identità politica, poiché definisce la cultura di una comunità; che sostiene il suo essere «popolo», cioè un aggregato politico. «Mutter Lombardei» è stata tuttavia «violentemente messa a pecorone da un fauno arrazzato fino al delirio».
È stata cioè oggetto di politiche vessatorie dal punto di vista fiscale, una costante nella storia lombarda, dal Barbarossa agli spagnoli, dagli Asburgo ai Savoia, infine alla Repubblica. Schiavitù fiscale. E si traduce in un grido di dolore condiviso, fondato sul disagio, sul malessere e sul rancore, che alimenta l'aspirazione all'autonomia politica e amministrativa dallo Stato centrale. Aspirazione che oggi non può più essere ignorata. Gianni Brera era davvero un gran lombardo e l'aveva capito bene, perché conosceva la complessità e i segreti di questa affascinante regione chiamata Lombardia. Va ben insci?
La storia d’Italia e della Lega raccontata dalle cartoline di Natale di Bossi. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 22 Dicembre 2022
Dall’indipendenza della Padania alla pandemia alla rinascita sotto la stella del Nord: gli auguri del Senatùr
La storia della Lega e dell’attualità politica italiana raccontata attraverso ventisette cartoline d’auguri di Natale: sono quelle che Umberto Bossi ha ideato e realizzato dal 1996 ad oggi grazie all’aiuto di un artista anonimo. Progetti tutti del Senatùr. Si va dagli anni in cui il Carroccio punta all’indipendenza della Padania e non caso Bossi raffigura una Natività con al di sopra una stella cometa con iscritto il Sole delle Alpi.
La storia del Carroccio, i temi dell’identità — come ricorda l’Agi — dalle vittorie nel calcio alla’apertura del Parlamento leghista sono ricorrenti. Un filo rosso che unisce presente e passato, accompagnato spesso da poesia in dialetto lombardo scritte da Bossi quando era giovane. Nel 200, l’anno in cui viene colpito dall’ictus, firma un biglietto con un Alberto da Giussano che si inchina di fronte a Gesù. Nel 2009 è l’anno del Barbarossa, fil che trova il plauso leghista.
Nel 2020, l’anno di Covid, Bossi ritrae una donna anziana mentre guarda da lontano i luoghi dove ha vissuto tutta la vita. Accanto scorrono le parole di una poesia del Senatùr dedicata a una signora che era scappata da una casa di riposo, dal titolo «Na mameta» (una nonnetta, in lombardo). «Buon Natale a tutte le nonne del mondo», scrive Bossi. Nel 2021, la Natività è collocata sotto l’Abbazia di Pontida. Infine, quest’anno, il 2022: «Dalle macerie si può nascere se c’è amore», scrive il fondatore della Lega, un’allusione a una ripresa del Carroccio sotto la «stella del Nord».
Il Carroccio davanti ai buoi. La resa dei conti per il Comitato del Nord e l’ultimo giro della Lega salviniana. Cristina Giudici su L’Inkiesta il 24 Dicembre 2022
I fuoriusciti ed espulsi leghisti che vorrebbero appoggiare Letizia Moratti aspettano un cenno da Umberto Bossi, ma il Senatur tentenna. Comunque andrà, dopo le elezioni si aprirà la corsa per il nuovo segretario
Per giorni, la battuta più in voga al Pirellone è stata quella di Roberto Mura, capogruppo del neonato gruppo consiliare in Regione Lombardia del Comitato Nord: «Per quanto si possa amare una fidanzata (Attilio Fontana), i matrimoni si fanno in due», alludendo all’ipotesi di un’alleanza con Letizia Moratti. Ma quella che spiega meglio a che punto è la notte della Lega di Matteo Salvini – demansionato da leader del partito a “bambino” dal Senatur che pare sia tornato a ruggire a dieci anni dalla sua detronizzazione da parte dei barbari sognanti – è una vignetta apparsa sul profilo dell’ex senatore Mura in cui un giovane chiede al più anziano: «Come si è arrivati a questo punto?», «Un passo alla volta, nella direzione sbagliata».
E così che si è arrivati anche a trasformare una battaglia che sembrava di retroguardia – ricostruire il sindacato del territorio con la vecchia guardia bossiana e il beneplacito del Senatur – in una questione politica dirimente dentro e fuori dalla Lega.
Dopo che l’Umberto si è presentato a Palazzo Lombardia dal governatore uscente, Attilio Fontana, per chiedergli di fare un apparentamento con la lista del Comitato Nord, Salvini gli ha risposto a mezzo stampa di rivolgersi al segretario della Lega in Lombardia, Fabrizio Cecchetti. E al pensiero di Bossi che tratta con il commissario di Salvini, in tanti si sono fatti una grossa e grassa risata. O almeno quei tanti che aspettano il cadavere del leader della Lega sulla riva del fiume.
Fuoriusciti, espulsi o commissariati dai salviniani che in questi dieci anni, da quando il Capitano ha ereditato il partito dal compianto Bobo Maroni, sono cresciuti con lui, ma ora per via degli smottamenti interni e per quel motto sempre attuale in politica, guai ai vinti, potrebbero rialzare la testa. A cominciare dal Mol, Riccardo Molinari, capogruppo a Montecitorio che si aspettava di diventare presidente della Camera e che invece ora vorrebbe sfidare il suo vecchio amico al congresso federale, in nome di quell’identità perduta di cui parlano tutti, trombati o in sella che siano. Al punto che ora tutti i commissariati o con un provvedimento disciplinare in corso, si sfregano il petto per l’onore ricevuto, in attesa del nuovo corso che inizierà dopo l’esito delle elezioni lombarde in cui la Lega perderà, prevedibilmente, altri consensi.
E se non fa rumore l’uscita dalla Lega di due consiglieri regionali in Basilicata per creare un gruppo autonomo perché il core business del partito leghista è sempre stato al Nord, non si può dire altrettanto di quanto sta accadendo in Piemonte dove si parla di una Lega 5.0, in Liguria dove è nato il Comitato Nord a Savona e in Veneto, come sempre in ebollizione.Ma è alla Lombardia che ora bisogna guardare, in vista delle elezioni regionali, dove la partita del Comitato Nord è ai calci di rigore.
Moratti ripete ogni giorno di voler accogliere i consiglieri fuoriusciti ed espulsi da Salvini, ma il Capo da cui tutti aspettano un nuovo e definitivo ruggito (da anni, non da oggi) «non vorrebbe fare uno sgarbo all’amico e conterraneo Attilio Fontana», afferma un dirigente leghista di stretta osservanza antisalviniana. E allora, siccome il leader della Lega – che i suoi avversari chiamano in modo dispregiativo il ministro del Ponte sullo Stretto – ha ribadito ieri che «chi esce dalla Lega, fa una scelta, tanti saluti e Buon Natale», l’unica alternativa per la lista del Comitato Nord resta l’opzione Moratti. Anche perché respinti da Salvini, non apparirebbero più traditori che hanno rinnegato la casacca padana con cui sono stati eletti. «Oppure possiamo andare avanti da soli e morire, combattendo», ironizza Max Bastoni, uno dei quattro consiglieri regionali espulsi.
Angelo Ciocca, coordinatore del Comitato Nord insieme a Paolo Grimoldi, ci ha detto che l’unica opzione resta Fontana «perché bisogna guardare a un progetto politico sul medio e lungo termine, pensando a come riconquistare il consenso perduto» e ipotizza addirittura che il Comitato Nord possa stare fermo a questo giro se il presidente Fontana non accoglierà la proposta di apparentamento arrivata da Bossi. Anche se pare più una dichiarazione dovuta alle tante partite, anche personali, che si stanno giocando fuori e intorno alla Lega in Lombardia.
Gianluca Pini, altro fuoriuscito e acerrimo avversario di Salvini, è convinto che questo sia l’ultimo giro per la Lega di Salvini, «un partito personale e verticistico, una sorta di via di mezzo tra la Turchia e la Corea del Nord in termini di rispetto della democrazia interna». E Gianni Fava, l’ex assessore di Bobo Maroni, osserva: «La sfida Bossi/ Salvini mi entusiasma molto poco. Sono personalmente più interessato al dato politico. Da una parte Salvini tende a tutelare la specie, salvaguardandola attraverso la blindatura delle liste a sostegno di Fontana. Dall’altra Umberto Bossi fa politica, mentre gli aderenti al Comitato Nord lavorano alacremente alla costruzione di una lista. Finirà che a breve Salvini respingerà tutte le richieste di partecipazione alla propria coalizione, contribuendo in modo inequivocabile a rendere più difficile la partita del centrodestra lombardo. Per quanto ne so io, però, buona parte di quell’universo autonomista frastagliato, orfano della Lega Nord, continua a guardare con interesse alla seria proposta politica di Letizia Moratti. E chissà se presto anche gli aderenti al comitato Nord respinti con sdegno da Salvini comincino a fare lo stesso».
Intanto si moltiplicano i viaggi a Gemonio per conferire con Umberto Bossi, ma la lista con tanti ex leghisti e militanti del Comitato Nord è pronta. Insomma, siamo ai calci di rigore per la partita per o contro la Moratti, per o contro Fontana (che avrebbe accolto volentieri la lista del Comitato Nord per rafforzare la sua corsa alle regionali). Una partita giocata in nome della Lega perduta. What a mess.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 21 dicembre 2022.
Nella fiaba di Andersen è un bambino a squarciare la coltre d'ipocrisia gridando per la strada: "Il Re è nudo!". Nel serial eroicomico della Lega (che nel simbolo continua inopinatamente a presentarsi "per Salvini premier") tocca invece al vecchio e malandato sovrano, deposto ormai tanti anni fa, rompere il furbo silenzio dei maggiorenti per dire quello che quasi tutti pensano e quindi che l'attuale re "è un bambino" - accusa tanto più oltraggiosa considerato che di solito sono gli anziani a rischio rimbambinimento.
Pur con tale asimmetrica premessa va da sé che l'affondo di Bossi verso Salvini ha ragioni politiche che investono la linea e l'orizzonte soprattutto geografico del Carroccio; questioni che certo si sono riacutizzate dinanzi all'imminente voto nella terra madre, la Lombardia. Ma come sempre accade, nello scontro confluiscono umori, sentimenti e rancori molto personali, per cui da sempre il Capitano e il Senatùr a malapena si sopportano, con l'aggravante di dover nascondere in pubblico la reciproca avversione.
Per dire, quando lo scorso anno Bossi compì 80 anni, Salvini si guardò bene dal partecipare alle cerimonie e gli fece frettolosi auguri social, dalla macchina. Alle elezioni gli trovò sì un posticino in lista, ma non proprio sicurissimo, tanto che il fondatore fu eletto per miracolo, con i resti.
D'altra parte, per quanto fragile in salute, dal Papeete in poi Bossi non ha mai perso l'occasione per far capire a chiunque di non avere nessuna stima di Salvini. Detto al suo modo, dalla gestione del Quirinale alle figuracce all'estero, da Chaouqui a Capuano passando per gli affari petroliferi: "Non capisce un cazzo", là dove tale generica affermazione non esprime solo una sprezzante superiorità di ordine patriarcale, ma anche e soprattutto segnala una particolare inadeguatezza che mai come nel caso di ieri si è esplicitata.
Ora, del vecchio e linguacciutissimo Bossi si può pensare tutto il male possibile, così come è vero che gli insuccessi del giovane capo finiscono per alimentare, specie al Nord, la mitologia del vecchio leader della prima gloriosa Lega e addirittura la nostalgia fideistica della grottesca Padania indipendentista con le sue baracconate: vedi la recente proposta dell'architetto Leoni di trasformare la villetta di Gemonio in un Museo, magari con fondi pubblici.
Dopo le ultime disastrose elezioni contro Salvini si è comunque aperto un lungo, lento e in qualche modo ancora incerto processo, di cui il "Comitato del Nord" e le invettive del vegliardo costituiscono per ora delle tappe. I vari Giorgetti, Calderoli, Zaia, Fedriga e compagnia silente stanno appunto a guardare.
Però quando Bossi tocca quel particolare tasto - «Salvini è un bambino, con si comporta come un uomo e io sono abituato a parlare con gli uomini», ecco, al di là del caso di giornata e dalla congiuntura che l'ha determinato, la sintetica notazione lascia il segno per trasmettere, come nella favola, inusitati bagliori di verità.
Forse saranno i social, che dei leader di questo tempo enfatizzano prima di tutto l'espressività, le facce, le smorfie, i gesti, gli accessori e gli oggetti che esibiscono, le fissazioni tipo il Ponte sullo Stretto; forse è la natura tutta esteriore del comando che rende gli odierni capi puri soggetti apparenti, sempre in bilico tra la condizione di eroe e quella della macchietta, fra retorica e capricci.
Certo fa pensare il grido levatosi dalla platea a un recente congresso della Lega: «Togliete il telefonino a Salvini!». Fatto sta che a forza di felpe, uniformi, bacioni, Nutella, maglie da calciatori, e poi cucciolini, palloncini, candeline, mini ruspe, pistole ad acqua, peluche e giocarelli, i dispositivi di infantilizzazione della leadership, generati dal marketing, non sono mai apparsi così evidenti e fruttuosi come nel caso di Salvini.
Si sa, o meglio si è capito come vanno queste cose e a quale esito portano tali percezioni: finché vinci e hai portato il tuo partito dal 10 al 30 per cento, tutti ti dicono: ma che bravo, che fantasia, che modernità, che slancio! Quando invece va male, e ti ripeti, perdi colpi, cerchi di salvarti premiando per paura solo la fedeltà, beh, succede che un'autorità dia voce alla vera e grande debolezza che nessun politico in nessuna fiaba potrà mai perdonarsi: sei un bambino, o peggio, sei rimasto un bambino, non è cosa per te, addio.
Simona Buscaglia per “la Stampa” il 21 dicembre 2022.
Nemmeno l'arrivo al Pirellone del Vecchio Capo Umberto Bossi è bastato a stemperare le polemiche interne al partito. Anzi. Con un Matteo Salvini chiaramente innervosito fino al punto di definire le richieste del Senatur - di contare di più con il suo piccolo gruppo di dissidenti alle prossime elezioni regionali - una "bega" di territorio. Declassificando il fondatore del Carroccio alla stregua di «un fuoriuscito». Eppure ieri la giornata sembrava avviata bene. Bossi, lasciata eccezionalmente la sua Gemonio, era stato accolto dal presidente Attilio Fontana con grande affetto.
E con i migliori auspici: la promessa del Comitato Nord di appoggiare «l'Attilio» e non Letizia Moratti, come qualcuno aveva già ventilato, in cambio di un peso maggiore nella coalizione di destra tramite una propria lista. Il governatore a sua volta prometteva di farsi parte attiva con gli alleati per riconoscere questo nuovo ruolo del microgruppo di Bossi. Fino alla doccia fredda di Salvini che, si dice, avrebbe irritato non poco il vecchio leone. «Con tutto il rispetto - ha precisato il segretario leghista - quando hai in ballo una manovra da 30 miliardi di cui occuparti, delle liste e dei fuoriusciti lascio che se ne occupi qualcun altro». Ovvero Fabrizio Cecchetti, segretario della Lega Lombarda. «Io rispondo a tutti - ha aggiunto Salvini in un estremo tentativo di recupero - nel limite del possibile».
Il vero tramite tra Bossi e Salvini rimane però Fontana: «Ha detto che si sarebbe attivato per programmare un incontro - racconta Angelo Ciocca, coordinatore insieme a Paolo Grimoldi del Comitato Nord, entrambi presenti ieri al Pirellone - i tempi sono stretti, mi auguro si faccia prima di Natale così sarà anche l'occasione per uno scambio di auguri tra i due». Ciocca rivendica la bontà del progetto di Bossi, definendolo «un'operazione contro lo sfascio della Lega», un modo per «contenere quel malessere interno al movimento» ed evitare che i fuoriusciti vadano ad ingrossare le fila di altri partiti, come già accaduto con il salviniano Gianmarco Senna, che ha aderito al Terzo Polo e oggi appoggia la corsa di Letizia Moratti. «Dopo l'evento al Castello di Giovenzano quattro consiglieri - e probabilmente ne arriveranno altri - hanno preferito entrare in un progetto pensato da Bossi per riportare dentro alla Lega una discussione costruttiva».
Gli espulsi non ci stanno ad essere chiamati traditori: «Noi appoggiamo Fontana - spiega Roberto Mura, presidente del gruppo consiliare "Comitato Nord" - Sono stato eletto nel 2018 per farlo e così voglio fare fino all'ultimo. Ci sono però dei problemi: in Lombardia avevamo 9mila militanti e adesso ne abbiamo 5mila». Un malessere della base che invece Salvini non sembra percepire: «La Lega è assolutamente in forze, le polemiche a livello locale non mi sfiorano»
Marcello Sorgi per “la Stampa” il 21 dicembre 2022.
Non è una questione di percentuali. Eppure ha un valore simbolico la discesa in campo di Umberto Bossi in difesa degli scissionisti del Comitato Nord, i consiglieri regionali leghisti che, temendo di non essere riconfermati a causa di un temibile risultato negativo del Carroccio, hanno deciso di separarsi da Salvini, minacciando di schierarsi con Moratti, che prima di loro ha rotto i ponti con il centrodestra presentandosi al centro con l'appoggio di Calenda.
Che poi quanto sta avvenendo all'interno - e ormai all'esterno - della Lega possa condizionare il risultato delle elezioni regionali di febbraio in Lombardia, la regione simbolo del Nord in cui affondano le radici del Carroccio è possibile, ma non fino al punto di compromettere la riconferma del governatore Fontana.
Piuttosto di rendere più difficile il raggiungimento della quota del 40 per cento che fa scattare il premio di maggioranza per la coalizione, garantendone la governabilità. In questo senso è chiaro l'aut-aut degli scissionisti, ai quali Bossi ieri ha dato piena copertura, spingendosi fin nella sede della Regione per incontrare Fontana: o il centrodestra accetta il Comitato Nord come lista collegata, garantendone l'elezione accanto a Fontana di una parte dei candidati, oppure lo stesso comitato andrà con Moratti.
La reazione di Salvini, che ha parlato di «scissione dell'atomo», è dura. E non a caso Bossi gli ha ricordato di essere «presidente a vita della Lega Nord», cioè di poter tentare di allargare i confini della scissione. Da quando il partito è stato trasformato in Lega per Salvini premier infatti, il Capitano ne ha il pieno controllo e la vecchia Lega è diventata una specie di "bad company" per limitare le conseguenze degli scandali finanziari emersi prima del cambio di segretario al vertice.
Riconoscere l'esistenza di una componente metà interna e metà esterna, guidata da una personalità storica come quella del Senatur, significherebbe per Salvini rinunciare al dominio assoluto avuto fin qui e accettare le conseguenze degli scricchiolii che cominciano a manifestarsi alla base del Carroccio per i deludenti risultati elettorali del 25 settembre. Oltre che per quelli - annunciati - di febbraio, un test che potrebbe diventare decisivo per la leadership del Capitano.
L'anziano leader guida la scissione. Cosa sta succedendo nella Lega, perché Bossi vuole cacciare Salvini. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Dicembre 2022
Umberto Bossi non molla. Lui lo strappo lo vuole fare e lo farà. Si chiama Comitato Nord, e se Bossi è il nume tutelare la differenza la fanno i numeri. Sin d’ora, sono tanti i consiglieri comunali e già quattro i consiglieri regionali che lo seguono: Antonello Formenti, Massimiliano Bastoni, Federico Lena e Roberto Mura. Stanno dando vita a un movimento a sé, a una lista autonoma. E autonomista, certo. Che si candida alle elezioni regionali della Lombardia, con una lista già pronta dai connotati chiari: autonomia regionale, decentramento fiscale, doppia toponomastica in dialetto e finanziamento per tutelare i localismi.
Il recupero della Lega delle origini, in soldoni. E su questi punti ieri il Senatùr ha sbattuto i pugni sul tavolo del governatore Fontana: la lista si deve fare e deve correre nel centrodestra, accanto a Forza Italia, a Fdi, alla Lega. In chiave anti-Salvini. Il recupero del programma del Carroccio che fu, è fumo negli occhi di Matteo Salvini. La sfida al leader di via Bellerio arriva nel modo più insidioso: dall’interno dei suoi uffici, in quella Milano da dove la vicenda politica di Salvini è partita. A Palazzo Lombardia, sede della Regione, Bossi è entrato alle 12 ed è rimasto fino alle 15. Più che una riunione, quasi una occupazione dell’ufficio del governatore. «Nei fatti, nella Lega, c’è quella che tecnicamente si chiama una scissione», taglia corto il candidato della sinistra, Pierfrancesco Majorino.
Il ministro delle Infrastrutture gioca la carta del distacco. Parla da Luigi XVI: «Mi occupo di risolvere i problemi, non di polemiche. Se ne occuperà Fabrizio Cecchetti che è il segretario della Lega Lombarda, con tutto il rispetto. Quando hai in ballo 30 miliardi di cui occuparti, delle liste e dei fuoriusciti lascio che se ne occupi qualcun altro». Sia come sia, se ne occuperanno gli elettori lombardi che per la prima volta troveranno nelle schede due Leghe. E dovranno fare una scelta. Da una parte c’è la Lega-Salvini Presidente e dall’altra il Comitato Nord, la Lega delle origini. Tutte e due a sostegno di Fontana, che infatti prova a tirare le somme per riportare la pace: «La certezza è che Bossi mi sostiene e che i suoi lavorano per la mia rielezione, i dettagli verranno affrontati in riunioni successive», dice. I dettagli non sono da poco, se per la prima volta l’alternativa leghista a Matteo Salvini campeggia nell’ambito della stessa coalizione, permettendo agli elettori di optare per l’una o l’altra Lega senza uscire dal perimetro del centrodestra.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
(ANSA il 20 dicembre 2022) - Il fondatore della Lega Umberto Bossi è al Pirellone, sede del Consiglio regionale della Lombardia, dove a breve incontrerà anche il governatore Attilio Fontana. Sono presenti anche i referenti del Comitato Nord Paolo Grimoldi e Angelo Ciocca e i quattro consiglieri espulsi dal Carroccio Roberto Mura, Federico Lena, Antonello Formenti e Max Bastoni.
Il fondatore della Lega Umberto Bossi ha appena incontrato al Pirellone il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Come si legge in un breve comunicato diramato dai referenti del Comitato Nord, al tavolo è arrivata una richiesta "chiara ed inequivocabile", ossia quella di "farsi parte attiva con gli alleati di coalizione al fine di riconoscere il Comitato Nord come lista all'interno della coalizione di centrodestra" in appoggio a Fontana.
I referenti del Comitato Nord "hanno ribadito la volontà di sostenermi e di sostenere il centrodestra" alle regionali in Lombardia. "Riferirò questa disponibilità ai miei alleati del centrodestra". Così il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana al termine dell'incontro con Umberto Bossi al Pirellone. "Questa è la cosa importante - ha aggiunto Fontana - tutti gli altri dettagli saranno trattati in successivi incontri". Su altre potenziali fuoriuscite dalla Lega, invece, "non ho la più pallida idea - ha concluso Fontana - bisogna chiedere a chi può essere interessato a questo". (ANSA)
Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 20 dicembre 2022.
"Salvini non mi parla? È un bambino, non si comporta come un uomo e io sono abituato a parlare con gli uomini", dice Umberto Bossi. Il senatur si sfoga con i suoi, incontrati al Pirellone. Il vicepremier non si fa trovare al telefono, evita il confronto con il fondatore, la situazione è sul punto si sfuggirgli di mano.
Ora c'è una settimana per decidere, per sancire la rottura nella Lega tra Bossi e Salvini oppure per risanarla in qualche modo. A mediare c'è Attilio Fontana. Il vecchio capo e fondatore arriva alle 11, si chiude in una saletta laterale del Consiglio regionale e con lui ci sono i quattro consiglieri espulsi la scorsa settimana, creando il gruppo Comitato Nord in aula, oltre ad Angelo Ciocca e Paolo Grimoldi. Poi arriva il presidente, la cui preoccupazione è nota, ovvero perdere per strada un pezzo di Lega e rendere la sua rielezione alle Regionali meno facile, comunque allontanando la soglia del 40 per cento necessaria per prendere il premio di maggioranza.
"Mi farò promotore con la coalizione di centrodestra della necessità di accogliere anche loro", dice il governatore una volta uscito dal faccia a faccia con Bossi. Il senatur non parla uscendo dall'incontro, viene portato via subito dai suoi, esce fuori solo uno scarno comunicato: "Oggi il Presidente a vita della Lega Nord Umberto Bossi ha incontrato in consiglio regionale il Presidente Attilio Fontana. Una richiesta chiara ed inequivocabile: farsi parte attiva con gli alleati di coalizione al fine di riconoscere il Comitato Nord come lista all'interno della coalizione di centrodestra in appoggio al presidente Fontana".
Piccolo particolare: il riferimento alla presidenza a vita della Lega Nord, cioè non il partito Lega per Salvini premier, il nuovo guscio formale creato dal "Capitano". E adesso? Se entro domenica non ci sarà il via libera all'ingresso del Comitato Nord in coalizione a quel punto il gruppo potrebbe virare su Letizia Moratti. Portandosi via un pezzo di Lega lombarda, il cuore del Carroccio.
Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.
Il dialogo, raccontano, si è interrotto da oltre due settimane. Quando chiama Umberto Bossi, Matteo Salvini non si fa trovare. […] «Quando non sa più cosa fare si comporta così, pensando di rimuovere il problema», racconta un leghista della prima ora riferendosi al ghosting di Salvini.
Nelle due antiche e nobili enclave del Carroccio, Lombardia e Veneto, non tira una bella aria. I veneti ormai da anni si sono rifugiati nella propria diversità, sotto l'egida di Luca Zaia; in Lombardia il senatur ha dato il via libera alla costituzione di Comitato Nord come associazione, non più e solo come corrente di minoranza all'interno del Carroccio.
«Ci apriamo anche a chi non è tesserato alla Lega», specifica Paolo Grimoldi, l'ex parlamentare che assieme ad Angelo Ciocca e allo stesso Bossi sta tirando le fila del Comitato. La formazione del gruppo in Consiglio regionale di Comitato Nord, con al momento quattro eletti leghisti, è stata benedetta a Gemonio.
Salvini ha fatto espellere in tutta furia i quattro ribelli, di tutta risposta Bossi e co. oltre a chiedere clemenza hanno dato loro il via libera all'utilizzo della sigla "eretica". Una minoranza che in realtà è già un bel pezzo fuori dal partito, solo che un conto è espellere un consigliere regionale, magari liquidandolo come uno in cerca di candidature, e un altro è far fuori colui che ha fatto la storia della Lega.
[…] Tra Bossi e il presidente lombardo Attilio Fontana il dialogo non è mai stato interrotto, anzi, per lui non ci sarebbero problemi se alla fine Comitato Nord diventasse una lista a suo sostegno, fuori dalla Lega quindi ma comunque nel centrodestra.
«Sono iscritto dal 1991, nessuno deve insegnarmi cosa sia la militanza, ne ho fatte di mattinate al freddo nei gazebo», ha detto Salvini sabato sera all'inaugurazione della campagna elettorale leghista a Milano.
Una frecciata a chi lo contesta, a chi denuncia che negli ultimi anni la base è stata abbandonata a se stessa. Però al di là delle cose dette in pubblico («i quattro consiglieri? Parliamo di cose serie») il segretario federale ha due bei problemi davanti: le regionali potrebbero vedere da un lato la supremazia di FdI anche in Lombardia, e sarebbe un vero e proprio smacco; dall'altra la coalizione rischia di non raggiungere il 40 per cento, anche a causa della concorrenza a destra di Letizia Moratti, perdendo quindi il premio di maggioranza al Pirellone.
Per questo i padani del Comitato Nord che potrebbero valere l'1, il 2, il 3 per cento sarebbe in teoria meglio averli dentro. Anche perché Moratti li corteggia e dal Comitato dicono una cosa semplice: noi vogliamo stare con Fontana ma i matrimoni si fanno in due.
Della serie, se ci sbarrano la porta allora Moratti è un'opzione concreta, al pari della corsa in solitaria, magari con Ciocca candidato presidente. La sostanza è che al di là delle dimostrazioni di sicurezza per la Lega la situazione non è semplicissima, l'eventuale Fontana bis rischia di esser e una legislatura azzoppata e il salone stracolmo con 600-700 persone per la prima e unica uscita pubblica di Bossi al castello di Giovenzano, quindici giorni fa, dimostra che con il Comitato c'è un pezzo di militanza che rischia di andare persa una volta per tutte.
Estratto dell’articolo di Luca Ricolfi per “la Repubblica” il 18 dicembre 2022.
Nell'estate del 2019, subito dopo le elezioni europee, la Lega di Matteo Salvini sfiorava il 35%. Oggi deve accontentarsi del 7-8%, circa il 20% dei consensi alle Europee 2019, e meno del 50% di quelli alle Politiche del 2018. […] Come è stato possibile un tale tracollo?
Una ragione ovvia è che, ai tempi del Papeete (agosto 2019), Salvini sbagliò clamorosamente i calcoli, ovvero non si rese conto che il Pd - grazie alla spregiudicatezza di Renzi - avrebbe potuto rimangiarsi l'impegno zingarettiano a non fare alleanze con i Cinque Stelle.
Di lì un'emorragia di consensi, che Salvini aveva conquistato in virtù della sua posizione di vicepremier nel governo giallo-verde e della popolarità della politica dei porti chiusi.
In casa leghista la spiegazione che si preferisce invocare è un'altra: la perdita di consensi sarebbe dovuta alla generosità di Salvini, che […] fece la scelta autolesionista di sostenere il governo Draghi […].
Questa spiegazione […] è incompatibile con i dati: il travaso di voti dalla Lega a Fratelli d'Italia è iniziato ben prima dell'ingresso nel governo Draghi […] Dunque, come sono andate le cose?
Una spiegazione alternativa la fornisce […] Umberto Bossi […] ben tre anni fa (inizio 2020), appena sei mesi dopo il passo falso del Papeete. Allora la Lega di Salvini veleggiava ancora sopra il 30%, seguita a grande distanza dal Pd (21%), dai Cinque Stelle (14%) e dal partito di Giorgia Meloni (12%). […] Bossi […] avvertiva Salvini: «Altro che prima gli italiani. Per quello basta e avanza la destra nazionalista. Ora spero sia chiaro: se trasferisci la Lega al Sud, poi diventa più difficile chiedere il voto alla Lombardia, al Veneto e all'Emilia».
Nella medesima intervista si chiedeva: «La Lega fa ancora gli interessi del Nord, sì o no? Basta fare due conti: più della metà degli elettori italiani vive sopra il Po. Se perdiamo questi è finita». […] una discussione interna alla Lega? […] «Guai se non succedesse. La base del Nord è in fermento. Bisogna che qualcuno trovi il coraggio di darle voce, perché altrimenti se ne andranno via in tanti». E aggiungeva: «Su di me possono contare».
Non so se la diagnosi di Bossi fosse corretta […] Quel che però mi pare difficilmente contestabile è che il consiglio di aprire una discussione interna fosse un consiglio saggio. […] è molto […] difficile comprendere la caparbietà con cui tuttora, a dispetto della debâcle elettorale, il leader della Lega osteggia l'emergere di un vero confronto interno. Può darsi che evitare di aprire una grande discussione sulla linea politica conservi a Salvini il controllo della sua creatura. Ma è lecito domandargli se, per questa via, sarà mai possibile recuperare il sostegno di quanti l'hanno abbandonata.
Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2022.
Matteo Salvini si toglie qualche sassolino: «Qualche giornale si lancia in una caccia alle streghe che non c'è, tra me e Giorgetti, tra me e Fedriga e tra me e Fontana». Il segretario leghista è all'apertura della campagna elettorale per la riconferma di Attilio Fontana alla guida della Lombardia. E di fronte a tutto lo stato maggiore leghista, vuole farsi sentire bene e da tutti: «Rassegnatevi perché la Lega è la Lega e tale rimarrà per i prossimi 50 anni».
Certo, ha scherzato: «C'è anche la squadra che invecchia, ieri Giorgetti ha compiuto 56 anni. Siamo al governo da 56 giorni, mi sembrano 5 anni». Ma, appunto, il messaggio è indirizzato a chi lo accusa di trascurare militanti e territori: «Abbiamo passato mesi e anni difficili, lo so... Ma ho la tessera dal 1991, lezioni di militanza non ne prendo da nessuno». Ricordando che «la Lega non è Fratelli d'Italia, abbiamo radici diverse ma un destino comune. Noi la differenza la facciamo sui territori». A confortare Salvini, l'elezione della fedele Elena Maccanti alla segreteria provinciale di Torino. Oggi, tocca a Padova e Verona.
Doppia Lega. Ivano Tolettini su L’Identità il 14 Dicembre 2022.
Nel Carroccio ci si conta e ci si scontra per tornare a scaldare il cuore dei ceti produttivi della locomotiva nordista. È il bello della democrazia quando si ammucchiano le tessere e anche il Capitano è costretto ad aprire ai militanti che possono candidarsi senza più “restrizioni”. Una svolta segnata dai litigi e anche dalle mini-scissioni, com’è successo al Pirellone dove i consiglieri Roberto Mura, Federico Lena e Antonello Formenti hanno sbattuto la porta per fondare il “Comitato del Nord” appena in tempo per evitare di raccogliere le firme qualora si presentassero alle elezioni di febbraio con un nuovo movimento. Ma Umberto Bossi ha subito preso le distanze dal terzetto, salvo poi chiedere unità e comprensione a Matteo Salvini che aveva sancito l’immediata espulsione.
Tolto il tappo dei commissari dopo la batosta elettorale del 25 settembre per mano di Fratelli di Italia, che ha vampirizzato la Lega, dalla Lombardia al Veneto è partita la stagione dei congressi ora a livello provinciale in vista di quelli regionali. E il fronte del Nord produce tensioni potenti dentro un partito che il Segretario non controlla più perché la sconfitta nelle urne si è tradotta nella perdita di consensi interni. Le regole della leadership funzionano così. E Matteo ne è ben consapevole.
Non stupisce allora che a Brescia la sindaca Roberta Sisti di Torbole Casalba, paese di quasi 6.500 anime nella Bassa pianura, in rappresentanza del “Comitato del Nord” sconfigga per 391 voti a 365 l’ex segretario provinciale Alberto Bertagna, di stretta osservanza salviniana e legato ai parlamentari Stefano Borghesi e Paolo Formentini; mentre nell’ortodossa Varese Andrea Cassani, quantunque sostenuto dal presidente Attilio Fontana e dall’on.Stefano Candiani e dall’eurodeputata Isabella Tovaglieri, presenti nel teatro di Busto Arsizio dov’è stato allestito il seggio, superi di appena 12 voti il bossiano Giuseppe Longhin. A far rumore l’assenza del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti.
E se a Como vince Laura Santin, moglie del coordinatore della Lega Lombarda Fabrizio Cecchetti in orbita “Comitato del Nord”, a Pavia prevale il salviniano Jacopo Vignanti sulla bossiana Roberta Marcone. Il “Comitato” però si rifà a Cremona con Simone Bossi, mentre a Lodi Claudio Bariselli alza lo stendardo di Salvini. Non così nella Lega Bergamasca dove alla presenza del Segretario e di Roberto Calderoli, il sindaco di Telgate, Fabrizio Sala, vicino a Bossi, diventa nuovo segretario per 8 voti (342 a 334 sull’ortodosso Mauro Brambilla) e nel suo applaudito intervento dice in faccia a Salvini che i candidati “a tutti i livelli dovrebbero essere scelti con le primarie”.
Musica per molti “lighisti” veneti, come Roberto Marcato (si legga l’articolo a fianco), sostenitore di un’apertura al confronto serrato per recuperare lo spirito fondativo che sapeva parlare a tutti gli strati sociali.
Così a Padova dopo che la rappresentante dell’ortodossia, Federica Pietrogrande, sostenuta dai pesi massimi Bitonci e Ostellari ha sbaragliato gli avversari, c’è attesa per il congresso provinciale in cui si sfideranno apertamente le due anime: Salvini-Bitonci contro Marcato-Boron-Zaia, anche se il governatore come suo costume non scende nell’agone. Ma al di là del bon ton di facciata il Doge, impegnato ieri pomeriggio al teatro Olimpico di Vicenza nella promozione del suo nuovo libro che miete ristampe (“I pessimisti non fanno fortuna”), è lontano dalla linea del Capitano.
La stagione dei congressi in Veneto ha visto a Rovigo il successo di Guglielmo Ferrarese, zaiano-marcatiano di ferro, mentre domenica a Verona Nicolò Zavarise sarà candidato unico e i leghisti vicentini dovranno attendere il 2023. A Treviso, invece, si confronteranno in quattro: Dimitri Coin, Luciano Dussin, Giuseppe Paolin e Riccardo Barbisan. La spaccatura della doppia Lega. È la democrazia bellezza.
La Questione Morale.
Il caso Domenico Mantoan.
Il caso Stefania Zambelli.
Il caso Durigon.
Il caso Metropol.
Spie, appalti d’oro e parcelle targate Lega: i segreti del ras della sanità Domenico Mantoan. I contratti-scandalo del re delle mense. I soldi all’avvocato diventato vicepresidente del Csm. Le soffiate dal capo dei servizi. Indagini e intercettazioni svelano favoritismi e reti di potere del super-manager veneto che ora controlla gli ospedali di tutta Italia. Paolo Biondani su L’Espresso il 23 Febbraio 2023
Il 14 agosto 2020 un potente manager pubblico, Domenico Mantoan, direttore generale della sanità veneta da oltre un decennio, prende la macchina e sparisce, lasciando un messaggio laconico: ha appuntamento con «uno molto informato». A metà pomeriggio si ferma a Brendola, un paese della provincia di Vicenza, e spegne il telefonino. Qui viene raggiunto da un uomo di mezza età, arrivato anche lui da solo, su un’auto noleggiata.
Il caso Stefania Zambelli. (ANSA il 27 febbraio 2023) - La Procura europea (Eppo) di Milano con la Guardia di Finanza di Brescia ha eseguito un sequestro di oltre 170mila euro nei confronti della eurodeputata bresciana della Lega Stefania Zambelli, e nei confronti di quattro dei suoi assistenti, nell'ambito di un'indagine su possibili frodi in materia di indennità parlamentari.
L'indagine riguarda un sospetto di frode ai danni del bilancio Ue, riguardante la retribuzione di quattro assistenti parlamentari assunti in Italia, ma che non avrebbero svolto le attività connesse alla funzione per la quale erano stati assunti, o le hanno svolte solo parzialmente, documentando falsamente la loro attività al Parlamento europeo. Avrebbero anche travisato i propri titoli di studio, avendo dichiarato competenze scolastiche e professionali che, secondo le indagini, non avevano.
Si ritiene che l'eurodeputato, strettamente legato ad almeno una delle persone assunte, abbia beneficiato anche delle somme corrisposte dal Parlamento europeo per le attività lavorative che il personale avrebbe dovuto svolgere. I danni stimati al bilancio dell'UE ammontano a 172.148,82 euro. Stefania Zambelli era candidata anche alle recenti elezioni regionali ed è la prima dei non eletti a Brescia.
(ANSA il 27 febbraio 2023) - "In merito ai fatti che hanno determinato l'esecuzione del sequestro preventivo a mio carico, tengo a precisare che né io né i miei collaboratori abbiamo commesso alcun illecito. Il nostro operato è sempre stato improntato alla massima lealtà e trasparenza nei confronti delle Istituzioni e della collettività". Così sul suo profilo Facebook l'eurodeputata della Lega Stefania Zamberlli dopo la notizia dell'indagine Eppo.
"Mi preme sottolineare che l'assistente parlamentare che con la sua denuncia ha dato origine a questo procedimento, è la stessa persona che mi aveva già denunciato al Parlamento europeo nel 2019, con le stesse argomentazioni", prosegue Zambelli. "In quella circostanza, per i medesimi fatti, questa assistente è stata all'esito del giudizio licenziata per giusta causa, secondo le indicazioni ricevute dagli stessi funzionari del Parlamento europeo, mentre nei miei confronti non è stato emesso alcun provvedimento. Sono a completa disposizione delle Autorità Giudiziaria per qualsiasi chiarimento", conclude Zambelli.
Nell'ambito dell'inchiesta su una presunta truffa all'Unione Europea per le indennità parlamentari che ha coinvolto l'eurodeputata bresciana della Lega Stefania Zambelli, risulta indagato anche l'ultrà del Milan Marco Pacini, appartenente alle Brigate rossonere, compagno della figlia della deputata e che risulta nello staff dell'esponente bresciana. Una parte del sequestro da 170 mila euro ha riguardato anche Pacini a cui gli uomini della Guardia di Finanza hanno sequestrato anche un'auto. (ANSA)
Truffa al bilancio europeo: sequestrati 172 mila euro all’eurodeputata della Lega Stefania Zambelli. Redazione CdG 1947 su Il Corriere delGiorno il 27 Febbraio 2023
Non è questa la prima volta che un eurodeputato viene indagato per l’utilizzo dei fondi del Parlamento europeo previsti per gli assistenti parlamentari. Nel 2019, la forzista Lara Comi era stata denunciata per truffa ai danni dell’istituzione Ue proprio perché sospettata di aver usato i fondi per gli assistenti per fini personali. Il processo è ancora in corso, mentre Comi è tornata a sedere sui banchi del Parlamento europeo
Sequestrati oltre 172 mila euro all’europarlamentare Stefania Zambelli (Lega) 51 anni, ed a quattro suoi collaboratori a Bruxelles. Secondo la Procura Europea e la Guardia di Finanza di Brescia la cifra corrisponde ai danni stimati al bilancio dell’Ue per una presunta truffa relativa fondi erogati al suo staff assunto in Italia. Per gli inquirenti, i collaboratori della Zambelli non avrebbero svolto o in alcuni casi solo parzialmente le attività relative alle funzioni per cui erano stati assunti e avrebbero falsificato la documentazione sul loro operato al Parlamento europeo, mentendo anche sui loro titoli di studio ed esperienze professionali pregresse, mai conseguite e tantomeno raggiunte.
Alla Zambelli dipendente amministrativa dell’Asst Garda in aspettativa, viene poi contestato di essere strettamente legata ad almeno una delle persone assunte e di avere beneficiato anche delle somme corrisposte dal Parlamento europeo per le attività lavorative che il personale avrebbe dovuto svolgere. Tra i collaboratori co-indagati risulta esserci anche Marco Pacini detto “Pacio” ultrà del Milan appartenente alla Curva Sud, e compagno della figlia della eurodeputata leghista.
“Secondo gli elementi di prova – si legge in un comunicato dell’Eppo – i quattro membri del personale non hanno svolto le attività connesse alla funzione per la quale erano stati assunti, o le hanno svolte solo parzialmente, documentando falsamente la loro attività al Parlamento europeo. Inoltre, hanno travisato i propri titoli di studio, avendo dichiarato competenze scolastiche e professionali di cui, secondo l’inchiesta, non disponevano. Si ritiene – continua il comunicato – che l’eurodeputata, strettamente legata ad almeno una delle persone assunte, abbia beneficiato anche delle somme corrisposte dal Parlamento europeo per le attività lavorative che il personale avrebbe dovuto svolgere“.
Una parte del sequestro da 172 mila euro, eseguito lo scorso giovedì 23 febbraio, ha riguardato anche un’auto di sua proprietà. “Né io né i miei collaboratori abbiamo commesso alcun illecito. Il nostro operato è sempre stato improntato alla massima lealtà e trasparenza nei confronti delle Istituzioni e della collettività“, ha dichiarato Zambelli su Facebook. “Mi preme sottolineare che l’assistente parlamentare che con la sua denuncia ha dato origine a questo procedimento, è la stessa persona che mi aveva già denunciato al Parlamento Europeo nel 2019, con le stesse argomentazioni” ha sottolineato l’esponente del Carroccio. “In quella circostanza, per i medesimi fatti, questa assistente – aggiunge la Zambelli – è stata all’esito del giudizio licenziata per giusta causa, secondo le indicazioni ricevute dagli stessi funzionari del Parlamento Europeo, mentre nei miei confronti non e’ stato emesso alcun provvedimento. Sono a completa disposizione della autorità giudiziaria per qualsiasi chiarimento”. Stefania Zambelli si è candidata anche alle recenti elezioni regionali ed è la prima dei non eletti a Brescia.
Non è questa la prima volta che un eurodeputato viene indagato per l’utilizzo dei fondi del Parlamento europeo previsti per gli assistenti parlamentari. Nel 2019, la forzista Lara Comi era stata denunciata per truffa ai danni dell’istituzione Ue proprio perché sospettata di aver usato i fondi per gli assistenti per fini personali. Il processo è ancora in corso, mentre Comi è tornata a sedere sui banchi del Parlamento europeo. Anche Eva Kaili, l’ex vicepresidente dell’Eurocamera arrestata nell’ambito del Qatargate, è accusata dello stesso tipo di truffa. Redazione CdG 1947
La casa di lusso a Durigon: «Così Ugl pagava l’affitto al sottosegretario». EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 03 febbraio 2023
Il leghista Claudio Durigon deve molto al sindacato Ugl. Non solo perché l’ha lanciato nell’agone politico. Ma anche perché gli ha pagato l’affitto di una casa di lusso per cinque anni, dal 2017 al 2022.
L’appartamento era di proprietà della fondazione Enpaia, l’ente di previdenza per gli impiegati in Agricoltura guidato da Giorgio Piazza, che ha poi deciso di inserire l’immobile in un piano di dismissione offrendo un super sconto e la prelazione a chi da almento 36 mesi era già inquilino. Una vero colpo di fortuna per Durigon, diventato proprietario del medesimo. Quando si dice trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Durigon e la compagna Alessia Botta hanno pagato appena 469 mila euro un immobile di otto vani, di 170 metri quadri catastali complessivi, con terrazzo angolare e balcone. Con uno sconto del 30 per cento. Tutti i misteri e i dubbi sull’affare immobiliare del sottosegretario
EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN
Estratto dell’articolo di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 4 febbraio 2023.
Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, continua a non rispondere a Domani sull’acquisto della casa di lusso nella prestigiosa via Cortina d’Ampezzo a Roma, acquistata con il 30 per cento di sconto dalla fondazione Enpaia, l’ente previdenziale per gli addetti del settore agricolo, sul quale è delegato a vigilare il sottosegretario.
Molte cose però non tornano in questa storia di affari immobiliari a prezzi stracciati, con l’appartamento del politico della Lega, fedelissimo di Matteo Salvini, costato appena 469mila euro. Una cifra irrisoria per 170 metri quadri, otto vani, terrazzo angolare e balcone, con un ampio box auto.
Si tratta di un immobile che sul mercato vale tra gli 800mila e il milione di euro. Allo stesso modo anche Francesco Rocca, come ha sempre rivelato Domani, ha comprato casa grazie alle dismissioni di Enpaia: lui ha pagato mezzo milione per una casa di quasi 190 metri quadri. Entrambi hanno beneficiato dello sconto offerto dall’ente previdenziale destinato agli inquilini da più di 36 mesi, cioè dedicato a chi stava già in affitto da almeno tre anni.
[…] Durigon alle nostre domande non ha voluto rispondere per giorni. Solo dopo l’uscita dell’inchiesta ha emanato un comunicato, che spiega solo in parte i gialli della compravendita. Ecco le sei domande a cui il sottosegretario del ministero del Lavoro dovrebbe rispondere. Perché l’Ugl pagava l’affitto? Sappiamo che Durigon è entrato nella casa a fine 2017, quando era vicesegretario generale del sindacato Ugl. È la confederazione, dunque, a trovare sulla carta l’appartamento di lusso e a pagargli l’affitto.
Domani ha scoperto però che, anche quando pochi mesi dopo, a marzo 2018, viene eletto in parlamento diventando a giugno sottosegretario al Lavoro, Ugl continua a versare la pigione a Enpaia. […] Enpaia ha confermato a Domani che i bonifici fino alla fine sono stati inviati dal sindacato.
Il sottosegretario ha spiegato in un comunicato che ha provveduto lui al pagamento dell’affitto una volta terminata l’esperienza da vicesegretario in Ugl: «Da quando sono diventato parlamentare nel 2018 mi sono fatto carico dell’affitto, 1.750 euro al mese circa». Può mostrarci il sottosegretario i bonifici o altro documenti che provino l’affermazione, visto che finora li abbiamo chiesti senza successo?
Durigon era in subaffitto? Prendiamo comunque per vera la spiegazione. Perché dunque non è mai stata fatta una voltura del contratto di affitto con Ugl? E visto che è per Enpaia a disporre i bonifici era l’Ugl anche quando Durigon era diventato sottosegretario, in che modo il parlamentare ha restituito queste somme al sindacato? Esiste una scrittura privata (come ipotizzano all’Enpaia) tra Durigon e Ugl?
I pagamenti che il sottosegretario avrebbe versato a Ugl avvenivano in contatti o tramite bonifici? Secondo il direttore dell’Enpaia un subaffitto da parte dell’Ugl a Durigon non sarebbe stato comunque possibile. Come spiega tutte queste incongruenze?
Solo nel 2017? «È già capitato che il sindacato abbia sostenuto l’onere della locazione a uso abitativo per alcuni dirigenti a livello nazionale non residenti a Roma», spiegano dalla confederazione, «nel caso di specie l’onorevole Durigon proveniva da Latina e rivestiva la carica di vicesegretario nazionale del sindacato».
Questa è stata la risposta di Ugl inviata a Domani. Qualcosa non torna però. Durigon ha rivestito la carica di vicesegretario già a partire dal 2014: per quale motivo solo a partire dal 2017 il futuro sottosegretario si trasferisce nell’appartamento di via Cortina D’Ampezzo a spese del sindacato? […]
Come fa a comprare? L’Ugl paga l’affitto della casa dove vive Durigon a Enpaia dal novembre 2017 fino a giugno 2022. L’appartamento, che finisce nel piano di dismissioni dell’ente previdenziale, viene a un certo punto messo sul mercato. Durigon decide di comprarlo. Secondo le linee guida di Enpaia, può essere però acquistato solo dal conduttore del contratto. Cioè in teoria dall’Ugl.
Come ha fatto Durigon a comprarlo? Secondo l’atto di compravendita, è bastato che l’Ugl abbia segnalato all’Enpaia che l’inquilino effettivo dell’appartamento fosse il suo ex dirigente Durigon. Allo stesso, entrato da più di 36 mesi seppur non locatario ufficiale, viene così garantito uno sconto del 30 per cento rispetti ai prezzi di mercato. Per il sottosegretario la vicenda è davvero lineare?
E il ruolo della compagna?
Dagli atti risulta che Durigon compra solo un decimo della casa. I 9/10 sono acquistati dalla compagna Alessia Botta, con cui non è sposato. Quando Enpaia decide di dismettere parte del suo patrimonio nel 2015, una serie di delibere chiariscono chi può comprare oltre al legittimo affittuario. Cioè i familiari dello stesso di primo e secondo grado, nonché il coniuge. Abbiamo chiesto al Enpaia come ha fatto allora a comprare la fidanzata del sottosegretario: ci hanno spiegato che, qualche mese prima del rogito della coppia, l’ente ha allargato le maglie anche alle unioni civili e alle «convivenze» di fatto. «Non è una norma ad personam, l’abbiamo fatta per evitare discriminazioni», spiegano. […]
Esistono conflitti? Un’altra questione concerne il ruolo ricoperto da Durigon, due volte sottosegretario al Lavoro, con delega alla previdenza e alle relazioni industriali. È già inopportuno a parere di chi vi scrive vivere in una casa affittata a nome di un sindacato. Ma non è tutto. Enpaia ha nel consiglio di amministrazione un membro del ministero del Lavoro, che ha il compito di vigilare sull’ente stesso. Durigon è stato segretario in quel dicastero e allo stesso tempo inquilino della casa affittata al sindacato dall’ente di previdenza. Ancora: nel decreto di nomina in quel ruolo a Durigon vengono concesse le deleghe alla vigilanza degli enti di previdenza, tra cui anche Enpaia. Il 23 giugno 2022 Durigon ha firmato il rogito, non era più sottosegretario al Lavoro ma solo parlamentare della Lega.
Qualche mese più tardi dopo aver acquistato casa da Enpaia ritorna negli uffici del ministero con il nuovo governo Meloni: anche in questo caso ha tra le mansioni affidate il controllo degli enti di previdenza. Questo impasto di interessi tra controllore e controllante è a suo parere normale? Non sarebbe il caso di dimettersi all’istante?
La clausola per la compagna, gli aiutini e i conflitti d'interesse: così Durigon ha comprato la casa di lusso col maxi sconto. Marco Carta, Clemente Pistilli su La Repubblica il 3 febbraio 2023.
L'affitto del sottosegretario era inizialmente a carico dell'Ugl. "Trattato come gli altri acquirenti, ho fatto un mutuo"
Cinque anni in affitto a spese del sindacato. Poi l'acquisto a prezzi stracciati: 469 mila euro per 170 metri quadri alla Camilluccia. E pure una strana clausola che gli ha consentito di far fare l'affare a Roma sia a lui che alla compagna.
Costretto una prima volta alle dimissioni per aver proposto di cancellare i nomi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da un parco di Latina, la sua città, per intitolarlo
Estratto dell'articolo di Marco Carta e Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 3 Febbraio 2023.
Cinque anni in affitto a spese del sindacato. Poi l'acquisto a prezzi stracciati: 469 mila euro per 170 metri quadri alla Camilluccia, una strada di Roma Nord costeggiata dal verde, tra ville, comprensori di lusso e scuole internazionali dalle rette dorate. Una strana clausola ha inoltre consentito al sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon di far fare l'affare a Roma sia a lui che alla compagna.
[…] Lo scorso 23 giugno l'esponente leghista ha acquistato dall'Enpaia, l'ente di previdenza per gli impiegati in agricoltura, una casa in via Cortina D'Ampezzo, a Roma, usufruendo dello sconto del 30% previsti per gli inquilini che avevano un contratto di locazione da oltre 36 mesi. L'appartamento era formalmente affittato dall'Ugl, il sindacato di cui proprio Durigon, fino al 2018, era segretario. Un caso sollevato dal Domani. "Io sono entrato in quella casa nel novembre 2017 - spiega il sottosegretario - ma da quando sono diventato parlamentare, nel 2018, mi sono fatto carico dell'onere dell'affitto, circa 1.750 euro al mese".
La circostanza al momento non è confermata. Anche perché dall'Enpaia la versione è differente: "L'Ugl ha pagato l'Enpaia per l'affitto di quell'immobile, fino a gran parte del 2022. Gli ultimi conguagli sono di qualche settimana fa - assicura Roberto Diacetti, direttore generale di Enpaia e già AD di Atac ai tempi di Gianni Alemanno -. Non so se poi Durigon li abbia restituiti all'Ugl. Questo dovete chiederlo a lui. Comunque sia chiara una cosa: non c'è stato nessun favoritismo".
Durigon dal 13 giugno 2018 al 4 settembre 2019 è stato sottosegretario al lavoro, con il primo Governo Conte. Poi, dal 25 febbraio 2021 al 2 settembre successivo, con il Governo Draghi, è stato sottosegretario all'economia. Infine è stato scelto nel novembre scorso di nuovo come sottosegretario al Lavoro da Giorgia Meloni. E proprio il Mef e il dicastero del lavoro controllano l'Enpaia e indicano anche i membri del CdA. […]
La vicenda sembra più complessa. Il sottosegretario, stabilitosi alla Camilluccia sei anni fa, già tra il 2018 e il 2019, quando era al Lavoro, avrebbe iniziato a ristrutturare l'appartamento, sapendo che c'era la possibilità di acquistarlo. […]
Il 13 marzo 2020 l'Enpaia ha affidato l'incarico per le linee guida su affitti e vendite all'avvocato Francesco Scacchi, in passato e per le vicende dell'Ugl legale anche di Renata Polverini. Il 20 marzo successivo il CdA dell'ente ha deciso sulla vendita di alcuni immobili, tra cui quello in via Cortina d'Ampezzo, e nel 2021 approvato le linee guida, prevedendo che l'acquisto potesse essere fatto anche dai conviventi dei titolari del contratto di locazione. Problema risolto per Durigon, che il 23 giugno scorso ha fatto l'affare proprio insieme alla compagna Alessia Botta, quest'ultima proprietaria del 90% dell'immobile.
"Sono tutte sciocchezze. Non c'è stato nessun favoritismo. Ho pagato quello che hanno pagato tutti. Neanche ho questa forza economica, ho pure dovuto fare un mutuo. Tutti abbiamo comprato così, lì c'erano anche altri personaggi, non è che c'ero solo io". E infatti, il 14 dicembre scorso alla Camilluccia un immobile Enpaia con il 30% di sconto è stato acquistato anche da Francesco Rocca, candidato presidente della Regione Lazio per il centrodestra […]
Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani” giovedì 30 novembre 2023.
Inizio lavori: 28 agosto 2017. Fine lavori prevista: ottobre dello stesso anno. Non solo una tinteggiatura di routine, come è prassi quando entra un nuovo inquilino. Ma ragguardevoli lavori di ristrutturazione per la dimora di pregio da consegnare all’inquilino eccellente Claudio Durigon. E quindi vasca da bagno angolare, sanitari e termosifoni, porte interne, infissi, avvolgibili motorizzate, lamatura e levigatura del parquet e pure dei cotti esterni.
L’elenco è solo una parte dei lavori pagati dalla fondazione Enpaia, l’ente previdenziale degli addetti all’agricoltura, per rimettere a lucido l’appartamento da 170 metri quadri in una delle zone più esclusive di Roma prima che entrasse Durigon, all’epoca solo vicesegretario dell’Ugl, qualche mese dopo sottosegretario al Lavoro del governo Conte I. La cifra complessiva delle fatture pagate nel 2018 alla ditta edile Sama è di 33mila euro. I documenti ottenuti da Domani rivelano anche che l’azienda ha applicato uno sconto, così Enpaia ha dovuto versare solo 27mila euro.
Si tratta della stessa casa che il ras della Lega di Salvini nel Lazio ha acquistato da Enpaia nel 2022 con il 30 per cento di sconto grazie all’operazione di dismissione immobiliare dell’ente di cui hanno beneficiato diversi politici: oltre a Durigon, anche il presidente della regione Lazio, Francesco Rocca, e Franco Frattini, l’ex ministro di Berlusconi nonché presidente del Consiglio di stato scomparso a Natale del 2022.
[…]
Tuttavia il caso Durigon è unico nel suo genere. Perché, se da un punto di vista formale l’ente ha le delibere che hanno permesso a Durigon di comprare l’appartamento con la scontistica in ordine, i nuovi documenti ottenuti dimostrano ancora una volta il conflitto di interessi, o quantomeno l’inopportunità della condotta.
Lo sconto del 30 per cento è stato garantito agli inquilini da almeno 36 mesi degli immobili Enpaia. Il leghista è entrato in quella casa nel 2017 in qualità di vicesegretario dell’Ugl. Il sindacato si è intestato il contratto di affitto e ha pagato le mensilità. Un anno dopo però Durigon è stato nominato sottosegretario al Lavoro nel governo Conte I.
L’affitto è rimasto, però, in capo ancora a Ugl, che ha continuato a pagare ogni mese. Ecco, dunque, il primo conflitto di interessi: l’Ugl ha garantito l’alloggio non più a un suo dirigente apicale, bensì al sottosegretario del ministero del Lavoro, con cui si sarebbe dovuta interfacciare per tavoli tecnici o per portare all’attenzione del dicastero le istanze dei propri iscritti.
Dopo gli scoop di Domani, Durigon aveva assicurato di poter dimostrare di aver restituito con bonifici il denaro speso dal sindacato. Ricevute che nessuno ha ancora mai visto. Neppure i pm che indagano sull’intreccio Enpaia, Ugl, Durigon. Indagine ancora contro ignoti.
«Nessun conflitto di interesse», si difende con Domani il sottosegretario, «avevo quell’ immobile dal 2017 come dirigente sindacale. Vale la pena di ricordare che Ugl è un’associazione non riconosciuta che non fa parte di Enpaia e non esprime rappresentanti nei suoi organi». Ma il ministero del Lavoro, cioè lui, ha l’obbligo di vigilare su Enpaia.
Fatto sta che, in virtù di quel periodo maturato da inquilino grazie a Ugl, Durigon ha potuto beneficiare dello sconto Enpaia. Così l’anno scorso, pochi mesi prima di diventare di nuovo sottosegretario al Lavoro, ha definito l’acquisto dell’immobile Enpaia: quasi 200 metri quadri, un bel terrazzo ad angolo, più box auto da 25 metri quadri, a soli 469mila euro.
Sul mercato, in quella prestigiosa zona vale almeno il doppio. Solo il garage, a prezzi attuali, può costare oltre 50mila euro. Il metodo con cui ha maturato la prelazione per la scontistica ha suscitato le proteste di un gruppo di inquilini, che ha presentato ricorsi per l’accesso agli atti.
Come ha potuto maturare i 36 mesi necessari, si chiedono, se il contratto di affitto era intestato a Ugl? Il diritto all’acquisto agevolato ricadeva sul sindacato, non sul politico, accusano. Enpaia aveva spiegato di aver rispettato le linee guida interne: «Le nostre procedure sono state caratterizzate dalla massima trasparenza».
Durigon, contattato, ha risposto: «La casa necessitava di alcune manutenzioni, come la tinteggiatura, la manutenzione degli infissi, l’aggiornamento dell’ impianto elettrico non a norma». Nell’elenco mancano i bagni, le porte e così via. Il leghisti poi aggiunge: «Ho poi chiesto di fare altri lavori, a mie spese, e sono stato autorizzato dall’Ente. Lavori che, ovviamente, ho pagato di tasca mia». Su quest’ultimo punto in realtà Enpaia sostiene che gli interventi li ha chiesti Ugl e pagati il sindacato. A chi credere?
In questo intreccio di interessi, accuse e sospetti, è bene ricordare l’altro lato del conflitto di interessi, che riguarda il ruolo di Enpaia: la fondazione previdenziale è sotto la vigilanza del ministero del Lavoro, in particolare dell’ufficio sul quale ha le deleghe da sottosegretario Durigon.
A febbraio, quando Domani ha pubblicato le prime puntate di questa inchiesta, avevamo chiesto conto a Enpaia dei lavori nell’appartamento di Durigon. La fondazione aveva confermato che i lavori erano stati fatti con una richiesta inviata a Enpaia nel 2017 firmata dal titolare del contratto, cioè Ugl. Chi ha pagato dunque? «Di sicuro Enpaia non ha pagato un centesimo», assicuravano dall’ente. Il sindacato, invece, alle nostre domande su chi avesse pagato e sull’entità dei lavori non aveva mai risposto.
Ora è certo che la parte più sostanziosa l’ha saldata Enpaia, oltre 30mila euro. Per Enpaia, insomma, non c’è nulla di strano, «i lavori pagati a Ugl sono di routine, gli interventi vengono effettuati sulla base di una nota che fanno gli uffici e scrivono cosa è necessario fare».
Dall’ente poi aggiungono: «Ugl aveva chiesto ulteriori lavori a carico Enpaia (demolizione pavimenti e rivestimenti bagni), ma abbiamo risposto che sarebbero stati a loro carico». Il che mette in dubbio la versione «li ho pagati di tasca mia» di Durigon. […]
Claudio Durigon nel mirino per una casa: "Querelo La7 e Domani". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2023
Sottosegretario Durigon, domenica e lunedì prossimi si vota in Lazio per eleggere il successore del presidente della Regione, il piddino Zingaretti e lei, in piena campagna elettorale, è finito nel mirino per l’acquisto della sua abitazione. Che spiacevole coincidenza.
Vuole chiarire? «Certo, ma cosa c’è da chiarire? Da qualche giorno mi sembra di stare su Scherzi a parte. Non c’è nulla che non torni».
Invece mi pare che nessuno voglia scherzare. Su La7, Corrado Formigli a Piazza Pulita ha mandato in onda un servizio nel quale insinuava che, nel pieno della legalità, lei avrebbe fatto proprio un bell’affare. Le chiedeva di tirare fuori i documenti dell’acquisto della sua abitazione a prezzo agevolato dall’Enpaia, l’Ente di Previdenza per gli Addetti e gli Impiegati in Agricoltura. Tirerà fuori i documenti oppure no?
«Certo, sono già uscito con una nota in merito, ma vedo che quando si vuole strumentalizzare non c’è carta che canti. Comunque, i documenti li potrà trovare allegati alle querele per diffamazione che i miei legali stanno preparando in questo momento. Lì c’è tutto: il mio accordo privato con l’Ugl, il sindacato al quale appartenevo e che pagava l’affitto della mia casa, e i bonifici che ho effettuato a suo beneficio per rimborsarlo. È tutto a disposizione della magistratura affinché tuteli la mia onorabilità: qui non ci sono né scandali né reati. Mi dispiace che per un attacco elettorale si ledano la privacy e la tranquillità delle famiglie, che non c’entrano nulla con la politica».
Teme per la sicurezza sua o della sua famiglia, in seguito alla campagna stampa di cui è vittima?
«Più che altro trovo da irresponsabili pubblicare il mio indirizzo personale in un momento di pericolo per la sicurezza nazionale come quello che stiamo vivendo in questi gironi e che ha costretto perfino il premier a chiedere compattezza a tutte le forze politiche».
Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali è finito, con il candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lazio, Francesco Rocca, al centro di un’inchiesta giornalistica per l’acquisto della sua casa, 170 metri quadrati in una zona prestigiosa di Roma Nord pagati 479mila euro, con uno sconto del 30% sul valore di mercato praticato a tutti gli affittuari acquirenti degli appartamenti messi in vendita dall’Enpaia. Durigon occupava la casa dal 2017, ma il contratto era intestato all’Ugl, il sindacato del quale il senatore leghista era dirigente prima di sbarcare in Parlamento. Malgrado l’ente abbia precisato con una nota ufficiale di aver “agito nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità, applicando a tutti gli affittuari le medesime condizioni, non così vantaggiose, visto che il 30% degli aventi diritto non ha esercitato l’opzione d’acquisto”, la polemica a livello mediatico è tenuta ancora alta dal sistema mediatico dei progressisti.
Senatore, mi spiega perché l’Ugl le pagava l’affitto?
«Era un benefit che avevo da vicesegretario ed è stato a carico dell’Ugl fino al 2018. Da quando sono stato eletto parlamentare, con una apposita scrittura privata, sono subentrato negli oneri.
Nell’Ugl i vicesegretari e i dirigenti nazionali potevano usufruire di appartamenti in affitto. Prima di questa casa sono stato per un anno in zona Montagnola e poi in zona Colli Portuensi».
Dei Colli Portuensi ci interessa poco. Fu lei a trovare la casa in zona Cortina d’Ampezzo, ben altre alture?
«Trovai l’abitazione grazie al consiglio di un dirigente dell’Ugl. Rispetto all’altro vicesegretario dell’epoca, il mio appartamento costava 500 euro al mese in meno».
All’epoca si sapeva che l’ente avrebbe poi svenduto le case agli affittuari?
«Nel 2017 nessuna dismissione da parte dell’ente proprietario era in atto né si poteva immaginare, così come neanche si poteva immaginare che diventassi parlamentare l’anno successivo. E trovo strumentale insinuare un dubbio del genere!».
Poi però è diventato parlamentare...
«Sì. E appunto come ho detto, con apposita scrittura privata mi sono assunto gli oneri di conduzione. Il tutto in accordo con il segretario del sindacato, considerando che continuavo a rivestire comunque la carica di consigliere nazionale e che gli aspetti economici erano chiari. La natura della locazione era a uso promiscuo, parlare di subaffitto è totalmente improprio».
L’ente era a conoscenza di tutto?
«Lamia presenza nella casa è stata regolarmente denunciata dall’Ugl all’ente proprietario.
Quando siglai l’accordo con il sindacato, mi assunsi gli oneri dell’affitto così come confermato dal segretario e dalla scrittura privata in essere tra me e Ugl. La vicenda è talmente strumentale e faziosa che ho ritenuto di presentare una querela verso chiunque provi a diffamarmi. Nella querela ho depositato tutti i documenti del caso: accordo e bonifici».
Perché alla fine la casa è stata comprata dalla sua compagna e non lei?
«Enpaia ha allargato il diritto di acquisto ai conviventi. C’era questa possibilità e io e la mia compagna abbiamo optato per questa opzione, il mutuo è intestato anche a lei. Le regole di Enpaia lo consentivano. Tutto è avvenuto in maniera regolare. Basta andare a guardare le delibere del Cda dell’ente. Le dico di più. Quando Enpaia comunicò la dismissione nel comprensorio di via Cortina d’Ampezzo, la prima asta di vendita non andò a buon fine perché la delibera prevedeva che sarebbero dovute arrivare richieste di acquisto per il 50% dei fabbricati ma a scadenza del termine non si raggiunse la percentuale. Addirittura una parte dei condomini, tra i quali non di certo io, fecero un accesso agli atti a Enpaia perché ritenevano che il costo al metro quadrato degli appartamenti indicato nella perizia fosse troppo alto rispetto ai prezzi di mercato che ci sono in zona. Nonostante il ricorso, Enpaia ha tenuto gli stessi prezzi. Nessuna svendita, quindi».
Qualcuno parla di conflitto di interessi. Ma sono andato a controllare: i membri nominati dal ministero del Lavoro in Cda erano prima fino a ottobre 2022 Bruno Busacca, Caposegreteria del Ministro Poletti e nominato dallo stesso. E poi Massimo Fiorio, ex parlamentare del Pd nominato dal ministro Andrea Orlando pochi giorni prima delle elezioni?
«Le nomine le fanno i ministri e io non ho mai fatto alcuna nomina su Enpaia. Quando sono entrato nella casa e quando l’ho acquistata non avevo alcun ruolo di vigilanza e per giunta la categoria della Ugl coltivatori non è neanche presente nella costituzione dell’Enpaia e quindi non e presente nel cda, al quale sono presenti solo tre sindacati Cgil, Cisl e Uil».
Pensa che questa vicenda, che coinvolge anche il candidato del centrodestra alla presidenza, Francesco Rocca, possa avere effetti negativi sulla campagna elettorale nel Lazio?
«C’è un’aria molto buona per il centrodestra. Purtroppo quando questo succede, nella sinistra alcuni non perdono occasione per fare polemiche. Si vuole spostare l’attenzione della campagna elettorale in gossip e non sui temi. Si dimenticano di alcune condanne e attaccano Rocca per vicende familiari. Ma questo non sposterà un voto, i laziali vogliono il cambiamento».
Come intendete realizzare questo cambiamento?
«Nel programma della Lega c’è una sanità più equa e che dia risposte alle liste d’attesa infinite e ai pronto soccorso dimenticati. Ripartiremo dalla medicina del territorio, aprendo nuovi nosocomi anziché chiuderli come hanno fatto Zingaretti e D’Amato».
Oltre alla Sanità, Roma sembra avere un insolubile problema di immondizia...
«Sui rifiuti l’obiettivo è chiudere il ciclo, realizzando nei più brevi tempi possibili il termovalorizzatore che serve a Roma. Poi c’è la sicurezza, altro tema fondamentale come dimostrano i casi di Alatri e di Ostia. E finalmente potremo far ripartire le infrastrutture. Non se ne fanno da anni. Grazie a Salvini verrà sistemata la Salaria e realizzeremo la Roma-Latina e la Cisterna-Valmontone, senza parlare degli interventi sul porto di Civitavecchia».
Caso Metropol, Lega all’attacco: adesso intervenga il Copasir. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.
Ricostruzioni e accuse sulla cena di Mosca. Salvini: noi infangati da una bufala. Borghi: «Adesso scopriamo che alla famosa riunione del 18 ottobre 2018 c’è almeno un ufficiale delle “spie” del Cremlino»
Copasir, Ordine dei giornalisti, magistratura. Il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa, chiede interventi a tutti i livelli contro il «trappolone» al centro dell’inchiesta che da alcuni giorni tiene la prima pagina del quotidiano La Verità : quello che sarebbe stato ordito, tra gli altri, dall’avvocato Gianluca Meranda, uno dei partecipanti alla cena del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca per trattare l’acquisto (mai concretizzato) di prodotti petroliferi. L’inchiesta giudiziaria, chiusa con l’archiviazione lo scorso 27 aprile, ipotizzava che una percentuale del prezzo di acquisto fosse destinata alle casse della Lega. Ma La Verità si spinge a ricostruire la deliberata intenzione di Meranda e del giornalista allora all’Espresso Giovanni Tizian di incastrare il partito di Salvini. Oltre che a confermare la presenza tra i commensali della cena del Metropol di Andrey Yuryevich Kharchenko, un esponente del servizio segreto russo Fsb.
E ieri è intervenuto per la prima volta lo stesso Matteo Salvini: «Una bufala. Una sòla, come si dice a Roma. Spiace che per anni un mix di magistratura, politica e giornalismo di sinistra abbia infangato non Matteo Salvini e la Lega ma tutta l’Italia sul nulla». La speranza del leader leghista è che «qualche giudice apra un occhio e un’inchiesta e spero che giornalisti e politici che pare siano stati complici in questa enorme messinscena paghino per l’errore commesso». Secondo il suo vice, Andrea Crippa, «la macchinazione anti-Lega all’hotel Metropol per lanciare una indegna campagna di fango si arricchisce di nuovi dettagli, con presenza di massoneria ed esponenti di sinistra tra cui un ex parlamentare pd. Il silenzio della sinistra e dei suoi giornali è indecente: anni di fango, calunnie, insinuazioni contro uno dei principali partiti italiani alla vigilia del voto». Il riferimento al parlamentare del Pd è per l’ex deputato dem Khalid Chaouki, che ben conosceva Meranda.
Insomma secondo un salviniano doc si tratta di «una boccata di ossigeno che rompe la narrazione di questi anni e che ha messo la Lega sotto una luce equivoca». I leghisti sembrano interessati anche a un possibile ruolo dei Servizi italiani. Lo dice il deputato Claudio Borghi: «Al Copasir, di cui sono membro, ascolteremo Alfredo Mantovano, che ha la delega per gli 007 dalla premier, e gli chiederò se i nostri Servizi sanno qualcosa di tutta questa storia del Metropol». Perché, a distanza di anni, «adesso scopriamo che alla famosa riunione del 18 ottobre 2018 c’è almeno un ufficiale delle “spie” di Mosca. Curioso, la trama potrebbe essere capovolta». Nel senso che sarebbe emersa «una trappola costruita apposta per tagliare la strada al Carroccio, anche con la partecipazione di segmenti dei Servizi russi».
"Macchinazione per incastrare Salvini". L'esposto della Lega sul caso Metropol. Un'inchiesta giornalistica fornirebbe nuovi elementi per appurare cosa ci sarebbe stato dietro l'inchiesta Metropol, chiusa con l'archiviazione. Francesca Galici il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.
La Lega ha dato mandato ai propri legali di presentare un esposto in procura e di procedere in tutte le sedi "per ripristinare la verità e tutelare le proprie ragioni, dopo la sconcertante inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro". L'inchiesta sul famigerato hotel Metropol è stata archiviata definitivamente lo scorso aprile e oggi la Lega, in ragione dei nuovi elementi emersi dall'inchiesta giornalistica, ha deciso di andare fino in fondo. "Un faccendiere scriveva, parlava, registrava, cercava in tutti i modi di tirare in ballo la Lega e poi passava tutto all'amico giornalista che confezionava gli articoli per la felicità della sinistra e dei suoi giornali", scrive ancora il Carroccio nella sua nota, sottolineando quanto rilevato dall'inchiesta del quotidiano di Belpietro: "I due (faccendiere e giornalista) si parlavano spesso, si incontravano, addirittura si erano recati a Mosca insieme. Non una inchiesta, quindi, ma una macchinazione per incastrare i rivali politici".
Comprensibile la rabbia della Lega, che parla di "uno scandalo" e di una "macchinazione che ha inquinato la nostra democrazia e il dibattito pubblico". Con i nuovi elementi, il partito "si aspetta interventi chiari dalla politica, dalla magistratura, dall'ordine dei giornalisti e dai commentatori che per anni hanno rovesciato fango". La vicenda dell'hotel Metropol è stata molto dibattuta negli scorsi anni e vedeva al centro tre italiani e tre russi accusati di corruzione internazionale, perché nel 2018 avrebbero trattato un ingente affare petrolifero. Dell'incontro fu reso pubblico anche un audio e venne aperta una inchiesta, che si è poi chiusa il 27 aprile con una archiviazione. A registrare l'appuntamento fu uno dei partecipanti, Gianluca Meranda che diede, secondo La Verità, l'audio al giornalista Giovanni Tizian, allora all'Espresso, che sarebbe suo amico. Sullo stesso volo andarono a Mosca il 17 ottobre 2018, il giorno prima dell'incontro, e diversi sono i faccia a faccia fra i due.
Gli europarlamentari della Lega Marco Zanni, presidente gruppo Id, e Marco Campomenosi, capo delegazione Lega, in una nota esprimono tutta la rabbia per quanto accaduto: "Anni di bugie, invenzioni e illazioni, affiancati da un ingente spreco di risorse pubbliche, tempo ed energie per inseguire fantasmi russi e al solo fine di colpire Matteo Salvini e la Lega". L'inchiesta de L'Espresso viene definita "una caccia alle streghe in cui la sinistra ha coinvolto persino le istituzioni Ue, in primis il Parlamento Europeo con la commissione speciale sulle ingerenze, strumentalizzate solo per attaccare la Lega, mentre sotto il loro naso c'era chi nascondeva sacchi di banconote dal Qatar".
Adesso i tempi maturi per chiedere che venga fatta giustizia a ogni livello: "Daremo battaglia per denunciare tutti i responsabili di questo scandalo senza precedenti che ha inquinato la democrazia in Italia ed Europa. Ci aspettiamo una ferma condanna da parte della politica; e chi in questi anni ha prestato il fianco a questa campagna disgustosa chieda scusa". Alla loro voce si aggiunge quella dei capigruppo della Lega di Senato e Camera, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari: "Nessuno si illuda di poter insabbiare una vicenda che ha inquinato la nostra democrazia. Dall'Ordine dei giornalisti alle Procure, dal Parlamento fino alle più alte istituzioni europee: faremo di tutto per denunciare quanto accaduto per infangare Salvini alla vigilia del voto".
«L’inchiesta Metropol? Contro la Lega una vera e propria macchinazione». Il Carroccio ha deciso di presentare un esposto in procura «per ripristinare la verità e tutelare le proprie ragioni». Il Dubbio il 3 giugno 2023
«La Lega ha dato mandato ai propri legali di presentare un esposto in Procura e di procedere in tutte le sedi per ripristinare la verità e tutelare le proprie ragioni, dopo la sconcertante inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro: la vicenda dell'hotel Metropol di Mosca - scrive oggi il giornale - è stata una macchinazione costruita a tavolino per colpire il partito e il leader Matteo Salvini (ai tempi vicepremier e ministro dell'Interno) alla vigilia delle ultime elezioni Europee». E' quanto si legge in una nota del partito che cita un articolo del quotidiano dal titolo “Le trame russe dell'Espresso per incastrare Salvini e la Lega”.
«Altro che scoop: un faccendiere scriveva, parlava, registrava, cercava in tutti i modi di tirare in ballo la Lega e poi passava tutto all'amico giornalista che confezionava gli articoli per la felicità della sinistra e dei suoi giornali - sostengono dalla Lega -. I due (faccendiere e giornalista) si parlavano spesso, si incontravano, addirittura si erano recati a Mosca insieme. Non una inchiesta, quindi, ma una macchinazione per incastrare i rivali politici. Il tutto è stato annotato dalla Guardia di Finanza e riportato con evidenza da La Verità di oggi. E' bene ricordare che, dopo anni, i giudici hanno già stabilito l'assenza di passaggi di denaro dalla Russia o di reati a carico della Lega».
«Ora, queste rivelazioni offrono nuovi spunti che, ne siamo certi, saranno di grande interesse giudiziario. Siamo di fronte a uno scandalo, a una macchinazione che ha inquinato la nostra democrazia e il dibattito pubblico - si conclude -: la Lega si aspetta interventi chiari dalla politica, dalla magistratura, dall'ordine dei giornalisti e dai commentatori che per anni hanno rovesciato fango».
Dagospia il 3 giugno 2023. Nota della Lega
La Lega ha dato mandato ai propri legali di presentare un esposto in Procura e di procedere in tutte le sedi per ripristinare la verità e tutelare le proprie ragioni, dopo la sconcertante inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro: la vicenda dell’hotel Metropol di Mosca - scrive oggi il giornale - è stata una macchinazione costruita a tavolino per colpire il partito e il leader Matteo Salvini (ai tempi Vicepremier e Ministro dell’Interno) alla vigilia delle ultime elezioni Europee.
Altro che scoop: un faccendiere scriveva, parlava, registrava, cercava in tutti i modi di tirare in ballo la Lega e poi passava tutto all’amico giornalista che confezionava gli articoli per la felicità della sinistra e dei suoi giornali. I due (faccendiere e giornalista) si parlavano spesso, si incontravano, addirittura si erano recati a Mosca insieme. Non una inchiesta, quindi, ma una macchinazione per incastrare i rivali politici. Il tutto è stato annotato dalla Guardia di Finanza e riportato con evidenza da La Verità di oggi.
È bene ricordare che, dopo anni, i giudici hanno già stabilito l’assenza di passaggi di denaro dalla Russia o di reati a carico della Lega. Ora, queste rivelazioni offrono nuovi spunti che - ne siamo certi - saranno di grande interesse giudiziario. Siamo di fronte a uno scandalo, a una macchinazione che ha inquinato la nostra democrazia e il dibattito pubblico: la Lega si aspetta interventi chiari dalla politica, dalla magistratura, dall’ordine dei giornalisti e dai commentatori che per anni hanno rovesciato fango.
Ps: il direttore che aveva consentito la pubblicazione delle trame contro Salvini, Marco Damilano, è stato poi promosso in Rai dalla sinistra. Ci aspettiamo parole inequivocabili anche da parte sua.
Così una nota della Lega.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 3 giugno 2023.
Quattro anni fa l’allora direttore dell’Espresso Marco Damilano aveva paragonato l’inchiesta sul Metropol portata avanti dai suoi cronisti nientemeno che al Watergate. Stiamo parlando, per chi non lo ricordasse, del celebre o famigerato (dipende dai punti di vista) «scoop» sulla presunta trattativa tra emissari del Carroccio e oscuri personaggi russi, legati al mondo putiniano, per far arrivare rubli alla Lega grazie a una compravendita di petrolio a prezzo scontato.
Due segugi del settimanale avevano raccontato di essere riusciti a seguire le contrattazioni in tempo reale e di aver persino messo le mani sulla registrazione di uno degli incontri. Un’esclusiva che all’epoca fece il giro del mondo e portò all’apertura di un’inchiesta per corruzione internazionale presso la Procura di Milano. Con quegli articoli e con un tomo a essi collegato (Il libro nero della Lega) media e politica cercarono di mettere in difficoltà Matteo Salvini alla vigilia delle Europee.
L’annotazione della Gdf
Oggi che il fascicolo penale è stato archiviato, la storia di questa parodia del Watergate va probabilmente riscritta alla luce di un’informativa del nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano, datata luglio 2020, che La Verità ha visionato in esclusiva.
Un’annotazione che getta una luce sinistra sull’intera inchiesta giornalistica del settimanale, all’epoca di proprietà della famiglia di Carlo De Benedetti. Ricordiamo che lo stesso editore nel 2020 ha fondato il quotidiano Il Domani e ha assunto nel suo nuovo giornale proprio il principale autore degli articoli sul Metropol.
Scrivono nel 2020 le Fiamme gialle: «Dagli accertamenti svolti […] sono emerse tracce di contatti telefonici e di incontri intercorsi nel periodo d’interesse investigativo (2018/2019) tra uno degli indagati, Gianluca Meranda, e uno dei giornalisti firmatari dello scoop da cui ha tratto origine l’indagine, Giovanni Tizian (oggi al Domani, ndr)».
Il cinquantatreenne calabrese Meranda, in quel momento, non è un indagato qualunque, bensì l’uomo che, come vedremo, aveva consentito che nascesse il cosiddetto caso Metropol, con dichiarazioni mirate ai giornali e registrazioni autoaccusatorie.
Sul suo iPhone X gli investigatori avevano rinvenuto «alcune fotografie risultate sostanzialmente sovrapponibili a quelle pubblicate su L’Espresso a margine degli articoli a firma dello stesso Tizian». I due autori, Tizian e Stefano Vergine, hanno raccontato ai magistrati di aver lavorato per mesi e di essersi recati personalmente al Metropol dove si sarebbe svolta la famosa trattativa per vendere oro nero con lo sconto all’Eni così da consentire agli emissari della Lega di realizzare una robusta cresta.
Ma non hanno mai voluto raccontare chi gli abbia consigliato di recarsi nell’albergo, o chi gli abbia consegnato l’audio del negoziato, lo stesso consegnato da Vergine ai magistrati di Milano che, con la notizia di reato a disposizione, hanno potuto iscrivere sul registro degli indagati i tre convitati italiani del Metropol con l’accusa di corruzione internazionale.
Sono finiti così sotto inchiesta, oltre a Meranda, il sessantaseienne bancario toscano in pensione Francesco Vannucci e l’ex portavoce di Matteo Salvini, il cinquantanovenne ligure Gianluca Savoini, già fondatore dell’associazione culturale Lombardia-Russia. Una strana combriccola che in gran fretta i giornali progressisti incolparono di quasi tutto, tranne che dell’11 settembre.
[...] Tre personaggi un po’ misteriosi che, però, a parte Savoini, con la Lega c’entravano poco e avevano in comune tra di loro solo l’affare del petrolio. Nell’istanza di archiviazione per i presunti mariuoli la Procura di Milano ci ha fatto sapere che a registrare le voci del Metropol era stato con tutta probabilità proprio Meranda. E allora un terribile dubbio ha iniziato a ronzarci nella testa.
Il sospetto di un complottone di cui, però, non ci erano chiari i contorni. Che ci sono apparsi netti quando abbiamo potuto compulsare l’annotazione di oltre seicento pagine che la Finanza, come detto, aveva trasmesso alla Procura di Milano già nel luglio del 2020. Con grande sorpresa abbiamo scoperto che Tizian, il presunto Bob Woodward italiano, aveva conosciuto Meranda ben prima dell’incontro del Metropol e si era visto con lui diverse volte prima della pubblicazione dell’inchiesta.
Nell’informativa si fa riferimento a una «conoscenza diretta» e a «frequentazioni tra Meranda e Tizian, risalenti quantomeno al luglio 2018». Cioè tre mesi prima della riunione moscovita. Nell’agenda del cellulare dell’avvocato «risultano registrati 14 promemoria di appuntamenti con Tizian nel periodo dal 25 luglio 2018 al 24 giugno 2019».
In un solo caso, il 30 gennaio 2019, probabilmente in vista dell’uscita del libro, compare anche il nominativo dell’altro giornalista, Vergine. Una notizia che per i militari avvalora «la tesi» che Tizian e Meranda «fossero in contatto diretto nel pieno dello sviluppo degli accadimenti oggetto d’indagine (e anche dopo)».
[...] Alcuni appuntamenti non sarebbero casuali, ma «risultano fissati proprio in prossimità o a cavallo di eventi di interesse investigativo, di per sé compatibili con la rendicontazione da parte di Meranda degli sviluppi degli accordi politici e delle trattative petrolifere». Per esempio il primo incontro, quello del 25 luglio 2018, «è immediatamente prossimo a importanti sviluppi degli embrionali accordi e delle trattative commerciali oggetto d’inchiesta giornalistica e, quindi, d’indagine, contestualizzabili tra il 10 e il 24 luglio 2018».
In quest’ultima data Meranda riceve, via mail, una bozza di offerta commerciale dalla russa Avangard gas and oil company, documento che verrà successivamente pubblicato sull’Espresso del 24 febbraio 2019, dove si darà conto anche di questa trattativa abortita, tirando in ballo Savoini e non l’avvocato calabrese. Centrale per gli investigatori e per la nostra controinchiesta è il promemoria del 16 ottobre 2018 dell’appuntamento, calendarizzato da Meranda, con Tizian presso il proprio ufficio («stanza GM»), tra le 16 e le 17.
I finanzieri evidenziano: «La data della riunione è immediatamente prossima alla partenza di Meranda e Tizian per Mosca, con lo stesso volo Alitalia», decollato da Roma Fiumicino il 17 ottobre 2018. Un viaggio «propedeutico» all’incontro del Metropol, «oggetto d’inchiesta giornalistica e, quindi, d’indagine». Cioè, per chi non lo avesse ancora capito, poche ore prima di animare (e registrare) il summit moscovita Meranda ha incontrato Tizian nel proprio studio.
Poi i due sono partiti per la Russia con il medesimo aereo. Uno sedeva al posto 6C e l’altro al 7B. Che cosa si saranno detti Meranda e Tizian prima di volare a Mosca? Fatto sta che due giorni dopo Meranda si registra, pronuncia alcune delle frasi più compromettenti al tavolo, fa il riassunto dell’accordo, lo trascrive sulla sua agenda, lo fotografa e lo invia agli altri partecipanti. Insomma è lui a inguaiare tutti i presenti.
Pronunciando parole come queste: «Non è una questione professionale, ma politica». Oppure: «L’affare non serve per arricchirsi, ma per sostenere una campagna politica, che è di beneficio, di reciproco vantaggio, per entrambi i Paesi coinvolti (Italia e Russia)». Fa riferimento anche a una «soglia (di sconto, ndr) pattuita dai nostri politici (“our political guys”)». Altra data significativa è il 21 dicembre 2019.
Quel giorno Meranda ha fissato l’appuntamento con Tizian tra le 17 e le 18. Alle 17:34, probabilmente con il giornalista di fronte, invia una mail a una referente della società multinazionale Interfax «specializzata nella raccolta di informazioni su imprese e imprenditori in Russia» e inserisce «in copia conoscenza l’indirizzo di posta elettronica di Tizian».
Scrive: «Ciao Kate, Giovanni Tizian potrebbe aver bisogno dell’assistenza della tua azienda. Giovanni - Kate è una professionista molto simpatica. Puoi metterti in contatto direttamente senza bisogno di tenermi in copia». I finanzieri annotano anche un altro particolare di non poco conto: «Dalla disamina delle proprietà del file audio consegnato dal giornalista Stefano Vergine ai pubblici ministeri titolari delle indagini in data 19 giugno 2019, contenente la registrazione della conversazione dell’incontro all’hotel Metropol […] si rileva che la data di ultima modifica è quella del 22 dicembre 2018, ore 11:53. Esattamente il giorno dopo l’appuntamento tra Meranda e Tizian».
La chiavetta, dunque, potrebbe essere stata consegnata ai giornalisti quasi come un regalo di Natale. La riunione del 23 febbraio 2019 è, invece, «immediatamente prossima alla diffusione dell’articolo intitolato “Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega”», servizio «distribuito in edicola in 24 febbraio». Il giorno dopo esce, invece, Il libro nero della Lega che contiene un capitolo sulla vicenda del Metropol.
I primi pezzi sono illustrati anche con foto che sarebbero state realizzate dallo stesso Meranda, il quale in alcuni messaggi «ne assume la paternità». [...] Le immagini sarebbero state scattate a Mosca il 6 giugno, il 28 agosto e il 13 dicembre 2018 e raffigurano alcuni dei luoghi dove si sarebbero svolte le trattative per l’acquisto del petrolio.
Per i magistrati sono gli stessi scatti pubblicati sui numeri dell’Espresso del 24 febbraio e del 3 marzo 2019. [...] Nei giorni successivi all’uscita del servizio del 3 marzo («La lunga trattativa di mister Lega»), Meranda invia tramite Whatsapp sia il nuovo «scoop» del settimanale che il capitolo del libro che lo riguarda a suo fratello Giuseppe, a un colonnello della Guardia di finanza e a un dirigente di Leonardo.
L’articolo è trasmesso anche a un albergatore in pensione, con un precedente di tentata estorsione e un ruolo da ambasciatore dell’Ordine di Malta. Gli incontri tra Tizian e Meranda proseguono: uno a marzo (il 6), ben tre ad aprile (7-17-29), uno a maggio (23) e due a giugno (14-24), a cavallo della consegna dell’audio alla Procura di Milano (19 giugno).
I due si scambiano pochissime telefonate (sulla linea normale solo tre, in concomitanza con gli incontri) e nessun messaggio, ma dall’annotazione apprendiamo che almeno in tre occasioni Meranda, su Whatsapp, descrive Tizian come un suo amico. Più precisamente «vecchio amico», «a friend of mine» e «amico caro». Leggiamo. Il 18 luglio 2018, alla vigilia del primo incontro nel suo studio, Meranda commenta l’articolo di Tizian e Vergine che gli aveva inviato una leghista di Formello, allora coordinatrice locale (il servizio si intitolava «Matteo Salvini ha fondato un altro partito: e quindi dovrebbe essere espulso dalla Lega»).«Si, avevo letto (Giovanni Tizian è un vecchio amico)» fa sapere.
[...] Il 23 maggio, data dell’ennesimo appuntamento con il cronista, l’avvocato cosentino manda un messaggio a un magistrato originario della stessa provincia, Paolo Guido (l’aggiunto della Procura di Palermo che ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro): «Ciao Paolo, un amico caro dell’Espresso vorrebbe mettersi in contatto con te». Anche in questo caso Meranda inoltra il numero di Tizian. Gli investigatori non riferiscono se Guido abbia risposto o incontrato il giornalista.
Quel che pare certo è che Tizian, in una delle occasioni in cui si sarebbe visto con Meranda, avrebbe convinto quest’ultimo a fargli da intermediario per entrare in contatto con un importante magistrato. Le Fiamme gialle hanno trovato traccia sul telefonino dell’ex indagato anche di tre chiamate Whatsapp della durata di alcuni minuti, tutte risalenti alla prima decade del luglio 2019.
«Le ultime due, dell’11 luglio 2019, ricadono in un momento essenziale per lo sviluppo delle indagini» puntualizzano i finanzieri. Infatti il giorno prima, il 10 luglio, il sito americano di news online Buzzfeed aveva pubblicato stralci dell’audio del Metropol e l’11 luglio le principali agenzie di stampa avevano annunciato l’avvio di indagini da parte della Procura della Repubblica di Milano, rese attuali dalla diffusione della registrazione. Sempre su WhatsApp risultava attiva una conversazione, priva di messaggi.
«Anche quest’ultimo evento datato, 17 luglio 2019 (ore 00:55), ricade in un momento essenziale per lo sviluppo delle indagini» appuntano gli investigatori. Infatti, il 16 luglio, alle 9:45, Meranda aveva ricevuto l’avviso di garanzia con l’invito a rendere interrogatorio. Poche ore dopo gli inquirenti avrebbero sottoposto il legale a perquisizione e al sequestro dei dispositivi elettronici, cellulare compreso. Un’escalation scatenata non solo dalla diffusione dell’audio, ma anche dalla decisione di Meranda di venire allo scoperto a livello mediatico, confermando di essere uno dei partecipanti all’incontro del Metropol di cui Buzzfeed aveva messo in Rete la registrazione.
Un’uscita che rese la notizia ancora più succulenta. La cosa curiosa è che Meranda scelse per confermare la storia un giornale dello stesso gruppo dell’Espresso. Un incomprensibile autogol. Dopo quella lettera, il 13 luglio 2019, Tizian e Vergine, come se non avessero confidenza con l’avvocato, gli inviarono una mail con questo oggetto: «Urgente// Richiesta di commento per il settimanale l’Espresso». Nel formulare le domande i giornalisti si rivolgevano a Meranda dandogli del «lei».
[...] L’ex indagato aveva salvato su telefonino l’indirizzo Gmail di Tizian, ma questa volta il cronista, per la missiva, aveva usato quello di lavoro, che gli investigatori definiscono «istituzionale». All’interno del questionario spiccavano le domande su Francesco Vannucci, il terzo italiano presente al Metropol, in passato impegnato nel sindacato (Cisl) e in politica (con la Margherita), «la cui individuazione era ancora ignota agli atti d’indagine, a questa polizia giudiziaria e all’opinione pubblica».
Un questionario molto simile e anonimo è stato ritrovato tra le carte di Meranda, un documento che l’annotazione riconduce «all’interessamento di terzi (a rigor di logica giornalisti) per i fatti dell’hotel Metropol». Su quei fogli ci sono appunti scritti a margine da Meranda. Di questo tenore: «Sono un avvocato e non mi occupo di politica». Ma anche: «Nel mio studio c’e il primo Comitato Salvini Premier».
Sempre il 13 luglio, dall’indirizzo di Tizian, vengono spediti quesiti analoghi a Savoini. Una mossa che probabilmente serviva a evitare che Meranda fosse individuato come fonte dei cronisti. Anche se Tizian, di fronte ai magistrati, non ha potuto smentire i rapporti con l’ex indagato. «Come è avvenuta la conoscenza con Meranda?» gli chiedono il 9 febbraio 2021 gli inquirenti. Tizian: «Ci siamo conosciuti a una festa nel 2018 a Roma. Non ricordo dove fosse la festa, ma comunque è stato un incontro assolutamente casuale. Confermo di avere incontrato Meranda in alcune occasioni, il più delle volte presso il suo studio a Roma, altre volte in posti pubblici».
Pm: «Descriva i dettagli del suo soggiorno a Mosca a ottobre 2018». Tizian: «Sono partito da Roma il 17 ottobre 2018. Una volta sull’aereo ho scoperto di avere preso lo stesso volo del ministro Salvini. Insieme a Salvini ho notato il portavoce Paganella (Andrea, ndr). Davanti a me c’era Meranda. Preciso di non avere concordato con lui i dettagli del volo».
I magistrati sembrano avergli creduto. [...] Gli inquirenti domandano quando abbia saputo che la riunione era stata registrata. E il cronista risponde: «Non ricordo la data esatta, comunque diverse settimane dopo l’incontro del Metropol, forse a gennaio 2019, abbiamo ricevuto il file con la registrazione dalla nostra fonte, la cui identità non posso rivelare per proteggere il segreto professionale. La fonte ci ha chiesto di non pubblicare l’audio al fine di tutelarla il più possibile».
Ricapitoliamo: un avvocato massone e un giornalista diventano «cari amici». Il primo, molto trasversale nelle conoscenze, aveva contribuito alla nascita (nel gennaio 2018) di un comitato per Salvini premier dentro al suo studio, premurandosi, però, di non apparire nell’organigramma. Poi con un bancario, politicamente vicino alla Margherita, aveva deciso di diventare un procacciatore di finanziamenti illeciti per la Lega.
E mentre trafficava in questo modo raccoglieva materiale che sarebbe stato divulgato nei mesi successivi sul giornale dell’«amico» giornalista, una testata nemica del Carroccio. A quanto pare, però, Meranda si era raccomandato di non rendere pubblico l’audio del Metropol. Quando esplode il caso, Salvini non solo non perde consensi, ma stravince le Europee.
E allora che cosa fanno i giornalisti? Portano la registrazione del loro «agente provocatore» in Procura e, dopo che è stato depositato in Tribunale, il file finisce su un canale di news statunitense (l’articolo viene firmato da un italiano). Forse è l’unico modo per far circolare la notizia a livello internazionale, mantenendo, almeno apparentemente, la parola data a Meranda. Chissà che cosa sarebbe successo se una simile operazione «giornalistica» fosse stata orchestrata da una testata riconducibile all’area moderata. Non vogliamo neanche provare a immaginarlo.
Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 4 giugno 2023.
Il caso Metropol assomiglia sempre di più a una matrioska che ogni giorno riserva una sorpresa. Nella bambolina di ieri abbiamo trovato la notizia che un giornalista dell’Espresso, Giovanni Tizian, l’autore del Libro nero della Lega, era in stretti rapporti con l’avvocato massone Gianluca Meranda che ha portato avanti la trattativa per la compravendita di petrolio russo denunciata dallo stesso cronista.
Ma oggi, aprendo la seconda bambolina, scopriamo che il 18 ottobre 2018, al Metropol, c’erano anche degli agenti dei servizi segreti russi. Ma non erano nascosti dietro a una colonna a controllare quel che accadeva. No, travestiti da petrolieri erano seduti proprio di fronte a Meranda, all’ex portavoce di Salvini Gianluca Savoini e a bancario toscano in pensione Francesco Vannucci. Una notizia clamorosa che fa capire come sotto le volte imponenti e stuccate di quel capolavoro di stile art nouveau che è il Metropol, si è giocata una partita che appare ogni giorno più oscura e incomprensibile.
Perché gli 007 di Mosca dovevano, sotto mentite spoglie, ingolosire con proposte indecenti i presunti rappresentanti del Carroccio e dell’allora vicepremier Matteo Salvini? Volevano mettere sotto scacco e rendere ricattabile il più importante partito sovranista europeo e il suo leader?
Sapevano che Meranda aveva al seguito due giornalisti o non si erano accorti di nulla? Fatto sta che la trattativa è tramontata quasi subito, ma ha permesso di realizzare un’inchiesta giornalistica che nel 2019 ha fatto tremare la Lega.
Il 18 ottobre 2018, a due passi da Bolshoi e dal Cremlino, forse l’unico che non sta facendo il doppio gioco è il presidente dell’associazione Lombardia-Russia, Savoini. Probabilmente è lì perché spera di fare affari con i russi. Ma i suoi interlocutori lo corteggiano solo perché è considerato vicino al vicepremier italiano, in quelle ore in visita a Mosca.
E anche i due giornalisti dell’Espresso, Tizian e Stefano Vergine, lo pedinano per questo. Cronisti che a quel tavolo hanno piazzato una loro gola profonda e, forse, «agente provocatore», Meranda appunto. Ma la cosa più inquietante è che a guardare Savoini negli occhi e a parlare con lui di finanziamenti illeciti in rubli ci siano gli uomini del Fsb, l’ex Kgb, il Servizio federale per la sicurezza. Uno di loro sarebbe addirittura un pezzo da novanta dell’agenzia russa.
Nelle carte della Procura di Milano è entrato un documento ufficiale, accompagnato da uno «riservato» dei nostri apparati di intelligence. Nell’atto «non classificato» si legge che «Andrey Yur’yevich Kharchenko, nato l’11 marzo 1980, è un noto ufficiale dell’Fsb.
Alcune delle attività di Kharchenko sono state identificate come simili a quelle degli ufficiali dei servizi segreti russi impegnati in misure attive». La velina è accompagnata da una nota dei vertici dei nostri apparati di intelligence.
Gli inquirenti meneghini il 22 ottobre 2019 avevano inviato un ordine di esibizione ai nostri servizi con cui chiedevano informazioni sui russi presenti al Metropol. […] Il 3 marzo 2020 arriva la tanto attesa risposta dei nostri apparati: « […] Kharchenko è un noto officer del Federalnaya sluzhba bezopasnosti (Fsb), per conto del quale svolge anche misure attive». Nella nota viene anche specificato che con il termine «misure attive» «vengono definite le attività di influenza, ingerenza, propaganda e disinformazione poste in essere da funzionari dei servizi di intelligence russi».
Dunque l’uomo che al Metropol aveva trattato una colossale commessa di petrolio sarebbe, secondo un importante «collaterale estero» dei nostri servizi (verosimilmente la Cia), un agente russo specializzato in ingerenza, propaganda e disinformazione. Conviene anche ricordare che quando, nel maggio dell’anno scorso, Salvini cercò di organizzare un viaggio a Mosca per discutere un piano di pace al Cremlino, un altro personaggio controverso, l’ex parlamentare del Pdl e avvocato Antonio Capuano, aveva ottenuto il fattivo supporto di Oleg Kostyukov, primo segretario dell’ambasciata russa, ma soprattutto figlio di Igor Olegovic Kostyukov, ex direttore del Gru (letteralmente Direttorato principale per le attività informative offensive), il Servizio segreto militare russo.
Kostyukov senior è sottoposto alle sanzioni occidentali per una presunta interferenza nelle elezioni americane del 2016, per l’avvelenamento di una ex spia russa e della figlia in territorio britannico e per gli attacchi informatici al Bundestag tedesco e all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.
Il figlio Oleg (che secondo un sito di giornalismo investigativo avrebbe intestati immobili del valore di milioni di euro), il 27 maggio 2022, per sbloccare la trasferta in Russia di Salvini, avrebbe acquistato personalmente i biglietti dell’Aeroflot, che Capuano avrebbe successivamente rimborsato. Ma ritorniamo nel vecchio salone da ballo del Metropol. Che ruolo ha avuto il quarantatreenne Kharchenko in questa storia? Probabilmente centrale.
Sembra infatti il perno intorno a cui si è sviluppata la trattativa. Tra il 27 e il 30 agosto 2018 Meranda, Vannucci e Savoini si recano a Mosca per alcune riunioni. Nel pomeriggio del 28 i tre entrano in un elegante palazzo di Mosca, di cui Meranda fotografa la facciata esterna. Uno scatto che comparirà sulle pagine dell’Espresso il 24 febbraio 2019. L’avvocato realizza anche altre istantanee. Che finiscono nelle mani degli uomini delle Fiamme gialle.
[…] Le Fiamme gialle citano anche i messaggi Whatsapp intercorsi tra Meranda e Kharchenko lo stesso giorno, poche ore prima dell’appuntamento. Nel primo sms delle ore 14:24 il russo si presenta («Hello è Andrew»). Poco dopo, alle ore 16:39, «con ogni probabilità durante l’incontro», Meranda gli chiede ulteriori informazioni («Grazie Andrew.
Posso avere i tuoi riferimenti completi, per favore?»). La mattina dopo, Kharchenko invia il proprio biglietto da visita dove è definito «Direttore del dipartimento del Medio oriente» del Movimento internazionale euroasiatista, fondato nel 2001 dal filosofo e politologo Aleksandr Dugin. Subito dopo, alle ore 16:45, Meranda inoltra il cartoncino di Kharchenko a Savoini.
[…] Nella propria agenda Moleskine di colore lilla Meranda riassume l’incontro presso lo studio legale moscovita: «Pligin verrà in Italia a fine settembre (anche se è nella lista degli embargati). Non bisogna toccare il Papa, perché i valori vanno salvati a prescindere. Parlerà con GMSMOV». Ma la parte più sorprendente dell’appunto non riguarda Pligin: «Karcenko (sic), fondo da Usd 100 mln nel campo delle Tecnologie agroalimentari (grano e mais)». Insomma Meranda attribuisce la titolarità/riconducibilità di un fondo da 100 milioni di dollari al presunto agente segreto.
I giornalisti del sito americano di news Buzzfeed hanno raccolto alcune interessanti informazioni su Kharchenko: «Ha viaggiato con Dugin in numerosi viaggi all’estero, tra cui una visita nel novembre 2016 in Crimea per ospitare una delegazione turca che comprendeva un consigliere del presidente Recep Tayyip Erdogan. In quel viaggio, Kharchenko ha utilizzato un passaporto di servizio, un documento generalmente consegnato ai dipendenti del governo o dello Stato». Un dettaglio che non stride con il supposto incarico all’interno dei servizi segreti.
Il sito prosegue: «Kharchenko è stato citato dai media russi come un impiegato del gruppo politico di estrema destra di Dugin, il Movimento internazionale euroasiatista. Ma altri dettagli sollevano interrogativi su cosa faccia esattamente Kharchenko per vivere. Il suo nome non si trova da nessuna parte sul sito Web dell’organizzazione e, secondo due fonti che hanno accesso alle informazioni, il suo cassetto fiscale degli ultimi cinque anni è vuoto, non mostra entrate ufficiali». In pratica un fantasma. Ben radicato, però, nella nostra storia.
Anche i finanzieri ricordano, «per inciso», nella loro informativa, che «Kharchenko è uno dei tre russi che siedera al tavolo dell’hotel Metropol il 18 ottobre 2018 in occasione della famosa riunione con Savoini, Meranda e Vannucci oggetto di audio-registrazione e successiva divulgazione mediatica».
[…] Al meeting prenderà parte anche Ilia Andreevich Yakunin. E chi è costui? A presentarlo a Meranda è proprio Kharchenko. Il 5 settembre 2018 il presunto 007 russo, tramite Whatsapp, scrive: «Il suo nome è Ilia Yakunin». E allega indirizzo di posta elettronica, numero di telefono fisso e mobile dell’uomo.
Sull’iPhone X di Meranda e memorizzato il biglietto da visita di Yakunin, in cui è indicata la carica di «vicedirettore generale» dell’Eurasian trade and logistic centre Llc di Mosca. Per Buzzfeed, Yakunin sarebbe strettamente legato a Pligin
[…] Il 13 dicembre 2018 Meranda si reca a Mosca senza Savoini e invita Yakunin per pranzo in hotel. Il russo accetta: «Ok. Sarò al Marriot alle 13». In realtà si vedono prima. Alle ore 10:49, Yakunin informa l’interlocutore di essere giunto nella hall e il legale calabrese fa sapere di essere in arrivo. Successivamente Meranda aggiorna Vannucci via chat: «Ho incontrato Ilia, il quale fa presente che non c’è stato un problema di sconto, ma di fattibilità che ancora non può essere confermata. In ogni caso non aveva aggiornamenti da darmi e mi ha detto di esserne dispiaciuto.
Gli ho fatto presente per l’ennesima volta che ci serve una semplice lettera di riscontro alla nostra richiesta a Rosneft, ma lui insiste che non la possono fare perché, anche se riscontrassero anche soltanto genericamente, vorrebbe dire che hanno preso in carico la nostra richiesta, cosa che non vogliono fare. Stop». La richiesta di cui si parla è stata inoltrata da Meranda alla compagnia petrolifera Rosneft il 29 ottobre e, successivamente, condivisa con Yakunin, Savoini e Kharchenko.
[…] Sei pagine che, poi, ovviamente sono finite sull’Espresso in un articolo sulla vicenda pubblicato il 21 luglio 2019. I giornalisti nelle stesse ore avevano inviato formali domande al loro «amico» Meranda: «Conosce llia Yakunin, anche lui presente quel 18 ottobre al tavolo del Metropol? Chi rappresentava Yakunin in quella situazione?».Nella trascrizione dell’audio gli investigatori sottolineano che è Yakunin, durante la discussione, a introdurre il tema dello sconto del 4 per cento, incrementabile al 5, «in modo da consentire la formazione di un ulteriore margine di profitto da riconoscere, stavolta, ai contatti presso le società fornitrici».
È sempre Yakunin che «alza ancora la posta e chiede a Meranda se, nel caso si riuscisse a ottenere lo sconto del 6% sul totale della fornitura, quanto di questo margine potrebbe essere destinato a loro, ossia agli intermediari/mediatori russi». Il tutto di fronte a Kharchenko che più che parlare, ascolta.
Anche se nei suoi rari interventi sembra interessato soprattutto al coinvolgimento diretto del «vice primo ministro» e del «premier», verosimilmente Salvini e Giuseppe Conte. Vuole che gli siano «date» le carte. Tra un invito e l’altro, Meranda, stimolato da Yakunin, pronuncia la frase clou, in cui ribadisce «la declinazione squisitamente politica» della trattativa: «Per cominciare: non e una questione professionale ma politica».
È una affermazione genuina o i due stanno recitando a soggetto?Nel 2019 avevamo svelato i rapporti di Meranda con una loggia riservata di Belgrado, legata alla vecchia nomenclatura serba e utile «viatico con la massoneria russa e i suoi gran maestri». È un caso che un personaggio del genere e uomini dei servizi segreti dell’ex impero sovietico si siano seduti allo stesso tavolo per pianificare quello che appare come un tentativo di sabotaggio della Lega? Possiamo solo affermare che Meranda risulta essere un grande appassionato di intelligence.
Come risulta dalla testimonianza agli atti dell’inchiesta dell’ex direttore dell’Aise Luciano Carta. Il quale, il 16 marzo 2021, ha riferito ai magistrati quanto segue: «Meranda? L’ho conosciuto in occasione di un incontro avuto con un ex parlamentare del Pd Khalid Chaouki con il quale stavo prendendo un caffè al circolo Tevere Remo. Era nell’autunno 2018, sicuramente prima del 21 novembre 2018, data in cui ho ricevuto per la prima volta un messaggio da Meranda».
Cioè stiamo parlando esattamente del periodo della vicenda del Metropol. Prosegue Carta: «All’improvviso era comparsa una persona che si era presentata come avvocato Meranda e che conosceva Chaouki. Io non avevo mai visto né sentito prima di allora Meranda. Quest’ultimo si presentò in modo del tutto inaspettato, scambiando qualche frase di cortesia e se ne andò. Non ricordo di avergli dato il mio recapito telefonico. In ogni caso, da quel momento in poi Meranda iniziò a mandarmi messaggi, anche in maniera insistente, in cui chiedeva di incontrarmi».
Una specie di stalker a cui Carta non avrebbe dato soddisfazione: «Sostanzialmente io cercavo educatamente di sottrarmi, e ciò si può rilevare nelle chat intercorse tra novembre 2018 e il 18 giugno 2019, quando mi chiese nuovamente di incontrarmi al circolo Tevere Remo […]. Dall’ennesima richiesta di Meranda a giugno 2019 non risposi più ai suoi messaggi, né lui mi cerco ancora». Proprio il 19 giugno di quattro anni fa i giornalisti dell’Espresso consegnarono la registrazione dell’incontro del Metropol alla Procura di Milano e l’inchiesta penale iniziò il suo lungo e sterile corso.
Marco Damilano, "non una sola parola": altra figuraccia, tutto torna. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 06 giugno 2023.
Ci fu un complotto per colpire la Lega alla vigilia delle elezioni europee del 2019? A chi dava fastidio all’epoca il suo 34 percento? E, soprattutto, chi voleva ricattare Matteo Salvini? Gli ultimi particolari sul caso “Metropol”, raccontati in questi giorni dalla Verità, stanno disvelando scenari quanto mai inquietanti al punto che i vertici di via Bellerio hanno ufficialmente chiesto ieri l’intervento del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Il sospetto, sempre più fondato, è che la sedicente inchiesta giornalistica dell’Espresso, allora diretto da Marco Damilano, e che determinò l’apertura di un procedimento penale poi archiviato, fosse stata in realtà pianificata a tavolino per affossare la Lega, mettere in crisi l’alleanza con il M5S, cosa che effettivamente avvenne dopo qualche mese, e favorire così il Partito democratico che aveva perso le elezioni politiche del 2018.
L’indagine della Procura di Milano era nata a seguito di un articolo del 24 febbraio 2019 sul settimanale del Gruppo Gedi, a firma Stefano Vergine e Giovani Tiziano, dal titolo: “Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega”. A quell’articolo ne era seguito un altro, “La lunga trattativa di mister Lega”, il 3 marzo successivo. I due articoli descrivevano i passaggi iniziali di una trattativa condotta nel 2018 dalla Lega con sedicenti emissari del governo russo per cercare di trasferire illecitamente, in vista della campagna elettorale per le elezioni europee del 2019, una provvista economica. «Soldi russi per i nazionalisti italiani del vicepremier Matteo Salvini (...) Al centro, uno stock di carburante (...) una compravendita grazie alla quale il Cremlino sarebbe in grado di rifocillare le casse del partito di Salvini alla vigilia delle europee del prossimo maggio», scrivevano i segugi dell’Espresso, adesso al Domani di Carlo De Benedetti.
TOH, L’USCITA DEL LIBRO
L’inchiesta giornalistica, con un tempismo quanto mai sospetto, finì subito all’interno del saggio “Il libro nero della Lega”, firmato sempre dai due giornalisti e commercializzato a partire già dal 28 febbraio 2019, appena quattro giorni dopo la pubblicazione del primo articolo. All’incontro incriminato, avvenuto il 18 ottobre 2018 presso l’hotel Metropol di Mosca, avevano partecipato il presidente dell’associazione LombardiaRussia Gianluca Savoini (che ieri ha ampiamente parlato su questo giornale), l’avvocato calabrese e massone Gianluca Meranda, l’ex bancario Francesco Vannucci e tre intermediari russi. Gli atti allegati all’inchiesta milanese, come detto archiviata lo scorso aprile in quanto non c’era stato alcun passaggio di denaro, hanno permesso di accertare che Me randa aveva agito come un agente provocatore dei giornalisti dell’Espresso, venendo compulsato telefonicamente nei giorni precedenti, e che gli intermediari russi seduti al tavolo del Metropol altro non erano che agenti del Kgb. «La nostra intelligence ha qualcosa da dire, anche alla luce del ruolo che aveva all’epoca Salvini, cioè vicepremier e ministro dell’Interno?», si legge in un comunicato della Lega. «Sconcertante», prosegue la nota del Carroccio, «il silenzio della politica e di alcuni dei principali media del nostro Paese. Questa operazione ha inquinato il dibattito politico e indebolito la nostra democrazia».
«Solleverò la questione nella sede opportuna, ovvero il Copasir, nel modo più opportuno vista la delicatezza del caso», ha annunciato Claudio Borghi, componente della Lega del Copasir. «Se un giornale prepara trappole per quello che allora era il leader del primo partito italiano in combutta con personaggi equivoci e servizi segreti stranieri è sicuramente», ha aggiunto Borghi, «una questione di sicurezza nazionale».
E I “GIORNALONI” ZITTI
Il primo a manifestare solidarietà a Salvini è stato ieri Silvio Berlusconi: «So bene cosa significhi subire processi politici e mediatici intentati quando non si riesce a sconfiggere l’avversario nelle urne e si preferisce farlo con la macchina del fango e quella giudiziaria. Sono sempre stato certo dell’onestà del mio amico Matteo», ha dichiarato Berlusconi. Sul silenzio dei giornali, ad iniziare da quelli del Gruppo Gedi che cavalcarono l’inchiesta per mesi, è intervenuta invece la senatrice Stefania Pucciarelli, capogruppo della Lega in Commissione esteri a Palazzo Madama. «Siamo di fronte ad una macchinazione giornalistica, aggravata dalla presenza di uomini legati a servizi stranieri», ha affermato».
(ANSA il 3 giugno 2023) - "Non c'è nessuna macchinazione. Se l'accusa è parlare con delle ipotetiche fonti, non vedo cosa ci sia da replicare.
Né la finanza, né la magistratura hanno indicato le nostre fonti ed è da cinque anni che La Verità titola sull'esistenza di fonti sempre diverse. La loro credibilità è questa".
Lo afferma Giovanni Tizian, giornalista ora al Domani e autore dell'inchiesta dell'Espresso sulla vicenda dell'hotel Metropol di Mosca, che, secondo la Verità, sarebbe stata realizzata ad arte per incastrare Matteo Salvini e La Lega.
"Detto questo, mi pare che il quotidiano ometta il fatto fondamentale - dice ancora Tizian all'ANSA -, e cioè che la trattativa c'è stata, che Savoini era seduto al Metropol e che il cappello introduttivo del summit con i russi è un cappello politico in cui dice che i sovranisti sono l'unico argine politico alle elite e agli illuminati di Bruxelles.
Quelle cose le dice Savoini, nessun altro. Questa è storia documentata, anche giudiziaria.
Nel decreto di archiviazione del pm, che in realtà è molto pesante, si certifica che Savoini ha detto quelle cose e che, come raccontato dall'Espresso e nel libro sulla Lega, ben prima del Metropol, Savoini aveva avviato altri canali per tentare di avere questi finanziamenti".
"E' dal 2018 che la Lega querela me, Stefano Vergine e L'Espresso - sottolinea ancora -. Le querele sono state archiviate, loro si sono opposti e il gip ha archiviato definitivamente, dicendo che era giornalismo d'inchiesta e che erano rispettati i tre elementi fondamentali: cioè verità, interesse pubblico e continenza, quella che in questo pezzo di oggi manca completamente".
"Ribadisco che non c'è nessuna macchinazione e che l'unico che dovrebbe ragionare su quello che ha fatto è Savoini - prosegue Tizian -. Forse anche Salvini dovrebbe farsi qualche domanda sulle persone a cui si è affidato. Ricordo che le nostre inchieste hanno portato all'apertura di un'indagine sulla Lombardia Film Commission, che è arrivata a condanna in primo grado, su Centemero, che è stato condannato in primo grado per finanziamento illecito, e, infine, sul Metropol". "In ogni modo non si va a caccia delle fonti di altri, penso sia sgradevole. Poi ognuno ha il suo metodo", conclude Tizian
Affare Metropol, nessun complotto. Salvini smentito da incontri e mail. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 6 giugno 2023.
l ministro ora parla di macchinazione ma gli atti della procura di Milano confermano che c’è stata la trattativa coi russi. Oggi il caso al Copasir
Sostiene dunque la Lega che la vicenda del Metropol - la trattativa per una compravendita milionaria di petrolio russo con la previsione di una percentuale per finanziare il partito, oggetto di un'indagine dei pm di Milano conclusasi con l'archiviazione - non sia solo "una sòla", bensì il frutto di un complotto ordito contro Salvini dall'avvocato cosentino Gianluca Meranda.
La vera storia del Metropol che la Lega prova a cancellare. GIOVANNI TIZIAN E STEFANO VERGINE su Il Domani il 05 giugno 2023
Salvini tenta di ripulirsi l’immagine di putiniano riscrivendo la storia della trattativa per ottenere fondi russi. Ma dimentica la reale genesi della storia: il ruolo attivo di Savoini, fedelissimo di Matteo, e quello di Dugin
«Bufala». «Falso scoop». «Macchinazione». Negli ultimi giorni la Lega e alcuni suoi dirigenti apicali hanno descritto così il caso Metropol, la vicenda svelata per la prima volta da chi scrive nel febbraio del 2019 sull’Espresso, ossia la trattativa avvenuto nell’omonimo hotel di Mosca il 18 ottobre 2018 alla quale aveva partecipato il fedelissimo di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, con l’obiettivo di ottenere dai russi un finanziamento per la campagna elettorale per le europee.
«Una simpatica manovra per creare a tavolino una menzogna per infangare Salvini», l’ha definita ad esempio il senatore leghista Claudio Borghi. Il Carroccio è talmente infuriato da aver annunciato una denuncia in procura (l’ennesima, per la verità, le precedenti le ha perse tutte) e ha chiesto che sia anche il Copasir, il Comitato parlamentare che controlla l’attività dei servizi segreti, a occuparsi del caso.
«Oltre a quello che appare come un agente provocatore dell’Espresso che cercava in tutti i modi di incastrare la Lega in accordo con un amico giornalista, al tavolo ci sarebbero stati anche uomini dei servizi segreti stranieri», ha infatti scritto il partito di Salvini in un comunicato stampa. Ma di che cosa stiamo parlando? Che cosa ha scatenato la reazione leghista?
CACCIA ALLE FONTI
Tutto è nato da una serie di articoli pubblicati tra sabato e domenica dal giornale La Verità. Leggendo le carte dell’inchiesta condotta dalla procura di Milano sulla trattativa del Metropol, il quotidiano ha messo in evidenza due fatti.
Primo: uno di noi è stato in contatto più volte con Gianluca Meranda, uno dei tre italiani che hanno partecipato alla trattativa, e ha viaggiato insieme a lui sullo stesso aereo diretto a Mosca il giorno prima del famoso meeting nella capitale russa (sullo stesso volo, l’unico, c’era anche l’allora ministro Salvini, dettaglio sfuggito al quotidiano diretto da Maurizio Belpietro).
Secondo: al tavolo dell’hotel moscovita quella mattina del 18 ottobre 2018 c’era anche un agente dell’Fsb, i servizi segreti russi. Da qui la conclusione del quotidiano: poiché Meranda, oltre a essere un massone era anche la “talpa”, saremmo stati noi, insieme a lui, a costruire ad arte una notizia che in realtà non esisteva, vale a dire la trattativa per finanziare la Lega con soldi russi.
Una balla sesquipedale, visto che la trattativa c’è stata davvero, come dimostrano l’audio e i documenti pubblicati. E come ha certificato il tribunale di Milano, secondo cui l’obiettivo della trattativa era proprio quello «di finanziare illecitamente il partito Lega, grazie ai rapporti che Savoini, presidente dell’associazione culturale Lombardia-Russia, aveva saputo tessere con influenti personaggi del mondo politico, economico, culturale russo».
SAVOINI E LE 40 RIUNIONI
Per chi non ha seguito la vicenda con attenzione, e magari non conosce alla perfezione le regole del lavoro giornalistico, la narrazione cavalcata dalla Lega può però risultare suggestiva. Anche perché nei vari articoli citati dal partito non viene mai ricordato un fatto: il ruolo attivo di Savoini nel negoziato. Partiamo da una premessa. I giornalisti devono rispettare il segreto professionale: hanno il dovere di non rivelare le fonti delle proprie informazioni se queste chiedono di rimanere anonime. Perciò, come abbiamo fatto quando la procura di Milano ci ha convocato per indagare su quanto avevamo pubblicato, continueremo a non rivelare l’identità delle fonti.
Ci sentiamo però in dovere di fare chiarezza su alcuni punti. La Lega si dice scandalizzata per il fatto che dei cronisti abbiano incontrato e sentito più volte, sia prima che dopo la riunione del Metropol, uno degli italiani presenti al tavolo. Quale sarebbe l’anomalia non è chiaro: il cronista segue una storia e cerca di verificarla con tutte le persone coinvolte. Sulla trattativa per finanziare la Lega con soldi russi abbiamo lavorato per mesi. Avevamo saputo che, nell’ambito di questa trattativa, il 18 ottobre 2018 ci sarebbe stata una riunione importante all’hotel Metropol di Mosca, alla quale avrebbe partecipato Savoini, ex portavoce di Salvini e suo delegato per gli affari russi. Quale occasione migliore per verificare la veridicità delle informazioni raccolte fino ad allora? Se davvero al Metropol avessimo visto Savoini trattare con dei russi, sarebbe stata una conferma utile. L’audio della riunione e le parole di Savoini hanno ulteriormente fortificato le nostre già solide prove. Vale la pena ricordare l’introduzione politica fatta da Savoini – e non da Meranda – all’inizio della riunione: «Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l’Europa, una nuova Europa deve essere vicina alla Russia...questo è solo quello che voglio dire sulla situazione politica. Ora voglio che i nostri partner tecnici continuino questa discussione». Da qui iniziava la discussione sui dettagli dell’operazione commerciale e di finanziamento.
Non c’è solo il Metropol però che fa capire quanto Savoini fosse parte attiva nella gestione dell’affare. Si tratta di un’interlocuzione con il colosso energetico russo Gazprom. Agli atti dell’inchiesta di Milano è citata una mail inviata a Savoini, definita dallo stesso «la risposta di Gazprom», datata 1° febbraio 2019 a firma del vicedirettore del Reparto logistica, Anatolii Moiseevich Cerner: il manager scriveva «che la società non era interessata a intraprendere un rapporto commerciale con EURO IB (banca d’affari legata a Meranda, ndr) a causa sia del prezzo di vendita che risulterebbe eccessivamente basso rispetto ai valori di mercato che delle perplessità sull’esperienza e competenza operativa di EURO IB nello specifico settore petrolifero». Non solo: per cercare di convincere Gazprom a prendere parte all’affare, nei giorni seguenti, Savoini scriveva a Dmitry Vadimovich Bakatin, «azionista di riferimento del gruppo Sputnik (holding dell’omonima rete di siti informativi controllati dal Cremlino, n), con pregresse cariche in aziende di stato russe tra cui Gazprom Media Holding Jsc».
Bakatin «si impegnava a intercedere presso il ceo (amministratore delegato, ndr) di Gazprom», è scritto negli atti dell’inchiesta di Milano.
La demenziale ipotesi cavalcata dagli uomini di Salvini in parlamento e nei giornali governativi (una trattativa creata ad arte dall’Espresso e da Meranda) perché Savoini cercava in autonomia di convincere Gazprom a partecipare all’operazione? Savoini forse tramava contro sé stesso? E come spiega il partito le 40 riunioni tra aprile e luglio documentate dalla Guardia di finanza propedeutiche all’affare leghista? Tra i russi della trattativa, annotano i finanzieri, c’erano anche «Ilya Yakunin (presente al Metropol e legato a un avvocato – politico di Russia Unita, il partito di Putin) Aleksandr Dugin e Andrei Kharchenko «in qualità di rappresentanti di alti esponenti dell’establishment russo, i quali si sarebbero impegnati a favorire la conclusione dell’operazione sia con lo scopo di assicurare un sostegno finanziario al partito italiano Lega Salvini premier sia in vista di una remunerazione economica promessa loro».
L’OMBRA DI DUGIN
Ecco dunque spiegata la presenza al tavolo del Metropol di Andrei Kharchenko, agente dei servizi segreti russi nonché collaboratore del filosofo sovranista e ortodosso Dugin. La notizia rilanciata con grande enfasi dalla Lega era già uscita sull’Espresso quasi due anni fa: secondo il partito sarebbe la prova che quello del Metropol è stato un complotto. In realtà è l’ulteriore conferma che quella riunione non era un incontro casuale fra tre russi e tre italiani, come aveva dichiarato inizialmente Savoini (prima della pubblicazione dell’audio), ma un meeting a cui erano presenti di sicuro un agente dei servizi russi e lui, l’ex portavoce di Salvini.
Kharchenko è molto legato Dugin, che i giornali di destra e lo stesso Savoini conoscono molto bene, il suo pensiero e carisma sono molto apprezzati nelle redazioni dei quotidiani sovranisti. L’ultima intervista apparsa proprio su La Verità è il 22 marzo 2022, titolo: «È una guerra alle oligarchie mondiali».
Il fatto che il russo Kharchenko fosse seduto con Savoini al tavolo del Metropol certifica che all’incontro hanno preso parte figure di primo piano del cerchio di potere di Putin. La spia russa ha viaggiato spesso con il filosofo idolo dei sovranisti, italiani e europei. Per esempio, come hanno scritto già diversi giornali internazionali, ha usato il passaporto di stato nel novembre 2016 per recarsi ad Ankara (Turchia) insieme a Dugin, tra gli ideologi dell’annessione della Crimea e della guerra contro l’Ucraina.
Pochi giorni prima avevano incontrato in Crimea un consigliere del presidente turco Erdogan. Kharchenko, inoltre, lavora per la fondazione Eurasia di Dugin. Il papà di Dugin era ufficiale del Kgb, mentre lui è stato consigliere di Sergei Naryshkin, diventato numero uno dei servizi segreti.
Dunque i rapporti tra Savoini, Dugin e Kharchenko sono nati ben prima che l’avvocato italiano Meranda entrasse in scena. Uno degli ultimi incontri tra Savoini e Dugin risale a un convegno del giugno 2019. In quell’occasione l’intellettuale putiniano ha detto di conoscere Salvini «personalmente, credo che sia il miglior leader dell’Europa nuova, è l’uomo del futuro».
Al suo fianco, nonostante il caso Metropol deflagrato, un Savoini sorridente. Nonostante tutti questi fatti, la Lega ora sostiene che Savoini sia la vittima di un grande complotto ordito da giornalisti e faccendieri. Ma la verità, come scrive il tribunale e sanno anche nel governo, è che la trattativa c’è stata. E questa operazione leghista ha un unico obiettivo: cancellare ricordi moscoviti imbarazzanti per l’attuale vicepremier Salvini.
GIOVANNI TIZIAN E STEFANO VERGINE
Salvini e Metropol, l'ultima delle bufale Espresso: ricordate la Capua? Corrado Ocone su L'Espresso il 05 giugno 2023
La narrazione costruita a sinistra, e che trova ampi riscontri nelle tante storie del giornalismo italiane ideologicamente orientate, fa de L’Espresso, il settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, il baluardo dei diritti civili conquistati a fatica da un Paese “retrogrado” come il nostro. C’è però un’altra storia, una costante zona d’ombra, che nessuno ha avuto mai il coraggio di narrare: il periodico è stato anche un costruttore seriale di fake news, bene impacchettate e offerte al pubblico. Bufale che si sono scoperte essere tali solo anni dopo, quando i loro effetti avevano già distrutto reputazioni e carriere politiche. Ed è forse proprio nella consapevolezza di questa performatività, come direbbero i filosofi, cioè nella capacità di incidere con la menzogna nella politica e nella sensibilità nazionali, che va ricercata la ragione ultima di un giornalismo che, pur presentandosi come imparziale e anglosassone, ha dimostrato di essere fazioso e ideologico quanto altri mai.
Il caso dei presunti rubli dati al Carroccio è solo l’ultimo dei tanti casi costruiti a tavolino con lo scopo di delegittimare e mettere fuori gioco un avversario politico. Proviamo a ricordarne qualcuno, cominciando dal cosiddetto Piano Solo, cioè un presunto colpo di Stato che sarebbe stato ordito da un ex presidente della Repubblica, Antonio Segni, e dal comandante generale dei carabinieri, Giovanni de Lorenzo.
FANTASIA
L’articolo, firmato nel maggio 1967 da Scalfari e Lino Jannuzzi, frutto di fantasiose e assurde ricostruzioni che non ressero alla prova di un esame critico, aveva lo scopo ben preciso di gettare fango su un politico antifascista che era ostile all’avvicinamento dei comunisti nell’area di governo e che perciò era dipinto come un golpista e un sodale dei fascisti. Un ancora più sofisticato character assassination, per dirla in questo caso con gli americani, vide coinvolto nel 1976 un altro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, questa volta in carica e costretto alle dimissioni dopo una violenta campagna mediatica che partì proprio con gli articoli scritti su L’Espresso da Camilla Cederna e Gianluigi Melega. In essi, il colto giurista napoletano, sulla base di pettegolezzi e “prove” tanto inverosimili quanto surreali, veniva indicato come Antelope Cobbler, cioè il referente ultimo del colosso americano degli aerei Lockeed che aveva messo in atto una capillare opera di corruzione nel nostro Paese. La stessa Camilla Cederna aveva qualche anno prima ispirato, con i suoi articoli sul caso Pinelli, l’anarchico precipitato da una finestra della questura di Milano, la lettera appello a L’Espresso con la quale, il 13 giugno 1971, il fior fiore dell’intellettualità italiana di sinistra indicava come responsabile della morte il commissario Luigi Calabresi, poi barbaramente assassinato dai terroristi rossi un anno dopo.
IL CASO CROCETTA
E che dire, venendo a tempi più recenti, della presunta e mai esibita intercettazione con cui il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta si sarebbe confidato con un amico dicendogli che l’ex assessore alla Sanità, Lucia Borsellino, «andava fatta fuori come suo padre»? Anche la virologa Ilaria Capua, prima di diventare una star mediatica al tempo del Covid, cadde sotto la scure delle bufale del settimanale: accusata nel 2014, con tanto di strillo in copertina, di lucrare sui vaccini, dovette emigrare in America prima di essere prosciolta dalla magistratura. Quelli qui ricordati sono solo alcuni, forse i più eclatanti, dei tanti casi che hanno visto coinvolto quello che è stato a tutti gli effetti un giornale-partito. Il giornalismo d’inchiesta si è quasi sempre trasformato, sulle sue pagine, in un giornalismo d’assalto e scandalistico, il cui fine politico era fin troppo evidente. Che il dibattito pubblico ne sia risultato inquinato è evidente. Così come lo è il fatto che è qui, in questa sinistra intellettuale e mediatica, che bisogna scavare per trovare la genesi della “guerra civile culturale” che rende ancora oggi impossibile in Italia una “operazione verità” sugli anni passati.
L'incontro all'hotel Metropol di Mosca. Fondi russi alla Lega, lo ‘scandalo’ sul libro nero viene archiviato: “Noi al 34% davamo troppo fastidio”. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Aprile 2023
Si chiude con un’archiviazione l’inchiesta sul caso Metropol, ossia la presunta trattativa, avvenuta all’hotel di Mosca con un incontro del 18 ottobre 2018 tra il presidente dell’associazione LombardiaRussia Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, l’ex bancario Francesco Vannucci e tre presunti intermediari russi su una compravendita di petrolio che, stando ad un audio, avrebbe dovuto avere lo scopo di alimentare con 65 milioni di dollari le casse della Lega. Lo ha deciso ieri il gip di Milano Stefania Donadeo che ha accolto la richiesta dei pm Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena, archiviando le posizioni dei tre italiani indagati per corruzione internazionale.
L’indagine era nata dopo un articolo del 24 febbraio 2019 sul settimanale L’Espresso dal titolo “Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega”, seguito il 3 marzo successivo da “La lunga trattativa di mister Lega”. In sintesi, gli articoli descrivevano i passaggi iniziali di una trattativa condotta nel 2018 dalla Lega con sedicenti emissari del governo russo, mai identificati, per cercare di trasferire illecitamente in vista della campagna elettorale per le elezioni europee del 2019. “Soldi russi per i nazionalisti italiani del vicepremier Matteo Salvini (…) Al centro, uno stock di carburante (…) una compravendita grazie alla quale il Cremlino sarebbe in grado di rifocillare le casse del partito di Salvini alla vigilia delle europee del prossimo maggio”, scriveva l’Espresso.
L’inchiesta giornalistica veniva poi subito ripresa all’interno del libro Il libro nero della Lega, commercializzato a partire dal 28 febbraio 2019. Gli accertamenti svolti in questi anni, però, non hanno consentito di trovare la pistola fumante, cioè la dazione di denaro, limitandosi ad affermare che era “verosimile” che il leader leghista “fosse a conoscenza delle trattative portate avanti” per “assicurare” quegli “importanti flussi finanziari”, precisando però che “non sono mai emersi elementi concreti sul fatto che il segretario della Lega abbia personalmente partecipato” o “fornito un contributo”. Salvini, comunque, non è mai nemmeno stato indagato nell’inchiesta. La prova regina era un audio dell’incontro al Metropol, registrato da Meranda e consegnato ad alcuni giornalisti. La “mancata risposta della Russia alla rogatoria già prima dell’inizio della guerra in Ucraina, e l’ancora maggiore improbabilità di ottenere una risposta a seguito del conflitto”, come scrive Donadeo nelle 18 pagine del decreto di archiviazione, hanno messo una pietra tombale sull’inchiesta. Per provare il reato di corruzione internazionale, infatti, bisognava dimostrare che i russi fossero effettivamente dei ‘pubblici ufficiali’.
Adesso aspettiamo le scuse di tanti, e prepariamo le querele per molti”. È questo il commento su Twitter di Salvini. “Si mette la parola fine dunque ad una vicenda dai tratti squisitamente giornalistici e certamente priva di rilevanza giuridica”. Così l’avvocato Ersi Bozheku, legale di Meranda e di Vannucci. “Bisognerebbe capire chi è stato dietro questa macchinazione, che è nata per colpire la Lega di Salvini, con la stessa regia che c’è stata dietro gli attacchi a Trump”, è stato invece il commento di Savoini. “Tutto scoppia – ricorda Savoini – con le registrazioni illecite dell’ottobre del 2018, cinque mesi dopo la nascita del primo governo. Conte, di cui Salvini era vicepremier. In cinque mesi mettono in piedi una macchinazione perfetta per fermare la Lega, rivolgendo al nostro partito le stesse accuse già rivolte al presidente Trump”. “La Lega al 34 percento dava troppo fastidio, un rischio per il sistema globalista e anti-identitario. Io ero nella Lega da 30 anni e seguivo le relazioni con la Russia che erano tutte alla luce del sole: volevo solo salvare l’economia italiana che le sanzioni eurostatunitensi stavano affossando”, ha aggiunto quindi Savoini. Paolo Comi
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 27 aprile 2023.
Si chiude con un’archiviazione l’inchiesta sul caso Metropol, ossia la presunta trattativa, avvenuta all’hotel di Mosca con un incontro del 18 ottobre 2018, tra il presidente dell’associazione Lombardia Russia Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, l’ex bancario Francesco Vannucci e tre presunti intermediari russi su una compravendita di petrolio che, stando ad un audio, avrebbe dovuto avere lo scopo di alimentare con 65 milioni di dollari le casse della Lega.
Lo ha deciso il gip di Milano Stefania Donadeo che ha accolto la richiesta dei pm, archiviando le posizioni dei tre italiani indagati per corruzione internazionale. La richiesta era stata firmata dai pm Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena e vistata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale.
La procura, dopo tre anni di indagini, aveva chiesto l’archiviazione sull’ipotizzato passaggio soldi russi alla Lega con trattative al Metropol di Mosca, operazione che fu fatta saltare all’ultimo da chi la stava organizzando, con protagonisti il leghista Gianluca Savoini, ex braccio destro di Salvini, l’avvocato d’affari Gianluca Meranda e l’ex bancario Mps Francesco Vannucci.
Il giudice per le indagini preliminari ha archiviato ma agli atti restano descritti i tentativi, poi abortiti, di finanziamento illecito e corruzione internazionale volti a garantire un sostegno finanziario da oltre 50 milioni di euro alla “Lega per Salvini premier” per le elezioni del 2019.
Tentativi naufragati, secondo gli inquirenti milanesi, in Russia per gli “sgambetti interni” a contrapposte cordate in seno al regime prima e “bruciati” dal fatto che proprio uno degli artefici italiani, l’avvocato d’affari Gianluca Meranda, consegnò ai giornalisti l’audio della famosa riunione il 18 ottobre 2018 al Metropol.
Tutto questo ha impedito il perfezionamento dei reati, sottraendo concretezza e dunque configurabilità giuridica agli stessi. Circostanza che, unita ai niet di Mosca sulle rogatorie dei pm milanesi, ha fatto propendere per l’archiviazione delle due accuse incrociate, cioè il finanziamento illecito al partito e la corruzione internazionale. […]
Estratto da lastampa.it il 27 aprile 2023.
Gli accordi al centro della trattativa del 18 ottobre 2018 al Hotel moscovita Metropol «erano inequivocabilmente diretti verso l'obiettivo finale di finanziare illecitamente il partito Lega, grazie ai rapporti che Savoini, presidente dell'associazione culturale Lombardia-Russia, aveva saputo tessere con influenti personaggi del mondo politico, economico, culturale russo».
Lo sottolinea la gip di Milano Stefania Donadeo nel decreto di archiviazione dell’inchiesta della Procura di Milano per corruzione internazionale sui presunti fondi russi al Carroccio in cui erano coinvolti oltre Savoini anche l’avvocato Gianluca Meranda e il banchiere Francesco Vannucci.
[…] In questo quadro l’archiviazione dell’ipotesi di corruzione internazionale è dettata «dall’impossibilità di identificare con precisione i soggetti russi coinvolti nelle trattative descritte e le cariche pubbliche rivestite dagli stessi» che, anche alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia, «non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna». Per la giudice ulteriori indagini non sono poi possibili «a causa della mancata risposta della Russia alla rogatoria già prima dell'inizio della guerra in Ucraina e l'ancora maggiore improbabilità di ottenere una risposta a seguito del conflitto».
[…] «Archiviata l'inchiesta sui presunti fondi russi del caso Metropol. Adesso aspettiamo le scuse di tanti, e prepariamo le querele per molti». È stato il commento su Twitter del leader della Lega e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini.
Come era già stato spiegato dalla Procura Salvini non era mai stato indagato nella vicenda in quanto dall’inchiesta «non è stato acquisito alcun elemento indicativo del fatto che egli fosse stato eventualmente messo al corrente del proposito di destinare una quota parte della somma ricavata dalla transazione ai mediatori russi perché remunerassero pubblici ufficiali russi».
Soldi russi alla Lega: quello che Salvini non dice sull'archiviazione dell'inchiesta sul caso Metropol. L’esponente leghista Gianluca Savoini non sarà processato. Il leader del Carroccio pretende scuse e minaccia querele. Ma la trattativa c’è stata. E lo scrive il giudice: “Gli atti posti in essere erano inequivocabilmente diretti verso l'obiettivo finale di finanziare illecitamente il partito per la trattativa avvenuta all'interno dell'hotel di Mosca”. Telesio Malaspina su L'Espresso il 27 Aprile 2023.
Un’inchiesta giornalistica, documentata e condotta andando di persona sul posto, secondo i buoni, vecchi canoni del mestiere di cronista. E confermata poi anche da un’indagine giudiziaria della procura di Milano. Questo è stato il lavoro di Giovanni Tizian e Stefano Vergine pubblicato da L’Espresso nel febbraio del 2019, dove si raccontava di come Gianluca Savoini fosse andato a Mosca e in un incontro all’hotel Metropol avesse chiesto ai russi finanziamenti alla Lega (attraverso l’intermediazione su una fornitura petrolifera) per condurre una politica antieuropea. Ora il segretario della Lega Matteo Salvini torna a parlare di “bufala”, “sòla”, addirittura “macchinazione”, come ha già fatto e come ripete ogni volta che torna utile alla sua propaganda. Ma i fatti parlano chiaro e dicono altro, se solo li si vuole ascoltare. Eccoli riassunti nell’articolo che abbiamo pubblicato nell’aprile scorso in occasione dell’archiviazione del procedimento giudiziario da parte del Gip di Milano. (aggiornamento del 6 giugno 2023)
«Adesso aspettiamo le scuse di tanti, e prepariamo le querele per molti». Così Matteo Salvini ha commentato l'archiviazione dell'inchiesta sul caso Metropol, dopo che il gip di Milano, Stefania Donadeo, su richiesta della Procura del capoluogo lombardo ha deciso che non verranno processati i tre uomini indagati per la trattativa avvenuta all'interno dell'hotel russo il 18 ottobre del 2018, vale a dire Gianluca Savoini, esponente del Carroccio e fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, l'avvocato d’affari Gianluca Meranda e l'ex bancario Francesco Vannucci.
Le parole di Salvini fanno pensare che non ci sia stata alcuna trattativa per finanziare illecitamente la Lega con denaro russo, e che sia invece stata tutta una montatura mediatica, tant'è che ora il vicepremier minaccia querele. Non è così. Anzi, è vero il contrario. A scriverlo è la stessa gip, Donadeo, nelle motivazioni dell'archiviazione: “Gli atti posti in essere erano inequivocabilmente diretti verso l'obiettivo finale di finanziare illecitamente il partito Lega, grazie ai rapporti che Savoini, presidente dell'associazione culturale Lombardia-Russia, aveva saputo tessere con influenti personaggi del mondo politico, economico, culturale russo", si legge.
L'inchiesta era stata aperta 3 anni e mezzo fa dalla Procura di Milano sulla base delle notizie rivelate dal nostro giornale sei mesi prima. La trattativa per finanziare la Lega con soldi russi era stata infatti svelata da un'indagine giornalistica anticipata da L'Espresso e contenuta ne “Il Libro Nero della Lega” (Laterza), pubblicato da Giovanni Tizian e Stefano Vergine nel febbraio del 2019.
Per capire che cosa è successo veramente al Metropol – era l'ottobre del 2018, Salvini era vicepremier e ministro dell'Interno, la Lega era in testa ai sondaggi e dopo pochi mesi si sarebbero tenute le elezioni europee – è utile rileggere le motivazioni con cui la Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione del caso Metropol, decisione oggi accettata dal Tribunale con motivazioni sostanzialmente identiche.
L'inchiesta della Procura di Milano ha appurato che la trattativa per finanziare la Lega con soldi russi c'è stata. È consistita in 40 riunioni tenutesi tra aprile 2018 e luglio 2019, la più importante delle quali è avvenuta proprio il 18 ottobre del 2018 all'Hotel Metropol di Mosca. Il 17 ottobre, giorno prima del meeting al Metropol, in via riservata Salvini ha incontrato a Mosca il vicepremier russo, Dmity Kozak, insieme a Savoini, Meranda e Vannucci. Sempre il 17 ottobre, Salvini ha cenato a Mosca con Savoini, suo ex portavoce.
Il piano era questo: comprare gasolio da una società di Stato russa, rivenderlo a una società di Stato italiana e usare il margine di guadagno (che la guardia di finanza ha calcolato in 110 milioni di dollari) per finanziare la campagna elettorale della Lega per le elezioni europee del 2019 (da qui l'ipotesi di finanziamento illecito), oltreché per pagare una tangente ai russi coinvolti nella trattativa (da qui l'ipotesi di corruzione internazionale).
Salvini era informato delle trattative in corso per l'acquisto di prodotti petroliferi dalla Russia, ma “non sono mai emersi elementi concreti sul fatto che il segretario della Lega abbia personalmente partecipato alla trattativa” per finanziare la Lega: per questo non è mai stato indagato, hanno scritto i pm.
Perché la trattativa non è andata in porto? E come mai, se hanno trovato prova di tutti queste cose, i magistrati hanno chiesto l'archiviazione? Sul perché non sia andata in porto, i pm hanno scritto che la trattativa si è interrotta a causa delle rivelazioni della stampa, cioè quelle pubblicate in esclusiva da L'Espresso. Sui motivi dell'archiviazione, bisogna distinguere tra i due reati ipotizzati, cioè quello di finanziamento illecito e quello di corruzione internazionale.
Per il primo, la gip Donadeo ha scritto che i fatti accertati “non possono qualificarsi idonei a raggiungere, almeno potenzialmente, lo scopo, non essendosi conclusa non solo la fase finale di destinazione di una certa percentuale alla Lega, ma neanche l'operazione principale di compravendita di prodotti petroliferi”. Insomma, siccome il gasolio alla fine non è stato acquistato (come detto, la trattativa si è interrotta a causa delle nostre rivelazioni), si è deciso di non chiedere il processo per finanziamento illecito.
Sull'ipotesi di corruzione internazionale, il Tribunale di Milano ha spiegato che le prove raccolte "non sono sufficienti" a dimostrare il reato, "non tanto per il fatto che l'operazione economica non sia andata a buon fine, quanto perché i soggetti russi, con cui gli indagati si sono interfacciati, non appaiono rivestire la qualifica di pubblici ufficiali". Per il reato di corruzione internazionale è necessario infatti che il destinatario del denaro sia un pubblico ufficiale. Per capire se i due russi identificati al Metropol stessero trattando in rappresentanza di altri, cioè di pubblici ufficiali, la procura di Milano ha chiesto aiuto alla magistratura russa inviando una rogatoria, ma non ha mai ricevuto risposta.
In sintesi, la trattativa per finanziare la Lega c'è stata, Salvini forse ne era a conoscenza, ma le prove raccolte dai pm quasi sicuramente non avrebbero portato a una condanna degli indagati. Quindi, si è scelto di non fare neanche il processo. La conferma, l'ennesima, che la verità giudiziaria spesso non coincide con la verità storica.
Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 18 gennaio 2023.
C'era l'urgenza di raggiungere l'accordo, di perfezionare quella compravendita da un miliardo di dollari di gas russo che avrebbe portato circa 73 milioni di dollari nelle casse della Lega e finanziato così la campagna per le Europee 2019. Un progetto naufragato dopo che finì sui giornali l'incontro del 18 ottobre 2019 all'hotel Metropol di Mosca, dove l'ex portavoce di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, l'avvocato Gianluca Meranda (che diffonderà l'audio) e il broker Francesco Vannucci incontrarono gli uomini dell'establishment russo.
[…] Il fallimento dell'operazione e la mancata individuazione di pubblici ufficiali russi porta così il procuratore aggiunto di Milano, Fabio De Pasquale, coi pm Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena, a chiedere l'archiviazione del fascicolo. […]
«Sin dall'inizio dell'inchiesta - scrivono i pm - è dunque apparso verosimile che Matteo Salvini fosse a conoscenza delle trattative portate avanti da Savoini, Meranda e Vannucci, volte ad assicurare importanti flussi finanziari al partito[…]». Sul leader leghista però «non sono mai emersi elementi concreti […] E per questo Salvini non è mai stato indagato. […]
A parlare in continuazione di lui sono però i tre italiani. Esplicitano di dover «non soltanto chiudere l'accordo, ma di riuscirvi molto rapidamente, attesa la prossimità delle elezioni ». Sei mesi prima del Metropol, è Vannucci a informare Meranda «di essere in quel momento con un "Matteo"», per i pm «identificabile nel segretario della Lega». «Decisamente più intensi - annota ancora la Gdf - i contatti e gli incontri di Savoini con il segretario della Lega.(..)», a ridosso di «momenti salienti delle trattative, come tra il 6 e il 9 luglio, immediatamente successivi al rientro di Savoini da Mosca».
[…] In un altro resoconto, il 17 luglio, Vannucci riferisce a Meranda le parole di Savoini, di ritorno dalla Russia, dov' era anche Salvini. «La sera dopo c'è stata la cena Kappa (che i pm ipotizzano essere l'imprenditore Konstantin Malofeev) gli ha detto... "allora, Matteo, hai bisogno di una mano?"... "eh"... dice... "sì, sa tutto lui... non mi tenete nel mezzo... non mi chiamate... non fate il mio nome perché sono fottuto... pero è una cosa che mi va bene, a cui tengo particolarmente, perché per me è la tranquillità"... e Kappa gli ha detto..."provvederemo"». […]
(ANSA il 17 gennaio 2022) - A prescindere "da ogni valutazione circa il fatto che il segretario della Lega Matteo Salvini", mai indagato nell'inchiesta, "fosse eventualmente a conoscenza delle trattative portate avanti da Savoini, Meranda e Vannucci, volte ad assicurare importanti flussi finanziari al partito" bisogna "evidenziare che non sono emersi elementi concreti circa il fatto che il medesimo abbia personalmente partecipato alla trattativa o comunque abbia fornito un contributo causale alla stessa".
Lo scrive il procuratore di Milano Marcello Viola in un comunicato, pronto da ieri e diffuso solo oggi, sulla richiesta di archiviazione del caso Metropol.
Nelle sei pagine di comunicato, che avrebbe dovuto essere diffuso ieri dopo che è stata firmata e vistata la richiesta di archiviazione per Savoini e gli altri due indagati (richiesta inoltrata oggi all'ufficio gip), "non è stato acquisito alcun elemento indicativo del fatto" che Salvini "fosse stato eventualmente messo al corrente del proposito di destinare una quota parte della somma ricavata dalla transazione ai mediatori russi perché remunerassero pubblici ufficiali russi".
Non si è proceduto "ad iscrizione a suo carico di notizia di reato e nessuna attività d'indagine è stata svolta nei suoi confronti". Il comunicato ripercorre gli elementi della richiesta di archiviazione anticipata, anche nei contenuti, stamani dal quotidiano 'la Verità'. Richiesta non ancora depositata ai legali degli indagati.
"Non essendosi perfezionata l'operazione di compravendita" sulla partita di petrolio, scrive la Procura, "neppure a livello di scambio di documenti contrattuali, non appare possibile affermare, con adeguata certezza, se proprio Ets", società del gruppo Eni, "o altra diversa entità, avrebbe in concreto sopportato l'esborso necessario a consentire la formazione di un margine destinato al finanziamento illegale del partito della Lega".
In assenza "di elementi concludenti in ordine all'identità dei destinatari delle somme - spiega la Procura - rinvenienti dalla transazione petrolifera, e al ruolo pubblico dei beneficiari, la contestazione" di corruzione internazionale "non pare in concreto configurabile". Rimane da osservare, si legge ancora, "in ordine alla residua possibilità di contestare al partito della Lega l'ipotesi di tentato finanziamento illecito (art. 7 L. 195/1974), che le condotte emerse non hanno raggiunto connotati di concretezza ed effettività idonei a raggiungere, almeno potenzialmente, lo scopo"
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 17 gennaio 2022.
Lo strombazzatissimo caso Metropol ha partorito il nulla. La presunta cricca di sei persone, tre italiani e tre russi, che a un tavolino dell'hotel moscovita, il 18 ottobre del 2018, avrebbe trattato un gigantesco affare petrolifero per finanziare illegalmente la Lega di Matteo Salvini con ogni probabilità non sarà processata. Infatti ieri la Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione dell'accusa di corruzione internazionale per tutti. Nel 2019 i media di mezzo mondo avevano pensato di avere in mano l'arma decisiva per affossare Salvini, appena uscito trionfatore dalle elezioni europee di maggio.
La valanga aveva iniziato a montare a febbraio con i primi pezzi e l'uscita del Libro nero della Lega, ma lo smottamento divenne vera slavina quando siti internazionali iniziarono a diffondere l'audio consegnato ai giornalisti dell'Espresso con ogni probabilità, come ricostruisce adesso la Procura di Milano, dall'avvocato massone Gianluca Meranda.
Ora i magistrati di Milano, guidati dall'aggiunto Fabio De Pasquale, dopo tre anni e mezzo di infruttuose indagini sono stati costretti a chiedere l'archiviazione per tutti gli indagati a partire da Gianluca Savoini, il discusso lobbista che avrebbe preso parte all'incontro del Metropol.
Il procedimento per cui è stata chiesta l'archiviazione coinvolge anche Meranda e l'ex sindacalista e collaboratore dell'avvocato calabrese Francesco Vannucci. Il reato di corruzione internazionale sarebbe stato commesso tra Roma, Milano e Mosca tra il 10 marzo 2018 e il 29 ottobre dello stesso anno.
[…] Secondo l'accusa il gruppo si sarebbe attivato, in particolare nella seconda metà del 2018, per concludere accordi commerciali riguardanti il petrolio con fornitori russi al fine di stornare dalle transazioni ingenti somme di denaro da destinare al finanziamento della Lega, in vista delle elezioni del 2019, ma anche per il personale tornaconto dei partecipanti all'accordo.
Gli investigatori della Guardia di finanza hanno quantificato, solo per una delle due forniture richieste, in 110 milioni di dollari il profitto che sarebbe stato così suddiviso: due terzi per i mediatori italiani e un terzo per quelli russi. Una parte sarebbe andata come commissione all'unica intermediaria in chiaro, la banca Euro IB.
Però gli elementi acquisiti dalla Procura hanno consentito di accertare che l'operazione non si è conclusa, probabilmente a causa del niet arrivato dall'amministratore delegato della russa Rosneft, Igor Sechin, il quale non avrebbe concesso il proprio assenso a causa dell'eccessiva entità dello sconto, richiesto dalla banca Euro IB sulla base degli accordi tra negoziatori italiani e russi.
Difficile immaginare, quindi, che il governo russo e i suoi principali esponenti fossero della partita. Secondo gli inquirenti che hanno chiesto l'archiviazione, però, le registrazioni audio e «altri elementi» porterebbero a ritenere che Salvini fosse a conoscenza delle trattative.
Tuttavia, non sarebbero mai emersi elementi concreti di una partecipazione del segretario della Lega alla negoziazione o del fatto che il vicepremier abbia fornito un contributo al suo successo. Inoltre non esiste prova che Salvini sia mai stato messo al corrente dell'intenzione da parte dei mediatori russi di remunerare i pubblici ufficiali di Mosca, ipotesi che aveva portato alla contestazione della corruzione internazionale.
Per questo il ministro delle Infrastrutture non è mai stato iscritto sul registro degli indagati, né sono state effettuate investigazioni nei suoi confronti. Ma perché è stata chiesta l'archiviazione di tutte le accuse? Perché l'indagine non ha individuato i soggetti russi che avrebbero dovuto essere «oliati» per portare a casa la commissione monstre, ovvero «la percentuale di sconto eccedente il 4%». «Whatever is above 4, we can return it» ha detto ai russi Meranda mentre appuntava sulla propria agenda «come concordato, lo sconto minimo corrisponde al 4%, mentre qualunque tasso di sconto superiore al 4% sarà restituito a (parola incomprensibile, ndr)».
I magistrati sanno che per procedere nell'inchiesta era indispensabile l'identificazione dei presunti destinatari delle mazzette, oltre a Dugin, Kharchenko e Yakunin, tutti e tre soggetti che non sembra abbiano rivestito funzioni pubbliche in questa trattativa. E a impedire ai magistrati di scoprire i presunti referenti dentro alle aziende di Stato russe della cricca sarebbe stata la mancata risposta di Mosca alla rogatoria inoltrata dagli inquirenti meneghini il 15 luglio 2021 e sollecitata il 22 febbraio 2022.
Dunque la Procura, già scottata dal precedente del processo Eni-Nigeria, ha dovuto concludere che le contestazioni penali non avrebbero retto in alcun modo in un processo. […]
Rubli alla Lega, era tutta fuffa. Giacomo Amadori su Panorama il 17 Gennaio 2023.
Il caso Metropol ha partorito il nulla. La Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di corruzione internazionale per la presunta cricca di sei persone, tre italiani e tre russi, che nell’hotel moscovita avrebbe trattato un enorme affare petrolifero. Lo strombazzatissimo caso Metropol ha partorito il nulla. La presunta cricca di sei persone, tre italiani e tre russi, che a un tavolino dell’hotel moscovita, il 18 ottobre del 2018, avrebbe trattato un gigantesco affare petrolifero per finanziare illegalmente la Lega di Matteo Salvini con ogni probabilità non sarà processata. Infatti ieri la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di corruzione internazionale per tutti. Nel 2019 i media di mezzo mondo avevano pensato di avere in mano l’arma decisiva per affossare Salvini, appena uscito trionfatore dalle elezioni europee di maggio. La valanga aveva iniziato a montare a febbraio con i primi pezzi e l’uscita del Libro nero della Lega, ma lo smottamento divenne vera slavina quando siti internazionali iniziarono a diffondere l’audio consegnato ai giornalisti dell’Espresso con ogni probabilità, come ricostruisce adesso la Procura di Milano, dall’avvocato massone Gianluca Meranda. Ora i magistrati di Milano, guidati dall’aggiunto Fabio De Pasquale, dopo tre anni e mezzo di infruttuose indagini sono stati costretti a chiedere l’archiviazione per tutti gli indagati a partire da Gianluca Savoini, il discusso lobbista che avrebbe preso parte all’incontro del Metropol. Il procedimento per cui è stata chiesta l’archiviazione coinvolge anche Meranda e l’ex sindacalista e collaboratore dell’avvocato calabrese Francesco Vannucci. Il reato di corruzione internazionale sarebbe stato commesso tra Roma, Milano e Mosca tra il 10 marzo 2018 e il 29 ottobre dello stesso anno. Il procedimento è stato avviato, inizialmente a carico di ignoti, dopo la pubblicazione, a cavallo di febbraio e marzo 2019, di due articoli dell’Espresso: «Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega» e «La lunga trattativa di mister Lega». I servizi rilanciavano quanto già contenuto, seppur un po’ nascosto, nel Libro nero della Lega. I giornalisti, sentiti come persone informate dei fatti, hanno confermato di aver osservato in diretta l’incontro del Metropol, dopo essersi appostati a un altro tavolo, e hanno consegnato un file audio che, secondo la Procura non era stato manipolato e che «con un grado di elevata probabilità» era stato realizzato da Meranda. La Procura è convinta che i cronisti fossero nell’albergo il giorno dell’incontro. Ma, come abbiamo già scritto nel 2019, a noi questa ricostruzione sembra del tutto incongrua visto che i giornalisti non fecero alcuna foto della riunione, neppure da lontano, e dentro al libro, pubblicato quattro mesi dopo il summit e dopo varie revisioni, la storia di quel meeting occupò solo poche pagine e in essa si parlava di cinque partecipanti. Davvero strano che dei testimoni oculari, giornalisti investigativi di professione, non siano stati in grado né di effettuare uno scatto, né di contare i presenti a un appuntamento per cui erano partiti dall’Italia.
La Procura avrebbe individuato con certezza due dei russi seduti a quel tavolo. Si tratta di Andrey Yuryevich Kharchenko e di Ilya Andreevich Yakunin. Il primo all’epoca era dirigente del movimento politico International Eurasian movement, fondato ed animato da Alexander Gel’evic Dugin, il filosofo considerato uno degli ideologi di Vladimir Putin. Dugin, in quel momento, era anche presidente onorario dell’associazione Piemonte-Russia, gemella dell’associazione Lombardia-Russia guidata da Savoini. Il secondo era il vice direttore generale di una società partecipata del governo russo, nonché membro di un’azienda di investimenti operante nel settore della produzione e del commercio di petrolio e gas, controllata da una società fondata, tra gli altri, dall’avvocato Vladimir Nikolaevich Pligin, socio di studio dell’ex vicepremier ed ex ministro dell’Energia industriale Dmitry Nikolayevich Kozak. Intrecci suggestivi che, però, non costituiscono reato. Secondo l’accusa il gruppo si sarebbe attivato, in particolare nella seconda metà del 2018, per concludere accordi commerciali riguardanti il petrolio con fornitori russi al fine di stornare dalle transazioni ingenti somme di denaro da destinare al finanziamento della Lega, in vista delle elezioni del 2019, ma anche per il personale tornaconto dei partecipanti all’accordo. Gli investigatori della Guardia di finanza hanno quantificato, solo per una delle due forniture richieste, in 110 milioni di dollari il profitto che sarebbe stato così suddiviso: due terzi per i mediatori italiani e un terzo per quelli russi. Una parte sarebbe andata come commissione all’unica intermediaria in chiaro, la banca Euro IB. Però gli elementi acquisiti dalla Procura hanno consentito di accertare che l’operazione non si è conclusa, probabilmente a causa del niet arrivato dall’amministratore delegato della russa Rosneft, Igor Sechin, il quale non avrebbe concesso il proprio assenso a causa dell’eccessiva entità dello sconto, richiesto dalla banca Euro IB sulla base degli accordi tra negoziatori italiani e russi. Difficile immaginare, quindi, che il governo russo e i suoi principali esponenti fossero della partita. Secondo gli inquirenti che hanno chiesto l’archiviazione, però, le registrazioni audio e «altri elementi» porterebbero a ritenere che Salvini fosse a conoscenza delle trattative. Tuttavia, non sarebbero mai emersi elementi concreti di una partecipazione del segretario della Lega alla negoziazione o del fatto che il vicepremier abbia fornito un contributo al suo successo. Inoltre non esiste prova che Salvini sia mai stato messo al corrente dell’intenzione da parte dei mediatori russi di remunerare i pubblici ufficiali di Mosca, ipotesi che aveva portato alla contestazione della corruzione internazionale. Per questo il ministro delle Infrastrutture non è mai stato iscritto sul registro degli indagati, né sono state effettuate investigazioni nei suoi confronti. Ma perché è stata chiesta l’archiviazione di tutte le accuse? Perché l’indagine non ha individuato i soggetti russi che avrebbero dovuto essere «oliati» per portare a casa la commissione monstre, ovvero «la percentuale di sconto eccedente il 4%». «Whatever is above 4, we can return it» ha detto ai russi Meranda mentre appuntava sulla propria agenda «come concordato, lo sconto minimo corrisponde al 4%, mentre qualunque tasso di sconto superiore al 4% sarà restituito a (parola incomprensibile, ndr)». I magistrati sanno che per procedere nell’inchiesta era indispensabile l’identificazione dei presunti destinatari delle mazzette, oltre a Dugin, Kharchenko e Yakunin, tutti e tre soggetti che non sembra abbiano rivestito funzioni pubbliche in questa trattativa. E a impedire ai magistrati di scoprire i presunti referenti dentro alle aziende di Stato russe della cricca sarebbe stata la mancata risposta di Mosca alla rogatoria inoltrata dagli inquirenti meneghini il 15 luglio 2021 e sollecitata il 22 febbraio 2022. Dunque la Procura, già scottata dal precedente del processo Eni-Nigeria, ha dovuto concludere che le contestazioni penali non avrebbero retto in alcun modo in un processo. Neanche l’ipotesi di tentato finanziamento illecito della Lega ha trovato alcun riscontro. Sebbene per le toghe l’obiettivo fosse senza dubbio quello di rimpinguare le casse del Carroccio, il tentativo non avrebbe raggiunto alcuno «stadio di concretezza». Il pool guidato da De Pasquale, nemico giurato dell’Eni, neppure in questo caso avrebbe mancato di far arrivare una frecciata all’azienda petrolifera. Infatti a giudizio dei magistrati la società Ets del gruppo del Cane a sei zampe sarebbe stata disponibile a imbarcarsi in un’operazione del tutto antieconomica, accettando di acquistare a prezzo pieno un prodotto ceduto dal fornitore russo con un forte sconto (4% o 6.5%). Ma l’operazione di compravendita si fermò alla fase embrionale e non arrivò neppure allo scambio di documenti contrattuali e, quindi, non vi è alcuna certezza che Ets o chi per lei avrebbe accettato di pagare per consentire alla Lega di mettere da parte la provvista. Secondo i pm per il perfezionamento dell’accordo si sarebbero tenuti numerosi incontri, circa 40 in poco più di un anno, e i mediatori italiani, con in testa Savoini, avrebbero effettuato vari viaggi a Mosca per incontrare le controparti. A inizio giugno del 2018 Savoini, Vannucci e Meranda avrebbero visto a Mosca l’esponente di Russia unita Konstantin Kosachev, il petroliere Nikolay Eliseev e, con buona probabilità, anche l’oligarca Konstantin Malofeev, oltre a un suo stretto collaboratore, Yury Burundukov. Dalla Russia, l’1 agosto, Savoini contattò Meranda e il giorno successivo Vannucci, il quale, poi, avrebbe chiamato l’avvocato calabrese. Il 3 Meranda inviò a Savoini e Vannucci una bozza di offerta di fornitura petrolifera che, subito dopo, Savoini avrebbe girato a Dugin. Dal 27 al 30 agosto i tre italiani avrebbero incontrato a Mosca Pligin, Kharchenko, Dugin ed Ernesto Ferlenghi, responsabile di Eni in Russia nonché presidente di Confindustria Russia. L’1 ottobre, tramite Whatsapp, Meranda comunicò a Yakunin quanto segue: «Caro Ilia, confermo che saremo a Mosca il 17 ottobre per finalizzare l’accordo dal punto di vista politico. Saluti, Gianluca». Il 18 ottobre, infine, ci fu l’incontro del Metropol, durante il quale Savoini ribadì la natura politica dell’operazione. Yakunin gli avrebbe fatto eco: «Ora stiamo parlando di questa decisione politica». E Meranda aggiunse: «È molto semplice: il programma fatto dai nostri politici [political guys] era che, con uno sconto del 4%, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, potevano sostenere la campagna. …». Tutte frasi che ovviamente lasciano il tempo che trovano visto che non vi è prova che i tre indagati fossero emissari certificati della Lega.
Quel linciaggio della stampa di sinistra. Per anni ha gridato alla "Moscopoli leghista". Da Repubblica a Report, un fiume di fake sui fondi dai servizi segreti russi. Pasquale Napolitano il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.
La sinistra aveva schierato l'artiglieria pesante per abbattere Matteo Salvini. Tra il 2018 e il 2019, il capo della Lega era all'apice del consenso politico. E quindi bisognava trovare un modo per neutralizzarlo. Repubblica, L'Espresso, Report, Roberto Saviano, Ranucci, politici e militanti: tutti in fila per un anno hanno bombardato Salvini con la falsa accusa di essere al soldo di Putin. Quella narrazione, su cui soprattutto il quotidiano Repubblica ha costruito una durissima campagna mediatica, si è rivelata però una bufala. Per mesi la stampa di sinistra ha cavalcato fake news, occupando pagine di giornali e impegnando il Parlamento. Con un solo obiettivo: distruggere l'immagine dell'allora ministro dell'Interno. Moscopoli, Russiagate, Rubligate: basta rileggere i titoloni in prima pagina sparati da Repubblica per avere idea della guerra mediatica aggressiva innescata dai giornali di sinistra con l'allora titolare del Viminale. Un'azione chirurgica, accompagnata da editoriali e opinioni, spalmati in tv da intellettuali e opinionisti vicini al Pd. La tesi accusatoria era ben costruita: la Lega e il suo leader avrebbero intascato soldi d Putin con l'impegno di aprire un varco nelle democrazie occidentali. L'inchiesta di Repubblica, ripresa poi dai magistrati della Procura di Milano, si è trasformata in un boomerang. I magistrati hanno chiesto l'archiviazione per le sei persone che, accusate di corruzione internazionale, attorno a un tavolino dell'hotel Metropol di Mosca nel 2018 avrebbero trattato un ingente affare petrolifero. Matteo Salvini, il bersaglio numero uno della campagna mediatica, non è mai stato indagato. Eppure in quei giorni nel mirino c'era lui. Soltanto lui. Il 13 luglio del 2019 Repubblica apriva il giornale con un titolo che richiamava il teorema utilizzato dai magistrati di mani pulite: «Moscopoli, Salvini non poteva non sapere». Il 12 luglio, un giorno prima, si consuma l'affondo con l'accusa madre «Moscopoli». Il 23 luglio Repubblica non ha dubbi: «Moscopoli, Salvini sbugiardato». Sentenza definitiva. Inappellabile. L'Espresso non si sottrae e accompagna la batteria di fuoco: «Savoini a Mosca chiedeva soldi per la Lega ai servizi segreti di Putin», la data stavolta è recente: il 15 settembre 2022. Il Pd fiutava l'occasione ghiotta per spingere il piede sull'acceleratore. Luigi Zanda, senatore di vecchia data ed ex tesoriere del partito, lanciava il cuore oltre l'ostacolo in un'intervista il 13 luglio del 2019: «É improprio, che Salvini continui a fare il ministro dell'Interno». I Cinque stelle, che all'epoca dei fatti erano nel governo gialloverde con Salvini, si imbattevano in un ravvedimento tardivo e si univano tiro al piccione, appropriandosi della bufala: «Oggi il M5S si è svegliato con la voglia di saperne di più su questa storiaccia del Metropol, di Gianluca Savoini e dei rapporti con Matteo Salvini» - riportava un post pubblicato sul profilo ufficiale di M5S. Il partito poneva quattro domande all'ex ministro dell'Interno. La data è importante: il 24 ottobre 2019, dopo il Papeete e il passaggio di Conte tra le braccia del Pd. I grillini chiedevano addirittura una commissione d'inchiesta.
Erano una bufala i soldi russi alla Lega: il pm vuole archiviare l'inchiesta Metropol. "Salvini mai indagato". C'erano gli incontri con i russi e c'erano le mail. C'era molto fumo ma non si è trovato l'arrosto. Finisce così in niente la strombazzatissima inchiesta sulla Lega. Stefano Zurlo il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.
C'erano gli incontri con i russi e c'erano le mail. C'era molto fumo ma non si è trovato l'arrosto. Finisce così in niente la strombazzatissima inchiesta sulla Lega che per tre anni ha tenuto sulla corda i dirigenti di via Bellerio. La procura di Milano chiede infatti l'archiviazione per tutti gli indagati accusati di corruzione internazionale in relazione ad una compravendita di 3 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi russi che avrebbe garantito al partito un ritorno stimato in circa 65 milioni di dollari. È l'indagine che ha messo in difficoltà il partito fondato da Bossi perché certe posizioni filo-putiniane di Salvini sono state interpretate come un premuroso ossequio ai presunti oboli concessi dalla Russia, ma il finanziamento non c'è perché il progetto era miseramente naufragato.
Chiacchiere. Meeting, addirittura 40, compreso quello celeberrimo all'hotel Metropol della capitale immortalato da un audio, frasi avventate, quasi da film come quelle scandita dal broker Vannucci conversando con l'avvocato Meranda e riferite proprio a Salvini; il numero uno avrebbe detto: «Non fate il mio nome, non chiamatemi perché se no sono fottuto». E peró si scopre ora, dopo tanto tormento e illazioni di ogni genere, che il ministro delle infrastrutture non è mai stato indagato perché su di lui c'erano solo labili riferimenti che non avrebbero portato a nulla. Ma è tutta la storia ad avere gambe esili: suggestioni, allusioni e promesse, ma alla fine una mezza bufala. «Ci hanno messo alla berlina per cose insistenti», commenta il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana. «Il tempo - è la riflessione di Salvini - è sempre galantuomo». Tutto nasce il 24 febbraio 2019 quando l'Espresso mette in pagina un articolo che nel titolo dice già tutto: «Quei tre milioni russi per Salvini; ecco l'inchiesta che fa tremare la Lega». Il settimanale è andato a colpo sicuro perché ha pubblicato un audio che riporta il colloquio avvenuto al Metropol il 18 ottobre 2018 in occasione del viaggio nella capitale dell'allora vicepremier Salvini. Al tavolo del lussuoso hotel ci sono sei personaggi, tre italiani e tre russi: Gianluca Savoini, ex portavoce del premier, l'avvocato Gianluca Meranda, il finanziere Francesco Vannucci; con loro alcuni mediatori vicini all'establishment del Cremlino: Ylia Jakunin, contiguo al ministro dell'energia Dimitry Kozak, Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi, più un terzo personaggio mai identificato. Si parla di un business promettente: l'arrivo nel nostro Paese di una maxi partita di petrolio con tanto di cresta da dividere fraternamente quasi a metà: 6 per cento agli intermediari russi, 4 per cento ai leghisti, come documentato dal pizzino di Savoini. Peccato che qualcuno, quasi sicuramente Meranda, registri tutto e che l'audio arrivi all'Espresso. La rivelazione mediatica, concludono oggi i pm, blocca l'iniziativa partita male e andata avanti peggio. E non si capisce nemmeno bene a che titolo il trio tricolore abbia interloquito con la controparte. «È verosimile - nota la procura - che Salvini fosse a conoscenza delle trattative portate avanti da Savoini, Meranda e Vannucci volte ad assicurare importanti flussi finanziari al partito... ma non sono mai emersi elementi concreti sul fatto che il segretario della Lega abbia partecipato personalmente alla trattativa o comunque abbia fornito un contributo causale alla stessa». Di più: Salvini ignorava il «proposito di destinare una quota parte della somma ricavata dalla transazione ai mediatori russi perché remunerassero pubblici ufficiali» di quel Paese. La corruzione non si è concretizzata, ma Salvini non immaginava nemmeno che potesse esserci. Ecco perché non è mai stato iscritto nel registro degli indagati. E poi, fra incomprensibili «autoregistrazioni», come quella attribuita all'ambiguo Meranda, si intuisce che la nomenklatura putiniana non avrebbe sponsorizzato gli sforzi del gruppetto. Alla fine, il silenzio di Mosca davanti alle rogatorie della magistratura ambrosiana impedisce di approfondire quel poco che resta, oltre le parole.
Fondi russi alla Lega, maddai? Era tutto una bufala. L’accusa alla Lega di aver intascato tangenti da petrolieri russi è stata una clamorosa fake news. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 17 Gennaio 2023.
E tutto finì in una bolla di sapone. Il caso Metropol, con l’accusa alla Lega di aver intascato tangenti di finanziamento illecito al partito da parte di petrolieri russi, si è rivelata una clamorosa fake news. La bufala, sapientemente costruita dai soliti giornali d’inchiesta di sinistra (vera e propria “macchina del fango”), è stata in questi anni una formidabile arma di lotta politica nelle mani dei leader di quella parte politica, che l’hanno cinicamente usata contro Matteo Salvini e il suo partito, presentati come corrotti e servi di potenze straniere.
Un vero e proprio teorema di cui la procura di Milano non ha potuto fare altro che accertare l’inconsistenza, chiedendo l’archiviazione della pratica. Siamo sicuri che nessuno chiederà ora scusa a Salvini e la notizia sarà data in poche righe di giornale e in rapidi passaggi televisivi e poi dimenticata.
“Il tempo è galantuomo” sembra che abbia commentato il leader della Lega in una chat interna del partito. Per il resto Salvini è, in queste ore, giustamente abbottonatissimo. Che necessità c’è di parlare, quando gli italiani, che la sinistra dall’altro della sua spocchia, crede tutti scemi, sanno fare due più due e capire chi è che bara al gioco? Il tempo però non è solo galantuomo, sa anche giocare con astuzia e mettere di fronte a situazioni paradossali.
La notizia dell’archiviazione del caso Metropol è infatti giunta proprio nel momento in cui altri magistrati, quelli belgi, hanno beccato con le mani nel sacco politici rilevanti del Pd e della sinistra. Nel loro caso il finanziamento illecito è provato dalla flagranza del reato. Così come ancor più clamoroso è il fatto che i finanziamenti arrivino da un’autocrazia liberticida di ispirazione islamista. In effetti, la propaganda della sinistra bufalara verteva proprio sul fatto che a finanziare la Lega sarebbe stata una potenza straniera nemica dell’Occidente. Due casi, quelli del QuatarGate e del Metropol, perfettamente speculari. Ma con una sola differenza: l’uno è vero e l’altro era una clamorosa bufala. Meditate gente, meditate.
Corrado Ocone, 17 gennaio 2023
Ipocriti.
Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” sabato 11 novembre 2023.
Le agenzie di stampa annunciano che l’onorevole Laura Ravetto ha organizzato una riffa su se stessa. Cioè: si è messa in palio. Penso: impossibile. Sarà uno scherzo. E invece no: è tutto vero. La Ravetto si è fatta premio.
[…] la responsabile del dipartimento Pari Opportunità della Lega (sempre la persona giusta al posto giusto, eh) per raccogliere fondi a sostegno del partito ha pubblicato un video sui social in cui, con disinvoltura, spiega: «Oggi è il mio giorno, il giorno dedicato ame per sostenere la Lega… […]
E qui arriva la proposta. Sentite un po’: «Quello o quella che contribuirà di più verrà con me in una redazione televisiva… Il secondo contribuente farà un giro con me in Parlamento… Il terzo potrà mettere sui miei social un messaggio».
[…] Ma si può? Direte: un’idea venuta maluccio, capita. E certo che capita. Solo che ora dovrà davvero portarsi dietro, in qualche talk, il vincitore o la vincitrice. Ai fortunati, allora, un avvertimento: occhio che la Ravetto, a Montecitorio, è nota per avere un carattere frizzante (eufemismo). Per dire: nel giugno del 2021, di botto, dopo 15 anni e 4 legislature si accorge d’essere a disagio dentro Forza Italia. E decide di salire sul carrozzone della Lega.
Bene. Legittimo. Solo i cretini e le cretine non cambiano idea. Ma sapete quale fu la motivazione con cui andò a spiegare la sua capriola dalla Fagnani, a Belve? «Non sono il tipo di donna che piace a Berlusconi. Sono hippy, a lui piacciono più composte».
A parte che se al Cavaliere le donne fossero piaciute composte, si sarebbe evitato molte ore di tribunale: quanta politica c’è in quel discorso? Subito dopo, a Un Giorno da Pecora, confessò un capriccio: «Sono passata da una prima a una seconda e mezza. La taglia di seno giusta per non arrazzare gli uomini» (testuale). Accusata di essere un filo aggressiva, ammette due sole debolezze: lo yoga e l’ex deputato del Pd, Dario Ginefra. Frase cult (quando le dissero che in Transatlantico le invidiano certe borse Chanel): «Mi sento un po’ Coco, un po’ Giovanna d’Arco». Auguri ai vincitori della riffa.
(ANSA il 12 luglio 2023) È stato condannato a 2 anni e 10 mesi per peculato, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e una confisca di 38mila euro, Alberto Di Rubba, nominato ad aprile nuovo amministratore federale della Lega. Di Rubba è anche ex presidente della Lombardia Film Commission ed ex direttore amministrativo del Carroccio al Senato.
La condanna in una tranche di indagine, coordinata dall'aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, scaturita da quella sul caso Lfc, che aveva portato già ad una condanna per Di Rubba e per Andrea Manzoni, ex revisore contabile della Lega alla Camera. Lo ha deciso il gup Natalia Imarisio, che ha mandato a processo Manzoni.
Nel nuovo filone, chiuso nel marzo 2022 a carico di 9 persone, sempre coordinato dall'aggiunto Fusco e dal pm Civardi e condotto dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, a Di Rubba e Manzoni e altri erano stati contestati, a vario titolo, reati fiscali, peculato (solo a Di Rubba) e bancarotta, anche a Manzoni, che ha scelto il rito ordinario.
Quest'ultimo, infatti, è stato rinviato a giudizio assieme ad altri imputati (Pierino Maffeis, Elio e Alessandro Foiadelli e Gabriele Nicoli) con la prima udienza fissata per il 23 novembre davanti alla terza sezione penale. Al centro della nuova tranche di indagine c'era anche la vicenda di peculato relativa alla società Areapergolesi, contestata appunto a Di Rubba e all'amministratore della stessa società Giuseppe Digrandi, che aveva già patteggiato. Di Rubba, invece, ha scelto il rito abbreviato e oggi è stato condannato (motivazioni tra 90 giorni).
Per una presunta bancarotta, invece, è imputato Manzoni, ma anche il presunto prestanome del caso Lfc Luca Sostegni (la sua pena in abbreviato è stata portata a 6 anni in continuazione con il patteggiamento del filone principale) e altre persone in relazione al fallimento del marzo 2021 della società New Quien. Sostegni è difeso dal legale Giuseppe Alessandro Pennisi. Luca Lanfranchi, altro imputato del processo abbreviato, è stato condannato a 2 anni.
Manzoni e Di Rubba sono stati già condannati per il filone principale rispettivamente a 4 anni e 4 mesi e 5 anni per il caso della compravendita del capannone di Cormano, acquistato dalla Lombardia Film Commission, con la quale sarebbero stati drenati 800mila euro di fondi pubblici. In ottobre ci sarà il processo d'appello. Mentre l'ex commercialista di fiducia della Lega, Michele Scillieri, e suo cognato, Fabio Barbarossa, hanno chiesto di patteggiare, davanti al gup Roberto Crepaldi, una pena di 4-5 mesi in continuazione con quella per peculato già patteggiata nel febbraio 2021.
Il tesoriere della Lega Alberto Di Rubba condannato a 2 anni e 10 mesi per peculato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2023
Era già stato condannato per il caso del capannone di Cormano acquistato dalla Lombardia Film Commission. Interdizione perpetua dai pubblici uffici e confisca di 38mila euro.
Alberto Di Rubba, nominato lo scorso aprile nuovo amministratore federale della Lega è stato condannato dal Gup Natalia Imarisio a 2 anni e 10 mesi per peculato, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e una confisca di 38 mila euro. Di Rubba è anche ex presidente della Lombardia Film Commission ed ex direttore amministrativo del gruppo della Lega al Senato. La condanna è relativa ad una tranche dell’ indagine coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi della Procura di Milano, a seguito dell’indagine sul caso Lfc, che si era già conclusa con una condanna per Di Rubba e per Andrea Manzoni, ex revisore contabile del gruppo della Lega alla Camera.
Nel nuovo filone d’indagine condotto dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano coordinato dall’aggiunto Fusco e dal pm Civardi conclusosi a marzo del 2022 bei confronti di 9 persone, a Di Rubba e Manzoni ed altri erano stati contestati, a vario titolo, reati fiscali, peculato (solo a Di Rubba) e bancarotta, anche a Manzoni, che ha scelto il rito ordinario.
Quest’ultimo, infatti, è stato rinviato a giudizio insieme agli altri imputati Elio e Alessandro Foiadelli, Pierino Maffeis e Gabriele Nicoli. La prima udienza fissata per il 23 novembre davanti alla terza sezione penale.
Al centro della nuova tranche di indagine vi era la vicenda di peculato relativa alla società Areapergolesi, contestata appunto al Di Rubba che ha scelto il rito abbreviato e mercoledì è stato condannato ed all’amministratore della stessa società Giuseppe Digrandi, che aveva patteggiato in precedenza. Manzoni e altre persone in relazione al fallimento del marzo 2021 della società New Quien, è imputato per una presunta bancarotta, mentre Luca Sostegni presunto prestanome del caso Lfc , la cui pena con il rito abbreviato è stata ridotta a 6 anni in continuazione con il patteggiamento del filone principale .
Luca Lanfranchi, altro imputato nel processo con rito abbreviato, è stato condannato a 2 anni. Manzoni e Di Rubba sono stati già condannati per il filone principale rispettivamente a 4 anni e 4 mesi e 5 anni per il caso della compravendita del capannone di Cormano, acquistato dalla Lombardia Film Commission, con la quale sarebbero stati drenati 800mila euro di fondi pubblici. Il prossimo ottobre inizierà il processo d’appello. L’ ex commercialista di fiducia della Lega, Michele Scillieri, e suo cognato, Fabio Barbarossa, a loro volta davanti al gup Roberto Crepaldi, hanno chiesto di patteggiare, una pena di 4-5 mesi in continuazione con quella per peculato già patteggiata nel febbraio 2021.
Condannato per peculato il tesoriere della Lega, il Pd chiede una commissione di inchiesta. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 12 luglio 2023
Di Rubba è stato condannato a due anni e dieci mesi, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, dal gup di Milano Natalia Imarisio in una tranche dell'inchiesta sulla Lombardia Film Commission. A processo Andrea Manzoni, ex revisore contabile del partito
Il tesoriere della Lega, Alberto Di Rubba, da due mesi amministratore federale del Carroccio, è stato condannato a due anni e dieci mesi per peculato, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e una confisca di 38mila euro. La sentenza è stata emessa dal gup di Milano Natalia Imarisio in una tranche dell'inchiesta sulla Lombardia Film Commission. Di Rubba, ex presidente della Lombardia Film Commission appunto, ed ex direttore amministrativo del partito in Senato, aveva già un’altra condanna, ma finora non ha visto concludersi la sua ascesa politica.
Di Rubba non è l’unico uomo della galassia di Matteo Salvini coinvolto in questa vicenda, con lui il commercialista Andrea Manzoni, socio di studio e in passato revisore contabile dei gruppi parlamentari della Lega. Manzoni è imputato con altre persone di bancarotta fraudolenta aggravata della società New Quien, dichiarata fallita dal tribunale Di Milano il 16 marzo 2021. Per lui il processo si aprirà il prossimo il 23 novembre 2023 davanti alla terza sezione penale del Tribunale.
Di Rubba, avendo scelto il rito abbreviato, è stato oggi condannato e, in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, è stato condannato anche il presunto prestanome del caso, Luca Sostegni, la cui pena in rito abbreviato è stata portata a 6 anni in continuazione con il patteggiamento del filone principale. L’ex commercialista di fiducia della Lega, Michele Scillieri, e suo cognato, Fabio Barbarossa, hanno chiesto di patteggiare. A ottobre ci sarà l’appello.
LA STORIA
Di Rubba e Manzoni erano stati già condannati insieme rispettivamente a 5 anni e 4 anni e 4 mesi per la compravendita di un capannone a Cormano.
Entrambi erano stati accusati di aver distratto dalla regione Lombardia quasi 1 milione di euro tramite la compravendita immobiliare effettuata da Lombardia film commission, quando Di Rubba era presidente nominato dalla giunta leghista di Roberto Maroni. Quei soldi erano stati versati dalla fondazione a una società del giro dei commercialisti e poi finiti ad altre aziende sempre della galassia dei leghisti.
LA COMMISSIONE DI INCHIESTA
Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Partito democratico in Regione, chiede di intervenire. La vicenda della Lombardia Film Commission, dice in una nota, «è un vero scandalo lombardo e la condanna dell'ex presidente di Rubba, uomo dei conti della Lega, ne è l’ennesima conferma» .
Il Pd in Regione - continua - ha chiesto conto delle incongruenze relative all'acquisto del capannone che funge da nuova sede dell'ente «e per anni la Giunta Fontana e la Lega hanno alzato una scandalosa cortina fumogena, negando e sminuendo ciò che appariva chiaramente come un’operazione discutibile».
Ora «chiederemo una commissione d'inchiesta, a costo di farla da soli, per smascherare il sistema di potere che ha portato ai reati alla base le diverse condanne, avvenuti a danno dei lombardi», conclude Majorino.
La consigliera dem Paola Bocci, che ha seguito il caso in passato, chiede alla regione trasparenza sulla Lfc: «Come sempre abbiamo fatto in questi anni, documentando e circostanziando le nostre denunce sulla mala gestione, pretendiamo trasparenza e che si chiuda definitivamente il periodo del malaffare e finalmente la Fondazione si dedichi a quel lavoro che da tempo chiediamo che faccia».
All’ennesima condanna Di Rubba «ci chiediamo se finalmente Regione Lombardia abbia aperto gli occhi e abbia compreso gli errori reiterati di piazzare personaggi impresentabili in ruoli chiave su enti da lei partecipati».
VANESSA RICCIARDI
Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica e la gavetta giornalistica nella capitale, ha collaborato con Il Fatto Quotidiano e Roma Sette, e lavorato a Staffetta Quotidiana. Idealista.
Estratto dell'articolo di Emanuele Lauria per repubblica.it il 14 aprile 2023.
Fuori un condannato, dentro un altro. […] Succede che il consiglio federale della Lega, riunito a Milano, decida di cambiare l'amministratore. Va via, dopo nove anni, il deputato Giulio Centemero, che nel marzo del 2022 è stato condannato a otto mesi con l'accusa di finanziamento illecito per i 40 mila euro ricevuti da Esselunga: la vicenda risale al giugno 2016.
Secondo l'accusa, Centemero aveva concordato il pagamento della somma di denaro con il fondatore della catena di supermercati, Bernardo Caprotti, poi deceduto. Attraverso l'associazione "Più voci", di cui Centemero era rappresentante legale, la somma sarebbe poi stata utilizzata per sanare i conti dell'emittente del Carroccio, Radio Padania.
[…]
Ma anche il sostituto di Centemero, il commercialista Alberto Di Rubba, sta regolando i propri conti con la giustizia. E per un altro reato di natura contabile: Di Rubba, assieme all'altro revisore contabile Andrea Manzoni, è stato condannato a 5 anni nel processo con rito abbreviato che l'ha visto imputato per la compravendita del capannone di Cormano, nel milanese, acquistato dalla Lombardia Film Commission e attraverso cui, secondo le accuse, sarebbero stati distratti 800 euro di fondi pubblici.
I reati contestati sono di peculato e turbata libertà di scelta del contraente. Nelle scorse settimane fece già discutere la nomina di Di Rubba quale consulente dei gruppi parlamentari della Lega.
(ANSA il 12 giugno 2023) - La Procura di Milano ha chiesto una condanna a 3 anni per Alberto Di Rubba, nominato lo scorso aprile nuovo amministratore federale della Lega, anche ex presidente della Lombardia Film Commission ed ex direttore amministrativo della Lega al Senato, in una tranche di indagine scaturita da quella sul caso Lfc, che aveva portato già ad una condanna per Di Rubba e anche per Andrea Manzoni, ex revisore contabile per il Carroccio alla Camera.
Nel nuovo filone, chiuso nel marzo 2022 a carico di 9 persone, sempre coordinato dall'aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi e condotto dalla Gdf, a Di Rubba e Manzoni e altri sono stati contestati, a vario titolo, reati fiscali, peculato (solo a Di Rubba) e bancarotta, anche a Manzoni, che ha scelto il rito ordinario (il gup dovrà decidere se mandarlo a giudizio).
L'ex commercialista di fiducia della Lega, Michele Scillieri, e suo cognato, Fabio Barbarossa, hanno chiesto intanto di patteggiare, davanti al gup Roberto Crepaldi, una pena di 4-5 mesi in continuazione con quella per peculato già patteggiata nel febbraio 2021.
Al centro del nuovo filone anche la vicenda di peculato relativa alla società Areapergolesi, contestata a Di Rubba e all'amministratore della stessa società Giuseppe Digrandi, e una presunta bancarotta a carico di Manzoni, del presunto prestanome Luca Sostegni (per lui chiesti 2 anni oggi) e altri in relazione al fallimento del marzo 2021 della società New Quien. Per Luca Lanfranchi, altro imputato, sono stati chiesti 2 anni e 2 mesi.
Nel rito ordinario ci sono anche Pierino Maffeis e Elio e Alessandro Foiadelli. Manzoni e Di Rubba sono stati già condannati per il filone principale rispettivamente a 4 anni e 4 mesi e 5 anni. L'udienza preliminare, davanti al gup Natalia Imarisio, andrà avanti il 10 luglio.
Salvini promuove tesoriere il contabile condannato per aver rubato soldi pubblici. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 14 aprile 2023
Leghista, commercialista, protagonista di uno degli scandali più eclatanti e recenti della Lega, socio del tesoriere del partito e condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi per aver drenato quasi 1 milioni di euro da una fondazione controllata da regione Lombardia.
Ecco l’identikit di Alberto Di Rubba. Chi meglio di lui, dunque, per assumere l’incarico di nuovo amministratore federale della Lega di Matteo Salvini? In attesa del processo di Appello, Di Rubba è rientrato nel giro che conta, con un ruolo ufficiale che neppure prima dell’arresto e della condanna aveva.
Prende il posto di Giulio Centemero, storico tesoriere da quando Salvini è diventato segretario, amico di Di Rubba, e condannato in primo grado per finanziamento illecito.
Leghista, commercialista, protagonista di uno degli scandali più eclatanti e recenti della Lega, socio del tesoriere del partito e condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi per aver drenato quasi 1 milioni di euro da una fondazione controllata da regione Lombardia. Ecco l’identikit di Alberto Di Rubba. Chi meglio di lui, dunque, per assumere l’incarico di nuovo amministratore federale della Lega di Matteo Salvini? Può sembrare uno scherzo, ma non lo è, anzi è il grande ritorno di una figura che ha condotto il partito per mesi sulle prima pagine dei giornali per l’inchiesta della procura di Milano in cui era coinvolto insieme al collega Andrea Manzoni (socio di studio e pure lui all’epoca revisore contabile dei gruppi parlamentari della Lega).
In attesa del processo di Appello, Di Rubba è rientrato nel giro che conta, con un ruolo ufficiale che neppure prima dell’arresto e della condanna aveva: piazzato con vari ruoli nelle società del partito, gestiva l’amministrazione della Lega dall’esterno con il suo studio ed era stato nominato revisore contabile del gruppo della Lega al Senato, ruolo abbandonato dopo l’inchiesta di Milano.
LA NOMINA DELLO SCANDALO
L’orologio segna le 14.19, il giorno da ricordare è il 14 marzo, quando la Lega di Matteo Salvini ha annunciato nella chat ufficiale un cambio nell’organigramma interno del partito di per sé indolore, in altre situazioni da rubricare alla voce ordinaria amministrazione. Non è però questo il caso. Perché il nominato alla carica di tesoriere, cioè guardiano dei conti della Lega, è appunto Di Rubba. Prende prende il posto di Giulio Centemero, deputato e amministratore federale, cioè tesoriere, anzi lo storico tesoriere della nuova Lega da quando Salvini è stato eletto segretario nel dicembre 2013. La decisione è stata presa nel corso del Consiglio Federale della Lega.
Di Rubba e Centemero non sono rivali, piuttosto potrebbero essere definiti professionisti gemelli: amici di università, in affari assieme fino a maggio 2022, erano soci dello studio Mdr Stp di commercialisti in centro a Bergamo. Studio che in un anno, tra il 2019 e il 2020, in piena inchiesta su Di Rubba e Manzoni, ha incassato dalla Lega più di mezzo milione di euro. Motivo? «Con la finalità di svolgere attività di consulenza amministrativa contabile e fiscale per il partito». L’autorità antiriciclaggio ha analizzato questi flussi di denaro e li ha segnalati alla guardia di finanza e alle procure che indagavano sulle finanze del partito di Salvini.
I finanzieri in una informativa agli atti dell’inchiesta della procura di Milano sui commercialisti scrivono che i pagamenti ricevuti da Mdr Stp potrebbero configurare un conflitto di interessi per Centemero, in quanto tesoriere e deputato del partito, che è anche pagatore della società di cui è socio. Ora Centemero non è più il tesoriere né è più socio, così come Di Rubba, ufficialmente uscito dalla società, che ha un solo azionista adesso, Andrea Manzoni, il terzo del trio di commercialisti che doveva rimettere a posto l’immagine finanziaria della Lega dopo gli scandali dell’epoca di Umberto Bossi e che invece ne hanno provocati di altri.
CONDANNATI E CONTENTI
Di Rubba è stato condannato in primo grado insieme a Manzoni per aver distratto dalla regione Lombardia quasi 1 milione di euro tramite una compravendita immobiliare effettuata da Lombardia film commission, quando Di Rubba era presidente nominato dalla giunta leghista di Roberto Maroni. Quei soldi serviti ad acquistare un capannone a Cormanno sono stati versati dalla fondazione Lombardia Film Commission a una società del giro dei commercialisti e poi finiti ad altre aziende sempre della galassia dei leghisti.
Per la medesima vicenda sono stati condannati anche l’imprenditore che si è prestato per movimentare il denaro, diventato importante fornitore del partito capace di incassare dal partito alcuni milioni di euro, e un terzo commercialista, nel cui studio era stata inizialmente domiciliata la Lega Salvini premier. Quest’ultimo, Michele Scillieri, ha poi collaborato con i magistrati rivelando il “sistema” delle fatturazioni messo in piedi dai due commercialisti del partito.
Di Rubba prende il posto di tesoriere subentrando a Centemero, pure lui coinvolto in altre inchieste sui soldi della Lega. Condannato in primo grado per finanziamento illecito dal tribunale di Milano, è sotto processo con la medesima accusa a Roma. Finanziamenti ricevuti da Esselunga e il costruttore romano Luca Parnasi tramite un’associazione, Più Voci, creata nel 2015 presso lo studio dei commercialisti Di Rubba e Manzoni. Sempre loro, gli amici commercialisti della Lega e degli scandali. Che nonostante tutto hanno ancora la fiducia del ministro e leader della Lega, Salvini.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Due leghe e una capanna. . Report Rai PUNTATA DEL 12/12/2022 di Luca Chianca
Collaborazione di Alessia Marzi
Abbiamo vissuto una campagna elettorale mai vista finora.
Salvini ha tentato fino all'ultimo di contendersi la premiership con l'alleata Meloni, radunando migliaia di simpatizzanti nel sacro prato di Pontida, dove ha avuto inizio la storia del vecchio partito guidato da Umberto Bossi. Ma cosa nasconde questo prato dove son tornati a radunarsi i vecchi militanti della Lega Nord e di quella di Salvini Premier? Uno scambio di soldi tra i due partiti. La Lega di Salvini, infatti, ha versato all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega nord, ben 250 mila euro per l'affitto di un solo giorno di raduno. Pochi giorni dopo, con una parte di quei soldi, il vecchio partito ha pagato Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato a dicembre scorso a 5 anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda perché avrebbe sottratto fondi pubblici, con i due contabili del partito di Salvini, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Nomi noti per Report che si è occupato più volte della vicenda. L'estate scorsa, però, spunta una storia esclusiva che vede coinvolto sempre l’imprenditore Barachetti e un comune amministrato dalla Lega. Questa volta al centro dell'inchiesta è la caserma dei carabinieri di Trezzo sull'Adda, dove Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto da 600mila euro per terminarne i lavori.
Le risposte integrali dell'On. Giulio Centemero
Le risposte integrali di Francesco Barachetti
Da: On. Giulio Centemero Inviato: venerdì 9 dicembre 2022 20:45 A: [CG] Redazione Report Cc: Luca Chianca Oggetto: Re: Richiesta informazioni_Report, Rai 3 Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI
Spettabile Redazione di Report, in risposta alla vostra richiesta di informazioni in merito ai rapporti economici tra Lega per Salvini Premier e Lega Nord Vi rappresento quanto segue. Il partito Lega per Salvini Premier come Vi sarà certamente noto, successivamente alla sua costituzione, ha posto la propria sede a Milano in via Bellerio n. 41, nell’immobile di proprietà di Pontida Fin e sede storica del partito Lega Nord. Pertanto, Lega per Salvini Premier corrisponde un canone di locazione che nel tempo è aumentato in ragione degli spazi via via utilizzati dal partito e dei lavori di ristrutturazione che nel tempo sono stati realizzati nelle diverse aree dell’immobile, sino ad arrivare alla consistenza attuale a Voi nota che è pari a 320 mila euro all’anno. L’immobile originariamente acquisito dalla società Pontida Fin nel lontano 1993 da tempo aveva necessità di una imponente ristrutturazione degli spazi interni e in alcuni casi anche delle strutture esterne. Le opere di ristrutturazione sono state affidate alle società Barachetti Service srl e BMG srl riferibili a Francesco Barachetti che ha curato personalmente la realizzazione dei lavori dalla fase di progettazione sino a quella di messa in opera. Per tali opere le società hanno curato, quali general contractor, di individuare e mantenere i rapporti, anche di natura economica, con i diversi fornitori interessati alla realizzazione del progetto di ristrutturazione. La transazione sottoscritta tra le parti è semplicemente la scrittura con la quale si regolano in via transattiva i rapporti economici con la predetta società per l’esecuzione delle opere già svolte e non ancora saldate. Nella medesima scrittura, inoltre, si ridimensiona il progetto di ristrutturazione che originariamente prevedeva anche il rifacimento del corpo autonomo denominato “Tele Padania”, sede storica dell’omonima emittente televisiva, perchè eccessivamente oneroso rispetto alla situazione finanziaria di Pontida Fin srl. Le speculazioni sul tema dei pagamenti alla società Barachetti Service sono davvero incomprensibili. La società ha curato imponenti lavori di ristrutturazione e per questi ha esposto i costi comprensivi, come detto, in alcuni casi anche di terzi fornitori. I lavori come anche i pagamenti si sono in parte interrotti nel corso del 2021, a seguito della vicenda giudiziaria legata alla fondazione Lombardia Film Commission che ha visto coinvolto tra gli altri Francesco Barachetti, per poi essere ripresi e correttamente definiti. In definitiva, si sta semplicemente pagando quanto dovuto per i lavori eseguiti come avviene per ogni altro fornitore. Quanto infine all’utilizzo del terreno ove si svolge il consueto raduno di Pontida Vi confermo che Lega per Salvini Premier ha corrisposto la somma di 250 mila euro alla società Pontida Fin proprietaria dello stesso. Da ultimo, va precisato che, tra i vari soggetti da Voi citati, unicamente il sottoscritto riveste attualmente una carica apicale in entrambi i partiti politici. Sperando di aver chiarito i punti di vostro interesse, colgo l’occasione per evidenziare il tempismo non casuale della presente richiesta, che infatti ha ad oggetto profili che, sarà un caso, vengono negli stessi termini dedotti a supporto di una domanda giudiziale avverso il partito, su cui dovrà esserci pronuncia nel mese di gennaio. Cordialità, GC Inviato da iPhone
Da: Matteo Montaruli Inviato: venerdì 9 dicembre 2022 15:32 A: [CG] Redazione Report Cc: Luca Chianca Oggetto: R: Richiesta informazioni all'attenzione di Francesco Barachetti Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI
Gentile Dott.ssa Marzi, La ringrazio per la Sua richiesta. Relativamente alla prima questione, Le specifico che nel 2022 i rapporti tra Barachetti Service e Pontida Fin sono stati per lo più relativi alla gestione del recupero di un credito per attività eseguite e fatturate nelle annualità 2020/2021 per le quali è stata concordata una dilazione di pagamento oltre che alla definizione di un serie di rapporti rimasti sospesi nel periodo in cui il Sig. Barachetti era stato impossibilitato. Relativamente alle altre richieste, sinceramente, non comprendiamo la necessità di fornire riscontro, atteso che le stesse riguardano attività ordinarie aziendali e non fatti di interesse generale tipici del diritto di cronaca. Di contro, siamo a piena disposizione ove sia Sua intenzione approfondire la nota questione “Lombardia Film Commission”, la cui sentenza di primo grado è stata impugnata innanzi alla Corte d’Appello di Milano. Un cordiale saluto, Matteo Montaruli ________________________________
Avv. Matteo Montaruli Keller Montaruli & Associati STA S.r.l. 24122 Bergamo (Italy)
Lega, due partiti per salvarsi dalla magistratura che indaga sui 49 milioni scomparsi. Il partito di Umberto Bossi con i conti sequestrati. E quello per Salvini premier con i bilanci in rosso. Entrambi sono oggetto di procedimenti giudiziari. E tutti e due prendono i fondi del 2 per mille. Sergio Rizzo su L'Espresso il 29 novembre 2023
Società priva di vitalità economica che viene utilizzata per assorbire attività in sofferenza, lasciando contemporaneamente una good company in grado di svolgere un’azione efficiente e profittevole». Questa è la definizione di «bad company», per il dizionario Treccani di Economia e Finanza. Ma che cosa c’entra questo con la Lega? C’entra eccome.
Nel 2017 la tempesta giudiziaria sulla presunta scomparsa di 49 milioni di fondi del partito sta toccando l’apice. I magistrati arrivano a sequestrare i conti del fondatore, Umberto Bossi. Urge correre ai ripari. Così alla fine del 2017 il segretario federale Matteo Salvini fonda un partito nuovo di zecca. Che si chiama, caso unico in uno scenario politico ormai dominato dal personalismo ma nel quale nessuno ha finora avuto il coraggio di spingerlo alle estreme conseguenze, con il suo nome: «Lega per Salvini premier». Assai impegnativo.
Ma la mossa serve a uno scopo ben preciso. Sganciarsi dalla rogna dei 49 milioni lasciandola sul groppone della vecchia Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. La bad company, appunto. Nel suo bilancio figurano infatti debiti per 18 milioni di euro, cifra pari alla differenza fra i famosi 49 milioni che secondo gli inquirenti sarebbero evaporati e le somme già sequestrate «sui conti correnti, delle società partecipate e delle singole articolazioni territoriali» della vecchia Lega, come precisa la nota integrativa.
Ma la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania è tutt’altro che una semplice bara fiscale. Stipendia ancora tre dipendenti e ha in banca 648 mila euro. Ogni mese la nuova Lega le paga l’affitto della sede di via Carlo Bellerio. Che è di proprietà di Pontida Fin, rimasta in carico al partito bossiano assieme all’altra società Fingroup. Ma soprattutto ci sono i soldi del 2 per mille. Perché nonostante la Lega operativa sia quella di Salvini, anche la vecchia Lega Nord continua a incassare denari pubblici. Ci sono ancora 38.010 persone che le destinano il contributo, per un introito di 441.688 euro. Sono addirittura circa 4.300 più dei 33.720 che l’anno scorso hanno deciso di finanziare Forza Italia.
La situazione è oggettivamente singolare. Siccome le Leghe sono due, entrambe hanno diritto al 2 per mille. In tutto 18,2 milioni, da quando è entrato in vigore il nuovo regime: 10,5 la Lega di Salvini e 7,7 quella di Bossi. E la parabola salviniana, dal 14 per cento dei consensi nel 2015, al record del 34 per cento nel 2019, fino al 10 per cento scarso di oggi si delinea chiaramente nei numeri dei contribuenti. Nel 2015 quelli che supportavano l’unico Carroccio esistente erano 138.941. All’epoca delle elezioni europee con Salvini al vertice della popolarità, erano diventati 338.201 per le due Leghe. Ma nel 2022 si è tornati mestamente ai livelli del 2015: in tutto 137.677, sommando i 38.010 del vecchio Carroccio ai 99.667 di Salvini. Più di 200 mila contribuenti, il 60 per cento, perduti in tre anni. Un disastro.
E dire che servirebbero come il pane. Mentre la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, nonostante la grana dei 49 milioni, chiude i bilanci in utile (305 mila euro nel 2021 e 162 mila l’anno scorso), la Lega per Salvini premier ha archiviato il 2022 con un buco di quasi 4 milioni. Colpa della campagna elettorale, con i soldi che non bastano mai.
Il gettito del 2 per mille, 1,2 milioni contro i 3,1 del momento d’oro, non copre neppure il 10 per cento delle spese. E il resto? Per le campagne elettorali qualche azienda un aiutino lo offre. Senza esagerare, però. Spicca nel 2022 la generosità da 100 mila euro del Monte Finanziario Europeo, società di proprietà di Martina e Pietro Luigi Polidori, figli ed eredi dell’attività di Francesco Polidori: fondatore del Cepu e dell’università telematica e-Campus nonché patron della Link Campus university. Non meno prodighi Alessandro e Vincenzo Galantuomo, proprietari dell’istituto Irsaf (50 mila euro) e di Orienta Campus (altri 50 mila), struttura che supporta l’attività della e-Campus di Polidori.
La verità è che la Lega, come ormai tutte le formazioni politiche, si finanzia soprattutto con i contributi dei propri eletti. E il partito di Salvini dispone anche di margini più ampi rispetto agli altri partiti. La stragrande maggioranza dei parlamentari leghisti ha rinunciato ai collaboratori, con il risultato che il plafond esentasse di 3.690 euro mensili alla Camera e 4.180 al Senato che sarebbe destinato alla loro retribuzione è disponibile anche interamente per essere girato al partito.
Si spiega così la valanga di denaro che dagli eletti è piovuta nelle casse del tesoriere Alberto Di Rubba? Parliamo di quasi 6 milioni e mezzo nel 2022, il doppio di un partito come il Pd che in quello stesso anno aveva più parlamentari della Lega. C’erano le elezioni, d’accordo. E gli onorevoli leghisti sono stati spremuti fino all’inverosimile. Molti hanno versato più di 50 mila euro.
Dovrebbero contribuire anche i consiglieri regionali. Ma nel bilancio se ne trovano poche tracce. Basta dire che lo scorso anno il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana risulta aver versato appena 3.000 euro. Probabilmente anche lui stava sulle spese, per la campagna elettorale delle regionali. Poi ci sarebbero i soldi dovuti dai leghisti che occupano posti di sottogoverno. Come quelli nelle società pubbliche. Ma qui si apre un’altra storia, che comincia più di cinque anni fa.
Ai giudici il commercialista Michele Scillieri ha detto di sapere che i nominati per conto della Lega devono versare al partito una quota dei loro emolumenti. Secondo i magistrati, Scillieri sarebbe fra i protagonisti di una maleodorante vicenda che coinvolge gli uomini con compiti di gestione delle risorse del partito più vicini a Salvini.
Mentre scriviamo la vicenda giudiziaria non è ancora conclusa. Sono già fioccati però a carico dei protagonisti, fra patteggiamenti e condanne, diversi anni di carcere. Scillieri, per esempio, ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi. E non è affatto un personaggio marginale.
È lui che tiene a battesimo il nuovo partito «Lega per Salvini premier», che all’inizio ha sede non in via Bellerio, bensì in via Privata delle Stelline, numero 1: indirizzo dello studio di Scilleri. Quando la nuova Lega nasce alla fine del 2017, il suo tesoriere è lo stesso della vecchia Lega Nord. Ossia Giulio Centemero, presidente della ex Radio Padania, incidentalmente cugino della ex deputata di Forza Italia Elena Centemero. Un anno dopo, il 19 ottobre 2018, Centemero partecipa a una società fra professionisti con altri tre commercialisti. Sono Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Stefano Borghesi. Di Rubba e Manzoni hanno il 48% ciascuno mentre Borghesi e Centemero controllano una quota simbolica del 2%. Infatti la srl si chiama solo Manzoni & Di Rubba. Dei quattro, Borghesi e Centemero sono parlamentari. Ma i loro soci d’affari non sono meno importanti. Di Rubba è direttore amministrativo della Lega in Senato e gestisce la Pontida Fin. Ha anche un incarico regionale di peso: presidente della Lombardia Film Commission. Alberto Manzoni invece è revisore contabile della Lega alla Camera, amministratore delegato della ex Radio Padania e Fingroup, oltre che liquidatore di Editoriale Nord. Ma Di Rubba e Manzoni hanno anche una società comune al 50 per cento: Partecipazioni srl. Manzoni è poi nel collegio sindacale della Dea, una società della famiglia di Rubba, assieme a Centemero. Insomma, il gruppo che governa le finanze della Lega è ben affiatato non solo dai legami politici.
Un bel giorno succede che la Fondazione Lombardia Film Commission di Di Rubba decide di acquistare un capannone in una zona a Nord di Milano. Prezzo: 800 mila euro. Ma l’affare puzza. Il capannone viene venduto da una società, Immobiliare Andromeda, che l’ha comprato da quello che i magistrati ritengono un prestanome. Le azioni di Andromeda per giunta sono in una fiduciaria, ma poi salta fuori che il proprietario è Fabio Giuseppe Barbarossa. Non un pro-pro-pronipote del Federico II sconfitto da Alberto da Giussano alla battaglia di Legnano. Bensì il cognato di Scilleri. La tempesta giudiziaria su questa vicenda, e sugli intrecci a suo tempo rivelati da L’Espresso, è inevitabile.
Barbarossa patteggia 2 anni e un mese. In primo grado Manzoni si becca 4 anni e 4 mesi. Invece la condanna per Di Rubba è a cinque anni. Ma ciò non scoraggia Salvini, che lo nomina tesoriere al posto di Centemero, peraltro a sua volta nei guai per finanziamento illecito: 250 mila euro versati dal costruttore Luca Parnasi, quello che avrebbe dovuto realizzare lo stadio della Roma calcio, alla associazione Più Voci ritenuta dagli inquirenti una propaggine leghista. Il 27 ottobre la procura ha chiesto per lui 3 anni e 4 mesi di reclusione. Che comunque è sempre tesoriere della vecchia Lega Nord.
Quanto alle rivelazioni di Scillieri sulla presunta gabella imposta per gli incarichi di sottogoverno, le tracce sono labili per non dire inesistenti. Almeno quelle alla luce del sole. Nel 2022 c’è un solo manager di spicco di una società pubblica, ex parlamentare leghista, che ha contribuito al partito. Con 5 mila euro. Il suo nome: Trifone Altieri. Bocciato alle elezioni del 2018, è stato collocato alla presidenza di Invimit, la società di Stato per la valorizzazione degli immobili pubblici. Poltrona che occupa ancora.
DUE LEGHE E UNA CAPANNA di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi immagini Fabio Martinelli montaggio di Emanuele Redondi
RADUNO DI PONTIDA – 18 SETTEMBRE 2022 SPEAKER Popolo di Pontida tutti insieme salutiamo il segretario federale della Lega Matteo Salvini. Tutto il prato: Matteo! Matteo! Matteo!
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Lasciatemi dire che dopo tre anni di Covid, con la crisi economica, con la preoccupazione dei mutui, delle bollette, vedere voi, vedere decine e decine di migliaia di persone mi riempie il cuore e non c'è processo che mi possa e ci possa fermare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il processo è quello che lo vede accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, perché si sarebbe rifiutato, appunto, nelle vesti di ministro dell’Interno nel 2019, di far approdare la nave dell’Ong spagnola Open Arms. E lo fa difendendosi da quel palco di Pontida, da dove è cominciata tutta la storia della Lega, quella legata a Umberto Bossi che dopo anni di silenzio è tornato a farsi vivo. Il 3 dicembre scorso ha riunito alcuni fedelissimi approfittando della crisi di leadership di Salvini; lo ha accusato di aver tradito l’identità leghista. Insomma, è riemerso un problema irrisolto, quello delle due anime della Lega, Salvini da una parte e dall’altra Umberto Bossi. Anime che sono nate, scaturite dopo che la Procura di Genova ha chiesto la restituzione dei 49 milioni di euro, frutto secondo lei di una truffa elettorale. Il nostro Luca Chianca cerca di districarsi tra le due anime.
RADUNO DI PONTIDA – 18 SETTEMBRE 2022 MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Chi non ha memoria non ha futuro, chi dimentica le sue radici, non ha futuro, sempre grazie, onore e forza a Umberto Bossi, sempre. Umberto siamo qua grazie a te, siamo qua per te e andremo molto lontano. Grazie!
SPEAKER Salutiamo ancora il segretario federale della Lega, Matteo Salvini!
LUCA CHIANCA Chi votate voi, Lega Nord o Salvini Premier?
MILITANTE Noi votiamo per la Lega su Salvini premier, facciamo sulla croce lì. Cosa c'entra Lega Nord?
LUCA CHIANCA Eh, perché c'è ancora.
MILITANTE Eh ma non mi interessa, io voto Lega Salvini Premier.
GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Sicuramente Salvini è stato abile nel far credere alla gente che la Lega Nord si fosse trasformata; in realtà no, lui la Lega Nord l'ha congelata, surgelata, ibernata, sicuramente inchiodata senza possibilità di far politica e ne ha aperta un'altra.
LUCA CHIANCA Cioè, sembra un unico partito però tecnicamente diviso in due.
GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Sì, probabilmente per evitare di assorbirne i debiti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Lega Nord, quella vecchia di Umberto Bossi, per volere del nuovo partito di Salvini non fa più attività politica, non presentandosi alle elezioni. Eppure, la Procura di Genova aveva permesso di spalmare per ben 70 anni il debito dei 49 milioni per le truffe dei rimborsi elettorali, proprio per evitare che un partito chiudesse e consentire a milioni di elettori di poter votare ancora Lega Nord.
GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Il problema è che è stata una presa in giro per la Procura, per la Cassazione, per la Corte dei Conti e per gli elettori della Lega Nord perché immediatamente dopo aver fatto questo tipo di accordo la Lega Nord non ha più fatto attività politica, pur continuando a percepire dei soldi.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi la Lega Nord continua a percepire il 2X1000 e con quei soldi paga il debito dei 49 milioni allo Stato, ma come ha scoperto Giovanni Tizian del Domani, la sua immobiliare, la Pontida Fin, incassa anche altri soldi che arrivano dalla Lega di Salvini. Primo tra tutti l'affitto per la sede di via Bellerio di proprietà della vecchia Lega.
GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA “DOMANI” Inizialmente il contratto di locazione prevedeva il versamento di 120mila euro, poi dopo un anno incredibilmente, senza una motivazione particolare, viene triplicata questa cifra e diventa 320mila euro l'anno, che è una cifra sbalorditiva per quel luogo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Lega di Salvini versa l’affitto all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega Nord. Alla quale paga anche l’affitto del pratone per il raduno. L’affitto in questo caso è astronomico. Ben 250 mila euro per un solo giorno!
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Non mi occupo degli affitti.
LUCA CHIANCA Però è strana, no?
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO In che senso?
LUCA CHIANCA Perché la stessa Lega paga sé stessa sostanzialmente per l'affitto di un terreno.
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Fa domande a uno che non sa nulla di queste robe, se mi parli degli affitti del Veneto io so tutto.
LUCA CHIANCA La Lega di Salvini che paga l'affitto alla Lega Nord.
MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Dovete chiedere all'amministrazione, non so.
LUCA CHIANCA Eh, ma perché?
MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Chiedete qualcosa di cui non sono a conoscenza.
LUCA CHIANCA Paga Pontida, paga la sede di via Bellerio, perché un trasferimento di soldi tra i due partiti?
MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Dovete parlare con gli amministratori, non con me, io sono abituato a parlare quando le cose le so.
LUCA CHIANCA Però è strano che non sappiate nulla di tutto ciò, no?
MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Non sono mica sono l'amministratore della Lega.
LUCA CHIANCA Perché pagano l'affitto se sono fondamentalmente sempre loro?
GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DOMANI Probabilmente questo contratto di locazione serve proprio per tenere distinti e mostrare all'autorità giudiziaria a chiunque, al mondo, che Lega Salvini Premier e Lega Nord sono due cose distinte però, come dire, è una distanza fittizia perché ripeto i personaggi sono gli stessi.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nei due partiti, la vecchia Lega e quella di Salvini, troviamo contemporaneamente Umberto Bossi, Igor Iezzi, Roberto Calderoli, il nuovo presidente della Camera Lorenzo Fontana e Giulio Centemero che è tesoriere e amministratore delle due leghe, di fatto con la mano destra paga, mentre con la sinistra incassa.
LUCA CHIANCA Un tesoriere che è lo stesso di qua e di là, utilizzano la stessa sede, via Bellerio, utilizzano Pontida, difficile dire che siano due partiti diversi, no?
FRANCESCO PINTO – PROCURATORE AGGIUNTO – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA Beh, è una valutazione che certamente può essere fatta.
LUCA CHIANCA Non sarebbe più semplice rivalersi sulla nuova Lega che di fatto è la vecchia Lega con qualche rivisitazione?
FRANCESCO PINTO – PROCURATORE AGGIUNTO – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA No, perché il soggetto politico che è stato indicato come indebito percettore di quelle somme è un soggetto che formalmente è ancora esistente.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Esiste, ma non all’elezioni e, con una parte degli affitti ricevuti dalla Lega Salvini Premier, a luglio la sua immobiliare, la Pontida Fin, ha girato altri soldi a una vecchia conoscenza di Report: Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato in primo grado a dicembre scorso a cinque anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda per peculato e false fatture insieme ai due contabili del partito di Salvini: Alberto di Rubba e Andrea Manzoni.
GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA “DOMANI” Lega Salvini Premier paga a Pontida fin 250mila euro per l'affitto.
LUCA CHIANCA Di un giorno di raduno.
GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DOMANI Di un giorno di raduno per Pontida, due giorni dopo, il 15 luglio 2022, Pontida Fin versa la prima rata a Barachetti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Abbiamo aspettato il segretario tutto il giorno, fino agli ultimi selfie e saluti con i suoi fan.
LUCA CHIANCA Senatore scusi se la disturbo.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta, basta.
LUCA CHIANCA Mi dia una risposta sui soldi che sono andati a Barachetti.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta
LUCA CHIANCA La Lega Salvini paga Pontida alla Lega Nord e la Lega Nord dà i soldi a Barachetti.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta ma non stai portando rispetto... io sono qua per loro.
LUCA CHIANCA Sì, però io vorrei avere una risposta da lei, ci faccia capire perché avete ancora rapporti con l'imprenditore Barachetti, no?
UOMO Dopo risponde, dopo risponde.
LUCA CHIANCA È stato anche condannato in primo grado per la Film Commission.
UOMO Dopo risponde, fai far le foto.
LUCA CHIANCA Cioè i soldi son partiti a luglio, non sono soldi vecchi eh. Perché avete ancora rapporti con Barachetti? Senatore, una domanda…
UOMO È un attimo in un momento privato, dai, ragazzi.
LUCA CHIANCA Privato, come privato?
UOMO Un secondo, ha finito il palco, dai, per piacere un attimino di cortesia nei suoi confronti anche come persona.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO La Lega Salvini premier ha pagato per l’affitto del prato la Pontida Fin, che poi ha girato parte dei soldi all’imprenditore Barachetti. Ci ha scritto il suo legale e ci dice "che si tratta di importi relativi ad attività eseguite e fatturate nelle annualità 2020/2021". Si tratta di imponenti lavori di ristrutturazione della sede di Via Bellerio. Ci scrive il tesoriere Centemero. Barachetti è anche forte di una scrittura privata che gli consentirà di incassare 400mila euro; è stata firmata a luglio del 2022. Ma chi è Francesco Barachetti? È intanto un imprenditore bergamasco, vicino di casa di uno dei contabili della Lega di Salvini, Di Rubba, ed è considerato un fornitore attendibile, solido. Ha incassato negli anni più di 2 milioni e mezzo di lavori. Viene utilizzato anche per alcune operazioni un po’ spregiudicate e infatti è stato condannato in primo grado a 5 anni per peculato e false fatturazioni con i contabili della Lega Di Rubba e Manzoni nell’operazione della sede della Film Commission Lombardia, dove sarebbero stati sottratti, secondo i magistrati, dei soldi pubblici. Ora Barachetti, emerge anche dalle intercettazioni di questa inchiesta, avrebbe anche tentato di tener buono Luca Sostegni, cioè il prestanome utilizzato in questa operazione del capannone. Avrebbe tentato di acquistare degli immobili di proprietà di Sostegni; operazione che poi non è andata a buon termine. Perché lo fa Barachetti? Perché Luca Sostegni aveva minacciato, non ottenendo il pattuito, di rivelare tutto a Report, e per questo aveva contattato il nostro Luca Chianca. Poi però il nostro Luca Chianca adesso ha scoperto un nuovo appalto che lega i leghisti al solito Barachetti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora parlavamo degli imprenditori di fiducia che ruotano intorno alla Lega di Salvini e degli appalti che vengono concessi e parlavamo nello specifico di Francesco Barachetti. È stato coinvolto, condannato in primo grado insieme ai contabili della Lega Di Rubba e Manzoni, nella vicenda della sede della Film Commission Lombardia, dove sarebbero stati sottratti, secondo i magistrati, dei denari pubblici. Barachetti è un imprenditore di fiducia della Lega, negli anni ha incassato oltre 2 milioni e mezzo di lavori. Ora il nostro Luca Chianca ha scoperto un nuovo appalto; riguarda i lavori di una caserma dei carabinieri che alcuni periti davano per quasi terminati; invece, un nuovo progetto li ha riaperti e ha aumentato, quasi duplicato, i costi dei lavori. Neanche a dirlo, gli amministratori in quota Lega chiamano alla procedura negoziata il solito Barachetti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo a Trezzo sull'Adda, confine tra la provincia di Milano e quella di Bergamo. Qui Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto di 600mila euro per terminare i lavori della Caserma dei Carabinieri. Sindaco dell'epoca è il leghista Danilo Villa.
LUCA CHIANCA La nota interessante di questo appalto è che viene affidato alla ditta di Francesco Barachetti.
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Ciao, ciao.
LUCA CHIANCA Francesco Barachetti lei lo conosce?
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Personalmente no, però…
LUCA CHIANCA Sa chi è, no?
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Sì, lo so, lo so…
LUCA CHIANCA Casnigo, la storia della Lega, indagato, imputato nel processo, ha preso un sacco di soldini da…
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Lo so, lo so, ma la vostra teoria di relazione tra Barachetti e quest'opera casca male, casca male.
LUCA CHIANCA No, non è una teoria. Mi chiedo: come ci arriva…
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Prendete un appuntamento e ci vediamo.
LUCA CHIANCA Lo prendiamo adesso. Aspetti, aspetti…
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 C’ho da fare!
LUCA CHIANCA Come c'arriva Barachetti qui a Trezzo sull'Adda dalla Val Seriana?
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Credo legato al direttore lavori.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il direttore dei lavori e anche progettista della Caserma di Trezzo sull’Adda, è Italo Madaschi, che ha lo studio in Val Seriana, proprio dove c'è il quartier generale di Barachetti.
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Io preferisco che mi vengano le ditte che so che mi fanno i lavori e mi finiscono i lavori piuttosto che quella precedente che non ha finito i lavori, è fallita e ha lasciato indietro i pagamenti.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tuttavia, la ditta precedente gran parte dei lavori li aveva conclusi ed erano stati anche collaudati dal Comune, come ricorda un rappresentante della ditta stessa.
LUCA CHIANCA Quando arriva il fallimento della sua società i lavori sono completati per…?
FABRIZIO SALA – EX AMMINISTRATORE UNICO LE FOPPE SRL Al 95 per cento.
LUCA CHIANCA 95 per cento, firmato dal Comune? Tutti firmati dal…
FABRIZIO SALA – EX AMMINISTRATORE UNICO LE FOPPE SRL Sì, tutti gli stati d'avanzamento sono stati controfirmati dal collaudatore del Comune, oltre che al direttore lavori delle opere ovviamente.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche il perito del tribunale fallimentare certifica che gran parte dei lavori erano stati fatti e che per completare la caserma sarebbero servite opere per 491mila euro. E di questo era consapevole anche l’ex assessore al bilancio in quota Lega, Sergio Confalone.
SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 La caserma era, secondo quello che sapevamo noi già nella precedente legislatura, era già finita.
LUCA CHIANCA Era quasi finita?
SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 Il sindaco stesso ce la dava già finita nella prima legislatura.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Invece il direttore dei lavori Madaschi, voluto dal Comune a guida leghista di Danilo Villa, presenta un nuovo progetto per completare la caserma. Non bastano i 491 mila euro, quantificati dal perito del tribunale, ma il doppio: costo un milione e 50mila euro. Ed è qui che entra in campo Barachetti.
LUCA CHIANCA Com'è possibile 500mila euro in più?
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Abbiamo trovato i tubi sottotraccia dove non passavano i cavi o non correva più l'acqua, perdite, abbiamo trovato un tubo dell'acqua calda collegato alla fredda e viceversa.
LUCA CHIANCA Però sorprende che un Ctu del tribunale fallimentare di Milano dica, no, addirittura, l'importo per completare e rendere funzionale l'opera, anche risolvendo le problematiche con vizi e difetti, sia di 490.
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Sorprende però è così.
LUCA CHIANCA Ho capito ma non può sbagliarsi di 500mila euro, cioè qui stiamo… che lavoro ha fatto?
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Ho capito ma perché ho sbagliato io e non ha sbagliato lui?
LUCA CHIANCA Avete fatto un'altra caserma, no?
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Allora, nella battuta nostra era: se la demolivamo e ricostruivamo non ci pensavamo tanto di più.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per giustificare la congruità del nuovo intervento, Madaschi allega delle foto. Gli esterni, il piano interrato, il piano terra, primo piano e copertura del tetto.
SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 Però al di là di qualche presa mancante o qualche allagamento dovuto forse a qualche… cioè, sinceramente non si vedeva una situazione tale da dover investire, secondo me, una cifra così importante.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine alla gara negoziata più ghiotta da 600mila euro si presentano solo due ditte. E la vince Barachetti.
LUCA CHIANCA Solo la Colman Luca e Barachetti fanno l'offerta. Le suggerisce lei queste?
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Se le ho indicate non gliel'ho so dire, non me lo ricordo.
LUCA CHIANCA Queste procedure negoziate però sono così, cioè si individua la ditta che deve fare i lavori e alla fine si fa vincere fondamentalmente, no?
ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) No, perché fanno le offerte, non lo sappiamo lì cosa esce dall'offerta.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’anomalia è che nella gara appare una terza ditta che non fa neanche un'offerta. Secondo Banca d'Italia è in rapporti economici con quella di Francesco Barachetti.
LUCA CHIANCA Eh, ma se qui si conoscono tutti e son della stessa zona, si vedono a tavolino prima e dicono no, l'offerta non la faccio, la fai tu. ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Allora se dobbiamo pensar male, tutte le gare sono così. LUCA CHIANCA Mi sto occupando della caserma. FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Caserma dei carabinieri. Oh signor, era iniziata male... LUCA CHIANCA Sì. FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Oh signor, era iniziata male... LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fausto Negri è amico di università del direttore dei lavori Madaschi, ma è anche il capo dell'ufficio tecnico del comune di Trezzo sull'Adda che aggiudica a Francesco Barachetti l'appalto di 600mila euro per finire la caserma.
LUCA CHIANCA Ma sorge il dubbio che venga invitata perché faccia parte del sistema del partito, questo è il punto.
FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Allora da parte mia non ho mai avuto nessuno incarico da parte della Lega, quindi… posso avere delle simpatie leghiste ma questo...
LUCA CHIANCA Lei si è candidato proprio con la Lega.
FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) E vabbè.
LUCA CHIANCA Vabbè quindi oltre la simpatia no, è proprio leghista.
FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Comunque Barachetti ha fatto i lavori, li ha fatti bene, li ha fatti nei tempi previsti, fatti i collaudi; poi che sia legato alla Film Commission eccetera questo purtroppo non…
LUCA CHIANCA Sembra un po’ un caso simile? Capannone che non costa nulla diventa un capannone che viene pagato 800mila euro, caserma che sembra quasi finita.
FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Sembra. LUCA CHIANCA Beh, io vedo quello che scrive un Ctu di un tribunale fallimentare.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'ingegner Negri fino a poco tempo fa era anche in Ates, una multiservizi del Comune. Secondo Banca d’Italia, Ates avrebbe dato altri 200 mila euro di appalti alle società di Barachetti. Amministratore delegato è Ugo Zanello, fino al 2014 in Pontida Fin, l’immobiliare della Lega che paga Barachetti. Altra coincidenza è che quando Zanello lascia l’immobiliare, viene sostituito da Alberto Di Rubba, uno dei contabili del partito di Salvini coinvolto nella vicenda della Lombardia Film Commission.
LUCA CHIANCA Però ecco la coincidenza, così, fortuita chiaramente, è che qui a Trezzo arriva la ditta che Alberto Di Rubba ha sponsorizzato.
UGO OTTAVIANO ZANELLO – AMMINISTRATORE DELEGATO ATES ENERGIA SRL A maggior ragione quindi mentre in Pontida Fin c'era un proprietario che era la Lega Nord e quindi non poteva altro che essere lei a scegliere, qua ci sono 20 comuni.
LUCA CHIANCA Però l'ha scelta lui, eh, che è della Lega.
UGO OTTAVIANO ZANELLO – AMMINISTRATORE DELEGATO ATES ENERGIA SRL Non è vero.
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Zanello, diciamogliela chiaramente: la scelta l'ho fatta come comune di Trezzo, essendo comune di maggioranza.
LUCA CHIANCA La Lega l'ha voluto qui. Attraverso lei che lo rappresenta.
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 No, non la Lega, io! Io l'ho voluto.
LUCA CHIANCA Ma lei fa parte della Lega, è il rappresentante sul territorio della Lega.
DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Se in questo senso sì.
LUCA CHIANCA E certo!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E certo. Comunque, cosa è successo? Che c’erano da completare dei lavori di una caserma dei carabinieri secondo il collaudatore del Comune e un perito del Tribunale, erano quasi completati. Invece interviene un nuovo direttore dei lavori, fa un nuovo progetto e quei lavori vengono riaperti e aumentano del doppio: da 490 mila euro a 1 milione e 50. E alla procedura negoziata viene chiamato a partecipare Barachetti che poi alla fine realizzerà i lavori. Ricorda un po’ nel suo evolversi la storia del capannone della Film Commission, della sede che costa quasi niente e alla fine è costato quasi 800 mila euro di denaro pubblico. Anche qui è girato del denaro pubblico, tuttavia l’avvocato di Barachetti ci scrive e mantiene il riserbo: "non comprendiamo la necessità di fornire riscontro, atteso che le stesse riguardano attività ordinarie aziendali e non fatti di interesse generale tipici del diritto di cronaca". Insomma, sono fatti loro.
Massimiliano Romeo.
Ecco chi è Massimiliano Romeo, l'ariete leghista delle spallate al ministro Lollobrigida e a Fratelli d'Italia. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
Capogruppo della Lega al Senato, pochi giorni fa aveva presentato tre emendamenti alla Legge di Bilancio che il governo aveva blindato
Romeo Massimiliano, quasi 53 anni, nato in quel di Monza, sotto l’influenza dell’Acquario, che per la dominanza uraniana stimola l’animo alla costante ricerca di un suo modo di esprimersi in ferma opposizione agli altri. Diploma scientifico, sposato, leghista da appena un soffio più tardi della prima ora, capogruppo a Palazzo Madama. Segni particolari: tendenza schiacciasassi, testa d’ariete, sicario. In puro senso politico, si intende. Pronto a mollare uno schiaffo, contro gli avversari ma ancora di più contro gli alleati. Lesto a porgere la guancia quando vola un ceffone di risposta. Granitico nella resistenza, con il vento che soffia impetuoso. Rapido nella ritirata, e chi se ne frega della brutta figura, se la ragion di Stato leghista esige una marcia indietro. Alla fine, Matteo Salvini l’ha trovato, il suo uomo senza paura, che sprona il cavallo contro l’artiglieria, come a Balaklava. Senza che sia sempre lui, Matteo, a metterci la faccia, ammaccata dopo il Papeete e il turbine di Giorgia l’impertinente.
L'affondo su Draghi
Esordio in prima linea nel luglio del 2022. Aria di burrasca sul governo di Mario Draghi. Conte ha aperto la via, ma non basta, ci vuole chi affondi la lama, e tocca alla Lega. Tutti aspettano Salvini, ma in Senato si alza lui, Romeo: «Presidente, accetti il cambio di maggioranza o se ne vada». Risultato ottenuto, senza nemmeno sporcarsi le mani. Ma è nella obbligata e insidiosa schermaglia di oggi che Romeo risulta prezioso. Battaglia obbligata, perché bisognerà pure provare a logorare Fratelli d’Italia con qualche colpo ai fianchi. Insidiosa perché si sa, Giorgia sul ring non se la cava male. E allora eccolo Massimiliano, che sempre sfoggia nell’asola lo spadone di Alberto da Giussano. Se ne esce fresco come un quarto di pollo, direbbe Montalbano, e presenta emendamenti alla legge di Bilancio. Apriti cielo. Lo sanno anche i bimbi che la premier ha chiesto alla sua maggioranza di votare la Finanziaria senza fare storie. Scoppia una mezza bufera. Anzi, sta per scoppiare, perché Romeo l’ingenuo si ferma: «Avevo capito male!». Emendamenti trasformati in ordini del giorno, ma intanto il sassolino del dissenso è stato tirato.
La spallata al ministro Lollobrigida
Giusto il tempo di prendere un caffè ed eccolo di nuovo, il nostro. Salvini ha appena dribblato ogni richiesta di commento, e lui va giù dritto: «Io penso che sia una cosa che bisogna evitare». Il bersaglio è l’amico Francesco, che scende dai treni al volo. Non che Lollobrigida non si meriti la gogna, visto che pure nella targa sotto il freno d’emergenza, metaforicamente tirato, c’è scritto: «Ogni abuso sarà punito». Ma non si fa peccato se si pensa che, più che difendere il cittadino dall’odiata casta, Romeo volesse dare una bottarella alla concorrenza.
Le ambiguità su Putin e sulla Russia
Ma pure sull’Ucraina è ancora lui a dare un colpo al cerchio, dopo aver votato la botte del sì al sostegno militare a Kiev. Meglio lui, che il ricordo di Salvini sulla piazza Rossa, con la maglietta con l’effige di Putin, è fin troppo recente. «Rimoviamo quell’idea, mentalità dominante di chi comanda in Europa e negli Stati Uniti, che la pace può esserci solo con la sconfitta o, ancora peggio, l’umiliazione di Mosca». Insomma, mandiamogli pure le armi, ma che almeno non siano troppo grosse.
I passi falsi
E poi qualche disavventura, che ci sta, non si può vincere sempre. «Certo, a Bologna, Milano e Napoli abbiamo perso. Ma in tanti altri Comuni, anche molto più grandi, come Grosseto, Pordenone, Novara, abbiamo avuto risultati importanti». Oppure la proposta, presto cestinata, di un referendum abrogativo della legge Merlin, quella che ha cancellato le case chiuse. O la sacrosanta assoluzione in Cassazione, in parte per prescrizione, in parte riqualificando le accuse e dichiarandole prescritte, per i rimborsi al Pirellone. Ed è pure fratello di Filippo Champagne, influencer da centomila follower su Instagram, vino rosso a colazione, ma si sveglia alle 18, sedicente ludopatico, adora perdere scommettendo sui cavalli, teorico dell’ozio, notte, dice lui alla Zanzara, tra alcol e discoteche. Insomma, pare che funzioni, a condizione di tenergli la corda corta. Perché, avvertiva Troisi, mai dare a un bambino un nome così lungo. Mas-si-mi-lia-noooo… Quando hai finito di richiamarlo chissà dove è arrivato e quanti guai ha combinato.
Luca Zaia.
Luca Zaia: «Dall’amore al fine vita, sogno che crescano le libertà. Sì agli Stati Uniti d’Europa». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera domenica 19 novembre 2023.
Il governatore del Veneto: «L’Italia un Paese di destra? No, è un Paese di buon senso. E il buon senso è nella moderazione, può stare a destra come a sinistra»
Luca Zaia, nel settembre 1986 un diciottenne parte per la Spagna con gli amici più cari, sulla 2 Cavalli bianca targata Treviso della mamma, con la radio che grida «La isla bonita» di Madonna... Dove abbiamo già sentito questa storia?
«Nell’intervista che ho dato ad agosto a Giovanni Viafora, per la serie del Corriere “Il viaggio della vita”. Dopo aver rievocato quell’avventura, sono andato a rileggermi il diario che scrissi allora. E ne ho tratto ispirazione per il mio nuovo libro».
Titolo: «Fa’ presto, vai piano».
«È il saggio consiglio che ci davano le nostre mamme venete, ma è anche una metafora di vita».
Un viaggio di formazione. Ragazze comprese. Fu la sua prima volta?
«No. Nel senso che la prima volta venne dopo ancora. Le ragazze erano assenti dalla mia vita. Per questo l’incontro con Ines lo ricordo bene. Eravamo entrambi presi da un innocente innamoramento».
Chi erano i suoi amici?
«Il Conte, un aristocratico vero: oggi è uno dei più grandi produttori di prosecco. E l’Ingegnere, che non divenne mai tale, ma era un fenomeno in matematica, in classe era quello che passava i compiti. Adesso coltiva fiori».
A Marbella vi sfamava doña Carmen, nostalgica del franchismo.
«Tutto il libro è un’esaltazione della libertà. Libertà da ogni forma di dittatura e costrizione: quella franchista, su cui avevamo discussioni accesissime con doña Carmen; e quella comunista, che sarebbe crollata tre anni dopo, nel 1989, con il Muro di Berlino. E poi le dogane, i passaporti, le valute: tutte cose che ci siamo lasciati alle spalle. Noi siamo la generazione dell’Europa, delle libertà, dei diritti».
Sull’Europa la Lega ha cambiato idea. Bossi sognava di portarvi il Nord; Salvini è molto critico.
«Anche io sono critico con la gestione dell’Europa: burocratica, ingessata e autoreferenziale. Ma sono convinto che il nostro orizzonte siano gli Stati Uniti d’Europa».
Ma se si fanno sia gli Stati Uniti d’Europa, sia l’autonomia regionale, dell’Italia cosa resta?
«Diventerà uno Stato federale, in cui i cittadini conteranno di più e il Paese sarà più efficiente. Come in Germania».
Nel suo libro precedente lei scrive che i diritti vanno garantiti e ampliati, non limitati. A cosa si riferisce?
«Dal fine vita alle questioni di genere, i giovani ci indicano la via. Per loro le libertà, a cominciare dalla libertà d’amare, sono naturali. È un grave errore additare i giovani come lazzaroni. È sempre successo: i nostri nonni accusavano i nostri genitori, i nostri genitori accusavano noi. Dobbiamo porre fine a questa liturgia. Oggi i giovani sono relegati in un angolo. Sottorappresentati e inascoltati».
Anche il Veneto è sottorappresentato?
«Lo era. Grazie al nostro lavoro lo standing è tutt’altro: di assoluto livello. Certo, accade ancora di vedere ripresi gli stereotipi del passato, quando in una fiction o in un film viene messo in scena un veneto dipinto come una macchietta».
Com’era lei da giovane?
«Un incrocio tra l’Emilio di Rousseau e il ragazzo selvaggio di Truffaut. Fumavamo sigarette ricavate dai pistilli del mais, bevevamo acqua dall’equiseto e mangiavamo bacche di sambuco. Da quando avevo 6 anni ho lavorato, tutte le estati finite le scuole, nell’officina di mio padre: risparmiai così i soldi per partire, in quel lontano 1986. Non ero mai stato da nessuna parte. Ricordo che ogni estate lavavo la roulotte del medico del paese, che era andato in Grecia o in Turchia, e respiravo odori che non avevo mai sentito, pulivo con la spugna polveri e sabbie di colori che non avevo mai visto. Per noi veneti viaggiare significava andare a militare, o emigrare. I miei genitori andarono in luna di miele a Venezia: da Bibano, frazione di Godega Sant’Urbano, sinistra Piave, sono una cinquantina di chilometri; ma non erano mai stati a Venezia in vita loro».
Perché proprio la Spagna?
«Era l’emblema dei giovani e della libertà post franchista. E c’era la corrida».
La vide?
«Sì, e la trovai uno spettacolo barbaro e inqualificabile; anche se talvolta un toro particolarmente coraggioso, l’indultado, veniva graziato e si guadagnava una seconda vita da riproduttore. Oggi i ragazzi sono naturalmente animalisti; noi lo siamo diventati. I cavalli sono la grande passione della mia vita, in Spagna tentai anche di comprarne uno. I giovani oggi sono avanti: per loro è scontato battersi per l’ecologia, per l’ambiente».
La destra sul cambio climatico è molto tiepida.
«Io non sono fondamentalista, ma tanto meno negazionista. Certo che il cambiamento climatico esiste. E l’uomo ci mette il turbo. Dobbiamo imparare il rispetto della natura anche nei piccoli gesti, nella quotidianità; ma dobbiamo anche recuperare la nostra memoria storica. Quando la tempesta Vaia del 2018 abbatté tre milioni di metri cubi di foresta, cioè centomila ettari, si disse che era la più grande mai vista. Ho studiato, e ho scoperto che dal 1990 a oggi ci sono state in Europa 32 tempeste, tra cui una nella Foresta Nera che ne abbatté 40 milioni di metri cubi».
Come ricorda quella devastazione?
«Una distesa di morte, sembravano corpi dopo una battaglia. Per rianimare il cadavere occorreva l’elettrochoc. Di fronte a quegli alberi abbattuti mi sono inventato Cortina 2026. L’Olimpiade: ecco come riportare la vita sulle nostre montagne».
Anche sulla libertà d’amare la destra è tiepida.
«La bussola sono le parole di papa Francesco: “Chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio?”».
Le piace papa Francesco?
«Molto. Spero che venga presto nella nostra Regione».
Sul centro veneto per il cambio di sesso si sono fatte molte ironie.
«La legge per il cambio di sesso all’anagrafe è del 1982. Le persone che arrivano a un cambio di sesso chirurgico lo possono fare dopo un percorso complesso. Parliamo di pochi casi. È una prestazione assistenziale riconosciuta per legge. Il centro veneto vuole dare anche risposte a molte patologie dell’apparato genitale, per le quali è previsto un intervento chirurgico; non ultimo anche il caso estremo dell’ermafroditismo. Molte leggi che trattano temi etici sono state contestate. Anche quella sull’aborto, che va applicata. O il trapianto degli organi: a suo tempo fu criticato; oggi è una grande conquista».
Trapianti?
«In Veneto abbiamo chirurghi d’eccellenza come Cillo, che trapianta fegati su bambini di pochi mesi; Gerosa, il primo a trapiantare un cuore da un cadavere; Rea, che trapianta i polmoni; Rigotti, che ha fatto tremila trapianti di rene. Solo per citarne alcuni. Come direbbe la madre dei Gracchi, questi sono i miei gioielli. Persone che, con i loro staff, cambiano la vita di chi soffre».
Come giudica la vicenda della piccola Indi?
«Non deve essere un magistrato o un’istituzione a staccare le macchine. In Italia ci si basa sulla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di dj Fabo. A suo tempo, anche Beppino Englaro dovette ottenere una sentenza della magistratura. Io credo invece che serva una legge per il fine vita, a tutela della libertà dell’individuo».
Se toccasse a lei cosa farebbe?
«Personalmente voglio poter decidere la mia sorte in piena libertà di coscienza».
Come giudica il governo Meloni?
«Giorgia Meloni, la presidente, mette assieme al suo governo il cuore in quello che fa. Certo la situazione internazionale non aiuta».
Lei non può ricandidarsi per il terzo mandato in Veneto.
«A causa di una legge sbagliata, che limita la libertà dei cittadini. C’è chi sostiene che evita centri di potere, ma così dà degli idioti agli elettori, che invece a ogni elezione dimostrano di saper premiare o mandare a casa i loro amministratori. Sindaci e presidenti di Regioni hanno il limite di due mandati; i parlamentari possono restare a vita. Non è giusto».
Si candiderà alle Europee?
«Non è nei miei pensieri. Intendo onorare l’impegno che ho assunto con i veneti. Sono del tutto concentrato sul mio lavoro».
L’anno dopo il suo viaggio in Spagna, nel 1987, lei votò per la prima volta. Quale partito?
«La Liga veneta».
Perché?
«Perché ricordo l’arroganza con cui gli ingegneri della motorizzazione trattavano i meccanici come mio padre, che portavano le auto per la revisione e aspettavano ore senza poter dire una parola. Lo Stato, l’apparato pubblico, mostrava il suo lato borbonico, irrispettoso del cittadino. La mia vita politica è stata spesa per correggere questa stortura».
L’Italia è un Paese di destra?
«L’Italia è un Paese di buon senso. E il buon senso è nella moderazione, che può stare a destra come a sinistra. Sogno un impegno politico che protegga i deboli, faccia rispettare le regole della civile convivenza, e crescere la libertà. Da quella di impresa ai diritti civili. I cittadini non sono cavernicoli che si scandalizzano davanti ai temi etici; sono molto più avanti di quello che pensiamo. A cominciare dai diciottenni, in cui rivedo quella voglia di evasione e di libertà che tanti anni fa mi aveva fatto salire sulla 2 Cavalli bianca».
C’è ancora?
«Certo, sia la voglia di libertà che la 2 Cavalli bianca. Mio papà la sta restaurando, vite per vite, bullone per bullone. Andrà meglio di prima».
Giancarlo Gentilini.
Giancarlo Gentilini, lo «sceriffo» a 94 anni ha deciso: «Basta con la politica, preferisco Sanremo. A Blanco darei olio di ricino». Emilio Randon su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023
Dopo 30 anni non si ricandiderà in comune a Treviso: «Ma la filosofia gentiliana vive attraverso i miei eredi»
E il riposino? «Mai fatto il riposino in vita mia». Eccolo qua, è ancora lui, fiero l’occhio, svelto il passo, la voce tonitruante, il gusto per le scelte «irrevocabili» e la maniera di dirle che sembra un annunciatore dell’Eiar (ma ce l’aveva anche Pertini quel timbro, deve essere un fatto generazionale). A 94 anni Giancarlo Gentilini resiste al torpore post prandiale ma non ce la fa più con la politica. Lascia. «Me ne vado, non fa più per me». L’ultimo gauleiter dell’Italia democratica, qualcosa che stava tra il prefetto e il podestà, per tutti lo «sceriffo» di Treviso, annuncia la pensione.
«Non riesco più a ipotecare il futuro»
«Sono stufo di abbaiare alla luna, lascio perché mi rendo conto che non riesco più a ipotecare il futuro». Ecco, il futuro. E un po’ anche l’età. L’età e i tempi nuovi, questi ultimi soprattutto, «due fattori micidiali, qualcuno crede che io abbia ancora 70 anni e mi fermano per strada e mi dicono: no Genty, resta con noi, abbiamo bisogno di te. Però io non voglio finire col dire troiate come Berlusconi, quello deve capire che se gli viene un mal di panza muore anche Forza Italia. Dovrebbe saperlo. Si tratta di senescenza precoce». Gentilini era precoce da balilla, poi basta. La fama se l’è guadagnata dopo, da adulto, rimanendo tardo, per carattere, educazione, formazione, tenacemente aggrappato ad un mondo che non c’era più: lui ha tirato la corda della storia all’incontrario, con gusto, rimembrando la maschia gioventù, sfrontato come uno squadrista, nel gusto dell’azzardo fiumano e il piacere consapevole dell’eresia politica. Sfiorò il disgustoso, vi si intrattenne come un ballerino quando diceva che «ai comunisti va dato il colpo sulla coppa come si fa con i conigli». «Non voglio burqa in città, sotto non si capisce se c’è un uomo o una donna» diceva. «Agli extracomunitari andrebbero prese le impronte delle mani. E anche quelle dei piedi e del naso». «Vorrei gli extracomunitari vestiti da leprotti per fare pim pum pan con il fucile».
Le frasi
Gentilini in carica annunciò disposizioni «affinché il comandante dei vigli urbani facesse pulizia etnica dei culattoni». «Manganelli e olio di ricino, ecco il mio sogno di balilla» ripeteva. I suoi erano in delirio, gli altri si strappavano le vesti. E lui godeva delle opposte tifoserie che litigavano come davanti ad un grande spettacolo teatrale – lui sul palco, la gente in platea, in mezzo la giusta distanza che dispensava i sostenitori dalla responsabilità di condividerne le scelte - la gente applaudiva senza pagare il biglietto, i contrari fischiavano e alla stessa maniera godevano alla rovescia. Gentilini era il «fool» del villaggio, la maschera dell’impresentabile. Sindaco di Treviso dal 1994 al 2003, tuttora consigliere comunale, in quegli anni faceva perdere la testa ai politologi che non capivano come mai una città educata e civile come Treviso potesse preferire un sindaco talmente impresentabile.
Il saluto fascista
E quasi espulso dalla Lega nel 2017 dopo aver fatto il saluto fascista in consiglio comunale. Nel 2014 la Cassazione, al terzo grado di giudizio, confermò la condanna della Corte d’Appello di Venezia del 2013 per «istigazione alla violenza razziale» a 4 mila euro di multa e all’interdizione dai comizi per tre anni. Era una caricatura, faceva il Catenacci, di successo allora, improponibile adesso anche nella forma più cabarettistica. A 94 anni l’ha capito anche lui: «Non riesco ad ipotecare il futuro» dice e lo fa con rassegnazione, ha la malinconia del vinto, sa d’aver fatto il suo tempo. Lo sceriffo di allora mantiene il riso sulle labbra, tiene pronto l’affronto in tasca ma riconosce che non è lui a lasciare la politica, è la politica che lo ha lasciato. Confessa: «Dicevano che seminavo odio, ma non era vero, era amore per l’Italia il mio, quella che amavo, l’Italia della giustizia e del decoro, volevo che l’immigrazione straniera fosse trattata come veniva trattata la nostra quando i veneti venivano fermati e rispediti indietro dalle guardie di frontiera svizzere per i denti cariati. Volevano gente sana, non operai che pesavano sull’assistenza pubblica».
Non lascia eredi Gentilini, non ci sono epigoni per le sue piazzate, quella è roba che non si porta più. Qualcosa di ribaldo di lui, un eco forse si trova nelle uscite del presidente del Senato Ignazio La Russa, il gusto per il geste individualista, la mattana anarchica, ma Gentilini era il capo comico ed è irripetibile. «Ho pagato, cosa crede? Come ha pagato Berlusconi». Il vegliardo ormai fuori dalla politica, spenti i clamori, ora guarda Sanremo come tutti noi, misurando la distanza che c’è tra noi e il palco che ci rappresenta: «Uno spettacolo da buttare, da vergognarsi. Non dico che voglio Dio patria e famiglia sul podio, ma uno che sfracella a pedate il palco non lo reggo. Sa qual è il rimedio? La vecchia e buona bottiglia di olio di ricino. Quello andava legato ad una sedia e poi gliela si faceva bere, tutta». «Sono del 1929, appartengo alla vecchia guardia, i balilla. Noi eravamo soldati, la schiena dritta e se ce l’avevi storta, con un colpo del calcio del moschetto te la raddrizzavano». Gentilini guarda Sanremo, guarda la guerra in Ucraina e inorridisce come noi: Putin o non Putin? «Putin è come Mussolini, i nemici li ha intorno, come per il Duce sono i suoi consiglieri più stretti che lo portano alla perdizione». «Ho visto l’odio distruggere le famiglie, qua come accade di là».
«Mi devo legare la lingua»
Gentilini sa che è tempo di starsene zitto ma, ancora, non ci riesce: «Mi devo legare la lingua anche con gli amici più cari, la modernità ha ucciso anche l’amicizia. Ti rinnegano e del cordone sacro dell’amicizia non rimane più niente». Il rimpianto e l’orgoglio, in coda la rivendicazione: sono ancora vivo, sono qui e «se tornassi indietro rifarei le stesse cose. La filosofia gentiliana non è morta. Certo, il consiglio comunale non è più quello, ma io ci sono ancora, il sindaco attuale è una mia creatura, l’ho allevato e ancora adesso posso indicare le persone giuste da mettere in lista, quelle che meritano. I mei eredi».
Irene Pivetti.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2023.
Dovrà fronteggiare un processo per evasione fiscale e autoriciclaggio Irene Pivetti, accusata con altri 5 imputati di una serie di operazioni commerciali irregolari nella compravendita di tre Ferrari da corsa tra l’Italia e la Cina.
L’ex presidente leghista della Camera […] è stata rinviata a giudizio dal gup di Milano Fabrizio Filice. Il processo comincerà il 13 giugno. Secondo il pm milanese Giovanni Tarzia, […] dietro la compravendita delle tre Gran Turismo destinate alle competizioni si celava un’operazione per riciclare denaro frutto di evasione fiscale.
Le indagini […] hanno accertato che attraverso il suo gruppo Only Italia Pivetti si sarebbe occupata della vendita per 10 milioni di euro al magnate cinese Zhou Xijian del marchio della scuderia di auto da corsa Gt Leo e delle tre Ferrari. Un’operazione che, però, sarebbe avvenuta solo sulla carta perché i tre bolidi furono poi venduti in Europa senza mai andare in Cina.
Only Italia avrebbe incassato una plusvalenza di 8,8 milioni che non sarebbero stati dichiarati e di cui 7,9 sarebbero arrivati alla stessa Pivetti. [...] i 10 milioni sarebbero partiti dal gruppo acquirente di Hong Kong «More & more investment» di Xijian per arrivare in Italia dopo essere passati da Cina e Polonia.
Intervista di Giovanna Fumarola, su “Vero” in edicola giovedì 9 febbraio 2023.
L’ex Presidente della Camera, poi showgirl in pelle fetish («Ancora questa storia della pelle! La tutina era comunque alta moda, della maison Gattinoni, disegnata da Guillermo Mariotto»), indagata per evasione fiscale e autoriciclaggio, oggi lavora in una mensa sociale di Monza («La vita ti riserva vicende inaspettate e tragiche, ti porta a un azzeramento di tutto ciò che c’era prima. Molti amici sono scappati.
Non mi sento di biasimarli, è normale che non vogliano essere coinvolti nella violenza dell’aggressione giudiziaria») e parla per la prima volta della sua nonnitudine («Sono una nonna innamoratissima dei suoi due nipotini. Per me ovviamente sono i più belli del mondo»), del secondo marito Alberto Brambilla («E’ un ottima persona, non ci sono guerre.
Il sacramento matrimoniale per me ha un senso profondo anche nella libertà dell’altra persona che se ne vuole andare»), della sorella Veronica («Abbiamo buoni rapporti. Anche se siamo diverse per temperamento e idee, la maturità ci ha fatto superare il periodo giovanile in cui bisticciavamo, e adesso siamo molto unite»), di Mario Draghi («E’ stato un uomo crudele...») e del miracolo di Papa Wojtyla («Papa Giovanni Paolo II mi ha fatto una grazia...
Una persona mi ha mostrato una sua reliquia importante, io l’ho pregato tanto, e lui mi ha regalato la pace interiore. Posso affermare senza ombra di dubbio che è stata una grazia»).
Il Capitano.
Il Capitano.
I Suoi Amici.
Pino Corrias per il Fatto Quotidiano - Estratti il 27 Novembre 2023
Nel catalogo dei destini a Matteo Salvini tocca quello del vecchio fiasco di vino. Riempie tutti i bicchieri sulla tavola della politica, ma si è voltato in aceto e assaggiarlo dà alla testa.
“Oggi – dice una sua parlamentare, ex ammiratrice – sta diventando antipatico a tutti come capitò a Renzi. E spesso ridicolo anche al colpo d’occhio: i calzerotti a righe quando sale al Quirinale, la pancia, la barba che sembra un arabo, le mani che gesticolano in aria, imitando Crozza”.
(...)
Ci ha provato di nuovo sventolando prima il rosario in piazza, sfiorando la blasfemia, se mai sapesse di cosa si tratta. Poi patria, famiglia e padre Pio, in sequenze da comizio, dopo avere perso il senno con le pupe in tanga e il mojito in erezione estiva. Ha continuato inneggiando a tutti i banditi della democrazia: oggi il tinto biondo Geert Wilders, ultradestra olandese. Ieri: Donald Trump, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán.
Compreso il loro profeta in terra armata: lo zar Vladimir, che Matteo omaggiò persino sulla piazza Rossa: “Cedo due Mattarella per mezzo Putin”. Per poi correre a nascondersi sotto la coda dei corazzieri, promettere anche ai polacchi di non dirlo mai più (lo volevano menare lassù, al confine con l’Ucraina), scampare all’ira del suo socio Luca Zaia, il presidente del Veneto, che ogni tanto minaccia di prenderlo a legnate.
Da quando ha varato la “Lega per Salvini premier”, anno 2019, Matteo ha funzionato come uno sfollagente. Senza mai diventare premier, è scivolato dai piani alti della nomenklatura, verso quello delle truppe di complemento, come il suo compagno di sventura Antonio Tajani, detto “Il Grigio”. Lo stesso effetto lo ha avuto sul partito, visto che nell’ultimo anno il tesseramento è calato del 32 per cento. I superstiti fanno finta di nulla.
Avrebbero diritto a un congresso ogni tre anni, ma da cinque, dentro la Lega ortodossa, non vola una mosca. Né una critica al Capitano che quest’anno è riuscito a peggiorare i debiti della Lega di altri 3,9 milioni di euro.
L’ultima volta che ha deciso di riempire una piazza a Milano, ha combinato un disastro che i tg hanno provato a nascondere. Era il 4 novembre scorso, mattatoio israeliano-palestinese, parola d’ordine “Pace & libertà” buona anche per le concorrenti di Miss Padania.
Aveva mobilitato i funzionari di partito e i pullman per riempire largo Cairoli con almeno 3 mila padani. Ne sono arrivati a stento 300, più o meno quanti erano i poliziotti schierati con manganelli e caschi, transenne e ricetrasmittenti, a difesa del suo comizio, intitolato comicamente “Senza paura”.
Giorgia Meloni, che non lo ha mai amato, lo fa secco ogni mattina. S’è inventata la baggianata dei campi profughi delocalizzati in Albania per mimare una soluzione agli sbarchi che riesca a reggere almeno fino alle elezioni europee e fregare Salvini sul suo terreno.
Non contenta, dall’altro giorno, fa gli occhi dolci al socialista tedesco Scholz, bestia nera di Salvini, e si prepara a piegarsi al Mes.
Lui le fa i dispetti quando può.
Questa estate, Giorgia si è portata Ursula von der Leyen a Lampedusa per dire alle telecamere: condividiamo con l’Europa il fardello degli sbarchi. Matteo per ripicca ha issato Marine Le Pen sul palco di Pontida, la giaguara che ruggisce a Bruxelles.
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Il trauma lo sfiancò al punto da entrare, l’anno dopo, nel Consiglio comunale di Milano per rimanerci inchiodato 19 anni filati, con la ruspa sulla felpa e nel cuore, parola d’ordine: “Spianare i campi Rom”.
Con le medesime macerie ideologiche si è conquistato tre legislature filate a Bruxelles, dove, stipendio dopo stipendio, è diventato euroscettico.
Come molti furbacchioni di destra ama talmente la famiglia da averne tre. Le prime due con moglie e figli. La terza con Francesca Verdini, figlia d’arte, che con il suo solo talento si è buttata nelle produzioni cinetelevisive scodellando due documentari di stretta attualità, uno su Franco Zeffirelli, il regista dei belli, l’altro su Gustavo Adolfo Rol, il mago che piegava le forchette col pensiero.
Lui, col pensiero, vorrebbe costruire il famoso Ponte sullo Stretto. Non ci sono i soldi, i progetti non stanno in piedi, i rischi sono maggiori dei vantaggi, le priorità sono altre, per esempio il treno di terraferma Palermo-Catania che impiega sei ore a fare 210 chilometri. Ma lui niente. Si è incapricciato della grande opera e Giorgia lo lascia giocare con il plastico, mandandolo a fare la figura del fesso con Bruno Vespa.
Sovrastato dagli avvenimenti e da compiti più grandi di lui, dicono gli manchi Berlusconi, il suo secondo padre, che gli pagava l’accesso al Milan e pure alla politica.
Ha provato a sostituirlo con Antonio Angelucci, quello delle cliniche, il parlamentare più assenteista di sempre, che doveva garantirgli un po’ di visibilità sugli inchiostri di famiglia, Libero, Il Giornale, il Tempo, che in realtà navigano verso il porto sicuro della premier Meloni. Come pure sta facendo il celebrato generale Vannacci, che in piena estate Matteo ha provato ad annettersi: due campioni dell’horror vacui, buoni per il prossimo Dario Argento o per un redivivo Luca Morisi, la Bestia.
Un anno di Salvinate: così Matteo Salvini è diventato capo dell’opposizione. Da vicepremier mette becco su tutto. Da ministro sogna ponti al Sud e finanzia opere al Nord. Da segretario di partito prende legnate a ogni elezione. Fenomenologia di un politico che alle Europee si gioca l'ultima chance. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 4 Novembre 2023
Matteo Salvini è uno e trino. Vicepremier, ministro delle infrastrutture e capo dell’unica vera opposizione al governo di centrodestra. Per non guastare il tre, numero perfetto, trascura un po’ la quarta carica, quella di leader di una Lega che lo aspetta al varco delle Europee del prossimo giugno dopo una serie di rovesci elettorali terrificanti. Solo quattro anni fa, e si trattava sempre del parlamento di Strasburgo, erano arrivati 9 milioni di voti pari al 34,2 per cento. Alle politiche del 2022 quasi tre quarti di quel consenso è stato bruciato con poco meno del 9 per cento fra Camera e Senato e 2,5 milioni di schede sbarrate sopra lo spadone di Alberto da Giussano. La settimana scorsa alle provinciali del Trentino-Alto Adige la tendenza al massimo ribasso si è confermata. A Trento il 27,1 per cento del 2018 si è più che dimezzato. A Bolzano, la scoppola è stata micidiale: dall’11 al 3 per cento. Anche la vittoria dell’amico Massimiliano Fedriga alle regionali friulane di aprile ha comportato un’emorragia a favore di Fdi.
Una disfatta europea toglierebbe la fascia dal braccio del Capitano, iscrittosi alla Lega a 17 anni nel 1990. Comunista padano ieri, oggi il segretario federale leghista è l’anello mancante fra l’Internazionale situazionista e la coazione allo show perseguita da Silvio Berlusconi. Dall’ex presidente del suo Milan Salvini ha preso l’abitudine di calibrare ogni uscita nello spettro che va dalla sparata incendiaria al predicozzo da buon padre di famiglia tradizional-creativa.
Conta poco che a quantificare l’effetto del messaggio sul consenso siano le rilevazioni prodotte dalla Bestia del redivivo Luca Morisi oppure un istinto per la politica affinato in trent’anni di pratica. Il maggiore lascito del Mago di Arcore è scolpito nel marmo: tutto è comunicazione. Contradditoria, paradossale, isterica, bugiarda, rassicurante o allarmistica. L’importante è dettare l’agenda ai media.
La differenza principale con il Cavaliere e con l’elettore leghista medio è che Salvini non è mai stato imprenditore, mai lavoratore autonomo o sotto padrone. Lo stipendio glielo ha sempre pagato la politica. Ma chi pensa che ciò equivalga a vivere in vacanza perenne non ha idea di quale sforzo richieda stare in scena senza sosta e occuparla a costo di sdraiarcisi per lungo dalla quinta di destra a quella di sinistra. Salvini corre ovunque. Le sue adorate sagre di paese sono quasi abbandonate per questioni dietetiche. Il Matteo Degustatore è solo un ricordo e le sue parti in commedia sono già fin troppe. «Ho perso otto chili, sono in forma, niente mirto e limoncello», diceva a settembre ed è stato fedele alla linea. Per il nuovo Salvini ci sono solo convegni, cantieri, riunioni e qualunque occasione garantisca il gettone di presenza sulla stampa o in tv.
La carica di vicepremier, che è stata conferita anche al molto più sedato Antonio Tajani, è la chiave d’accesso a ogni dossier della società dello spettacolo politico. Come il cattivo vicepreside delle scuole di una volta, il vicario di palazzo Chigi è sistematicamente il contraltare di Giorgia Meloni. Non che ci siano scontri diretti. La presidente non è famosa per lasciarsi maltrattare dai coniugi, effettivi o di coalizione. In compenso, il Capitano ha messo in ginocchio sui ceci molti dei suoi colleghi ministri. Ha litigato con Raffaele Fitto per i fondi del Pnrr e sull’estensione della Zes (zona economica speciale) dal Sud al resto d’Italia. Ha redarguito il tenero ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin, reo di essersi commosso di fronte a una studentessa preoccupata da quel cambiamento climatico che Salvini virilmente nega. Ha messo in difficoltà il compagno di partito Giancarlo Giorgetti (Mef) sugli extraprofitti delle banche, con crollo dei mercati annesso e conseguente ritirata strategica. In ambito Fdi, ha avuto a che dire con il ministro dello sport Andrea Abodi a proposito del presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, che il vicepremier vorrebbe licenziare per lo scandalo scommesse e per lo scarso rendimento della nazionale.
A proposito di incursioni a destra nelle praterie meloniane, è uscito allo scoperto contro Guido Crosetto (Difesa) e a favore del generale dei parà Roberto Vannacci, senza allontanare del tutto l’ipotesi di candidarlo a Strasburgo. Ha incassato le critiche dei leghisti vecchia scuola Mario Borghezio e Roberto Castelli per la svolta meridionalista e reazionaria culminata nell’invito di Marine Le Pen al raduno di Pontida dello scorso settembre.
Abbandonato al suo destino Vladimir Putin e messo in disparte il suocero bancarottiere Denis Verdini, ha conservato i vecchi ronzini di battaglia: i condoni edilizi e fiscali, la difesa di balneari e tassisti, il nemico migrante clandestino e il suo dante causa, il cancelliere tedesco Olaf Scholz paragonato all’invasore nazista, l’attacco ai giudici dopo il filmato che riprende a una manifestazione sul caso Diciotti la giudice del tribunale di Catania Iolanda Apostolico. Si è rivisto anche il servizio militare che il giovane Salvini ha espletato in piazza Firenze, a un paio di chilometri dalla sua casa milanese. Deve essere stata durissima. Forse per questo vago risentimento vuole che il suo quartiere Baggio, zona di caserme dismesse, ospiti la prima centrale nucleare italiana da qui al 2030.
La rincorsa forsennata alla polemica quotidiana produce a volte paradossi. Il Capitano ha difeso la giunta trentina di centrodestra del Trentino nell’abbattimento degli orsi in esubero finché gli amministratori locali lo hanno pregato di farsi i fatti suoi. Sempre in area di confini alpini, ha criticato l’Austria per la chiusura del valico del Brennero, dopo i problemi ai trafori del Bianco e del Fréjus. Nel frattempo, gli organizzatori delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina, in ritardo con le infrastrutture di pertinenza del Mit, andavano con il berretto in mano a chiedere una pista da bob in prestito agli stessi nord-tirolesi.
Il codice stradale è un altro esempio di ribaltone in corsa. Prima Salvini ha sbertucciato il limite di 30 kmh in città per indispettire il sindaco di Milano Beppe Sala, poi ha rilanciato la velocità massima in autostrada a 150 kmh. Alla fine ci ha ripensato, visto che per i concessionari sono solo incidenti e guai in più. Allora ha deciso di spezzare le reni ai monopattini e promette di aiutare le compagnie assicurative con la polizza obbligatoria.
Il codice della strada è competenza del Salvini ministro, il ruolo dove si amministrano decine di miliardi di finanziamenti. La sua squadra parte dal viceministro Edoardo Rixi, leghista incaricato dei rapporti con le società pubbliche e di seguire i dossier del nord, dalla Gronda di Genova alle due Pedemontane in Lombardia e Veneto. Il numero due del ministero di Porta Pia è l’ufficiale di collegamento con il gruppo Fs. La maggiore stazione appaltante d’Italia ha i vertici in scadenza la prossima primavera con l’approvazione del bilancio 2023. Presidente e ad sono stati nominati dal governo Draghi, di cui la Lega faceva parte, e l’allineamento dei top manager con l’attuale esecutivo è totale nella speranza di una conferma. Un dirigente di lungo corso della holding commenta sardonico: «È il vecchio metodo democristiano. Li fa trottare, si prende i meriti e poi li caccia». Sulle Fs è persino aleggiato lo spettro della privatizzazione ma il ballon d’essai tipicamente salviniano si è sgonfiato presto, su suggerimento dei consigliori di Porta Pia.
Negli infiniti corridoi ministeriali, che illuminano a giorno una teoria di stanze spesso deserte, Alfredo Storto è un capo di gabinetto da manuale. Ex Tar del Lazio e della Campania, ha esordito nelle infrastrutture come responsabile dell’ufficio legislativo su chiamata del ministro grillino Danilo Toninelli. Era il giugno 2018, due mesi prima che crollasse il viadotto Morandi e che il governo giallo-verde si impelagasse nel tentativo fallito di revocare il contratto di concessione ad Aspi-Autostrade, poi passata dai Benetton a Cdp e oggi spinta da Salvini verso una nuova privatizzazione targata Sacyr-Dogliani.
La struttura tecnica di missione, creata vent’anni fa dal governo Berlusconi e riformata nel 2015 da Graziano Delrio con compiti di indirizzo strategico, è stata affidata a Elisabetta Pellegrini che dirigeva l’area infrastrutture della regione Veneto: in particolare la Pedemontana, opera-feticcio della giunta guidata dall’eterno rivale di Salvini, Luca Zaia.
Il capo della segreteria tecnica è il non ancora trentenne Francesco Lucianò, enfant prodige che già da otto anni lavora come funzionario parlamentare prima per il gruppo del defunto Gal (Grandi autonomie e libertà) e, dopo la laurea alla Luiss in scienze politiche, per gli onorevoli leghisti.
Lucianò, che nei report di Dagospia è segnalato come vicino all’uomo della Bestia Morisi e ha un reddito 2022 di 91 mila euro, è reggino. Non per questo il ministro intende delegargli il ponte sullo Stretto, l’arma mediatica preferita per conquistare voti a sud di Roma ladrona. Sul collegamento fra Sicilia e Calabria Salvini è l’uomo solo al comando. Dopo avere sottratto alla liquidazione la Stretto di Messina (Sdm), l’ex hater del Mezzogiorno ha condotto una battaglia epocale per strappare a Giorgetti un gruzzolo da piazzare in legge di bilancio. I 700 milioni di euro annunciati a fronte di un’opera da almeno 13 miliardi sono una mancetta che al massimo basterà a travestire da inaugurazione quattro buchi per terra fra Cannitello e Ganzirri appena prima delle Europee 2024.
«Il progetto definitivo va aggiornato e riapprovato», dice un tecnico del settore. «Deve avere tre requisiti: compatibilità ambientale, conformità urbanistica e vincolo preordinato agli espropri che si possono pubblicare con il progetto definitivo ma effettuare soltanto con il progetto esecutivo. Per aprire un vero cantiere da qui a giugno non ci sono i tempi».
Ma una cosa è credere al ponte, e non ci crede nessuno né fra i tecnici né fra i politici. Altro è confidare nei soldi che saranno sparsi a pioggia. Quelli sono veri. E l’illusionista Salvini sa quando la comunicazione va sostenuta coi danè, come direbbero nella sua Milano. Se nemmeno il grano porterà voti, il Capitano andrà alla resa dei conti. I nemici, interni ed esterni, non gli mancano di certo.
6 x 4, se fossi Salvini. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 25 Agosto 2023
Se fossi Salvini.
Ecco questa è la riflessione di oggi. Ho provato a immaginarmi seduto alla faranoica scrivania del Ministro delle Infrastrutture intento, in primissima mattinata, a pensare cosa potesse essere utile per il paese sì da dargli una svolta talmente significativa da lasciare una traccia nella storia.
Qualcosa che riguardi l’attività di Ministro ma non scevra del contorno derivante dal suo ruolo di leader politico.
È ovvio che in questa mia esercitazione di fantasia ho dovuto fare i conti con le tante cose che mi dividono dall’ex “Capitano degli italiani”, tanto ex che ormai assomiglia più a Schettino che a Ubaldo degli Uberti.
Indubbiamente non ho la sua carriera politica e, a differenza sua, non solo non ho una incatenata appartenenza allo scranno parlamentare, tanto incatenata che il tempo si è trasformato in ruggine, ma in parlamento non ci ho proprio messo mai piede.
Non ho neanche i suoi trascorsi da aspirante talent dei quiz televisivi avendo io cercato di arare la cultura sui libri piuttosto che tra i riquadri dei cruciverba.
Non ho il suo seguito tra la pubblica opinione anche se se lo sta rosicando pian piano e anche se avere il consenso di beoti, adornati dalle corna dei vichinghi, non è mai stata una cosa che ha destato le mie passioni.
Non ho infine il suo senso dello spettacolo a sensazione anche perché quando ho ammirato due tette è stato tra le pareti delicate ed intime di un rapporto sentimentale, e non dalla ribalta del Papeete proiettata su tutti i media nazionali, e anche perché, essendo laico, non ho mai usato rosari e icone della Madonna per dare forza alle mie idee perché la religione è fonte di spiritualità per miliardi di persone e non un carrozzone per manifesti elettorali. Senza tacere poi che Salvini, quei valori della religione, li calpesta in ogni respiro della sua vita a cominciare dalle bordate contro i migranti per finire alla irregolarità delle sue innumerevoli vite familiari.
Ma soprattutto mi divide da lui la cultura politica.
La mia, che ho meditata e maturata negli anni da quando, giovane universitario, svoltai nella vita abbracciando i valori del riformismo, è ben distante dalla “non cultura” di Salvini che lo ha portato dal comunismo extraparlamentare allo sloganismo contemporaneo fatto di un melange populista a sensazione mischiato a una dozzinale raccolta di frasi fatte che il calendario di Frate Indovino a confronto sembra la Divina Commedia.
Ed è proprio su questo terreno che viene marcata la differenza tra quello che si sta probabilmente accingendo a pensare lui e quello che, seguendo la mia immaginazione, verrebbe in mente a me. Che non è certo sparare le solite boutade sulla castrazione chimica, o sul “celodurismo” del nuovo scrittore di successo con le stellette da Generale e il paracadute della Folgore o, immagino ben presto, sul “martirio” del povero Trump. Devo premettere, prima di addentrarmi nel prosieguo del racconto di questa primissima mattinata di fine agosto (tanto amena che le notizie di attualità sono quelle di dieci giorni fa sul costo della benzina e di cui ho già parlato su altra testata), che sono sempre stato convinto, ritengo da buon riformista, che la spinta verso il progresso non può prescindere dalla innovazione tecnologica, che tutt’al più va governata ma non abiurata. E specie nel campo delle infrastrutture con la consapevolezza che il principio del progresso e dell’ammodernamento si sposa con il benessere dei cittadini, con la loro sicurezza, con un risparmio dei tempi che rende sempre più facile la compatibilità tra il lavoro e le irrinunciabili esigenze di natura familiare e affettiva.
Perché è grazie a quegli accenni (a volte timidi rispetto a molti altri paesi) di innovazione tecnologica, nel campo per esempio dei trasporti, che avere la famiglia a Roma e il lavoro a Milano non è più una cosa impossibile, è grazie a quei timidi accenni che quando si scorrono le proposte di lavoro non è più necessario passare il compasso sulla cartina per selezionare le offerte “non lontano da casa”.
E mentre girandoci attorno non possiamo fingere di non vedere quanta arretratezza c’è ancora nel nostro paese, (vedi la Roma-Pescara cancellata proprio da Salvini o la restituzione delle autostrade abruzzesi ai Toto) non possiamo neanche fingere di ignorare quanto siano avanzati, per esempio, in Svezia dove autostrade superveloci percorrono gli abissi dei tempestosi mari del nord per riemergere sulle isole e permettere a caselli innovativi di smaltire il traffico verso gli arcipelaghi.
Senza omettere di osservare che questi avveniristici impianti infrastrutturali sono stati realizzati nel pieno della cultura e della tradizione scandinava, celebre per il suo rispetto per l’ambiente, e sono considerati totalmente compatibili con le esigenze di natura ecologica.
E poi c’è il discorso sicurezza che non può essere perseguito solo con l’inasprimento della severità di pene e sanzioni perché sappiamo tutti che gli incidenti stradali continueranno sempre a esserci e svegliarsi dal torpore di ministro solo dopo l’ennesimo decesso sull’asfalto per invocare gridando l’ergastolo della patente è una sceneggiata di una ipocrisia unica.
Non servono atteggiamenti draconiani per risolvere il problema della sicurezza della circolazione se non si ammodernano strade e autostrade che basta percorrerle e guardarle per renderci conto di quanto siano pericolose. Specie al sud!
Ed ecco allora l’idea e il senso dell’articolo perché, se questa mattina fossi stato Salvini, avrei avuto l’illuminazione dello slogan: 6×4.
A che non fa 24 ma è un esempio di ciò che secondo me servirebbe al paese a crescere e a essere più sicuro.
Tutte le strade statali a 4 corsie (due per ogni ordine di marcia) e tutte le autostrade a 6 corsie. Per rendere meno pericolose le velocità, meno pericolosi i sorpassi, più rapida e confortevole la marcia soprattutto sui lunghi tragitti. Questo, caro Matteo, sarebbe una delle tante cose da fare, ben si intende non l’unica, ma che forse più del ponte sullo stretto rivoluzionerebbe e ammodernerebbe il paese. Un progetto grandioso di grande tespiro e dai lunghi tempi ma già solo avviarlo e farne i primi passi sarebbe un segnale di progresso e civiltà.
Ma tu non te ne curi e stai sulla tua poltrona da ministro a sfogliare le agenzie di stampa per trovate notizie che sollevano scalpore e darti l’opportunità di solleticare la pancia del paese con i provlami più scontati che esistano. E purtroppo per l’Italia le mie sono state solo fantasiose suggestioni raccontate in una prima mattina di fine agosto sdraiato su un lettino mentre indugiavo al seducente invito dell’Adriatico abruzzese.
Da repubblica.it il 9 gennaio 2023.
Le parole si sa sono importanti. Anche quelle taciute. E dai silenzi si può misurare anche la solidità (o meno) della cultura democratica di un leader politico. Il ministro Matteo Salvini nelle ultime ore ha perso un'altra occasione per dar prova della sua maturità istituzionale. È l'unico leader politico italiano che ha taciuto di fronte alla gravità e alla drammaticità dell'assalto di Brasilia ai palazzi del potere ad opera dei sostenitori dell'ex presidente sconfitto Jair Bolsonaro.
Una condanna firmata invece da tutto il mondo politico. Dai candidati dem alla segreteria, Bonaccini e Schlein, all'ex premier Conte, passando per il ministro degli Esteri Tajani finendo con la presidente Giorgia Meloni. La premier, a volerla dire tutta, si è limitata in un primo momento a ritwittare l'uscita del capo della Farnesina. Ha compreso solo a notte inoltrata quanto il copia e incolla fosse insufficiente rispetto alla portata dell'evento, provocato dagli estremisti della destra brasiliana. È intervenuta così con una sua dichiarazione di condanna poco prima di mezzanotte.
Ecco, Salvini neanche questo. Una nota della Lega di una riga di generica condanna in serata, ma non una a sua firma. Non un caso, del resto. Il capo della Lega è da anni il vero referente italiano della destra internazionale più impresentabile e imbarazzante. Senza scomodare il sostegno non recente al regime di Vladimir Putin, il ministro delle Infrastrutture ha fatto da sponda nell'ultimo quinquennio ai neonazisti tedeschi di Afd, all'ultranazionalista Orbàn, per non dire delle simpatie dichiarate per Trump o dell'amicizia con la francese Le Pen.
Bolsonaro fa storia a sé. Salvini voleva raggiungere Brasilia quando il leader della destra gialloverde si è insediato alla presidenza, le dichiarazioni di amicizia e sostegno si sono sprecate quando il senatore milanese era vicepremier nel Conte 1 e poi negli anni a seguire. I due riuscirono finalmente ad abbracciarsi poco più di un anno fa. Il leghista lo accolse a Pistoia durante la visita italiana del presidente brasiliano. E quando Bolsonaro venne contestato dagli studenti di Padova, il leader di via Bellerio si prese la briga di scusarsi a nome degli italiani.
Chissà se il neo ministro Matteo Salvini romperà nelle prossime ore il silenzio per scusarsi con gli italiani del peloso opportunismo politico che lo porta puntualmente a sposare battaglie non solo perdenti - questo chi se ne frega, sarà un problema suo e della Lega che ancora guida - ma "unfit", inadeguate alla statura che dovrebbe avere e tenere un leader politico e uomo di governo di un Paese civile e democratico.
Pochi poteri. La scomparsa di Salvini e il deserto dei tartari leghisti. Mario Lavia su Linkiesta il 7 Gennaio 2023
Il governo è tutto in mano a Giorgia Meloni e ai suoi fratelli in modo persino umiliante per gli alleati. Il segretario della Lega tace non per chissà quale tattica ma perché forse non ha niente da dire
«Viene Gennaio silenzioso e lieve, un fiume addormentato/ fra le cui rive giace come neve il mio corpo malato, il mio corpo malato»: gran canzone, quella «dei 12 mesi» di Francesco Guccini, frasi larghe e piene, il corpo malato di gennaio che viene, l’immagine è secca, dura. Gennaio è un mese strano, difficile, la ripresa dopo le Feste, il ritorno o presunto tale della politica che in teoria potrebbe portare qualcosa di nuovo: e in effetti, se non di nuovo, qualcosa da spiegare c’è. Qualche piccolo mistero.
Si sviscera tutto di Meloni, ed è normale, si viviseziona quel che c’è del Partito democratico, e anche questo si spiega, Carlo Calenda fa sempre un po’ notizia, ogni tanto Forza Italia si sente, Conte vivacchia. Mentre non si parla più di altra gente: Nicola Fratoianni, Roberto Speranza, Beppe Grillo. E Matteo Salvini.
Della sua Lega che solo due anni e mezzo fa pareva dovesse mangiarsi il mondo, o almeno prendersi l’Italia – i «pieni poteri» voleva – ma in questo gennaio silenzioso e lieve che fine ha fatto, Salvini?
Quando fecero il governo dopo il 25 settembre i meloniani piantarono il filo spinato intorno al Viminale per escluderne il ritorno dopo quello che aveva combinato grazie al primo governo di Giuseppe Conte (molto prima che questi diventasse un succedaneo di Chavez), e la presidente del Consiglio lo piazzò ai Trasporti, che adesso si chiama “Infrastrutture e mobilità sostenibili”, che è più smart, dove Salvini giocherella da settimane in mezzo alle piante del ponte di Messina, sua nuova fissazione, ogni tanto facendo capoccella nei pastoni dei tg per annunciare delle bubbole – diciamo: inesattezze – che c’è la flat tax, che è stata superata la legge Fornero.
Non è vero niente, ovviamente essendo che la tassa piatta resta una sua chimera, verrà solo applicata a un po’ più di lavoratori autonomi, peraltro ingiustamente, mentre l’impianto della Fornero è sempre lì che vive e lotta insieme a noi.
Lo stralcio delle cartelle esattoriali, che per come lo immaginava lui sarebbe stato un bell’incentivo agli evasori e agli inadempienti del fisco, alla fine è una misura pressoché obbligata che fa risparmiare allo Stato un pochino di soldi, non c’è nessuna rivoluzione.
Sull’Ucraina è solida, per fortuna, la linea Meloni-Tajani in appoggio alla resistenza di Zelensky e lui da tempo ha dovuto abbandonare il putinismo alle vongole dell’éra Savoini.
Quanto alla mega-riforme delle autonomie, quella che porterebbe alla proliferazione dei soggetti istituzionali e amministrativi con grave nocumento per le regioni meridionali, non piace a nessuno tranne che a Calderoli e la pitonessa Meloni che si sta mangiando la Lega ha messo in campo il presidenzialismo che è una proposta molto più suggestiva – che poi si faccia è un altro discorso.
Ed è solo di lei, della presidente del Consiglio, che si parla su giornali e rotocalchi, radio, tv e social (anche troppo, persino le foto con la figlia che fanno l’albero di Natale), mentre di lui, Salvini, non si sente più dire niente, e dei ministri leghisti poi ancora meno.
Passi per Giancarlo Giorgetti che, come dicono i suoi ammiratori, è uno che lavora in silenzio – anche se la modalità fa venire il dubbio: ma lavorerà davvero? – ma gli altri chi sono, che fanno? Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è un tecnico ma tutti sanno che è molto vicino a Salvini, di cui era capo di gabinetto al Viminale e infatti sta brillando per la faccia da duro con i migranti oltre a essersi reso protagonista del decreto contro i rave che non è esattamente un gioiello di cultura giuridica.
Di quello che fa Alessandra Locatelli, ministra per le disabilità, si sa poco ma per la delicatezza del dicastero che dirige c’è solo da incoraggiarla, sperando che faccia qualcosa.
In questo deserto dei tartari leghista addirittura il vecchio Umberto Bossi è tornato in pista facendo balenare una scissione (e intanto appoggiando Letizia Moratti a Milano), mentre nel Lazio fino a poco tempo fa pretendevano di candidare Claudio Durigon (quello del Parco Mussolini a Latina) ma ormai è tutta terra di Giorgia e la Lega al Centro come al Sud ha ballato una sola estate, poi hanno messo Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera che per ora si è fatto notare per la ghigliottina posta durante il dibattito sulla legge di Bilancio ma sembra destinato a essere abbastanza ininfluente sul corso degli eventi come d’altronde tutta la Lega che non tocca palla e prima o poi qualcuno a Salvini glielo farà notare, forse quel Massimiliano Fedriga che stravincerà le regionali nel suo Friuli Venezia Giulia.
Il governo è tutto – tutto – in mano a Giorgia e ai suoi fratelli in modo persino umiliante per gli alleati. Si prevedeva una reazione di Salvini allo strapotere meloniano, invece egli tace non per chissà quale tattica ma perché forse non ha niente da dire. Mentre lei governa e se lo rosicchia, sul match tra Fratelli d’Italia e Lega si allunga lo spettro di un clamoroso 6-0 6-0 6-0. Se non batte un colpo e piuttosto in fretta, Matteo Salvini finisce in pellicceria, come diceva Giulio Andreotti delle volpi della politica.
Marco Cremonesi per “il Corriere della Sera” il 28 dicembre 2022.In fondo, Matteo Salvini ieri non era poi così interessato a parlare di sicurezza. Non che il tema non lo appassioni, eppure nel giorno in cui il Comitato per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) approva misure per circa 4,5 miliardi, il suo interesse era soprattutto lì. Certo, sull’immigrazione promette novità: «Vi do la mia parola che entro la fine dell’anno venturo ci sarà una brusca frenata sugli ingressi illegali» ma sul tema non si addentra più che tanto.
Però, questa sera dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri un nuovo decreto sicurezza, nei giorni scorsi c’è stata la clamorosa evasione dal carcere minorile di Milano e, l’antivigilia di Natale, la rapina ai danni di suo figlio Federico. Il tema, come dire, si impone. E ruba la scena ai provvedimenti per le opere pubbliche. Sulla rapina al figlio, Salvini annuncia comunque novità: «Spero che li becchino e che oltre che a beccarli stiano in galera. Perché mi dicono dalla regia che uno dei due “non bergamaschi” che hanno rapinato mio figlio era stato già arrestato due mesi fa».
In Consiglio dei ministri questa sera ci sarà una prima versione del decreto sicurezza. Non ancora quella che avrebbe voluto Salvini: «Il ministro dell’Interno Piantedosi — spiega alla festa leghista di Alzano lombardo — vuole ampliarlo, sta lavorando su quello». E così, nel tardo pomeriggio a Palazzo Chigi approderà una versione parziale del provvedimento, focalizzata sull’immigrazione. Mario Giordano, che lo intervista, gli chiede se non senta la mancanza del Viminale. E, a sorpresa, Salvini nega: «Rifare la stessa cosa... Quando c’è una storia d’amore e poi ci riprovi, difficilmente funzionerà come funzionava prima. il ministero dei Trasporti ti consente di fare tante cose concrete».
Certo è che il gioco di sponda tra Salvini e Silvio Berlusconi, anche rispetto ai temi di governo, non si interrompe. Proprio ieri il segretario leghista è andato a trovare il fondatore di Forza Italia nella villa di Arcore: «L’ho trovato in grande forma, ma ieri ci sono stati soprattutto gli auguri natalizi». Ma ieri, oltre ai sopralluoghi ai cantieri di Verdello e di Dalmine, era un giorno importante per un altro motivo. Salvini infatti è tornato a Bergamo, la meno allineata al nuovo corso delle province leghiste.
«Tanto per cominciare, vedremo in quanti verranno a sentire Salvini» dice un militante nel tardo pomeriggio un militante non di primo pelo. La sua scommessa è che Matteo Salvini sia in affanno anche a Bergamo, la massima arcidiocesi leghista. In cui, al congresso provinciale, ha vinto il sindaco di Telgate Fabrizio Sala, Lega vecchio stile che ha prevalso su un avversario di più stretta osservanza salviniana.
Salvini inizia con un’ammissione: «Abbiamo passato anni difficili, sono felice dopo anni di mancata presenza, di essere ancora qui, la bergamasca ha dato il segno di come ci si rialza». In realtà, fare i conti con le presenze non è semplicissimo. Ad ascoltare Salvini ieri c’erano circa 500 persone. Forse non moltissimi per la provincia più leghista d’Italia.
Ma erano anni che, causa Covid, non si svolgevano feste ad Alzano lombardo, in Val Seriana, da sempre centro emotivo della Lega storica e bossiana. Certo, anche qui tutto è cambiato. Il nome storico della festa, «Bèrghem frècc», c’è ancora ma passa inosservato. Quello in bella mostra è «Bergamo incontra l’Europa», con il vecchio verdone sostituito dal blu «repubblicano». In effetti, il main sponsor della festa leghista è Id, Identità e democrazia, l’eurogruppo della Lega.
E poi, la festa non è più all’aperto ma si è spostata nei fascinosi spazi industrial di quella che fu la storica cartiera Pigna. Certo, a sentire i militanti, i malumori non sono pochi: «I congressi sono scomparsi dai radar». In realtà, si sono già svolti quelli di Bergamo, Brescia, Varese, Pavia, Cremona, Mantova. Mancano però all’appello la Brianza, la Valcamonica, Lecco, Sondrio, mentre a Milano il mese scorso Matteo Salvini ha nominato una nuova commissaria, l’eurodeputata Silvia Sardone. Ma Salvini taglia corto: «C’è la Lega e ci sarà la Lega. A Bergamo, in Lombardia e in Italia governa e lavora la Lega. Di altro non mi occupo. Sui giornali si leggono tante cose...».
L'alleato della Lega. Chi sono i nazisti di Afd, gli amici tedeschi di Salvini. Afd, il partito alleato della Lega in Europa, ha 302 funzionari, di cui 88 a livello federale, che conducono attività concrete dirette a costruire una organizzazione neonazista in Germania. Sarà mica un problema? Luca Casarini su L'Unità il 6 Luglio 2023
Salvini dunque, è quello che vuole allearsi con i nazi tedeschi di Afd. Si è discusso molto, e si discuterà ancora, sulla natura e la radice identitaria e culturale degli eredi di Almirante che oggi siedono con la Lega al governo e sugli scranni più alti del potere politico. Ma se dovessimo cercare le radici identitarie e culturali di Salvini, dove dovremmo andare a pescare? A Il pranzo è servito con Mengacci, quando faceva il giovane concorrente “di professione nullafacente”? O al consiglio comunale di Milano, da dove conduceva l’onorevole battaglia per avere tram differenziati tra neri e bianchi?
Era riuscito ad entrare a Palazzo Marino sulla scia del crescente successo della Lega Nord, creatura nata dall’istinto di quell’Umberto Bossi che poi lui accoltellò alla schiena, come Bruto. Erano gli anni quelli nei quali la spinta secessionista della Lega, agita su solide basi teoriche fornite dal troppo spesso dimenticato professor Miglio, forgiava il dna di un partito che più di altri trovava la sua ragion d’essere nel rifiuto della globalizzazione post muro di Berlino, di quel ceto medio di piccoli imprenditori padani che ne sarebbe stato travolto. In quell’ottica, di creazione di uno Stato del Nord, contro lo Stato italiano, la Lega di Bossi aveva creato il proprio “governo” e il proprio parlamento, per sottolineare il dualismo di potere e se necessario “la guerra” contro “Roma ladrona”.
Salvini, sempre nullafacente in cerca di successo, si distingueva creando il proprio schieramento interno: i “comunisti padani”, lista con la quale nel 1997 prese cinque seggi su 210 del Parlamento leghista. Dalle rivendicazioni di stampo klu klux klan contro i migranti, ai comunisti padani, come si potrebbe dunque trovarle le sue radici? Forse è utile cercarle altrove, o meglio, non concentrarsi troppo sui contesti: Salvini ha da sempre un solo obiettivo, che era esattamente quello dei tempi de Il pranzo è servito: avere successo, vincere, avere potere.
Mentre per uno come La Russa, essere oggi Presidente del Senato equivale al coronamento di un sogno vero, quello appartenuto a quella metà di paese che è rimasta fascista anche dopo la sconfitta, e non lo ha mai nascosto, da Almirante in giù, Salvini invece insegue il potere.
Sono radici culturali anche queste, e comuni ai molti nati e cresciuti nella “Milano da bere”, tra San Babila e le ferrovie nord che ti riportavano a casa, nella banlieu delle villette a schiera e delle fabbrichette, stretto nel tuo Moncler da paninaro, dopo che avevi fatto finta tutto il giorno di non essere lo sfigato che eri.
Questo è il tratto identitario che spiega tutte le sue mosse, dal passare dalla lotta contro lo “stato italiano centralista ed oppressore” all’essere oggi l’esponente più sovranista della destra italiana. Da quel “con il tricolore mi ci pulisco il culo”, pronunciato a Venezia durante un comizio, al “difendo i confini italiani dall’invasione” del processo Open Arms a Palermo. Anche il “ponte sullo stretto” si spiega così: ogni Faraone vuole la sua piramide, ad imperitura ed eterna memoria. Il potere, questo sconosciuto, quando diventa un’ossessione identitaria, fa imboccare ogni strada utile a raggiungerlo. Non ci sono remore o scrupoli che tengano.
Quindi, perché stupirsi della posizione politica di Salvini in vista delle prossime europee, sull’alleanza con Le Pen ma soprattutto con i neonazisti di Afd tedeschi? Non vorrete mica che sia un problema se in Germania sta crescendo una organizzazione politica al cui interno, secondo i servizi di intelligence tedeschi, ci sono migliaia di aderenti che pensano che Hitler “fu il più grande ed eroico condottiero che la Germania abbia mai avuto”. I nuovi amici nazi tedeschi di Salvini, stanno andando alla grande. Le ultime proiezioni ormai li danno sopra i socialdemocratici di Olaf Scholz e appena un po’ sotto ai conservatori della Cdu-Csu.
Il servizio segreto federale tedesco e l’Ufficio per la protezione della Costituzione ( BfV) hanno da tempo drizzato le antenne su quello che dieci anni fa, quando fu fondato, sembrava dover rimanere un partitino della galassia di estrema destra, incapace di impensierire il sistema democratico. Ma i collegamenti tra Afd e reti neonaziste militanti operanti in Germania, sono oggi raccolte in un dossier molto accurato del BfV: 302 funzionari del partito, di cui 88 a livello federale, conducono attività concrete di “riorganizzazione” di una minaccia neonazista in Germania. In particolare ciò che viene rilevato attraverso il monitoraggio di dichiarazioni pubbliche, scritti e attività segrete, è un “atteggiamento diametralmente opposto a quello del rispetto della dignità umana dei migranti” in grado anche – continua il rapporto – “di minacciare seriamente la coesione sociale e la pacifica convivenza in Germania”.
Al centro del discorso politico “anti europeo, anti ecologico e anti immigrati” del partito c’è inoltre la condanna degli avversari come “nemici del popolo” e “distruttori della Germania”, mentre la “retorica xenfoba, intollerante e razzista, offende, deride ed emargina in particolare le persone di religione musulmana”. Eppure Afd ha anche una leader donna, Alice Weidel, lesbica, con due figli e una compagna dello Sri Lanka. Laureata in economia, ha lavorato con colossi finanziari come Goldman Sachs e Allianz. Ma ha sempre ribadito la necessità di sigillare le frontiere tedesche contro l’arrivo di migranti e richiedenti asilo, definendo la Mekel e i politici “maiali che vogliono far inondare la Germania di arabi e zingari”.
I legami tra Afd e formazioni militanti e spesso armate dell’estrema destra, come “Pegida” o il “Movimento Identitario”, sono ben documentati nel rapporto. Il leader dell’Afd in Turingia, fresco di successo elettorale, Bjiorn Hocke, è un noto sostenitore della campagna razzista “Ein Prozen”. Il leader storico dell’Afd, Alexander Gauland, ha pubblicamente definito i crimini del nazismo “sterco di uccello” a fronte di “mille anni di storia di trionfi tedeschi”. E si è detto “enormemente orgoglioso dei soldati della Wehrmacht hitleriana”.
Salvini risponderebbe con il classico “non mi interessano nazisti e comunisti, sono relitti della storia, del passato. Importante è cosa vogliamo fare oggi, la condivisione del programma”. La sua è ovvio, è la formula del “senza radici”, coerente con chi ha come unico faro la pratica dell’obiettivo, vincere per vincere. Ma su questo già le convergenze di vedute con i nazi dell’Afd si notano subito. Hocke, scagliandosi contro la “Giornata della Memoria” ebbe a dire: ”Queste stupide politiche che pretendono di fare i conti con il passato ci penalizzano. Siamo l’unico popolo al mondo che ha messo un monumento di infamia al centro della propria capitale”. Si riferiva al Memoriale della Shoah, a Berlino. Luca Casarini 6 Luglio 2023
Il partito sdoganato. Chi sono e da dove vengono gli amici nazi di Salvini. Lo sdoganamento di Afd in Germania è potuto avvenire a partire dalla scelta di allearsi con loro in elezioni locali, da parte della Cdu, i liberal conservatori rimasti orfani di Angela Merkel. Luca Casarini su L'Unità l'8 Luglio 2023
Potremmo definire questa epoca come quella nella quale sono caduti definitivamente i tabù del fascismo e del nazismo, eretti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ma questo crollo non è funzionale alla riedizione di un nazifascismo storico, ma piuttosto al superamento dei limiti che si erano dati le democrazie liberali e rappresentative, nella possibilità di comprimere i diritti umani e di ridefinire in senso restrittivo i sistemi di funzionamento della presa di decisione pubblica.
Gli amici di Salvini, i neonazisti dell’Alternative fur Deutschland, sono uno di quei partiti nati dieci anni fa in Germania in chiave anti europea. Una formazione che tentava di fomentare il ceto medio dell’Ovest contro Angela Merkel e la sua linea proeuropa , nonostante l’europeismo tedesco della cancelliera, sia sempre stato molto conveniente per la Germania, con un continente a due velocità, nel quale esercitare un’egemonia economica e politica, a scapito dei paesi del sud.
Senza i soldi europei, la riunificazione dell’Est con l’Ovest, non sarebbe stato un grande affare, e senza l’egemonia di mercato garantita da un mercato continentale con il governo basato a Berlino, gli stipendi degli operai tedeschi non sarebbero stati il doppio di quelli italiani e triplo di quelli greci. L’Euroscetticismo dell’Afd, quando era solo un partitino della Germania Ovest, non produsse grandi successi elettorali. Quegli slogan sull’Europa “delle banche e dei tecnocrati” che “costringe la Germania a pagare i debiti dei nullafacenti italiani o greci”, a fronte di un Pil galoppante, di salari alti e di welfare decente, non riuscivano a far incassare voti. Le simpatie nazi, a Ovest, non passavano facilmente.
L’imprinting anti europeo, è sempre stato quello della destra radicale: i complotti pluto giudaico massonici, gli ebrei come Soros , i tecnocrati della Banca Centrale Europea. E di conseguenza sovranismo, nazionalismo, chiusura verso l’esterno. Anche i movimenti di critica radicale di sinistra, nati in Germania contro la gestione neoliberista dell’Europa a trazione francotedesca, hanno fatto sempre i conti con una prospettiva che alla fine, rischiava di fargli covare l’uovo di serpente: nazionalismo, sovranismo, statalismo. Se l’Italia come dice Bolaffi, “è sempre il laboratorio d’Europa, ma nell’anticipare il peggio”, di sicuro in Germania l’ascesa vertiginosa dell’Afd e della destra estrema, se messa in relazione con il crollo dei comunisti della Linke e con una unione tra Est e Ovest che non ha ancora colmato i divari, offre ampi spunti di riflessione. Afd nasce a Ovest, ma diventa importante quando si trasforma in partito della protesta dell’Est.
Questa trasmigrazione geografico – politica, segna la vera svolta elettorale. Una Germania Est quindi che, un po’ come accade per le banlieue in Francia, vive ancora con la sensazione di essere stata annessa più che unificata le condizioni di vita e di lavoro sono molto diverse ancora tra le due Germanie, e il divario economico si traduce in differenze sociali significative. Che creano ovviamente scontento, ma anche una diversa percezione delle cose. Una fra tutte, l’immigrazione. Secondo uno studio dell’Ifo Institute, tra i cittadini della parte orientale, è quasi al cinquanta per cento il sentimento negativo nei confronti delle minoranze etniche, in particolare musulmane. Il 12 per cento odia gli ebrei. Oggi i segnali inequivocabili di una crisi economica ed energetica alla quale i tedeschi non erano abituati, se a Ovest si fanno sentire, a Est diventano assordanti. E la crisi, come si sa, è storicamente il terreno migliore per alimentare la visione individualistica e per creare il “nemico esterno”, come scriveva Goebbels.
La crisi è anche politica e sistemica, visti i pessimi risultati ottenuti dal governo della coalizione “semaforo”,Ampelkoalition”, formata da socialdemocratici, liberaldemocratici e verdi. Lo “sdoganamento” dei nazi di Afd è potuto avvenire anche a partire dalla scelta di allearsi con loro in elezioni locali, da parte della Cdu, partito liberal conservatore rimasto orfano da Angela Merkel dopo sedici anni di indiscussa e vittoriosa leadership. Fu proprio lei a definire questa scelta compiuta dai potentati locali in Turingia “il più grave errore storico e politico che potessimo commettere”. Il “cordone sanitario” che i cosidetti centristi avevano promesso di erigere contro l’ultradestra, si è trasformato in cordone ombelicale.
Il sistema democratico costruito nel dopoguerra, aveva previsto sulla carta la possibilità di impedire che qualcuno, usando la democrazia, potesse prendere il potere abolendo la democrazia. Quella che Hannah Arendt vedeva come necessità dopo la tragedia hitleriana, cioè l’attivazione permanente degli anticorpi sociali di una “democrazia militante” esterna alle istituzioni, le costituzioni repubblicane del dopoguerra, e anche quella tedesca, lo hanno inserito come dispositivo: la possibilità di sciogliere d’imperio le formazioni politiche che attentano al funzionamento democratico.
Ma la storia non funziona così: questi partitini della protesta radicale di destra, quando diventano grandi e assaggiano il potere che il sistema gli offre, chiedendogli in cambio di rimettersi in carreggiata e di garantire la proprietà privata e il funzionamento del mercato neoliberista, tendono a uniformarsi. Anche per l’Afd la scommessa “del sistema” è questa. Mentre la formazione di estrema destra cresceva, l’anno scorso è scattata su tutto il territorio tedesco una grande operazione della polizia criminale ( Bka) contro i nazisti: un centinaio di perquisizioni in undici diversi land, arrestati e indagati a decine, di quella che si definiva “Divisione Atomwaffen”, gemellata con l’omonimo network di nazi statunitensi, accusati di almeno cinque omicidi. L’epicentro della rete era in Turingia, proprio dove adesso l’Afd ha vinto le elezioni.
“La sola preoccupazione per questo fenomeno non è più sufficiente”, ebbe a dichiarare il Presidente del Bundestag Shauble riferendosi agli atti criminali a sfondo razziale in pericoloso aumento in tutto il paese. “Per troppo tempo abbiamo sottovalutato il pericolo dell’estremismo di destra in quanto tale. E la politica deve fare autocritica”, concludeva. Gli interventi punitivi avvengono però a cose fatte. Se il discorso pubblico, autorizzato e amplificato, verte oggi sulla creazione di un nemico esterno, i migranti, dal quale difendersi armi in pugno, o più semplicemente discriminandoli e umiliandoli se sono presenti da più generazioni, o facendoli morire in mare o internare in lager se chiedono asilo in Europa, come si può pensare che ciò non crei dei mostri a livello sociale?
La caduta del Tabù di fascismo e nazismo in Europa non è causata dalle fortune elettorali dei partiti di estrema destra, ma dal superamento dei limiti che hanno compiuto quelli democratici. Il successo di Afd è figlio di quella ideologia democratica che pensava appunto, al contrario di Hannah Arendt, che l’importante fosse determinare, e normare, ciò che era “nel potere di decidere del popolo”.
Ma come stiamo vedendo, in Germania come in Italia, questa “normazione” di “ciò che si può fare e ciò che non si può fare con la democrazia”, cambia radicalmente se il limite non è più quello dei diritti umani. Ad esempio, se si può far naufragare intenzionalmente una barca con 750 persone a bordo, o si può legalmente deportare una famiglia di migranti in un lager fuori dai confini, questo significa che la democrazia è quel sistema che lo può permettere.
Le moderne forme di riedizione del fascismo e del nazismo dunque, saranno l’espressione più diretta della gestione di questo tipo di democrazia, dai limiti cambiati. Qualcuno la chiama post democrazia, come d’altronde chiama post fascisti quelli che parlano di sostituzione etnica. Non cambia molto. Di certo, quando cadono i Tabù, nulla è come prima. Luca Casarini 8 Luglio 2023